Queste istituzioni 77 78

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Anno XVII - n. 77-78 - Trimestrale (aprile-luglio) - Sped. in abb. postale gr. IV/70

queste ìstìtuzionì Europa '93: programma di lavoro per un nuovo « Stato amministrativo »

Economia, istituzioni: un terreno per nuove esplorazioni R.C.O. Matthews, Federico Rampini, Enrica Del Casale, Loretia Napoleoni, Federico Butera, Beppe Croce, Chiara Terracciano

Chiese, spirito religioso, istituzioni civili Jean Claude Eslin, Sergio Lariccia, Sergio Ristuccia, Piero Stefani, Marcello Vigli, Francesco Sidoti, Guido Verucci, Stefano Levi-Della Torre

L'Europa delle televisioni Giandonato Caggiano, Nino Cascino

n. 77-78 1989


queste istduziuoi Anno XVII, n. 77-78 (aprile-luglio 1989).

Direttore: SERGIO RISTUCCIA. Vice Direttore: VINCENZO SPAZIANTE Redazione: GIOVANNI CEL5I, DANIELA FELISINI, MARIA RITA FERRAUTO, ELISA LAMANDA, MARCO LEDDA, MARIA TERESA LENER, CRISTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE. Responsabile organizzazione e relaziofli:

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Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI. Quésto numero è stato chiuso per la tipografia il 10 luglio 1989. Stampa: Arti Grafiche Pedanesi . Roma - TeL 22.09.71. Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana.


n. 77-78 1989

Indice

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Europa '93: programma di lavoro per un nuovo ÂŤ Stato amministrativo)>

23

Economia, istituzioni: un terreno per nuove esplorazioni

25

Sull 'economia delle istituzioni R.C.O. Matihews

42

Privatizzare in Francia Federico Ram pini

59

Privatizzare in Italia Enrica Del Casale

72

La nuova City Loretta Napoleoni

L'impresa rete 82

Caratteristiche organizzative e progettuali di una nuova imprenditorialitĂ Federico Butera

88

Impresa rete: una rassegna di esperienze italiane Beppe Croce e Chiara Terracciano

99

Chiese, spirito religioso, istituzioni civili Ripercorrendo l'itinerario di Tocquevi.11e

101

Tre varianti di separazione politica/religione Jean Claude Eslin


113

Le formule del separaiismo in Italia Sergio Lariccia

La Chiesa nella societĂ contemporanea 121

Un dibattito in redazione

Interventi di Sergio Ristuccia, Sergio Lariccia, Piero Stefani, Marcello Vigli, Francesco Sidoti, Guido Verucci

148

Israele: la forza e l'insicurezza Stefano Levi-Della Torre

159

L'Europa delle televisioni

161

Un ordine giuridico europeo per le trasmissioni televisive Giandonato Caggiano

La televisione senza frontiere 175

Aspetti politici del negoziato

Nino Cascino


Europa '93: programma di lavoro per un nuovo « Stato amministrativo»

Nelle conclusioni dell'editoriale dell'ultimo numero, il 75-76, abbiamo colle gaio il problema della riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche in Italia alla prospettiva di un'ulteriore fase di integrazione economica europea negli anni Novanta. Lo abbiamo fatto con la preoccupazione di non ca dere in una moda (perché, lo sanno bene i lettori, amiamo assai poco le mode). Il fatto è che, secondo noi, il problema è serio e vale affrontarlo bene: con continuità, con spirito critico, con capacità di iniziativa. La disinformazione è molta, i riferimenti immaginari numerosi. Per questo torniamo subito in argomento. La rivista e il Gruppo di Studio Società e Istitu zioni intendono dedicare la dovuta attenzione all'insieme di problemi che possono essere identificati intorno al tema Europa e Amministrazione. Mai comunque trascurando i dettagli. Questo editoriale fè da introduzione alle più specifiche iniziative culturali che stiamo promuovendo in questo campo. L'editoriale, che non è un editoriale ma un insieme di appunti e spunti su aspetti vari del contesto Eu• ropa, supera ampiamente le dimensioni consuete. Promettiamo, dopo questa occasione, di rientrare nelle regole.

Si

FA IL MERCATO COMUNE

« Il mercato Interno Europeo è una rivoluzione fondata sulle procedure ». L'affermazione è di Fabio Cavazza Rossi; la troviamo nella sua « guida al 1992 » Impariamo l'Europa (Fendac Servizi, Milano 1989), un'analisi del libro bianco del 1985 e delle azioni comunitarie in corso che è ric ca di umori intellettuali e di intuizioni politiche. E' sempre rischioso forzare i termini dell'analisi istituzionale. Perciò, parlare di rivoluzione per mezzo delle procedure può apparire enfatico. Anzi, diciamo pure che è enfatico. Eppure, sarebbe difficile negare almeno una cosa: che la macchina della realizzazione del mercato interno è in movimento secondo una tabella di marcia in buona parte rispettata. Con .ogni possibile riserva la « rivoluzione » va avanti: attraverso procedure manifeste e discusse alla luce del sole », come nota Cavazza. Tabella di marcia in buona parte rispettata, abbiamo detto. A dire la 3


verità, in questa primavera 1989 ci sono segni e rumori non del tutto positivi. Il quarto Rapporto sullo stato di avanzamento dei lavori per la realizzazione del mercato interno, appena pubblicato dal Commissario Bange. mann, segnala che al 31 maggio 1989 risultano approvate 121 direttive sul totale delle 279 previste per dare avvio al mercato interno. Tuttavia delle 68 direttive che già avrebbero dovuto essere recepite negli ordinamenti dei dodici paesi membri della CEE soltanto due sono entrate in vigore. Bangemann è arrivato a parlare di perdita di credibilità per il 1992 proprio in ragione di questo ritardo di governi e parlamenti nazionali. A fronte di tale lentezza il mondo delle imprese continua a credere nel tra. guardo del mercato interno, tanto da cercare di anticipare, in molti casi, i tempi per realizzare il salto nella dimensione europea. Nell'operazione « mercato interno » viene colta non solo una grande occasione di sviluppo ma il riconoscimento che l'Europa si può costruire sulla primazia della logica del mercato. Quasi che l'Europa si stia ritrovando nella filosofia del capitalismo. Ha notato Eugenio Scali ari (« La Repubblica » 20 giu gno 1989), che la business community - convinta che l'Europa dei capitalisti e dei mercanti fosse « finalmente svincolata dagli impacci e dalle re gole della politica » e che gli interessi forti fossero « lanciati alla con quista dei nuovi spazi e delle nuove occasioni di profitto » - era « granitica. mente certa » che tutto si muovesse in questo senso (e che quindi anche il nuovo Parlamento europeo, come poi non è avvenuto, avrebbe rispecchiato questo modo di sentire). Quando si vanno a controllare le valutazioni delle imprese in termini più specifici di convenienza, l'opzione per il mercato interno appare un atto di ottimismo che trae alimento, appunto, da questo tipo di convinzioni. La percezione da parte delle imprese dei possibili efletti del mercato interno è stato oggetto di una ricerca della Commissione della CEE i cui risu!tati sono stati resi noti nell'88 (The Completion of the Internal Market. A Survey of European Industry's Perception of the Likely Effects; Research on the « Cost of Non-Europe ». Basic findings, vol. 3, Bruxelles 1988).

Comparando vantaggi e rischi la maggioranza delle imprese intervistale propende per i vantaggi immaginando un impatto favorevole sui costi unitari e sulle vendite. (Il massimo di ottimismo è espresso dal campione delle imprese italiane: una moda o la conseguenza del fatto che queste, bene o male, hanno impersonato in questi anni nel proprio con testo nazionale un ruolo di cambiamento sociale più spiccato che in altri paesi? E' un punto che occorrerà ben valutare in sede di valutazioni storiche dell'ultimo decen-. nio). Naturalmente, « man mano che ci si avvicina a quella scadenza e si conoscono in maniera più approfondita le problematiche connesse all'abolizione di specifici ostacoli alla circolazione di persone, capitali, merci e servizi, l'atteggiamento prevalentemente ottimistico degli intervistati si riduce 4


di intensità » anche nel mondo delle imprese; così osserva l'IFAP (Istitu to di Ricerche e Formazione di Direzione Aziendale) nel suo mensile « Kybernetes » (marzo 1989). Fra i segni che la marcia verso il completamento del mercato interno è, tutto sommato, sicura occorre annoverare la percezione che se ne ha negli Stati Uniti: inizialmente solo preoccupata e tale da generare un atteggiamento difensivo contro il paventato emergere di una Fortress Europe protetta da alti muri protezionistici, poi mutato in un atteggiamento di forte interesse. « Europe 1992 provides tremendous opportuni.ties» pare abbia dichiarato l'ex-candidato alla vice-presidenza, Sen. Bentsen di ritorno da un giro nelle capitali europee e « The National Journal » nel suo numero monografico dedicato al tema Living with the New Europe (13 maggio 1989) ci racconta che la prospettiva di un singolo mercato di 320 milioni di persone fa letteralmente « salivare » molti businessmen americani. Anche se contemporaneamente c'è chi trema pensando alla competizione a scala mondiale di alcune imprese europee rafforzate dal fatto di poter contare su una così ampia base di mercato domestico. 3. Nell'attuale ripresa del processo di completamento del mercato interno ci sono molte cose che richiamano il primo periodo di attuazione del Trattato di Roma. Innanzitutto, le aspettative espresse attraverso i mass media. Sia pure in una temperie assai diversa, se non altro perché carat terizzata dalla guerra fredda e dunque da una lettura della CEE in chiave di ideologie politiche, si fece un gran parlare di MEC: per esempio, quanti furono, anche allora, i convegni su temi che finivano con l'espressione « nella prospettiva del mercato comune »? In verità, anche se il Trattato era fin dall'inizio fondato su un progetto fortemente gradualistico, l'immaginario collettivo, condito da molte sempli/icazioni, pensava già a portata di mano quella completa integrazione dei mercati europei che solo dopo trent'anni ridiventa meta ravvicinata. In secondo luogo, il dinamismo delle stesse istituzioni comunitarie che già allora, /no a quando non sopraggiunse la grande crisi dell'Europa a Sei nel 1965 che ebbe a protagonista il Generale De Gaulle, fece ottenere buoni risultati (la tariffa doganale comunitaria entrò in vigore prima del previsto). Riandare a quei tempi può essere utile per valutare con realismo il processo in corso e comunque non è motivo di scetticismo. 5. Il ruolo delle procedure significa partire dal presupposto che il completamento del mercato interno è un processo tanto più efficace quanto più scadenzato, coinvolgente, con obiettivi ben precisati anche se sono poco affascinanti sul piano delle visioni generali e valoriali. Si potrebbe dire che la Comunità nel disegnare il processo del completamento del mercato in5


temo, ha fatto buon uso di « cultura dell'implementazione », se vogliamo riprendere un neologismo non proprio bello. Quella cultura secondo cui non basta firmare un trattato o emanare una legge, occorre stabilire un ragionato iter attuativo e prefigurarne gli effetti. Quando, nel dicembre 1984, Jacques Delors, neo-presidente della Commissione, espose per la prima volta ai suoi colleghi l'idea di un programma, di un calendario e di un metodo per superare gli ostacoli verso il mercato comune (è il weekend a Royaumont raccontato da Pier Virgilio Dastoli nell'introduzione a 1992: Europa senza frontiere?, Il Mulino, Bologna 1989), egli pensava ad una provocazione per mettere tutti con le spalle al muro ma insieme dava il là ad un esempio di buona e concreta progettazione di politiche pubbliche. Siamo in realtà ad un nuovo capitolo del « metodo comunitario » fonda. to sulla via funzionalista all'Europa. Nel saggio sui venticinque anni di Comunità Economica Europea pubblicato su questa rivista (« Queste Istituzioni », n. 55, 2° semestre 1982) Riccardo Perissich ha ben colto i connotati di questa vicenda che qualche anno fa, appunto al passaggio dei 25 anni, si trovava sostanzialmente ferma in un sistema bloccato, pur mantenendo in riserva le sue potenzialità. L'idea dei funzionalisti alla Jean Monnet che occorra innanzitutto creare solidarietà di fatto con trasferimenti solo parziali di sovranità in settori limitati ma significativi ritrova nell'attuale cammino verso il mercato interno una nuova occasione per realizzarsi. Può essere l'« ora del grande balzo », come ha detto Emile Noèl, per trent'anni segretario generale della Commissione. 6. Le procedure sono un fatto squisitamente istituzionale. Le procedure hanno bisogno di un sistema di riferimento e di soggetti istituzionali che ad esse sovraintendano. Nella Comunità Economica Europea le procedure messe in movimento sembrano aver rilanciato il ruolo della Commissione. Il metodo inaugurato dal Libro Bianco e dall'Atto Unico, in base al quale la Commissione è autorizzata, per esempio, ad aprire delle consultazioni bilaterali con gli Stati membri per tentare di comporre sul nascere le controversie rafforza la sua legittimazione come organo politico della Comunità. fl che, osserva Cavazza, fa riconquistare alla Commissione - ed è questo il gran merito di Jacques Delors - una « posizione di leadership che, ormai, potrebbe esser perduta solo a causa di eventi straordinari e imprevedibili ». Di conseguenza, « i governi della Comunità si vedranno privati di alcuni dei basilari poteri sui quali hanno da sempre contato per dirigere i loro paesi ». Rivive, in qualche modo, l'autorità della Commissione presieduta da Hallstein. In termini più strettamente ordinamentali si può porre il problema dell'in. fluenza che sulla stessa « forma di governo » avrà il processo di formazio,ie del mercato interno. Alberto Predieri ha parlato di « stato pref edera6


le » come effetto, del resto già in parte realizzato, di un processo di integrazione che è caratterizzato dalle limitazioni di sovranità per materie, dalla prevalenza della formazione comunitaria, dal trasferimento dell'indirizzo politico nelle materie comunitarie, nonché dai confini fluidi di queste materie (v. da ultimo la relazione al convegno Pubblica Amministrazione ed Europa '92, tenutasi a Roma nel febbraio '89). 7. Si la, allora, il mercato comune? Noi riprendiamo innanzitutto a usare l'espressione dal vecchio Trattato di Roma, data l'equivalenza - secondo gli esegeti dell'Atto Unico - fra « mercato comune » e « mercato interno ». Per riprendere il processo di completamento del mercato comune, che s'era interrotto a lungo anzi era arretrato - come la Commissione ha ricordato nelle premesse del Libro Bianco del 1985 a proposito degli effetti della recessione degli anni Settanta (« nel caso della recessione le barriere si sono moltiplicate, dato che i singoli Stati membri hanno cercato di proteggere quelli che ritenevano i loro interessi immediati, non solo nei confronti dei paesi terzi, ma anche verso gli altri Stati membri ») - l'Atto Unico e soprattutto il complesso delle procedure cui sovrin tende la Commissione hanno verificato la volontà e le hanno riattivate. Senza introdurre, in verità, molte novità normative e istituzionali. Anzi, facendo pagare la principale novità, cioè l'ampliamento dell'area delle decisioni a maggioranza, con molte ambiguità anche di carattere recessivo. I critici dell'Atto Unico hanno ragione: non solo questo è stato un « ridicolo topolino » in confronto all'Unione Europea del Progetto Spinelli approvato dal Parlamento Europeo, ma anche la fatidica data del 31 dicembre 1992 è stata scritta con beneficio d'inventario come dimostra una delle dichiarazioni adottate dalla conferenza intergovernativa del settembre 1985 a Lussemburgo che approvò l'Atto Unico. Dice la dichiarazione: « la conferenza desidera esprimere la ferma volontà politica di prendere anteriormente al 1° gennaio 1993 le decisioni neces sane per la realizzazione del mercato interno quale definito in detta disposizione e più particolarmente le decisioni neéessarie per l'attuazione del programma della Commissione quale risulta dal libro bianco relativo al mercato interno ». Tuttavia, aggiunge e conclude la dichiarazione, « la fissazione della data del 31 dicembre 1992 non determina effetti giuridici automatici ». Di fatto, questo è il punto da sottolineare, il processo è stato rimesso in moto. In questo senso l'Atto Unico è un ennesimo episodio, se si vuole, di un fenomeno abbastanza frequente: quello delle leggi che ridanno vita a leggi precedenti. Nel nostro caso aggiungendo - ed è la vera innovazione dell'Atto Unico - una strategia dell'attuazione. VI


Bastano le considerazioni /n qui svolte ad introdurre il discorso su Europa e Amministrazione? Non crediamo. La questione europea è sempre « qualcosa di piìi ». La stessa routine è coin volta in sviluppi politici più complessi che la condizionano fortemente. Per non cadere in strabismi conviene allora compiere un ulteriore percorso attraverso il contesto politico.

VECCHi E NUOVI DILEMMI DELL'INTEGRAZIONE ECONOMICA.

Innanzitutto, il dibattito politico. In esso riemergono continuamente le due anime contrapposte del confronto europeo: la federalista e l'intergovernativa. Sulle implicazioni istituzionali degli attuali sviluppi comunitari che per alcuni sono di grande rilievo sul piano strategico molti rimangono perplessi. A dire poco. Ad esempio, quanti ritengono che occorra « richiamare senza pietà lo scandaloso deficit democratico attuale della Comunità europea E' l'Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa a denunciare con un documento del 20 aprile scorso. « Le direttive e i regolamenti comunitari — prosegue I'AICCRE — vengono discussi e decisi nel chiuso — si direbbe nella clandestinità — del Consiglio dei Ministri comunitari. Vengono inoltre decisi per lo più setiorialmente, con uno scarso coordinamento logico tra loro e con ancora più scarse compensazioai intersettoriali. A stento i governi nazionali riescono a controllare — e spesso controllano a posteriori il "già deciso" — quel che avviene nel Consiglio dei Ministri comunitari: il coordinamento avviene di fatto ad opera del COREPER, cioè della rappresentanza a Bruxelles dei complessi burocratici nazionali (...). In questo processo di integrazione piuttosto nazionalcorporativo sono tagliati fuori, e senza scampo, i Parlamenti nazionali che, del resto, pressati da altri problemi, non potrebbero in nessun caso inseguire il negoziato europeo: il loro controllo potrebbe ristabilirsi solo se l'Europa si fermasse . Dunque occorre riprendere — viene suggerito — delle riflessioni più in grande sul ruolo delle istituzioni comunitarie nel loro complesso ed in particolare su quello del Parlamento Europeo. In questa chiave c'è chi ritiene, per esempio John Lambert del gruppo Agenor, che sia finita l'età di Monnei: ormai sarebbe diffusa la disponibilità a fare parte di un'entità politica europea. Dalla parte degli intergovernativi il fatto da rilevare è la loro alleanza, in questo decennio, con i free marketers. In questo quadro c'è da soflermarsi su alcune questioni emerse nel dibattito politico più recente. Per esempio: il peso delle procedure significherà maggiore red tape, cioè più diffuso carico di regolamenti amministrativi e di presenza burocratica? La E.


deregulation, principio ispiratore degli anni Ottanta, si trasformerà in reregulation e di qual tipo? In particolare, il quesito è stato posto per il settore finanziario. Di tali preoccupazioni si faceva portavoce, nel febbraio 1989, l'e International Herald Tribune » (v. Giles Merritt, Europe: ReRegulation Isn't What 1992 Is About). Davanti a tali quesiti due sono le linee di risposta. Una è quella che il completamento del mercato interno farà saltare vincoli e limiti, un po' come - l'immagine è stata usata recentemente dall'e Economist » - il grande contorsionista-acrobata Harry Houdini faceva saltare catene, cinghie e manette tanti anni fa (Europe's Houdini market, editoriale del numero del 6 maggio). L'altra è invece fondata sulla convinzione che la Commissione Europea, una volta potenziato il suo ruolo politico diverrà più dirigista. Ritorna la lotta contro la Commissione come nucleo potenziale di Governo europeo che fu un tempo di De Gaulle ed ora è di Margarei Tatcher, ma con motivazione diversa: identificando questa volta la difesa delle prerogative nazionali con quella del libero scambio in regime di deregulation, ladddve negli anni Sessanta la difesa francese delle prerogative nazionali, era anche la difesa del proprio sistema dirigista. Chi crede nell'e effetto Houdini » fa soprattutto conto sul principio del l'Atto unico che il mercato interno si debba realizzare soprattutto attraverso il reciproco riconoscimento delle norme nazionali e, dunque, attraverso una forte competizione fra i diversi sistemi di regole. E ciò a scapito dell'altro, tradizionale principio del Trattato cioè quello della armonizzazione delle norme nazionali. Armonizzazione che sembra a molti un processo destinato naturalmente ad essere guidato dal centro. Fenomeno che ha convinto molti, comprese molte imprese americane di consulenza o law firms, ad impiantarsi a Bruxelles per svolgere attività di eurolobbying. Quindi chi teme un mercato interno troppo governato dalla « burocrazia » europea ritiene che le spinte all'armonizzazione, attraverso direttive di tipo regolamentare più che di principio, verranno attraverso la spinta della cultura dirigista o istintivamente « corporatista » dell'area forte dell'Europa continentale, cioè di Francia e di Germania. E c'è del resto, in sede comunilana, un già consolidato fascino delle istituzioni tedesche. Il diritto tedesco, lo ha osservato più volte Alberto Predieni, preme in continuazione e cresce la sua influenza. In verità, il dibattito non è tanto fra liberisti e dirigisti, quanto piuttosto vi si intreccia - lamenta l'e Economist » - quello fra nazionalisti e federalisti. Il che porta molti a prendere le distanze dalla Comunità piuttosto che a condurre al suo interno la battaglia per una reale rottura di vincoli e barriere e per una competizione fra le logiche dei diversi sistemi di regole che sono in gioco. E la City si è schierata con l'e Economist » contro Margaret Thatcher avversando la sua recente battaglia contro l'Europa


della Commissione, proprio quando quest'ultima - no/ano in molti - sta muovendosi su linee politiche di tipo « thatcheriano ». Qualcuno è arrivato a dire che forse dieci anni di potere hanno indebolito « la sua comprensione di ciò che è reale e rilevante » (William Pfaff su «. International Herald Tribune », 24 maggio). E' però da dubitare che il 15 giugno Thatcher abbia perso le elezioni europee per questo. 10. Il Rapporto sull'unione economica e monetaria nella Comunità europea, elaborato dal Comitato ad hoc presieduto da Jacques Delors per mandato del Consiglio Europeo, è sopraggiunto a stimolare il dibattito sulla politica istituzionale comunitaria. Di solida struttura intellettuale, come è stato notato da molti, il rapporto pone sul tavolo le questioni di maggior peso. Innanzitutto la premessa: « l'unione economica e monetaria ha implicazioni che vanno molto al di là del programma del mercato unico». E' un'a ffermazione che nel Rapporto viene sottolineata anche graficamente attraverso l'uso del corsivo. E poi, ricordato che « la Comunità continuerà ad essere composta di singole nazioni, con diverse caratteristiche economiche, sociali, culturali e politiche » sicché « l'esistenza e la salvaguardia di tale pluralità implica che gli Stati membri conservino un certo grado di autonomia nelle decisioni di natura economica », si afferma « la necessità di un trasferimento di poteri decisionali degli Stati membri alla Comunità nel suo insieme ». In particolare, appunto, nei settori della politica monetaria e della gestione macroeconomica. Quanto al problema di equilibrare i poteri comunitari e nazionali si ritie ne « essenziale attenersi al principio di sussidiarietà secondo il quale le funzioni di governo di livello più elevato dovrebbero essere il più limitate possibile e sussidiarie di quelle di livello più basso ». Di qui un'attribuzione di competenze alla Comunità « circoscritta specificamente a quei settori nei quali fosse necessaria un'attività decisionale collettiva ». Bisognerebbe approfondire con gruità e portata reale del principio, ricco di suggestioni ma certamente di non facile applicazione. Una cosa vale rilevare: il principio era stato lanciato negli anni recenti nei lavori preparatori del progetto di Trattato di Unione europea promosso da Altiero Spinelli nel Parlamento Europeo. Progetto che, approvato nel febbraio 1984, servì fra l'altro ad introdurre il criterio secondo il quale l'auspicata Unione europea dovrebbe intraprendere solo i compiti che possono essere realizzati più efficacemente in comune che non separatamente dai singoli stati. Per quanto la presentazione dei problemi e delle linee di soluzione sia fatta con prudenza, il Rapporto prospetta obiettivi e metodi che vanno al di là della « via funzionalista » all'Europa. C'è obiettivamente di che allarmare intergovernativi e nazionalisti. In questo senso non c'è da meravigliarsi che il Rapporto abbia suscitato le reazioni di Thatcher. 10


C'è di più. Solo il desiderio di non allinearsi sulle posizioni thatcheriane spiega che non siano emerse con evidenza prese di distanza da altre parti. C'è da credere, invece, che esse ci siano, e forti, anche su ben diverse sponde politiche. Il fatto è che una delle principali conseguenze tratte dal Rapporto sulla linea di un trasferimento alla Comunità di sovranità nazionali riguarda la politica di bilancio che è il cuore della distribuzione delle risorse finanziarie e politiche nelle democrazie contemporanee. Il ruolo della Comunità nella politica macroeconomica dovrebbe in/atti tradursi in un coordinamento delle politiche di bilancio nazionali, fermo rimanendo che agli Stati membri spetterebbero le « decisioni sulle grandi li nec delle politiche pubbliche - in settori quali la sicurezza interna ed esterna, la giustizia, la sicurezza sociale, l'istruzione - e quindi sul livello e sulla composizione della spesa pubblica, nonché molti provvedimenti relativi alle entrate dello Stato ». Ma non si tratta di un coordinamento di buona volontà: « in materia di bilancio - dice il Rapporto - sono necessarie norme vincolanti che in primo luogo impongano efJlcaci limiti massimi ai disavanzi di bilancio dei singoli Stati membri della Comunità, ancorché nella determinazione di detti limiti si potrebbe prendere in considerazione la situazione di ciascun paese membro; che, in secondo luogo, escludano l'accesso al credito diretto della banca centrale e ad altre forme di finanziamento monetario, pur consentendo le operazioni di mercato a perto su titoli di Stato; che, in terzo luogo, limitino il ricorso all'indebitamento esterno in moneta non comunitaria ». Si aggiunge poi che parrebbe necessario sviluppare tanto procedure quanto regole vincolanti in materia di politica di bilancio, che prevedano rispettivamente: - un tetto effettivo ai disavanzi di bilancio dei singoli Stati membri (oltreché le altre norme già ricordate); - la definizione dell'orientamento generale della politica di bilancio a medio termine, inclusi l'entità e il finanziamento del saldo di bilancio aggregato, comprendente sia i saldi nazionali sia il saldo comunitario. In questi suggerimenti non è chiaro quale organo della Comunità debba prendere queste decisioni e in qual misura, eventualmente, tali indicazioni normative debbano essere rece pile nello stesso Trattato. Si può facilmente concedere che un Comitato composto di Governatori delle banche centrali non poteva entrare in merito. Si può ancora supporre che nella premessa contenuta fra le considerazioni generali, dove si afferma che « non sarebbe possibile seguire in maniera pura e semplice l'esempio degli Stati federali esistenti», non si esclude affatto che, sia pure con « una impostazione innovativa ed unica », si debba seguire il modello federale, dando così per implicito che un ruolo decisionale pieno debba spettare al Parlamento europeo. La questione è però fondamentale e non può essere lasciata sottintesa. Ha ben ragione Guido Carli a porre in argomento due do-


mande retoriche: « Che cosa dire dell'attribuzione alla Comunità del potere di imporre vincoli ai bilanci nazionai, quando titolare di questo potere sarebbe un organo della Comunità stessa e cioè il Consiglio dei ministri? Non sarebbe questo un espediente con il quale si trasferirebbe surrettiziamente all'Esecutivo una prerogativa che nelle democrazie parlamentari è propria del Parlamento? » (« La Repubblica », 17 maggio 1989). Risolvere la questione decisiva delle regole esterne della politica di bilancio, da tempo dibattuta nella prospettiva del cosiddetto costituzionalismo economico, attraverso una espropriazione dei parlamenti nazionali (certo, detentori in misura diversa del "potere della borsa": il più espropriato sarebbe forse quello italiano) e una espropriazione d'anticipo di quello europeo (a cui nessun potere si pensasse di attribuire in materia di politica di bilancio) è, crediamo, soluzione non attribuibile al Rapporto Delors. Ma ove il tema non venisse affrontato nella sua intera portata avrebbe paradossalmente ragione Margaret Thatcher quando afferma che certi sviluppi non possono essere accettati dal British Parliament. E non solo da questo. La provocazione del Rapporto va dunque raccolta portando il discorso oltre i confini che il Comitato non poteva superare in questa occasione. Il coordinamento delle politiche economiche e, dunque, di quelle di bilancio è un nodo fondamentale. Istituzionalmente, la tradizionale dialettica Governo-Parlamento a livello nazionale si amplia e si complica. Ne va disegnata l'architettura in modo da rinnovare, ma non cancellare, alcuni tratti fondamentali della democrazia parlamentare. 11. A questo punto, c'è da chiedersi se nel valutare i processi in corso sulla base della schematica e ripetitiva distinzione fra « nazionalisti » e « federalisti » non ci si perda in un déjà vu che limita la comprensione di importanti elementi del contesto. Ha forse ragione Barbara Spinelli (L'Europa delle periferie, su « La Stampa », 30 marzo) quando giudica con fasti. dio i termini di una disputa sull'Europa che diventa repertorio di frasi fatte e tic nervosi (quando per esempio, si parla della "doppia velocità": di chi corre e dice di voler correre e di chi invece frena e così via): « il fatto è che l'ipocrisia è generale, in questo gioco di carte truccate. La locomotiva franco-tedesca, se la guardi da vicino, nessuno sa dire bene dove vada, sempre che vada. E il freno britannico nessuno sa dire che cosa smorzi esattamente, quale ardore tenga immobilizzato ». L'unione politica degli europei si trasforma, in questo contesto, in un disegno che « somiglia alla Grande Azione Parallela che Musil descrive con sarcasmo nell' Uomo senza qualità » cioè in un disegno da salotto che, anche quando progettato febbrilmente, non impedisce lo svolgersi delle cose, magari anche in senso catastro fico. Ciò che si agita in Europa è la realtà periferica: per esempio, le aree /ron12


taliere pronte a cogliere i vantaggi del mercato interno con naturale spirito utilitaristico. Più in generale, le realtà locali, che si muovono con animo e riferimenti localistici, cercano non tanto l'auto-governo quanto un potere intermedio che sia anche potente gruppo di pressione presso le capitali e Bruxelles al tempo stesso. « Le periferie, in altre parole, non preparano necessariamente un'Europa potente, gradevole a vedersi. Le marche diconfine son use a commerciare, non obbediscono a interessi che oltrepassano le proprie individualità. Gareggiano con altre periferie, disimparano la solidarietà con i connazionali. Accettano faticosamente la libera circolazione dentro la Cee, ma tanto più chiuse si mostrano verso i popoli che vivono fuori dal magico cerchio. Di qui le xeno fobie che vanno addensandosi in Francia, Germania, Italia e che colpiscono indiscriminatamente arabi e islamici, immigrati d'Europa orientale e connazionali svantaggiati (italiani e francesi del Sud, inglesi del Nord). Qui sono i veri pericoli che corre l'Europa Occidentale prima e dopo il 1993. Qui i trabocchetti, tesi in maniera più o meno eloquente da governi e grandi partiti internazionali ». Secondo Barbara Spinelli, il pericolo « viene da un equivoco fondamentale, e originario: dall'idea che nell'Europa aflogheranno non solo gli Stati-nazione ma il bisogno stesso di Stato, di governo autorevole, di frontiere, di politica ». La conclusione è forte e mordente; conviene discuterne. Tre, dunque i tempi posti sul tappeto da B. Spinelli: quello dei localismi crescenti e agguerriti, quello dell'immigrazione in Europa, quello del bisogno di Stato. Riprenderemo quest'ultimo più avanti. Sul primo punto c'è solo da fare un'integrazione: che gli utilitarismi emergenti dei frontalieri in molti casi sono anche sacrosante preoccupazioni di salvaguardia di sé e dell'ambiente. Alexander Langer ricorda che « tira aria di forte diffidenza verso l'Europa del 1993 tra la gente delle vallate centrali alpine. Si moltiplicano strenuamente le iniziative popolari anti-traffico e autostrade ». Insomma, « se l'Europa pretende da noi di trasformarci in un budello per il traffico pesante fra nord e sud, beh allora ne facciamo volentieri a meno » (., Il Bimestrale » del Manifesto, giugno 1989). Che poi la questione europea contenga una crescente questione interraziale è già chiaro oggi e sarà di prorompente evidenza domani. Una crescente popolazione di colore, prima di immigrazione e poi radicata e stanziale, è nel destino prossimo dell'Europa anche quella mediterranea. E' l'e fletto di un cambiamento delle tendenze demo grafiche, tanto evidente in Italia dove, secondo l'istituto di Ricerche sulla Popolazione, nel 1987 il numero medio di figli per "donna fertile" è stato 1,30, il più basso del mondo, e nel 2008 sono previsti almeno due milioni di lavoratori stranieri, cioè il 7 per cento della forza lavoro. Nella storia d'Europa il fenomeno non è del tut13


lo nuovò, ma per la Comunità, cioè per un'Europa in via di integrazione, lo è. Anche perché la stessa integrazione ne accentuerà le dimensioni. In verità, un processo di integrazione economica delle dimensioni di quello europeo ha importanti effetti sociali. Non potrebbe non averli. Non sembra che questi vengano adeguatamente indagati e colti in anticipo, men tre converrebbe che in qualche modo il metodo di mettere per tempo le questioni nell'agenda politica è l'unico metodo per sopravvivere e crescere. Siamo a quel tipo di problemi che vogliono il supporto di un'idea generale. Per esempio, quale idea d'Europa? Non sembra che ci possa essere alternativa convincente all'Europa delle diversità. Federico Chabod, in un classico corso universitario sulla Storia dell'idea di Europa (Laterza, 1961) ri costruì con gran suggestione quest'idea di Europa che fu già, in epoca moderna, di Machiavelli e Montesquieu. Del resto, il rapporto al Parlamento Europeo nel 1986 sulla politica di informazione della Comunità (relatore Gianni Baget Bozzo) ha avvertito che il problema della difesa delle identità di paesi et etnie « è oggi il problema della difesa dell'identità europea in quanto tale » (il rapporto è pubblicato su « Il Progetto », novembre-dicembre 1988). Su terreni come quelli appena segnalati la via funzionalista all'Europa nel suo pragmatismo, pur se alla fine vincente e costruttivo, manca di una adeguata risposta. O meglio costringe le diversità a or,ganizzarsi in gruppi di interesse e in lobbies guidate da logiche utilitariste piuttosto ferree. Il problema è aperto e destinato ad aggravarsi.

RITORNA LA MITTELEUROPA?

Sono alcuni anni che tornano ad aleggiare interrogativi sul destino geo-politico dell'Europa. Ciò avviene almeno da quando la svolta della politica sovietica imposta da Gorbaciov è apparsa credibile e convincente. Ha detto Helmut Schmidt che per tutta l'Europa è finito, dopo quarant'anni, il dopoguerra. La crisi profonda del sistema dell'Est comunista e i suoi profondi cambiamenti vanno a modificare tutti i dati degli scenari possibili. Sarebbe sbagliato, ed ingenuo, immaginare che questi interrogativi non tocchino la CEE e non si ripercuotano sullo stesso processo in atto del com pletamento del mercato comune. La Comunità è nata prendendo atto della situazione geo-politica creata dal patto di Yalta. Anche se non è vero invece, come alle origini pensò buona parte della sinistra, che la Cee fosse uno strumento di guerra fredda. In questo senso è interessante quanto scrive Fabio Cavazza: che, in fondo, la ricostruzione dell'Europa, il suo riarmo e l'avvio della Comunità economica furono operazioni condotte non contro ma a difesa dell'imperialismo sialiniano. Le ricerche condotte « fan14


no ritenere a chi scrive - egli dice - che l'imperialismo staliniano giocò parte non piccola nel risparmiare all'Europa del secondo dopoguerra quelle condizioni politiche ed economiche che le furono inflitte a Versailles nel primo dopoguerra, e sulle quali John Maynard Keynes ebbe tanto a ridire. La politica staliniana ebbe peso nell'indurre gli Stati Uniti a soccorrere l'Europa secondo un'impostazione liberale e generosa che, allora e per ancora molti anni a venire, seppe tenere a freno i più gretti e meno lungimiranti interessi politici » (op. cit., p. 18). Oggi Gorbaciov, in un'Unione Sovietica che sembra la più lontana possi bile da Stalin, sarà ancora il federatore d'Europa ovvero il suggeritore di tentazioni di riequilibri anti-com unitari? In realtà, non è Gorbaciov che conta ma il modo di reagire della coscienza sociale e della politica della classe dirigente in Germania. E' di questa, della Germania, che da qualche tempo si parla ponendo interrogativi non privi di ansia. Ci si chiede se la Germania non stia ritornando alla sua aspìrazione di centro dell'Europa con ruolo egemonico verso l'Est e se tutto ciò non porti necessariamente a riorientare i suoi atteggiamenti verso la Comunità. Varie prove vengono raccolte a proposito di questo mutamento di atteggiamenti. Sul piano politico-culturale si cita la disputa storica (Historikerstreit) sulla revisione dei giudizi relativi al dramma tedesco ed europeo nel XX secolo che ha impegnato e sta impegnando in questi anni storici e filosofi della storia in Germania (Hillgruber, Nolte, Habermas, Mommsen ed altri su varie posizioni). In qualche modo starebbe rinascendo il vecchio sogno « grande-tedesco » che ben potrebbe coesistere, almeno per un periodo, accanto all'idea che mira ad una non ben definita « casa comune europea », come la chiama Gorbaciov, dall'Atlantico agli Urali. « Ma su questo cammino - nota Angelo Bolafli (v. su « Micro-Mega » n. 3, 1989) - c'è un ostacolo, un macigno grande quanto la cattiva coscienza europea con sopra incisa in modo indelebile una parola: Auschwitz. Ecco perché si è cercato di toglierlo di mezzo o almeno di rimuoverlo ricorrendo alla via dell'aggiramento, della relativizzazione, del pareggiamento dei conti ». Come, appunto, avrebbe tentato di fare il revisionismo storico che nel libro di Ernst Nolte, Nazionalismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945 (Sansoni 1989) ha trovato il più noto e discusso contributo. Sul piano politico si allegano altre prove: i successi della destra nazionalista (i Republikaner) che ha adottato come slogan « Prima la Germania, poi l'Europa » (chiedendo d'inserire in qualsiasi trattativa per l'Unione europea una clausola dissolvente che ribadisca quanto già dichiarato al momento della firma del Trattato di Roma che cioè la Repubblica federale si riserva di rivedere i trattati in caso di riunificazione delle due Germanie); la politica di Bonn favorevole allo smantellamento dei missili a cor-

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io raggio. A questi rilievi si è replicato che l'emergere di una nuova destra nazionalista non modifica il quadro complessivo, anzi lo conferma: « formazioni revansciste trovano spazio perché il regime di Bonn non è più vissuto come abbastanza revanscista ». Quanto ai missili a corto raggio, una volta diminuita la minaccia dall'Est, questi sono percepiti dalla gente « più come un'inutile minaccia contro se stessi che come deterreriza verso altri » (v. Guido Ambrosino su « Il Bimestrale » del Manifesto, già citato). Insomma, se la svolta di Gorbaciov non può non essere qualificata come epocale, gli effetti sulla Germania, non possono non essere profondi. La gente, accogliendo Gorbaciov di recente a Bonn, lo ha capito ed ha calorosamente partecipato all'evento. Può anche darsi che l'evoluzione delle co se porti lontano. Ma sembra convincente e realistica la posizione che gli stessi sovietici hanno tenuto a far sapere in questi giorni: che Mosca ritiene di non avere alcun vantaggio dalla divaricazione della Germania Occidentale dai suoi alleati e partners europei. E che quindi non voglia, anzi tema, la destabilizzazione dell'Europa. Gorbaciov non ha la possibilità di giocare il ruolo di federatore occulto, ma non sembra temere i passi avanti dell'unione europea. Per certi aspetti ne ha bisogno. 14. Se si prende in considerazione la « questione tedesca » come sulle pagine di « Queste Istituzioni» (1986, n. 70) è stata riassunta e illustrata da Michael Stiirmer non ci sono da immaginare come possibili e prossime delle importanti modifiche della Deutschlandpolitik, che è una politica impostata sul lungo periodo e su un paziente « lavoro di lima ». Certo, la dichiarazione congiunta firmata il 13 giugno da Gorbaciov e Kohl in nessun punto, ovviamente, fa riferimento a questa questione ma soprattutto in nulla vuole cambiare il contesto cui la « questione tedesca » è stata legata in questi decenni: cioè il radicamento della Repubblica Federale nel mondo occidentale. Tant'è che l'Europa della pace e della cooperazione cui la dichiarazione fa riferimento è quella in cui sia Stati che Canada troveranno posto. Una precisazione che sia pure in una dichiarazione « vaporosa » (come è stata definita), rimane tutto sommato singolare e altrimenti non comprensibile. Il fatto che già oggi la Repubblica Democratica tedesca possa considerarsi, come qualcuno dice, il 130 stato membro occulto della Cee, non foss'altro perché il commercio fra i due stati tedeschi è stato riconosciuto come com mercio interno tedesco, crea vincoli e convenienze forti (né è questo l'uni co elemento che fa rifluire la Deutschlandpolitik nell'ambito della Cee). In realtà, nessuno sembra pensare alla possibilità di un ruolo della Germania federale che non sia quello di un paese leader del mondo occidentale e europeo. Il rischio è solo quello, naturalmente non piccolo, di un minor 16


coinvolgimento comunitario, di uno stare a vedere, di un allargare il gioco « in proprio ». Laddove invece non si può non concordare con Henry Kissinger che « la Cee deve accelerare la sua unificazione politica e allo stesso tempo sviluppare una strategia per associare i paesi dell'Est interessati alle sue istituzioni economiche » tenendo per fermo che « le frontiere della nuova Europa dovrebbero andare dal confine polacco-sovietico all'Atlantico e non dagli Urali all'Atlantico » (v. su « La Stampa », 18 aprile 1989). E' anche in questa prospettiva che va considerato il progetto di unione monetaria di cui innanzi abbiamo parlato. La posizione del Ministro tedesco Genscher che un ulteriore consolidamento della Comunità Europea, con una moneta comune e un sistema istituzionalmente integrato di gestione, potrebbe essere un essenziale bilanciamento di una attiva politica di rapporti con l'Est fa pensare che non c'è un'ipotesi di Europa anno zero da coltivare, ma piuttosto quella di un convinto passaggio ai temi dell'unione europea. L'EUROPA COME AMMINISTRAZIONE

15. L'excursus compiuto attraverso il contesto politico conduce a confermarci nella realistica convinzione che il processo comunitario in atto è importante. E che, come dicevamo all'inizio, va preso sul serio. E che va presa sul serio l'ipotesi di un forte coinvolgimento dell'Amministrazione. Al riguardo tenteremo ora di spiegare alcune ragioni e possibili linee di sviluppo. Innanzitutto, alcune considerazioni di carattere generale. Quando si dice che c'è tuttora « bisogno di Stato » in Europa (B. Spinelli), in realtà si dice che la questione principe è l'amministrazione. Vogliamo dire che una volta finita, nell'epoca della bomba atomica, l'egemonia della politica come difesa di « interessi nazionali » fortemente identificati da far valere sul territorio nei confronti dei nemici vicini, sempre più la politica è rappresentazione e rappresentanza di interessi sociali, spesso trasversali a più paesi, e mediazione fra questi. Con uno scambio continuo, o meglio con una sovrapposizione e confusione fra la politica e l'amministrazione. Bisogna prenderne atto. Quando si parla, e magari ci si lamenta, dell'eccesso di pragmatismo è a questo fenomeno che in verità ci si riferisce. Del resto, è difficile immaginare un comune denominatore per i cittadini di tanti diversi paesi, spesso radicalmente tenuti distanti dal fatto linguistico, che non sia, per esempio, la domanda di buoni servizi pubblici. Che in gran parte sono, appunto, amministrazione. Per altro verso, è difficile catalogare gran parte dell'attività comunitaria entro la categoria dell'agire politico piuttosto che in quello dell'amministrazione e, in particolare, di un'amministrazione che opera per collegi o negoziati. Né, infine, la produzione normativa comuni/aria potrebbe essere immaginata altrimenti che come un apporto 17


cospicuo alla categoria, non più medita né scandalizzante, delle leggi provvedimento. Diciamo che la Comunità Europea è già, e più ancora si propone, come la sede di elaborazione di numerose politiche pubbliche nel senso che a questo termine è stato attribuito negli ultimi tempi: come azioni di intervento pubblico costruite sull'identificazione, anche per il tramite di negoziazioni in varie sedi, degli interessi sociali rilevanti, sulla definizione di obiettivi da conseguire, su verifiche dei risultati conseguili e degli e//etti indotti, il tutto in un contesto culturale ove « la politica » non è concetto totalizzante ma si articola, anche a rischio di contraddirsi, in politiche numerose, e in un contesto istituzionale ove le Amministrazioni vengono a riassumere particolare rilievo. Tutto ciò avviene però in un momento grave di crisi e di difficoltà dello stato amministrativo da tempo stressato per il crescere delle domande sociali, per la mancanza di una teoria dell'organizzazione pubblica capace di sostenerne la ristrutturazione fuori della dimostrata insufficienza degli ap. porti della ancora predominante ma snervata cultura giuridica. L'Amministrazione è in crisi d'identità di fronte alla prevalenza del potere politico della democrazia rappresentativa così come si è sviluppata nei decenni del dopoguerra ed è in crisi di funzionamento anche per il maggior peso della sindacalizzazione e delle relazioni sindacali nel pubblico impiego. Una linea possibile per affrontare questa situazione di crisi dello stato amministrativo rimane, a nostro parere, quella su cui abbiamo già ragionato nell'editoriale del n. 72173 (Strumenti moderni per uno Stato modesto) ri trovandoci d'accordo con le idee di Michel Crozier nel libro « Ètat modeste, Ètat moderne » del 1987, ora pubblicato in Italia dalle Edizioni dei Lavoro. Si tratta di compiere un lavoro in profondità che, dovendo realizzarsi in tempi non brevi, ha bisogno di una forte tenuta strategica. In ogni caso, si può bene immaginare che sull'Europa verrà a scaricarsi il problema dello stato amministrativo. Ed è in Europa che questo troverà ragioni di ulteriori crisi (e nelle aree già gravemente affaticate o prossime alla soglia dell'efficienza minima come l'italia, di sfascio completo) ovvero validi fattori di rifondazione. 16. Tutto quanto s'è detto fin qui vale in termini generali considerando le cose dalla parte, diciamo così, dell'Europa. Vediamo le cose dal lato del nostro paese. Il primo profilo è quello del confronto al quale si troveranno esposte tutte le amministrazioni direttamente interessate al « mercato interno », cioè alla soppressione delle barriere non tariffarie (fisiche, tecniche etc.) e alle azioni previste in campi specifici come gli appalti, i trasporti, i servizi e così via.

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Qui siamo in mezzo alla dinamica della « rivoluzione fondata sulle procedure ». Ricordiamone i tratti e la filosofia. Due sono gli « architravi cui è a,ldato il compito di sostenere la volta àl riparo della quale dodici mercati nazionali dovranno riunirsi in un Mercato Interno Europeo », come scrive Cavazza, e « si chiamano riconoscimento reciproco e nuova armonizzazione ( ... ). Insieme stanno o insieme cadono, e se dovessero cadere, cadrebbe il Mercato Interno Europeo ». Quel che interessa è soprattutto il riconoscimento reciproco quale si realizzerà secondo l'art. 100 B dell'Atto Unico. Vi si stabilisce che, nel corso del 1992, la Commissione Cee proceda ad un inventano delle disposizioni nazionali, tra quelle rientranti nella sfera dell'art. 100 A (per le quali vale la decisione a maggioranza quali/Icata), che non siano state oggetto di armonizzazione. A conclusione di tale procedura il Consiglio Europeo delibererà che talune disposizioni, in vigore in uno Stato membro, debbono essere riconosciute come equivalenti a quelle, pur diverse, applicate in un altro Stato membro. Il principio è quello che già si era andato affermando nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, ma l'applicazione attraverso una apposita procedura di ricognizione e di dichiarazione d'equivalenza apre un confronto diretto fra sistemi normativi e amministrativi che è di grande interesse. Non sono del tutto chiare, al momento, tutte le implicazioni della procedura. Trattandosi di una procedura attiva in materia di regolamenti e amministrazione c'è da ipotizzare la necessità di nuovi e più stretti e diretti collegamenti fra le amministrazioni dei vari paesi ai fini di un'azione di adeguamento delle normative e dei meccanismi amministrativi di applicazione. Questo processo di comparazione, confronto e competizione sarà poi comunque attivato dall'indagine affidata alla Commissione. C'è da chiedersi come sarà affrontato e risolto il problema della misura ammessa degli scarti dalla « media », diciamo così, delle normative nazionali e come si procederà nei casi di maggiori differenze: si potrà arrivare alla dichiarazione di equivalenza? Quale soluzione sarà data nei casi di mancanza o di grave insufficienza o lacunosità di certe normative? Nel non automatismo delle procedure è comunque il motivo di un ruolo attivo delle amministrazioni interessate. Per questo occorre esaminare come esse si stanno preparando all'appuntamento del riconoscimento reciproco. In ogni caso una cosa è da notare: che se l'integrazione avverrà con una estesa applicazione del riconoscimento reciproco sarà l'allocazione spontanea delle risorse economiche a penalizzare i sistemi meno efficienti. Un buon esercizio di simulazione sarebbe necessario a questo proposito. 17. Il secondo profilo riguarda le amministrazioni che appaltano opere pubbliche. 19


il Libro Bianco ha segnalato con particolare cura l'importanza degli appalti pubblici nella costruzione del mercato comune. Ricorda la Commissione: « Gli appalti pubblici rappresentano una notevole quota del PIL e sono pur sempre caratterizzati dalla tendenza delle autorità interessate a mantenere i loro acquisti e contratti all'interno del paese. Il prose,guimenlo di questa compartimentazzone di singoli mercati nazionali rappresenta una delle più evidenti barriere alla piena realizzazione di un vero mercato interno ». Di qui l'esigenza di una nuova normativa comunitaria e di una più forte presenza della Commissione per vigilare sulla sua applicazione. Consideriamo soltanto due prospettive, relativamente modeste, di innovazione: l'obbligo delle amministrazioni di comunicare agli esclusi le ragioni della mancata aggiudicazione e la tendenza, affermata in sede comunitaria, verso capitolati d'oneri orientati sui risultati piuttosto che su minute prescrizioni tecniche. E' chiaro che il profilo professionale delle Ammini. strazioni quale è presupposto da tali indicazioni direttive è un profilo alto: capacità di prendere oculate e tempestive scelte e di motivarle sul piano tecnico, capacità di seguire l'avanzamento dei lavori nella logica dei « risaltati » e quindi con maggior discrezionalità tecnica. A proposito di capitolati orientati sui risultati sembra aprirsi la prospettiva di un monstoraggio sulla attuazione degli appalti negli aspetti tecnici, economici e finanziari che è in grandissima parte ancora da progettare. Né il problema della riqualificazione delle amministrazioni in questa materia riguarda le amministrazioni centrali. Ancor più riguarda quelle locali e regionali. Occorre dunque un'opera di coordinamento, di aggiornamento, di creazione di nuove figure professionali che si prospetta molto impegnativa e che, fatte salve le autonomie, proceda univocamente nel senso di un ammodernamento omogeneo delle amministrazioni. 18. Per ultimo c'è il profilo degli effetti indotti del mercato comune su tutto il sistema amministrativo. Per intendere la possibile ampiezza di questi effetti limitiamoci a considerare due fatti: che, per quanto contrastato e rinviabile, c'è un problema specifico di armonizzazione fiscale e che è implicita nel criterio del riconoscimento reciproco una mutua fiducia fra le amministrazioni dei diversi paesi. Aggiungiamo che ogni soggetto operante nel mercato europeo si porterà dietro un pezzo del proprio ordinamento nazionale e che quindi ogni amministrazione dovrà ben conoscere gli ordinamenti degli altri paesi membri. Da una parte, dunque, nel mezzo del processo d'integrazione si viene a trovare un'amministrazione di peso strategico come è il fisco e, dall'altra, viene richiesto da questo processo uno strumento operativo e un com portamento costruiti con materiali normativi e con esperienze professionali di 20


altre amministrazioni. Non dovrebbe essere facile, anche per il più coriaceo com portamento burocratico, incistare in aree limitate le innovazioni comunitarie. C'è piuttosto da credere che le amministrazioni, sentendo il peso delle novità, le percepiscano come fattori di incertezza e dunque di ulteriore destabilizzazione. Di qui l'urgenza di identificare bene conseguenze ed effetti del mercato comune e di disegnare, anche all'interno, con la tecnica di Delors, un programma di lavoro, un calendario, un metodo per preparare le amministrazioni italiane al mercato interno europeo. Nei limiti modesti delle nostre possibilità cercheremo di stimolare tutti i principali soggetti e interlocutori dell'Amministrazione (per primi gli utenti dei suoi servizi) a prendere sul serio e ad imboccare con concretezza di azioni la strada della nuova Europa. 19. Un ultimo tema occorre toccare a questo proposito: amministrazione e sistema paese. Si dice molto che nel mercato internazionale la competizione non è solo fra imprese ma fra « sistemi » in cui imprese e altri soggetti nazionali, fra cui soprattutto le amministrazioni pubbliche, si integrano e si supportano reciprocamente. In termini di analisi economico-sociale può darsi che, a scala mondiale e nel quadro della cosidetta "globalizzazione" dell'economia, le cose stiano così. A prova viene da tempo citato il caso del Giappone che si muoverebbe, secondo meta/ora, come una sola società per azioiii: era divenuto frequente l'uso di parlare dei giapponesi sul mercato mondiale come Japan Inc. Non stiamo qui a discutere se ciò sia vero o no; l'ex premier Nakasone in un'intervista a « The Harvard Busi ness Review », (ripubblicata da « Espansione », luglio 1989), nega recisamente. Vogliamo dire che la prospettiva sistema-paese non appartiene alla logica di un buon mercato comune europeo, perché ne contraddice principi e presupposti. Giustamente osserva Fabio Cavazza che, come nel mercato nordamericano è il marchio d'impresa a far premio, mentre nessuno sa se un bene o un servizio siano "made in California" o "made in Minnesota", « è probabile che uguale tendenza finisca con l'imporsi anche nel mercato comunitario e che, quindi, sia il marchio d'impresa a compendiare in sé quell'im magine che, fino ad ora, Europa comunitaria inclusa, si spartiva fra il marchio stesso e il "Made in Italy" o il "Made in France" » (op. cit., 84). L'Amministrazione, anzi le amministrazioni pubbliche, sono chiamate a un profondo e sollecito rinnovamento di cui il paese e le energie creative che esso contiene potranno sicuramente giovarsi. Ma crediamo contro producente e negativo ogni ricorso al fascino sottile dei "richiami della foresta", inevitabilmente protezionistici e alla fine sollecitatori più di pigrizie che di cambiamento reale, spesso impliciti nei discorsi sul "sistema-paese". 21



questo istituzioni Economia, istituzioni: un terreno per nuove esplorazioni

Continuiamo con questo dossier il discorso sull'economia che abbiamo fat to in molti numeri precedenti. Ricordiamo nel ti. 69 Mappe del potere economico, sul n. 70 Un'era nuova di capitalismo?, sul n. 72173 I meccanismi del grande mercato.

Il dossier di questo numero è ampio e tocca varie tematiche. La prima è di teoria e ripropone l'attenzione agli studi su economia e istituzioni, filone non molto seguito in Italia. Il testo è di un maestro della materia. Altro importante tema ripreso in questo numero è l'esperienza delle privatizzazioni, con rassegne dell'evoluzione in Francia e in Italia, e quella per molti aspetti connessa della ristrutturazione istituzionale dei mercati finanziari (il caso inglese). In fine, riprendendo il tema del sistema delle imprese come fatto e problema organizzativo, già affrontato con il saggio Presente e futuro degli ccordi fra imprese (n. 70), proponiamo ai nostri lettori la questione dell'impresa-rete. Tema ricco di suggestioni sia considerando in prospettiva i cambiamenti indotti dal mercato interno europeo sia utilizzando gli spunti di tale sistema di assetti aziendali e inter-aziendali che possono essere trasferiti nel mondo delle organizzazioni pubbliche. Sono tutti contributi che cercano di cogliere le novità nel sistema delle imprese come un fattore portante della società contemporanea e come sistema che si è dimostrato capace di innovazione. Naturalmente ci rimangono estranee le mitizzazioni: quelle ideologiche di tipo liberista o quelle fatue delle pubblicazioni patinate che dei leaders della finanza o dell'industria amano fare delle stars un po' stucchevoli. A quest'ultimo proposito condividiamo piuttosto l'impressione di « The Economist » 05 aprile 1989) che sia nell'aria un backlash against business, cioè la possibilità di seri contraccolpi contro il mondo degli affari. Non solo per23


ché ogni moda è ciclica, ma anche per fatti e percezioni diffuse (sensibilità alla salvaguardia dell'ambiente da parte di una popolazione composta sempre più da anziani, disoccupazione, timori verso il gigantismo delle grandi imprese) e perché soprattutto il mercato è ancora assai poco al servizio dei consumatori. Gli anni 90 non con tinueranno a fare del big-businessman un eroe popolare. . The Economist » ci pare che veda bene.

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Sull'economia delle istituzioni di R.C.O. Matthews

I Il difetto principale degli economisti inglesi all'inizio del [diciottesimo] secolo era... quello di non rendersi conto di quanto siano soggette a cambiamento le consuetudini e le istituzioni del settore industriale ». Così si esprimeva Marshall nella prolusione inaugurale in occasione della sua nomina a professo- re di economia politica a Cambridge, riferendosi a Ricardo (Marshall, 1885, p. 155). Date le circostanze in cui veniva pronunciata, l'osservazione poteva essere in parte interpretata come un gesto amichevole, perché l'unico altro serio concorrente alla cattedra era stato lo storico dell'economia e tory molto tradizionalista William Cunningham, arcidiacono di Ely, istituzionalista antiteorico e noto polemista. Di lui si ricorda dicesse alla sua congregazione che il paradiso sarebbe stato incompleto senza i piaceri del dibattito (forse a lui dovrebbe essere attribuita la paternità spirituale della scuoladi Cambridge). Comunque stessero le cose, per molto tempo l'invito a seguire il programma di ricerca implicitamente proposto da Marshall non fu raccolto. I teorici dell'economia della prima metà del ventesimo secolo rivolsero piuttosto l'attenzione a quella parte della materia che Marshall riteneva (in-

dubbiamente a torto) abbastanza ben sviluppata: la teoria dell'interazione di. soggetti stabili tendenti a massimizzare le funzioni di utilità in un dato contesto istituzionale. Alcune voci contrarie si levarono dagli esponenti della cosiddetta « scuola istituzionalista americana », incluso Veblen, ma con scarsi risultati, soprattutto perché le loro dottrine mancavano di una precisa definizione: con un atteggiamento paragonabile a quello degli odierni « strutturalisti », essi concordavano nel dire che vi era qualcosa di molto sbagliato nell'economia neoclassica, ma questo era pressocché l'unico loro chiaro messaggio. Naturalmente, negli ultimi decenni le cose sono molto cambiate. L'economia delle istituzioni è divenuta uno dei settori più vivaci della nostra disciplina, ci ha inoltre avvicinati ad un certo numero di altre discipline nell'ambito delle scienze sociali. Si è sviluppata una corrente di pensiero basata su due ipotesi: 1) le istituzioni sono, in effetti, importanti; 2) i fattori che determinano le istituzioni sono suscettibili di analisi con gli strumenti della teoria economica. Nella presente esposizione illustrerò anzitutto quelli che mi paiono essere i concetti centrali di questa corrente di pensiero per poi considerarne l'applicazione ad un particolare argomento.

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IL CONCETTO DI ISTITUZIONE

La riflessione in materia è frutto di dif ferenti punti di vista. In genere gli approcci convergono, sia pure con diversa enfasi e differenti definizioni del concetto di istituzione. Il primo fa coincidere le diverse istituzioni economiche con i diversi sistemi di diritti di proprietà (property rights) previsti dalla legge. Coase (1960) sostiene che qualsiasi sistema di diritti di proprietà può condurre all'efficienza (in senso paretiano) purché si tratti di un sistema completo, cioè di un sistema in cui tutti i diritti e tutti i vantaggi derivanti da tutte le risorse scarse siano attribuiti a qualcuno e siano commerciabili. Egli tuttavia osserva come, a causa dei costi di transazione, un sistema completo non sia mai possibile e come alcuni sistemi incompleti, cioè alcune istituzioni, siano più vicini di altri all'efficienza paretiana. Questa impostazione, basata sui diritti di proprietà, è da ricondurre alla vastissima letteratura oggi esistente su diritto ed economia. Il secondo considera le istituzioni come consuetudini o norme di condotta economica, intese come un'integrazione alla legge e a volte più efficaci delle leggi stesse perché meno soggette a costi di transazione. Alcuni usano il termine istituzione solo in tale accezione. Questa impostazione presenta una certa affinità con la filosofia morale. Il terzo approccio considera le istituzioni come tipi di contratto in uso ed esaminano se una certa classe di rischio è assicurata, se la manodopera è impiegata a tempo indeterminato o a ore, se le società possono essere oggetto di offerte pubbliche di acquisto, ecc. 26

Il quarto ed ultimo approccio è in realtà un sottocaso del precedente, ma così diversificato da giustificare un posto a sé. Le istituzioni sono considerate tenendo conto di quali contratti sono usati per quanto riguarda l'autorità, cioè in base a chi abbia il potere decisionale. Anche questo approccio è riconducibile a Coase, ed in particolare ad un suo articolo del 1937, in cui si analizzava l'influenza dei costi di transazione sul mercato e sul sistema « di comando » all'interno dell'impresa. In senso lato, si possono includere in tale approccio forme di autorità più complesse e precise di quanto suggerirebbe il termine « comando »; ad esempio esso comprende anche i cartelli e le coalizioni, perché anch'essi comportano un certo grado di rinuncia all'autorità da parte del singolo agente economico. Inoltre, il problema dell'autorità si pone, in certa misura, per tutti i contratti - ad eccezione forse di quelli estremamente semplici - essendo di solito impossibile prevedere in anticipo tutte le eventualità che possono presentarsi durante la vita del contratto; permane quindi necessariamente un elemento di discrezionalità ed il problema è da chi essa debba essere esercitata ed in quale misura. E' opportuno osservare al riguardo come a volte si sostenga che considerare l'autorità, in un sistema di impresa privata, come una questione meramente contrattuale significhi dare troppo risalto all'elemento volontaristico e non sufficiente peso alla disparità di poteri. Non vi è dubbio che disparità di poteri possano esistere: un contratto può essere più importante per una parte che per l'altra, e ciò può riflettersi sui termini dell'accordo concluso. Ma ciò vale per qualsiasi contratto, indipendentemente


dal fatto che esso comporti un conferimento di autorità. Situazioni di disparità di potere possono anche emergere ex post., una volta concluso il contratto, se vi sono differenze fra le parti nella misura in cui i beni in loro possesso sono peculiari dei loro rapporti reciproci (ar gomento, questo, oggetto di una vasta letteratura). Tuttavia, sono disponibili ex ante, al momento della formulazione del contratto, vari metodi per proteggersi dal rischio di venir sfruttati ex post a causa della specificità del proprio bene. Lo studio di tali strumenti fa parte dello studio delle istituzioni. Un metodo è quello di formulare il contratto in modo molto dettagliato, riducendone i margini di discrezionalità, probabilmente con un certo costo in termini di efficienza. Un altro sistema è quello cosiddetto dell'« ostaggio » (Williamson, 198). In base ad esso una parte si riserva un margine di discrezionalità in un settore al cui controllo non tiene particolarmente, ma che le conferisce potere per contrastare eventuali abusi ad opera della controparte. A volte, il termine istituzione viene usato in modo del , tutto differente, per indicare cioè un'organizzazione (una grande impresa come un'università). Non userò il termine in tale accezione, anche se un'organizzazione potrebbe essere considerata come una serie di istituzioni nel senso da me innanzi usato. La caratteristica comune ai vari approcci elencati - diritti di proprietà, consuetudini, tipi di contratto e autorità - è quella di considerare le istituzioni una serie di diritti e obblighi atti a influenzare la vita economica degli individui. Alcuni di questi diritti ed obblighi non tollerano condizioni e non dipendono da alcun contratto (a meno che non li si

voglia far risalire alla finzione del cosiddetto « contratto sociale ») e possono essere alienabili o inalienabili. Altri possono essere acquisiti volontariamente, mediante contratto. Alcuni contratti sono espliciti, altri impliciti in consuetudini riconosciute da entrambe le parti. I contratti possono riguardare lo scambio, in varie proporzioni, di beni o di servizi, di denaro o di autorità. Analogamente, un sistema di istituzioni può essere descritto, usando più o meno gli stessi termini giuridici finora usati, come un insieme di diritti ed obblighi in essere, oppure, ricorrendo al linguaggio della sociologia o dell'antropologia sociale, come un « sistema di ruoli » o « di status »; o ancora, ricorrendo al linguaggio economico, come quel sistema che definisce: quali mercati esistano, considerando i mercati nel senso più ampio, in modo da includere tutti gli scambi volontari; come vengano regolati i rapporti economici nelle aree in cui i mercati non esistono. In questa definizione economica, l'enfasi sui mercati è appropriata solo nel caso di economie in cui gran parte delle transazioni avvenga su base volontaria. Ove l'economia sia regolata soprattutto mediante controlli governativi, oppure mediante consuetudini, potranno prevalere diritti e obblighi incondizionati, cosicché sarà necessario rivolgere l'attenzione soprattutto al punto 2). In tal caso è probabile che vi sia meno spazio per l'analisi economica e più spazio per l'analisi di tipo politico, ma il ragionamento economico potrà sempre applicarsi allo studio delle origini e degli effetti della 27


struttura vigente, sia essa basata sul Comando o sulla tradizione.

ALCUNE COSE DA PRECISARE

La definizione economica di cui sopra ha bisogno di chiarimenti e precisazioni. Anzitutto è importante considerare non solo il fatto che i mercati esistono, ma anche il loro grado di utilizzazione: un paese in cui il 90% delle abitazioni sia occupato dai proprietari e solo il 10% sia in locazione può a buon diritto essere considerato diverso, sotto il profilo istituzionale, da un paese in cui dette proporzioni siano invertite, anche se, in entrambi i mercati esistono tutte e due le possibilità (locazione e proprietari-residenti). In secondo luogo, l'esecuzione dei contratti vigenti non può affatto ritenersi scontata e quindi i differenti meccanismi per assicurare che un contratto venga rispettato possono essere intesi come atti a contraddistinguere le istituzioni. Anche la relazione intercorrente fra istituzioni (e loro cambiamenti) e costi di transazione è stata vista in modo differente da differenti autori, ma pur sempre senza forti disaccordi concettuali. In genere, si ritiene che i costi di transazione siano i costi necessari per predisporre un contratto ex ante e per seguirlo e farlo rispettare ex post, intendendosi invece per costi di produzione quelli necessari all'esecuzione di quanto previsto nel contratto. In gran parte, i costi di transazione sono costi che riguardano relazioni fra individui, mentre i costi di produzione riguardano relazioni fra individui e cose, ma ciò è più una conseguenza della loro natura che una definizione (come definizione non 28

sempre funzionerebbe: ad esempio, il costo dei servizi personali (personal services) rientra nei costi di produzione, pur non riguardando necessariamente cose). Naturalmente vi sono aree in cui la distinzione non è così netta. Alcuni autori considerano costi di transazione solo quelli che dipendono dalla esistenza di una situazione di opportunismo (definita da Williamson come « il perseguimento del proprio interesse con astuzia »). Questa definizione mi sembra troppo limitata: vi sono dei costi puramente cognitivi, dovuti alla necessità di organizzare e seguire una transazione, ad esempio allorché si prepara un conto, si controlla la competenza della controparte, anche nel caso in cui la sua onestà non sia messa in discussione. In un certo senso, il termine « costi di transazione » è piuttosto infelice, perché dà l'idea di un costo connesso •in modo specifico ad una determinata transazione. Ciò è esatto in alcuni casi, come ad esempio per la commissione applicata dai jobbers (jobbers' turn), ma in altri, ad esempio, ove si debbano redigere gli articoli di partecipazione ad una società, si tratta di costi generali per la realizzazione di una serie di transazioni (che danno vita alla differenza fra costi marginali e costi medi di transazione); altri ancora sono spese generali per mantenere in vita il sistema di pro perty rights in generale, come ad esempio i costi per i sistemi di sicurezza. Le istituzioni hanno un aspetto statico ed uno dinamico. Nel considerare i cambiamenti di carattere economico, la relazione intercorrente fra variazioni nei costi di transazione e cambiamenti nelle istituzioni è simile a quella intercorrente fra variazioni nei costi di produzione e va-


nazioni nei prodotti nel processo produttivo. Come una variazione esogena nei costi di produzione può o meno rendere convenienti variazioni nei •prodotti o nei processi di produzione, così una variazione esogena nei costi di transazione può o meno rendere opportuno un cambiamento dell'istituzione. Parimenti, come un nuovo prodotto o processo può emergere sia in seguito ad una nuova idea - un'innovazione in senso stretto - sia perché variazioni nei costi hanno reso per la prima volta economico applicare un'idea già esistente, così i cambiamenti istituzionali possono dipendere sia da nuove idee, sia da variazioni dei costi di origine esterna.

COSTI DI TRANSAZIONE E DI PRODUZIONE DIVERSITÀ Dl ANDAMENTO L'obiettivo dell'operatore economico non è quello di minimizzare i costi di transazione in quanto tali, ma di minimizzare la somma dei costi di transazione e di produzione. I due tipi di costo possono essere collegati da una correlazione inversa: scelte relative alla tecnica o all'istituzione possono entrambe avere influenza ma in senso opposto. Un esempio di tale situazione è dato da quello che è forse il più importante di tutti i cambiamenti istituzionali da tempo intervenuti nelle economie avanzate, cioè il declino dell'importanza della famiglia come unità produttiva. Il sistema familiare comporta in genere elevati costi di produzione perché limita la possibilità di sfruttare le economie di scala e inoltre perché spesso può non esservi corrispondenza fra attitudini e mansioni svolte; essa tende invece a ridurre i costi di transazione per-

ché, essendo esclusi i rapporti di lavoro con estranei, non vi sono sprechi di risorse dovuti alla necessità di controllare l'operato. In tale esempio, un dato cambiamento, come una maggiore divisione del lavoro, comporta più elevati costi di transazione e minori costi di produzione. Vi è tuttavia anche la possibilità di interazione (mediante sostituzione) in seguito a innovazioni che di per sé riguardano solo un tipo di costi. Si supponga, ad esempio, che delle riduzioni nei costi delle telecomunicazioni riducano i costi di transazione; ciò potrà risolversi in una pura riduzione di costo, senza alcun altro cambiamento, ma potrà anche consentire una migliore divisione del lavoro, in tal modo permettendo di economizzare sui costi di produzione, ma producendo forse un aumento dei costi complessivi di transazione. Douglas North (1984) ha sostenuto la tesi secondo cui la crescente divisione del lavoro avrebbe comportato un enorme aumento dei costi di transazione sia direttamente, sia perché essa avrebbe accresciuto il senso di alienazione e quindi la possibilità di condotte opportunistiche. Egli avanza l'ipotesi che l'aumento è stato tale che attualmente nelle economie avanzate i costi di transazione corrispondono a circa la metà del PIL, e spiega in tal modo la crescita dei lavori irnpiegatizi. La naturale interpretazione dell'ipotesi di North è che l'innovazione sia stata distorta in modo da ottenere economie nei costi di produzione: cioè i nostri rapporti con le cose sarebbero migliorati più di quanto lo siano i rapporti con gli altri individui. Questa interpretazione implica un'elasticità di sostituzione inferiore alla unità fra inputs di transazione e inputs di produzione, ma, quantomeno in teoria, 29


si potrebbe dare un'interpretazione opposta al fenomeno: l'innovazione avrebbe consentito riduzioni nei costi di transazione, ma l'elasticità di sostituzione sarebbe stata maggiore dell'unità. Tale interpretazione non è la più plausibile in questo caso particolare, quantomeno non per l'economia globalmente considerata nel lungo periodo, ma serve a dimostrare come la distorsione del risparmio dei costi non possa essere dedotta necessariamente dall'andamento del rapporto fra spesa totale e costi di produzione e di transazione. L'economia delle istituzioni, come pure quella dei costi di transazione (di seguito considerate come rappresentative di un unico approccio), è stata applicata a molti settori: organizzazione industriale e gestione delle società, economia della manodopera, scelte del settore pubblico, sviluppo, storia economica. Indubbiamente essa presenta punti di contatto non solo con il diritto, la filosofia morale, la sociologia e l'antropologia sociale, come già accennato, ma anche con la teoria della informazione, dell'organizzazione, e in particolar modo, con la teoria dei giochi. Politicamente essa è neutrale: è stata invocata a sostegno sia della sfiducia, sia della fiducia nelle forze di mercato. Le correnti di pensiero di sinistra, contrarie al mercato, hanno sostenuto che la presunta efficacia della « mano invisibile » di cui parlano i libri di testo è basata su ipotesi istituzionali non valide, come il « ttonnement » di Wairas, oppure presuppone istituzioni che esistono solo in alcuni tipi di paesi; tesi, questa, spesso sostenuta dagli economisti dello sviluppo di sinistra. Sul fronte opposto, si può sostenere, come è stato fatto, che 30

lo studio delle istituzioni schiude nuovi campi in cui, ancora una volta, si rivelerebbe l'efficacia della « mano invisibile »: non solo il mercato raggiungerebbe i migliori risultati all'interno di ciascuna struttura istituzionale, ma farebbe di più: selezionerebbe la struttura istituzionale caratterizzata dal maggior grado di efficienza paretiana. L'approccio istituzionale può anche essere usato da quanti siano ottimisti, ma non abbiano fiducia nel mercato, cioè da quanti credono che le istituzioni più efficienti si evolvono, ma non consistono necessariamente in un sistema universale di mercati competitivi con propri diritti di proprietà. Questa è la tesi sostenuta da alcune scuole di antropologia sociale e può anche ritenersi sottintesa nel titolo del famoso libro di A.D. Chandler sull'impresa americana, The Visible

Hand.

Nella parte che segue mi propongo di rivolgere l'attenzione soprattutto ad un particolare campo di applicazione della economia delle istituzioni e cioè al contributo dei cambiamenti istituzionali allo sviluppo economico. Definirò questo ultimo in base al reddito pro capite. L'analogia fra innovazione istituzionale e innovazione tecnica crea una presunzione - ma nulla di più - che i cambiamenti istituzionali contribuiscano positivamente alla crescita economica. Tale presunzione si basa sull'idea che nel corso del tempo siano state scoperte strutture istituzionali che permettono agli individui di cooperare fra loro in modo più efficiente che in passato. Se ciò in realtà


sia avvenuto ed in che misura abbia contribuito alla crescita economica è in ultima analisi un problema empirico. In questa sede non mi varrò di materiale empirico, se non occasionalmente, a titolo di esempio. Ma alcune considerazioni deduttive, suggerite dallo studio dell'economia delle istituzioni, possono essere utili per organizzare i propri pensieri.

ISTITUZIONI E CRESCITA ECONOMICA

L'idea che i cambiamenti istituzionali possano essere fonte di crescita economica ha assunto due forme nettamente diverse. La prima ammette che le istituzioni devono continuamente adattarsi ai cambiamenti nella tecnologia e nei gusti, ma sostiene che tale adeguamento avviene molto rapidamente, se non addirittura in modo istantaneo (quantomeno in assenza di indebite interferenze governative). In base a tale logica, i cambiamenti istituzionali sono un elemento necessario della crescita economica, ma non una causa indipendente di essa, un pò come, nel modello di crescita di Solow, l'accumulazione di capitale è un elemento necessario per una costante crescita dello Stato, ma non, in ultima analisi, una causa indipendente della crescita. In ciascun momento, le istituzioni presenterebbero la migliore efficienza possibile »; pertanto l'efficienza delle istituzioni non è un elemento di differenza fra periodi. Questa tesi naturalmente limita l'interesse per le istituzioni in quanto fonti di crescita economica. Non molti l'hanno espressa in termini così espliciti come appena fatto, ma essa è spesso sottintesa nelle osservazioni « panglossiane »' che emergono in altri

contesti. Nella sua forma estrema sarebbe piuttosto difficile da difendere, se non altro perché le istituzioni sono palesemente soggette a seri fenomeni di inerzia, per ragioni che esporrò fra breve. Comunque l'importanza dell'adattamento - che probabilmente non avviene in modo istantaneo - delle istituzioni ai cambiamenti originati da altre fonti è comunemente riconosciuta. La seconda linea di pensiero considera il movimento verso istituzioni ad efficienza superiore non come qualcosa che si consegue quasi istantaneamente, ma come un processo molto lungo, quasi permanente. Tale processo può realizzarsi mediante il continuo emergere ed il diffondersi delle innovazioni istituzionali, come avviene per le innovazioni tecnologiche, oppure mediante un « gioco ripetuto », in cui i giocatori imparano gradualmente o, in caso contrario, vengono esclusi. In entrambi i casi, mutamenti istituzionali e mutamenti tecnici sono considerati strettamente collegati, senza però che nessuno dei due tipi sia considerato più importante dell'altro. La tendenza di lungo periodo può considerarsi come qualcosa riscontrato in una particolare fase storica, come ad esempio nel caso dell'ipotesi avanzata da Hicks circa l'emergere del mercato nella sua Theory o/ Economic History. Si può altresì sostenere che esista una tendenza innata in tal senso, per il fatto che è prevedibile che gli individui trovino modi per ridurre progressivamente i costi di transazione come avviene per i costi di produzione, pur ammettendo, naturalmente, che vi possono essere periodi di regresso istituzionale così come vi sono periodi di regresso tecnico. 31


Il concetto di innovazione istituzionale appare molto chiaro ove si considerino innovazioni introdotte consapevolmente da singoli agenti economici. Esse possono riguardare cambiamenti nell'organizzazione interna delle imprese, come ad esempio l'introduzione della M-form, la società muitidivisionale, le cui origini in seno alla du Pont e alla Generai Motors sono state illustrate da Chandler (1962). Ciò corrisponde a un'innovazione nei processi produttivi. Oppure tali innovazioni consapevoli possono avvenire sotto forma di un nuovo contratto offerto ai clienti, come ad esempio i servizi finanziari di nuovo tipo introdotti per la prima volta dalla Halifax Building Society nel primo dopoguerra, paragonabile ad un'innovazione di prodotto. L'idea di innovazione istituzionali deliberate è stata esposta in modo interessante negli anni Cinquanta e Sessanta da Frederick Barth che introdusse il cosiddetto approccio transazionale nell 'antropologia sociale (ignorando, a quanto sembra, la presenza di analoghe tendenze in campo economico). Barth (1966) considera l'imprenditore come colui che avvia transazioni in beni il cui valore precedentemente non era misurabile, in altre parole, come colui che crea un mercato nuovo. La deliberata introduzione di nuove forme di organizzazione o di contratti costituisce l'esempio più ovvio di innovazione istituzionale, ma si possono raggiungere effetti simili anche nel caso di cambiamenti istituzionali che si manifestano molto più gradualmente, riguardano molti individui, sono ragari dovuti al caso, e devono la loro diffusione alla selezione competitiva piuttosto che ad un consapevole processo di ottimizzazione.

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E'

MISURABILE L'INNOVAZIONE

iSTITUZIONALE?

Dato che le innovazioni istituzionali in effetti ci sono, si potrebbe, in teoria, condurre un'analisi che cerchi di stabilire in qual misura la crescita economica registrata in un dato intervallo di tempo sia attribuibile a cambiamenti istituzionali e non ad altre cause classiche di sviluppo come l'innovazione tecnologica, l'accumulazione di capitale, e così via. Vorrei qui ricordare il trattamento nettamente differente dei fattori istituzionali di solito riservato ai due tipi di domanda: cioè quali siano le cause delle differenze di reddito pro capite in differenti periodi in uno stesso paese ovvero in differenti paesi in uno stesso periodo. Si ritiene di solito che alcune cause, come ad esempio il capitale pro capite, contribu.iscano in modo pressoché uguale a determinare la differenza nell'uno e nell'altro caso, ma mentre si dice spesso che le differenze fra paesi, ad esempio fra USA e Regno Unito, rispecchiano molto da vicino la situazione istituzionale, è raro che lo sviluppo economico venga direttamente attribuito ad un progressivo miglioramento delle istituzioni. Nella pratica, un calcolo di questo tipo incontrerebbe ovviamente serie difficoltà per l'interrelazione fra fattori istituzionali e non istituzionali. Per citare un esempio relativo all'epoca della rivoluzione industriale, il sistema basato sulla fabbrica (che dovrebbe la sua origine, secondo alcuni storici, al fine istituzionale di evitare appropriazioni indebite di materiale da parte dei lavoratori a domicilio) rese possibile il progresso tecnologico nella forma dell'uso della energia


idraulica e, più tardi, della forza vapore. Come calcolare separatamente il contributo della componente istituzionale? Si tratta di un problema del tutto simile a quello di individuare il contributo di una sola innovazione tecnica (ad esempio le ferrovie) collegata ad altre forme di progresso tecnico. Non sembra quindi molto ragionevole sperare che in futuro si potrà, ad esempio, affermare che il progresso istituzionale nel Regno Unito ha contribuito per il 27% alla crescita del reddito procapite. Comunque, indipendentemente dai tentativi di quantificazione, è pur sempre ragionevole chiedersi quale sia l'importanza di tale progresso perché possono venir date risposte qualitativamente differenti senza che nessuna di esse sia necessariamente assurda. Si può ad esempio sostenere che nel complesso il contributo dei cambiamenti istituzionali alla crescita economica - quanto meno in alcuni periodi - sia stato negativo, il che indurrebbe a rivalutare il ruolo svolto da altri fattori. Questa tesi potrebbe essere sostenuta, ad esempio, da un membro della Mont Pelerin Society per quanto riguarda i primi tre quarti del ventesimo secolo, a causa del forte aumento della presenza dello Stato nella attività economica. Si potrebbe altresì sostenere, in base a quanto accennato sopra, che i cambiamenti istituzionali dipendono interamente da quelli tecnici e non costituiscono un fattore autonomo. A giustificazione di tale tesi potrebbe essere invocato il materialismo storico marxiano; ma alla stessa conclusione si potrebbe giungere per via del tutto diversa, rifacendoci cioè agli studi di teoria dell'organizzazione, come quelli di Joan Woodward (1965), che riconducono i differenti me-

todi di organizzazione dell'impresa esclusivamente alla tecnologia sottostante.

LA PROSPETTIVA QUALITATIVA

Nel porci la questione qualitativa è utile esaminare quali forze influenzino i cambiamenti economici. Questa è l'area in cui la nuova economia delle istituzioni promette di dare risultati migliori rispetto alla precedente. Si può ragionevolmente iniziare con una presunzione molto generale, come ad esempio che il perseguimento dell'interesse individuale tenda a promuovere l'evoluzione di istituzioni eflicienti. Tuttavia tale presunzione è soggetta a serie riserve e complicazioni. Anzitutto, il ruolo dello Stato non può essere trascurato neppure in prima approssimazione. La partecipazione dello Stato alla vita delle istituzioni è molto più stretta di quanto avvenga per la tecnologia. Ciò perché lo Stato è il « garante di ultima istanza » dei diritti di proprietà: a lui spetta decidere quali diritti ed obblighi sia pronto a riconoscere e a tutelare. La varietà dei settori cui si estende la partecipazione dello Stato è indicata dai titoli dei libri che di solito si trovano sugli scaffali di una biblioteca giuridica: illecito civile, titoli di credito, locazioni, procedura fallimentare, diritto societario, e così via. Questo ruolo di garante di ultima istanza permane anche se lo Stato cerca di limitare al minimo la propria presenza. Inoltre va notato come sia probabilmente più facile per lo Stato modificare le istituzioni di quanto non sia per i privati: uno dei principali ostacoli all'avvio di cambiamenti nelle istituzioni da parte dei privati è 33


dato dalla necessità di assicurarsi il consenso delle altre parti interessate (un argomento sul quale tornerò fra breve) mentre l'uso della coercizione è la specialità dello Stato, ed anzi la sua raison d'&re. La presenza dello Stato inficia qualsiasi presunzione si possa fare a proposito di un'evoluzione delle istituzioni che dipenda interamente dal perseguimento dello interesse individuale delle parti, con tutte le conseguenze che da ciò possono trarsi. E' in questo contesto che Richard Posner (1977) presentò il suo ingegnoso tentativo di estendere la dottrina della mano invisibile alla stessa evoluzione del diritto, inteso come Common Law (diritto consuetudinario) e nettamente distinto dalla Statute Law (norme di produzione legislativa). Egli sostiene che, per ragioni che sarebbe qui troppo lungo elencare, i giudici tendono ad emettere sentenze che sospingono il diritto verso miglioramenti di tipo paretiano, e che anche se così non fosse e le sentenze fossero decise a caso, siflatte sentenze non pareto-efficienti avrebbero una probabilità maggiore della media di essere annullate. Parecchie ipotesi di Posner sono molto particolari soprattutto quelle che riguardano le motivazioni dei giudici. Pur ritenendo che, a parità di condizioni, i giudici facciano sentenze paretoefficienti, non mi sembra che da questa premessa si possano trarre conclusioni più precise, valide in generale. Più interessante, perché meno aprior.istica, è una particolare applicazione dell'idea di Posner. E' stato sostenuto che, soprattutto negli USA, le sentenze giudiziarie abbiano contribuito allo sviluppo economico perché i giudici americani avrebbero modificato sensibilmente la tradizione della Common Law inglese, attribuendo mag34

giore importanza agli effetti delle loro sentenze sul progresso economico e minore importanza ai principi di equità, soprattutto nel periodo compreso fra la guerra di indipendenza e la guerra civile (Hughes, 1983, pp. 135-50). Il ruolo dello Stato in senso generale e distinto da quello della sola legge fatta dai giudici fa emergere tutti i problemi che sorgono nella teoria della « public choice ». Quest'ultima riguarda non solo l'efficienza paretiana o lo sviluppo economico (ed anzi non riguarda la sola economia); i suoi interessi economici si estendono anche alla redistribuziorie del reddito. Sarebbe ingenuo supporre che, storicamente, ciò abbia sempre significato una redistribuzione del reddito in favore dei poveri; ha piuttosto significato, di solito, preoccupazione e attenzione per gli individui politicamente più influenti (fossero poveri o meno) o per quelli che rappresentano il votante medio. E' facile citare casi in cui, in seguito all'interesse per la distribuzione del reddito, i cambiamenti istituzionali promossi dallo Stato non hanno affatto agito nel senso segnalato dalle forze non istituzionali, ma, al contrario, le hanno contrastate. Un esempio interessante è quello addotto da Domar (1970) per illustrare la sua ipotesi delle origini della servitù in Russia. A suo parere, l'espansione territoriale dello stato moscovita nel sedicesimo secolo avrebbe provocato un aumento dell'offerta di terra superiore a quello della manodopera e favorito quindi l'emigrazione dei contadini dalle aree centrali dello Stato, con disagi per i proprietari terrieri di tali aree. Poiché però lo stato aveva un interesse militare al benessere dei proprietari terrieri, fu possibile a questi ultimi ottenere l'introduzione dell'isti-


tuto della servitù per impedire ai contadini di emigrare. In tale esempio i gruppi minacciati dalle forze di mercato poterono presentare il loro caso presso un foro diverso nel quale la loro voce aveva più peso. Il cambiamento nei diritti di proprietà fu di ostacolo, piuttosto che di aiuto, al perseguimento dell'efficienza paretiana attraverso le forze di mercato. Si possono citare molti esempi meno esotici e più attuali: l'introduzione di provvedimenti protezionistici nei confronti di nuove fonti di offerta a buon mercato, la formalizzaziorìe del concetto di « proprietà del posto di lavoro » mediante la legislazione a difesa del posto di lavoro e la distinzione fra diritti degli occupati e diritti dei disoccupati proprio nella fase degli anni Settanta in cui i posti di lavoro cominciavano a scarseggiare. Sarebbe interessante cercare di scoprire in che proporzione i cambiamenti istituzionali promossi dallo Stato siano stati di questo tipo. Con ciò non intendo dire che tutti i cambiamenti di tal genere siano necessariamente indesiderabili, ma solo far rilevare come essi abbiano agito in senso opposto alla promozione dello sviluppo economico. Si può quindi affermare, quantomeno, che lo Stato influenza la vita delle istituzioni.

A

PARTE IL GOVERNO

Comunque, per quanto importante, lo Stato non è onnipresente. Alcuni cambiamenti dell'organizzazione interna delle imprese, come ad esempio il passaggio alla forma societaria multidivisionale, non sono direttamente attribuibili allo Stato, né lo sono gli innumerevoli cambiamen-

ti che intervengono a livello capillare nella gestione delle singole organizzazioni. Molti fra i più importanti cambiamenti istituzionali di lunga data non sono attribuibili al governo, o quantomeno, all'intento consapevole del governo. Uno è quello già menzionato, cioè il declino dell'impresa familiare come unità produttiva, accompagnato dal declino della famiglia e dei rapporti familiari in genere nella condotta di un'attività imprenditoriale. Un altro è dato dall'emergere della società anonima (0ml stock company) come forma dominante di organizzazione imprenditoriale. Quest'ultimo cambiamento ha reso necessaria una normativa sulla responsabilità limitata ed in generale un complesso di norme di diritto societario, ma la diffusione della forma societaria seguì solo molto gradualmente la legislazione che la rendeva possibile, e non vi è motivo di supporre che fosse in alcun modo intenzione dei legislatori che la trasformazione si spingesse così lontano. Un 'altra importante tendenza, connessa alle due precedenti, è stata l'enorme e progressivo aumento delle dimensioni medie dell'impresa; questo fenomeno, sia pure in parte attribuibile all'accresciuto ruolo dello Stato stesso come datore di lavoro, è anche largamente dovuto all'aumento delle dimensioni delle unità produttive del settore privato, una tendenza a volte incoraggiata, a volte scoraggiata dai governi. Occorre qui notare per inciso come gli effetti di queste tendenze di fondo sul ruolo del mercato siano in parte Opposti: mentre il declino dell'impresa familiare ha agito nel senso di potenziare il ruolo delle forze impersonali di mercato, l'aumento delle dimensioni dell'unità imprenditoriale ha ridotto a sua volta detto ruolo, sostituendo ad

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esso il sistema di « comando » all'interno dell'organizzazione. Quindi, nonostante quanto detto sopra, vale, in effetti, la pena di esaminare quali siano le forze, a parte il « governo », che favoriscono i cambiamenti istituzionali e quale sia la loro importanza ai fini della crescita economica. Cosa di cui ora appunto ci occuperemo.

INTERAZIONE, INERZIA, COMPLESSITÀ

L'elemento di verità presente in un'ipotesi ottimistica è ovvio e non si cercherà di sottovalutarlo. Indubbiamente gli individui tenderanno in certa misura a cercare di trovare forme istituzionali reciprocamente vantaggiose e a modificare le vecchie alla luce delle mutate circostanze; altrettanto indubbiamente, alcuni istituzioni inefficienti tenderanno ad essere scartate, secondo i principi della teoria evolutiva, ma il processo di cambiamento non è così semplice. Vi possono essere differenze fra paesi, settori e periodi quanto agli effetti dei cambiamenti istituzionali, e a volte si possono avere addirittura fenomeni di regresso. Vorrei soffermarmi su tre caratteristiche evidenziate nella recente letteratura. La prima è che l'influenza reciproca degli agenti economici non è dovuta esclusivamente ad accordi contrattuali. In molti dei casi in cui le azioni degli individui si influenzano reciprocamente, i costi di transazione sono tali da scoraggiare la stipulazione dei contratti, anche se in teoria sarebbe mutualmente vantaggioso ricorrervi. In alcuni casi, i costi di transazione possono essere così palesemente proibitivi che la possibilità di regolare 36

i rapporti mediante contratto non è neppure presa in considerazione. Persino nel caso in cui un contratto sia stato stipulato, i costi di transazione per farlo rispettare possono risultare proibitivi; la situazione assume allora caratteristiche proprie della teoria dei giochi: scompare qualsiasi presunzione di efficienza paretiana e, al contrario, vi è il rischio di scivolare in situazioni gravemente patologiche del tipo del « dilemma del prigioniero ». Di qui una delle possibili cause per cui un trend temporale può, in effetti, peggiorare la situazione. La teoria dei giochi ripetuti ha mostrato la possibilità di risultati meno deprimenti anche nel caso del « dilemma del prigioniero »: se ripetuto con sufficiente frequenza, il gioco può dare risultati più o meno positivi (di collaborazione) (Axelrod, 1984). Ciò rappresenta un importante sviluppo teorico, ma non si può ancora sostenere che il risultato positivo è certo. Fra l'altro dalla letteratura in materia non risulta chiaramente quanto tempo (come aspetto distinto dal numero di « mosse ») sia necessario per ottenere i risultati: mesi o decenni? Se si prevede un periodo alquanto breve, come ritengo avvenga di solito, si tratta allora di un processo che può contribuire a spiegare situazioni di collaborazione osservate, piuttosto che contribuire ad una protratta crescita economica. La seconda caratteristica che complica lo esame dei mutamenti istituzionali è l'inerzia. Essa è inerente alla natura stessa delle istituzioni. Dei quattro tipi di istituzioni citati all'inizio della presente esposizione, quello meno soggetto al fenomeno dell'inerzia è l'accordo contrattuale che a volte può presentare cambiamenti


alquanto rapidi, specie nei casi in cui il contratto può fornire definizioni esatte, come in campo finanziario. Ma persino le istituzioni di questo tipo devono durare almeno finché il contratto giunga a conclusione, il che può richiedere molto tempo: ad esempio, nel caso di un nuovo tipo di contratto (implicito o esplicito) di impiego a vita con promozioni periodiche. Ora, può anche essere necessario che passi un certo tempo perché l'uso di un tipo di contratto divenga abbastanza diffuso da creare un mercato, ridurre i costi di transazione in misura tale da consentire la sua generale adozione e permettere di elaborare piani per il futuro nell'assunto che il suo mercato continuerà ad esistere. L'inerzia è invece caratteristica delle altre categorie di istituzioni: i diritti di proprietà, le consuetudini e il conferimento di autorità. Nessuna delle tre sarebbe molto utile se cambiasse continuamente. Gli accordi istituzionali riguardano relazioni interpersonali e, come sottolineato da Arrow (1974) è iritrinsecamente più difficile effettuare cambiamenti quando è necessario il consenso di altri individui piuttosto che quando basta la volontà individuale. Occorre smantellare accordi precedenti, forse fru tto di laboriose trattative con molte altre parti, ricreare la fiducia, fissare nuovi codici di condotta ed elaborare e fare accettare nuovi sistemi di vigilanza. E' sempre probabile che un cambiamento istituzionale leda interessi particolari e che tali interessi vengano continuamente ricreati per tutta la vita dell'istituzione. Si spiega in tal modo la persistenza di alcune patologie istituzionali. Spunti possono, ad esempio, essere forniti dal fenomeno dell'eccessivo ricorso

al lavoro straordinario nell'industria britannica o dall'andamento quotidiano di un sistema a noi familiare, quello universitario; altri ancora dal funzionamento della maggior parte delle grandi organizzazioni. L'inerzia istituzionale non deve essere considerata necessariamente un fattore patologico: le istituzioni costituiscono la struttura stessa della vita economica ed una struttura completamente flessibile sarebbe una contraddizione in termini. Le cause della maggiore o minore inerzia e le differenze in contesti differenti sono ancora da scoprire. In prima approssimazione sembrerebbe che l'inerzia sia poco presente nelle istituzioni finanziarie e Caratterizzi invece particolarmente le istituzioni relative alla proprietà terriera. E' altresì ancora oscuro in quali circostanze l'inerzia istituzionale sia di freno allo sviluppo economico ed in quali invece vi contribuisca. In proposito va ricordata l'ipotesi di Mancur Olson (1982), secondo cui la guerra, ed in particolare la sconfitta in guerra, favorisce lo sviluppo economico in quanto induce a superare l'inerzia delle istituzioni che ritardano la crescita economica come i cartelli e le pratiche restrittive. La guerra spazzerebbe via gli ostacoli accumulatisi durante lunghi periodi di stabilità sociale. Ma anche ammettendo, per comodità di argomentazione, che la guerra o la sconfitta permettano di superare l'inerzia, i risultati positivi si avranno solo se, dopo il cataclisma, le circostanze favoriscono l'emergere di una nuova serie di accordi istituzionali. Sebbene i generali MacArthur e Sherman abbiano entrambi fatto un buon lavoro nello spazzar via i residui del passato, non vi è dubbio che il Giappone del dopoguerra e gli Stati 37


del Sud dopo la guerra civile abbiano seguito cammini economici molto diversi. Il terzo aspetto delle istituzioni che ne rende difc.ile l'evoluzione è la loro stessa complessità. Ciò riguarda sia le strutture istituzionali, sia i fini che esse perseguono. Se le relazioni economiche interpersonali non fossero intrinsecamente complesse, molte istituzioni esistenti sarebbero superflue. Potremmo avere un semplice sistema di diritti di proprietà e mercati ad asta mondiali, come ipotizzano i libri di testo. Uno dei più importanti contributi della nuova economia delle istituzioni è stato quello di mostrare come i fini perseguiti da una data istituzione possono essere molto più complicati di quanto non sembri in apparenza e quindi può essere molto difficile capire perché un'istituzione sia sorta e quali fini essa persegua in un dato momento. Come esempio, mi riferirò ad un tipo di istituzione cui ho già accennato di sfuggita, le promozioni all'interno di un'organizzazione strutturata gerarchicamente. Si tratta di un'istituzione così familiare che si tende a sottovalutarne la complessità. Essa di solito presenta le seguenti caratteristiche: vi è una struttura gerarchica; le responsabilità sono graduate in base ad essa; lo stesso avviene per il trattamento retributivo e di solito per quello di quiescenza, di modo che alla massimizzazione del grado corrisponde quella del reddito; la promozione avviene per singoli scatti graduali; vige il principio della « proprietà del grado », nel senso che la possibilità di retrocessione è praticamente esclusa perché l'inefficienza è punita con la sospensione delle promozioni o, in casi estremi, con il licenziamento; è prevista un'età di pensiona38

mento dopo la quale le responsabilità passano di colpo dalla punta massima a zero. Una conseguenza del sistema è che in molti gradi elevati si trovano individui di circa cinquant'anni, in contrasto con il carattere molto più gerontocratico dei sistemi direttivi puramente ereditari, basati sulla ricchezza (dal momento che il capitale non umano non va in pensione), in contrasto altresì con l'età media molto minore in cui si raggiungono i livelli di massima responsabilità e « performance » nelle nuove società imprenditoriali, per non parlare delle aree di attività non economica. Quali fattori hanno favorito il passaggio del sistema impostato sulla promozione dalle sue presumibili origini militari alla diffusa situazione attuale? Possiamo individuarne parecchi. La « ratio » del sistema può essere data dal processo di apprendimento; dalla possibilità di effettuare una cernita; potrebbe trattarsi di un sistema di retribuzione differita, inteso a scoraggiare la mobilità e a consentire ai datori di lavoro il recupero dei costi di addestramento; la gradualità negli avanzamenti potrebbe essere il risultato sia di un'informazione incompleta da parte dei superiori, che non sono bene informati se non su chi si trovi ad uno o due gradini immediatamente al di sotto di loro nella scala gerarchica, sia dell'opportunismo dei gradi intermedi che, logicamente, non favoriranno la promozione di propri subordinati a gradi superiori al loro; la impossibilità di retrocessione (il « possesso del grado ») potrebbe essere il risultato di un accordo restrittivo, oppure il fattore dominante dell'intera struttura potrebbe essere visto nell'inerzia creata per salvaguardare le aspettative di chi si trovi al momento sulla scala gerar-


chica. E' molto difficile stabilire quale di questi elementi - o eventualmente altri - abbia svolto un ruolo storicamente predominante ed è altresì estremamente difficile dire se il sistema è pareto-efficiente o no nei contesti nei quali è usato. L'importanza della complessità in un contesto di cambiamento economico è che la complessità e J 'inerzia si rinforzano reciprocamente. E' difficile modificare in modo radicale le strutture complesse e quindi esse favoriscono l'inerzia. Ove questa sia presente è più facile reagire al mutare delle circostanze recependo le nuove idee mediante modi6che superficiali alle istituzioni esistenti - rendendole quindi ancora più complicate piuttosto che ricominciare da capo. Di conseguenza, ogni nuovo passo nel processo di cambiamento istituzionale è determinato dal suo punto iniziale e esso stesso a sua volta contribuisce a plasmare gli sviluppi successivi. L'evoluzione storica di un'istituzione è quindi importante. Poiché ad ogni nuovo passo le scelte possono essere influenzate fortemente da elementi probabilistici, il processo presenta alcune caratteristiche della random waik (passeggiata casuale). Il cambiamento istituzionale assume vita propria.

CAMBIAMENTI TECNICI E CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI: UN CONFRONTO Ricapitolando, nell'analisi che precede è stata presentata una serie di motivi che inducono a ritenere che i cambiamenti istituzionali non possono essere semplicemente una questione di innovazioni e

adeguamenti di tipo paretiano, e cioè: il ruolo svolto dallo Stato, le interazioni non volontarie (exiernalities) ed i fenomeni dell'inerzia e della complessità con la loro tendenza a produrre random walks. Poiché il parallelo con i cambiamenti tecnici è stato spesso presente in questa esposizione, è opportuno chiederci in che misura questi due tipi di cambiamenti differiscano sotto questo profilo ed altri ad esso collegati. Per alcuni aspetti l'innovazione tecnica si spiega effettivamente con considerazioni simili a quelle valide per l'innovazione istituzionale: ad esempio la direzione del progresso tecnico dipende dal punto di partenza e influisce sugli ulteriori sviluppi. Ancora: il progresso tecnico può risentire di collegamenti con altre aree e richiedere un minimo di « massa critica » per avviarsi; può dipendere dal consenso delle parti interessate. Per altri importanti aspetti, tuttavia, le innovazioni tecniche sono soggette a minori ostacoli e distorsioni dei cambiamenti istituzionali: sebbene esse possano dipendere dal consenso di altri, tale dipendenza non è così forte come nel caso dei cambiamenti istituzionali; il cambiamento istituzionale è, per sua natura, più complicato,, quindi più difficile, di quello tecnico, perché gli individui sono più complicati delle cose. E' questa la stessa ragione per cui il progresso delle scienze sociali è più difficile di quello delle scienze naturali; nell'epoca recente, il progresso della scienza pura ha fornito all'innovazione tecnica una base più solida di quanto gli scienziati sociali siano stati in grado 39


di offrire finora a chi volesse, in pratica, dar vita a un'istituzione; 4) la complessità deriva non solo dalla complessità dell'elemento umano, ma anche dal margine di manovra esistente: quando si inventò la ruota non si dovette tener conto della reazione della natura; non vi è lo stesso pericolo di trovarsi imprigionati in situazioni del tipo « dilemma del prigioniero ».

ISTITUZIONI E COMPETIZIONE INTERNAZIONALE

Un altro punto che potrebbe anch'esso avere un certo rilievo è la concorrenza internazionale. Le istituzioni tendono ad essere meno legate ad un particolare settore di quanto avviene per la tecnologia. E' chiaramente il caso dei diritti di proprietà fissati per legge o forse anche delle norme consuetudinarie. Nella misura in cui ciò avviene, le istituzioni possono non migliorare gran che il vantaggio comparato di un paese. Quindi la maggiore o minore efficienza delle istituzioni non verrà premiata o penalizzata - mediante la selezione attuata dalla concorrenza internazionale - con la stessa efficacia con cui ciò avviene per le tecnologie. Questa ultima osservazione può venir contestata e deve essere intesa solo come una proposta di discussione. Tuttavia vi sono anche fattori che tendono a rendere l'innovazione tecnologica più difficile di quella istituzionale. La prima può, ad esempio, richiedere notevoli investimenti di capitale. Il ruolo dello Stato al riguardo è ambivalente: i suoi poteri costrittivi non si estendono alle leggi della natura, quindi è lecito supporre che la parteci40

pazione dello Stato acceleri e favorisca i cambiamenti istituzionali piuttosto che quelli tecnici. A volte ciò può facilitare l'emergere di istituzioni che favoriscono lo sviluppo economico, ma a volte può avvenire esattamente i] contrario. Queste considerazioni sono del tutto generali e non basate su un'analisi quantitativa dei fenomeni, ma sembrano avallare, tutto sommato, l'ipotesi che nella maggior parte dei casi è più facile realizzare il progresso tecnico che quello dell'efficienza istituzionale. E' quindi lecito presumere che la curva dei costi di produzione presenti una più acentuata tendenza al ribasso di quanto avvenga per quella dei costi di transazione. Ma non tutte le considerazioni puntano nello stesso senso. Inoltre esse non sono di alcun aiuto per spiegare l'importanza relativa dei cambiamenti istituzionali e di quelli tecnici nel determinare i differenti tassi di crescita fra paesi e periodi.

(3 Di solito, in occasioni come questa e a questo punto, l'oratore suole sottolineare l'estrema importanza dell'argomento da lui trattato. Non sarà questo il caso: non oso infatti formulare un giudizio, dire cioè se il contributo delle istituzioni alla crescita economica sia stato di importanza fondamentale sia nello stimolare lo sviluppo, sia nello spiegare i differenti tassi di crescita fra paesi e periodi. Penso che non si possa ancora dare una risposta al riguardo, ma che sia importante porsi la domanda. Ciò mi induce a fare due considerazioni conclusive. La prima riguarda la condotta politica e i consigli che vengono dati in


proposito. I politici di tutti i partiti fanno molto affidamento sui cambiamenti istituzionali e ciò non sorprende, dato che sono in buona posizione per realizzare tali cambiamenti. In ciò essi sono incoraggiati con non minore entusiasmo dagli economisti. Occorre però ricordare come fra le principali caratteristiche dei cambiamenti istituzionali vi siano la complessítà e la imprevedibilità delle conseguenze, con il rischio di intraprendere passeggiate casuali (« random walks ») verso mete ignote. In campo istituzionale, gli esperimenti a livello di singola impresa sono tollerabili in quanto il sistema economico non è danneggiato dal loro insuccesso, ma occorre essere più cauti nell'effettuare gli stessi esperimenti a livello di economia globale. E' pur vero che tale attitudine rischia di condurre ad approcci pavidi e poco innovativi. Le decisioni devono essere prese (a volte), ma se vogliamo attenerci agli insegnamenti della teoria, è giocoforza riconoscere onestamente che nel lungo periodo i cambiamenti istituzionali possono produrre risultati del tutto diversi da quelli auspicati, un po' come sembra sia avvenuto per le guerre. L'altra osservazione conclusiva riguarda la direzione della ricerca. E' indubbio che negli ultimi tempi la teoria ha dato un contributo indispensabile all'econo. mia delle istituzioni, ma mi sembra che attualmente i progressi della teoria abbiano troppo distanziato quelli della ricerca empirica. Lo stesso potrebbe dirsi di altri settori dell'economia, ma nel caso dell'economia delle istituzioni ciò assume particolare importanza. I modelli teorici possono essere più o meno diffi. ciii in questo campo rispetto ad altri, ma non vi è dubbio che la ricerca empi-

rica incontri qui difficoltà particolari. Da. ta la loro difficoltà, le istituzioni economiche mal si prestano a misurazioni quantitative, ed anche per gli aspetti misurabili i dati non sono raccolti regolarmente, con una rilevazione statistica condotta a livello nazionale. Quindi l'impostazione statistica, che è ormai il pane quotidiano dell'economia applicata, in questo caso non è facilmente attuabile. Se pure non mancano esempi di ricerca empirica (la letteratura più ricca in materia riguarda l'economia della schiavitù, e non a caso la schiavitù è un'istituzione con caratteristiche precise), tuttavia questi hanno finora riguardato soprattutto casi interessanti, ma non necessariamente rappresentativi, ed inoltre un certo numero di casi giudiziari che quasi certamente non sono rappresentativi. Non si può fare di meglio? E' questo un invito rivolto agli economisti che, valendosi della ricerca empirica, volessero cercare la via migliore per progredire. (traduzione di Rosaria Giuliani Gusman)

Note

Pangloss: personaggio del racconto satirico di Voltaire « Candide ou l'Optimisme », divenuto embiematico per il suo ottimismo. Imbevuto della dottrina leibniziana dell'« armonia prestabilita », il dottor Pangloss insegna al suo discepolo Candido che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili; le più crudeli smentite che la realtà infligge a questo principio non mutano l'ostinazione filosofica di Pangloss (da: Dizionario 'Enciclopedico Italiano - Treccani). 2 Moni Pelerin Society: società fondata nel 1947 con lo scopo di favorire incontri informali fra economisti ed altri che studino e promuovano l'economia di mercato.

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Privatizzare in Francia di Federico Ram pini

Dal 26 ottobre 1986 al 27 gennaio 1988, la Francia ha realizzato un massiccio programma di privatizzazioni, la cui importanza - per il numero di società coinvolte, e il loro valore complessivo ai prezzi di vendita - ha oscurato perfino ciò che era stato compiuto in Gran Bretagna, su un arco di tempo più lungo, da Margaret Thatcher. Le privatizzazioni francesi hanno investito quattordici società, tra cui colossi industriali come le Compagnie Générale d'Electricité (Cge) e Saint Gobain, grandi banche commerciali come la Soci'été Générale e il Crédit Commercial de France, holding finanziarie come Suez e Paribas, una holding con attività pubblicitarie e nei mass-media come Havas, la prima rete televisiva nazionale TF1. Con l'unica eccezione della compagnia petrolifera E11 Aquitaine, che fu oggetto della prima privatizzazione a titolo « sperimentale », tutte le altre società furono cedute ai privati al 100%, senza che lo Stato vi conservasse alcuna partecipazione. L'insieme delle quattordici società privatizzate (che salgono ad una trentina se si tiene conto delle filiali incluse nella vendita) è stato ceduto dallo Stato per un valore di 125 miliardi di franchi, pari a 27 mila miliardi di lire. Il « biennio di fuoco » delle privatizzazioni francesi ha sollevato questioni di grande interesse economico, politico e istituzionale. Oltre a lasciare tracce dure42

voli nella mappa del potere finanziario transalpino, e nella maturità della Borsa parigina, le privatizzazioni realizzate nella pur breve legislatura dominata dal centro-destra sono state accompagnate da soluzioni normative originali, la cui influenza ha oltrepassato i confini francesi. Per prendere un esempio noto, basti dire che il « montaggio » della privatizzazione di Mediobanca si è largamente ispirato alla logica francese dei « nuclei duri » di azionisti stabili. L'esigenza di consolidamento degli assetti proprietari, che ha distinto radicalmente le privatizzazioni francesi da quelle britanniche, è senz'altro uno degli aspetti più originali ma è anche quello che nella stessa Francia ha suscitato più polemiche, fino a diventare uno dei principali bersagli del presidente socialista Franois Mitterrand nella campagna per la rielezione all'Eliseo, nella primavera del 1988.

PRIvATIzzAzI0NI E « COABITAZIONE »

Nel ripercorrere la vicenda delle privatizzazioni francesi, è bene ricordare che la realizzazione a tappe forzate di quel massiccio programma di vendita di aziende pubbliche, e la sua brusca interruzione alla fine del 1987, hanno coinciso con una rapida alternanza di maggioranze parlamentari e di governi, e con una


svolta nella storia istituzionale della Quinta repubblica. Nel marzo 1986, quando mancavano ancora due anni alla fine del mandato presidenziale di Mitterrand, il partito socialista e il suo governo monocolore (guidato da Laurent Fabius) uscivano minoritari dalle elezioni legislative. Per la prima volta nella storia della repubblica gollista, il capo dello Stato si trovava di fronte una maggioranza parlamentare ostile: nella fattispecie la coalizione tra il partito Rpr di Jacques Chirac (gollista) e l'unione liberal-repubblicana-centrista dell'Udf. Ad una situazione medita Mitterrand diede una risposta non meno originale. Anziché dimettersi, interpretando il voto legislativo come una sfiducia anche nei suoi confronti, egli inaugurò la prima esperienza di « co-a bitazione » tra un presidente e un governo di ispirazioni politiche opposte. Non è questa la sede per rievocare la densità di innovazioni nelle pratiche politiche e istituzionali del biennio 1986-88, da cui la Quinta repubblica francese è uscita per certi versi riformata, per altri aspetti rafforzata. Ma è indispensabile ricollocare le privatizzazioni in quel contesto. Perché da un lato il presidente socialista, forte delle sue prerogative costituzionali e deciso a preparare la propria rielezione all'Eliseo, avrebbe fatto di tutto per intralciare i progetti più ambiziosi del suo primo ministro, e metterne a nudo gli errori, sia pure senza forzare la tensione onde evitare una crisi destabilizzante tra i vertici dell'insolita diarchia. D'altro lato il primo ministro gollista Jacques Chirac, avendo solo due anni a disposizione prima delle elezioni presidenziali in cui si sarebbe candidato contro Mitterrand, dovette accelerare e concentrare la realizzazione del suo

programma di governo (privatizzazioni incluse), esponendosi al rischio di errori tecnici e forzature ideologiche. Chiusa questa parentesi sul contesto politico, e prima di affrontare una ricostruzione « dal vivo » della tumultuosa vicenda delle privatizzazioni, è interessante ricordare il dibattito politico che precedette una tra le più ambiziose manovre economiche realizzate in Francia in questo dopoguerra. Una manovra i cui risultati non sono stati cancellati, poiché una volta tornati al governo nel maggio 1988 i socialisti non hanno ri-nazionalizzato le quattordici società che i loro predecessori avevano venduto. L'attuale governo di Michel Rocard si è limitato ad eliminare dalla sua agenda ogni altra privatizzazione. Il programma del centrodestra è rimasto incompiuto, non si è fatta marcia indietro. Ma torniamo al 1986, alle discussioni preliminari, a quella dròle de guerre sulle privatizzazioni che oppose socialisti e gollisti in piena campagna elettorale per le legislative. Contrariamente a quello che potrebbe pensare un osservatore esterno, sia esso italiano o inglese, il dibattito teorico, ideologico, politico sul rapporto tra settore pubblico e settore privato, e sui rispettivi ruoli, è stato messo in sordina in Francia nel 1986, e del resto anche dopo. Né il governo Chirac e la sua maggioranza di centro-destra, né J.'opposizione socialista ebbero interesse ad affrontare di petto quella questione. Attenzione: sulla frontiera tra pubblico e privato si è discusso a iosa e senza risparmio di invettive, nella classe politica francese. I socialisti diffidarono le destre dallo spostare i confini del settore pubblcio tracciati nel 1982 con le nazionalizzazioni. (Solo il moderato Michel Rocard,

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che già nel 1982 aveva preso le distanze dalle nazionalizzazioni, assunse nel 1986 una posizione un po' più sfumata). Gollisti e liberali, con proclami quasi thatcheriani, promisero agli elettori che se ne avessero avuto il tempo - avrebbero privatizzato praticamente tutto. Per dimostrare la loro determinazione, per sottolineare che la loro svolta liberista non doveva cancellare solo gli errori socalisti dell'82 ma imprimere un cambiamento più profondo, i partiti di governo vollero includere nella lista delle prime società privatizzabili anche le tre grandi banche (Société Générale, Banque Nationale de Paris, Crédit lyonnais) che erano state assegnate al settore statale dal generale De Gaulle nel 1947. E se nella lista delle prime privatizzabili non finirono, per esempio, la casa automobilistica pubblica Renault o la compagnia aerea di Stato Air France fu solo per motivi di opportunità finanziaria. I gollisti dissero chiaramente che, quando Renault e Air France avessero risanato i bilanci in modo da risultare sufficientemente appetibili per gli investitori privati, anch'esse sarebbero state vendute. Dunque il dibattito sul confine tra pubblico e privato fu esplicito e fu caratterizzato da posizioni di principio diametralmente opposte. Quasi nessuno invece entrò nel merito della distinzione dei ruoli tra i due settori. Che cosa deve distinguere, nella gestione quotidiana, nella strategia, negli obiettivi fissati, nei risultati attesi, nella selezione dei dirigenti, una azienda pubblica da una privata? Questa questione fu largamente elusa, perché nessuno aveva veramente interesse ad affrontarla. Gli uni e gli altri, su questo punto, soffrivano di contraddizioni.

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LA POLITICA SOCIALISTA DELL'EFFICIENZA

I socialisti, reduci da una recente ma sincera conversione alle leggi dell'economia di mercato, dell'efficienza aziendale, del rigore nella spesa pubblica e nella politica monetaria, avrebbero avuto non poche difficoltà ad esporre la « originalità » dell'impresa pubblica. Uno dei principali meriti del governo socialista di Laurent Fabius, tra il 1983 e il 1986, era stato proprio quello di aver dato una sferzata efficientista alle aziende nazionalizzate, pretendendo dai loro manager seri sforzi di razionalizzazione e ristrutturazione. Tra il 1983 e il 1986 molti manager del settore statale erano stati abituati ad essere giudicati con gli stessi parametri dei loro colleghi privati: i risultati di bilancio. Il risanamento della industria pubblica francese, sotto i socialisti, era avvenuto anche al prezzo di licenziamenti e austerità salariale. Al punto che, se poi le privatizzazioni sono state un successo in Borsa, lo si deve anche al fatto che le aziende pubbliche erano state consegnate in ottima salute (salvo eccezioni) al termine della legislatura socialista. Date queste premesse, però, i socialisti avevano qualche difficoltà ad affrontare il tema della specificità del settore pubblico, della diversità delle sue funzioni. Visto che sotto il governo Fa. bius le aziende pubbliche erano state ge stite come quelle private, a che scopo mantenerle di proprietà statale? Il piccolo partito comunista di Georges Mar. chais, del resto, rimproverava proprio questo a Fabius: di aver aperto la strada alle privatizzazioni del centro-destra, logica conseguenza della sterzata liberista del 1983.


L'imbarazzo dei socialisti su questo terreno, già evidente nel 1986, fu altrettanto palese nel 1988. Dopo due anni di privatizzazioni, nella sua campagna presidenziale il candidato socialista Mitterrand per eludere il dibattito di fondo trovò una scappatoia in una decisione salomonica: se lui fosse stato rieletto, disse il presidente durante la sua seconda campagna, non ci sarebbero più state né privatizzazioni, né nazionalizzazioni. I francesi, spiegò, erano stanchi di contrapposizioni ideologiche.

LIMITI E CONTRADDIZIONI DEL DIBATTITO

Se la questione del ruolo pubblico-privato non fu affrontata dai socialisti nella loro polemica contro le privatizzazioni, essa fu largamente elusa nel 1986 dagli stessi gollisti. Reduci anch'essi da una conversione tardiva al liberismo (che non era certo l'ideologia economica di De Gaulle, né di Georges Pompidou), i leader dell'Rpr pur sostenendo entusiasticamente il massiccio programma di privatizzazioni contenuto nella loro piattaforma elettorale delle legislative 1986, non avevano interesse a precisare nei dettagli ciò che sarebbe cambiato nelle aaiende interessate, dopo la loro privatizzazione. In effetti, come l'esperienza avrebbe poi dimostrato, il vizio dirigista avrebbe condotto i gollisti ad interferire nella scelta dei manager e nelle decisioni strategi-he delle aziende, sia prima che - dopo le privatizzazioni. Anche per l'Rpr, la distinzione di compiti tra pubblico e privato non era priva di ambiguità. Se il dibattito ideologico su statuti e

funzioni dei dLIe settori dell'economia fu povero, non altrettanto si può dire della discussione economica e finanziaria. Effetti sulle dinamiche del risparmio, ruolo della Borsa, valutazione del prezzo di vendita delle privatizzate: tutti questi aspetti furono discussi approfonditamente e con attenzione, prima ancora che la manovra Chirac entrasse nel vivo. L'opposizione contestava l'opportunità di drenare quote importanti del risparmio privato verso i titoli delle società private, sottraendo così questo risparmio ad altre destinazioni, eventualmente più produttive. In sostanza i socialisti sostenevano che la privatizzazione si sarebbe risolta in una costosissima variazione di « nomenclatura »: le società interessate sarebbero passate da un'azionariato pubblico ad uno privato senza che questo passaggio rafforzasse la loro competitività, le loro disponibilità finanziarie, la loro capacità di investimento. In compenso l'operazione avrebbe assorbito una parte dei risparmi delle famiglie francesi, che sarebbero potuti andare invece a finanziare investimenti nuovi. Analoga la critica che l'opposizione muoveva alle privatizzazioni per i loro effetti sulla Borsa: secondo i socialisti il massiccio programma di vendite di titoli avrebbe monopolizzato l'attività dei mercati azionari, spiazzando iniziative di altro tipo: per esempio aumenti di capitale di imprese già private, destinati a finanziare investimenti nuovi. Infine, l'opposizione avanzava due sospetti: che il prezzo di vendita delle aziende pubbliche potesse essere situato a un livello troppo basso, realizzando così una « svendita » del patrimonio pubblico; e che le aziende privatizzate rischiassero di finire preda di investitori stranieri.


I gollisti, e in particolare Edouard Balladur, ideologo delle privatizzazioni che poi sarebbe stato il ministro delle Finanze incaricato di realizzarle, risposero in modo non meno circostanziato alle critiche sui drenaggio infruttifero del risparmio, e sui ruolo della Borsa. Una volta privatizzate, dissero, le maggiori società francesi saranno più adatte ad affrontare la concorrenza internazionale. Per rafforzare i propri mezzi, saranno libere in seguito di rivolgersi ai loro nuovi azionisti varando aumenti di capitale in Borsa. E quanto più le privatizzazioni avranno successo, tanto più si creerà un rapporto virtuoso tra risparmio delle famiglie e investimenti delle imprese. La Borsa di Parigi ne uscirà rivitalizzata e sprovincializzata, con grande giovamento anche per tutto il settore finanziario. Riguardo ai meccanismi di valutazione del prezzo di vendita delle aziende di Stato, l'esempio britannico veniva indicato come un valido precedente per evitare errori o abusi. Più delicata per i gollisti era la questione degli stranieri: il rischio cioè che una volta privatizzate le maggiori società francesi finissero preda di qualche scalatore estero. Taluni liberali dell'Udf ridimensionavano questo pericolo: la Francia sarebbe diventata un paese aperto alle Opa, come Usa e Gran Bretagna, le eventuali acquisizioni straniere potevano rafforzare il tessuto produttivo nazionale in vista del 1992. L'unico controllo da esercitare andava affidato alle leggi anti-trust. Ma per il partito Rpr di Chirac, erede di De Gaulle, lo spauracchio dell'industria francese colonizzata dai capitali stranieri era difficile da sopportare. Una soluzione a questo problema non fu trovata subito. Balladur avrebbe sperimentato diversi approcci, come ve46

dremo, nel corso del programma di priva tizzazione.

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MECCANISMI ISTITUZIONALI

In stretta connessione con questo problema dell'apertura all'estero, cominciava a maturare nel partito gollista - alla vigilia delle legislative 1986 - la riflessione sul meccanismo istituzionale delle privatizzazioni. In quale misura le procedure di vendita avrebbero dctvuto precostituire un assetto azionario relativamente stabile nel tempo? A chi sarebbe spettata la nomina dei dirigenti nell'interregno tra lo statuto pubblico e il pieno insediamento dei nuovi azionisti privati? Le aziende di Stato andavano vendute ciascuna ad un grosso azionista, o era meglio disseminare il loro capitale tra un vasto numero di piccoli soci? Anche qui, le risposte sarebbero state date caso per caso, e l'evoluzione delle privatizzazioni avrebbe delineato solo al termine del processo una strategia abbastanza coerente. Veniamo dunque alla cronaca dei fatti, da cui emergerà progressivamente il disegno complessivo e il bilancia finale della manovra. Nel luglio 1986, poco più di tre mesi dopo aver vinto le legislative e dopo essere entrato a Palazzo Matignon come primo ministro, Jacques Chirac fa approvare dal consiglio dei ministri il decreto legge sulle privatizzazioni. La forma del decreto è stata preferita per guadagnare tempo e poter avviare velocemente tutte le operazioni tecniche preliminari, a cominciare dalla stima del valore delle aziende candidate alla vendita. Il decreto include una prima rispOsta al problema degli investitori stranie-


ri: nel testo è imposto un limite massimo del 15% per la presenza di azionisti esteri nelle società privatizzate. Inoltre, facendo tesoro dell'esperienza inglese, il decreto prevede la possibilità che lo Stato conservi una golden sbare nel capitale delle privatizzate, qualora lo esiga l'interesse nazionale. La ,golden sbare è una azione speciale il cui proprietario ha diritto di veto sulla nomina del presidente e sulle decisioni che possano modificare la maggioranza azionaria. Quindi ha anche un diritto di veto sull'ingresso di soci stranieri. Il dispositivo della golden sbare, che in partenza sembrava il più efficace per stabilizzare gli assetti azionari delle privatizzate e proteggerle da scalate straniere, sarebbe stato utilizzato in realtà per una sola società: il gruppo Matra, che lavora nel settore della difesa. Il decreto sulle privatizzazioni del luglio 1986 istituisce poi una « commissione delle privatizzazioni », composta di sette esperti, a cui viene attribuito il compito di stimare di volta in volta il valore di ogni società da privatizzare. Per le aziende già quotate in Borsa, come la compagnia petrolifera Elf o l'agenzia pubblicitaria Havas, il compito dei sette saggi è relativamente agevole, visto che il prezzo di mercato è la base di riferimento meno discutibile. Per gli altri casi gli esperti hanno la possibilità di ricorrere alla consulenza di merchant banks, anche straniere, che abbiano già esperienza in operazioni simili. Il decreto inoltre prevede che nella vendita dei titoli siano offerte agevolazioni ai piccoli risparmiatori, e in special modo ai dipendenti delle società privatizzate. Comincia ad affacciarsi quindi quel modello di azionariato diffuso e di « capitalismo po-

polare » di ispirazione britannica, a cui i gollisti guardano con interesse.

IL «RIFIUTO» DI MITTERRAND E LA LEGGE SULLE PRIVATIZZAZIONI

Il 14 luglio dell'86 il decreto sulle privatizzazioni diventa la prima occasione per un conflitto istituzionale ai vertici dello Stato: il presidente della Repubblica Franois Mitterrand rifiuta di firmare il decreto, avvalendosi delle sue prerogative costituzionali. Mitterrand, approfittando del rituale discorso televisivo per la celebrazione della presa della Bastiglia, spiega che non firmerà il decreto per un motivo di forma - non ravvisa nel provvedimento un carattere di urgenza - e di sostanza: teme che in quella versione la legge sulle privatizzazioni getti l'industria francese alla mercé dei raiders stranieri. Il « gran rifiuto » di Mitterrand, primo incidente nella coabitazione con Chirac, avrà solo un valore simbolico. Sarà solo la prima di tante occasioni in cui il presidente prende le distanze dal governo per ribadire la propria identità distinta. Ma l'effetto pratico della decisione del 14 luglio è minimo. Pochi giorni dopo il testo sulle privatizzazioni, presentato all'Assemblea nazionale questa volta sotto forma di disegno di legge, viene approvato ed entra in vigore. Chirac ha approfittato del passaggio in assemblea per restituire l'affronto al presidente: lungi dal recepire l'allarme di Mitterrand, la nuova e definitiva versione prevede che la quota massima del capitale delle privatizzate in mani straniere sia del 20% e non più del 15%. La legge sulle privatizzazioni fissa i con47


toini dell'intero programma: ben 65 aziende industriali, bancarie e assicurative sono inserite nella lista delle privatizzabili (solo lo scarso tempo a disposizione, e la salute della Borsa, impediranno a Balladur di venderle tutte). Il valore teorico di tutte queste società si aggira intorno ai 300 miliardi di franchi, 65 mila miliardi di lire. La legge resta invece abbastanza aperta sulle modalità della privatizzazione, tanto che nell'estate 1986 non si esclude ancora che gruppi industriali come Saint Gobain possano essere ceduti ad un solo grosso azionista. Contestualmente all'approvazione della legge, il governo Chirac attua un'operazione che in altri tempi sarebbe apparsa di pura routine, ma che nel contesto particolare diventa particolarmente delicata, e gravida di conseguenze: una raffica di nuove nomine ai vertici delle aziende pubbliche. Più della metà dei presidenti vengono cambiati, e tra coloro che sono rimossi figurano quelli più « targati » politicamente, cioè più vicini al partito socialista: per esempio il presidente di Suez Jean Peyrelevade, ex consigliere economico di Mitterrand. In una diversa situazione questo rimescolamento ai vertici sarebbe apparso normale, come il frutto di quel tacito spoil system alla francese che già i socialisti avevano inaugurato cambiando molti presidenti di aziende pubbliche nel 1981-82. Ma alla vigilia delle privatizzazioni il significato cambia, anche se pochi osservatori se ne accorgono subito. Mettendo ai vertici delle aziende statali uomini di fiducia, per lo più di fede gollista, Chirac e Balladur non soltanto selezionano i presidenti destinati a gestire la fase di trapasso dallo statuto pubblico a quello 48

privato, ma di fatto ipotecano a medio termine il controllo delle future privatizzate. E' chiaro infatti che dopo la vendita ci vorrà del tempo prima che i nuovi azionisti privati possano ristrutturare il man.agement. Inoltre i presidenti di fede gollista potranno a.pprofittare dell'interregno per porsi essi stessi alla guida dei nuovi azionisti. In questo modo il partito di governo si assicura un potere sulle privatizzate che potrà resistere anche ad eventuali alternanze politiche.

L'AVVIO DELLE PRIVATIZZAZIONI E IL SUCCESSO DI PUBBLICO

Approvata la legge, e fatto il cambio di uomini ai vertici delle aziende di Stato, Balladur aspetta fino a ottobre e poi lancia una « sonda » per assaggiare gli umori della Borsa: mette in vendita l'll% della compagnia petrolifera Elf Aquitaine, che resta quindi controllata dallo Stato. Di tutte le operazioni realizzate nel biennio, questa sarà l'unica privatizzazione parziale. Dopo la Elf, lo Stato sceglierà di vendere sempre il 100% delle azioni. Il prezzo fissato per la privatizzazione parziale della compagnia petrolifera rilancia le polemiche, dell'opposizione: il ministro delle Finanze ha offerto ai sottoscrittori uno sconto del 10 per cento rispetto all'ultima quotazione di Borsa. I socialisti denunciano la « svendita ». Ma il dibattito resta tecnico e interessa poco l'opinione pubblica. Il vero avvio delle privatizzazioni è quello del 24 novembre, con l'offerta pubblica dei titoli della Saint Gobain, celebre multinazionale del vetro. L'azienda è in buona salute e gode di un'immagi-


ne prestigiosa tra i francesi, il prezzo di vendita (310 franchi per azione è inferiore del 15% alle stime sul « mercato grigio » di Londra). La •privatizzazione conosce un successo strepitoso: un milione e mezzo di risparmiatori francesi si precipita a sottoscrivere i titoli Saint Gobain. L'evento è abbastanza eccezionale in un paese dove i comportamenti di risparmio erano rimasti piuttosto arcaici: estraneo alla Borsa, il francese medio era abituato a investire in mattoni, oro o depositi bancari. Appena conclusa la vendita di Saint Gobain, il titolo riammesso in Borsa si apprezza del 20%. L'opposizione trae conferma delle sue tesi sulla « svendita » del patrimonio nazionale, i risparmiatori si convincono che le privatizzazioni sono un ottimo affare. Lo scenario si ripete regolarmente nei mesi seguenti. Dopo Sairit Gobain il governo mette in vendita la holding finanziaria Paribas nel gennaio 1987, la banca Crédit Commercial de France ad aprile dello stesso anno, il gruppo industriale Cge a maggio, l'agenzia pubblicitaria Havas sempre a maggio. Paribas viene venduta per 18,8 miliardi di franchi e accoglie 3,8 milioni di piccoli azionisti, un record assoluto di adesioni popolari che segna l'apice dell'euforia intorno alle privatizzazioni. Ma anche le operazioni successive vanno molto bene: il Crédit Commercial de France venduto a 4,4 miliardi raccoglie 1,5 milioni di azionisti, la Cge a 20,6 miliardi di franchi viene sottoscritta da 2,2 milioni di risparmiatori. Dopo le prime Otto vendite il numero di sottoscrizioni individuali ha raggiunto i 12 milioni. Il numero di famiglie francesi che detengono azioni quotate in Borsa è più che triplicato in meno di un anno, pas-

sando da 1,5 a 5,5 milioni. L'evoluzione delle quotazioni alimenta questa inattesa « luna di miele » tra i risparmiatori transalpini e la Borsa: chi ha sottoscritto tutte le offerte pubbliche di vendita del governo si ritrova nel giugno 1987 con una plusvalenza media del 28%, ottenuta in soli sette mesi. Questo successo di massa delle privatizzazioni galvanizza i gollisti e comincia a preoccupare i socialisti. Gli uni e gli altri prevedono che l'entusiasmo dei risparmiatori possa avere delle ricadute elettorali.

AGGIUSTAMENTI DEL MECCANISMO: I « NUCLEI DURI »

Nel frattempo, fra la prima privatizzazione (Saint Gobain) e la seconda (Paribas) è intervenuto un cambiamento fondamentale nel meccanismo di vendita. Alla ricerca di un dispositivo che stabilizzi per un periodo ragionevole l'assetto azionario delle società de-nazionalizzate, il ministro Balladur ha inventato i famosi « nuclei duri ». L'innovazione di Balladur avrà riflessi importanti sia da un punto di vista finanziario che istituzionale e politico. Su di essa si concentreranno poi le polemiche i cui strascichi si prolungano fino ad oggi. Vediamo nei dettagli la novità. Per Saint Gobain lo Stato aveva ceduto le azioni ai piccoli risparmiatori, facendo del gruppo industriale una public company, cioè una società in cui il management deve rispondere del suo operato di fronte ad un vasto numero di piccoli soci, non di fronte ad un solo padrone o ad una ristretta cerchia di grossi azionisti. L'uniCO accorgimento adottato dal ministro delle Finanze per evitare che i rispar49


miatori francesi rivendessero i loro titoli Saint Gobain al primo « scalatore », era di tipo incitativo. Ai piccoli azionisti che avessero conservato i loro titoli Saint Gobain per due anni, Io Stato avrebbe regalato un certo numero di azioni in più (a questo fine la quota of ferta in vendita era inferiore al 100% del capitale, perché lo Stato conservava una riserva di azioni con cui premiare d'ue anni dopo i soci fedeli). Nel gennaio 1987 con la seconda privatizzazione, cioè la holding finanziaria Paribas, Balladur pur mantenendo il « regalo » per i piccoli risparmiatori fedeli, introduce un'ulteriore difesa contro le scalate: il cosiddetto nucleo duro. Per Paribas infatti la vendita si fa non più in una, ma in due fasi. In un primo momento il ministro delle Finanze raccoglie le candidature di quei grossi investitori che desiderano assumere un ruolo attivo nella gestione della società privatizzata. Tra queste candidature lo stesso ministro delle Finanze seleziona, con un giudizio insindacabile e del quale non è tenuto ad esplicitare le motivazioni, i futuri azionisti di controllo destinati a formare il « nucleo duro ». Una volta definita questa prima parte della vendita, il resto dei titoli viene offerto al pubblico più vasto dei piccoli risparmiatori con le procedure già utilizzate per Saint Gobain, cioè l'offerta pubblica di vendita. Lo schema del nucleo duro sperimentato per Paribas sarà poi ripetuto, con variazioni di ordine puramente quantitativo, per quasi tutte le altre privatizzazioni. La parte del capitale riservata ai grossi azionisti varierà, a seconda delle società, dal 18% al 30%. Ogni membro del nucleo duro otterrà una quota rela50

tivamente ridotta, dallo 0,5% al 5% dei titoli. Il nucleo duro più numeroso, che sarà quello della banca Société Générale, avrà 21 membri. Per compensare il privilegio della posizione « di controllo », questi grossi azionisti pagheranno i loro titoli più cari rispetto al prezzo fissato nell'offerta pubblica di vendita. A seconda delle operazioni, il sovrapprezzo imposto ai grossi azionisti rispetto ai piccoli risparmiatori andrà dal 3% all'8%. Si tratta però pur sempre di un prezzo fissato a priori, e senza possibilità di modifica, da parte del ministro delle Finanze (sulla base delle stime fornite dagli esperti dell'apposita commissione). Mai è stata utilizzata, in Francia, la procedura dell'asta pubblica, che avrebbe consentito di selezionare gli azionisti di controllo in base al valore delle loro offerte. Il dispositivo dei nuclei duri è completato da una clausola importante. I grossi azionisti si impegnano, attraverso un contratto privato con lo tato francese, a non rivendere i loro titoli prima di due anni. Inoltre, nei tre anni successivi essi si impegnano - in caso di vendita, ad ottenere l'approvazione del consiglio d'amministrazione della società privatizzata che quindi ha un diritto di veto sui nomi dei nuovi soci. (Va precisato che nel corso di una privatizzazione successiva a quella di Paribas, ma priva di nucleo duro, cioè la Cge, i grossi azionisti avrebbero stipulato tra loro un patto di sindacato segreto con impegni analoghi).

FILOSOFIA DELLA STABILIZZAZIONE

Il nucleo duro, che inizialmente non suscitò grande attenzione quando fu intro-


dotto nel gennaio 1987 con l'operazione Paribas, rimarrà come la principale in. novazione tecnica e istituzionale delle privatizzazioni francesi (e nel 1988 diventerà anche il principale terreno di attacco dei socialisti e del liberale Raymond Barre contro la manovra economica di Chirac e Balladur). Innovazione tecnica, perché viene introdotto un meccanismo di vendita in due tempi che si colloca a metà strada tra le privatizzazioni « popolari » in cui l'intero capitale viene ceduto ad una miriade di piccoli azionisti (caso più frequente in Inghilterra), e le « vendite a privati » in cui un'azienda di Stato viene ceduta ad un solo azionista (caso Alfa Romeo in Italia). Ma anche innovazione istituzionale, poiché i nuclei duri esprimono •una ben precisa strategia di intervenio pubblico sulla costituzione dei nuclei azionari; prefigurano un assetto desiderabile della proprietà di grandi gruppi privati; pongono limiti precisi, anche dopo la privatizzazione, alle leggi del mercato. -In questo senso le privatizzazioni francesi (a differenza di quelle inglesi) sono altra cosa che non un puro e semplice passaggio dal dominio dello Stato a quello della Borsa. Per capire la concezione che sta dietro i nuclei duri, nulla di meglio che cedere la parola all'artefice di questo dispositivo, cioè Edouard Balladur. In alcune dichiarazioni rilasciate al Sole 24 Ore e pubblicate l'8 settembre 1987 il ministro delle Finanze gollista spiega: « se vendessimo tutte le azioni al grande pubblico, il risultato sarebbe di polverizzare il capitale di queste imprese in una miriade di piccoli e medi azionisti, e le società si troverebbero esposte a qualsiasi tentativo di scalata senza potersi difendere. Perciò bisognava dare a queste

aziende un nucleo stabile di azionisti decisi a difendere l'assetto proprietario ». In queste parole è facile misurare la distanza rispetto alla concezione angloamericana, in cui lo Stato si guarda bene dal difendere i gruppi privati contro le scalate, se non applicando le regole anti-monopolistiche (oppure in casi di imprese di interesse nazionale come quelle che producono per la difesa). Più oltre, riguardo al meccanismo di selezione dei membri del nucleo duro, Balladur afferma: « tra i criteri di scelta che ho utilizzato vale la pena di ricordarne qualcuno. Ho evitato di accogliere tra gli azionisti di una privatizzata un'azienda concorrente, il cui obiettivo poteva essere di smembrare la società acquistata per assumere il controllo di alcuni suoi settori di attività ». Anche qui risalta l'aspirazione a stabilizzare, non solo l'assetto azionario, ma l'integrità stessa dell'azienda. In altre sedi Balladur spiegherà di non aver selezionato gli azionisti di controllo con un meccanismo d'asta, perché riteneva « offensivo » e pericoloso, per la società privatizzata e per i suoi dipendenti, affidare al solo prezzo d'offerta la scelta dei futuri proprietari, col rischio di privilegiare finanzieri poco interessati alla gestione industriale e allo sviluppo dei gruppi acquisiti. Ancora una volta, quindi, una decisa avversione verso le Opa, le scalate, gli smembramenti e le cessioni di filiali che spesso fanno seguito alle acquisizioni in Borsa.

NUCLEI DURI E POTERE POLITICO

Anche a voler accettare come fondata la visione che presiede alle privatizza51


zioni francesi del biennio 1986-88, resta il fatto che il dispositivo dei nuclei duri presenta gravi zone d'ombra. I punti deboli della sua legittimaziorie sono due: il potere assoluto e arbitrario affidato al ministro delle Finanze nella selezione degli azionisti di controllo; l'assoluta mancanza di trasparenza con cui questo potere è gestito, alimentando in seguito il sospetto (in certi casi assai fondato) che i nuclei duri fossero una « ragnatela » di interessi finanziari alleati del partito gollista. A rafforzare questa interpretazione polemica della reale funzione dei nuclei duri vi era il fatto, già ricordato più sopra, che il governo Chirac prima di privatizzare aveva proceduto ad un ampio giro di nomine ai vertici delle società pubbliche candidate alla vendita. I presidenti scelti dal partito gollista avrebbero svolto un ruolo chiave nell'interregno tra Io statuto pubblico e il pieno insediamento degli azionisti privati. Di fatto, questi presidenti sarebbero diventati il punto di riferimento principale, l'elemento di coesione delle cordate di azionisti di controllo dopo la privatizzazione. In certi casi, Balladur sarebbe ricorso perfino ai consigli dei presidenti per selezionare i membri dei nuclei duri. Se il nucleo duro sperimentato con Paribas e poi adottato in quasi tutte le vendite successive, resterà la caratteristica più originale e più discussa delle privatizzazioni francesi, altri aspetti meritano di essere ricordati. La quota del 10% del capitale riservato, in ogni vendita, ai dipendenti della società privatizzata, corrispondeva all'obiettivo di stimolare una nuova forma di partecipazione dei lavoratori alla gestione d'impresa: l'innesto di una formula tipicamente anglosassone in un paese dove la cultura sinda-

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cale è tradizionalmente ostile ad ogni forma di cogestione, co-decisione o interessamento. Lo stesso boicottaggio sindacale ha fatto si però che non si sono trovate finora forme di rappresentanza « forti » dei dipendenti-azionisti nei consigli d'amministrazione delle privatizzate. Peraltro, anche se i dipendenti hanno largamente sottoscritto la quota ad essi riservata in ogni privatizzazione, il successo dell'esperienza ha riguardato soprattutto la fascia medio-alta: impiegati, quadri, dirigenti.

LE ECCEZIONI

Infine vanno ricordate le eccezioni al metodo dei nuclei duri. Il sistema sperimentato con Paribas sarebbe stato adottato anche per il Crédit Commercial de France, venduto il 27 aprile 1987, per la Cge privatizzata l'il maggio, per Havas il 26 maggio, per la Société Générale il 15 giugno e infine per Suez privatizzata al'inizio di ottobre dcl 1987. Ma in tre casi viene seguita una procedura diversa: si tratta dell'azienda di telecomunicazioni Cgct venduta il 7 marzo 1987, della emittente televisiva TF1 privatizzata il 4 aprile 1987, e della Matra ceduta all'inizio del 1988. La Cgct è l'unica privatizzazione che esclude i piccoli risparmiatori. L'interesse strategico dell'azienda nell'ambito delle telecomunicazioni da un lato (la Cgct è il secondo fornitore pubblico di centrali telefoniche), la pessima salute del suo bilancio dall'altro, sono i due motivi che fanno preferire una privatizzaziorie diversa. Il governo indice una gara d'asta aperta a consorzi industriali internazionali, a condizione che in questi ultimi


sia presente un socio francese. Alla fine viene prescelto il consorzio formato dalla svedese Ericcson e dalla francese Matra, a cui viene venduta la totalità del capitale della Cgct. La vicenda di TF1 è assai importante e per certi versi esula dalla tematica prevalente nelle altre privatizzazioni. Qui è in gioco l'assetto dell'informazione televisiva: prima rete pubblica, TF1 è da sempre leader negli indici d'ascolto con una quota di audience che sfiora il 40%. Si tratta perciò di un dossier ancora più politico di tutti gli altri, e la vendita si inserisce nel contesto della riforma del settore audiovisivo approvata dal governo di centro-destra, che definisce minuziosamente diritti e doveri delle emittenti (tetti pubblicitari, vincoli alla produzione, quote minime di programmazione per trasmissioni di origine francese). Per la privatizzazione della prima rete si sceglie una formula mista: metà del capitale viene venduto ai piccoli risparmiatori, l'altra metà ad un consorzio di grossi azionisti che quindi è ancora più solido dei nuclei duri: perché si vedrà attribuire il 50% del capitale, e perché deve essere formato a priori per volontà degli stessi soci. In altri termini, mentre la composizione dei nuclei duri è « dosata » dal ministro delle Finanze, la com posizione dei consorzi candidati all'acquisto di TF1 nasce prima della vendita, e il governo si limita a scegliere tra i vari gruppi rivali. Questa scelta viene affidata all'alta autorità del settore audiovisivo, la Commission nationale de la Communication et des libertés, un organismo che teoricamente dovrebbe essere libero da condizionamenti politici ma i cui membri sono tutti nominati dal governo.

Il prezzo per il 50% del capitale di TF1 da vendere ai grossi azionisti viene fissato a 3 miliardi di franchi, circa 650 miliardi di lire. Ma c'è un'altra anomalia che caratterizza questa privatizzazione; i grossi azionisti otterranno una concessione per dieci anni, non la proprietà della rete. Al termine dei dieci anni lo Stato avrà la possibilità di rinnovare la concessione al suo titolare oppure di attribuirla ad un altro. L'insieme dei vincoli previsti fa si che emergono solo due candidature: quella della casa editrice Hachette, e quella del costruttore edile Francis Bouygues associato con il magnate della stampa britannica Robert Maxwell. Alla fine vincerà il secondo consorzio e TF1 andrà al tandem BouyguesMaxwell. Anche in questo episodio il meccanismo di selezione è tutt'altro che trasparente: i « saggi » della Commission nationale de la Communication et des libertés infatti decidono l'attribuzione sulla base di una valutazione qualitativa dei progetti di gestione della rete e di programmazione televisiva presentati dai candidati. La terza ed ultima eccezione al modello dei nuclei duri riguarda la Matra, azienda che produce sistemi di difesa, radiotelefoni e altre apparecchiature elettroniche. La diversità della Matra risale all'origine, cioè alla sua nazionalizzazione: nel 1982 i socialisti avevano deciso di non espropriare il 100% del suo capitale, ma di lasciarne il 49% all'antico proprietario, Jean-Luc Lagardère. I gollisti non fanno altro che ristabilire lo status quo ante, rivendendo allo stesso Lagardère una quota che gli consenta di recuperare il controllo di Matra, e il resto ai piccoli risparmiatori. 53


DECLINO DELL'ENTUSIASMO PER LE PRIVATIZZAZIONI E CROLLO DELLA BORSA

Tolte le tre eccezioni TF1, Cgct e Matra, le altre privatizzazioni seguono il modello tracciato con Paribas, in particolare per quanto riguarda i nuclei duri. Ma il « miracolo » dell'entusiasmo popolare, che con Paribas aveva toccato il suo apice, viene meno fin dall'estate 1987 quando la Borsa comincia a deprimersi e le quotazioni delle privatizzate danno segni di cedimento. Già le sottoscrizioni per la Société (terza banca commerciale francese) sono assai meno che per Paribas. Il 19 ottobre 1987, il grande krach delle Borse mondiali interviene mentre a Parigi è in corso l'offerta pubblica di vendita per la Compagnie financière de Suez. Quando il titolo Suez sarà quotato in Borsa, esso scenderà immediatamente al di sotto del prezzo fissato dal governo per la privatizzazione. Per la prima volta i piccoli risparmiatori che hanno avuto fiducia in una privatizzata si vedono penalizzati duramente. La « luna di miele » tra i francesi e la Borsa è finita. E con essa sono finite le privatizzazioni. Dopo l'infortunio di Suez, Balladur rinuncerà a proseguire il suo programma (salvo che per la vendita di Matra, la quale per i motivi già visti sopra non poneva particolari problemi). Il crollo della Borsa è particolarmente grave a Parigi. Proprio per il successo popolare delle privatizzazioni, il governo di centro-destra aveva attirato verso il risparmio azionario una massa di piccoli risparmiatori inesperti, i quali per diversi mesi si erano abituati ad una Borsa che andava soltanto al rialzo. Psicologicamente impreparati ad affrontare una 54

fase di calo delle quotazioni, i neofiti cedono ancor più facilmente al panico. La fuga dalla Borsa è massiccia, e tra l'ottobre 1987 e il gennaio 1988 l'indice medio azionario francese perde il 40%, cioè più di Wall Street e Londra. Il crollo della Borsa avrà tre conseguenze negative per il governo Chirac. In primo luogo, manda all'aria i suoi piani costringendolo a bloccare le privatizzazioni che altrimenti sarebbero continuate fino alle elezioni presidenziali della primavera 1988. Balladur non riesce a privatizzare alcune società molto importanti, in particolare i tre colossi assicurativi Uap, Agf e Gan. In questo modo tutto il dispositivo dei nuclei duri resta incompleto: nelle cordate di grossi azionisti che controllano le società già privatizzate sono presenti in posizioni importanti le assicurazioni e le banche che Balladur non è riuscito a vendere. Questi investitori statali possono, in futuro, diventare i cavalli di Troia per un governo socialista, che attraverso i soci pubblici potrà tentare di recuperare qualche influenza nelle privatizzate. Seconda conseguenza del krach: la capitalizzazione di Borsa delle privatizzate scende di molto e le rende quindi vulnerabili alle scalate. I nuclei duri non controllano il 51% del capitale, ma al massimo il 30%. Una quota che avrebbe potuto essere sufficiente a scoraggiare i raider ai livelli di prezzi pre-krach, ma che con le quotazioni depresse rischia di non essere più sufficiente. In questa chiave alcuni osservatori hanno dato una lettura « politica » della vicenda della Sosiété Générale de Belgique. Secondo questa interpretazione, quando Carlo De Benedetti lancia la scalata alla Sgb, gli ambienti finanziari parigini vicini al partito


gollista si sentono minacciati: sia perché l'Opa sulla Sgb può servire da precedente suscitando analoghe operazioni in terra francese; sia perché lo stesso De Benedetti in caso di vittoria potrebbe rivolgere i suoi appetiti a qualche privatizzata transalpina. Secondo questa lettura della vicenda belga, la controffensiva di Suez sulla Sgb (che segna la sconfitta di De Benedetti) sarebbe stata ispirata dallo stesso Balladur per « salvare » l'edificio delle privatizzazioni. Terza conseguenza negativa del krach di Borsa per Chirac: le privatizzazioni, che fino all'estate 1987 erano state un bnllante successo non solo economico ma anche politico (vista l'entusiastica adesione dei piccoli risparmiatori), cambiano improvvisamente di segno. Il malcontento dei risparmiatori, che si sentono beffati dal crollo delle quotazioni, non giova certo a Chirac alla vigilia delle elezioni presidenziali.

LE PRIvATIZZAZIONI NELLA BATTAGLIA ELETTORALE DELL'88

Durante la campagna elettorale, la questione dei nuclei duri diventa un elemento di battaglia politica tra i candidati. Lo stesso candidato liberale Raymond Barre apre le ostilità contro Chirac denunciando lo strapotere dei gollisti nelle privatizzate. Il presidente socialista Mitterrand, candidato alla rielezione, fa sue le stesse accuse di Barre contro il « regime » go!lista e la selezione politica dei soci di controllo delle pnivatizzate. Mitterrand promette che, in caso di vittoria, farà il possibile per smantellare i nuclei duri di Balladur. Allo stesso tempo evita di rinfocolare guerre ideologiche: nella sua

piattaforma elettorale si impegna ad arrestare le privatizzazioni, ma anche a non procedere ad alcuna ri-nazionalizzazione. Con la rielezione di Mitterrand e la nomina del socialista Michel Rocard come primo ministro, i socialisti si danno da fare assai presto per sottrarre ai finanzieri di fede gollista il controllo delle privatizzate. Ma l'edificio di Balladur dimostra di essere più resistente del previsto. Nel novembre 1988 il finanziere Georges Pébereau lancia una scalata alla Société Générale. Il nuovo ministro delle Finanze, il socialista Pierre Bérégovoy, lo appoggia con le dichiarazioni e con i fatti. Bérégovoy si dice favorevole all'iniziativa di Pébereau « poiché restituisce la sovranità al mercato », cioè rimette in movimento l'assetto azionario di una privatizzata, che era stato artificialmente bloccato dalle decisioni politiche del govreno precedente. Allo stesso tempo Bérégovoy spinge un importante istituto creditizio statale, la Caisse des dépòts, a sostenere Pébereau finanziando il rastrellamento di titoli della Société Générale. Ma dopo un blitz iniziale che porta Pébereau e i suoi alleati a detenere il 10% del capitale della banca, l'offensiva si arena di fronte all'inattesa coesione del nucleo duro, che nel frattempo ha proceduto ad acquisti di titoli ed ha rafforzato la propria posizione.

LOTTA Al NUCLEI DURI E INSIDER TRADING

I socialisti si rendono conto che la resistenza dei nuclei duri sarà tenace. Perciò Bérégovoy all'inizio del 1989 presenta un disegno di legge destinato ad agevolare la riconquista delle privatizzate. Il dise-


gno di legge scioglie gli azionisti delle governo deve evitare nuovi errori di perprivatizzate dall'obbligo di conservare i corso. titoli per due anni, e di chiedere nei tre anni successivi l'autorizzazione al consiglio d'amministrazione prima di vendeVERSO UN Nuovo RAPPORTO re. Inoltre vengono dichiarati nulli i patFRA STATO ED ECONOMIA ti di sindacato tra azionisti di controllo delle privatizzate. Una volta eliminati Ad una certa distanza, il bilancio comgli ostacoli legali allo scioglimento dei plessivo delle privatizzazioni francesi rinuclei duri, i socialisti sperano di poter sulterà probabilmente meno negativo di lanciare nuove scalate alle privatizzate, quanto oggi possa sembrare agli stessi usando come forza d'urto i grossi invefrancesi. L'opinione pubblica transalpina stitori pubblici, a cominciare dalle com- ha vissuto questa vicenda con una drampagnie assicurative (e da quelle banche matizzazione emotiva che ha oscurato le che Balladur non ha fatto in tempo a tendenze di fondo. In una prima fase, privatizzare). il boom della Borsa ha fatto percepire Questa manovra viene però turbata dal le privatizzazioni come una sorta di «mandissenso del ministro dell'Industria Ro- na dal cielo » per i risparmiatori. Poi, ger Fauroux, cx presidente di Saint Go- nella campagna elettorale, le stesse pribain tecnico indipendente e assai stima- vatizzazioni sono diventate la pietra delto, amico di Rocard e quindi lontano lo scandalo di una « questione morale ». dalla « Corrente » mitterrandiana (alla Infine la stessa questione morale si è quale appartiene invece Bérégovoy). Faurivoltata contro chi l'aveva sollevata, e roux denuncia clamorosamente nel gen- la battaglia di riconquista delle privatiznaio 1989 il fatto che a margine della zate lanciata dai socialisti si è impantascalata sulla Société Générale lanciata da nata in episodi oscuri. Pébereau vi sarebbero state speculazioni Per un osservatore esterno invece le priillecite ed episodi di insider trading. L'acvatizzazioni francesi sono state una tappa cusa di Fauroux cade in un clima reso di quel processo abbastanza lineare che incandescente dal concomitante scandalo ha portato il paese da una tradizione di di Péchiney: un altro episodio di insider interventismo e dirigismo economico, vertrading (questo estraneo alle privatizza- so modelli di rapporto più liberali tra te) che colpisce finanzieri di fede sociaStato ed economia. Le contraddizioni perlista e coinvolge sia Bérégovoy che Mit- mangono, i vecchi vizi sono duri a moriterrand. Gli scandali esibiscono di fron- re: sia i nuclei duri di Balladur che gli te all'opinione pubblica un partito sociascandali di Bérégovoy dimostrano la vilista altrettanto compromesso con l'« affa- schiosità di certe abitudini dei politici rismo» di quello gollista. Bérégovoy ne francesi, che faticano a rinunciare ai loro esce indebolito, e il progetto mitterran- poteri di intervento nella vita delle grandiano di smantellamento dei nuclei duri di aziende. Ma la tendenza fondamentale delle privatizzate risulta meno agevole da resta quella di un ridimensionamento di perseguire in una situazione in cui il questo potere. 56


Questa tendenza non è nata con le privatizzazioni. La vera svolta in Francia risale alla fase del 1982-83, nel primo settecento di Mitterrarid. Arrivati al governo per la prima volta nella storia della Quinta repubblica grazie all'unione con i comunisti, i socialisti avevano applicato tra il 1981 e il 1982 un programma rigidamente ideologico: nazionalizzazioni massiccie, aumento dei salari e della spesa pubblica, programmazione centralizzata. L'aumento dell'inflazione, la voragine del deficit commerciale con l'estero, le ripetute svalutazioni del franco avrebbero provocato un salutare ripensamento nel partito socialista. Il passaggio dal governo Mauroy al governo Fabius, nel 1983, segnava l'approdo ad un socialismo pragmatico e riformista. Lo stesso Pierre Bérégovoy, già ministro delle Finanze nel governo Fabius, avrebbe incarnato questa nuova versione del socialismo francese. Favorito da una più generale « americanizzazione » della società francese - dove emergeva un consenso largo intorno ai valori dell'iniziativa privata, della centralità dell'impresa, della concorrenza - Bérégovoy aveva già avviato tra il 1983 e il 1986 la liberalizzazione creditizia e valutaria, la deregulation della Borsa di Parigi, la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Aveva anche concesso più autonomia alle aziende di Stato, e questo come abbiamo già osservato si era tradotto in un aumento di efficienza e in un risanamento dei bilanci. L'opera di Balladur, e in particolare le privatizzazioni, nonostante tutte le polemiche è stata una continuazione della stessa tendenza. i suoi effetti positivi sono sotto gli occhi di tutti. La Borsa di Parigi è diventata più matura e più internazionale. L'estensione del settore

pubblico in Francia, che era considerevole fin dai tempi di De Gaulle, è stata durevolmente ridotta. Gli interlocutori privati dello Stato hanno cominciato a conquistarsi una maggiore autonomia, anche se la battaglia contro le tentazioni interventiste è un processo lungo. Le interferenze restano, ma perfino il clamore suscitato dai recenti scandali è il segno di un'evoluzione. Abituata da tempo ad un insano connubio tra politica ed alta finanza, tra politica e grande industria la Francia ha spezzato i circuiti istituzionali classici attraverso i quali si esprimeva la prevaricazione politica. A poco a poco lo stesso sviluppo delle aziende e dei mercati impone la ricerca di nuove regole di trasparenza, di nuove divisioni dei compiti. L'insider trading fino a pochi anni fa non esisteva neppure come fattispecie di reato, oggi fa tremare un governo. E un partito come quello di Mitterrand deve adottare come modello di riferimento per una sana regolamentazione dei mercati il modello anglo-americano, invocando per fare luce e pulizia una riforma degli organi di vigilanza della Borsa ispirata alla Securities Exchange Commission statunitense. Gli stessi lati oscuri del processo di privatizzazione francese non sono soltanto il frutto della cupidigia o della prepotenza dei politici. La preoccupazione che sta alla base dei nuclei duri riguarda l'opportunità di restituire grandi aziende alle regole del mercato, stabilizzando nel contempo il loro assetto proprietario per evitare che i centri vitali dell'economia nazionale siano sotto la continua minaccia di scalate in Borsa. Il dibattito qui evocato meriterebbe ben altro spazio, poiché vi è chi ritiene che le Opa siano sempre e comunque un fe-

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nomeno salutare, e che il rimedio per limitare l'instabilità sia peggiore del male. D'altra parte la Francia non è l'America, anche nel senso che per le sue stesse dimensioni un paese europeo è più sensibile ai problemi di sovranità nazionale sollevati dalle scorribande di Borsa. Nel presentare il suo disegno di legge contro i nuclei duri, Bérégovov ha avuto cura di conservare per lo Stato un diritto di

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veto sulle acquisizioni straniere delle privatizzate. E qualche volta i francesi quando per esempio guardano alla Germania - hanno l'impressione di essersi spinti anche troppo oltre sulla via della liberalizzazione finanziaria. In ogni caso le privatizzazioni francesi, con tutte le loro contraddizioni, hanno voluto esplorare una zona di compromesso tra dirigismo economico e anarchia dei mercati.


Privatizzare in Italia di Enrica Del Casale

Il presente scritto si propone di esaminare le privatizzazioni nel sistema a partecipazione statale e le procedure seguite nelle ultime vendite. A tale scopo si distinguerà, innanzitutto, il fenomeno della privatizzazione delle imprese a partecipazione pubblica da altri fenomeni similari. Quindi, per spiegare la dinamica delle privatizzazioni, si procederà ad una breve analisi del settore pubblico industriale italiano che - nel raffronto con l'esperienza estera, in particolare di Gran Bretagna e Francia - servirà a meglio comprendere non solo la procedura seguita per le vendite, ma anche i problemi ad essa sottostanti e gli effetti delle privatizzazioni in Italia. Per un'analisi procedurale esauriente non si è potuto tralasciare, infine, una breve disamina delle problematiche scaturenti dall'appartenenza dell'Italia alla Comunità europea e in particolare, degli interventi della Commissione CEE in materia di privatizzazicne. In via generale, si ricòrda che la conformazione prevalente, in Italia, dell'impresa pubblica in società per azioni non toglie che di privatizzazione - pur se, di solito, in termini diversi - si parli anche con riguardo alle altre imprese pubbliche. Così, se per le imprese in gestione diretta vi è la tendenza verso la trasformazione in ente pubblico (ad es. delle ferrovie), per gli enti pubblici il dibattito attuale registra varie proposte

di trasformazione in società per azioni o in enti capogruppi, con società dipendenti (es. proposte di riforma dell'Enel e delle banche pubbliche). Si deve considerare, inoltre, che la privatizzazione - quale passaggio di proprietà di imprese pubbliche o di quote azionarie di imprese a partecipazione pubblica, dal settore pubblico, o controllato dai pubblici poteri, al settore privato - è solo un aspetto del fenomeno più ampio di modificazione dell'intervento pubblico in economia. In una nozione più estensiva di privatizzazione si possono comprendere, infatti, altri fenomeni e tendenze volti non solo all'utilizzazione di strumenti di intervento statale più agevoli per gestire imprese (privatizzazione delle forme giuridiche), ma anche alla modificazione dei compiti ed all'adozione di nuovi strumenti nella realtà operativa dell'impresa. Si deve tuttavia av• vertire dell'esistenza, almeno da un punto di vista pratico, di una stretta connessione tra la nozione più restrittiva di privatizzazione, con riferimento al concetto di proprietà, e la nozione più ampia di privatizzazione che individua forme e fenomeni più estesi che investono la modificazione del ruolo dell'intervento statale e dei confini tra pubblico e privato in economia. Spesso queste ultime misure preparano la privatizzazione vera e propria della proprietà pubblica. Si pensi, ad esempio, nel sistema a partecipazione sta-

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tale, all'adozione, nella gestione dell'impresa, di comportamenti tipici del settore privato, nonché all'utilizzazione di nuove formule contrattuali ed, in particolare, alla diffusione degli accordi di collaborazione tra imprese. Tra essi, le sociteà di venture capital, in forte espansione, sono finalizzate non solo a sostenere l'imprenditonalità interna, ma anche a catalizzare capacità innovative esterne ai gruppi. A volte, tali società prefigurano la vendita di un'attività per costituire una società mista paritaria al fine di operare in modo più competitivo nel mercato internazionale, di favorire l'innovazione, di ottimizzare le forniture. Tra gli altri esempi si ricordano l'accordo tra SG5 (litiStet) e la società francese Thompson e quello fra il gruppo ENI e la Montedison per l'Enimont. Quest'ultimo accordo prevede un assetto paritetico tra ENI e Montedison (40% ENL, 40% Montedison, 20% attraverso ricorso al mercato) ed effettivi poteri per l'ENI anche nelle ipotesi, previste nell'accordo stesso di un eventuale mutamento, fra tre anni, dell'assetto paritetico. E' esclusa, tuttavia, una dismissione totale dell'ENI dal settore chimico'.

DIMENSIONI DELLE PRIvATIZZAZIONI Il ricorso qualitativamente e quantitativamente differente allo strumento dell' impresa pubblica per gestire attività industriali modula diversamente l'iniziativa ed i poteri dei Governi in tema di privatizzazione nei diversi paesi e caratterizza l'esperienza italiana in modo particolare. Assumono rilievo, così, le differenze nel regime dell'impresa e la peculiarità del sistema italiano: il settore 60

pubblico industriale italiano ha, infatti,' origini e natura molto differenti dalla Francia e dalla Gran Bretagna, gli altri due paesi europei che maggiormente hanno fatto ricorso alla privatizzazione. Quanto alle origini esso è frutto, in Francia, principalmente delle nazionalizzazioni dell'immediato dopoguerra e del 1982; nel Regno Unito, delle nazionalizzazioni del dopoguerra. In Italia, il settore pubblico industriale trova origine nel salvataggio delle tre principali banche, compiuto nel 1933. Con riguardo alla natura giuridica, in Italia prevale nettamente il tipo di impresa pubblica organizzata in forma di società per azioni. Le nazionalizzazioni del dopoguerra, in Gran Bretagna e in Francia, furono realizzate con l'istituzione di enti pubblici economici (public corporations ed établis-

sements publics à caractère industriel el commercial). Quando più tardi si è sviluppato il fenomeno delle società dipendenti dagli enti pubblici (lzmited companies. in Inghilterra, e /iliales in Francia) queste, in genere, sono rimaste interamente pubbliche anche se organizzate come società per azioni: la partecipazione azionaria era assente o minoritaria. In Italia, invece, alla natura giuridica privata corrisponde la sostanza (mista). Nelle società dipendenti dai tre principali enti capigruppo (IRI, ENI, EFIM) si registrano le più varie combinazioni di pubblico e privato. Tali combinazioni sono, poi, cambiate nella storia delle partecipazioni statali, a seconda dell'interesse dei privati a partecipare o meno, interesse determinato, soprattutto, dalle prospettive di reddito e, quindi, da quelle economiche generali, caratterizzando il sistema - anche per le diverse politi-


che di acquisizione e di vendita perseguite, nel tempo, dagli enti di gestione - per la sua fluidità. Proprio questa caratteristica fa sì che la attività di smobilizzo sia tutt'altro che nuova nel sistema delle partecipazioni statali, anche se cambiano, nel corso degli anni, le motivazioni e le ragioni del ricorso agli smobilizzi: da smobilizzi di investimenti improduttivi a vendite con scopi di ristrutturazione e riorganizzazione industriale, nonché di concentrazione delle risorse, a privatizzazioni per la ridefinizione dell'intervento e del ruolo dello Stato nell'economia, a cessioni come strategia di risanamento finanziario. Passiamo a considerare l'entità e le dimensioni delle privatizzazioni italiane. Se, nel periodo 1959-1982, le privatizzazioni hanno riguardato, soprattutto, aziende minori, dal 1983 ad oggi si sono avuti smobilizzi al ritmo di 4-5 all'anno. Nel 1983-'85 sono affluiti circa 3.764 miliardi alle partecipazioni statali, grazie a cessioni totali o parziali promosse dall'Ivi. Per il 1986, la « Relazione illustrativa degli atti ministeriali di indirizzo e delle direttive », presentata dal Ministro delle partecipazioni statali al Parlamento 2 , valuta in 1.625 miliardi di lire italiane i realizzi finanziari a seguito delle privatizzazioni. Per il 1987 la stessa relazione valuta in oltre 2130 miliardi l'entrata per le cessioni effettuate durante l'anno. A partire, quindi, dal 1983 il processo di privatizzazione in Italia, si è notevolmente accelerato, pur costituendo solo un quarto e un quinto di quelle inglesi e francesi. Si è trattato, però, nella maggioranza dei casi, di operazioni di cessione di quote di minoranza o di piccole aziende. Le o-

perazioni di privatizzazione che hanno provocato un vero e proprio dibattito politico e sindacale, ma, soprattutto, hanno messo in rilievo i problemi connessi alla procedura di vendita, sono solo pochi esempi che concernono la cessione a terzi di interi comparti o imprese dopo trattative più o meno lunghe. In tale contesto, la parziale privatizzazione di Mediobanca che prevede il collocamento del 50% del capitale tra azionisti medio-piccoli, rappresenta un tentativo di ampliare il discorso, sul modello franco-inglese, rispetto alle precedenti fasi di privatizzazione « diretta », con vendita a un solo acquirente e limitata al settore industriale. La nuova strategia di privatizzazione, pur tra le differenti politiche attuate dagli enti di gestione, confluisce nel perseguimento di scopi e finalità comuni. Innanzitutto, si vuole ottenere un alleggerimento della dipendenza finanziaria da fonti esterne. Inoltre. soprattutto con le privatizzazioni totali, si vuole conseguire la liquidazione di aziende non ritenute strategiche, liberando risorse per i settori a tecnologia avanzata. Infine, con le privatizzazioni parziali, si vuole ripristinare una più ampia partecipazione del capitale privato nelle aziende. Queste finalità, insieme all'analisi della dinamica procedurale ed ai soggetti che vi intervengono, servono a spiegare i motivi dell'accelerazione del processo di privatizzazione in Italia.

PROCEDURE DI PRIVATIZZAZIONE

in Gran Bretagna la procedura di privatizzazione, articolata in undici fasi, si compone di una parte che attiene alle 61


finalità, per accertare che gli smobilizzi rientrino nella politica del governo e, poi, della parte relativa alla vendita vera e propria. In Francia, è la Costituzione del 1958 a regolare gli smobilizzi di imprese pubbliche, attribuendo alla legge il potere di modificare l'ambito della proprietà pubblica; essa sottopone le cessioni di imprese appartenenti al settore pubblico ad autorizzazione legislativa. Così, sia in Francia sia in Gran Bretagna, sono state messe a punto dettagliate procedure di vendita. In Francia, esse sono regolate dalla legge n. 86-912 deI 6 agosto 1986. Nel Regno Unito sono disciplinate per singoli casi, ma sono, come accennato, altrettanto complesse. In Italia, non esiste alcuna chiara procedura di privatizzazione, ma vi è, nei fatti, una sovrapposizione di ruoli e di interventi di soggetti istituzionali diversi, in cui anche il potere del Ministero delle partecipazioni statali di autorizzare le vendite è oggetto di discussione e dibattito. Innanzitutto, la situazione dei diversi enti è diversa. Dai singoli statuti, infatti, emerge che l'IRI, se vuole vendere, non ha bisogno di autorizzazioni (dl. 12 febbraio 1948, n. 51); per l'ENI, queste sono necessarie nel caso di perdita del controllo sulla società (art. 4 della legge 10 febbraio 1953, n. 136); per l'EFIM (art. 2 della legge 5 novembre 1964, n. 1176) e per l'Ente di gestione del cinema (art. 4 della legge 2 dicembre 1961, n. 1330) è necessaria, in ogni caso, l'autorizzazione. Ad ogni modo, se la vendita di una società fa uscire l'ente o, secondo alcuni, il sistema delle partecipazioni statali da un settore (es. SME), allora la privatizzazione deve essere prevista nei programmi del62

le partecipazioni statali ed approvati dal Comitato interministeriale per il coordinamento della politica industriale (art. 12 della L. 675/77). A questa complessa situazione normativa si è affiancata l'esperienza suggerita dalla prassi che ha visto una lunga lotta tra Ministero ed enti di gestione il primo, ai fini di ampliare, i secondi di restringere il potere di autorizzazione delle vendite. Così, tra il 1961 ed il 1982, si possono registrare ben Otto direttive ministeriali sull'argomento. Successivamente, nel 1983 e nel 1984, con altre due direttive, venivano abrogate le precedenti e si prevedeva solamente l'obbligo degli enti di informare, preventivamente, il Ministro della vendita. A tal riguardo, il Ministro poteva col silenzio, assentire, se riscontrava la coerenza della cessione con gli obiettivi, oppure intervenire per bloccare la vendita. In tale situazione molte società sono state vendute senza neanche informa. re il Ministero che, il più delle volte, ne è venuto a conoscenza solo in un secondo momento, limitandosi, in genere, a richiedere chiarimenti all'ente di gestione interessato. La confusa situazione di diritto nella quale si svolgono le privatizzazioni, in Italia, induce non solo a riflettere sulle carenze della formazione (mancata unificazione degli statuti, sovrapposizione di norme, molteplicità e confusione degli strumenti di controllo), ma anche su come si sia in qualche modo addivenuti ad una « normalizzazione » delle procedure, in particolare, concernenti la vendita di interi settori di intervento economico, nonché quali siano le problematiche sottostanti alla realtà procedurale. I problemi sollevati dalla vendita SME 4 ,


hanno infatti portato, nelle ultime privatizzazioni (Alfa Romeo, Lanerossi, SIR) all'intervento del Cxvi e, quindi, alla richiesta, da parte degli enti di gestione, dell'assenso dei partiti di governo. I contenuti delle delibere sono di notevole interesse, sia perché fissano i parametri entro cui eseguire la vendita, sia per la portata dell'intervento Cii nell'ambito della procedura di privatizzazione. La prima delibera, deI 7 novembre 1986, relativa all'Alfa Romeo, considerato che il settore automobilistico « non presenta carattere di strategicità primaria » e che la vendita consente di liberare « risorse da destinarsi ad obiettivi più propri delle stesse partecipazioni statali », invita il Ministro « ad assumere le determinazioni di sua competenza per l'attuazione della cessione» al gruppo FIAT, di cui prende atto dell'impegno alla migliore tutela del l'occupazibne e delle altre garanzie fornite. In merito alla procedura di vendita dell'Alfa Romeo, nel suo complesso, si ricorda che l'IRI, non sostenne pubblicamente alcuna delle due offerte di vendita. La procedura ufficiale di sollecitare le offerte e gli studi su di esse fu seguita da Finmeccanica (la finanziaria che controllava l'Alfa Romeo). La prima proposta di acquisto fu formulata dal gruppo statunitense FORD che, il 30 settembre 1986, presentò una offerta ufficiale avente validità fino al 7 novembre 1987. La FIAT presentò, invece, la propria offerta il 24 ottobre 1986. Entrambe furono valutate da due società di consulenza indipendenti: la Arthur Littie, per la verifica delle compatibilità e credibilità dei piani industriali alla base

delle offerte e la First Boston Corpora-

tion, per gli aspetti economici di diretto interesse del venditore. Si deve ricordare che i sindacati furono sempre tenuti aggiornati sulle procedure di vendita e consultati (su ogni punto) nelle negoziazioni, in base all'accordo conosciuto come «Protocollo IRI ». Questo assicura ai sindacati il diritto ad essere consultati prima di ogni importante decisione dell'Istituto. Proprio a causa delle differenti procedure attivate dagli enti per l'Alfa Romeo e per la Lanerossi, la delibera Cii del 17 feb braio 1987, concernente quest'ultima società, risulta più generica, fissando solo alcune condizioni per l'acquirente. Infatti, mentre per l'Alfa Romeo l'IRI, dopo lunghe trattative con la Ford, si era accordata con la Fiat, per cui l'acquirente era indicato nella delibera, per la Lanerossi è stato l'ENI stesso, in un secondo momento, a stabilire la procedura di vendita al gruppo Marzotto. La delibera indica, quindi, le seguenti condizioni di vendita: garanzie che la società acquirente sia di dimensioni proporzionate alla Lanerossi; garanzia dello sviluppo della società venduta, della valorizzazione del marchio e del mantenimento delle sedi della direzione e della produzione, nonché del mantenimento dei livelli occupazionali. Tale delibera è stata successivamente riconfermata dal Cii'i, con una risposta. scritta sollecitata da una richiesta di interpretazione autentica della stessa, da parte dell'ENi. La procedura di vendita è stata articolata dall'ENI in tre fasi. Innanzitutto, una banca di affari internazionale, la francese Paribas (specializzata, tra l'altro, in transazioni nel settore tessile) ha avuto l'incarico di raccogliere le indicazioni delle società interessate all'acquisto, aventi al63


cuni requisiti minimi di dimensione. Successivamente, gli offerenti, impegnatisi al rispetto del segreto, hanno avuto dall'ENI documenti riservati sulla Lanerossi. Sulla base di questi le società hanno fatto una prima offerta che ha consentito all'ENI di effettuare una selezione preliminare. Infine, si è aperta una terza fase con offerte formali da parte dei richiedenti. L'ENI, scelto il gruppo Marzotto, ha così sottoposto all'esame del Ministero la proposta finale di vendita. Nel caso della SIR, le due delibere Cipi del 4 dicembre 1986 e del 28 maggio 1987 hanno approvato, di fatto, le procedure di vendita avanzate dal « Comitato per l'intervento della SIR » (Si tratta di una partecipazione statale « anomala »), impegnando alla salvaguardia dell'occupazione. La privatizzazione ha avuto come oggetto le società operative del gruppo SIR. Le clausole di vendita hanno previsto varie garanzie: l'unitarietà del gruppo per tre anni, la salvaguardia dell'occupazione, investimenti per almeno 100 miliardi e l'impossibilità di utilizzare le perdite fiscali pregresse extra gruppo. Le clausole sono state garantite con una penale di 15 miliardi « salvi ulteriori rimedi di legge ». La gara finale si è svolta tra la Gerolimich (la cui offerta base è stata presentata l'8 luglio 1988) e la Montedison (la cui offerta è stata avanzata il 12 settembre 1988) il 7 ottobre 1988 ed è stata aggiudicata alla Montedison al prezzo di 170 miliardi di lire. Peraltro entrambi i gruppi hanno manifestato la disponibilità di acquisire le restanti attività facenti capo al Comitato. Si ricorda che ai sensi delle leggi n. 25 del 5 febbraio 1982 (art. 3, ultimo comma) e n. 784 del 28 novembre 1980 (art. 64

6, 30 comma) è previsto, con riguardo alle cessioni ed alle liquidazioni del Comitato per l'intervento della SIR, un decreto di approvazione da parte del Ministero del Tesoro concernente il rendiconto finale che il Comitato deve predisporre per le somme da esso erogate°.

RILESSIONI SULLA PROCEDURA DI PRIVATIZZAZIONE IN ITALIA Una prima riflessione generale che si può trarre dalla procedura di privatizzazione consiste nel fatto che, in Italia, l'iniziativa della privatizzazione, a differenza degli altri paesi europei, non viene dal governo e non è inclusa nel suo programma, ma è fatta dagli stessi enti pubblici. In effetti, i programmi governativi del primo e secondo governo Craxi, nonché quelli dei due governi Goria, non contengono alcun cenno alla politica di privatizzazione nel sistema a partecipazione statale 7 Così, in Italia, non è solo il soggetto che privatizza ad essere differente da quello degli altri paesi (ente di gestione proprietario diretto o indiretto delle società da vendere e non istanza governativa), ma anche quello che decide la privatizzazione In Francia, la legge 86-793 del 2 luglio 1986 elenca ciascuna delle società da privatizzare. In Gran Bretagna, apposite leggi hanno individuato gli enti da privatizzare (ad esempio, il British Telecom Ad del 1984 per la British Telecom). In Italia, sono, di fatto, gli enti di gestione delle partecipazioni statali ad individuare le società da privatizzare. Lo stesso Parlamento ha riconosciuto tale potere di decisione nel documento della V Com-


missione del Senato concernente l'« Assetto del sistema delle partecipazioni statali » ( 17 febbraio 1987)", affermando che è compito del governo stabilire, con direttive, i fini delle partecipazioni statali e, quindi, anche il « campo di intervento », ma deve essere lasciato a ciascun ente di gestione, nella sua autonomia, l'individuazione delle Aziende da vendere. Inoltre, in Italia, la privatizzazione non procede entro la struttura di una chiara politica economico-industriale governativa. Così, anche per l'assenza di una politica di programmazione, gli unici indirizzi che si rinvengono al riguardo sono quelli contenuti nelle ultime Relazioni programmatiche del Ministero delle partecipazioni statali'", la cui elaborazione è in pratica frutto di una concertazione con gli stessi enti di gestione. In Italia, vi è, quindi, la netta prevalenza, nella procedura, dell'ente di gestione che decide le condizioni, le modalità, il prezzo e il momento della vendita; non esiste alcuna « procedura tipo » delle privatizzazioni. Di fatto, in Italia, per la privatizzazione non si è mai ricorso alla legge, ma solo alla approvazione delle autorità politiche.

gliono davvero privatizzare le società partecipate - considerate anche le difficoltà della Borsa - essi devono tornare a far affidamento sui mezzi finanziari dei gruppi industriali privati e solo quando la convenienza all'acquisto (e le dimensioni delle società da vendere) sia tale da rendere superflua qualsiasi rete di protezione pubblica, ai risparmiatori''. Ad ogni modo, soprattutto il caso Alfa Romeo, nonché il contenuto stesso delle delibere Cii, dimostrano che vi sono un certo numero di « costrizioni » sull'intervento statale in Italia che hanno ancora un impatto rilevante sulle decisioni concernenti la privatizzazione come, pure, sulla sua natura. In tal senso, si può affermare che in Italia la privatizzazione non ha alterato fondamentalmente il ruolo dello Stato nella direzione o nella prmozione delle politiche industriali. Le vendite sono effettuate solo dopo che vi sono garanzie perché alcuni obiettivi politici e sociali non siano intaccati. Questi trovano conferma nelle stesse delibere Cipi: livelli occupazionali, sviluppo dell'impresa, interventi, regionali, ecc.

LE PRIVATIZZAZIONI E L'INTERVENTO

L'assenza di un processo di direzione delle privatizzazioni porta a riflettere su che condizionamenti - uno strutturale, l'altro finanziario - che incidono sull'esperienza italiana. Spesso, la motivazione sottostante alla privatizzazione - si pensi, soprattutto, all'Alfa Romeo - consiste nella necessità di disporre di notevoli capitali per competere con il mercato internazionale. Ora né lo Stato, né i mercati finanziari italiani risultano in grado di raccogliere questi fondi. E' evidente, quindi, che se gli enti di gestione vo-

DELLA COMMISSIONE CEE.

La politica di privatizzazione, sia in Italia che in altri paesi della Comunità, ha aperto un ampio contenzioso con la Commissione Cee in materia di violazione degli articoli 92-94 (aiuti concessi dagli Stati) del Trattato istitutivo. Tali articoli sanciscono la incompatibilità con il mercato comune degli aiuti statali alle imprese, prevedono le eccezioni e istitui scono un procedimento di esame in se de comunitaria degli aiuti. In particola

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re, il sistema di controllo degli aiuti di Stato previsto dal trattato vieta gli aiuti a carattere selettivo - che favoriscano, cioè, taluni settori o talune imprese - indipendentemente dalla forma con la quale sono erogati ed alla condizione che si tratti di risorse provenienti da fondi pubblici di qualunque natura. Il divieto di aiuti è assoluto, dato che il pregiudizio sulla concorrenza tra i paesi membri può essere tanto reale quanto potenziale, ma viene temperato da tutta una serie di criteri derogatori, in virtù dei quali la effettiva necessità di un paese di concedere degli aiuti dà alla Commissione la possibilità di considerare compatibili con il Trattato i provvedimenti posti in atto (art. 29, par. 23)l2. Ora, in entrambe le operazioni di vendita, esaminate (Alfa Romeo, Lanerossi) si è registrato l'intervento della Commissione Cee (servizi di concorrenza), volto ad accertare l'eventuale violazione dei suddetti articoli e, quindi, se le operazioni di vendita potessero configurare una qualche forma di aiuto di Stato alle imprese nazionali che potesse falsare o minacciare di falsare la concorrenza. In proposito, l'intervento della Commissione mira ad accertare sia l'assenza di elementi di aiuto di Stato nelle operazioni di privatizzazione; sia, in presenza di eventuali aiuti non palesi, la loro eventuale compatibilità comunitaria alla luce della situazione produttiva scaturente dalle operazioni in questione; sia, infine, la esistenza e la portata di eventuali futuri aiuti per gli investimenti previsti nell'ambito delle operazioni di privatizzazione. Ma vediamo, in dettaglio, le obiezioni della Commissione alle singole operazio• 66

ni. Nella operazione di acquisizione da parte della FIAT della Società Alfa Romeo, la Commissione ha eccepito, nell'ottobre 1987, che l'attuale valore del prezzo di acquisto pagato dalla FIAT per l'Alfa Romeo è stato notevolmente inferiore al valore di mercato di Alfa Romeo al momento della sua acquisizione, ravvisando nella sovvenzione del prezzo d'acquisto un elemento di aiuto non compatibile con le norme del Trattato. Ma la procedura attivata in base all'art. 93, par. 2, ha anche un'altra motivazione. Secondo la Commissione l'Alfa Romeo avrebbe beneficiato di un ripianamento di perdite, con fondi pubblici, pari a circa 206 miliardi di lire destinato ad assorbire le perdite della società accumulate nel 1984 e nel primo semestre del 1985.

In conformità con i principi generali in materia di partecipazioni pubbliche assun te nel capitale delle società' 3 , la Commissione, alla luce dei risultati finanziari dell'impresa (perdite incessanti dal 1979, contrazione delle quote di mercato, sovraccapacità e cospicuo indebitamento) non ha considerato tale erogazione un conferimento di capitale di rischio « conforme alla normale prassi di una società in una economia di mercato »14. L'iniziativa della Commissione è in stretta connessione, del resto, ai problemi di concorrenza che le industrie automobilistiche incontrano a livello comunitario, nonché al fatto che il gruppo FIAT, negli ultimi anni, ha realizzato tra il 34% ed il 43% del suo fatturato sui mercati CEE. Tale situazione è, d'altra parte, esplicitamente richiamata dalla Commissione nella sua comunicazione 5 .


La Commissione ha richiesto informazioni complementari, in secondo luogo, in merito al trasferimento della Lanerossi al gruppo Marzotto. Qui l'intervento della Commissione si è inserito in un conten zioso che aveva origini più lontane e riguardava, in particolare, l'applicazione della legge 675/77 a favore della Lanerossi e gli aiuti concessi, dal 1983, a quattro aziende tessili del gruppo (Confezioni Monti, Elleerre Confezioni, Intesa, Filottrano), considerate beneficiarie di ripianamenti di perdite e ricostituzione del capitale sociale. L'intervento della Commissione CEE nell'operazione di privatizzazione ha avuto, ad oggetto, così, la compatibilità comunitaria dell'operazione di vendita sia con riguardo all'applicazione della legge 675/77 alla società Lanerossi (ai sensi della quale si prevedeva un progetto di aiuto relativo alla società Lebolemoda e alla Lanerossi di Vicenza), sia, in particolare, con riguardo al problema del ripianamento delle perdite delle quattro società del grup.. p0.

Nessuna di queste ultime società ha seguito il destino delle attività Lanerossi, cedute al Gruppo Marzotto. Le ultime tre sono state comunque ricorivertite e vendute a privati, mentre la Confezione Monti è ancora nel gruppo ENI' 3 Si ricorda che quando è riscontrata una violazione delle norme del Trattato in materia di aiuti, la Commissione può decidere che lo Stato interessato debba sopprimere o modificare l'aiuto in questione nel termine da essa fissato. Se lo Stato risultasse inadempiente la Commissione stessa o qualsiasi altro Stato interessato può adire direttamente la Corte di giustizia (art. 39, par. 2, 2 ° comma)' .

L'intervento della Commissione sulle privatizzazioni non è isolato all'Italia. In Gran Bretagna un caso ancora aperto riguarda la vendita della Rover, ex industria statale, alla British Aerospace. Viene eccepita la compatibilità con le regole di concorrenza del versamento di fondi pubblici per 800 milioni di sterline. In Francia, la Commissione ha aperto, di recente, la procedura di cui all'art. 93, par. 2, per la trasformazione della Renault da società a statuto speciale in persona giuridica sottoposta al normale diritto delle società (privatizzazione della forma giuridica) con riferimento, in particolare, al progetto del governo francese di rimborsare 12 miliardi di franchi di debiti contratti dalla Renault nei confronti della banca di diritto pubblico Crédit NationaP°. Ma l'intervento della Commissione nei confronti delle privatizzazioni francesi è di più ampio respiro, investendo la legge del 1986 (art. 10) sulle privatizzazioni. Al riguardo, sono state richieste, al governo francese, precise garanzie circa la parità di trattamento, per tutti i cittadini Cee, nell'ambito delle privatizzazioni. Si contesta, in particolare, la legalità della clausola di salvaguardia del 20%, che costituisce la quota riservata ai potenziali investitori esteri in caso di privatizzazione. Tale clausola, prevista nella misura del 15% anche per le privatizzazioni inglesi, è ritenuta incompatibile con il Trattato (artt. 52, 58 e 86) ° . Sembra così che ai condizionamenti interni a cui è soggetta la politica di privatizzazione, siano essi dovuti alle variabili socio-economiche (ad es. ruolo dei prezzi, crisi economica) od a quelle istituzionali (ad es. estensione dei contro!-

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li, rapporti col governo) si venga ad aggiungere un altro condizionamento, quello esterno, dovuto all'intervento comunitario. Questo non si limita a dettare norme e direttive, ma incide o può incidere, come si è visto in materia di aiuti, nel procedimento stesso della privatizzazione. La reale portata di tale intervento travalica in certo qua! modo 1' oggetto della nostra analisi e si innesta in quella fase di cambiamenti istituzionali, interni e comunitari, che preparano la piena realizzazione del -mercato comune nel 1992.

IL PARADISO DELLE PRIVATIZZAZIONI

Dall'analisi svolta si possono trarre alcune considerazioni sulla politca delle privatizzazioni in Italia e formulare una prima valutazione degli effetti da questa prodotti. Innanzitutto, si deve osservare che i proventi delle privat.izzazioni di società a partecipazione statale non affluiscono nelle casse del Tesoro, come in altri Paesi, ma vanno direttamente agli enti di gestione o alle finanziarie di settore. La privatizzazione di imprese a partecipazione statale, in Italia, genera, quindi, una riduzione del « deficit » di bilancio solo indirettamente, attraverso la riduzione dei conferimenti ai fondi di dotazione o di sovvenzioni a particolari settori. Inoltre, come si è visto, la realtà del mercato interno e le difficoltà della Borsa fanno sì che gli acquirenti delle imprese da vendere (si pensi sia all'Alfa Romeo sia alla Lanerossi) siano, in genere, grandi gruppi privati, mentre i risparmiatori sono relegati al margine del processo di privatizzazione. In Francia ed in Inghil68

terra, invece, le privatizzazioni - anche per i meccanismi di agevolazione messi a punto dai rispettivi governi - hanno dato notevole impulso all'azionariato popolare e creato numerosi nuovi azionisti. Infine, la mancanza di una organica politica di governo concernente l'intervento pubblico in economia dimostra che il processo di privatizzazione si è ampliato essenzialmente per i bisogni finanziari dei gruppi pubblici, per la necessità degli stessi di competere con le trasformazioni del mercato internazionale e le esigenze di innovazione tecnologica, attraverso una riconquistata autonomia finanziaria. In Italia, quindi, le privatizzazioni producono un ulteriore indebolimento del potere governativo in direzione dell'economia sia nei confronti dei gruppi privati (che diventano sempre più potenti) che degli stessi gruppi pubblici (che acquistano maggiore autonomia e vedono allentare i vincoli derivanti dai condizionamenti del Tesoro e dai controlli della Corte dei Conti) 20 Sembra, così, emergere un paradosso delle privatizzazioni: le vendite rafforzano gli Enti e li rendono più autonomi. Questo fenomeno può condurre ad una nuova frantumazione del processo di decisione della politica industriale nel contesto generale partiti-governo-sindacati. In questo senso, le privatizzazioni sembrano configurare un più ampio sviluppo ed una maggiore articolazione delle relazioni e delle politiche istituzionali. Tale fenomeno, da un lato, rientra nella più generale tendenza dell'ultimo ventennio verso una più ampia diffusione del potere decisionale (basta ricordare la creazione delle regioni, il rafforzamento dei poteri del Parlamento), dall'altro, può contribuire ad aggravare la conseguente difficoltà a formu.


tare decisioni su strategie e politiche industriali e di intervento nell'economia chiare, coerenti e tempestive. Un'ulteriore considerazione deriva dall'esperienza comparativa. Questa ha comportato, spesso, un allargamento della formula delle imprese a partecipazione pubblica, sia attraverso le privatizzazioni parziali, sia attraverso l'adozione di strumenti di controllo « ad hoc » nelle società privatizzate (golden share in Inghilterra, action specifique in Francia). Si tratta, in genere, di un'azione a diritto privilegiato speciale che consente al governo di avere un proprio amministratore e di esercitare un potere di veto relativo a talune decisioni importanti: fusioni, cessioni, mutamenti di attività, ecc. Dall'esempio comparativo si può quindi notare un'ulteriore spinta verso la diffusione del sistema misto in economia e la validità della funzione che esso assolve pur nelle mutate condizioni. Non si deve dimenticare, infine, che la privatizzaziorle ha prodotto nuovi vincoli gravanti sulle società privatizzate. Così, alcune imprese sono state sottoposte ad obblighi in materia di approvvigionamento o ad una politica di prezzi « nell'in-

teresse pubblico », o a vincoli derivanti dalla garanzia del livello di occupazione. Quello che la privatizzazione sembra contribuire a mettere in discussione è, da una parte, il rapporto esistente, nell'esecuzione dei compiti pubblici, tra controlli diretti e regolamentazione delle imprese private, dall'altra, il modello di impresa pubblica sottoposta prevalentemente ai diritto pubblico. La dicotomia pubblico-privato è, quindi, una falsa questione. Pubblico e privato interagiscono in modo complesso e continuo e producono un vasto settore misto con poteri e frontiere indeterminate. Non si tratta tanto di dualità, quanto di un « mosaico », di una molteplicità di relazioni, spesso mal definite, ambigue e mutevoli. La difficoltà consiste nel •gestire questo costante e profondo processo di interpenetrazione e nel trovare l'equilibrio ottimale nell'allocazione delle risorse tra intervento pubblico e sfera privata. La necessità di privatizzare è, spesso, inversamente proporzionale alla capacità di instaurare nuove regole di gestione e di mettere in atto misure adeguate ad aumentare la flessibilità dell'economia ed a ridurre i « deficit » di bilancio.

Note

2 La relazione deve essere presentata dal Mini. stro delle Partecipazioni statali alla Commissione parlamentare ai sensi del terzo comma dell'art. 13 della legge 12 agosto 1977, n. 675.

Sulla necessità di assicurare la compatibilit dell'accordo con la specifica normativa dell'ENI si veda la direttiva del Ministro delle parteci. pazioni statali del 5 agosto 1988. Per la preventi.va pronuncia del Cii sulla scelta tra le diverse opzioni del contralto, al termine del primo triennio previsto dall'accordo, si veda la delibera Cipi del 2 dicembre 1988, in G.U. 27 di. cembre 1988, n. 302.

Per un aggiornamento dei dati e delle problematiche relative alle privacizzazioni inglesi e francesi si vedano V. WRIGHT, Privatizalions in Great Britain e M. DURIJPTY, Les privalisaizons en France, relazioni presentate al Seminario sulle privatizzazioni, organizzato dall'Istituto di diritto pubblico, Facoltà di Girusprudenza, dell'

69


Università di Roma <'La Sapienza », il 24 novembre 1987, in « Rivista trimestrale di diritto pubblico », n. 1, 1988, p. 44 e p. 86 Ss. La .SME è una società dell'IRi che opera nel settore della produzione e distribuzione alimentare. Nella primavera 1985 fu raggiunto un accordo per la vendita della società tra l'IRI e un importante gruppo agro-alimentare. Tuttavia l'accordo ha subito incontrato opposizioni. In particolare, il Governo, sebbene d'accordo in via di principio con la vendita SME al settore privato, ha sollevato questioni sulla procedura ed ha richiesto che fossero considerate anche altre offerte. Intanto, richiesto l'intervento del Cipi, con delibera deI 27 maggio 1985 venivano impartite direttive in ordine alla disniissione delle Imprese a partecipazione statale operanti nel settore alimentare. L'liti, coerentemente con le richieste governative riaprì il processo di vendita che, tuttavia, da allora, non si è più concluso. Anzi è intervenuta, di recente, una nuova delibera del Cii'i (1° dicembre 1988) che considera strategico :per le partecipazioni statali il settore alimentare, modificando così la posizione espressa con la precedente delibera. ' Si ricorda che il Comitato, istituito con la finalità di ristrutturare, cedere o liquidare le attività chimiche, doveva adempiere al suo compito entro il 31 ottobre 1981. Come molti altri organismi pubblici l'esistenza del Comitato si è protratta. Comunque in questi anni, attraverso le cessioni, le società del gruppo SIR sono scese da 163 a 53 (di cui 31 in fase di liquidazione). Il Comitato è sottoposto alla vigilanza dei Ministeri delle partecipazioni statali e dci Tesoro. 6

Per i'ànalisi procedurale del testo si sono seguiti i criteri di S. CASSESE, Le privatizzazioni in Italia, relazione al Seminario sulle privatizzazioni, cit., p. 32 e seg.. Per una indagine più ampia sugli antecedenti storici e sui diversi tipi di privatizzazione E. DEL CASALE, Le privai izzazioni in Europa, Milano, CIRTEC, Collana studi e monografie, 1987, p. 67 e seg. Si ricorda che le dichiarazioni programmatihe del primo e secondo governo Craxi furono pronunciate, rispettivamente, il 9 agosto 1983 ed il 5 agosto 1986, quelle dei due governi Goria il 30 luglio 1987 ed il 20 novembre 1987. Innova tale consuetudine il recente documento programsnatico allegato alle dichiarazioni. del. 70

Presidente del Consiglio De Mita. Questo tidefinisce il ruolo delle partecipazioni statali, auspica una maggiore presenza di risparmiatori privati nel loro azionariato ed esclude « vendite di attività se non quelle non ritenute essenziali allo svolgimento del ruolo » che le partecipazioni statali devono svolgere nel Mezzogiorno, nei servizi, nei sistemi infrastrutturali e dell'impiantistica. 'Nello stesso documento si rinvia, altresì, ad un successivo impegno del governo, la definizione di nuove regole .per gli enti di gestione e le partecipazioni statali anche ai fini delle vendite. Al riguardo, si veda Camera dei deputati, Seduta di martedì 19 aprile 1988, .p. 46. A tal proposito si veda S. CASSESE, Le pri-

vatizzazioni in Italia, cit., p. 36. " Senato della Repubblica, Documento approvato dalla 5a Commissione permanente, A con-

slusione dell'indagine Conoscitiva sull'assetto del sistema delle partecipazioni statali, 17 febbraio 1987, p. 14. iO Si vedano, in particolare, le 'Relazioni programmatiche delle •partecipazioni statali dal 1985 ad oggi. Lo stesso documento programmatico De Mita costituisce solo un primo tentativo di definire l'ambito in cui effettuare le privatizzazioni. Cfr. nota 7.

Il In tal senso l'intervento di R. GALLO, Privatizzazioni e /alsi rimedi, in Il Sole-24 Ore,

dicembre 1987, che affronta altri aspetti della problematica finanziaria anche in relazione alle recenti esperienze di 'privatizzazione in Francia. IS

Sugli aiuti di stato si vedano: U. LEANZA,

Saggi di diritto delle Comunità europee, Napoli, Giannini, 1981, p. 8 ss. e A. PAPPALAR.DO ,

Le linee generali della politica di concorrenza in tema di aiuti statali, in AA. VV., Manuale di diritto comunitario, Torino, UTET, 1984, Vol. Il, p 471 ss. ' In proposito si richiama la comunicazione del 9 settembre 1984 della Commissione agli Stati membri in tema di assunzione di partecipazioni delle autorità pubbliche nei capitali delle imprese, in Bollettino CEE, settembre 1984, pp 92-95. Sulla procedura per l'attuazione dell'art. 93, in particolare sull'attivazione ex officio della procedura di cui al par. 2 (aiuti non notificati dagli Stati, ma venuti a conoscenza


della Commisione che apre la fase contenziosa

23 dicembre 1988. Si rammenta che nel pro-

del procedimento di controllo) si rinvia ad U.

getto di risanamento siderurgico, approvato con

LEANZA, Il procedimento di controllo in materia di aiuti e l'art. 93 del Tratta/o Cee, in U. LEANZA, Saggi di diritto delle Comunità europee, cit., pp. 716-771.

delibera Cii'i il 14 giugno 1988, si prevede non

4

Per la comunicazione della Commissione a-

solo un nuovo assetto del settore, ma si ipotizano la chiusura di alcuni itabilimenti e la privatizzazione di altri. '7

Con riguardo agli effetti della decisione del-

gli interessati diversi degli Stati membri del-

la Commissione sulla compatibilità o meno de-

l'apertura della procedura di cui all'art. 93,

gli aiuti con il Trattato si rinvia a U. LEANZA

par. 2, 1° comma, si veda GUCE, n. C. 276, 15

Il procedimento di controllo

ottobre 1987, p. 5.

GNANL-IVI. WAELBROECK,

Nell'aprile 1988, sempre nel settore auto, si è aperto un nuovo contenzioso relativo al finanziamento all'Alfa Romeo di 408 miliardi di lire da iparte di FLNMECCANICA, erogati, nel giugno 1986, per ricapitalizzare la società automa-

....

cit. e A.

FRI-

Disciplina della concor-

renza nella Cee, Napoli, Jovenc, 1983, p. 160

Ss.

Le comunicazioni della Commissione sono, per la Rovc'r, in Guce, n. C. 106, 22 aprile 1988, p. 2; per la Renault, in GUCE, n. C. 39, 11 febbraio 1988, p. 3.

'bilistica. La procedura concernente il caso FIAT-

'" A difesa della legittimità di queste misure è

ALFA si è così estesa agli aiuti dcl 1986, quan-

invocato l'art. 223 dcl Trattato, secondo il qua-

do erano ancora in corso i negoziati per la ven-

le ogni Paese membro .può adottare « i provve-

dita dell'Alfa Romeo.

dimenti ritenuti necessari » alla tutela degli in

La Commissione è intervenuta, di recente,

teressi essenziali della propria sicurezza ». La

anche sul piano FINSIDER di risanamento della

legge n. 86-912 del 6 agosto 1986, concernen-

8

Journal Of-

siderurgia a partecipazione statale, in quanto i

te le privatizzazioni francesi, è in

sussidi all'acciaio sono vietati, in tutta la Comu-

ficiel, 7 aoùt 1986, p. 9695.

nità europea, dal 1 0 gennaio 1986. Si veda, al

20

riguardo, la Decisione della Commissione del

Le priva/izzazioni in Italia, cit., p. 38.

Per quest'ultimo aspetto si veda S. CASSESE,

71.


La nuova City di, Loretta Napoleoni

Durante l'ultimo decennio la politica di li. bero mercato perseguita dal presidente Reagan e dalla signora Thatcher, il sorgere della potenza finanziaria del Giappone e l'uso della telematica hanno rivoluzionato la struttura dei mercati finanziari mondiali. Da New York a Tokyo, da Tokyo a Londra e da Londra a New York esiste ormai un unico mercato. Il processo di globalizzazione inizia nel 1975 con la deregolazione della borsa di New York e si chiude, undici anni dopo, con la liberalizzazione dello Stock Exchange di Londra. In America, la riforma di Wall Street erode subito il vecchio e rigido sistema degli operatori finanziari, dando la possibilità ai maggiori investitori istituzionali (banche commerci ali americane e straniere) di agire anche come società finanziarie internazionali. Sull'onda della liberalizzazione, i nuovi giganti della finanza sviluppano un fitto sistema di servizi di investimento che copre diverse aree geografiche e che viene messo a disposizione dell 'irìvestitore nazionale e presto anche di quello straniero. Quest'ultimo, specialmente verso la fine degli anni Settanta, ha infatti iniziato a spostare grossi capitali oltre oceano, attratto in parte dalle condizioni favorevoli di investimento negli Stati Uniti ed in parte dall'efficienza e competitività del mercato finanziario. Specialmente in Europa la concorrenza di Wall Street non tarda a farsi sentire un 72

po' dappertutto, tuttavia è alla borsa di Londra, la più dinamica ed internazionale del vecchio continente, che se ne avvertono i colpi più duri. Molti mercati internazionali infatti, quali, ad esempio, quello delle azioni dell'oro sud africano, che tradizionalmente si ubicavano nella capitale inglese, cominciano a spostarsi a New York, attirati dalla competitività delle commissioni americane. Sul mercato internazionale delle azioni inoltre, l'efficiente sistema di distribuzione americano raggiunge presto aree geografiche, quali il sud est asiatico e l'Africa, tradizionalmente controllate da compagnie inglesi che presto cominciano ad incontrare difficoltà nel piazzare azioni britanniche presso investitori stranieri. Alla fine degli anni Settanta la saturazione del mercato domestico spinge i giganti finanziari newyorkesi alla ricerca di un nuovo mercato dove continuare ad espandersi. Nel 1979 l'abolizione delle restrizioni sui cambi e l'avvento del thacherismo creano nel Regno Unito le condizioni ideali per una riforma finanziaria simile a quella americana. La scelta cade quindi sulla borsa di Londra che sembra avere tutte le caratteristiche necessarie per diventare un mercato finanziario internazionale: è la prima in Europa ed è situata geograficamente tra Tokyo e New York. Esiste un soio ostacolo, la testarda opposizione dei membri dello Stock Exchange che vdono nel processo di libe-


ralizzazione l'abolizione di una serie di privilegi, quali la commissione fissa, su cui poggia la loro professione. Tra il 1979 ed i.l 1983 la situazione cambia. La deregolazione del mercato finanziario diventa la "conditio sine qua non" per entrare nel nascente mercato mondiale delle azioni e dei titoli che si stà sviluppando intorno ai giganti finanziari internazionali. La partecipazione a tale mercato, si pensa, sarà in grado di produrre un flusso di profitti di gran lunga superiore a quello generato dallo sfruttamento delle vecchie posizioni di monopolio finanziario. Nel 1983 si arriva finalmente all'accordo tra il governo della Signora Thatcher ed i membri dello Stock Exchange i cui punti principali sono l'abolizione del sistema della commissione fissa entro l'ottobre del 1986 e la possibilità per compagnie straniere di acquistare società accreditate presso la borsa di Londra e quindi di partecipare quale protagonisti al mercato finanziario. Tra il 1983 ed il 1986 le grosse banche britanniche insieme con quelle che già dominavano Wall Street, per assicurarsi l'entrata nel nuovo mercato, si precipitano ad entrare in alleanza o a fondersi con finanziarie accreditate presso il London Stock Exchange. Nascono i conglomerati finanziari internazionali, i così detti supermercati della finanza, che sono in grado di offrire all'investitore qualsiasi tipo di servizio richieda in qualsiasi parte del mondo.

I

NUOVI OPERATORI

DEL MERCATO

Prima della deregolazione, sul mercato fi rianziario inglese esistevano due distinti operatori: i brokers o agenti di cambio

ed i jobbers o market makers (letteralmente: creatori del mercato). I brokers agivano da consulenti ed intermediari per gli investitori. In qualità di consulenti fornivano ai clienti le necessarie informazioni per formulare decisioni di investimento, suggerivano strategie finanziarie e si occupavano della gestione di portafogli. Quali intermediari finanzirai Operavano esclusivamente sul mercato, cioè raccoglievano gli ordini dei clienti e ricercavano le migliori condizioni per metterli in atto. Per far questo si servivano dei ;obbers il cui compito era di quotare i prezzi di vendita ed acquisto (bid and ol/er) dei titoli e di portare a compimento le transazioni in borsa. I jobbers, va specificato, operavano in un sistema virtualmente non competitivo. Si pensi che per le azioni più popolari esistevano soltanto dai due ai quattro jobbers mentre sul mercato dei titoli di stato tre società di market makers controllavano più dell'85 per cento del mercato. A differenza del broker, che percepiva per ogni transazione una percentuale fissa, il jobber incorporava nella quotazione il prezzo della sua intermediazione. Teoricamente la commissione del jobber era uno degli elementi concorrenziali del vecchio sistema, essa infatti faceva variare le quotazioni di una stessa azione da jobber a )obber. Per il broker, inoltre, il cui compito era di ricercare sul mercato la migliore quotazione, essa rappresentava una delle ragioni d'essere della sua professione. In realtà negli ultimi anni di vita del vecchio sistema il mercato era diventato poco concorrenziale: da una parte si era assistito alla concentrazione delle funzioni di market makers nelle mani di un numero ristretto di società di jobbers, dall'altra i margini differen73


presa per cui lavora o per conto terzi, senza dover ricorrere ad alcuna intermediazione. Nel mercato deregolato, dunque, l'investitore istituzionale da una parte si è liberato dell'onerosa spesa delle commissioni di intermediazione e dall'altra, offrendo agli investitori i servizi di broker e market maker, ha acquistato una nuova fonte di guadagno. Il confluire in un'unica impresa dei ruoli di investitore istituzionale, broker e market maker ha però generato una serie di nuovi conflitti. Nel vecchio sistema le società di brokers facevano esclusivamente gli interessi del cliente, all'agente non era infatti permesso di prendere posizione per proprio conto di modo che l'intermediazione del broker rappresentava per il cliente una garanzia di sicurezza. Con l'avvento dei moderni conglomerati finanziari il picGrossi conglomerati finanziari intercolo e medio investitore ha perso tale ganazionali; ranzia; il sales-trader infatti ha il difficile Agency brokers; compito di fare allo stesso tempo gli inSocietà finanziarie altamente specializteressi dell'investitore istituzionale, per zate. cui lavora, e quelli dei clienti di quest'ulI moderni supermercati della finanza so- timo. Va da sé che in una situazione di no a struttura transnazionale altamente conflittualità tra i due egli tenderà a integrata e svolgono contemporaneamente favorire l'investitore istituzionale. Lo stesso si può dire dei ricercatori ed ecotre ruoli principali: generano profitti attraverso il commercio di azioni e titoli nomisti che precedentemente lavoravano (trading) per proprio conto, agiscono da esclusivamente per i clienti del broker. Si pensi, ad esempio, al caso in cui un agenti per i piccoli e 'medi investitori ed offrono una serie di servizi ai corporate ricercatore sia in possesso di informazioni clients, cioè compagnie quotate in 'borsa. che se prontamente sfruttate possono geIn qualità di membri dello Stock Excange nerare considerevoli guadagni. Nel vecè poi permesso loro di operare come mar- chio sistema se ne faceva immediatamente partecipe il cliente, nel nuovo sistema ket makers sul mercato delle azioni. In queste società la figura del broker è si deve decidere se passare l'informazione stata sostituita da un nuovo operatore il direttamente al sales-trader, con il rischio sales- trader che svolge le funzioni di che costui agisca immediatamente sul meragente, market maker ed investitore. Il cato dell'investitore istituzionale, oppure se si deve informare il cliente, con il risales-trader può infatti vendere e comschio di essere accusati di non fare gli prare azioni e titoli per conto dell'im-

ziali delle loro quotazioni si erano considerevolmente ridotti. La causa principale della perdita di competitività del London Stock Exchange risiedeva nella struttura stessa del sistema che era tendenzialmente monopolistica. Le funzioni di brokers e jobbers, infatti, poggiavano su posizioni di monopolio finanziario che rappresentavano la fonte dei loro guadagni e che per i primi era la commissione fissa e per i secondi il controllo dell'intermediazione finanziaria in borsa. La deregolazione del mercato finanziario, per garantire che si operasse in un sistema di libera concorrenza, ha annullato ambedue i privilegi. L'abolizione della rigida divisione dei ruoli •di broker e market maker ha portato alla formazione di tre nuovi operatori finanziari:

74


interessi del proprio datore di lavoro. I conglomerati finanziari, va precisato, fanno prima di tutti gli interessi dell'investitore istituzionale che li controlla, la loro attività principale è quindi il trading. che rappresenta la fonte primaria dei loro guadagni. Le funzioni di broker e marekt maker sono soltanto complementari. A 'conferma di ciò si pensi alla pratica del «Bought Deal» importata da New York dove un'intera emissione di azioni viene comprata sul mercato primario a prezzi fissi per poi essere rivenduta su quello secondario ai propri clienti a prezzi va•ria bili. La pratica di speculare sul prezzo futuro delle azioni può causare ulteriori conflitti di interesse. E' possibile infatti che il sales-trader commetta un errore e si ritrovi un'eccedenza azionaria di cui è necessario sbarazzarsene al più presto. Non è improbabile che per far questo si rivolga ai ricercatori afinch'é attraverso la presentazione di nuove strategie finanziarie ne invoglino i clienti all'acquisto. .C'è poi un terzo tipo di conflitto, già presente nel vecchio sistema e che con l'avvento dei supermercati finanziari iriternazionali si è acuito. Come i vecchi broker i conglomerati finanziari svolgono una serie di servizi per società quotate in 'borsa loro clienti, si occupano, ad esempio, del collocamento delle azioni di queste ultime ed in particolare della vendita di nuove emissioni. Allo stesso tempo però rappresentano gli interessi di una parte dei potenziali compratori, cioè i piccoli e medi investitori anche loro loro clienti. Prevenire il sorgere di questo tipo di con flitti era una delle regole etiche delle vecchie società di brokers britanniche che si impegnavano a non influenzare i clienti per firii di proprio conto. Lo stesso non

si può dire dei moderni conglomerati finanziari che come regola generale non hanno la salvaguardia degli interessi del cliente ma quella dell'investitore istituziona'le che li controlla.

AGENCY BROKER E BOUTIQUE FINANZIARIA

Il tradizionale broker che non è stato in globato nei conglomerati finanziari e che è riuscito a sopravvivere sui mercato deregolarizzato si è ristrutturato, ha scelto un campo di specializzazione e si è trasformato in « agency broker ». L'agency broker offre al cliente tutti i servizi dei vecchi brokers tra i quali la garanzia di salvaguardare esclusivamente i suoi interessi e l'anonimato che l'investitore perde quando si rivolge direttamente al market maker.

Esistono tre tipi di agency brokers: Grossi nomi del brokeraggio inglese, che operano esclusivamente su azioni Al'fa e Beta; Brokers più piccoli che godono di reputazioni ben solide quali sottoscrittori di nuove emissioni, cioè specializzati in corporate finance e brokers esperti in ricerche regionali;

Piccole e medie case di brokeraggio che si concentrano su clienti privati, cioè piccoli e medi risparmiatori che necessitano di intermediazione a causa della scarsa conoscenza del mercato. Il funzionamento dell'a gency broker è esattamente identico a quello delle vecchie società di agenti solo che oggi il broker non si rivolge più al jobber ma al market maker. Inoltre data la maggiore competitività del sistema, cioè in particolare la scomparsa della commissione fissa, l'agency broker per rimanere sul

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mercato deve costantemente difendere la sua fetta di mercato. Esiste poi un terzo tipo di operatore fi nanziario, cioè società finanziarie altamente specializzate, le così dette « boutique della finanza, che sono uno dei prodotti tipici dei mercati deregolarizzati. Le prime sono sorte a New York durante la seconda metà degli anni Settanta fondate, per la maggior parte, dagli elementi più dinamici delle finanziarie di Wall Street che hanno voluto sfruttare scompensi e mancanze nel funzionamento del nuovo mercato. Si sono sviluppate ed, in un certo senso, istituzionalizzate durante i primi anni di vita del mercato deregolato ed oggi controllano cospicui fette di mercato. Nel Regno Unito si stanno formando soltanto adesso. Tale ritardo è in parte dovuto alla strategia dei grossi conglomerati finanziari che, memori dell'esperienza sul mercato finanziario americano, hanno legato a sé per la durata di due o tre anni gli elementi 'più brillanti delle finanziarie da loro incorporate. Le "obutiques finanziarie" sono altamente dinamiche e possono fornire agli investitori servizi che né i brokers tradizionali, né i conglomerati finanziari sono in grado di offrire. Esse rappresentano per questi ultimi l'unica vera forza di erosione. Sono infatti in grado di supplire a tutte le mancanze del sistema e di fornire al cliente un servizio migliore, più efficiente e personalizzato anche se più costoso. Sul mercato finanziario londinese un esempio di boutiqi ie finanziaria di grosso successo è fornito da Ark che ha supplito alla mancanza di un sistema di interdealing-broking (intermediazione tra mar ket makers) sul mercato delle azioni. Ark ha messo a disposizione dei market ma kers un sofisticato sistema telematico at 76

traverso il quale costoro sono a conoscenza in ogni momento dei volumi e dei prezzi delle azioni principali scambiate e quindi delle posizioni altrui. Attraverso il servizio offerto da Ark i market makers possono fare mercato tra di loro, cioè vendere e comprare grossi quantitativi di azioni tra di loro velocemente, efficientemente e soprattutto anonimamente.

Il

MERCATO DELLE AZIONI E DEI TITOLI

Per razionalizzare il funzionamento del mercato azionario le azioni quotate sulla borsa di Londra sono state divise in tre categorie: Azioni Alfa, azioni di compagnie altamente capitalizzate, generalmente le più commerciate (circa 67): Azioni Beta, azioni meno commerciate tuttavia abbastanza popolari sul mercato (circa 500); Azioni Gamma e Delta, azioni poco com merciate, principalmente « unlisted », cioè non quotate nello Stock Exchange. Per le azioni Alfa e Beta i market makers sono tenuti in ogni momento a mostrare i prezzi di vendita e di offerta, i prezzi quotati inoltre devono essere « firm » e cioè prezzi vincolanti per la vendita e l'acquisto da parte di ogni membro della borsa. Per le azioni Gamma e Delta, invece, i prezzi quotati dal market maker sono solo indicativi e diventano vincolan-ti solo se confermati da] venditore. Uno dei rischi maggiori che la globalizzazione dei mercati finanziari comportava era la tendenza delle transazioni a svolgersi al di fuori della borsa e quindi la diffièoltà da parte delle autorità preposte a controllare e re g olare il mercato. Già


prima della liberalizzazione del London Stock Exchange le grosse Securities I-louses internazionali (finanziarie specializzate nel commercio delle azioni e dei titoli) avevano cominciato ad operare indipendentemente dai mercati finanziari dove erano ubicate. Gran parte delle transazioni, infatti, avveniva per telefono tra di loro di modo che era impossibile quantificare i volumi degli scambi avvenuti. Inoltre i prezzi di vendita e di acquisto quotati incorporavano commissione ed altre spese relative alle singole transazioni di modo che c'era il pericolo di perdere la cognizione del prezzo di mercato reale dell'azione. Per far sì che tutte le transazioni fossero registrate in borsa e che tutti gli operatori ne venissero a conoscenza simultaneamente si decise di introdurre lo Stock Exchange Automated Quotation System o SEAQ. Il SEAQ è stato giustamente chiamato il cuore elettronico del nuovo sistema, è questo un sofisticato sistema telematico costituito da una fascia elettronica dove compaiono ininterrottamente le quotazioni delle azioni ed il volume degli scambi che avvengono in borsa. Il SEAQ si estende per tutto il perimetro dello Stock Exchange è quindi visibile per tutti gli operatori finanziari. Le stesse informazioni compaiono nelle dealing rooms dei membri dello Stock Exchange a loro volta sono collegati via cavo al sistema. Secondo la regolameiitazione della borsa ogni transazione deve essere riportata al SEAQ entro 5 minuti dal completamento. Per quanto riguarda le azion Alfa ad ogni scambio compare immediatamente sui monitors l'ammontare della transazione ed il corrispondente indice del volume totale del titolo per quel giorno. Per quanto riguarda le azioni Beta e Gamma, invece, gli indici sono

ritoccati ad ogni scambio ma le figure totali sono rese note soltanto il giorno dopo. La pubblicizzazione dei volumi delle transazioni è particolarmente importante per garantire la trasparenza del mercato proprio perché gran parte delle transazioni avviene per telefono e non più nel «floor» del mercato, inoltre, la conoscenza dei volumi degli scambi è considerata una delle chiavi dell'espansione dei mercati delle azioni. Le aspettative di crescita del mercato una volta deregolarizzato hanno fatto sì che alcune modifiche si apportassero al funzionamento del mercato primario. Il limite massimo del collocamento di nuove emissioni presso investitori istituzionali, cioè direttamente in borsa, è stato fatto salire da tre a quindici milioni di sterline. Per azioni di società unlisted il limite è aumentato da tre a cinque milioni di sterline. Per ammontari maggiori la sottoscrizione deve, ancora oggi, essere offerta direttamente al pubblico. Entro i nuovi limiti, inoltre, gli sponsors sono tenuti a mettere a disposizione del pubblico o di altre società finanziarie soltanto un quarto dell'emissione. A favore della nuova legislazione c'è la riduzione dei costi di raccolta del capitale da parte delle società cioè il tetto dei tre milioni di sterline era troppo basso specialmente considerando gli alti costi per pubblicizzare le nuove emissioni. A sfavore c'è però il fatto che essa facilita azioni di bought deal da parte dell'investitore istituzionale di fronte al quale quello privato si trova in posizione di svantaggio. Costui finisce infatti per dover comprare sul mercato secondario ai prezzi imposti dall'investitore istituzionale. Per quanto riguarda il mercato dei titoli del debito pubblico la deregolazione ha

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sfaldato le vecchie posizioni di oligopolio. Sul mercato esistono tre nuove figure di intermediari: i primary dealers, gli interdealer brokers ed i inoney brokers. I nuovi intermediari sono costituiti come unità giuridicamente autonome e quindi dotate di proprio capitale; per operare sul mercato necessitano dell'approvazione della banca d'Inghilterra la quale detta loro i criteri di operatività e sono poi soggetti alla supervisione delle loro attività da parte della banca centrale. La maggior parte dei conglomerati finanziari svolgono attività di primary dealers sul mercato dei titoli di stato. I primary dealers svolgono le funzioni di market makers per i Guilt- Edged Securities (136 miliardi di sterline al 31 marzo 1987) che sono costituiti dai British Government Securities e dai British Government Guaranteed Securities. Secondo la nuova legislazione la banca d'Inghilterra, che è aiich'essa considerata un market maker, tratta soltanto con i primary dealers. Costoro sono tenuti a mantenere la costanza degli spreads (differenza tra i prezzi all'offerta e alla domanda) ed agli standards di importi qualunque siano le condizioni del 'mercato. Alla fine dei 1987 nel Regno Unito esistevano 26 pri. mary dealers, tre meno di quando il nuovo sistema venne introdotto. Costoro sono collegati tra di loro attraverso un sistema telematico dove avvengono le contrattazioni. Per quanto concerne gli operatori principali, tuttavia, solo una percentuale molto piccola degli scambi avviene attraverso i canali borsistici. La maggior parte delle contrattazioni infatti passa attraverso altri canali e cioè si svolge con la clientela costituita da banche, imprese, enti locali, fondi comuni ecc. Al servizio dei primary dealers è stato 78

approntato il sistema degli inter-dealer brokers o 1DB. Gli inter-dealer brokers sono sei e svolgono una funzione simile alla loro controparte privata sul mercato delle azioni: forniscono il meccanismo attraverso il quale i primary dealers possono fare mercato tra di loro mantenendo l'anonimato e possono, quindi, correggere eccedenze e scompensi nei propri portafogli. Il buon funzionamento del sistema dell'inter-dealing broking è fondamentale per mantenere alto il livello di liquidità sui mercato dei titoli del debito pubblico in quanto costoro garantiscono che i titoli si muovano velocemente dai venditori ai compratori. Soltanto i primary dealers autorizzati dalla banca d'Inghilterra possono accedere al IBD e questo perché tutte le transazioni che avvengono all'interno del sistema sono anonime, è quindi necessario che tutti i, partecpianti siano solvibili. Per evitare di 'riprodurre posizioni di privilegio, agli inter-dealing brokers non è concesso di prendere posizione, cioè non possono operare sul mercato dei titoli del debito pubblico per proprio conto o per conto terzi in quanto ciò permetterebbe loro di usufruire di informazioni confidenziali. La funzione di reperimento dei fondi necessari per il regolamento delle contrattazioni viene esercitata dai money brokers che operano esclusivamente sul mercato a breve. Anche loro sono assoggettati alla supervisione della banca centrale. GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI Nei corso di questo articolo si è spesso parlato di globalizzazione dei mercati finanziari, di omogenizzazione dei


mercati » di un mercato mondiale delle azioni senza tuttavia specificarne il significato. Tutti questi concetti si riferiscono allo stesso fenomeno: il sorgere di un unico mercato finanziario mondiale i cui confini geografici sono rappresentati dalla rete di distribuzione dei conglomerati finanziari internazionali che ne hanno facilitato la nascita. Ma come funziona il nuovo mercato » quali sono le regole del gioco ed a quali leggi è assoggettato? Per capire tutto ciò è necessario ricorrere ad un esempio. La Fiat decide di vendere attraverso la borsa di Londra 2 miliardi di sterline di azioni » pari al 10% del mercato automobilistico italiano. Queste azioni sono a loro volta parte del pacchetto azionario Fiat venduto precedentemente dalla Libia. Le banche che si occupano dell'organizzazione dell'operazione sono la Deutsche Bank Capital Markets, sussidiana londinese della banca tedesca occidentale ed uno dei grossi conglomerati finanziari internazionali e la Mediobanca. Per la transazione vengono contattate dieci banche sottoscrittrici che agiscono in qualità di co-lead-mana.gers e cioè si occuperanno in prima persona della distribuzione delle azioni. Tali banche hanno le loro case madri in Germania Occidentale, Svizzera » Giappone, Medio Oriente e Stati Uniti. Tra le ban. che co-lead-mana,gers non c'è quindi nessuna banca britannica. Non è infatti necessario includerne una dal momento che la Deutsche Bank è accreditata presso il London Stock Exchange e la distribuzio. ne delle azioni sarà globale, cioè verranno vendute in tutto il mondo. La scelta di Londra quale punto di partenza è probabilmente dettata da motivi di convenienza per gli organizzatori italia-

ni ma non ha nulla a che vedere con la distribuzione delle vendite » si pote. va infatti scegliere New York o Tokyo ed ottenere lo stesso risultato. Quasi tutte le vendite di pacchetti azionari come pure le nuove emissioni si svolgono oggi sul mercato mondiale Le società di emissione sono favorevoli alla distribuzione transnazionale delle proprie azioni in quanto tende a farne salire le quotazioni. Ai conglomerati finanziari fa poi comodo in quanto permette lorò di generare profitti in diverse parti del mondo. Anche l'investitore può trovare l'uso di strumenti finanziari stranieri vantaggioso. L'omogenizzazione dei mercati finanziari non è stata infatti accompagnata dall 'omogenizzazione delle legislazioni e dei sistemi fiscali nazionali; è così possibile per alcuni investitori di sfruttare alcune differenze tra i singoli sistemi. Secondo la legislazione di alcuni paesi europei, ad esempio » l'acquisto di titoli di stato è soggetto alla withholding tax (ritenuta d'acconto) che viene prelevata alla fonte. Nell'emissione dei titoli di stato, in particolare in Ecu ed Eurolire, e quindi diretti all'investitore straniero » lo stato italiano tiene conto di questa tassa e cerca di compensarne l'investito re offrendo un tasso di rendimento più elevato. In alcuni paesi tra i quali il Giappone ed il Regno Unito è però possibile recuperare il pagamento della withholding tax. Ecco quindi la grossa attrazione dell'Eurolira per questi investitori.

IL SISTEMA DI CONTROLLO DEL MERCATO

All'inizio dell'estate 1988 è entrato in vigore il Financial Services Act, il codice 6nanziario britannico che regola il siste79


ma di controllo del mercato. Sebbene ciò avvenga con più di un anno e mezzo di ritardo rispetto al Big Bang, gli organismi chiave preposti al controllo del funzionamento dell'attività finanziaria sono già operativi. La filosofia su cui poggia il Financial Services Act è che l'antico motto della borsa di Londra « my word is my bond », cioè la parola tanto vincolante quanto un contratto, non era più sufficiente a garantire il buon funzionamento del mercato finanziario. Nel 1986 dopo un lungo dibattito sulle forme ottimali di controllo venne costituito il Securities and Investment Board ('SIB), un'organizzazione della City composta da professionisti che operano in borsa e che ha lo scopo di dettare le regole del gioco e di controllare il funzionamento del mercato. Per evitare duplici azioni di controllo sul mercato delle azioni e su quello dei titoli si decise di fondere lo Stock Exchange con l'International Securities Regulatory Organization (Iso). L'IsRo è l'organizzazione che rappresenta le maggiori finanziarie che operano sui mercato delle euroobbligazioni. Allo stesso tempo si decise di affidare il controllo dell'adeguatezza di capitale e di liquidità ad un apposito sel/ regulatory organism ('SRo). I self regulatory or,ganisms hanno la funzione di controllo e supervisione del sistema finanziario su cui poggia l'attività degli operatori. Ad esempio uno di questi fa da monitor all'attività del London Stock Exchange. Come si è detto nel corso di questo articolo il funzionamento dei conglomerati finanziari, che possono svolgere molteplici funzioni, crea una serie di conflitti di interesse all'interno dell'attività finanziaria - Per proteggere l'investitore

privato e per contenere l'inside trading. il Financial Services Act ha previsto una serie di regole che impediscono la circolazione di informazioni da un dipartimento all'altro. Tali regole vengono comunemente dette « Muraglia Cinese ». In conclusione, il « Financial Services Act », realizza un sistema di sicurezza che mira a salvaguardare gli investitori contro eventuali conflitti di interesse o abusi insorti nel nuovo mercato finanziario. Da tempo si discutevano i pro ed i contro di una eventuale legislazione sulle transazioni finanziarie, e naturalmente tutta la City di Londra aveva fatto quadrato intorno al sistema di auto-regolazione. Il braccio di ferro tra la finanza londinese ed il governo della Thatcher terminò con un accordo di compromesso secondo il quale nella struttura legislativa si manteneva il principio di autoregolazione accanto all'introduzione del concetto di supervisione esterna Così è uno solo l'organo a carattere globale, regolatore di tutte le attività finanziarie, appunto il Securities and Investiment Board (SIB), ma direttamente responsabili nei suoi confronti sono vari organismi, le cosidette Agencies, che hanno il compito di regolare specifiche attività. Ad esempio, tutte le attività relative alle azioni, come compra-vendita, emissione e così via, sono subordinate a The Securities Association (TsA), alla quale è anche demandato il compito di redigere il codice di comportamento relativo alle attività da esso regolate. Dunque, l'innovazione più importante introdotta dal •Financial Services Act è l'imposizione nei confronti di tutti gli intermediari finanziari di un'autorizzazione da parte di una delle Agencies ai firii di ope-


rare sui mercato finanziario britannico. Indubbiamente ciò facilita i controlli da parte degli organi preposti ed in ultima analisi da parte del Sta. In ogni caso, la ragione dell'autorizzazione va ricercata nel fine ultimo della nuova legislazione: la protezione dell'investitore nei confronti degli intermediari finanziari. L'inadempienza alle regole di comportamento ed eventuali abusi possono comportare l'espulsione dall'organo regolatore a cui si è iscritti e, in alcuni casi, anche procedimenti civili e penali. L'espulsione dall'organo regolatore, va precisato, è particolarmente significativa in quanto esclude automaticamente l'intermediario dalla attività da lui svolta nel mercato. La Gity si è opposta veementemente alla regola dell'espulsione come pure alla possibilità da parte dell'investitore di citare

in giudizio l'intermediario finanziario persona fisica e l'istituzione finanziaria per cui costui lavora persona giuridica. L'opposizione della Gity, si .badi bene, non era dettata dalla volontà di non essere regolata ma dai grossi costi che le istituzioni finanziarie e gli stessi intermediari debbono affrontare per provare la regolarità delle proprie attività. Si pensi solo ai complicati sistemi di registrazione di tutte le transazioni telefoniche e telematiche, oppure ai costi legali nell'eventualità di cause civili e penali. Sebbene teoricamente la validità del Financial Services Act, quale sistema di difesa dell'investitore privato nei confronti degli intermediari finanziari, non può essere messa in dubbio, è ancora troppo presto per poterne giudicare l'efficacia reale.

Bibliografia

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L'impresa rete Caratteristiche organizzative e progettuali di una nuova imprenditorialità di Federico Butera

Nel dibattito italiano si parla ormai spesso di rete: impresa rete, rete organizza uva, rete di impresa facendo riferimento a tipologie tradizionalmente diverse di « situazioni » imprenditoriali e economiche. Una prima classe di riferimenti riguarda le situazioni nelle quali è intenso il processo di decentramento di attività da una impresa centrale verso imprese sub/ornitrici: il decentramento produttivo di attività manifatturiere e il decentramento delle attività di servizi. Questo processo ha assunto in Italia e in altri paesi proporzioni inconsuete, dando luogo a casi in cui la quantità del decentramento si converte in qualità o tipologie nuove di impresa: le imprese industriali «no manufacturing». Una seconda e distinta classe di situazioni che vengono evocate parlando di impresa rete è quella delle « jliere » o « costellazioni di imprese » ossia sistemi di imprese collegate fra loro in un ciclo di produzione: esse non hanno di solito collegamenti societari né organizzativi e solo talvolta accordi formali ma hanno potenti sistemi di cooperazione operativa. E' il caso in Italia dei mobili in Brianza, delle calzature a Napoli, delle attività agroalimentari in Emilia. Una terza classe di situazioni è quella che fa riferimento a sistemi di imprese (omogenee o disomogenee) su base territoriale 82

come quelli che Beccattini ha chiamato « distretti imprenditoriali ». Si tratta di sistemi che connotano uno specifico insediamento urbano (Prato, Carpi, Sassuolo) o anche ad aree regionali più vaste caratterizzate da una favorevole « atmosfera imprenditoriale ». In questa stessa classe vanno forse menzionati anche i « parchi tecnologici ». Imprese rete sembrano essere quei sistemi imprenditoriali costituiti da imprese giuridicamente autonome ma legate fra loro da forti vincoli associativi e strutture consortili di servizio (Confederazione artigiani, Cooperative di produzione) oppure anche da strutture consortili di produzione di valore (come le Cooperative di Consumo che controllano in modo consortile anche alcune fasi della catena del valore). Di impresa rete si parla anche a proposito di accordi, ma - e ciò che è più sorprendente - si parla talvolta di impresarete anche a proposito di grandi imprese che si fanno piccole », imprese cioè che hanno una unicità di struttura proprietaria e organizzativa, ma che tuttavia si articolano al loro interno in strutture che sono « quasi imprese » che attraversano con grande flessibilità i confini tra mercato e gerarchia: unità organizzative che


assomigliano sempre più a imprese autonome e un grande ricorso a strutture di subfornitura esterna o di collaborazione esterna con strutture, politiche, e sistemi operativi per influenzare indirettamente l'organizzazione, gli standards di qualità, il know how di imprese subfornitrici genuinamente autonome, che stanno cioè « sul mercato ». L'impresa centrale integra le proprie strutture interne e le aziende fornitrici sempre di più attraverso sistemi operativi, strutture integratrici, comitati etc. e soprattutto attraverso modalità soft come

corporate culture, management philosophy, immagine etc.

I COMPONENTI DELL'IMPRESA RETE Cosa distingue dunque un'impresa rete? Abbiamo qui individuato quattro componenti costitutivi: 1. 1 « nodi » o « sistemi » della rete I « nodi » o « sistemi » sono parti costitutive di diverse dimensioni: sono entità grandi o piccole orientate ai risultati, relativamente autoregolate, capaci di cooperare con gli altri e di « interpretare » gli eventi esterni. Essi possono essere interni o esterni ai confini giuridico-amministrativi di una impresa. Ogni nodo se è vitale è per definizione parte di un sistema : le •sue relazioni con gli altri nodi prendono di volta in volta il carattere di relazioni gerarchica, oppure economiche, oppure culturali. L'autonomia dei « nodi » non esclude ovviamente disequilibri di potere, influenza, vantaggi.

2. Le connessioni •La seconda proprierà della rete è costituita

dalle connessioni fra i nodi. Le connessioni burocratiche sono quelle più tradizionalmente visibili, quelle cioè che più danno la sensazione di un sistema organizzato »: ordini, norme, procedure. In una impresa rete esse esistono e sono importanti, ma non primarie. Contano di più altri tipi di connessioni: per esempio

le regole e le pratiche della cooperazione lavorativa, le transazioni economiche, le informazioni formalizzate, le comunicazioni scritte, verbali e non verbali che avvengono nelle riunioni, negli incontri, nelle telefonate.

Le strutture La configurazione dei nodi e delle connessioni dà luogo a strutture tipiche. E' caratteristica dell'impresa rete la convivenza di strutture « dure » (descrivibili e razionalmente progettabili) e struture « morbide » (che riposano su razionalità diverse e che possono essere influenzate ma non pienamente progettate). Esempi di strutture conviventi nel sistema sono: un organigramma, un comitato, una task force, una rete locale, il mercato, un dan, il sistema politico, la parentela, l'etnia.

Le proprietà operative Una rete organizzativa per funzionare ha bisogno di sistemi operativi o « fonti di energie » e sistemi di gestione. Per esempio, come ha evidenziato recentemente Vaccà, il linguaggio è una proprietà del sistema senza il quale non si identificano i nodi, non avvengono le connessioni, non si instaura la struttura. Lo stes83


so dicasi per i valori, come hanno illustrato Granovetter, Sabel, Alberoni e Veca.

Le procedure di progettazione, pianificazione e controllo delle risorse sono fondamentali per il successo del sistema, così

come creazione e manutenzione dei servizi e i sistemi di incentivazioni.

L'IMPRESA RETE NATURALE

dozione di condotte orientate alla flessibilità strategica, gestionale e operativa ed ha la capacità di segmentare processi ed allocarli ad unità specializzate in grado di produrre a basso costo ed elevata qualità (la specializzazione flessibile di cui parla Sabel). Ma l'impresa rete naturale è svantaggiata rispetto all'impresa centralizzata per quanto riguarda la capacità di investimento, la capacità di elaborare proattivamente strategie che si pongano anche modestamente fuori dalla traiettoria di esperienza della impresa. Essa ha una bassa capacità di risposta uniforme di fronte alle emergenze.

De/iniamo impresa rete naturale quel sistema di riconoscibili e multiple connessioni e strutture entro cui operano « nodi » ad alto livello di autoregolazione (sistemi aperti vitali) capaci di cooperare fra loro (ossia di condurre vari tipi di transazioni efficaci) in vista di tini comuni o di risulLE FORME DELL'IMPRESA RETE tati condivisi. Ci troviamo di fronte ad una impresa rete naturale se sussistono le seguenti due condizioni: se - sia pure senza un progetto esplicito o un governo pienamente consapevole e condiviso - tutti questi componenti della rete sono idonei a raggiungere risultati di efficacia ed efficienza validi sia per l'intero sistema sia per i singoli nodi o sistemi; se vengono assicurati un minimo di controllo sui processi essenziali del sistema, una sufficiente identità dei suoi membri, meccanismi di autoconservazione in caso di pericolo, e un minimo di risorse comuni accumulate per l'innovazione adeguate a far fronte alle sfide dell'ambiente. L'impresa rete possiede due fondamentali virtù rispetto ad altre forme di impresa: essa dispone di una flessibilità strutturale che le rende più rapida ed economica l'a84

Lo sviluppo di forme di impresa rete pone in termini radicalmente nuovi alcuni dei « topoi » più controversi delle teorie e della pratica dell'organizzazione.

L'antinomia fra centralizzazione e decentramento si pone in termini totalmente diversi: nell'impresa rete si centralizza e si decentra contemporaneamente. Spesso i « nodi » che controllano le risorse strategiche (finanza, tecnologia, risorse umane etc) tendono a concentrarsi almeno nel senso che in essi avvengono fusioni di pacchetti societari e centralizzazione delle strategie. Si dicentrano invece le operazioni. Ad un primo livello aziende autonome oppure funzioni/divisioni aziendali, ad un secondo si decentrano attività mani.fatturiere e di servizi a piccole e medie imprese.

L'autonomia e autoregolazione dei singoli sottosistemi organizzalivi è una delle caratteristiche del modello ma essa - così come non è contrastante con l'esistenza


di una struttura generale di sistema non si oppone neanche all'esistenza di un

coordinamento e controllo di sistema. Ne deriva una quadruplice tipologia di imprese rete, diverse dal punto di vista del sistema di controllo:

I. Im prese rete « a base gerarchica », ad esempio grandi imprese ad alto livello di decentramento). Imprese rete « a centro di gravità concentrato », ad esempio sistemi regolati da holding finanziarie, aziende industriali « no manufacturing », hollow corporations etc.

Imprese rete « con centri di gravità multipli », ad esempio imprese a base associazionistica come le cooperative.

Imprese rete senza centro, ad esempio sistemi a base territoriale.

L'IMPRESA RETE GOVERNATA

Allorché soggetti imprenditoriali identificati individuali o collettivi, privati o pubblici provvedano in maniera intenzionale a progettare, gestire, manutenere nel suo complesso un sistema come quello descritto, sosteniamo che ci troviamo in presenza di una impresa rete governata.

multiple, di far sviluppare meccanismi operativi. Governare l'impresa rete vuoi dire prima di tutto progettarla. Ciò si può rendere necessario in due casi assai diversi: una impresa centralizzata ha bisogno di raggiungere quei più alti livelli di vitalità e flessibilità assicurate dalle forme di impresa rete; inizia così un processo di decentramento (esempio la •Montedison negli anni 86/87); una impresa rete naturale deve affrontare un livello di novità strategica e di stress economico organizzativo maggiore di quello che la propria modalità principalmente adattiva gli consentirebbe. La impresa rete quindi non è solo una « forma naturale » ma un potenziale artefatto economico e organizzativo. Essa si può progettare e riprogettare in modo sistematico poiché:

- i nodi sono progettabili nel senso che è possibile trasformare imprese, unità organizzative, mansioni dipendenti in sistemi auto-regolati;

- le connessioni sono progettabili: lo sono le transazioni economiche, i sistemi informativi, la cultura;

- le strutture possono essere ideate seEssa, come le altre forme di impresa e di organizzazione che l'hanno preceduta, è caratterizzata dalla identificazione dei .fini e dal controllo dei risultati. Ma nell'impresa rete governata non vi è un luogo unico e centrale ove i piani e il controllo sono esercitati. Il governo dell'impresa rete governata risiede innanzitutto nella capacità dei soggetti imprenditoriali di assicurare la vitalità dei nodi, di selezionare e sviluppare le connessioni critiche, di trovare forme per far convivere strutture

condo paradigmi e princìpi.

- le proprietà operative sono per definizione progettabili come regole operative.

PROCESSO DI CAMBIAMENTO E PROGETTAZIONE

Il passaggio, totale o più spesso parziale, da impresa verticalizzata, via via a impresa divisionale, impresa transazionale, impresa rete è caratterizzato da: 85


- crescente complessità - aumento di importanza dei sistemi di coordinamento e controllo e dei sistemi operativi - maggior peso delle dimensioni soft - crescente importanza degli obbiettivi - autonomia e autoregolazione dei sottosistemi Ciò mette in evidenza due caratteristiche cruciali di cambiamento e progettazione man mano che ci si approssima al modello dell'impresa rete. La prima: oggetto del cambiamento non può non essere che la combinazione di affari, tecnologia, organizzazione e persone; La seconda: il processo non può essere top down e per editto ma al contrario deve essere centrato sull'apprendimento, sul dialogo, sulla partecipazione. L'impresa rete pone in termini radicalmente diversi la questione della pro gettazione organizzativa. L'impresa rete governata non può essere progettata né attraverso una sequenza lineare top down come quella suggerita dai System Rationalists, ma neanche attraverso un procedimento di puro adattamento e sperimentazione locale come quello teorizzato dai Segmented Istitutionalists: Nello sviluppo dell'impresa rete governata, è centrale invece l'iniziativa (imprenditoriale, culturale, negoziale) dei soggetti, iniziativa già evidenziata dalle teorie dell'azione sociale (dall'organization choi ce di Trist, alla strategic choice di Child, alla teoria dell'attore di Crozier e Friedberg, a tutte le teorie e tecniche di strategic management). Una metodologia possibile per il joint de86

sign e per creare le condizioni dell'organization choice è la « metodologia a spirale » di sviluppo dei sistemi complessi (cfr. F. Butera, « Le nuove tecnologie negli uffici » Zerouno n. 48, gennaio 1986). Essa sviluppa forme iterative di pianificazione, progettazione e sperimentazione che tengono in considerazione tutti i fattori dell'impresa (obbiettivi, processi, tecnologia, organizzazione e sistema sociale). Rinuncia all'idea razionalistica che prima occorre pianificare, poi progettare e poi sperimentare: si può partire da qualunque punto di tali processi, apprendere dalla esperienza e accumulare ciò che si è appreso in una sorta di « memoria del sistema ». Questo apprendimento può essere utilizzato per tornare con più efficacia agli altri processi, ed in particolare a quello di pianificazione.

LE IMPLICAZIONI: LE NUOVE TECNOLOGIE

Le implicazioni del diffondersi delle imprese rete sono varie su molti terreni: per gli strumenti organizzativi, per la gestione delle risorse umane e quel che qui più interessa per le nuove tecnologie. La specializzazione flessibile che accompagna il modello di impresa rete dà un forte impulso all 'automazione flessibile: ma il clima dell'impresa rete richiederà fabbriche sotto controllo umano e non unmanned factories ». Le tecnologie di fabbrica in generale tenderanno a sviluppare competenze, capacità di controllo e strategie formative per potenziare la responsabilità La grande informatica di prima generazione cede il passo alla seconda inforna-


tica. L'architettura dei sistemi informativi domina i materiali. Nascono meta-applicazioni per coprire aree di lavoro non procedurale che si definiscono per i'uso che se ne fa. (Bolognani). Assumono valore l'informatica di supporto alle decisioni, i sistemi di telecomunicazioni, le tecnologie della cooperazione di cui parla De Michelis.

© Istituto Rso Questo articolo è un estratto da Federico Butera « Tecnologie informatiche, nuovi modelli organizzativi e ruoli professionali nella impresa rete >, paper presentato a] convegno « La progettazione congiunta di tecnologia, organizzazione e sviluppo delle persone », Istituto Rso, Ve. nezia 12 - 14 ottobre 1998 (in corso di stampa). Questo estratto viene pubblicato anche sul numero 87 di « Zerouno ». aprile 1989.

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Impresa rete: una rassegna di esperienze italiane di Beppe Croce e Chiara Terracciano

Nel 1988 il tema dell'«impresa rete» è stato oggetto di dibattito e confronto per l'iniziativa dell'Istituto RSO (Via Leopardi, I - 20123 Milano). Questo ha organizzato un convegno a Camo gli in giugno ed ha ripreso l'argomento in una sessione del convegno tenuto a Venezia in autunno su « Progettazione congiunta di tecnologia, organizzazione e sviluppo delle abilità umane ». Sulla base dell'impostazione tecnica di tali incontri e dei materiali empirici ivi presentati nonché attraverso proprie dirette inchieste Lito-newsletter - Lettera sull'Innovazione Tecnologica e Organizzativa (Via C. Correnti, 14 - 20193 Milano) pubblica la rassegna che, parzialmente riprendiamo (Nota della Red.). Alcuni la considerano una forza più evoluta di organizzazione, destinata negli anni Novanta e oltre a spazzare via dal mercato chi ancora indugia su criteri accentratori e gerarchici di impresa. E' quanto sta realmente accadendo? E' sempre meno efficace l'idea di governare all'interno di una sola corporation tutti gli ingredienti strategici di un prodotto? Se prendiamo a modello quanto è avvenuto nell'industria dei personal computer in questi anni, l'interrogativo appare più che legittimo. Certo, ciò che si vende sul mercato può continuare ad esempio

a chiamarsi pc IBM. Ma cosa controlla realmente IBM - presa ancora oggi ad esempio di impresa accentratrice e onnivota - degli elementi essenziali del suo prodotto? Il microprocessore? No, lo progetta e produce Intel, che certo non si può considerare satellite di « Big Blue ». Il sistema operativo, ossia l'insieme delle regole che governano l'istruzione della macchina? No, lo progetta e sviluppa Microsoft e certamente « Big Blue » non ha mai gradito di avere un sistema che consente a qualsiasi « cantinaro » di Taiwan o Monza di sfornare macchine con prestazioni del tutto identiche alle sue. In realtà, le fortune e gli sviluppi del pc IBM sono stati finora decisi almeno da una triade di società - IBM, Intel, Microsoft - legate tra loro da relazioni di tipo non gerarchico e almeno apparentemente instabili. Ma il fatto singolare è che questo rapporto instabile, al di là delle sue ovvie fluttuazioni (e di tentativi « protezionistici », tipo la proposta IBM della nuova architettura Microchannel), dura tuttavia da almeno Otto anni. Questo esempio di un prodotto-mercato governato da una rete di due, tre, molti poli paritari, è un modello non episodico ed esportabile in altri contesti? Volendo sistematizzare il fenomeno impresa rete, conviene suddividerlo in quattro tipologie sulla base di valutazioni em-


piriche, le uniche al momento a cui si possa far riferimento in attesa di nuove e più definitive categorie teoriche.

DECENTRAMENTO ALL'ESTERNO

Si tratta in sostanza di una impresa in cui sono accentrate alcune funzioni aziendali strategico-organizzative, che appalta fasi del processo produttivo o servizi a monte o a valle dello stesso a piccole imprese esterne. Il caso più estremo di decentramento è stato quello recente delle cosiddette « hollow corporation », imprese deverticalizzate che esternalizzano completamente tutta la produzione. Questo modello ha avuto una certa diffusione soprattutto negli Stati Uniti. Anche se il rapporto tra committente e fornitore è formalmente di autonomia reciproca, accade spesso che quest'ultimo si ritrovi in posizione di subordinazione. Ad esempio nel settore tessile, dove per tradizione il decentramento produttivo esiste da almeno 20 anni, i subfornitori sono spesso legati da contratti di esclusiva nei confronti dei loro committenti, ritrovandosi dunque di fatto a « dipendere » da loro. Facendo riferimento al caso Italia, è diventata quasi un mito Benetton che ha operato, oltre al classico decentramento produttivo, anche quello commerciale attraverso la vincente operazione di franchising. L'azienda veneta è in sostanza costituita da un nucleo centrale da cui « dipende » un indotto di circa 4-500 aziende con le quali si è andato sviluppando un legame sempre più formalizzato. Infatti il progressivo decentramento ha portato alla nascita di diversi problemi tra cui i più rilevanti sono: la definizione dei

prezzi delle lavorazioni esterne; i problemi legati al controllo di qualità e soprattutto la gestione degli ordini. Tenuto conto che ormai il modello Benetton è caratterizzato da 2 ed anche 3 livelli di subfornitori, tali problemi impongono la creazione di meccanismi di coordinamento superiore, attraverso la successiva formal.izzazione di rapporti originariamente di natura spontanea. I legami di Benetton con l'indotto regionale, più che sulla tecnologia di rete, infatti erano basati su una forte componente « soft » di identificazione di valori (che si organizzava anche in rituali tipo cene sociali, inaugurazioni ecc.). Il che ovviamente creava problemi di trasferimento del modello nelle strategie di sviluppo estere. Si è ovviato con politiche diversificate: dal trasferimento di famiglie originarie venete (caso Barcellona) alle licenze a produttori esteri (India, Giappone, Brasile) che hanno tentato di « donare » il modello nei loro paesi, alla rinuncia definitiva del modelo in altri paesi (caso Usa) dove Benetton si deve rassegnare a pagare a consegna a grandi produttori che non concedono alcuna esclusiva. Tipico del modello Benetton è di fondarsi proprio su questo curiosissimo intreccio di legami antichi e non formalizzati (basati anche sul vuoto della legislazione italiana in materia di lavoro artigianale) e legami di avanguardia (rete internazionale di acquisizione ordini, tecniche di pianificazione, contratti di franchising).

L'IMPRESA « MIJLTIPOLARE »

Un caso è quando l'impresa stessa proietta all'esterno sue unità funzionali, non


semplicemente per abbattere costi fissi (come la hollow corporation), ma soprattutto per specializzarsi progressivamente sui vari prodotti-mercati. Rimane un sole che supervisiona e controlla unità orga•nizzative quasi autonome nella gestione economico-imprenditoriale del loro prodotto. E' il tipo di organizzazione che Gian/ranco Dioguardi ha definito « impresa-multipolare », sulla base della sua stessa esperienza di imprenditore edile. Si parla di questo modello in riferimen-

to a grandi imprese che si fanno piccole, imprese cioè che organizzandosi in business units, profit centres sembrano collocarsi al confine tra gerarchia e mercato. Ma soprattutto può essere adottata come modalità di crescita da giovani società che sono cresciute in questi anni a ritmi vertiginosi, pur non disponendo di adeguate risorse finanziarie interne. Soprattutto in Italia questo modello è di estremo interesse per realtà locali che 51 Stanno internazionalizzando. Esemplare


da questo punto di vista è il caso della

Scm di Rimini. Il gruppo, che produce macchine utenslii, conta oggi 2000 dipendenti, ma ogni società mantiene una dimensione medio-piccola, tra un minimo di 40 e un massimo di 250 addetti. Nel suo sviluppo dagli anni Cinquanta, per uscire dalle angustie di un mercato di nicchia locale, Scm ha seguito tre fasi: 1° specializzazione in un particolare segmento di macchine utensili - macchine combinate medio-piccole per la lavorazio ne del legno massiccio - con autonomia su tutte le fasi verticali del processo (dalla fonderia alla carpenteria metallica). 2 ° ( anni Settanta) dilatazione su tutte le classi di dimensione di prodotto e proiezione all'esterno dei suoi principali comparti produttivi. Fonderie, Apparecchiature elettriche, Carpenteria metallica diventano così tre società quasi-autonome che operano sul mercato. Oggi le Fonderie Scm fanno l'80% del fatturato all'esterno 3° ingresso in altri settori specializzati o dilatazione su segmenti superiori, mediante la seguente strategia: penetrazione innanzitutto nel segmento di dimensioni medio-piccole di un nuovo prodotto-mercato, mediante l'alleanza o la acquisizione di una impresa artigiana specializzata in quel settore. dilatazione successiva verso tutte le dimensioni di mercato, costituendo una nuova unità autonoma mediante joint venture con società già operanti in quel mercato. Una delle alleanze più recenti è stata stretta tra l'unità Elettronica di Scm e la Itp di Torino, noto « system integrator » che opera per aziende del calibro di Fiat o Ford. Dall'alleanza è nata Xilia,

con l'obiettivo di fornire linee complete di automazione per i colossi internazionali della lavorazione del legno. Solo negli ultimi due anni, Scm ha acquisito 7 nuove aziende, entrando con forza anche nel settore delle macchine per imballaggio. Le sue stesse filiali estere sono sollecitate dalla casa-madre a stringere alleanze con costruttori locali. Ogni azienda mantiene autonomia gestionale in termini di produzione, progettazione, marketing, e in parte di distribuzione (ma in questo caso si cercano più forti sinergie). Finanze, Controllo di Gestione, Risorse Umane (Personale e Organizzazione) sono invece sotto rigido controllo della casa-madre, che assegna gli obiettivi di pianificazione e assicura una serie di servizi centralizzati per tutti.

AREE-SISTEMA E ASSOCIAZIONI DI IMPRESE

La tipologia 3 si riferisce all'impresa rete senza centro, in cui i vari nodi sono collegati tra loro su base territoriale o associativa. Rientrano in quest'ambito le aree sistema o le associazioni commerciali-distributive. E' un modello peculiare del caso italiano e ormai classici sono i riferimenti a Prato e Carpi nel settore tessile-abbigliamento o Sassuolo in quella della ceramica in cui la forza aggregante è data dagli effetti moltiplicativi che possono essere assicurati dall'utilizzo di servizi-strutture in comune. Si tratta in genere di aree monosettoriali, in cui esiste una tradizione antica nell'attività produttiva in un determinato comparto - per lo più tradizonale - e dove le imprese sono in 91


larga maggioranza di piccole dimensioni. La creazione delle aree sistema trae origine dall'avanzamento tecnologico e dalla concorrenza dei Paesi emergenti, che richiedono agli imprenditori investimenti innovativi ingenti per poter sopravvivere sui mercato. Diventa quindi prioritario cercare di creare strutture comuni - servizi finanziari, commerciali, laboratori di R & 5, enti di certificazione - in grado di far avanzare l'economia globale dell'area, conservando le specificità e la concorrenzialità interne tra le varie unità produttive che conservano la loro piena autonomia. Si tratta dunque di un modello di « rete » orizzontale e assolutamente degerarchizzato in cui l'aspetto relazionale più o meno informale ha un ruolo determinante. Il problema in questo caso è l'elevata conflittualità tra poli numerosi che competono sullo stesso segmento di prodotto-mercato.

ACCORDI TRA IMPRESE SOSTANZIALMENTE INDIPENDENTI

Se pensiamo all'esempio proposto in apertura del rapporto tra IBM, Intel e Microsoft, abbiamo un'altra combinazione: quella di uno stesso prodotto-mercato gestito da una pluralità di imprese sostanzialmente indipendenti, che si rapportano tra loro mediante accordi di tipo paritario. In questo caso il rapporto è caratterizzato da: forte autonomia delle parti che si accordano, alta complementarietà, deverticalizzazione. Vediamo un caso intermedio, che si accosta per certi aspetti a questo modello. Il Gruppo Finanziario Tessile di Torino, operante già negli anni del boom econo92

mico, ha sviluppato nell'ultimo decennio una serie di accordi che rendono molto caratteristica la sua attuale conformazione. Il Gruppo è articolato in 35 società di cui ben 20 all'estero - che danno lavoro a circa 8000 persone. Il 'suo fatturato è da anni in costante crescita: 800 miliardi nel 1986 ed addirittura 1000 miliardi nel 1988. La sua attività consiste nella produzione e commercializzazione, in Italia e all'estero, di abiti per le fascie alte e medie del mercato. Produce circa 60 linee maschili e femminili in oltre 70 Paesi. Nel corso della sua vita il Gruppo ha subito profonde trasformazioni: è passata dalla produzione di massa degli anni '60 al decentramento produttivo degli anni '70 e alle produzioni « grifate » alla fine dello scorso decennio. Sull'onda dell'emergere della concorrenza dei Paesi del Terzo Mondo il 'Gruppo ha dovuto ristudiare interamente la sua strategia organizzativa. Innanzitutto, per far fronte alle nuove esigenze imposte dall'internazionalizzazione dei mercati, il GFT si è ramificato in un sistema stellare a 6 divisioni: • tecnica uomo; • donna; • società creazione moda; • diversificata (soprattutto sportware); • commerciale uomo (da cui dipende la gestione dei Paesi verso i quali esiste una politica di semplice esportazione); • GFT estero (da cui dipendono quei mercati in cui la GFT agisce come insider). Il 50% del suo fatturato allo stato attuale è rappresentato dall'estero. In alcuni mercati strategici (in primo luogo Usa, Giappone e RFT) il « made in


Ita]y » deve far fronte alla concorrenza dei paesi emergenti con prodotti di alta qualità e in grado di adattarsi rapidamente al mutare dei gusti. In questi paesi - curati dall'ultima divisione - la politica commerciale è impostata in modo molto autonomo ed aggressivo: i responsabili locali il più delle volte hanno attività produttive proprie e possono creare linee di abbigliamento rivolgendosi anche a stilisti del posto. Devono però impegnarsi ad assorbire anche una certa quota della produzione italiana. Il GFT è molto oculato nella scelta del personale da mandare fuori Italia; in genere si tenta di spingere dipendenti interni ad accettare incarichi all'estero in quanto hanno già ben sviluppato l'identità del gruppo. Ma interessante è soprattutto la politica di accordi che, parallelamente a questa riorganizzazione, il Gruppo ha condotto negli anni Ottanta. Ed è proprio tale che rende particolare il caso GFT, facendolo collocare a metà tra la tipologia 2 e 4 di impresa rete. Il Gruppo ha avviato stretti legami con grandi firme italiane, da Armani a Valentino a Ungaro, e si tratta di accordi estremamente equilibrati in cui non c'è una subordinazione di nessuna delle due parti. Grazie all'intesa il GFT distribuisce in tutto il mondo linee di prét-à-porter firmate da famosi nomi italiani, aumentando la capacità di profitti propria e degli stilisti. I quattro tipi di organizzazione che abbiamo illustrato sono nettamente distinti, e ognuno presenta un particolare livello di conflittualità/accordo. Ma c'è soprattutto una caratteristica inconciliabile tra i primi due e gli altri. Nel primo e nel secondo tipo che abbiamo illustrato, esi-

ste un « sistema solare » con un centro preciso di governo. Nel terzo e quarto, il centro non è facilmente identificabile e vediamo piuttosto una « costellazione ». C'è chi pesa di più ovviamente, ma la strategia globale deriva da una fitta trama di relazioni più o meno paritarie tra vari poli (anche nell'organizzazione più gerarchica in assoluto - l'esercito - le decisioni sono in realtà frutto di contrattazioni, ma i ruoli sono nettamente evidenziati). In effetti, stiamo osservando due fenomeni distinti. Il primo riguarda bene o male fenomeni di « riorganizzazione interna » di un sistema gerarchico. Il secondo riguarda piuttosto un'area di prodotto-mercato e gli « accordi » tra imprese indipendenti. In senso forte, si può parlare di « impresa-rete » solo in quest'ultimo caso. La grande novità del caso GFT rispetto ad esempio allo stesso Benetton è proprio di intrattenere rapporti paritari con i suoi stilisti. Gli artigiani veneti di Benetton sono legati mani e piedi (e spirito) a Benetton; Armani o Valentino hanno fior di imprese che possono prosperare anche senza GFT e si legano a questo gruppo solo per un maggior vantaggio economico. Rientra in questa categoria anche il fenomeno osservato inizialmente del rapporto Intel/IBM/Microsoft. Senza dubbio, l'aspetto più avvincente di queste nuove esperienze è la fertilità di nuove opportunità determinate proprio dall'area di conflitto. Tutto il mercato dei personal in questi anni ne ha ricevuto un incredibile dinamismo: nuovi entranti, da Compaq a Tandy, modifica vertiginosa del rapporto prezzi/prestazioni, sviluppo enorme di software applicativo.

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C'è chi accredita questo dinamismo a un fatto puramente ciclico (l'immaturità del prodotto-mercato). Ma probabilmente è proprio la complessità del prodotto-mercato a suggerire di limitarsi a un presidio « indiretto » (tramite accordi o joint ventures) di determinate aree di attività. La stessa Digital Equipment - l'ultimo vero baluardo di autarchia nell'informatica (« penso e controllo tutto: dal microprocessore del mio Vax al sistema operativo ») - oggi se pur a denti stretti deve chiedere aiuto all'esterno - a Apple, a

Compaq, a Cray - se vuole .mantenere la sua capacità di competitore globale. Deve comprare all'esterno la tecnologia Risc (anche se in questo caso entra in casa di chi gliela fornisce, ossia della californiana Mips). Il problema delle esperienze «del quarto tipo » è semmai di capire la loro effettiva stabilità. E in ogni caso i legami che le governano sembrano diflcilmente formalizzabili e riproducibili, propriò per l'elevata autonomia/conflittualità dei poli della rete. -

iìnprésa gneraIe Direzione

Personale

Amministrazione

Coordin. controllo

Risorse umane

lnfomazione

Affari generali segreteria, ecc. Immagine

Marketing

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Mercati innovazione

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Gestione mezzi fissi

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1 .1 I I I I I I I

Imprese esterne

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Il modello di impresa a 3 livelli proposto da Giantranco Dioguardi

Ben diverso è il caso dei « sistemi solari ». Non si tratta di vere e proprie imprese-rete, ma piuttosto di nuove forme di « organizzazione interna agli oligopoli ». Si tratta comunque di un'evoluzione di notevole interesse - soprattutto nel tipo due, quello di Scm - rispetto alla classica divisionalizzazione di impresa. E' la stessa impresa che proietta verso il mercato le sue divisioni, anche a rischio di creare zone di conflitto. Anche 94

se il conflitto e l'autonomia imprenditoriale delle parti sono controllate da un vertice che si arroga quantomeno la leva finanziaria e le linee di marketing strategico. In questo caso i legami sono ben iidividuabili, in quanto ancora formalizzati all'interno di una gerarchia. Ed è questo tipo di « impresa multipolare » che probabilmente si presta ad essere formalizzato e riprogettato. Un'altra opposizione, oltre a quella « co-


stellazione/sistenia solare », sembra attraversare la rosa di tipi che abbiamo proposto: quella « vecchio/nuovo ». Mentre l'impresa multipolare e l'impresa rete in senso forte appaiono fenomeni recenti, il caso del decentramento produttivo o dei distretti industriali sono tipi di relazione molto natichi. La morfologia economica del bacino tessile-laniero di Prato affonda le sue radici nel Medioevo. Tuttavia qualcosa accomuna tutte le tipologie della rosa e sembra imprimere ben altro impulso anche ai vecchi modelli organizzativi: l'impiego delle tecnologie dell'informazione a supporto dei legami tra le varie unità. La rete mondiale di Benetton per l'acquisizione degli ordini, l'automazione del suo magazzino centrale, la pianificazione dell'appalto delle lavorazioni consentono al modello del decentramento produttivo di compiere un salto di qualità senza precedenti. Soprattutto consente a Benetton di accoppiare potenzialmente massimo di efficienza produttiva con massimo di aderenza alle specificità dei vari mercati (produrre solo quanto i mercati chiedono). L'impiego delle tecnologie dell'informazione nei distretti industriali o nelle strutture associazionistiche promette a queste costellazioni storicamente deboli o acefale di dotarsi di servizi e capacità di coordinamento consentiti finora solo alle grandi imprese gerarchizzate. Servizi di marketing informativo, laboratori Cad/Cam, posta elettronica e sistemi EDI di fat. turazione/gestione ordini, servizi in linea di gestione amministrativa (paghe, contributi, Iva ecc.). Le inusuali possibilità di coordinamento aperte dall'impiego delle nuove tecnologie dell'informazione consentono come controeffetto di sviluppare

a cascata autonomie e specificità imprenditoriali. Con questi strumenti, quanto poteva apparire una debolezza e un'arretratezza del sistema produttivo italiano - la piccola dimensione e l'eccessiva frammentarietà di forze imprenditoriali - potenzialmente sembra rovesciarsi in un modello di avanguardia per l'industria degli anni Novanta. « Potenzialmente » diciamo, perchè la realtà è meno rosea. Resta da chiedersi: la tendenza è effettivamente verso lo sviluppo di « impreserete »? sono queste le realtà che stanno emergendo come modelli stabili e dominanti? La risposta va differenziata. Se si guarda al modello « forte » dell'impresarete, quello della « costellazione » basata su accordi paritari e de-gerarchizzata, lo scenario ci sembra negativo. Prendiamo un indicatore senza dubbio grossolano, ma di una certa efficacia: la tendenza « decentramento / concentrazio ne ». Dopo anni di scorpori e decentramenti, oggi diversi segnali indicano una ripresa della tendenza a concentrare sotto 1 'organizzzaiorie gerarchica. È il segnale che proviene ad esempio dal settore dell'automazione industriale, come avvertiva al convegno di Venezia Roberto Camagni che da anni analizza la evoluzione di questo mercato in Italia. Indagini recenti sull'industria lombarda indicano un riaccentramento nell'impresa di lavorazioni negli anni passati appaltate all'esterno. E sarebbero proprio le nuove opportunità dell'automazione flessibile a favorire il riaccentramento del processo produttivo. Ma indizi di crisi provengono anche dai distretti industriali, secondo una recente indagine del Censis: nelle varie aree-si

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stema italiane, sarebbero in atto processi di verticalizzazione con riduzione delle unità autonome. Del resto processi di concentrazione sono oggi in atto in tutta Europa, in preda alla « febbre del 1992 ». Tendono a prevalere acquisizioni e fusioni e il criterio gerarchico della dimensione ritorna in auge. In Europa non stanno nascendo nuove costellazioni, ma più grandi sistemi solari. Alcuni osservatori tuttavia, come Giorgio De Michelis che da qualche anno propone nuovi criteri di lettura degli accordi internazionali, mettono in guardia dall'interpretare la concentrazione separatamente dal parallelo processo di « globalizzazione » dei mercati. Se guardiamo ad esempio a quanto è avvenuto nel settore dei produttori italiani di auto in questi ultimi 50 anni, ovviamente concludiamo che si è imposto un processo di monopolizzazione senza precedenti. Ma se guardiamo al < mercato » italiano dell'auto, scopriamo che il numero di competitori è tutt'altro che diminuito. Anzichè competere con una ventina di concorrenti locali come negli anni Trenta, Fiat si trova a competere con una ventina di concorrenti globali. In questo senso le possibilità di opzione per il consumatore italiano non sarebbero diminuite, perchè il processo di concentrazione è compensato dalla caduta delle barriere doganali. Resta tuttavia il fatto che in questo settore diventano assai più alte le barriere all'entrata di nuove froze imprenditoriali e che siamo lontani dal modello del «grande che si fa piccolo » e dallo « spin off di nuove imprese indipendenti. Del resto le stesse tecnologie dell'informazione possono essere impiegate per o96

mogeneizzare, oltre che per differenziare. Il colosso Unilever, che oggi si articola in 500 diverse unità, sta sviluppando con Digital un gigantesco progetto di integrazione di tutti i vari stabilimenti europei con l'obiettivo di rafforzare il governo della corporation e di farli operare come reparti di una stessa fabbrica. Non siamo futurologi, ma le « impreserete » in senso forte, come Gft, ci sembrano modelli altamente instabili e sottoposti, come osserva Dosi, alle specificità di particolari settori e fasi del ciclo economico. Ben diverso ci sembra il caso della riorganizzazione interna delle imprese gerarchiche secondo unità « parzialmente » autonome. Quest'ultima è senza dubbio una tendenza destinata ad avere conferme e sviluppi sempre più ampi, proprio per la necessità di conformarsi alle pieghe di mercati sempre più ampi e raffinati e per le stesse opportunità concesse dall'informatica e dalle reti di telecomunicazione. Indubbiamente, l'impresa « multipolare mantiene e sviluppa grandi spazi di nicchia per nuove forze imprenditoriali. Basti pensare alla progressiva rinuncia dei grandi dell'informatica a utilizzare le forze di vendita dirette, per accodarsi con cosiddetti OEM e fornitori autonomi di servizi informatici per la vendita delle loro macchine. Si tratta però di fenomeni « alla periferia di precisi sistemi solari E anche in questo caso, come già osservato per Benetton, più che gli aspetti formali (i « legami hard »: organigrammi, gerarchie, articolazione di unità e di compiti) dei modelli organizzativi, hanno ancora grande prevalenza fenomeni « so-


vrastrutturali », quali stile di comunicazione e valori, ad esempio. Un ultimo modello esemplare: Compaq. La giovane società texana nel giro di cinque anni di vita è entrata di prepotenza nel circuito dei leader della microinformatica. Il fatturato 1988 dovrebbe superare i 2 milioni di $, con la conferma di un rapporto fatturato/addetto superiore ai 400.000 $. Questo rapporto vertiginoso (per intendersi, oltre mezzo miliardo di lire per ogni dipendente!) e la crescita spettacolare della società hanno stimolato a osservare la struttura di questa società. In effetti Compaq ha fatto precocemente due scelte originali: la rinuncia sin dall'inizio (1983) a utilzizare proprie forze di vendita, ricorrendo a concessionari esterni (soprattutto della « rete IBM »); un notevole appiattimento della gerarchia interna. In ogni società esistono al massimo 3 livelli, e tra il responsabile marketing di Compaq Italia e Ron Canion, fondatore e presidente della corporate, ci sono al massimo due passaggi intermedi. Ma a parte questi due aspetti, non la si può considerare una impresa-rete. Compaq ha sviluppato pochissime alleanze in questi anni, la corporate di Houston ha reingegnerizzato tutto in casa e controlla

al 100% anche le sue Linità produttive di Singapore (produzione di schede) e in Scozia. Il successo si può semmai ricondurre a tre caratteristiche soft: I. attenzione alle risorse umane (a par tire dal suo capo marketing, Michael Swaveh', trentatreenne che non ha mai fallito il lancio di un prodotto) responsabilizzare a operare per obiettivi; fluidità di comunicazione (grazie anche all'appiattimento gerarchico, in Compaq si comunica tra tutti i livelli); scrupolosa attezione ai requisiti della domanda, con la pratica di « Focus Group» congiunti con grandi utenti, concessionari, opinion leader e analisti di mercato. Cose che tutti o quasi dicono di fare, ma che in Compaq si fanno veramente. Del resto quando Ron Canion abbandonò Texas Instruments per buttarsi nella nuova avventura Compaq si era riproposto di non riprodurre la classica ottusità burocratica delle grandi organizzazioni. Ogni dipendente Compaq sa per quali obiettivi lavora e con chi. Tutto al contrario insomma di chi è sottoposto alle periodiche « rivoluzioni degli organigrammi » partorite dai geni finanziari di casa nostra.

Note bibliografiche

2. Sono inoltre da consultare i seguenti autori:

I. Per buona parte degli aspetti teorici rimandiamo agli Atti del Convegno « Impresa rete: riconoscerla, progettarla, gestirla », Camogli, 2-4 giugno '88, curati dall'Istituto RSO di Milano e agli interventi alla Conferenza Internazionale « Progettazione congiunta di tecnologie, organizzazione e sviluppo delle abilità umane », Venezia, 12-14 ottobre '88, organizzata da RSO.

F. BUTERA,

« Nuove tecnologie ed economie del la flessibilità », ne « L'impresa », n. 2, 1986.

« Macchine astratte. Organizzazione e tecnologia nella produzione di software », F. Angeli, Milano 1988. M. BOL0GNANI, E. CORTI,

R. e S. RISTUC« Presente e futuro degli accordi fra imprese nell'economia dell 'informa. C. CIBORRA, G. DE MICHELIS,

CIA, F. TOLDONATO,

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zione », in Queste Istituzioni, n. 70, estate-autunno 1986, ripreso in li/o, dossier, n. 10/86. G. DI0GUARDI, « L'impresa nell'era del computer », Edizioni Il Sole 24 Ore, 'Milano 1987. G. Dosi, L. ORsENIG0, « Coordination and Transformatiori: an Overview of Sti-ucturcs, Behaviours and Change in Evolutionary Environments » in Atti del Convegno « Impresa rete », cit. R. NEL50N, 'S. WINTER, « AnEvolutionary Theory of Economie Change », Cambridge, Harvard University Press, 1982, H.A. SIM0N, « Casualità, razionalità, organizzazione », Il Mulino, Bologna, 1985. O.E. WILLIAM50N, «Markets and Hierarchies ». New York Free Press, 1975. O.E. WILLIAMSON, «Transaction cost economics: the governance of contractual relations », in « Journal of Law and Economics », ottobre 1979. 3. Alcuni dei casi presentati in questo scenario sono già stati più ampiamente illustrati da lito Newsletter. Precisamente: • caso Benetton in <Benetton: modello vene-

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to e tecnologia dell'informizione « lito, dossier. n. 6/85 e in « Una rete Van per accompagnare la crescita » lito n. 3/87. • caso Prato in « Progetto Prato: impannatori, artigiani e telematica » li/o, dossier, n. 11/84. • caso Sassuolo in « Fiori hi-tcch in Emilia »

li/o, dossier, n. 3/88. • per altri casi di Distretti industriali v. anche « Dalle,corazze all'automazione flessibfle » (Centro Innovazioni Lecco) lito n. 11-12/87 e « La sfida del paese della seta » (Centro tessile Como) lito n. 6-7/88. V. anche per lo sviluppo di agenzie di sei-vizi « Circuiti di innovazione per le piccole e medie imprese» lito, dossier n. 10/ 85 e <'Centri di Impresa e Innovazione» lito, dossier n. 2/86. • caso Scm in lito n. 8/88. 13 Per il fenomeno delle « Hollow Corporation » vedi anche il dossier di Business Week 20/6/86.

• Unilever: « Integrating the Enter'prise at Unilever » in Newsweek 14/11/88. • Compaq: il caso Compaq è frutto essenzial•mente di ns. interviste a responsabili di Compaq Italia. V. anche « Who's Afraid of IBM? » in Business Weck 29/6/87.


queste istituzioni Chiese, spirito religioso, istituzioni civili

Sono anni che con prepotenza torna la questione religiosa come questione politica. Gli sviluppi galoppanti della secolarizzazione avevano messo ai margini il peso del fatto religioso nella vita della società e delle istituzioni. Su sponde diverse, nell'occidente opulenta (e soprattutto negli Stati Uniti) come nel mondo a/ra-asiatico e in particolare nel sempre ribollente mondo islamico, il fattore religioso rientra nell'arena politica: e non sempre a pacificare ma a contrastare, a contraddire, a suscitare conflitti. Non vogliamo con ciò esprimere giudizi generali, sia pur vaghi, su una realtà complessa e antropologicamente profonda, che vuole interventi meditati tanto più se si vuole andare alla radice delle cose: come sempre quando si afironta il tema religioso. Rimanendo sostanzialmente nell'orizzonte dell'esperienza storica del cristianesimo nel mondo contemporaneo torniamo ad occuparci del rapporto fra Chiesa e società con un dibattito in redazione cui dà occasione il libro di Guido Verucci La Chiesa nella società contem poranea e con contributi sul tema del separatismo fra chiesa e stato. Ma anche riprendiamo il tema, nella prospettiva generale del dossier, del dramma del popolo d'israele e del popolo di Palestina. Fra i precedenti interventi di « Queste Istituzioni » nella materia del dossier ricordiamo: La politica ecclesiastica della sinistra storica in Italia dal 1943 al 1977 di S. Lariccia (1978, n. 2), Aspetti dell'organizzazione della cultura cattolica di J. Tavares (1981, n. 44) e il dossier Cristianità e media, con articoli di P. Ste/ani e F. Gentiloni, pubblicato nel 1986 (n. 70).



Ripercorrendo l'itinerario di Tocqueville Tre varianti di separazione politica/religione di Jean Claude Eslin

Ogni paese occidentale rappresenta una variante nel modello di attuazione del principio di separazione tra religione e politica, tra Chiesa e Stato che pure caratterizza l'Occidente in confronto ad altre culture. Il dualismo dei principi e delle sovranità, irriducibile ad unità, sembra essere, nella storia, la vera radice del dinamismo occidentale. E' l'eredità del cristianesimo che, da una parte, dissacra lo Stato, annulla quella sacralità che unisce politica e religione nelle società antiche; e, dall'altra, riconosce l'autonomia della politica: a Cesare quello che è di Cesare; a Dio quello che è di Dio. Ma la dualità dei principi, che a nostro avviso nessuna evoluzione moderna deve ridurre, è stata sempre precaria e viene volta a volta contestata in diversi modi, a seconda di quale dei due principi cerchi di sottomettere l'altro: sia il principio religioso a pretendere di dominare la società politica (il caso dei papi che depongono gli imperatori; i casi in cui si afferma il clericalismo cattolico), ovvero si verifichi una eccessiva sottomissione della Chiesa allo Stato (è la tendenza della tradizione luterana, è la tradizione del cesare-papismo bizantino, è nei nostri tempi il tentativo di sottomissione, se non di annientamento, delle chiese nei paesi del-

l'Est e, generalmente, nei regimi totalitari). La dualità può essere messa in questione per l'indebolimento interno di uno dei principi, quando, per esempio, perdono credito le espressioni religiose; quando le chiese non rappresentano più una istanza sociale credibile. A dispetto dei rimpianti, delle lacrime versate, e di tutti i desideri di possesso da parte della società civile, lo stato tende allora a diventare il poio unico di legittimità. E si tratta di una tendenza naturale. In qualche misura questo è forse quanto è avvenuto nelle società occidentali contemporanee. Accade anche che sia il principio politico a indebolirsi e allora la dualità viene messa in questione a vantaggio della Chiesa che viene ad assolvere funzioni che non le sono proprie. Il doppio ordine dei principi è stato anche contrastato e minacciato in nome della linea di pensiero evoluzionista che considera ineluttabile il progresso di un solo principio, essendo l'età positiva destinata a sostituire quella teologica. A sua volta Tocqueville considerava come ideale il modello americano. Questo, a suo parere, si fonda sul gioco separato, ma concorde, delle due forze in campo. La religione interviene nella cultura della so101


cietà, restando del tutto separata sul piano politico. Non è necessario essere tocquevilliani per sostenere che l'indebolimento di uno dei due poli nell'orbita occidentale può costituire una minaccia per la società democratica. Nell'ormai classico libro La démocratie en Amerique, Tocqueville fa una originale riflessione sui rapporti fra religione e democrazia, attraverso il paragone fra Stati Uniti ed Europa. Egli vede lontano, e comunque più lontano della pura tradizione francese. Si può dire che se anche la questione si è evoluta nel tempo (sono trascorsi oltre centocinquant'anni dall'opera di Tocqueville), il raffronto EuropaStati Uniti rimane esemplare e stimolante. Nelle pagine che seguono, dopo aver ripercorso l'itinerario di Tocqueville attraverso questa difficile problematica e facendo il confronto tra il nuovo e vecchio mondo, introdurremo un altro termine di paragone: la tradizione tedesca e il regime della Germania federale. Si tratta di un altro importante caso storico dove i rapporti fra i culti e lo stato risultano organizzati in modo ancora differente.

UNA RELIGIONE CHE CONFORTA LA DEMOCRAZIA

Entriamo nella parte originale delle riflessioni di Tocqueville. A suo parere la religione è « una delle cause che tendono a mantenere, negli Stati Uniti, la Repubblica democratica ». In generale, volendo cogliere queste cause di rafforzamento della democrazia Tocqueville ne indica tre: le cause accidentali e storiche, le leggi, e infine i costumi, intesi come mores, 102

cioè lo stato morale e intellettuale di un popoio. Fra i mores è la religione

considerata come institution politique. La preoccupazione maggiore di Tocqueville nei confronti dell'epoca democratica, che è l'epoca dell'uguaglianza, è - lo sappiamo - quella di mantenere la libertà. Il problema è: come i cittadini possano rimanere liberi allorché la democrazia dà luogo allo sviluppo di alcune tendenze che pesano sugli individui. La democrazia, infatti, è incline a preferire l'uguaglianza di tutti alla libertà; a favorire addirittura, in alcuni casi, la servitù di tutti; essa è soggetta a una perpetua mobilità, all'agitazione e dispersione delle opinioni. In questo contesto, cosa favorisce la libertà, il suo equilibrio concreto? La risposta di Tocqueville è chiara: negli Stati Uniti, in modo diretto e indiretto, « la religione insegna l'arte di essere libero ». In quale maniera? Fin dalle origini negli Stati Uniti si ha a che fare con un cristianesimo « democratico e repubblicano ». La religione occupa, dun que, sin dall'inizio, un posto importante nei confronti delle istituzioni politiche. « La parte più estesa dell'America inglese è stata popolata da uomini che, dopo essersi sottratti all'autorità del papa, non si sono sottomessi ad altra supremazia religiosa. Così portarono nel nuovo mondo un cristianesimo che chiamerei democratico e repubblicano: singolarmente, ciò è servito a favorire il formarsi della repubblica e della democrazia nella prassi. Fin dal principio, politica e religione si trovarono d'accordo, e poi non cessarono mai d'esserlo ». La religione ha dunque favorito lo stabilirsi della repubblica e della democrazia e continua a mantenerleNon c'è motivo di cercare, come in Fran-


cia, di liberare la società dalla religione, da una chiesa o da un clericalisrno. La relazione tra religione e società si mostra subito sotto una prospettiva differente. E' un rapporto di integrazione che si stabilisce, per Tocqueville, negli Stati Uniti. Religione e politica procedono nella stessa direzione, « democratica e repubblicana », ed egli si affretta ad aggiungere che non parla solo del cristianesimo protestante, puritano, dei Padri fondatori, ma del cattolicesimo di origine irlandese. Questo cristianesimo è per natura egualitario (ancor più sotto la forma cattolica che protestante, conducendo quest'ultima più verso l'indipendenza che verso l'uguaglianza). Parlando poi di cattolicesimo in generale, Tocqueville aggiunge: « Penso si abbia torto a guardare alla religione cattolica come ad un nemico naturale della democrazia. Tra le diverse dottrine cristiane, il cattolicesimo mi sembra una delle più favorevoli alla uguaglianza delle condizioni ».

LITURGIA E POLITICA

Il segreto di questa armonia sta innanzitutto nella separazione tra liturgia e politica. Quando il prete cattolico è uscito dal santuario per penetrare dentro la società come una potenza e per collocarsi entro la gerarchia sociale, gli è accaduto di utilizzare la sua influenza religiosa per assumere la permanenza dello ordine politico di cui faceva parte, per esempio, dell'ordine aristocratico. « Ma una volta che i preti sono allontanati o si allontanano dal Governo, come accade negli Stati Uniti, non esistono uomini più disposti, per la loro fede, tranne i cattolici, a trasferire nel mondo poli-

tico l'idea di uguaglianza di condizioni ». E' infatti il cristianesimo che ha introdotto l'uguaglianza in Occidente, ed è per questo che Tocqueville ritiene che non ci si possa opporre a questa tendenza millenaria. Gli uomini da lui interpellati (in particolare i preti cattolici) attribuiscono alla completa separazione tra Chiesa e Stato il potere sereno che la religione esercita nel loro paese. I preti non occupano alcun impiego pubblico e sembrano allontanarsi volontariamente dal potere. Risalendo dai fatti alle cause, Tocqueville si domanda come è pottuo accadere che, diminuendo la forza apparente di una religione, si è giunti ad aumentare la sua influenza reale. Egli risponde che la religione è connaturale all'animo umano e che non ha bisogno della forza artificiale delle leggi e dello appoggio di poteri materiali. La religione si basa sull'eterno, la politica sull'effimero. Quando la religione trova la sua forza nel permanente, sfida i tempi. Se si allea alla politica, segue la sua fortuna e diventa fragile. Legandosi a differenti forme politiche, la religione non saprebbe stringere altro che una alleanza onerosa. Non ha bisogno del loro aiuto per vivere, e potrebbe morire nel servirla. Più una nazione assume la forma di uno stato sociale democratico, più diventa pericoloso unire la religione al potere. Gli Americani vedono il cambiamento nella politica e la stabilità nella religione. Tocqueville scopre dunque negli Stati Uniti una forma di netta separazione tra ordine politico e ordine religioso, che li fa convergere verso la libertà. In altri termini: benché religione e politica siano negli Stati Uniti separate, esse mirano entrambe al bene pubblico (« La separa103


zlone tra Chiesa e Stato non ha negato alla politica una dimensione religiosa » afferma nei nostri giorni Robert N. Bellah in Beyond Belief, Essays on religion in a post-traditional world, 1970).

E

IN FRANCIA?

Come la religione favorisce la libertà? Paradossalmente, non tanto parlando di libertà, quanto limitandola. L'influenza della religione sulla società politica è soprattutto indiretta. Non si può dire che negli Stati Uniti la religione eserciti un'influenza sulle leggi o sulle opinioni pubbliche, ma orienta i costumi ed è regolando la famiglia che lavora a regolare lo Stato » afferma Tocqueville. Soprattutto, estende il suo impero sulle intelligenze. Dai dogmi cristiani, accettati per fede o per conformismo (spesso rischiando l'ipocrisia), « ne risulta che tutto è certo e fisso nel mondo morale, benché il mondo politico sembra abbandonato alle discussioni ed ai tentativi umani. Così lo spirito umano non percepisce mai davanti a sé un campo senza limiti ». La morale cristiana modera per così dire l'audacia degli americani nel cercare la fortuna. « Così nel momento in cui la legge permette al popolo americano di tutto fare, la religione gli impedisce di tutto concepire e lo difende da tutto osare. La religione che, fra gli americani, non si mischia mai direttamente con il governo della società, deve essere considerata come la prima delle loro istituzioni politiche; perché seppure non dà loro il gusto della libertà, ne facilita singolarmente l'uso ». Al contrario degli Eu104

ropei, gli Americani tendono a confondere così completamente cristianesimo e libertà che ad essi è quasi impossibile concepire l'uno senza l'altra. Ironicamente Tocquevilie sottolinea a che punto ciò sia inconcepibile in Francia: « Ogni giorno mi viene provato assai pedanternente che tutto va bene in America tranne questo spirito religioso che ammiro ». Dunque, una duplice linea di arresto favorisce la libertà negli Stati Uniti. La religione sa fermarsi davanti alla politica e non vi si mischia. Lo spirito umano è fermato nel campo morale dalla religione e ciò favorisce l'esercizio della libertà. Al contrario della Francia o dell'Europa, dove libertà e religione vanno in direzioni contrarie. In Francia la laicizzazione è un movimento che vuoi promuovere la libertà sociale in rapporto ad una Chiesa potente che si occupa di morale, costumi e istruzione. I sostenitori della libertà, i filosofi del XVIII sec., ma non solo loro, sostengono che lo zelo religioso deve estinguersi man mano che aumentano libertà e sapere. E' quasi un'ossessione per Tocqueville, e comunque il segno di « una strana confusione di cui siamo forzati ad essere i testimoni », questa dissociazione tra libertà e zelo religioso: Il sembie qu'on ait brisé de nos )ours le lieu naturel qui unii les opinions aux gouts et les actes aux cr0 yances. Già dall'introduzione di La démocratie en Amérique Tocqueville si sforza di sbrogliare i fili di questa strana congiuntura storica la quale fa sì che, « trovandosi la religione momentaneamente impegnata al centro di forze che sono state rovesciate dalla democrazia », i cristiani giungano, contro i loro stessi principi, a respingere l'uguaglianza ed a ma


ledire la libertà, mentre i simpatizzanti di quest'ultima attaccano le religioni. Il fatto è che in Francia, in Europa, la religione è stata troppo a lungo unita al potere e troppo mischiata alle passioni amare di questo mondo, diventando fragile così come le potenze della terra. Per Tocqueville è dunque una causa accidentale che fa sì che la religione non si sia affermata come istituzione politica: appunto, l'unione troppo intima di politica e religione: Di conseguenza, lo spirito democratico non è moderato dalla religione, e si può pensare che il fondamento della democrazia, il principio della sua stabilità, non sia mai stato completamente stabilito in Francia. Parlando di libertà Tocqueville gioca sulle parole? Vuole confondere due categorie di libertà, quella secondo i cristiani e quella secondo i moderni? Minimizza il passaggio da un tipo di libertà (quella fondata sui costumi e sul credo) ad un altro (quello basato sull'autonomia illimitata delle scelte umane)? O vuole assolutamente tenerli uniti? Poniamoci il problema. In fatto, c'è bene una libertà, regolata, limitata che egli mette avanti. Ma bene egli coglie la situazione europea come drammatica e violenta, tale da indurre a scelte assurde e impossibili. E' su questo aspetto congiunturale che la sua analisi è la più viva ed è questa valutazione drammatica che occorre trarre dalla sua analisi: l'Europa non giunge ad una realizzazione equilibrata della libertà.

FERMARE LO SPIRITO UMANO?

Il secondo volume, apparso nel 1839, riprende la stessa materia ma in maniera più riflessiva e generale. Partendo ancora

dall'osservatorio privilegiato degli Stati Uniti, l'idea essenziale di Tocqueville è che la religione costituisce il migliore contrappeso alla libertà democratica. « Bisogna riconoscere - egli scrive - che l'uguaglianza, che introduce dei grandi beni nel mondo, suggerisce anche agli uomini, come verrà qui di seguito mostrato, istinti pericolosi: tende a isolarli gli uni dagli altri per condurre ciascuno di loro a non occuparsi che di sé stesso. Essa apre smisuratamente la loro anima all'amore delle gioie materiali ». L'isolamento e successivamente la deriva dei desideri umani: questi sono i due grandi temi che egli non fa che indicare e che formano parte dell'armatura del pensiero di Tocqueville sulla democrazia. Il più grande vantaggio delle religioni è di ispirare istinti del tutto contrari. Non c'è religione che non collochi l'oggetto dei desideri umani al di là e al di sopra dei beni terreni, e che non elevi l'anima verso regioni ben superiori a quella dei sensi. Non c'è alcuna che non imponga ad ognuno dei doveri qualsiasi verso la specie umana ». Orizzonte più largo per il desiderio, doveri che educano alla responsabilità, e fanno tener conto l'uno dell'altro. Louis Dumont riprende e chiarisce le famose asserzioni di Tocqueville con queste parole: « Per me, dubito che l'uomo possa mai sopportare una completa indipendenza religiosa ed una completa libertà politica; e sono incline a pensare che, se non ha fede, gli accadrà di essere in servitù e, se è libero, che creda » (Homo hierarchics, 1966). La dipendenza religiosa non sarà un incatenamento, in quanto allarga i desideri dando loro un orientamento. Sarà la condizione per una indipendenza vera. 105


Come caratterizzare l'ethos dei popoli democratici? Seguiamo il ragionamento di Tocqueville. « Prendere la tradizione come un riferimento ( ... ) cercare per sè stessi e in sè stessi la ragione delle cose, tendere al risultato senza lasciarsi incatenare al mezzo ( ... ). Se cerco il principale di questi tratti, scopro che, nella maggior parte delle operazioni dello spirito, ogni americano non fa appello altro che allo sforzo individuale della ragione ». Non essendo più il principio dei credenti una autorità esterna (quella che si raccorda con un individuo o una classe eminente, come nelle società aristocratiche), nè avendo alcun motivo di dare credito all'una piuttosto che all'altra autorità esterna, i cittadini sono condotti verso la loro propria ragione come verso la fonte più visibile e vicina alla verità. Ma a questo terzo carattere dell'homo democraticus, se ne può aggiungere subito un quarto: « Nei popoli democratici l'opinione comune rimane la sola guida della coscienza individuale. E' naturale che la verità sia dalla parte dei più ». Negli Stati Uniti, la maggioranza si incarica di dare agli individui una folla di opinioni del tutto precostituite. Così, in pratica, l'agire della coscienza individuale, che nelle società democratiche si potrebbe immaginare come capace di spaziare in misura assai larga, rischia di essere circoscritto entro limiti troppo stretti. L'uguaglianza suscita nuovi pensieri in modo accelerato, può anche portare a non più pensare liberamente, dunque a restringere la libertà intellettuale e finalmente a sottomettersi al potere assoluto di una maggioranza. Tenendo conto di queste tendenze atomizzanti e disseminanti, cos'è che mo106

dera presso gli americani più che presso i francesi l'uso del metodo filosofico della ragione individuale? La religione, appunto; quella che ha dato origine alle società angio-sassoni e che si è posta essa stessa dei limiti. L'ordine religioso vi resta interamente separato da quello politico in modo che si sono potute facilmente cambiare le antiche leggi senza scuoter il vecchio credo. E' ciò che è stato impossibile in Francia dove non si è potuto cambiare le vecchie leggi (Ancién Régime) senza trovolgere le antiche credenze (cristianesimo cattolico) che alle prime erano troppo mischiate. Ma l'essenziale negli Stati Uniti è che la religione è ricevuta non soltanto come una filosofia che si accetta dopo averla valutata, ma come una religione che si crede senza discutere. Il Cristianesimo stesso è un fatto stabilito e indiscutibile, che non si vuole nè attaccare, nè difendere. E' il ritornello di Tocqueville. Il buon risultato sociologico della religione (la considerazione tocquevilliana si mantiene infatti sempre e solo su questo livello dell'utilità sociale) è di dare sicurezza alle credenze, di dare agli uomini idee precise su Dio, la loro anima, i loro doveri verso il creatore e i loro simili, perché il dubbio su questi punti lascerebbe al caso tutte le loro azioni condannandole al disordine e all'impotenza. Queste idee decretate o piuttosto, la possibilità di decretare delle idee per evitare il dubbio indefinito che tocca le parti più alte dell'intelligenza, e la mezza-paralisi delle altre, per fuggire all'agitazione ed alla confusione delle idee elementari, Tocqueville non attende tutto ciò dalla filosofia, ma dalla religione (qua-


lunque essa sia, anche falsa o pericolosa). Nessun dubbio che queste considerazioni possono essere ritenute reazionarie e obsolete. Appartengono, del resto, ad una parte della sociologia nata da quella grande vertigine del vuoto che è seguita alla Rivoluzione francese. Oggi si può dire, per esempio con Patòcka, negli Essais

hérétiques sur la pbilosophie de l'bistoire (1981), che l'epoca moderna, caratterizzata del « rovesciamento del significato accettato », dalla ricerca del senso e dalla problematica politica da non lasciare mai l'occasione per dei punti fermi. Ma lo stesso Jean Patòcka, con la Charta 77, non oppone i diritti umani, « la dignità morale », « il valore incondizionato dei principi » all'arbitrario e al potere senza limiti dello Stato? Mentre il Cristianesimo, secondo Tocqueville, vale in quanto propone delle risposte positive alle questioni che ciascuno si pone e perché dà la base di alterità necessaria nei conflitti democratici, altri pensano che oggi le democrazie funzionano solo secondo la legge del continuo conflitto interno. La attualità di Tocqueville sta nel fatto che egli pone la questione, spesso passata sotto silenzio, delle credenze in democrazia, le credenze che impediscono o quelle che sostengono le democrazie, ne sono il sostrato, lo zoccolo invisibile. Equilibrio fra il credere in un foro e il rimanere liberi in un altro. Quest'equilibrio è possibile secondo Tocqueville questo è il suo leitmotiv - solo se la religione si tiene entro il suo dominio. « Nei secoli dei lumi e dell'uguaglianza, dove lo spirito umano rifiuta di ricevere fedi dogmatiche - egli scrive - le religioni devono mantenersi discrete, entro

i propri limiti, senza cercare di uscirne. Poichè volendo estendere il loro potere oltre la materia religiosa, rischiano di non essere più credute in alcun modo ». Esse devono tracciare con cura il confine entro il quale vogliono tenere lo spirito umano e, al di là di questo, lasciarlo libero di abbandonarsi a sè stesso. Tocqueville oppone fra loro il Corano, che fa discendere dal cielo non solo dottrine religiose, ma massime politiche, leggi civili e criminali, teorie scientifiche e il Vangelo che, al contrario, parla solo di rapporti generali degli uomini con Dio. Al di là di questi, il Vangelo non insegna nulla e non obbligaT a credervi. Perciò questa seconda religione può regnare nei tempi del sapere. Quindi non tutte le religioni possono affermarsi stabilmen. te nei secoli democratici. Bisogna fare attenzione ai contenuti della fede da ciascuna professati, alle forme esteriori che adottano, agli obblighi che impongono, e a questi tre livelli, la religione deve evitare di lottare inutilmente contro gli istinti naturali dell'intelligenza e rispettare i] credo invincibile dell'epoca democratica, cioè le « passioni madri », come il desiderio di acquistare ricchezza: in poche parole, deve accettare l'età borghese. Ciò che si è realizzato negli Stati Uniti, non è stato possibile in Francia. Per tutto il XIX secolo la religione (« la restaurazione ») si è solo scontrata con i nuovi principi nati dalla Rivoluzione, mentre questa si era opposta frontalmente all'insieme socio-religioso che costituiva la società dell'Antico Regime. Per Tocqueville, le varie forme che la religione può ricoprire nei secoli moderni, non dipendono dal Cattolicesimo o dal Protestantesimo, come si potrebbe pensare (il Protestantesimo sarebbe la re107


ligione purificata, riformata), ma piuttosto dalle circostanze sociali. Pensando forse alla Francia Tocqueville parla così dei preti americani: « Si sforzano di correggere i loro contemporanei, ma non se ne separano ». Il modo in cui le cose sono andate in Francia, il rapporto di esclusione reciproca non ha niente di necessario, è un prodotto di fatti storici e non si può vedere il modello francese come una configurazione valida universalmente.

LA VARIANTE TEDESCA

Proseguendo il cammino di Tocqueville, per un momento fermiamoci su un altro modello, quello tedesco, più esattamente quello della Repubblica federale tedesca. Quale tipo di separazione, o di conciliazione, tra Stato e Chiesa troviamo in Germania? Sul piano costituzionale, l'art. 4 della legge fondamentale del 1949 dispone che « la libertà di credo, di coscienza e la libertà d'opinione religiosa e filosofica, sono iriviolabili. E' garantito il libero esercizio del culto ». La libertà di fede fa parte dei diritti fondamentali (19 articoli) che, nel 1949, sono stati messi in particolare valore per fondare la giovane democrazia tedesca. Ma la legge fondamentale, all'art. 104, riprende semplicemente le disposizioni degli articoli 136, 137, 138, 139, 141 della Costituzione di Weimar dell'il agosto 1919. Ora, questa Costituzione consacra una separazione tra Chiesa e Stato (art. 37: non esiste Chiesa di Stato) senza tagliare completamente i legami storici che s'erano radicati nella rivoluzione luterana, nella organizzazione delle Chiese luterane e 108

nell'ulteriore estensione alle Chiese, cattolica e altre, sotto Bismark. Il quale concepisce una secolarizzazione d'ispirazione* cristiana. La riforma luterana giunse alla creazione di Chiese territoriali il cui principe temporale era il capo supremo, esercitante la funzione di vescovo (summus episcopus - vescovo supremo, Notbisho/ vescovo d'urgenza). Separando le Chiese territoriali da Roma, Lutero le sottometteva ai principi tedeschi, nei confronti dei quali (diversamente da Thomas Munzer durante la guerra dei contadini) reclamava obbedienza (riconoscimento del principio di Obrigkeit). Se la Costituzione di Weimar ammette dunque una separazione tra Chiesa e Stato (art. 136), non si può parlare di un regime di separazione tra le due forze paragonabile a quello francese. Helmut Schimdt ha parlato di complementarietà tra Chiesa e Stato, e Brandt di partners (concetto respinto da H. Schmidt). Dopo la guerra 1940-1945, le Chiese ebbero il ruolo di legittimare lo Stato che nasceva. Le Chiese non sono associazioni private, come in Francia, ma persone morali di diritto pubblico di tipo particolare (art. 137/5): « Le Chiese o culti rimangono organismi di diritto pubblico se lo sono state fino ad ora. Gli stessi diritti, se richiesti, verranno concessi ad altre chiese o culti (. . I rapporti con lo Stato sono regolati non solo dalla Costituzione, ma anche da contratti e concordati. A Bonn risiedono le rappresentanze ufficiali incaricate di difendere i loro interessi di fronte al Governo ed al Parlamento. Sono garantiti i diritti patrimoniali delle Chiese; queste hanno diritto a erogazioni finanziarie da parte dello Stato: per esem-


pio, a sovvenzioni in favore della remunerazione del clero. Lo Stato si occupa anche, completamente o in parte, delle spese di certe istituzioni ecclesiastiche. Per esempio, il contributo all'attività di Sviluppo organizzata dalle Chiese tedesche, che è un'attività importante e famosa, è in parte una ridistribuzione di fondi statali che transitano attraverso le chiese. Ancora, queste possono prelevare imposte dai loro membri « in base a dei ruoli di contributo » alle condizioni fissate dal diritto del Land (art. 137/6). Tali imposte sono di solito riscosse dall'amministrazione finanziaria con il rimborso delle spese di raccolta. L'uscita dal sistema « fiscale » di una Chiesa avviene attraverso una dichiarazione davanti al tribunale cioè un'istituzione pubblica; così molta gente preferisce continuare a pagare l'imposta statale piuttosto che sottomettersi ad una procedura complicata e marcante. I seminaristi si formano in gran parte nelle università pubbliche che comprendono delle facoltà di teologia. Le chiese possono intervenire nella designazione dei titolari di cattedre di teologia (un esempio è, al riguardo, il conflitto e poi l'accordo tra Chiesa e Stato circa il mantenimento dello status di professore di teologia cattolica a Hans Kung). Questo regime, anche se discusso sia dagli ambienti religosi che da quelli politici, continua a sopravvivere. Ho sommariamente analizzato lo statuto costituzionale delle chiese in rapporto allo Staio. Joseph Rovan (in Allemagne, 1959) ritiene che la Germania non abbia mai conosciuto un vero regime di separazione tra Chiese e Stato. Egli sottolinea in particolare le ambiguità del regime « concordatario » , ambiguità che

spiegano per buona parte le difficoltà delle Chiese luterane e cattoliche a prendere posizione e ad opporsi ad Hitler nel 1933.

SECOLARIZZAZIONE E DIVENIRE CRISTIANO

Il regime tedesco e il concetto tedesco di rapporti tra Chiese e Stato si presentano sotto due aspetti, entrambi legati alle ripercussioni della Riforma iuterana sui rapporti fra Cristianesimo e società. In Germania, il Protestantesimo rappresenta una prima secolarizzazione nel quadro del Cristianesimo. Qui la secolarizzazione può attuarsi in armonia con il Cristianesimo, cosa poco concepibile nella tradizione francese. In Germania l'Auf klarung si accompagna al pietismo, non rivestendo il carattere antireligioso che ha in Francia. Si assiste subito ad una situazione di pluralità di Chiese, evitando così le situazioni di dualismo alla francese. Nel XIX secolo, Bismark dichiara di voler evitare « una società laicizzata ad oltranza ed una Chiesa clericizzata chiusa in sè stessa ». Il riferimento è al rischio francese. Secondo l'espressione di Rudolf Von Thadden, la Verweltlichung (secolarizzazione) può allinearsi alla Verchrisilichung (divenire cristiano). La politica e la teologia, la filosofia e la teologia sono molto meno separate nella tradizione luterana (Hegel, Hòlderlin e Schelling erano del collegio teologico di Tubingen) che nella tradizione francese seguita alla Rivoluzione, modello di secolarizzazione violenta. In Germania il pensiero religioso si amalgama con la cultura (per esempio, le famiglie dei pastori giocano un ruolo di


collegamento), ma per contro lo sviluppo dello Stato territoriale non lascia mai alle Chiese alcuna indipendenza. C'è un secondo aspetto: la Chiesa può trovarsi sottomessa allo Stato. La Chiesa invisibile, opposta vittoriosamente da Lutero a papi, concilii ed episcopati, si sottomette allo Stato che sarà « la forma sotto cui, per volontà divina, vive questo mondo cattivo e corrotto dalla concupiscenza. Lo Stato viene concepito come un insieme di obblighi necessari ». Espressione concreta di Chiesa invisibile, quella visibile ha perciò più bisogno di un Principe nominato da Dio per punire i malvagi e maneggiare la spada. Di conseguenza, l'idea di libertà politica è mal riconosciuta nella sua piena dimensione e purezza. L'idea di libertà è concepita più dal punto di vista interno, spirituale (gestlich), o culturale (Bildung), che sotto quello propriamente politico come in Gran Bretagna o in Francia. Potendo il governo degli uomini essere più o meno lasciato alla brutalità o al macchiavellismo, sarà allora ben difficile reagire vigorosamente a iniziative come quella di Hitler, che favoriscono l'idea e la realtà di una Chiesa nazionale (Volkisch). Nel 1945, a Treysa, per bocca del pastore Niemollier uscito da un campo di concentramento, la Chiesa protestante fece ritorno al passato. « E' un luteranesimo mal compreso - egli affermò - che ci ha fatto credere che non avevamo altra responsabilità di fronte allo Stato che quella di obbedirgli, di predicare alla cristianità obbedienza e di educarla in vista di questa; e questo almeno finchè lo Stato non ci richiedesse un peccato evidente ». Tali erano le difficoltà del luteranesimo prima del 1945, I cattolici, in modo di110

verso, mantengono la finzione di una società fondamentalmente cristiana e sostengono così le loro scuole confessionali e la versione « stabilita » della loro confessione. Ho indicato i gravi inconvenienti storici di un regime e di una storia religiosa che non hanno chiaramente elaborato, come in Francia quando necessario con il conflitto, una netta separazione tra il Cristianesimo e il pensiero laico. Peraltro questo regime di complementarietà sembra permettere alla religione di rimanere, più che in Francia, maggiormente presente nella cultura. Al termine di questo percorso, possiamo dunque delineare tre modelli: - il modello americano, di separazione tra religione e politca, dove l'una e l'altra profittando di tale separazione proseguono di concerto su un orizzonte di libertà; - il modello francese, di separazione piuttosto violenta o imposta, dove religione e politica sono più spesso in rivalità e dove sostanzialmente ne segue un indebolimento reciproco a danno della libertà: una democrazia senza religione e una religione senza democrazia, spogliata due volte (nel 1789 e nel 1905), e quindi ripiegata su se stessa, poco critica, senza grande libertà. Due modelli di separazione uno metodologico, separazione voluta e alla fine cooperativa; uno di chiusura, separazione conflittuale e subita (come quella di anziani sposi separati); - il modello tedesco di separazione nella complementarietà, secondo il quale, in ragione di una antica sottomissione delle Chiese allo Stato, la religione rischia di


perdere parte della propria forza autonoma e del proprio vigore profetico. A questo punto facendo nostra la preoccupazione che domina il pensiero e l'immaginazione politica di Tocqueville, la preoccupazione cioè che si realizzi la libertà, possiamo arrischiare qualche riflessione conclusiva.

INTERROGARE LA NOSTRA TRADIZIONE

Direi volentieri che ogni paese occidentale è portato a correggere la propria tradizione, la propria variante, in funzione di quello che in Occidente è decisivo: di qui la dualità di poteri e di principi all'origine del nostro dinamismo. Abbiamo visto che questa dualità può essere messa in causa, secondo una tendenza luterana che sottomette la Chiesa. Ma può essere ugualmente messa in causa nella tradizione francese se le Chiese, diventate troppo deboli (o bisogna dire: troppo laiche?), non rappresentano più istanze sociali capaci di farsi ascoltare. Il modello francese ha instaurato una separazione in ragione del notevole peso della Chiesa cattolica nella società francese. Ha posto la dualità di queste due forze in concorrenza per non dire in rivalità, ed ha fondato su questa base la psiche francese. Dopo il 1905, le Chiese, come lo Stato, si sono ben trovate in questa coesistenza che mantiene la religione nella sfera del privato. E' il gioco della dualità delle istanze ad essere particolarmente apprezzato, io credo, nella tradizione francese. Si pensi alla scuola privata sostenuta a metà degli anni Ottanta da una buona maggioranza della popolazione: intendo questo

fatto come una sorta di scelta in favore del mantenimento della dualità dei principi. Ma questo modello, giusto in teoria, non si rivela limitante quando le due forze che strutturano lo spazio francese, lo spirito laico e le Chiese cristiane, l'una e l'altra concepite come forze chiare e organizzate, si indeboliscono nello stesso tempo? Mentre la religione cristiana perde all'esterno parte del suo ruolo d'istanza sociale e all'interno si individualizza (o si protestantizza?) la « ragione » repubblicana e laica non perde la sua forza d'attrazione? E' come dire che i due nemici di un tempo perdono il loro sangue sulla piazza pubblica. Le loro forze non sono più degli isolotti nel mezzo del grande scompiglio: c'è pluralità sempre più grande della vita religiosa, ci sono risorgenze individuali o selvagge, ci sono nuove saggezze e nuove laicità che non si riferiscono più alla divisione di un tempo tra razionale e irrazionale. Anche lo Stato, nella tradizione francese, non può chiudere gli occhi o mostrarsi indifferente nè agli sconfinamenti dei gruppi religiosi, nè alla loro totale passività. Non si può allora interrogare di nuovo la tradizione della Rivoluzione francese? Non si pone di nuovo il problema delle autorità, delle fedi comuni che consentono il vivere uniti? E non c'è bisogno d'altro che della neutralità indulgente che modera i conflitti? Il luogo pubblico deve discutere i nuovi problemi in materia di morale, non deve ammettere in modo più aperto, tutte le istanze che concorrono a formare l'opinione e quindi anche le religioni, come elementi della cultura e dello spirito pubblico? 111


In breve, il significato pubblico e culturale della religione non è più esteso di quello che gli è stato dato dalla mentalità francese? In questo senso Tocqueville ha messo in questione il concetto estremo di laicità che si spiega in ragione della violenza della lotta religiosa in Francia a partite dal XVI sec. (fenomeno sconosciuto negli Stati Uniti) e del ruolo che lo Stato ha dovuto assumere come luogo di riparo dalle lotte di religione e poi per « l'importanza » dei legami tra religione e politica sotto l'Antico Regime. In Francia, secondo Tocqueville, non si sono potute facilmente cambiare le leggi senza minacciare la fede. E' nell'ambito di questa ambizione massima e conquistatrice che si inquadrano le audaci dichiarazioni del Ministro Badinter a Vienna nel 1985 a proposito dalla procreazione artificiale e della possibilità di mettere al mondo dei figli per volere di un solo genitore: per la legge si tratta di mostrarsi « moderna » nelle sue credenze. Ma anche se lo Stato ha dovuto reprimere la religione a causa delle particolarità della storia francese, dobbiamo ritenere sufficiente questa visione per la fine del secolo? Deve la religione essere

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ancora emarginata dalla cultura pubblica e gli studi religiosi devono essere aboliti nelle università pubbliche? Se in Europa le religioni hanno perso parte del loro peso politico tradizionale, se si sono riavvicinate allo spirito di libertà, se le società democratiche mostrano, oggi meglio di ieri, di essere consapevoli del fatto che non sono un sostituto capace di rispondere ad ogni nuovo problema, in particolare a quello dell'individualismo radicale - insieme solitudine e legge della giungla - non è da pensare ad un nuovo significato del modello francese e da immaginare una considerazione più ampia e più sistematica della questione religiosa? La questione qui posta non è dunque quella di un « riequilibrio », per il quale si chiederebbe alla laicità di stringersi un po' per far posto alla religione. La domanda risulterebbe astratta e astrusa in assenza di reali capacità di conferma da parte delle diverse istituzioni religiose. C'è piuttosto un problema nuovo posto alla cultura moderna come tale: può essa aver comprensione di sè stessa, può vivere, può durare, continuando a « scomunicare » una parte intima della sua eredità.


Le formule del separatismo in Italia di Sergio Lariccia

Come ha rilevato Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che più ha contribuito all'approfondimento dei problemi storicamente relativi ai rapporti tra ordinamenti, tra le prime formule organizzatorie tendenti a definire le relazioni tra l'ente-stato e gli enti esponenziali di altri gruppi sociali, devono considerarsi quelle riguardanti i rapporti con gli ordinamenti religiosi; formule organizzatorie esprimono locuzioni quali separatismo (sistema nel quale le confessioni religiose vivono nell'ambito del diritto comune, valendosi degli strumenti che lo stato pone a disposizione di ogni soggetto operante nell'ordinamento) e giurisdizionalismo (sistema in cui il potere sovrano rivendica pretese ed ingerenze nell'organizzazione ecclesiastica), così come hanno valore di formule organizzatorie le espressione sta-

talismo e pluralismo (GIANNINI, 1970, p. 100). A proposito della difficoltà di definire la espressione e il concetto di separatismo, ha osservato giustamente Silvio Ferrari che, pur facendo riferimento alle sole forme che il saparatismo ha assunto in Europa nel corso del secolo XIX, esse sono tanto varie da rendere ardua, anche se non impossibile, l'enucleazione di un concetto unitario di separatismo pure in questi ristretti limiti geografici e temporali. Lo stesso autore ha tuttavia ritenuto che si possono certo fissare « taluni orientamenti di fondo in cui si traduce, sul

terreno del diritto, la scelta separatista compiuta dalle classi dirigenti liberali nel secolo scorso » (FERRARI, 1987, p. 71).

Il separatismo nell'esperienza liberale. Gli orientamenti che caratterizzarono la esperienza liberale in materia religiosa sono i seguenti: l'affermazione, innanzi tutto, della piena libertà religiosa dei cittadini; l'eliminazione, nella disciplina giuridica della vita associata, di qualsiasi riferimento a valori e contenuti religiosi espliciti, sul fondamento della premessa che il problema religioso dovesse considerarsi affare privato di esclusiva competenza della coscienza individuale del cittadino (v. sul punto GUERZONI, 1975, p. 271); la parificazione di tutti i culti di fronte alla legge e la tendenza a ricondurre la loro disciplina al diritto comune statale, conseguenze derivanti dal principio di incompetenza dello stato in materia religiosa (per l'esame di tali orientamenti può vedersi LARICCIA, 1986, pp. 11-27). La valutazione dell'esperienza giuridica in materia religiosa consente di rilevare che la politica ecclesiastica in Italia dopo lo avvento dell'unità del marzo 1861 oscillò continuamente tra il polo separatista e quello giurisdizionalista (BELLINI, 1967; RAvÀ, 1967). Si tratta di due tendenze, quella separatista e quella giurisdizionalista, presenti in molte leggi dell'esperienza liberale: secondo alcuni sarebbe anzi 113


possibile individuare due periodi cronologicamente distinti e successivi, caratterizzati rispettivamente da un tipo di separatismo individualista, di derivazione francese, nel quale sarebbe stato posto l'accento sulla libertà individuale dei singoli fedeli; l'altro statualista, di derivazione germanica, in cui lo stato avrebbe sì affermato la propria supremazia nei confronti di tutti gli enti con finalità religiosa, ma avrebbe, d'altronde, riconosciuto alla Chiesa cattolica una autonomia conseguente al riconoscimento della sua organizzazione gerarchica. Per quanto riguarda le garanzie di libertà riconosciute ai cittadini ed ai gruppi in materia religiosa, si può individuare un primo periodo (1848-76), caratterizzato dall 'influenza dell'orientamento separatista espresso dalla destra al potere, durante il quale l'art. 1, prima parte dello statuto di Carlo Alberto (La relgione

Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato) non fu attuato, nella sua rigorosa formulazione se non nei primi anni che seguirono la sua emanazione e si interpretò invece estensivamente il principio contenuto nella seconda parte della disposizione, che considerava esclusivamente tollerate le altre confessioni religiose. La portata delle norme dello statuto albertino in materia religiosa, che teoricamente,•ove fossero state applicate alla lettera, implicavano il disconoscimento della libertà religiosa nei confronti dei cittadini non cattolici, fu chiarita dalla legge Sineo del 19 giugno 1848, n. 735, che prevedeva il seguente principio, caratteristico del separatismo in materia ecclesiastica: « La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici, ed all'ammissibilità alle cariche civili e militari a. In ap-

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plicazione di tale principio, che nel sistema di costituzione flessibile qual'era lo statuto albertino, prevaleva sulla disposizione, cronologicamen te anteriore, dell'art. i dello statuto, le minoranze confessionali potettero vivere ed operare in Italia in una condizione di piena libertà ed autonomia. In conformità al principio dell'agnosticismo statuale in materia religiosa e sul fondamento del presupposto che il fenomeno religioso dovesse, in un sistema liberale, riguardare esclusivamente la coscienza individuale dei singoli fedeli, il legislatore italiano, negli anni che precedettero l'avvento del regime fascista, proclamò e tute.lò l'eguaglianza dei cittadini e delle confessioni religiose davanti alla legge, senza alcuna distinzione derivante dalla religione professata, e la libertà di coscienza e di culto in proposito è da ricordare, per l'influenza che esercitò nella concreta esperienza, il voto con il quale, il 18 marzo 1871, la camera dei deputati, su proposta di Pasquale Stanislao Mancini, dichiarò espressamente che « l'abolizione di ogni ingerenza governativa nell'esercizio del culto e della libertà religiosa sarà mantenuta ed applicata a profitto di tutti i culti professati nello Stato a. Il 13 maggio dello stesso anno il Parlamento italiano approvava la legge delle guarentigie per regolare i rapporti tra l'Italia e la Santa Sede. La legge garantiva al Papa il libero esercizio delle sue funzioni di capo della chiesa cattolica e gli riconosceva tutti gli onori sovrani, prevedeva la rinuncia dello Stato al giuramento di fedeltà dei vescovi, stabiliva l'abolizione del placei regio (consenso a pubblicare un decreto ecclesiastico), deli'exequatur (permesso di farlo eseguire) e di ogni altra forma di assenso gover -


nativo per la pubblicazione ed esecuzione degli atti emanati dalle autorità ecclesiastiche, ad eccezione delle forme di controllo governativo sugli atti canonici riguardanti la destinazione dei beni ecclesiastici. Due giorni dopo, con l'enciclica Ubi Nos il pontefice Pio IX, che aveva definito la legge delle guarantigie un « mostruoso prodotto della giurisprudenza rivoluzionaria » respingeva la legge, affermando che essa non garantiva alla Santa Sede la sovranità temporale indispensabile alla sua indipendenza e all'esercizio della sua missione spirituale nel mondo e costituiva un atto legislativo unilaterale dello Stato italiano inaccettabile da parte della Santa Sede. Delle diverse componenti che, ne] periodo liberale, confluivano nella politica ecclesiastica della classe dirigente italiana, il separatismo concorse a ispirare prevalentemente i principi della legge delle guarentigie ed il giurisdizionalismo a determinarne l'applicazione. Dopo l'emanazione della legge delle guarentigie si assiste infatti ad una accentuazione della linea giurisdizionalistica: così nel giugno 1871 si provvide a regolaze per decreto l'attuazione pratica del placet e dell'exequatur, ai quali continuarono ad essere soggetti gli atti relativi alla destinazione dei beni ecclesiastici, l'insediamento dei nuovi vescovi e la nomina dei parroci con le relative attribuzioni economiche. Negli anni successivi furono soppresse le facoltà di teologia, fu stabilito il controllo governativo sui seminari (1872) e furono estese a Roma le leggi eversive dell'asse ecclesiastico.

La politica fascista e il principio di separazione tra Stato e chiesa cattolica. Il mutamento che la posizione del fascismo

assume nei confronti del fenomeno religioso rispetto agli orientamenti prevalsi nei decenni precedenti è espresso in modo significativo in una lettera di Benito Mussolini, commentando il proposito della Santa Sede di concludere un accordo bilaterale con lo stato italiano, afferma: « Il regime fascista, superando in questo, come in ogni altro campo, le pregiudiziali del liberalismo, ha ripudiato così il principio dell'agnosticismo religioso dello Stato, come quello di una separazione tra Chiesa e Stato, altrettanto assurda quanto la separazione tra spirito e materia ( ... ). E' logico pertanto che il Governo fascista giudichi con piena serenità le attuali manifestaziini della S. Sede e le reputi degne della più attenta considerazione (la lettera è riportata in DE FELICE, 1970, p. 382). La possibilità di stipulare un accordo con la Chiesa cattolica fu una occasione che consentì al fascismo di strumentalizzare la religione cattolica e la sua diffusione nella società italiana per il conseguimento delle finalità politiche del regime fascista. Ed in effetti la stipulazione dei Patti lateranensi fu un notevole successo per la politica di Mussolini e contribuì in la'rga misura al consolidamento del suo regime, sia in Italia che all'estero. Con la stipulazione degli accordi del Laterano il Governo fascista intendeva risolvere la questione romana e, al fine di concludere il lungo periodo di lotta con la chiesa cattolica, mirava ad un superamento delle tendenze di separatismo espresse dalla politica liberale in materia religiosa. Il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa veniva così affrontato e valutato da un punto di vista esclusivamente politico: un accordo con la Chiesa cattolica rientrava in una logica di sparti115


zione delle sfere di influenza nella vita sociale e determinava la rinuncia dello Stato in importanti settori della sovranità (materia matrimoniale, insegnamento ed istruzione, controllo dello Stato sull'attività patrimoniale degli enti con finalità religiosa).

La carta costituzionale e i principi di separazione tra Stato e confessioni religiose. Prima che iniziassero i lavori dell'assemblea costituente il problema dei superamento del regime concordatario viene posto all'attenzione delle forze politiche da intellettuali impegnati nel promuovere un'evoluzione in senso democratico della disciplina giuridica dei rapporti tra Stato e confessioni religiose. « Una sola parola separazione - scrive Gaetano Salvemini nel 1943 - "In conseguenza il Concordato del '29 sarebbe annullato dalla prima all'ultima parola senza negoziati di alcun genere" » (StVEMINI 1943). Con la lungimiranza che caratterizza molti dei suoi interventi degli anni di esilio negli Stati Uniti, Salvemini osserva che « Il problema dello stato giuridko da attribuire alla Chiesa cattolica in Italia dovrà essere affrontato per forza nella Repubblica democratica italiana ( ... ). Il problema esiste, ed è grave, e deve essere affrontato con coerenza e coraggio ma anche con prudenza ». Solo un'esigua minoranza delle forze politiche riterrà tuttavia opportuno, dopo la caduta del fascismo, un impegno per una politica ecclesiastica tendente ad affermare una rottura con le scelte del precedente regime. All'assemblea costituente la maggioranza vota per il richiamo dei patti lateranensi nella Costituzione, anche per la posizione assunta dai partito comunista in 116

tema di rapporti con la Chiesa cattolica (LARICCIA, 1978). Ma non mancano nella

Carta costituzionale i riflessi della concezione separatista. Tra le norme costituzionali sui problema religioso in Italia, che tengono conto della fallimentare esperienza storica del passato e si propongono di favorire una pacifica convivenza delle organizzazioni sociali con finalità religiosa e un sistema di garanzie conforme alle nuove istanze di libertà espresse dalla comunità, una delle più significative è, infatti, quella che prevede il principio di separazione fra l'ordine civile e l'ordine religoso. « Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani ». Il principio contemplato nell'art. 7, i comma, cost., per quanto previsto espressamente nei confronti della Chiesa Cattolica, può ritenersi che valga anche nei confronti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica. Ed infatti, l'autolimitazione dello Stato in materia confessionale ed il riconoscimento della rappresentanza degli interessi religiosi ai gruppi religiosi operanti nella società italiana applica il principio di incompetenza dello Stato a valutare il fenomeno religioso e dunque non costituisce un limite che valga solo nei confronti della Chiesa cattolica (può vedersi sul punto LARIcIA, 1967, pp. 79 ss.). Nei confronti della Chiesa cattolica il principio di separazione dell'ordine civile e dell'ordine religioso era già previsto nel nostro ordinamento prima dell'entrata in vigore della Carta costituzionale: ed infatti, sin dal 1929, lo stato italiano si era impegnato, con l'art. i, 10 comma, del concordato lateranense, a non interferire nella vita interna della Chiesa cattolica, a non alterarrìe la struttura istituzionale e a non sindacarne la dottrina.


La norma costituzionale contenuta nell'art. 7, 1° comma, cost. assume però notevole importanza in quanto da essa si deduce come la reciproca indipendenza di Stato e Chiesa (ciascuno nel proprio ordine), che costituiva il principo-base del sistema concordatario, dopo il 1948 possa considerarsi il principio istituzionale della disciplina relativa alle relazioni giuridiche tra Stato e Chiesa Cattolica in Italia, avendo acquistato una rilevanza costituzionale nel diritto pubblico interno (per l'interpretazione dei vari problemi che pone l'art. 7, 1° comma, cost. può vedersi LARIccIA, 1986, pp. 676-79). Non è possibile qui valutare, neppure in una rapida sintesi, il rilievo che l'idea separatista ha assunto negli anni che seguono l'entrata in vigore della costituzione e la polemica, vivace e ricca di spunti di notevole interesse, sull'alternativa revisione/abrogazione del concordato nella politica dei partiti e negli orientamenti della vita sociale. Concludendo la sua relazione al convegno degli Amici del « Mondo» tenutosi a Roma nei giorni 6 e 7 aprile 1957, Paolo Barile osservava: « E' utopistico dirlo; ma occorre pur dire che la soluzione migliore sarebbe quella del ripristino di un sistema separatistico con l'abbandono di quello concordatario ( ... ). Naturalmente, separatismo non vuol dire disinteresse dello Stato per le materie economico-finanziarie che toccano la Chiesa: i supplementi di congrua - "che del resto esistevano anche in regime di Legge delle guarentigie" - dovrebbero restare in vita e così l'impegno dello Stato a costruire le chiese per la popolazione, a riconoscere le proprietà ecclesiastiche, ecc. La legge francese del 1905, del resto, potrebbe servire come esempio e magari si potrebbe

far ricorso come proponeva Jemolo nel 1947 » (« Il Ponte », pp. 334-335) a far pagare il culto ai fedeli (BARILE, 1957, p. 93). Il documento approvato al convegno si conclude con la dichiarazione che gli Amici del « Mondo » « si impegnano a dare tutta l'opera per creare una nuova situazione nel Paese che consenta l'abrogazione del Concordato e la instaurazione di un ordinamento »? Sono i comunisti che contestano più degli altri la validità della proposta formulata dal gruppo di intellettuali promotori del convegno degli Amici del « Mondo ». E' lo stesso Togliatti che, commentando l'iniziativa ed i lavori del convegno, in un articolo duro e sprezzante pubblicato in « Rinascita » del maggio 1957, scrive tra l'altro: « La nostra tesi fondamentale è che la clericalizzazione dello Stato, quale si è realizzata dal 1947-48 in poi non può considerarsi conseguenza dell'approvazione del Concordato da parte della Assemblea costituente, ma è da mettere in relazione con tutta la involuzione della democrazia italiana, quale in questo periodo si è attuata, sotto la direzione dei democristiani, ma con la collaborazione attiva dei partiti cosiddetti laici e spesso di quegli stessi uomini che oggi levano così fiere ma disperate proteste ( ... ). La richiesta di abolizione del Concordato fatta dai partecipanti al convegno del «Mondo » non può quindi essere considerata una cosa seria. Né i comunisti né i socialisti, le cui masse vivono a stretto contatto e collaborano, anche, con le masse cattoliche, possono prenderla in considerazione. Gli altri contano assai poco e si può sempre replicar loro che, nella misura di quello che contano, cerchino di farlo rispettare, il

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Concordato, anziché parlare di abrogano ». (TOGLIATTI, 1957).

La revisione del concordato e la distinzione dell'ordine religioso dall'ordine civile. Le disposizioni contenute nell'accordo di modificazione del concordato lateranense, entrate in vigore a seguito della stipulazione del patto di Villa Madama, assumono naturalmente notevole rilievo per valutare il problema della separazione tra l'ordine civile e l'ordine religioso nel vigente ordinamento. Una delle disposizioni più importanti è quella, contenuta nel n. i del protocollo addizionale dell'accordo di Villa Madama, che prevede l'esplicita abrogazione del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato. Il superamento di tale principio è destinato ad esercitare influenza non soltanto per l'interpretazione di molte disposizioni del nuovo Concordato - per esempio, in materia di assistenza spirituale, di giurisdizione ecclesiastica, di libertà della Chiesa cattolica, di insegnamento della religione cattolica nella scuola di Stato, di riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche matrimoniali -, ma anche per le conseguenze che l'affermazione del carattere laico e non confessionale dello Stato deve comportare per una revisione complessiva di tutte le norme che nell'ordinamento italiano riflettono tuttora una concezione confessionale coerente con la premessa della religione cattolica come sola religione dello Stato: basti pensare al collegamento che il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato presenta con le disposizioni del codice penale del 1930, tuttora vigente, in tema di tutela dei culti. Un principio che costituisce indubbiamen118

te un'importante chiave di lettura per un'esatta interpretazione delle disposizioni di recente concordate, è quello, posto a capo del nuovo accordo, che impegna la Repubblica italiana e la Santa Sede alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo ed il bene del Paese ». Tale impegno risulta per la prima volta previsto nell'accordo sottoscritto dalle parti il 18 febbraio 1984, in quanto ad esso non facevano riferimento i precedenti progetti di revisione concordataria. Sin dai primi commenti dedicati all'art. 1 del concordato di Villa Madama, si sono espresse critiche e perplessità, essendosi giustamente sottolineato che facili considerazioni storiche e teoriche possono fare temere che la promozione dell'uomo, che rappresenta in ogni caso una finalità precisa per la società civile e per quella religiosa, indipendentemente da intenti di reciproca collaborazione, porti con sè il rischio dell'invadenza di un ordine ai danni dell'altro (Lo CASTRO, 1984, p.

509). Devono comunque ritenersi inammissibili interpretazioni che, a proposito dell'impegno della Repubblica italiana a collaborare con la Santa Sede per la promozione dell' uomo ed il bene del Paese, possano determinare in concreto la violazione del principio di separazione tra l'ordine civile e l'ordine religioso. La conseguenza della prevalenza giuridica di tale principio deriva infatti dalla gerarchia delle fonti, in quanto la disposizione che prevede il principio di separazione fra la sfera civile e la sfera religiosa ha natura di norma costituzionale, mentre nella Costituzione italiana non vi sono disposizioni che, oltre a garantire le libertà dei gruppi confessionali, impegnino la Repubblica a collaborare con le confessioni religiose per la promo-


zione della persona umana ed il bene dell'Italia. La presenza di una disposizione come quella contenuta nell'art. i del concordato del 1984 non vi è dubbio che possa favorire la tendenza a riproporre una visione dei rapporti tra Stato e confessioni religiose ormai superata, considerando il processo di diffusa secolarizzazione anche della società italiana (di grande utilità è in proposito la lettura del saggio di DALLA TORRE, 1987). Certo è opportuno che i pubblici poteri e le confessioni religiose operino in uno spirito di reciproca concordia, al fine di promuovere e soddisfare le esigenze dell'uomo e gli interessi della società; ma il principio di separazione fra la sfera religiosa e la sfera civile comporta il superamento della logica confessionale, sul cui fondamento in passato si è preteso di vincolare le strutture civili al rispetto di un'etica religiosa. « Le grandi riforme non si fanno senza le grandi idee - ha osservato di recente Piero Bellini -. Il separatismo è una grande idea, e prima ancora lo è il laicismo liberale. E grande idea è il cattolicesimo, con tutte le implicazioni che esso reca. / A questi illustri canoni ideali occorre volgersi con spirito ossequiente, come a degli alti principi normativi (esigentissimi) protesi a tradursi nella storia: ciascuno portatore di sue proprie istanze irrinunciabili" ». Ma lo stesso autore avverte anche che «quando da questi medesimi modelli si pensa di poter desumere o questo o quel singolo

elemento (questo o quel singolo ingrediente) per mettere poi assieme, in ben dosate quantità, il meglio di ciascuna concezione; quando si crede di poter andar avanti a questo modo, non ci si possono poi attendere che dei grigi accomodamenti praticistici, affetti da povertà ideale: spogli di tensione civica ». (BELLINI, 1988, p. 207). L'ambiguità e la genericità delle disposizioni previste dalla nuova legislazione concordataria, certo non casuale ma rispondente all'intento di superare gli ostacoli per la stipulazione degli accordi e di evitare dunque ogni formula che, essendo di chiaro significato, fosse capace di creare problemi per una delle due parti contraenti, determinerà divergenti valutazioni e soluzioni, oltre che nell'interpretazione dell'.art. i del concordato, anche su molti altri problemi in cui il conflitto tra Stato e Chiesa è più accentuato. Una divergenza nelle valutazioni concernenti i valori etico-filosofici ed etico-politico-sociali corrisponde alla natura pluralistica della società e dell'ordinamento del nostro paese e alla relatività delle valutazioni giuridiche dei diversi ordina-. menti dello stato e delle confessioni religiose. L'idea separatista, anche dopo i recenti accordi, conserva il valore di essenziale criterio di riferimento per una disciplina giuridica del fenomeno religioso che non sacrifichi l'imprenscindibile esigenza dello Stato di mantenersi neutrale nei confronti delle scelte religiose dei suoi cittadini e di custodire gelosamente la propria sovranità nella tutela degli interessi generali della popolazione.

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La Chiesa nella società contemporanea Un dibattito in redazione

Sergio Ristuccia GLI ULTIMI QUARANT'ANNI: ALCUNI PUNTI DI RIFERIMENTO

Il libro di Guido Verucci (La Chiesa nella società contemporanea, Laterza 1988) è un'ottima occasione per un « dibattito in redazione ». Cercherò d'introdurlo riprendendo il filo di un discorso che già mi è capitato di fare nella serata di presentazione alla Casa della Cultura di Roma, nel giugno scorso. Il primo interesse che mi ha guidato nella lettura del libro è stato quello di ripercorrere le vicende conosciute e in qualche modo vissute che sono per me, come per molti altri fra noi, le vicende dell'intero quarantennio dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Il libro consente di ripercorrere bene queste vicende dando al lettore quella sorpresa che spesso suscita la ricognizione di cose vissute quando esse sono rappresentate con verità. Si tratta di un quarantennio durante il quale tutti abbiamo avuto l'impressione di grandi mutamenti nel comportamento sociale, di taglio o portata antropologica, e ciò anche in relazione all'esperienza religiosa ed al suo peso nella vita di tutti i giorni. All'inizio di questo periodo c'è un fatto, molto bene evidenziato nella ricostruzione di Verucci, che a me pare il dato di partenza e insieme una buona chia-

ve di lettura per intendere la storia del quarantennio sotto il profilo dei rapporti Chiesa e società: la Chiesa ha vissuto dopo la seconda guerra mondiale il momento della maggiore Ieadership sociale nell'arco di questo secolo. L'ultima forte leadership nella società occidentale-europea e soprattutto, naturalmente, in quella italiana. Le ragioni probabilmente sono nel fatto stesso del grande conflitto e della popolarità che la gerarchia e il papato hanno acquisito durante la seconda guerra mondiale. Si è trattato di una presenza forte, in qualche modo influente molto la di là del mondo cattolico. Un punto di riflessione che il libro suggerisce o che comunque è possibile cogliere in questa ricostruzione storica, è che tale leadership s'accompagna o si realizza esattamente al momento in cui, soprattutto nel nostro paese ma non solo in questo, si afferma sul piano politico l'organizzazione politica dei partiti di massa. Si ha cioè la piena realizzazione storica, in questo secolo, del partito come partito fondato non solo sui suffragio universale ma sull'organizzazione diffusa. Non più partito di classe dirigente ma di articolate radici nel paese: insieme organizzazione di culture e organizzazioni di interessi. La storia politica e la sociologia hanno ben evidenziato il fenomeno soprattutto per quanto riguarda il primo periodo del dopoguerra. Si può dire, allora, che c'è stata una sorta 121


di prontezza cattolica e della Chiesa a cogliere questa combinazione. Ciò probabilmente derivò dall'esistenza consolidata di una organizzazione cattolica nella società. Il che - sia detto per inciso riporta alla memoria quel particolare interesse che persone come Gramsci avevano dedicato alla Chiesa come organizzazione sociale: il fatto storico della prontezza cattolica costituisce in sostanza una controprova della fondatezza dell'interesse gramsciano. Ecco, a me pare che la combinazione dei due elementi, popolarità acquisita durante la seconda guerra mondiale e radicazione sociale del mondo cattolico, abbia portato protagonisti e osservatori a trascrivere la presenza della Chiesa soprattutto in un fatto di organizzazione o presenza politica. Si intende, insomma, perchè il discorso sulla Chiesa sia stato per lo più, senza distinzioni o sfumature, un discorso sul partito cattolico o sull'organizzazione dei cattolici in politica. Il che ha messo al margine altri profili della presenza cattolica e magari proprio quelli religiosi. Uno dei quesiti che, mi ricordo, guidarono un gruppo di ricerca della Fondazione Adriano Olivetti - e qui c'è Franco Sidoti che ne faceva parte - nel lavorare intorno all'esperienza delle « riviste cattoliche » (cfr. Intellettuali cattolici fra riformismo e dissenso, a cura di S. Ristuccia, Edizioni di Comunità, Milano 1975) era questo: se prescindiamo dalle vicende della Democrazia Cristiana, dalla storia dell'unità politica dei cattolici, insomma dai cattolici in politica, in che consiste la presenza dei cattolici in questo paese negli anni del dopoguerra? C'è un proprium della cultura cattolica che sia più o meno da sottrarre alla con122

sueta traduzione in peso politico? A questo quesito abbiamo potuto dare allora una risposta solo parziale. A parte l'incontro con una letteratura minore, facemmo i conti con una realtà abbastanza esile in tutti i sensi: sociale e culturale. Per una buona parte di questo quarantennio l'equazione « presenza cattolicaegemonia politica della DC » ha creato un effetto, diciamo così, di illusione attribuendo all'esperienza o istanza religiosa nella società un peso specifico più apparente che reale. Qualcosa di simile all'illusione monetaria in periodo di inflazione quando la moneta dilaga nella quantita ma perde di qualità. E allora non è poi in contrasto con questa situazione il fatto che l'Italia abbia visto fenomeni di secolarizzazione o scristianizzazione tanto vistosi. Beninteso, c'è molto da discutere sul significato di queste parole e sui fatti ai quali si riferiscono. E non credo che secolarizzazione o scristianizzazione siano, alla fine, di maggiore portata qui in Italia che in altri paesi, se non appunto per l'illusione di partenza. In quest'ordine di idee si può ben arrivare a comprendere come, pur cadendo in facili tranelli concettuali e ricognitivi, i neo-presenzialisti di Comunione e Liberazione addebitino ora proprio ai politici cattolici e alla politica democristiana la responsabilità maggiore di così grave fenomeno di scristianizzazione. L'addebito finisce per essere fantasioso. I conti non vengono fatti bene. Sarebbe troppo facile l'identificazione di responsabilità in questi termini. Eppure bisogna ammettere che le false attese hanno costituito la base per questa chiamata di responsabilità. Dunque nella ricostruzione di Verucci ho sentito come vera la presenza della Chie-


sa nel nostro paese proprio così caratterizzata. Tanto più quando venga messa a confronto con l'esperienza di altri paesi europei, e soprattutto della Francia, ove non s'è visto alcun nesso stretto con il sistema politico che sia paragonabile a quello che si è realizzato nel nostro paese. Altro capitolo importante del quarantennio è quello del Concilio. Il rapportoconfronto con la società contemporanea è qui diretto e a tutto tondo. A me è piaciuta la ricostruzione del Concilio fatta da Verucci e anche, come dire, i sentimenti sottostanti, cioè quella sorta di rimpianto per le occasioni perdute, per le prudenze immediatamente invocate davanti al grande evento. A leggere queste pagine vengono subito in mente alcune domande di tipo assolutamente improprio sul piano scientifico ma in qualche modo inevitabili sul piano invece della partecipazione vissuta alla storia delle cose che si son viste accadere: cosa sarebbe avvenuto se il Concilio fosse stato alla fine meno prudente, più prorompente? Il libro di Verucci si ferma al periodo del Concilio, ma con una serie di spunti e di indicazioni che fanno capire come la riflessione dell'A, arrivi a noi anche se non accompagnata dalla ricostruzione degli avvenimenti minuti della cronaca. Dunque, il grande sforzo di rinnovamento e il dramma del Concilio all'opera vedono rinascere poi, una volta tenute a freno le potenzialità che si erano intraviste, un classico disegno di presenza della Chiesa come portatrice di un'istanza ierocratica. Quest'ultima è, in realtà, la caratteristica ineludibile della sua presenza ma anche la sfida che la Chiesa rischia comunque di perdere perchè il contesto

della secolarizzazione e scristianizzazione è tale da negare spazio per la sua realizzazione. Questa la conclusione, assai sommariamente riassunta, cui giunge Verucci. Ora mi pare che su queste conclusioni non solo nella serata della presentazione a Roma ma anche, per quel che ricordo, nelle recensioni del libro si è appuntato il dibattito. Ci si è chiesto innanzitutto: in che misura il disegno ierocratico, cioè la presenza della Chiesa come istituzione gerarchica, è stato recuperato e in che misura, malgrado ogni apparente contraddizione, esiste e si è diffusa la natura della Chiesa come popolo di Dio? E' giusto ridurre a questo disegno ierocra tico, necessariamente verticistico, la caratteristica della Chiesa? Io credo che il problema sia appunto qui: quanto conti nella storia della Chiesa cattolica, tanto da esserne caratteristica fondante, il suo essere « istituzione » e « organizzazione sociale ». Ho avuto appena l'occasione di scorrere l'ultimo libretto del teologo protestante Oscar Culmann tradotto in italiano. Riguarda i problemi dell'ecumenismo ed è

intitolato Lunità attraverso la diversità (Querinana, Brescia 1987). Il libro ha avuto molte critiche sia sul fronte protestante sia sul fronte cattolico. La tesi è: sono molti i lamenti sul regresso dell'ecumenismo; ma questo, se c'è, dipende dall'aver mitizzato l'ecumenismo come fusione o ricongiunzione delle Chiese. Questa non è la linea giusta. Piuttosto dobbiamo lavorare per costruire una sorta di federazione delle chiese fondata sul dato paolino della diversità dei carismi. A proposito dell'attendibilità del richiamo a questo elemento neotestamentariO vivaci sono state le critiche contrarie. Ri123


cordo che il noto teologo valdese Vittorio Subilia, recentemente scomparso, ha scritto su questo libro di Cullmann l'ultima recensione prima di morire, esprimendo una posizione nettamente contraria alla proposta del suo amico di Strasburgo (cfr. « Protestantesimo », numero 1/1988). Ho visto una recensione critica anche su un numero di « Il Regno » (serie attualità, n. 14/1988) a firma di Giuseppe Ruggeri e intitolata L'ecume-

nismo della rassegnazione. Non voglio entrare nel merito, anche se il problema prende e coinvolge molto. Devo dire che comprendo le critiche a Cullmann quando esse sono mosse dalla preoccupazione che il suo progetto vada a coonestare e a rafforzare l'immobilismo attuale delle confessioni e la conservazione della propria identità passata (come dice Ruggeri). In tale prospettiva capisco ancora che possa apparire come ragione di questa preoccupazione l'adesione alla proposta di Culmann data dal cardinale Ratzinger. Eppure, non credo si possa dire che la tesi di Cullrnann non costringa ad alcunchè le confessioni. Magari al di là delle stesse espressioni dell'A. (egli, per esempio, insiste sulle chiese, tali quali sono), è da ritenere che il progetto comporta invece una loro profonda trasformazione. E dico ciò anche in rapporto al proposto meccanismo istituzionale (federativo) del coordinamento fra le diverse comunità corifessanti. Il discorso sarebbe lungo e qui, come dicevo, non è possibile entrare a fondo nel merito. Sarà per un'altra volta. Quel che volevo segnalare come spunto utile al nostro ragionamento è che Cullmann identifica il carisma della Chiesa cattolica, oltrechè nell'universalismo, nell'essere istituzione. Non mi interessa ora la 124

proprietà di questa qualificazione di Carisma data all'isti tuzionalità della Chiesa cattolica, mi interessa il fatto in sè. Bene, è elemento dell'essere istituzione, e istituzione consolidata e forte, il controllo delle spinte centrifughe. In questo senso, già nel dibattito alla Casa della cultura a Roma, dicevo di ritenere naturale quel rinserrare le fila che è scattato già durante il Concilio e poi, ancor più, nella fase successiva. Certo, il « ritorno di un disegno di egemonia ierocratica » che Verucci vede nella Chiesa post-conciliare può essere inteso come un riflesso di conservazione naturale dell'istituzione ecclesiastica. Ma può essere un disegno vincente? Verucci non crede. Mai forse si era creata, egli dice, nel cattolicesimo tanta « multiformità di posizioni e di atteggiamenti ». Complessivamente « il cattolicesimo e la Chiesa sembrano vivere una delle crisi più gravi della loro storia ». C'è da chiedersi se non abbia lucidamente ragione Emile Poulat nel giudizio sul Concilio Vaticano TI, riportato ampiamente da Verucci pur ritenendolo un pò riduttivo, secondo il quale il Concilio « ha posto il principio di un atteggiamento pastorale nuovo su un fondo dottrinale tradizionale e immutato », con ciò mantenendo « Chiesa e mondo in esteriorità reciproca ». Paradossalmente tutti hanno concorso a dare enfasi al « mondo »: per esempio, considerandolo secondo ca tego: ne di omogeneità e di unità organica come in realtà è impossibile e illegittimo fare. La verità della Chiesa, ivi compreso il suo essere istituzione, non è stata ancora posta compiutamente a confronto con la situazione di diaspora in cui non solo il


cattolicesimo ma tutte le confessioni cristiane si trovano a vivere. Il pianeta che si unifica perché si dà più rapide e semplificate comunicazioni ma che tuttavia riproduce tutte le sue diversità, non è un mondo di certezze esistenziali nè di sicurezze di progresso. L'attuale condizione umana sul pianeta forse fa aumentare il « disincantamento del mondo ». Eppure è inutile farvi fronte immaginando modelli impossibili di reductio ad unitatem. Le illusioni di egemonia che si sono create nel dopoguerra hanno impedito di prendere consapevolezza della situazione di diaspora che già negli anni Cinquanta s'era ben realizzata e che molti lucidamente, penso ad esempio a Karl Rabner, avevano colto e che pronosticavano si sarebbe diffusa. Quale sia il giusto « essere istituzione » della Chiesa in questa evoluzione sociale è questione fondamentale ma che viene elusa da qualsiasi semplice aggiornamento pastorale. Elusa insieme a quella ricerca dell'essenza del cristianesimo che giustamente Romano Guardini indicava cinquant'anni fa come il comun denominatore, in questo secolo, del pensiero cattolico e di quello riformato

Sergio Lariccia LA QUESTIONE DEL CONCORDATO

Mi sembra innanzi tutto opportuno sottolineare l'importanza che, nella storia contemporanea italiana ed europea, assume il problema dei rapporti tra società civile e società religiosa ed il contributo che la lettura del libro di Guido

Verucci La Chiesa nella società contemporanea offre anche a chi, come me, è portato a considerare soprattutto il profilo giuridico delle relazioni tra Stato e confessioni religiose. Tra gli studiosi della disciplina che si usa definire « diritto ecclesiastico » da molto tempo ormai è acquisita la consapevolezza dell'importanza che rappresenta la prospettiva storica per la comprensione delle disposizioni che disciplinano il fenomeno religioso sotto il profilo giuridico. Non è invece frequente ritrovare nelle ricerche storiche un'adeguata valu tazione dell'importanza che assume il problema dell'attuazione/inattuazione delle norme giuridiche destinate a regolare le relazioni sociali. E' invece sempre più avvertita l'esigenza di saggi e lavori che, nel considerare il problema della presenza della Chiesa Cattolica nella società e dei suoi rapporti con le istituzioni civili, valutino nella loro giusta importanza alcuni tra i più significativi problemi che negli ultimi decenni hanno suscitato vivaci dibattiti tra i giuristi: per limitare il discorso all'Italia, il dibattito in assemblea costituente nell'elaborazione della carta costituzionale dell 'Italia democratica, il processo al vescovo di Prato alla fine degli anni Cinquanta, la condizione giuridica delle minoranze religiose durante i primi anni dopo l'entrata in vigore della costituzione, l'attuazione dei principi conciliari e delle norme costituzionali sull'eguaglianza e sulle libertà degli individui e dei gruppi sociali. Certo, la ricerca di Verucci ha come riferimento un periodo assai lungo, che va dal primo dopoguerra alla fine del concilio Vaticano secondo (1965), e valuta dunque cinquant'anni di storia europea ed italiana durante i quali le vicende dei 125


rapporti tra stati europei e Chiesa cattolica sono state numerose e complesse. Con specifico riferimento all'Italia, un problema che, dal punto di vista giuridico, assume un'importanza primaria è quello che si usa definire con l'espressione « la questione del concordato », che è collegata alla rilevanza che ha avuto nel nostro paese, nei primi anni del secondo dopoguerra, il tema degli orientamenti che lo stato repubblicano avrebbe potuto e dovuto assumere nei confronti delle scelte operate nel 1929 dallo stato facista nella stipulazione dei patti lateranensi con la chiesa cattolica. Federico Chabod, nel suo prezioso volumetto su L'Italia contemporanea, osservava come la Chiesa cattolica, alla fine del secondo conflitto mondiale, rappresentava in Italia, anche per la personalità di un pontefice come Pio XII, l'unica istituzione che avesse conservato il suo prestigio: allindomani di una catastrofe che aveva travolto uomini, istituzioni, tradizioni e valori la chiesa cattolica si presentava sulla scena italiana ed internazionale sostanzialmente intatta. Grande era quindi la sua capacità di influire sugli eventi storici del futuro e di orientare le scelte politiche delle istituzioni civili del nostro paese. Come ho avuto occasione di ricordare in un mio volume, edito nel 1981 dalla casa editrice Queriniana di Brescia su Stato e Chiesa in Italia daI 1948 aI 1980, uno dei problemi per i quali l'influenza della chiesa venne esercitata con maggiore impegno fu proprio quello della conferma dei patti lateranensi del 1929 e del richiamo di tali patti nella carta costituzionale dell'Italia repubblicana: in una costituzione che Stefano Rodotà, in un interessante articolo pubblicato su « L'U-

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nità » del 25 settembre 1988, definisce giustamente « presbite », per la tendenza dei costituenti a guardare, più che all'immediato futuro, al futuro più lontano rispetto agli anni nei quali la costituzione venne elaborata, il secondo comma dell'art. 7 della costituzione, nel quale è precisato che i rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica avrebbero continuato ad essere regolati dai patti lateranensi, è l'unica disposizione costituzionale che, anzichè guardare al futuro, si limiti a recepire una scelta del passato regime: e si trattava di una scelta che, ispirata ad una logica di compromesso tra il regime di Mussolini e la chiesa cattolica, avrebbe determinato pesanti conseguenze con riferimento a quelli che costituiscono i temi più significativi del rapporto tra stato e confessioni religiose: il diritto di famiglia, la scuola, gli enti e il patrimomio ecclesiastici. Dopo l'approvazione della carta costituzionale e dopo la sua entrata in vigore, la presenza di tale disposizione contribuì per molti anni ad ostacolare un'evoluzione democratica della società italiana. Sul tema della confessionalizzazione della vita pubblica e dello stato italiano e sulla linea di tendenza del cattolicesimo politico italiano a determinare condizioni di particolare favore per la chiesa cattolica nel nostro paese, molte considerazioni si potrebbero qui fare, ma non è opportuno soffermarsi sul punto: è noto che molte e di notevole rilievo saranno poi le novità che riguarderanno i rapporti tra società civile e società religiosa nel periodo che segue la conclusione del concilio Vaticano Il, un periodo che non rientra nell'arco di tempo considerato in questo dibattito. Mi limito a ricordare che non è certo casuale se proprio nel


1965 Lelio Basso presenta in parlamento quella proposta di revisione del concordato, avviando la lunga fase di trattative che vent'anni dopo, nel febbraio 1984, si sarebbe conclusa con la stipulazione del patto di Villa Madama. Ricordo anche l'importanza che al concilio assunse il principio contenuto nel paragrafo 76 della costtiuzione conciliare Gaudium et spes, al quale spesso hanno fatto riferimento, negli anni del post-concilio, i cattolici impegnati nel perseguire l'obiettivo del superamento del regime concordatario: intendo riferirmi al passo in cui si precisa che la chiesa avrebbe rinunciato all'esercizio dei diritti legittimamente acquisiti ove la loro permanenza avesse potuto fare dubitare della sincerità della sua testimonianza nel mondo. Questo auspicio, che negli anni del concilio assunse il significato di un impegno volto al superamento di ogni regime di privilegio, è stato poi sempre più dimenticato negli anni successivi: e conosciamo tutti le condizioni che, ancora una volta, negli anni più recenti, hanno determinato il prevalere di una logica di compromesso che affida la definizione dei rapporti tra società civile e società religiosa alla concorrenza e alla competizione tra l'autorità civile e l'autorità religiosa, anzichè alla esigenza dello stato democratico di garantire l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose (chiesa cattolica compresa) e di evitare dunque il ricorso a strumenti che, come il concordato, appaiono sempre meno idonei a disciplinare la questione religiosa nel rispetto dei diritti di libertà e di uguaglianza di tutti i cittadini. Un aspetto sul quale sarebbe qui opportuno soffermarsi è quello relativo all'influenza esercitata dalla Corte costituzionale nel processo di attuazione dei prin-

cipi posti a base della carta costituzionale: sin dalla prima sua sentenza, emessa nell'aprile del 1956, la corte ha avuto occasione di precisare che il suo compito non avrebbe dovuto limitarsi, come pretendeva l'avvocatura dello stato che esprimeva il punto di vista del governo, alla valutazione della legittimità costituzionale delle disposizioni entrate in vigore dopo il 1° gennaio 1948, ma avrebbe dovuto estendersi a tutte le disposizioni dell'ordinamento italiano e dunque anche a quelle emesse nel periodo precedente l'entrata in vigore della carta costituzionale. Questa esatta opinione sostenuta dai giudici costituzionali ha poi consentito alla corte, come sappiamo, di intervenire con riferimento a molte disposizioni emanate durante il ventennio fascista e contrastanti con i diritti di libertà garantiti dalla costituzione: mi limito solo a ricordare le disposizioni della legislazione sui culti « ammessi » che negli anni 1929-'30 esprimeva l'intento del governo di differenziare la condizione delle confessioni diverse dalla chiesa cattolica, che i patti lateranensi consideravano la religione dello Stato Concludendo, voglio infine ricordare che molti dei temi che hanno caratterizzato i rapporti tra Chiesa e società contemporanea negli ultimi decenni sono tuttora di attualità: con riferimento alle varie questioni, è da ribadire l'esigenza che gli storici ed i giuristi continuino a svolgere ricerche che, oltre ad individuare gli orientamenti della gerarchia cattolica e delle organizzazioni ecclesiastiche, siano capaci di cogliere la ricchezza delle esperienze più significative emergenti nella società (come esempio significativo, mi limito qui a ricordare quella di don Milani): la valutazione dei rapporti tra le « autori 127


tà » dello Stato e della Chiesa cattolica costituisce solo una parte, che assai spesso è quella meno significativa, della «questione cattolica » e della complessiva realtà delle relazioni tra società civile e società religiosa.

Piero Ste/ani Ri FLETTENDO SUL « SOGGIOGAMENTO DEL CREATO» E SULLE CATASTROFI VENTURE

Non posso nascondere un certo imbarazzo a prendere la parola su temi ed argomenti a proposito dei quali non mi sento in grado (quanto meno per mancanza di preparazione specifica) di fornire una valutazione ponderata e complessiva. D'altra parte né io, né qualcun altro, può certo dubitare dell'intelligenza di chi mi ha invitato attorno a questo tavolo, ben sapendo della mia imperizia storica e potendo facilmente prevedere lungo quali linee avrei articolato il mio intervento. Perciò ho accettato l'invito e ringrazio Sergio Ristuccia di avermelo rivolto, senza avere con ciò minimamente l'intenzione di coprirmi in qualche modo le spalle, in quanto, come si suol dire, la responsabilità di quel che sosterrò è ovviamente solo mia. In questa nostra discussione è già più volte, inevitabilmente, emersa non sol tanto la grande importanza costituita dalla svolta innovativa rappresentata dal Concilio Vaticano TI, ma anche la presenza rn esso di tendenze ambivalenti. Si tratta di un'ambivalenza (o se si vuole addirittura di un'ambiguità) presente non soi 28

lo negli anni della immediata applicazione del Concilio, ma anche in quelli della sua stessa elaborazione. Di ciò ne fanno fede i testi conciliari. Del resto ce lo ricorda esplicitamente anche Verucci quando (cfr. pp. 426-27) dichiara che i documenti finali riflettono, pressoché inevitabilmente, un compromesso fra diverse tendenze e perciò in essi « le due esigenze del rinnovamento della Chiesa e della salvaguardia della continuità furono generalmente combinate con un procedimento di giustapposizione ». Da ciò deriva non solo il carattere di perpetua « limatura •e sfumatura » presente nei testi, ma anche la natura prolissa di alcune deliberazioni conciliari. Questo tratto di prolissità, si aggiunge, « per la verità è anche frutto, per esempio nella Gaadium et spes, di un 'aspirazione omnicomprensiva, enciclopedica, che poi lascia però senza risposta problemi scottanti ». Mi pare che quelli qui riportati possono suonare agli orecchi di qualcuno come giudizi un po' severi, tuttavia nella sostanza appaiono inoppugnabili. In ogni caso invitano ad indagare, e non solo in chiave strettamente storiografica, le tendenze che si trovano alle spalle dell'enciclopedismo presente nella « Costituzione pastorale Gaudium el spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ». Perché proprio quando si decide, con un atto innovativo, di prendere una posizione, tendenzilamente favorevole e solidale, con il mondo contemporaneo, si fa più evidente la tendenza a una prolissa omnicompresività? Per comprendere questo tratto non si può prescindere dallo intento dichiarato dell'intero documento. Infatti, dopo aver espresso la solidarietà con il genere umano e la sua storia da parte della comunità dei credenti, la Gau-


dium ci spes dichiara che il Concilio, avendo già approfondito il mistero della Chiesa (cfr. la costituzione dogmatica Lumen ,gentium) rivolge ora la propria parola non solo ai figli della Chiesa cattolica e neppure ai soli credenti in Cristo « ma a tutti indistintamente gli uomini » al fine di esporre loro « l'azione della Chiesa nel mondo contemporaneo ». Ci si può chiedere però quale nesso ci sia tra l'approfondimento della natura della Chiesa compiuta dal Concilio (presupposta dal documento) e il trovarsi nelle condizioni di rivolgersi a tutti giudicando la Chiesa non già come semplice annunciatrice del vangelo, ma anche (per usare l'espressione che sarà adoperata da Paolo

VI nell'enciclica Populorum progresszo,

1967) come « esperta in umanità ». Torna alla mente quanto è stato ricordato poco fa a proposito della visione ecumenica proposta da Oscar Cullmann secondo cui il carisma della Chiesa cattolica consisterebbe nell'istituzione. Quest'espressione che suona tanto come un ossimoro (carisma e istituzione sono di solito visti come divergenti), può aver a che fare anche come una scelta in base alla quale il Concilio si rivolge agli uomini non per annunciare loro il kerygma evangelico, bensì per esprimere una visione « enciclopedica » propria di chi si dichiara « esperto in umanità ». Aggiungo però, correndo il rischio di cedere un poco all'autobiografismo, che, indipendentemente dall'occasione di questa « tavola rotonda », due ragioni mi avevano sollecitato a riprendere, autonomamente, in mano la Gaudium ci spes. La prima risale a qualche tempo addietro ed è legata alla lettura di una determinata frase di don Giuseppe Dossetti (si tratta di uno scritto recente e perciò a Dossetti

va attribuito non solo come « istituzione » ma anche come « carisma » il titolo di « don »). E' tratto dall'Introduzione al libro di L. Gherardi, Le querce di monte sole (Bologna, 1986), testo dedicato alle stragi compiute dai nazisti sull'Appennino bolognese. A un certo punto, a proposito delle testimonianze ebraiche proveniente dai « campi di morte » si legge questo giudizio: « Bisogna riconoscere che c'è più teologia e più ermeneutica in libri come quelli di Wiesel di quanto non ce ne sia - mi si scusi l'enormità in teologi accademici o in teologici "ottimisti" come quelli della liberazione e forse - perché no? - nella seconda parte della costituzione pastorale Gaudium ci spes » ( pp. XXVI-XXVII). Queste righe pongono in primissimo piano il tema, ineludibile per il mondo contemporaneo, delle « catastrofi » (e innanzitutto della « Catastrofe », Shoab), in gran parte già avvenute all'epoca in cui si svolse il Vaticano TI, ma su cui la riflessione teologica conciliare può, senza tema di venir smentiti, essere dichiarata inadeguata. Il secondo motivo che mi ha invitato a una rilettura di questo documento conciliare è rappresentato dal problema ecologico. Questo tema si sta affermando sempre più tanto nella riflessione teologica quanto nell'azione pastorale delle Chiese cristiane. E' noto ad esempio che il Consiglio ecumenico delle Chiese ha indetto per il 1990 un'assemblea (a cui parteciperà anche la Chiesa cattolica) posta sotto il trinomio « Giustizia, pace e integrità del creato ». All'epoca del Concilio non vi era certo difficoltà a coniugare il binomio « giustizia e pace » (cfr. ad es. Gaudium et spes, n. 90), ma era ben difficile immaginare che qualcuno potesse aggiungere a queste due parole l'e129


spressione « integrità del creato ». Nella riflessione teologica recente sulla creazione cominciano ad apparire prospettive come quella secondo cui lo scopo della creazione non è l'uomo e la sua attività, bensì la riconduzione, anche attraverso l'umano operare, dell'uomo e della creazione al riposo del sabato di Dio (J. Moltmann). Del pari sta emergendo l'esigenza di collegare più strettamente la prospettiva antropocentrica presente nel mandato biblico di dominare la terra (Gen 1,28), con l'« impegno ecologico » pre sente nel precetto che impone di coltivare e custodire la terra (Gen 2,15) (W. Pannenberg). Nulla di tutto questo venticinque anni fa, allorché la prospettiva del « dominio sul creato » dominava incontrastata. In un recentissimo documento dei vescovi lombardi (La questione

ambientale: aspetti etico-religiosi) si è al solito, attenti a citare a sostegno dei propri asserti tutte le precedenti prese di posizioni ufficiali della Chiesa, significativamente però non ci si riesce a spingere più in là di alcuni pronunciamenti espressi da Giovanni Paolo Il. Prima, su questo tema, non c'era proprio nulla. Dunque oltre a non riflettere sulle catastrofi presenti alle proprie spalle, il Concilio non prestò attenzione neppure a possibili catastrofi che ci possono stare davanti. Si dirà che a quel tempo nessuno ci pensava. Ed è vero. Tuttavia restano aperti quanto meno questi problemi: quale è lo status effettivo dell'ammaestramento che può derivare da una « esperta di umanità » dotata di capacità di preveggenza non certo superiori a quelle di ogni altro? Come giustificare l'uso degli stessi riferimenti biblici (innanzitutto il primo capitolo della Genesi) impiegati prima per giustificare la « tecnica » e il 130

dominio dell'uomo sul creato, e poi, dopo qualche anno, utilizzati per giustificare, al contrario, la prospettiva « ecologica del rispetto della natura? Che conti fare con la più antica prospettiva cristiana secondo cui la storia doveva essere, infine, inghiottita nella definitiva catastrofe apocalittica? E si potrebbe continuare. Davanti a tutto ciò una rilettura della Gaudium et Spes mi pareva quanto mai opportuna, soprattutto nella prospettiva di riuscir a cogliere quali siano le linee teologiche portanti di questo documento dedicato alla Chiesa nel mondo contemporaneo. Le direttrici portanti mi paiono soprattutto tre, che si potrebbero chiamare su per giù in questo modo: « La teologia dei "segni dei tempi" », l'< umanesimo integrale e antropocentrico », « il soggiogamento del creato ». Cominciamo per ordine. Sulla scia di una riflessione teologica, influenzata soprattutto dal pensiero francese (si pensi in particolare a Congar, un nome, non a caso, assai presente nel libro di Verucci) il Concilio affermava che per parlare all'uomo contemporaneo « è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo » (n. 4), segni letti all'interno di un quadro di riferimento nel complesso ottimistico. La crisi è giudicata di crescenza (cfr. ivi.), i mutamenti storici trovano il loro fondamento « nel Creatore e nel Cristo » (n. 10). « Lo Spirito di Dio, che, con mirabile provvidenza, dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra, è presente a questa evoluzione. Il fermento evangelico suscitò e suscita nel cuore dell'uomo questa irrefrenabile esigenza di dignità » (26, « Per promuovere il bene comune »). Il tema dell'< umanesimo integrale e an-


tropocentrico » è intimamente connesso alla volontà di proporsi di parlare indistintamente a tutti gli uomini, infatti il « cardine di tutta l'esposizione » sarà costituito dall'uomo « ma l'uomo integrale, nell'unità di corpo e anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà > (n. 3). Accanto a questa integralità si staglia il riferimento alla centralità: « credenti e non credenti sono pressoché concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo a suo centro e a suo vertice » (n. 12). E ancora: « L'uomo ha ragione di ritenersi superiore a tutto l'universo a motivo della sua intelligenza, con cui partecipa della luce della mente di Dio... » (n. 15). « Il soggiogamento del creato » e la tecnica si accompagnano al « primato della morale », cioè alla convinzione della neutralità dello strumento e della necessità della presenza di un saggio ammaestramento che sappia incanalare il •mondo della tecnica verso la giusta direzione. « L'uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé tutta la terra con tutto quanto essa contiene e di governare il mondo nella giustizia e nella santità (cfr. Gen 1,26-27; 9,2-3; Cap 9,2-3) e così pure di riportare a Dio sé stesso e l'universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose » (n. 34). « L'epoca nostra più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza, perché diventino più umane tutte le sue nuove scoperte. E' in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi » (n. 15). Ora non c'è nulla di ironico nell'affermare che la Chiesa si ritiene titolare proprio di questa sapienza di cui c'è tanto bisogno. Fa parte delle « regole del gioco » accre-

ditarle questa competenza. Solo che ciò andrebbe accompagnato da una più assidua e attenta riflessione sulla propria storia che sappia indicare in che modo sia possibile che la Chiesa si presenti come maestra di sapienza pur additando scopi via via diversi (dalla condanna ottocentesca della tecnica, alla sua valutazione di positivo fattore di sviluppo all'epoca del Concilio, agli ammonimenti ecologici di oggi) senza provare il bisogno di motivare questi cambiamenti, ammettendo implicitamente, con questi silenzi, di non essere pienamente coinvolta nella fatica della ricerca e persino dell'incertezza, propri del pensiero umano. « Perciò essa [la Chiesa] si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia » (n. 1). Questa solidarietà dovrebbe però anche estrinsecarsi nella condivisione della f atica e dell'errore che tanto spesso si intrecciano con il cammino dell'uomo, mentre mal si concilia con una inossidabile sapienza a tutta prova, pronta sempre a fornire ammaestramenti via via diversi. Come testimonia l'intera storia biblica il tratto fondamentale del « popolo di Dio » e della sua « storia di salvezza », non sta nel non commettere errori, ma nel non lasciarsi vincere dall'errore proprio attraverso l'ammissione di averlo compiuto (sta cioè nel pentimento). Nella costituzione dogmatica Lumen gentium si legge: « Così la Chiesa sa bene quanto essa debba continuamente maturare in forza dell'esperienza dei secoli, nel modo di realizzare i suoi rapporti col mondo. Guidata dallo Spirito Santo, la Madre Chiesa non si stancherà di esortare i suoi figli alla purificazione e al rinnovamento, perché il volto di Cristo risplenda ancor più chiaramente sul voi131


to della Chiesa » (n. 43). Ma senza motivare la ragione della sua « mutabiie/ immutabile » sapienza, senza ammettere la propria colpa e il proprio errore, senza esprimere il proprio pentimento e manifestare, là dove è necessario, la propria richiesta di perdono, sarà ben difficile che la Chiesa possa diventare un più nitido specchio dei volto di Cristo. All'ammissione della propria fallibilità da parte della Chiesa dovrebbe corrispondere anche la sua capacità di prendere atto che la visione dell'uomo contenuta nella Scrittura è anch'essa assai meno monocorde di quanto si ami ritenere. Certo vi si può leggere la prospettiva secondo cui l'uomo, creato « a immagine e somiglianza di Dio », è costituito Signore di tutte le creature (cfr. Gen 1, 26; Sap 2, 23; Sai 8, 5-7), ma nella Bibbia si legge, ugualmente, che l'uomo ha in sé, fin dall'adolescenza, un' inclinazione malvagia (Gen. 8, 2), che esso è come un verme e che non c'è speranza di sopravvivenza per colui che scende nella fossa (Is 38, 1-2; Sai 88, 11-12), poiché un solo soffio accomuna ogni vivente « Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alla bestia perché tutto è destinato a perire » (Qo 3, 19). Si potrà dire: si tratta di pagine dell'Antico Testamento. Ma il primo capitolo della Genesi, instancabilmente citato come base fondamentale dell'antropologia biblica, non proviene forse anch'esso dall'Antico Testamento? E, d'altra parte, il fatto che, all'interno stesso del Libro, vi sia questo pungolo delle caducità, dovrebbe indicare l'opportunità di prestare attenzione a una tale sfida anche quando essa proviene dal di fuori. In ogni 132

caso neppure nella Bibbia tutto è solo antropocentrico. Il tema dell'antropocentrismo è stato individuato dal Concilio come il terreno privilegiato su cui poter intessere un dialogo con l'uomo contemporaneo. Ripetiamo il brano già citato: « Credenti e non credenti sono pressocché concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo come a suo centro e a suo vertice » (G.S. n. 12). Quest'affermazione appare però un segno ulteriore della difficoltà propria della Chiesa di porsi di fronte al moderno (per non parlare del contemporaneo). E' proprio di buona parte del pensiero moderno fin dal suo sorgere (Cinquecento) cominciare a mettere in discussione certi tratti dell'antropocentrismo tradizionale; si prospettò, ad esempio, la possibilità dell'esistenza di più mondi; si scoprono antichissime civiltà extraeuropee che mandarono in frantumi non solo la cronologia biblica ma anche il suo senso della storicità. E così via: dalla cultura libertina all'illuminismo, è proprio il senso di un universo creato in vista dell'uomo a ricevere una serie nutrita di colpi. Non posso qui andare oltre questi ridottissimi cenni campione, il terreno del resto è tra i più solcati e serva, per riassumerlo, un celebre passo tratto dalle Considerazioni inattuali di Nietzsche: « In qualche remoto angolo dell'universo diffuso e folgorante in numerevoli sistemi solari c'era una volta un astro, su cui degli intelligenti animali scoprirono la conoscenza. Fu il momento più orgoglioso e più mendace della "storia del mondo": un minuto soltanto. Dopo pochi respiri della natura l'astro si irrigidì e gli intelligenti animali dovettero morire >.


Più che un terreno comune la centralità appare come un punto di vista giustificabile (o meglio custodibile) solo all'interno dell'universo della rivelazione. Volerlo presentare quale ovvio terreno d'incontro significa in realtà esprimere un mal celato imbarazzo nell'intraprendere un confronto davvero franco con il moderno. Il che è del resto ampiamente comprensibile. La crisi si gioca proprio attorno alla centralità dell'uomo. Volerla riproporre come se tale centralità, da un lato, rappresentasse qualcosa di scontato, mentre, dall'altro, costituisse il terreno privilegiato su cui esercitare l'ammaestramento della Chiesa, significa non raccogliere non solo la sfida contenuta nel pensiero moderno, ma anche quella propria dell'esistere. L'esistenza di miliardi di esseri viventi che continuamente si schiudono alla vita per poi venir ben presto fagocitati nel nulla, non rappresenta solo un folle pensiero nietzchiario, ma costituisce qualcosa di intimamente inscritto nell'ordine delle cose, e per di più in un ordine che la prospettiva contemporanea può ormai pensare come una realtà destinata ad andare incontro a un definitivo collasso. Davanti alla sfida delle distruzioni (cioè delle catastrofi passate e della possibile catastrofe futura), che pur non essendo l'unica componente del mondo contemporaneo ne rappresenta pur sempre un tratto qualificante, ci si deve chiedere se il tema della creazione e della collocazione privilegiata dell'uomo in essa, rappresenti una prospettiva pensabile e custodibile solo all'interno della rivelazione o se invece sia una verità razionalmente proponibile e base di una comune valutazione etica. Si tratta certo di temi antichi (si pensi ad esempio al

primo capitolo della lettera ai Romani), ma la cui vitalità di sicuro non può dirsi estinta. E se da un ilato non si possono trascurare gli sforzi seri e pensosi di costruire (specie di fronte alle sconcertanti possibilità della manipolazione genetica e alla crisi dell'ecosistema) prospettive di etica laica che pongano al loro centro il rispetto della vita, dall'altro si deve sempre più affermare che la visione di una creazione in cammino verso il definitivo riposo sabbatico è prospettiva presentabile solo all'interno dell'opera di una Chiesa che più che come « esperta in umanità » si presenti come annunciatrice del vangelo.

Marcello Vigli LA SCUOLA BLOCCATA

Anch'io mi colloco nell'ottica particolare che mi è più congeniale, la scuola, per spiegare l'interesse che ho per il libro di Verucci e le ragioni per cui lo considero un'ottima occasione per un dibattito sulla chiesa nella società italiana contemporanea. Al di là degli indubbi meriti scientifici esso assume un valore particolare per gli elementi interpretativi che offre a chi si accinge a valutare il ruolo della chiesa oggi in Italia. Il libro, in tale senso, è illuminante perché documenta che l'orientamento della chiesa è rimasto quello sostanzlamente ierocratico, iscritto nella sua tradizione, cioè nel suo « secolare sistema teologico ecclesiastico E ... 1 fondato sulla religione come fatto della società, sulla considerazione di un mon133


do e di una società scristianizzata che è necessario ricristianizzare alla luce della dottrina sociale e sotto la guida della Chiesa » come Verucci acutamente sintetizza (p. 377). Su tale orientamento scarsa, aggiunge Verucci, è stata l'incidenza del Concilio. La forza di questa affermazione sta nel fatto che ad essa Verucci giunge attraverso l'analisi non della sola struttura istituzionale centrale della Chiesa, ma di tutti i molteplici elementi costitutivi dell'universo cattolico: dalla S. Sede alle conferenze episcopali, dalla ricerca teologica al dibattito culturale, dalle grandi congregazioni religiose ai movimenti e organizzazioni laicali. Per la comprensione delle loro scelte usa tutti i registri interpretativi necessari e propone categorie perspicue e puntuali, ponendo anche attenzione alla molteplicità e varietà di situazioni e realtà istituzionali e sociali con cui ciascuno di essi e tutti insieme interagiscono. L'orientamento ierocratico non è proprio solo del momento gerarchico istituzionale, ma risulta dalla sostanziale adesione ad esso, seppur in modi e gradi diversi, di molti altri momenti ecclesiali dell'universo chiesa e dall'interagire delle diverse spinte che lo animano. Di ciascuna di esse nel libro viene analizzata la specificità e valutato il peso relativo. Ne deriva una indicazione metodologica ben precisa che si pone come una discriminante per quanti intendono oggi valutare ruolo e funzione della presenza cattolica in Italia. Diffusa è, infatti, l'abitudine a privilegiare questo o quell'elemento del complesso universo cattolico, questo o quel momento della recente vita della chiesa cattolica assu134

mendone orientamenti e azioni come propri della chiesa stessa. Risulta così evidente, dopo la lettura di questo libro, l'incongruità di queste valutazioni parziali nei confronti di un organismo capace ancora di ridurre all'unità del suo disegno strategico le spinte varie e diverse presenti al suo interno. Senza aver presente questo disegno e senza applicare questa metodologia non si può intendere la politica ecclesiastica nel nostro paese né cogliere la funzione che le sue articolazioni, nel perseguire i loro obiettivi particolari, assumono nel quadro complessivo. La pluralità di soggetti, in esso interagenti, dà a molti l'impressione che il disegno complessivo non esista o sia irrilevante per la valutazione dell'incidenza nella società italiana delle scelte politiche di ciascuno di essi e della Chiesa nel suo complesso. In realtà, così facendo, si tende a dimenticare che i tempi della chiesa non sono quelli delle altre forze politiche e sociali e che certe deviazioni dal suo obiettivo strategico sono solo adattamenti occasionali ai limiti invalicabili posti dal processo di secolarizzazione in atto nella società italiana. Le sconfitte nei referendum sul divorzio e sulla legalizzazione dell'aborto hanno sconsigliato, nonostante l'asprezza della lotta, fratture irreparabili sul piano istituzionale anche se i due temi, specie il secondo, restano occasione di interventi e sono considerati come criterio di fedeltà e di appartenenza. Minore duttilità la Chiesa ha dimostrato nel settore della educazione; un settore strategico perché per ricristianizzare una società è indispensabile una presenza determinante nei processi di formazione delle nuove generazioni. In questo campo il disegno ten-


dente a costruire un sistema ierocratico è pienamente riconoscibile. Ripercorrere le tappe della politica ecclesiastica verso la scuola secondo questo filo conduttore consente la piena comprensione della dialettica interna che l'ha caratterizzata e i suoi esiti complessivi. Nella fase costituente e nei primi anni di vita della Repubblica, nell'impossibilità di imporre le proprie scelte, gli integralisti hanno provveduto a bloccare il processo di rinnovamento della scuola tatale inchiodando il dibattito alle vecchie diatribe risorgimeritali e post-unitane del rapporto fra Stato e Chiesa e coinvolgendo in esse anche quei cattolici democratici attenti più alle esigenze della scuola che a quelle della chiesa. Ciò ha impedito di fatto tutte le modifiche strutturali, culturali e didattiche necessarie per avviare un processo di riforma e democratizzazione della scuola dello stato. Nei decenni successivi il disegno ierocratico si è dispiegato secondo due linee direttive fra loro complementari: ottenere finanziamenti e parità per la scuola confessionale e aumento di quella presenza confessionale nella scuola statale introdotta dall'impianto idealistico della riforma gentiliana e rafforzata dalla formula concordataria che voleva la religione cattolica « fondamento e coronamento dell'istruzione ». Il perseguimento costante e sistematico di questi obiettivi, quando non le ha impedite, ha condizionato tutte le innovazioni, rese indilazioriabili dalla necessità di adeguare la scuola statale alle trasformazioni della società. Ne sono stati vanificati anche i tentativi dei cattolici democratici, consapevolmente o inconsapevolmente coinvdlti in quel disegno, convinti che fosse possibile neutralizzardo

senza un'aperta opposizione fidarido sulla forza dei processi di secolarizzazione. Emblematica è la vicenda dell'introduzione dell'educazione civica imposta dalla parte più avveduta della classe politica democristiana. Doveva servire proprio a rivendicare alla scuola e quindi ai pubblici poteri la funzione di educare i giovani alla democrazia in autonomia dallo insegnamento della religione ritenuto ormai insufficiente ad assolvere alla funzione educativa e morale a cui la riforma gentiliana l'aveva chiamato a partecipare. L'inserimento della Educazione civica è stato invece ininfluente e ancor oggi periodicamente se ne rimpiange la scarsa attivazione. In realtà la scuola nata dal progetto gentiliano-fascista educa attraverso le sue strutture e i suoi contenuti, senza cambiare radicalmente questi era irrilevante introdurre una disciplina autonoma come l'educazione civica di ispirazione democratica. Con l'impianto autoritario della scuola italiana era perfettamente coerente l'insegnamento della religione cattolica. Il fallimento dell'iniziativa lo ha confermato. L'asse portante dell'impianto educativo nella scuola statale, dopo l'esaurimento della carica idealistico-nazionale, è restata esclusivamente la religione cattolica concepita inizialmente solo come supporto. Ad essa si sono ispirati esplicitamente i programmi della scuola elementare del 1955, e più sottilmente l'impianto educativo della stessa nuova scuola media unica, a cui Lariccia ha fatto riferimento. La si ritrova, seppure in termini più ambigui perché non immediatamente controllato dalla gerarchia ecclesiastica, nella stesura degli Orientamenti educativi per la scuola materna statale, la cui istituzione ha pur rap-

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presentato un momento di forte tensione fra Stato e S. Sede nel 1968. Il nuovo regime concordatario e l'intesa Falcucci-Poletti hanno sanzionato questo primato nelle scuole statali, sancendo la presenza in esse, dalle materne alle superiori, di un catechista inviato dalla curia. La recente sentenza del Consiglio di stato sull'argomento ha posto il suggello della giustizia amministrativa su tale confessionalizzazione. Hanno avuto torto nel sottovalutare la forza del disegno integralista anche quanti hanno pensato che la scolarizzazione di massa avrebbe reso irrilevante il problema dei finanziamenti alla scuola privata perché ad una domanda di cultura e di scuola così ampia solo la scuola dello stato avrebbe potuto dare piena soddisfazione. Questo sarebbe stato vero se la scuola dello stato fosse stata riformata, ma l'opposizione degli integralisti ad ogni riforma, non coerente con i loro progetti, ha avuto ragione delle spinte rinnovatrici, ora confondendosi con le resistenze dei settori conservatori dello schieramento laico ora facendo propria la critica emergente dalla società o dalla contestazione studentesca contro una scuola statale classista ancora modellata sulle esigenze di uno stato autoritario e di un sistema produttivo preindustriale. Così bloccata la scuola dello Stato risulta inadeguata non tanto sul piano quantitativo, aule e attrezzature, quanto sui piano qualitativo a rispondere alla nuova domanda sociale di istruzione cresciuta in qualità oltreché in quantità. Oggi si chiede alla scuola molto di più di quanto non si chiedesse ieri. In nome di questo «molto di più» oggi la Chiesa propone la sua offerta formativa sul pia136

no culturale, con l'insegnamento della religione nella scuola dello Stato, e sul piano strutturale, con il suo modello di scuola privata a misura della domanda delle famiglie e delle forze produttive. La crisi delle ideologie e delle grandi centrali culturali, sia accademiche sia partitiche, che potevano contrastare il disegno integralistico ne facilita il dispiegamento. Esso non si •presenta più solo nella forma tradizionale dei reiterati tentativi per ottenere a vario titolo finanziamenti per la scuola confessionale, ma si inserisce in proposte ben più articolate. Il dibattito sul testo costituzionale che vieta il finanziamento della scuola privata diventa secondario nei confronti del progetto di un sistema scolastico nazionale di cui facciano parte sia le scuole statali che quelle private. Entrambe chiamate pubbliche, perché assolvono alla funzione pubblica di rispondere alla domanda di istruzione, sono pertanto da sostenersi a spese della collettività. Tutte le scuole saranno alla pari e dovranno procurarsi sul mercato delle offerte formative l'adesione dei giovani e delle famiglie. Il modello privatistico delle scuole confessionali viene così presentato come alternativo alla gestione centralizzata della pubblica istruzione. Più duttile, più ordinato ed efficiente srebbe più adatto a soddisfare la domanda articolata e multiforme del sistema produttivo. L'autonomia in ambito amministrativo, culturale e didattico che a queste scuole verrebbe concessa, nel quadro di una generica programmazione centrale, mentre garantirebbe la piena libertà ideologica a quelle confessionali getterebbe nel caos il sistema scolastico statale lasciato alla mercé del mercato governato dalle richieste interessate delle aziende e dai


condiziorìamenti dei gruppi di pressione locali. Pubblicizzando in questa prospettiva, le scuole private si privatizzerebbero nel contempo quelle attualmente pubbliche, cioè le statali. Non è questa la sede per soffermarsi nella valutazione complessiva di questo progetto, condiviso da altre forze economiche e sociali, che è stato elaborato per uscire dalla crisi della scuola statale non con la riforma, ma con il suo inserimento nel mercato e il suo affidamento alla responsabilità di una categoria docente del tutto im.preparata ad assumerla e ad una struttura ministeriale assolutamente inadeguata a controllarla. VaI la pena, però, di sottolineare che tale progetto è perfettamente coerente con il disegno integralistico di inserire la scuola nel generale progetto di « ricristianizzare la società, garantendo alla chiesa una forte egemonia e un diretto controllo nel sistema formativo. Tale obiettivo perseguito con tenacia nei quarant'anni di vita della Repubblica potrebbe così realizzarsi. C'è da chiedersi se applicando in tempo il modello interpretativo elaborato da Verucci non si sarebbe potuto evitare. Se è stata cioè una politica saggia il non aver cercato, fin dall'inizio, di opporsi con aperta fermezza all'opera di quanti, più o meno consapevolmente, lo perseguivano. Questi interrogativi ci riportano al discorso più generale. Rispondendo ad essi può aiutare a valutare la contestazione di quelli che non si sono fatti illusioni sulle potenzialità innovatrici della politica di Paolo VI anch'essa ispirata, seppur in modo aggiornato, al disegno iero-

cratico di cui parla Verucci. Considerare le sue scelte come dettate dalla prudenza e dalla necessità di guidare gradualmente tutta la chiesa fuori del guado in cui l'aveva posta il Concilio è stato un errore. La contestazione alla sua politica nasceva dalla consapevolezza della impossibilità di 'proseguire l'opera avviata dal Concilio (di ripensare il tradizionale rapporto fra istituzione e profezia per renderlo più evangelico) senza mettere in discussione l'impianto istituzionale stesso dell'universo cattolico. Essi pen: sano che per entrare in dialogo reale con la società e la cultura contemporanea la chiesa debba assumere il Concilio non come un momento di ricreazione, dopo il quale tornare alla normalità, ma come una svolta epocale da cui partire per costruire in modo nuovo quel rapporto. Per questo sono accusati di estremismo. Su questa accusa convengono sia quanti, in campo cattolico, erano schierati con Paolo VI ed oggi lo rimpiangono, di fronte alle scelte di Giovanni Paolo TI, non cogliendo la continuità e la complementarietà di queste con quelle del suo predecessore, ma anche quanti non cattolici sostengono tale disegno nella prospettiva di servirsi dell'appoggio della chiesa nella loro scalata al potere. Di quest'ultimo atteggiamento, già presente nella dialettica politica dei decenni precedenti, è frutto il testo del nuovo Concordato del 1984. Nell'art. i mentre si ribadisce il riconoscimento delle due sovranità, si configura anche un regime di collaborazione fra Stato e Chiesa in vista del raggiungimento del bene dell'uomo e della società. Se l'obiettivo della chiesa nei confronti della società è quello che Verucci propone, il suddetto articolo 1 sancisce la disponibilità dello 137


Stato, ma soprattutto delle forze politiche che tale articolo hanno accettato o sancito, a collaborare con la Chiesa alla piena confessionalizzazione della società italiana. Nell'un caso e nell'altro si tratta di una sottovalutazione della forza di un disegno iscritto nella struttura stessa dell'universo cattolico e del rischio che comporta per lo sviluppo democratico il contribuire a consolidarla garantendole statuti diversi e privilegiati rispetto a quelli concessi a tutte le altre formazioni sociali tutelate dalle leggi della Repubblica. Fidare nel tempo •perché questo disegno perda la sua forza propulsiva o nella possibilità di neutralizzarla dopo averla usata è una finzione o un inganno. Se questo è vero, ed io lo ritengo tale, bisogna valutare come profondamente realistico l'impegno di chi non fidando solo nei processi spontanei di secolarizzazione, per contrastano ha perseguito sul piano ecclesiale la sperimentazione di forme di aggregazione comunitaria che prefigurassero una Chiesa senza potere e sul piano politico una rigorosa opposizione ad ogni regime concordatario. Dopo la lettura del libro di Verucci mi sembra ancor più ingiustiflcato avvalorare la tesi di chi accusa i contestatori di •fornire alibi all'insorgere di « spinte reazionarie ». Queste non hanno bisogno di alibi mentre trovano forza reale nei ricorrenti tentativi di accreditare il cosiddetto ritorno al sacro nei periodi di crisi sociale e culturale come smentita dell'esistenza di processi di secolarizzazione nelle società occidentali o peggio come prova di una « naturalità » della istanza religiosa. Anche il sacro nella società dei consumi 138

può diventare una merce di cui i mezzi di comunicazione di massa possono indurre il bisogno! Si operano spesso confusioni fra secolarizzazione e desacralizzazione, fra deistituzionalizzazione delle chiese e loro mondanizzazione. La secolarizzazione, comunque, non esclude la fede autentica, la presenza di forme diverse di religiosità o aperture al trascendente. Certo, è antitetica ad ogni tentativo di promuovere un sistema ierocratico.

Francesco Sidoli PARLANDO DI SECOLARIZZAZIONE

La lettura del volume di Verucci è illuminante e cospicua sotto molteplici profili: costituisce un'occasione per ripensare nella maniera più informata ed equilibrata problemi e periodi decisivi della società contemporanea; in particolare, il destino della Chiesa come potenza « di questo mondo », di un mondo in cui alcuni aspetti della religiosità tradizionale sembrano diventare gradatamente inattuali. Come sociologo mi sono sentito per così dire chiamato in causa dalla pagina finale, che si chiude con una diagnosi precisa; riprendendo temi più volte discussi nel corso della sua trattazione, Guido Verucci osserva che gli aderenti al cristianesimo e al cattolicesimo diminuiscono precentualmente su scala mondiale; « essi diminuiscono percentualmente anche nei paesi di antica cristianità, per il rapido e massiccio abbandono della pratica e della morale religiosa, specie nelle giovani generazioni ». Do-


po aver fatto riferimento ad alcuni dati obiettivi che confortano questa interpretazione, Verucci conclude: « i fenomeni di "ritorno del sacro" individuati dai sociologi non sono in grado di modificare sostanzialmente questo quadro. La società contemporanea appare sempre più secolarizzata nelle sue strutture, nella sua cultura, nei suoi orientamenti e comportamenti ». Questa interpretazione è confortata da una serie di dati e riflessioni che si ritrovano in varie parti del volume, con riferimenti ai precedenti dibattiti tra sociologi, ad esempio quelli seguiti alla pubblicazione del volume di Sabino Ac-

quaviva L'eclissi del sacro nella società industriale. Il concetto di secolarizzazione è centrale nell'analisi di Verucci, e viene primariamente definito come « secolarizzazione delle masse », perdita d'influenza di « valori, dottrine e istituzioni religiose ». Ad esempio di questo mutato rapporto tra -popolazione e religiosità, Verucci cita le trasformazioni dei tradizionali rapporti tra i sessi: la crisi dell'istituto faniiliare e i movimenti di emancipazione femmiinle. Fenomeni siffatti si profliano all'indomani della prima guerra mondiale, e annunciano un periodo storico durante il quale declino della religione e laicizzazione della società sembrano accentuarsi in maniera notevole. Dopo la seconda guerra mondiale il processo di secolarizzazione si accentua ulteriormente, approfondendo e ampliando la distanza tra Chiesa e società contemporanea. La contrazione del clero secolare è uno degli aspetti empiricamente più significativi del processo di secolarizzazione: tra il 1911 e il 1931 il numero dei preti seco]ari e religiosi era passato da 76.455 a 70.440, ma dopo

la seconda guerra mondiale il calo delle vocazioni si accentua nei termini di una diminuzione di proporzioni ancora piii incisive: « diminuizione calcolabile, fra il 1946 e il 1974, in circa il 51,8 per cento, e tanto più grave in quanto nello stesso periodo andava aumentando la popolazione, e si elevava quindi la media di abitanti per singolo sacerdote In tempi e modi diversi, dalla fine della seconda guerra mondiale tutto il mondo cattolico tradizionale attraversa in Europa un periodo di trasformazione e di riflessione. Esemplare in proposito il percorso di due paesi che si ritenevano caratterizzati da una maggioranza di popolazione cattolica: in Austria, nel novembte 1945, aveva ottenuto la maggioranza dei seggi il Partito popolare, fondato da politici cattolici; eppure nel 1950 meno di un terzo dei matrimoni contratti in quell'anno furono benedetti in Chiesa, e nello stesso anno si calcolava che il numero delle :persone che osservavano la pratica religiosa oscillava tra il 15 e il 25 per cento della popolazione. In Francia, nelle fondamentali elezioni del 2 giugno 1946, il Movimento repubblicano popolare, fondato da politici cattolici, diventò il primo partito politico francese. Eppure, in quegli stessi anni i primi studi di sociografia religiosa confermavano che avevano avuto ragione nel 1943 Henry Godin e Yvan Daniel nel loro celebre La France pays de mission?, dove avevano stimato per le zone popolari delle grandi città un livello di pratica religiosa oscillante fra il cinque e il dieci per cento della popolazione. Secondo le analisi -posteriori di Boulard e Le Bras in- altri ceti sociali e nelle campagne c'erano percentuali più alte di •praticanti, mai tuttavia neanche lontanamente vi139


degli individui e delle comunità nazionali. Inoltre problema della religiosità e problema della presenza cattolica sono da tenere abbastanza distinti negli Stati Uniti: il cattolicesimo americano è una confessione propria di alcune minoranze etniche (come gli irlandesi, i polacchi, gli italiani), che sono pienamente integrate nel melting pot, ma con caratteristiche specifiche rispetto al gruppo maggioritario nella cultura nazionale, costituito dalla religiosità protestante. Non so se per queMartin Patino, La Iglesia en la sociedad sti motivi le mie osservazioni, che vorespaniola, in J. Linz (ed), Espaì'ia: un rebbero essere un tentativo di prolunpresente para cI futuro, Instituto de e- gamento del lavoro di Verucci, risuitestudio econàmicos, Madrid 1984, voi. I, ranrìo invece in qualche misura interne p. 210. E a proposito della Francia è ad una prospettiva attenta alla proiezione geopolitica dell'istituzione (che nel stato osservato che la percentuale di cattolici sul totale della popolazione « è in passato è stata fondamentalmente eurocentrica ed ora invece è in mutazione diminuzione regolare da parecchi decenni. verso un più consapevole impegno gloI francesi fanno sempre meno battezzare bale). i bambini, vanno sempre meno in chieAlcune osservazioni preliminari possono sa, anche per sposarsi. In breve, la chiesa è in crisi » (G. Bermet, Francoscopie, essere svolte sulla base dei rilevamenti compiuti dalla Gallup Organization, che 1985, p. 52). da molti anni è ritenuta il più accreditato Il problema della secolarizzazione è così sismografo di quanto avviene nel mondo complesso che mi permetto di affrontarlo vulcanico della religiosità americana. Sesoltanto sotto un limitato punto di vista, condo un recente rapporto in proposito, relativo ad un confronto con un aspetto che fa il punto su cinquanta anni di stapeculiare dell'esperienza americana. E' ritistiche religiose, nel 1985 il 56 per censaputo che gli 'Stati Uniti sono un paese to dei cittadini degli Stati Uniti ritiene puritano », e religioso in maniera sotla religione « very important » e il 36 to vari profili più intensa, molto diversa per cento la ritiene « fairly important » rispetto 'all'esperienza europea. Rinvio (Gallup Report, Religion in America 50 (Reall'accurata analisi di A. J. Reichley Yers 1935 - 1985, May 1985, p. 22). ligion in American Public Li/e, The Brookings Institution, Washington D. C. 1985) Anche se soltanto metà delle persone che « credono in Dio » frequenta regosecondo il quale un riferimento trascenlarmente una chiesa o una sinagoga, è dentale è necessario per mantenere unite veramente straordinaria questa percentuasocietà eterogenee, e le chiese svolgono le della popolazione (40 per centoL) che un « servizio di pubblica utilità » inculogni domenica mattina adempie un qualcando valori che proteggono gli interessi

cino ad una prevalenza numerica rispetto al resto della popolazione non praticante. Confermano la stessa tendenza storica anche fonti diverse da quelle citate da Verucci; ad esempio, a proposito della esperienza spagnola, dove si registrano i livelli di pratica religiosa più alti in Europa (ad eccezione dell'Irlanda, che però costituisce un caso del tutto peculiare), è stata osservata una « marginacion progresiva de lo especificamente cristiano en la sociedad espanola » J. P.

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che obbligo di presenza religiosa: è una percentuale che non trova un adeguato confronto in qualunque altro paese industriale moderno. Nel 1940 soltanto il 37 per cento degli adulti negli Stati Uniti frequentava regolarmente le funzioni religiose; nel 1958 la percentuale di adulti che avevano frequentato una chiesa o una sinagoga almeno una volta nel corso della settimana, era del 49 per cento. Questa percentuale ha declinato lentamente, ma non in maniera tale da indurre a credere nell'esistenza di un processo storico inarrestabile: era del 42 per cento nel 1970, e del 40 per cento nel 1980; ma è aumentata di nuovo al 42 per cento nel 1985, ed è ritornata al 40 per cento nel 1986: una cifra inferiore a quella del 1958, ma superiore a quella del 1940. Gli analisti della Gallup potevano ragionevolmente concludere che nel corso di cinquantanni l'impatto della religione sulla società americana era rimasto stabile, e che sia le credenze religiose fondamentali sia le pratiche avevano subito soltanto piccoli cambiamenti. Un commentatore particolarmente autorevole in tema di analisi dei sondaggi di opinione ha sottolineato che i dati raccolti attraverso i sondaggi Gallup dimostrano che non è in corso nella nazione una qualche forma di rinascita in massa delle forme di religiosità tradizionale. Il numero dei credenti americani è sostanzialmente invariato (L. Harris, Inside America, Random House, New York 1987, pp. 67-71) nonostante l'attivismo dei nuovi predicatori possa indurre a ritenere il contrario. La società americana è fondamentalmente religiosa, ma tale religiosità è prevalentemente un affare privato, poco incline a quella proie-

zione politica che è invece auspicata da alcuni dirigenti. In generale, modernizzazione tecnologica e secolarizzazione culturale sembrerebbero due fenomeni che in America camminano su binari diversi, a velocità diverse e in direzioni diverse. Queste osservazioni non pessimistiche nei confronti della religiosità americana sono valide sia nei confronti di quel settore della cultura protestante che ha conosciuto uno straordinario rilancio attraverso la televisione, sia nei confronti della stessa chiesa cattolica. E' ad esempio molto significativo che un illustre pastore luterano, peraltro particolarmente attento alla restaurazione della cultura protestante, abbia scritto (sulla base di motivazioni da non sottovalutare) che la cultura cattolica sembra meglio attrezzata di altre per la transizione verso le nuove forme della modernità (R. J. Neuhaus, The Catholic Mo-

ment: the Paradox o! the Church in the Postmodern World, Harper & Row 1987), e che nel variopinto mondo delle chiese americane « none is so large, so various, and so influential as the Roman Catholic Church ». Anche all'interno delle società economicamente sviluppate la chiesa cattolica sembra destinata ancora a svolgere un ruolo di primario rilievo: secondo un rapporto ufficiale reso pubblico il 10 settembre 1988, gli uffici statistici centrali hanno contato per il 1987 quasi 19 milioni di cittadini di lingua spagnola negli Stati Uniti, inclusi circa tre milioni di clandestini; la comuntà latinoamericana e centroamericana residente negli Stati Uniti costituisce il 7,6 per cento della popolazione totale del paese, ed è caratterizzata dal ritmo più elevato di incremento demografico e da un'età media inferiore a cznfronto con gli altri gruppi

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etnici (25,1 contro il 32,6 del resto della popolazione). Più in generale, un fitto tessuto di chiese, di riti, di sette e di culti nell'America odierna, ha indotto a sostenere che il sentimento religioso è ancora in buona salute: non è vero che « Dio è morto ». Verucci avrebbe ragione però di dire che molte forme di questa nuova religiosità sono cose diverse dal sentimento religioso quale è praticato e vissuto oggi in Europa. Ad esem.pio, è stato una sorta di rinascita collettiva di sentimenti di fede, il movimento dei sannyasins di Bhagwan Sgree Rajneesh, ma quella mescolanza di filosofia induista e versi whithmaniani aveva certo poco in coi:nune con le fedi tradizionali, tanto è vero che fra l'altro dava adito a inchieste della magistratura (J. S. Gordon, The Golden Guru, The Stephen Greene Press, Lexington 1988). Spesso queste nuove forme di religiosità non assomigliano per niente alla religiosità tradizionale, e inducono piuttosto a svolgere un confronto con il politeismo classico di Grecia e di Roma, in cui convivevano una variopinta molteplicità di dei e di demoni: c'era una divinità anche per gli assassini e gli stupratori (D. Miller e J. Hillman, Il nuovo politeismo, Comunità, Milano 1983). In effetti, i movimenti religiosi americani hanno oscillato lungo un continuum alle cui estremità si ritrovano da una parte episodi macabri come quelli relativi ai suicidi di Jonestown o ai massacri di Manson (sono i simboli maggiori di degenerazioni settarie) e dall'altra parte itinerari assolutamente contrapposti, come quelli percorsi dai Mormoni o dai Christian Scientists (sono i simboli maggiori della .piena integrazione di sette inizialmente perseguitate e in seguito rispettate e ammira-

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te). Questa situazione ha indotto alcuni osservatori a ricordare una celebre riflessione a proposito del politeismo romano classico: le svariate religioni popolari erano nel mondo antico « considerate dal popolo tutte vere, dal filosofo tutte false, e dai magistrati tutte utili », secondo la lapidaria espressione di E. Gibbon in

The Declin and Fali o! the Roman Empire. Viviamo in un'età storica nella quale ovviamente esistono spinte profonde, preci. puamente di carattere scientifico e tecnologico, verso la razionalizzazione delle strutture e delle procedure. Anche dal punto di vista economico-culturale, la nostra società tende a diventare « connessa soltanto nei mezzi e non nei fini », una società che si regge sulla base di norme regolative della convivenza, ma è senza scopi comuni, senza prescrizioni e controlli delle motivazioni personali. Veramente e definitivamente « usciti dallo stato di minorità », gli individui approdano in un mondo « disincantato », dove forse alcuni si credono adulti, ma certo molti si riscoprono sostanzialmente orfani. Il vuoto lasciato dal declino della religiosità tradizionale viene riempito da altre forme di fede, spesso caratterizzate da un trasferimento della sacralità dal soprannaturale al profano. Un aspetto come la superstizione, che sulla scorta di una illustre tradizione di pensiero (penso ad esempio alle straordinarie pagine di E. De Martino in Sud e magia) era stata considerata elemento caratterizzante delle forme di pensiero premoderne, ora ritorna ad occupare l'immaginario collettivo in maniera prepotente e sotto vari profili. E' un problema che non riguarda soltanto gli Stati Uniti, dove pure gli


astrologi sono arrivati sino alla Casa Bianca: « La Francia era conosciuta come il paese di Cartesio. Oggi è il paese di Nostradamus e di Madame Soleil. Da lungo tempo presente sulla stampa a larga tiratura, l'astrologia investe a poco a poco i differenti settori della vita quotidiana » (rinvio ancora a Mermet). E' ancora controversa la questione relativa al significato politico dei processi di secolarizzazione nelle società economicamente sviluppate. Invece, per quanto riguarda i paesi non sviluppati dal punto di vista industriale, il problema risulta meno controverso, almeno per quanto riguarda un punto essenziale. E' stato spesso sottolineato che la rilevanza politica dell'attivismo religiosamente moti'ato costituirà una delle maggiori sfide politiche del prossimo secolo (R. Wright,

Religion in Politics - A Global Phenomenon, in « The Cristian Science monitor », november 4, 1987). L'impegno politico dei credenti, dopo essere stato negli anni ottanta un ingrediente di forte rilievo in molte crisi regionali, dal Tibet alle Filippine, dalla Polonia alla Palestina, dal Nicaragua all'India, nel prossimo futuro potrebbe giocare due ruoli del tutto differenziati: o rappresentare il centro di coagulo della maggiore opposizione alla modernizzazione e alla occidentalizzazione delle società periferiche (come nel caso classico che riguarda l'Iran khomeinista) oppure rappresentare un elemento di inquadramento e di disciplina dei ceti popolari, di contenimento delle resistenze, di anestetizzazione della sofferenza traumatica che accompagna il parto della nuova società (l'adattamento dello sciamanesimo in Corea e dello scintoismo in Giappone sono casi classici in materia). Da questo punto di vista, nel

futuro, sia all'interno delle società economicamente sviluppate sia all'interno delle società in via di sviluppo, la storia della chiesa cattolica può prendere strade differenziate e dare contributi molto diversi in un senso o nell'altro.

Guido Verucci IEROCRAZIA E POPOLO DI

Dio

Prima di tutto un ringraziamento sincero, molto caldo, a tutti coloro che sono presenti e che hanno colto l'occasione della lettura di questo libro per ampliare, con indicazioni e riflessioni l'arco delle questioni che esso ha affrontato. Poiché ogni libro è una sorta di autobiografia, anche questo per me lo è stato, un'autobiografia non solo personale ma collettiva, nel senso che in questo libro sono presenti anche diversi amici, con i loro itinerari e con i loro lavori. Anche io, pur non eludendo i quesiti posti e le osservazioni fatte, vorrei provarmi a cogliere l'occasione di queste osservazioni per allargare a mia volta il discorso. Accolgo i rilievi di Lariccia sulle lacune di carattere giuridico nella parte riguardante l'Italia.. A parziale. giustificazione di queste lacune vorrei addurre innanzitutto il •fatto che il lavoro, pur prendendo in esame soprattutto alcuni paesi europei ma sforzandosi di tener presente un orizzonte più vasto, non vuole essere italocentrico; in secondo luogo dovrebbe risultare chiaro che il -presupposto sotteso, a tutte le .pagine che riguardano la situazione giuridica della Chiesa in Italia e le condizioni fatte alle 143


minoranze religiose, con le limitazioni alla libertà di culto, è che tale situazione e tali condizioni sono determinate dall'adesione alla dottrina della Chiesa come società perfetta che fino al Concilio, senza attenuazioni significative, è propria dell'intero mondo cattolico italiano, anche dei suoi settori più avanzati e più sensibili. Dottrina che prevede un potere sia pure indiretto della Chiesa sullo Stato anche in materia temporale, quando siano coinvolti gli interessi morali e religiosi. Lo stesso ideale storico di una nuova cristianità quale viene elaborato da Maritain e a cui si richiamano i cattolici democratici, mi sembra tutto sommato subalterno all'ideale storico di cristianità elaborato da Pio XII, e questo spiega in parte le contraddizioni e i limiti che mostrano anche espressioni avanzate del mondo cattolico di fronte a certi problemi negli anni del dopoguerra. Il Concilio, da questo punto di vista, che cosa rappresenta? A me pare che anche su questo piano il Concilio confermi il suo carattere di compromesso, non sempre perfettamente riuscito, cioè che non nasconde affatto le sue latenti contraddizioni; infatti, se noi abbiamo da un lato un capitolo della Gaudium et Spes in cui è scritto che la Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offerti dall'autorità civile, disposta a rinunciare anche a diritti acquisiti, reclamando comunque il diritto a insegnare la sua dottrina sociale, abbiamo dall'altro una dichiarazione sulla libertà religiosa, la Dzgnitatis humanae, in cui si riconosce la possibilità che nell'ordinamento giuridico di una società venga attribuita a una determinata comunità religiosa una speciale posizione civile, reintroducendo 144

quindi di fatto il principio dell'appoggio dello Stato e dei concordati a favore della Chiesa cattolica. Insomma, il Concilio non ha veramente superato la concezione della Chiesa come società perfetta. Vigli ha espresso la sua insoddisfazione rispetto a una ricostruzione del •post-concilio che non dà il debito spazio alle resistenze che nel mondo cattolico si sono manifestate nei riguardi di una ripresa, di una riproposizione del disegno ierocratico. Mi pare invece di aver sottolineato abbastanza con forza che questo disegno ierocratico è contrastato innanzitutto da una certa eredità del Concilio, da resistenze all'interno del mondo cattolico, da un certo pluralismo di fatto dottrinale e disciplinare, in particolare da una visione della Chiesa propria di certi gruppi che contrasta nettamente con la visione della Chiesa propria del magistero ecclesiastico. La situazione in cui si trova oggi il mondo cattolico mi sembra piena di contrasti e di lacerazioni; al centro di questi contrasti e lacerazioni c'è appunto una diversa concezione della Chiesa. Vorrei partire appunto dal Concilio, cioè dalla costituzione dogmatica sulla Chiesa del 1964, che fa emergere l'idea della Chiesa come popolo di Dio, il sacerdozio comune dei fedeli accanto al sacerdozio ministeriale e gerarchico, e in cui però c'è una visione della collegialità episcopale estremamente riduttiva rispetto a quelle che erano le attese, le speranze, le proposte di una parte del Concilio. C'è cioè l'affermazione che la potestà del collegio dei vescovi non può essere esercitata senza il suo capo, « ed integra restando la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli »,


cioè si afferma una collegialità sempre sulla base dell'assoluta superiorità del papa suiiinsieme dei vescovi, e si sottolinea che la distinzione non è tra il pontefice romano da una parte e i vescovi nel loro insieme, ma tra il pontefice da solo e il pontefice insieme ai vescovi. Del resto questa dottrina della collegialità è una dottrina che Paolo VI ha fatto valere lungo tutto il corso del Concilio, affermando di fatto la superiorità del papa sul Concilio stesso, sulle stesse deliberazioni conciliari. Senza dire che le conferenze episcopali previste dal Concilio hanno soio « un sentimento collegiale », la collegialità è ridotta al momento del Concilio e non si indica in quale altra assise si possa esercitare il governo collegiale. Sappiamo anche quale è stata successivamente la formulazione e l'interpretazione dei poteri del sinodo dei vescovi. insomma, se la costituzione conciliare rivaluta la concezione mistico-spirituale della Chiesa, essa tuttavia non accantona affatto la concezione tradizionale gerarchico-autoritaria. Del resto la costituzione dogmatica sulla Chiesa si rifaceva alla enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI, in cui si sottolineava in particolare che spetta alla gerarchia, al papa, presentato anche come capace di essere svincolato del tutto dalle decisioni conciliari, di guidare il necessario aggiornamento della Chiesa. Così pure il decreto conciliare Presbyterorum ordinis del 1965 giustappone due concezioni diverse del clero: da un lato il sacerdote come amministratore dei sacramenti e guida della comunità in subordinazione gerarchica ai vescovi, e in relativa separazione dal mondo; dall'altro invece il sacerdote che svolge un ruo-

lo missionario, cioè immerso nella vita quotidiana. Nell'ambito dell'opera di Paolo VI diretta a raccordare completamente le deliberazioni conciliari con gli insegnamenti tradizionali, a colmare anche quelle che erano giudicate lacune del Concilio, si collocano a questo proposito, fra l'altro, due interventi del 1966: in uno, a evitare che la visione della Chiesa come corpo mistico di Cristo ponesse in ombra l'altra, ribadiva che la Chiesa è appunto una società giuridica, organizzata, visibile, perfetta; in un altro affermava che il sacerdote è prima di tutto ordinato alla celebrazione del sacrificio eucaristico, che ha dunque un carattere più sacro che missionario. Questa concezione della Chiesa, persistente nel magistero ecclesiastico, è stata sottoposta a forti tensioni, è stata contestata e modificata in una parte sia pure minoritaria del mondo cattolico, nelle comunità di base sorte a partire dal 1968; in queste è stato sviluppato unilateralmente lo svantaggio del suo pur persistente carattere gerarchico-istituzionale, e radicalmente, l'aspetto introdotto dal Concilio della Chiesa come popolo di Dio, aspetto che nel '68 si carica di tutte le valenze egualitarie, libertarie, soggettivistiche proprie del movimento di quell'anno. Si valorizza il concetto di Chiesa come comunità di fratelli, come Chiesa dei poveri, dalla parte dei poveri, contro i ricchi, anche come Chiesa di libera scelta, opposta a quella di nascita. Se si vuole tenere presente una documentazione di parte italiana, si può considerare per esempio una lettera di don Rosadoni dell'ottobre '68, in cui si dice che la Chiesa è un accadimento, non più 1 45


una struttura, e che i fedeli, ispirandosi a Gesù di Nazareth, cercano insieme. Si sviluppano motivi che vanno di .pari passo con certe elaborazioni teologiche. Il teologo olandese Schoonernberg ha parlato della Chiesa come una comunità di fede che può essere caratterizzata da una pluriformità di interpretazioni dottrinali e di norme e comportamenti morali. E' evidente la carica di rottura che una concezione di questo tipo ha rispetto alla concezione tradizionale. Ancora: padre Balducci ha scritto recentissimamente che la Chiesa è il popolo di Dio, una comunità vivente e mobile i cui centri di iniziativa sono tanti quanti sono le comunità locali. Mi sembra a questo proposito acuto il rilievo fatto dal cardinal Ratzinger nel suo « Rapporto sulla fede », allorché individua come elemento fondamentale della crisi interna della Chiesa e, dal suo punto di vista, della necessità di una « restaurazione », la concezione della Chiesa. Perchè questa diversa concezione della Chiesa comporta una diversa concezione della fede, anch'essa prodotto di uno sviluppo unilaterale del concetto cosiddetto kery,gmatico della fede affermato dal Concilio, a svantag gio delle sue espressioni teologiche, fede che si pone soprattutto in termini esistenziali, antropologici, mistici. Anche qui c'è una documentazione relativa a una parte sia pure minoritaria del mondo cattolico, da cui appare che la verità religiosa è intesa non come possesso, ma come ricerca che avviene nella comunità, comunità in cui ci sono credenti anche di altre confessioni, e pure non credenti. Per esempio, nello scritto « Ritorno a Utopia » di don Aldo Ferrarino, uno degli esponenti della contestazione ecclesiale, si prende posizione contro chi si de146

finisce infallibile, pretende di conoscere la verità e obbliga gli altri a credere. In una lettera di un gruppo di minori francescani (primavera 1968) si scrive: se parliamo di fede, è della fede di chi parte verso un paese che non conosce. A queste concezioni si collega anche una visione ancora una volta profondamente diversa del sacerdote, in cui si porta anche qui unilateralmente avanti un elemento introdotto dal Concilio. Il prete viene considerato più come un ministro che svolge una funzione, al servizio della comunità dei fedeli, che come una persona consacrata: il suo ruolo è più simile a quello dei laici, nella tendenza a un superamento della separazione con essi, a quella che è stata chiamata la declericalizzazione del sacerdozio e più in generale della Chiesa. Ha scritto intelligentemente padre Balducci, sottolineando lo effetto del '68, che questo ha introdotto un dissesto delle identità e del sistema delle correlazioni che le sorreggeva, e quindi anche delle identità prete-laico, cre: dente-non credente, sacro-profano. E' in base a tale dissesto che si afferma in questi anni che non solo il vescovo e il parroco, ma tutti i .membri del popolo di Dio hanno lo spirito profetico di Cristo, in una prospettiva che va bene al di là di quelle delle Chiese protestanti storiche. Queste diverse concezioni della Chiesa, del sacerdote, della fede, si muovono nell'ambito di una profonda trasformazione culturale che si è operata alla metà degli anni '60, col '68, in una parte del mondo cattolico, ben più radicale di quella compiuta dal progressismo cattolico degli anni '50 e '60. La trasformazione comporta quella che è stata chiamata la caduta dell'aggettivo cattolico a livello


di molte organizzazioni e associazioni del mondo cattolico, il rifiuto di ogni antico integralismo, e la nuova valorizzazione del termine cristiano, ma limitato all'ambito religioso; comporta l'aspirazione a tradurre il Cristianesimo nelle lotte del movimento operaio, in quelle di liberazione nazionale e per il socialismo; comporta una tendenza dei laici a partecipare, a incidere sui contenuti della fede; comporta anche, e questo mi sembra il dato più caratteristico, una immissione massiccia della cultura di questo mondo, della cultura contemporanea, nel mondo cattolico, come sfondo inevitabile su cui rifondare se possibile una presenza cristiana. Cioè, è come se li mondo cattolico, una parte del mondo cattolico post-conciliare e post-sessantottesco si renda conto che l'unica possibilità reale di ricostruire, di rifondare una presenza cristiana nel mondo contemporaneo sia quella di prendere atto della cultura di questo mondo, cioè delle idee di libertà, di eguaglianza, di laicità, della stessa secolariz-

zazione, compiendo Io sforzo di naturalizzare il Cristianesimo in una società secolarizzata. Queste mi sembrano siano le ragioni di una grande effervescenza, di un pluralismo di fatto che esiste nel mondo cattolico, in cui sono presenti sia la possibilità di un ricompattamento su posizioni in parte preconciliari, sia forse pos. sibilità diverse. Ma probabilmente ha ra gione Ristuccia quando sottolinea come dato caratteristico, inevitabile della Chiesa cattolica il fatto di essere istituzione, di avere una presenza istituzionale, e pertanto l'immancabile ripresa, la riaffermazione delle ragioni forti della istituzione. Possibilità diverse che si manifestano in un mondo che mi sembra sempre più secolarizzato, anche se sappiamo che la secolarizzazione riguarda soprattutto una parte di esso. Il ritorno del sacro di cui si parla e a cui ha fatto riferimento Sidoti non s'identifica comunque con una ripresa di religiosità confessionale, anche se può essere utilizzato dalle confessioni religiose.

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Israele: la forza e l'insicurezza di Stefano Levi-Della Torre

Le elezioni in Israele all'inizio di novembre hanno mostrato un paese spaccato in due e immobilizzato, come impaurito dal bivio a cui si trova di fronte, timoroso di scegliere. La diflcoltà di formare un governo ha ribadito lo stesso fatto: ogni decisione ha un suo contraccolpo, dall'interno e dall'esterno, difficile da sostenere. In termini di voti, e comprendendo i comunisti, si può forse dire che c'è una maggioranza favorevole a concessioni territoriali in cambio della pace, ma è una maggioranza debole e soprattutto attraversata da incompatibilità interne; in termini politici e comprendendo anche i partiti religiosi, che però non sono tutti in posizioni oltranziste sui « territori », c'è un vantaggio della destra nazionalistica, ma anche esso così poco determinato da rendere ardua una linea decisa. Come già nell'84, c'è un indebolimento del centro, ossia un declino delle formazioni maggiori - Likud e Laburisti e una polarizzazione ai lati, un rafforzamento dei partiti minori, sia a destra sia a sinistra; ma c'è anche, a differenza dell'84, una forte ri.presa elettorale dei partiti religiosi, e più ancora è aumentato il loro potere di condizionamento sul centro indebolito. E' un luogo comune dire che gli ebrei ad una domanda rispondono con una domanda, ma ciò sembra drammaticainente riguardare queste elezioni. La doman148

da fondamentale di fronte agli elettori l'aveva posta la rivolta palestinese nei territori occupati: annessione dei territori o trattative coi palestinesi e con l'oLP? Ma le urne sembrano aver risposto domandandosi: «Che cosa è oggi Israele, che cosa deve diventare? » Tanto che i partiti religiosi hanno rincarato la dose, e hanno rilanciato la domanda: « Chi è ebreo? », e hanno posto come condizione del loro appoggio a qualunque governo il fatto che ad essi spetti ogni decisione in proposito, per legge. L'incerto prevalere della destra ha due ragioni di fondo, e così le spiega Shiomo Avineri, docente di Scienze Politiche all'Università •britannica di Gerusalemme: la prima ragione sta nel mutamento nella struttura demografico-culturale della popolazione di Israele, col progressivo diventar maggioranza degli ebrei provenienti dai Paesi Arabi e dalla Turchia, da società molto tradizionaliste. Essi non hanno partecipato af processo di secolarizzazione attraversato dagli ebrei di provenienza europea e sono più sensibili alle idee nazionalistiche ed etnocentriche. La seconda ragione sta nel fatto che, a partire dalla « guerra dei sei giorni » nel 1967, e soprattutto dal trauma dell'attacco arabo del Kipur, nel 1973, il dibattito politico in Israele si è concentrato sulle questioni della sicurezza, sì che l'ala nazionalista trova maggiori consensi che non prima, quando l'atten-


zione era concentrata sull 'edificazione della nuova società e dello Stato, ed erano i Laburisti ad avere l'egemonia. Ma la risultante delle elezioni israeliane è soprattutto una posizione di stallo. Essa sembra dire: « Si fermi tutto, finché non decidiamo una direzione ». Tuttavia il corso del sole si è fermato solo una volta, per mano di Giosué e per opera di Dio; oggi invece le cose intorno non stanno ferme, e l'immobilismo di Israele accumula le sue difficoltà e il suo isolamento.

PosIzIoNI PIETRIFICATE Israele era una realtà dinamica, mentre per lungo tempo è stato il movimento polestinese a non riconoscere la realtà, a voler fermare la storia, a volere anzi farla tornare indietro, a prima della nascita dell'« entità sionista », a prima della dichiarazione Balfour del 1917. Ora la rivolta dei « territori » ha cominciato a porre il movimento palestinese coi piedi per terra, a farlo uscire dal falso movimento. L'OLP ha compiuto dei passi reali, e con essa molti Paesi arabi (la Giordania e l'Egitto soprattutto). E' invece Israele ad essere approdato, a sua volta, ad una posizione pietrificata, alla difficoltà di riconoscere la realtà evidente, ossia l'esistenza di una nazione palestinese, formatasi nel corso della storia recente come entità distinta nel contesto della regione; a non riconoscere che i suoi propri successi precedenti non erano solo dovuti alle grandi energie interne e alla ferma volontà di esistere, ma anche dall'aver saputo intessere un contesto internazionale favorevole. Ora una parte determinante di Israele sembra non ve-

dere il pericolo di un isolamento progressivo, che non basta esorcizzare ritenendosi « genio incompreso », vittima solo di una « diffamazione » che troppo spesso è invece documentazione di una repressione, del sacrificio umano giornaliero imposto dal rifiuto sostanziale alla trattativa. Israele è stata un'identità emergente, forte e polarizzante. Il suo nascere ha salvato gli ebrei da una depressione distruttiva dopo lo sterminio; ha dato il senso del rilancio e delle possibilità. Ora sono i palestinesi ad essere un'identità emergente, mentre Israele è incerta su di sé, si aggrappa alla propria forza e segna il passo.

PSICOLOGIA DELLA VULNERABILITÀ Con le decisioni di Algeri di metà novembre, •l'oLP ha compiuto una svolta; ha riconosciuto in particoalre la Risoluzione dell'ONU 242, da sempre rifiutata per principio, come base per un negoziato. Si tratta della risoluzione del 1967 la quale afferma il diritto di ogni Stato della regione, tra cui Israele, di « vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti ». Sul « Jerusalem Post » (edizione internazionale) di fine novembre, Abba Eban (che fu tra i fondatori di Israele e ministro degli Esteri laburista, nonché attuale presidente del « Centro per la pace in Medio Oriente ») metteva in rilievo il fatto paradossale che i dirigenti e la stampa israeliani rinfaccino all'oLP di non essere abbastanza enfatica nell'aderire alla 242, ma al tempo stesso trascurino il dato imbarazzante che il governo di Israele non accetta, per parte sua, la 149


stessa risoluzione. I dirigenti dei due maggiori partiti israeliani - dice ancora Eban - hanno rifiutato in blocco le recenti posizioni dell'oLp, mentre portavoce americani vi hanno riconosciuto « qualche elemento di progresso ». Siamo di fronte - dice Eban - alla « transizione nella retorica palestinese dal fondamentalismo dogmatico alla trattativa diplomatica. La 242, la 338 (equivalente), la conferenza internazionale di pace e altri simili termini appartengono realmente al mondo del negoziato. Dopo tutto, le tradizionali politiche palestinesi dell'estremismo e della violenza sono fallite, e ciò è dovuto alla tenacia israeliana e americana; e il fallimento porta spesso la gente a rivedere le proprie posizioni. Non c'è nessuna ragione, da parte israeliana, di reagire in termini di panico apocalittico a questo segno di successo. La predominanza militare israeliana sui palestinesi è di mille a uno. Il paradosso della vita israeliana è l'enorme contrasto tra la realtà della nostra forza e la psicologia della nostra vuinerabilità Sta di fatto che i primi due anni di governo di coalizione sotto la presidenza laburista di Peres hanno aperto qualche prospettiva negoziale, e in quel tempo l'oLp è rimasta sostanzialmente rigida; mentre gli ultimi due anni sotto la presidenza Likud di Shamir hanno bloccato quelle prospettive, e ora l'OLP ha compiuto una svolta: come se Israele e l'oLp si muovessero sfasati, per non incontrarsi. Che cosa si può dedurre dalle tesi autorevoli di Abba Eban? Primo, che l'obiettivo principale di una parte determinante di Israele e l'annessione di territori e non la pace: meglio schiacciare i palestinesi che tentare la pace con essi, tanto 150

da temere più il mutamento diplomatico dell'oLi' piuttosto che una sua continuità oltranzista. Secondo, che la forza unita al senso di vulnera.bilità è una grave minaccia dall'interno, una miscela che ha spesso indotto degenerazioni autoritarie nelle masse e nelle nazioni; una miscela che ha fatto spesso del complesso militare-industriale (così robusto in Israele per necessità) un protagonista esorbitante e dalle emanazioni pericolose.

DECLINO DEL SIONISMO

Riprendiamo cose già dette in passato: di fronte a un anno di rivolta di una popolazione palestinese che rifiuta il dominio straniero, Israele non si trova soltanto di fronte alla domanda: « Che cosa fare? » La questione è tale da far risalire la domanda alla radice: « Che cosa essere? Che cosa diventare? » Se si annettono i « territori » e si dànno alla popolazione palestinese che vi risiede tutti i diritti degli israeliani, Israele rimarrà forse una democrazia; ma non diventerà un nuovo Stato arabo? Se si annettono i « territori » senza conferire diritti uguali alla popolazione residente, Israele non diventerebbe uno Stato di apartheid? Se si annettono i « territori » e se ne cacciano i palestinesi, non si compirebbe un crimine intollerabile? Non si spaccherebbe il Paese, non si armerebbero nuovi nemici, perdendo gli amici? Se si accetta la Spartizione e lo Stato palestinese, Israele non rischierebbe di stabilizzare, consenziente, una permanente minaccia sulla soglia di casa, ossia la statualizzazione dell 'irredentismo palestinese verso la terra stessa di Israele? Israele non manca di gente decisa, da


una parte e dall'altra. Tuttavia, la risultante è l'incertezza, la quale non nasce solo dalla controversia sui « territori », ma da qualcosa di più intrinseco. Likud e partito laburista rappresentano le due ali principali del sionismo, la destra nazionalistica e la sinistra moderata che avevano ispirato - e soprattutto la seconda, néttamente dominante fino al 1977 - il carattere essenzialmente laico dello Stato. Ora il loro relativo declino elettorale manifesta, a mio parere, il declino storico del sionismo tradizionale. Diceva Oscar Wilde che due sono i motivi fondamentali dell'insoddisfazione: lo aver ottenuto quel che si voleva, e il non averlo ottenuto. Così, il sionismo tradizionale va •perdendo forza propulsiva sia a causa dei suoi successi, sia a causa dei suoi insuccessi. Il suo successo fondamentale è stato quello di costituire Israele; ma una volta costituito, la discussione si è spostata su quale debba essere il suo carattere, quali le sue culture dominanti (askenaziti, sefarditi ... ), quale il suo inserimento, o arroccamento, nella regione. Il suo insuccesso fondamentale è stato invece il suo proposito di rendere superflua » la « diaspora », proponendo a ogni ebreo di « salire » in Israele. Ma l'esistenza di Israele non ha vanificato la « diaspora » ebraica, anzi, l'ha riconfermata, proiettando sugli ebrei di ogni Paese un nuovo senso di identità, quello di potersi sentire anche « nazione » in quanto ebrei, grazie a uno Stato in qualche parte del mondo, quello di sentirsi sicuri in quanto ebrei, là dove risiedono, perché c'è Israele. Il sionismo ha così .perduto i suoi motivi principali: l'uno perché l'ha realizzato, l'altro perché è stato smentito e quasi ro-

vesciato dalla Storia e dagli stessi ebrei che hanno scelto di stabilizzarsi nei paesi di cui sono cittadini. Il sionismo ha percorso una parabola che da un lato è sua specifica, dall'altro è simile a quella di qualunque movimento ideale e politico immerso nella Storia. Il sionismo non poteva fare di Israele che un'opera incompiuta, basata sulla « spartizione »: dal punto di vista politico, sulla spartizione della terra con gli altri abitanti della Palestina; dal punto di vista dell'ebraismo, sulla spartizione tra carattere laico e carattere religioso dello Stato; dal punto di vista etnico-culturale, sulla spartizione tra ebrei provenienti dall'Europa o dai Paesi arabi... La componente fondamentale del sionismo era soprattutto « laica », ma si rivolgeva all'identità ebraica, mobilitava non solo sulla necessità del riscatto politico e sociale degli ebrei oppressi, ma anche facendo riferimento ai miti della « terra dei padri » e alla tradizione, e portava e porta con sé una contraddizione ardua: da un lato l'obiettivo di fare degli ebrei una nazione e uno Stato « come gli altri », allo stesso modo che gli antichi ebrei chiesero al profeta Samuele di avere un re, Saul, « per essere come gli altri popoli »; e questo fa del sionismo una corrente dell'« assimilazione ». Dall'altro lato si trattava di realizzare nel concreto lo spirito ebraico nella sua differenza, di far vivere una lingua, una tradizione, una identità specifica. Ora siamo entrati in un periodo «post-sionista », e tutte queste contraddizioni, trascinate e in certa misura unificate dalla tensione dinamica e costruttiva dell'edificazione dello Stato-nazione emergono dall'abbassarsi dell'onda propulsiva del sionisnio.

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Mi sembra, insomma, che sia in corso un processo di mutazione o di sostituzione della linea fondamentale del sionismo. Se esso è stato un risorgimento nazionale ebraico, ora c'è chi tira sull'< ebraico », e chi sul « nazionale ». Da un lato si vanno potenziando le componenti religiose che dicono: « abbiamo fatto uno Stato di ebrei; facciamone ora uno Stato ebraico, uno Stato proprio di "chi è ebreo" e saremo noi a decidere chi Io è »; dall'altro si vanno potenziando le componenti nazionalistiche che dicono nei fatti: « non si tratta più di conquistare l'obiettivo fondamentale del sionismo storico, ossia l'autodeterminazione nazionale nella democrazia, ma di conquistare tutta la terra contesa, vietando l'autodeterminazione ai concorrenti palestinesi ». Ci sono state e ci sono importanti correnti religiose che hanno contestato il sionismo in base all'idea che Israele non avrebbe senso se non come opera messianica. Ora, come osserva il professor Sprinzack, dagli Anni Settanta la nuova formazione del Gush Emuanim (che egemonizza ormai il Partito Nazionale Religioso, Mafdal) vuoi ricomporre in sé quel dissidio: esso ritiene che l'annessione dei « territori » non sia tanto un « diritto » o una questione di sicurezza, come soprattutto sostiene la destra laica, ma un « dovere messianico », affinché Israele possa svolgere la sua missione. (Credo che si possa utilmente ravvisare un'analogia con il fondamentalismo staliniano, quando l'Unione Sovietica annetteva etnie e territori in nome della missione « messianica » del comunismo per l'emancipazione dell'uomo).

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FRENESIA DEL COMPIMENTO

L'eredità per forza di cose incompiuta lasciata dalle principali correnti del sionismo che hanno dato forma allo Stato, sta scatenando una sorta di frenesia del compimento: portare a compimento la conquista della terra, propùgnano i nazionalisti ad oltranza, laici o religiosi; portare a compimento l'ebraizzazione dello Stato, propùgnano i principali partiti religiosi; portare a compimento la missione messianica, propugna il Gush Emunim. Forse sotto questa frenesia di compimento c'è stata la sensazione di una occasione da cogliere prima che svanisse, la resistenza ora a riconoscere che è svanita. La distensione internazionale e l'appoggio ormai non più incondizionato da parte degli Stati Uniti ad una politica israeliana che suscita crescenti difficoltà tra America, Europa e Stati arabi, indicano che una posizione di forza da parte di Israele sulla questione dei territori, se aveva ancora qualche copertura ieri, non l'ha più oggi. Il nuovo contesto sviluppatosi negli ultimi anni, mostra come le due potenze che si contendono l'egemonia regionale - Israele alleata degli Stati Uniti, e la Siria, alleata dell'Unione Sovietica - vanno perdendo rilievo. La loro rispettiva opposizione ai palestinesi e all'oLP diventa sempre più una questione privata » e sempre meno una questione di schieramento internazionale, diventa un interesse privato in atto pubbI ico. Certo, non c'è chi non si dichiari per la pace. Ma ciò che distingue chi la cerca davvero è la disponibilità a pagarne il prezzo, a compiere delle rinunce, a smen-


tirsi almeno in parte su certe posizioni di « principio ». Questo è il segnale dato dall'oLi' ad Algeri, e, da tempo, da una metà di Israele; mentre la destra israeliana insiste che vuole « la pace in cambio della pace », la pace senza rinunce.

L'i SOLAMENTO L'< ideologia del compimento », territoriale o religioso, corona o contraddice l'eredità dei fondatori di Israele? E' vero, Ben Gurion sognava una « grande Israele » e, come dimostra il compianto Sinna Flapan in The Birth o! Israel, ha fatto di tutto, e non senza cinismo, per garantire questa possibilità. La sua azione è stata dura e audace, però anche realistica, capace di compromesso quando l'oltranzismo rischiasse di disperdere il patrimonio di dignità morale e di appoggio internazionale necessari alla realizzazione di Israele e alla sua qualità. Accettò (sì a malincuore e con riserva) il principio di spartizione sancito dall'ONU, e sostenne dopo il 1967 la proposta dei « territori in cambio della pace ». Ora gli annessionisti sono forse i continuatori del sogno di Ben Gurion, ma smentiscono radicalmente la sua politica e il suo metodo, poiché espongono Israele all'isolamento e alla condanna morale giustificata. D'altra parte, come oggi argomenta Y. Harkabi, non si :può impedire alla gente di sognare anche « sogni sbagliati », non si può vietare a molti sionisti di sognare che un giorno Israele si estenderà fino al Giordano; così come non si può vietare alla maggioranza dei palestinesi di sognare che un giorno riconqui-

sterarino la terra di Israele - ma quel che conta, soprattutto, sono le scelte concrete. La pace può essere fatta solo tra chi riconosce il divario tra sogno e realtà, tra desiderio e necessità politiche e morali. Questo realismo malgrado il sogno è stato il coraggio, anche interiore, dei fondatori di Israele, e di quella metà di Israele che con diverse voci è disposta al dialogo; questo sembra anche il coraggio che ha portato l'oLi' a dividersi per la prima volta in maggioranza e minoranza per delineare la svolta di Algeri. Questo è il coraggio che sembra mancare a quella parte di Israele che vuole tirare diritto, per non affrontare la difficile scommessa del cambiamento, ossia la pace. La parte oltranzista di Israele non sta solo costruendo l'isolamento di Israele, sta anche scavando una spaccatura tra gli ebrei nel mondo. E' ben diverso garantire la propria solidarietà a Israele per delle buone ragioni, o garantirgliela malgrado tutto ». Un conto è garantire la solidarietà a Israele in nome della sua sicurezza, un conto è appoggiare una politica in cui la volontà di annessione prevale sui criteri di sicurezza, oltre che su quelli di civiltà. Pare a molti, in Israele e fuori, che la sicurezza sia minacciata più che garantita dall'allargamento dei confini, almeno in quanto comporti o di tirarsi in casa una popolazione nemica, o, con l'obbrobrio di una cacciata dei palestinesi dalla loro terra, di renderli indefinitamente irriducibili, per mancanza di alternativa, per mancanza di una responsabilità statuale e territoriale di per sé moderatrici, ad essi per sempre e ingiustamente negata.

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IL RIFIUTO RABI3INICO

La controversia sui « Chi è ebreo? » è di portata maggiore di quanto non sarebbero le conseguenze dirette di una legge che accogliesse senza mezzi termini il giudizio rabbinico nell'ordinamento dello Stato. E' fuori discussione il diritto di ogni scuola di sancire chi sia ebreo e chi no, secondo la propria interpretazione dottrinale, tanto più dentro un processo storico di secolarizzazione e mescolanze che rendono continuamente labile ogni criterio di identità e di appartenenza. Altra cosa è che ne venga investito l'ordinamento dello Stato. Altra cosa ancora è che le diverse correnti dell'ebraismo ortodosso, come Habad, che ha il suo centro a New York, vogliano utilizzare le istituzioni di Israele come strumento nella loro lotta contro altre correnti religiose, come i « riformati » e i « conservatori ». Che cosa implica questo investire gli ordinamenti dello Stato su questa lotta interna agli ebrei? Innanzi tutto una mutazione nei rapporti tra ebrei e Israele, una particolare curvatura del « .post-sionismo ». Se il sionismo storico voleva fare di Israele il rifugio e il riscatto di coloro che erano definiti « ebrei » in base alla Storia - alla Storia delle persecuzioni soprattutto - ora l'offensiva ortodossa vuol fare di Israele lo Stato degli ebrei in base alla dottrina. Le due categorie non coincidono che in parte ridotta. E se Israele ha proiettato un senso d'identità sugli « ebrei in base alla Storia », ora, al contrario, proietterebbe un senso di negazione dell'identità sulla maggioranza degli ebrei non in regola con l'ortodossia. Israele, da fattore di unità tra gli ebrei, diverrebbe un fattore di

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divisione. L'appello sionista « ebrei di tutto il mondo unitevi in nazione » si rovescerebbe: « ebrei di tutto il mondo dividetevi secondo i criteri dell'ortodossia ». Il richiamo sionista si ribalterebbe in rifiuto rabbinico. La reazione delle maggiori organizzazioni ebraiche degli Stati Uniti alla pretesa dei partiti religiosi, l'ha immediatamente fatto rilevare. In secondo luogo, muterebbe la concezione stessa dello Stato, da Stato laico, e magari di compromesso tra laicità e religione, a Stato/religione. E la Storia mi sembra insegnare che quando i principi supremi vanno a coincidere con i principi dello Stato, quando si concepisce lo « Stato dei valori », allora le vie si aprono alle più aberranti degenerazioni. Ce lo dimostrano i « re cattolici », il potere temporale della Chiesa, lo Stalinismo, il fascismo, il komeinismo. Lo « Stato dei valori » declina in totalitarismo. (L'inverso a me pare insegni la Scrittura, quando ad esempio affianca al potere Statuale del Re Davide l'aspra contestazione del profeta Nathan; non li sovrappone, ma li distingue). E' la stessa degenerazione delle ideologie che vogliono incarnare i supremi valori, essere politica e istituzioni « divine », rappresentare la perfezione messianica. Dio non voglia! Anche in politica l'imperfezione merita il suo elogio, e merita di essere difesa. Le vie dell'ebraismo e dello Stato d'Israele sono intrecciate, ma sarebbe una rovina se volessero coincidere. Per lungo tempo Israele ha esportato verso la « diaspora » un senso di sicurezza e di orgoglio; ora ha cominciato a esportare un senso di insicurezza e di disagio. Un aspetto del dramma sta proprio qui: gli oltranzisti della coerenza,


quelli che vogliono rendere Israele coerentemente ebraico, quelli che vogliono coerentemente completare il possesso della terra dei padri opprimendo i palestinesi e vietando loro l'autodeterminazione, inducono incoerenza in seno agli ebrei. Un tempo la diaspora trovava la sua solidarietà con Israele coerente con i principi del riscatto e dei diritti degli oppressi, a cui essa stessa è in genere spiritualmente e politicamente interessata, nei paesi dove vive, appunto, come minoranza, nel ricordo dell'oppressione; ora essa deve sostenere l'attrito tra questi principi e la solidarietà verso Israele; in quanto memore della propria oppressione, deve affrontare l'incoerenza di solidarizzare con un'oppressione. Un tempo il sostegno a Israele era coerente con gli interessi e le culture prevalenti dell'Occidente; ora la diaspora si trova lacerata tra solidarietà con Israele e interessi e culture dei Paesi in cui risiede, dove è dominante la divergenza verso Israele. La denuncia dell'antisemitismo latente come matrice della critica diffusa a Israele coglie, sì, più verità di quante non si voglia riconoscere tra i non ebrei, ma è anche, tra gli ebrei, un lenimento di quella lacerazione. Nella configurazione ebraica non può che maturare una contraddizione per così dire antropologica, tra l'ebraicità minoritaria della « diaspora », e quella maggioritaria, statualizzata e, per necessità, militarizzata in Israele; una contraddizione tra la transnazionalità ebraica e il nazionalismo israeliano. Questa contraddizione non è di per sé antagonistica, può essere ricomponibile. Questi due aspetti dell'esistenza ebraica possono divergere, o essere complementari. A mio parere, il vicolo cieco del-

l'irrigidimento israeliano accentuerà la divergenza; una svolta politica rilancerebbe, al contrario, una conciliazione e la complementarità.

LA PROSPETTIVA MULTIETNICA

Ho parlato finora delle tendenze oltranziste di una metà di Israele, che prevarrà ancora per qualche tempo: finché una catastrofe quale la degenerazione in guerra della repressione nei territori non modifichi tragicamente il quadro; o un' impotenza prolungata e logorante non dimostri la mancanza di sbocchi e i costi dell'oltranzismo. Allora forse si potrà formare una più decisa maggioranza per il dialogo, magari aiutata da un contesto internazionale sufficientemente ricco di sollecitazioni e garanzie. C'è l'altra metà di Israele. Con voci discordi, essa nel suo complesso mi pare ponga i problemi del post-sionismo in tutt'altri termini. L'alternativa di fondo mi pare questa: il sionismo storico ha realizzato Israele, ora si tratta di «completarlo », o non piuttosto di inserirlo? Si tratta di renderlo « perfetto » - ossia di farlo coincidere con la « terra dei padri », farlo totalmente « ebraiCO », o dare ad esso addirittura un senso messianico -, o non si tratta invece di inserirlo nella regione, nazione tra le nazioni, pretendendo la pace e pagandone il prezzo, pretendendo sicurezza e relazioni fluide, rimettendo il Paese in movimento, protagonista e propulsore di nuove relazioni politiche e culturali? Questa prospettiva è stata indicata, tra gli altri, da una grande personalità dell'ebraismo, Nahum Goldmann, già presidente del « Congresso mondiale ebraii 55


co »: « Dal momento in cui noi ebrei siamo ritornati nel Vicino Oriente - diceva nel 1971 - noi dobbiamo diventare, almeno in Israele, un popolo del Vicino Oriente. Il Vicino Oriente abitato solo dal mondo arabo è una concezione della Lega Araba, una concezione assurda nel XX secolo, una concezione razziale. Non parla da un punto di vista politico, ma culturale. Lo Stato d'Israele, la civiltà di Israele non potranno esistere come civiltà puramente europea in mezzo alle civiltà del Vicino Oriente. Sarebbe la fine di questo Stato, di questa civiltà ». Ora si potrebbe dire che Israele si trovi in una situazione « profetica », poiché la storia e la geografia lo pongono di fronte alla questione: come una nazione e uno Stato in larga misura « occidentale » di cultura e di forme economiche e istituzionali possa entrare in relazione di scambio pacifico, e non di difesa e aggressione, col suo contesto che è d'altra matrice. Su Israele grava « profeticamente » un problema che sta salendo sull'orizzonte stesso dell'Europa, dall'Atlantico agli Urali, posta di fronte all'effervescenza etnica, all'immigrazione dal « terzo mondo »: il problema delle società multietniche, multirazziali, multiculturali. Su Israele grava « profeticamente » il problema del rapporto più intimo, di corpo a corpo, tra occidente e altre culture, società e civiltà. Dal suo fallimento o dalla sua riuscita dipendono molte cose: là si anticipa se i rapporti tra i Paesi occidentali e non potranno essere in termini di diversità e scambio, o se saranno in puri termini di rapporti di forza. Ora Israele non è solo se stesso, ma anche una rappresentazione dell'Occidente nel suo nuovo 156

confronto con gli altri, con gli arabi in particolare. Anche da qui, quel sovrappiù di ostilità verso Israele - sovrappiù rispetto alle sue stesse responsabilità - che è venuto da parte araba, e che viene ora dal senso comune in occidente, il quale non ama vedersi rappresentato così alle prese con un problema che va crescendo, in diverse forme, al suo stesso interno, nel rapporto tra maggioranze e minoranze etniche, nel rapporto con gli immigrati « di colore ». Di fronte a Israele sta insomma questa scommessa rischiosa: tentare di essere ponte tra civiltà, o ridursi ad avamposto di una civiltà contro un'altra. Quella metà di Israele che sceglie di pagare un prezzo della pace, piuttosto che portare Israele a un « compimento » sanguinoso e suicida, sta, con voci diverse, cercando la via per inserire Israele tra le nazioni, perché forse è una via possibile, perché è necessaria alla sopravvivenza stessa di Israele, al suo rapporto col mondo e con la Storia degli Ebrei. Quella metà potrà prevalere dopo che l'impasse dell'oltrarizismo avrà fatto pagare alla stessa Israele un prezzo incalcolabile.

UN GOVERNO PER UNA FASE D'ATTESA

Nei suoi interventi a Ginevra Arafat a metà dicembre ha sancito solennemente di fronte all'assemblea dell'oNu l'attuale svolta dell'oLi': accettazione del principio della spartizione territoriale in due Stati, israeliano e palestinese; accettazione delle risoluzioni dell'oNu 242 e 338 come base di un negoziato di pace; condanna del terrorismo. Ne è seguita la svolta degli Stati Uniti, che su


quelle basi hanno rotto il tabù a cui Israele è da sempre aggrappato, e hanno dato inizio al dialogo con 1'OLP. La linea politica di Israele è rimasta isolata come non mai. Questa svolta dell'oLP e degli Stati Uniti ha di fatto mutato i rapporti di forza emersi dalle elezioni in Israele: la svolta non mancherà di rafforzare la sinistra e di indebolire la destra. La destra israeliana non può che contare sull'opposizione palestinese filosiriana contro la svolta di Arafat per far rientrare l'apertura diplomatica dell'oLP, che pone su un piano realistico la creazione di uno stato palestinese nei territori occupati da Israele. La destra israeliana è interessata a temporeggiare per dare agli oltranzisti arabi ostili ad Arafat il tempo di riaversi, o a far precipitare la situazione per dare ad essi l'occasione di agire, di aprire una guerra civile interna ai palestinesi. La sinistra sionista una parte rilevante dei laburisti, il Mapam, il Movimento per i Diritti Civili « Pace adesso »... - si trova invece rafforzata, e le sue proposte per la pace sono più convinceriti ora che l'OLP Si è posta finalmente come interlocutrice possibile. La formazione del nuovo governo di coalizione tra Likud e Laburisti non potrà avere che una funzione di attesa. Rappresenta l'« unità nazionale » di un Paese sempre più profondamente diviso. Punto fermo in mezzo al mutamento, non potrà durare. Sono prevedibili elezioni anticipate e fratture, o scissioni, nei due maggiori partiti. Questo governo avanza proposte politiche inattuali

che escludano I'OLP, e prolunga l'inerzia di Israele; non sarà in grado di fermare, né deviare la corrente che si è determinata nel contesto internazionale, cercherà di navigare contro la corrente, ma non potrà non navigarci dentro. Nel quadro che si è andato delineando, che è fatto di proposte di trattativa ma anche di rassicuraziorii per Israele, la paura che alimenta l'opinione oltranzista in Israele diventa sempre più « paura della pace », e come tale non può che perdere mordente all'interno stesso del Paese. Se dunque, come pare possibile, Israele potrà compiere una virata, questo governo « inattuale » finirà per svolgere un ruolo caduco di volano, di attenuazione del trauma indotto dal cambiamento esterno. Varando la nuova coa lizione, Likud e Laburisti si svincolano dal ricatto dei partiti religiosi, vincitori delle elezioni, e attuano uno scambio politico: il Likud ottiene per ora d'imporre una zavorra a quella parte della sinistra sionista che preme perché Israele riconosca la svolta e vi risponda; i Laburisti ottengono che le ali oltranziste non abbiano libera azione nel produrre l'irreparabile. Si può forse sperare, insomma, che questo governo precario e immobilista in una situazione che muta finisca per regalare ad una più ampia parte di Israele il tempo non troppo precipitoso per riflettere sulle svolte in atto, per sciogliere l'irrigidimento accumulato negli anni, per spostarsi sulle posizioni della trattativa e del dialogo, che non sono già la soluzione, ma solo un inizio, una scommessa necessaria dall'esito incerto.

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queste istituzioni L' Europa delle television i

I due contributi di Giandonato Caggiano e Antonino Cascino sui problemi normativi della "televisione senza frontiere" in Europa, sono stati preparati come documento-base del seminario promosso dalla rivista che ha avuto luogo il 1' giugno di quest'anno, e quindi scritti in precedenza. Rispetto al periodo della loro redazione, la Commissione del Consiglio d'Europa ha compiuto, in maggio, un passo avanti: dieci paesi su ventitrè hanno sottoscritto la Convenzione, che però entrerò in vigore solo dopo che sette Parlamenti nazionali l'avraiino ratificata. Mancano comunque le ade. sioni di Paesi come la Francia, la Germania Federale e l'italia. Il Governo italiano è orientato infatti a non firmare la Convenzione di Strasburgo prima che a Bruxelles sia stata approvata la direttiva comunitaria. Quest'ultima ha incontrato peraltro notevoli difJicoltò, in sede di Consiglio del Mercato Interno, dopo gli emendamenti proposti dal Parlamento europeo. Se i diversi organismi comunitari non arriveranno a posizioni comuni entro la procedura potrebbe ricominciare ex-novo anche se gran il 6 ottobre 1989, parte dei contenuti del negoziato sarebbero di fatto già concordati. Contatti bilaterali tra alcuni Paesi potrebbero sbloccare il negoziqio, non escludendo, come sembra, lo scambio di avvicinamenti su questioni che sono interne ed esterne alla direttiva.

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Un ordine giuridico europeo per le trasmissioni televisive di Giandonato Caggiano

La televisione ha assunto in questi ultimi anni, attraverso l'uso dei satelliti, una dimensione internazionale - Nella televisione si mescolano divertimento, informazione, cultura, interessi economici (mercato della pubblicità e regolamentazione della concorrenza). Le questioni giuridiche sollevate in sede internazionale da questo mezzo di comunicazione di massa appaiono particolarmente complesse, in considerazione del tradizionale monopolio statale in molti Stati europei, e degli aspetti particolarmente sensibili della sovranità statale che ne sono coinvolti. Dal momento della presentazione da parte della Commissione CEE di una proposta di Direttiva sull'esercizio delle attività radiotelevisiva (luglio 1986), si sono intrecciati complessi negoziati diplomatici per la predisposizione di un regime giuridico europeo applicabile alle tramissioni televisive. Alcuni Stati comunitari (Gran Bretagna, Paesi Bassi, Danimarca) ed i paesi non membri (Paesi Nordici, Austria e Svizzera) hanno adottato la corsia preferenziale del negoziato in seno al Consiglio d'Europa, per una Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera.

Tra alterne vicende, il negoziato del Consiglio d'Europa si è concluso con l'adozione della Convenzione in data 16 marzo 1989 e la sua apertura alla firma in data 5 maggio 1989. Essa entrerà in vigore dopo la ratifica di sette Stati, ma è prevista anche una applicazione a titolo provvisorio; dovrebbe pertanto essere uno strumento operativo entro breve tempo, almeno tra gli Stati che hanno un particolare interesse alla sua entrata in vigor& Anche la Direttiva si avvia verso una definitiva approvazione. Il Consiglio dei Ministri in data 13 aprile 1989 ha adottato la « posizione comune » sul testo della Direttiva. Il Parlamento europeo potrebbe effettuarne la seconda lettura prima delle nuove elezioni, per consentirne l'entrata in vigore a partire dal 10 gennaio 1990, con l'obbligo per gli Stati membri di uniformare le proprie legislazioni entro il 1° gennaio 1992. Per quanto riguarda la Convenzione, sarebbe stata necessaria, a nostro avviso, una discussione ed eventualmente l'elaborazione di una dichiarazione comune degli Stati del Consiglio d'Europa su1 rapporto tra emittenza privata ed emittenza pubblica, e sui loro rispettivi ruoli 161


all'interno della società statale e dell'integrazione in Europa. In questo senso si esprimeva anche la Risoluzione n. 2 della Prima conferenza dei Ministri delle comunicazioni di massa, tenutasi a Vienna nel dicembre 1986. Senza un confronto sulle rispettive concezioni nazionali in materia, come dimostra il lungo negoziato, risulta difficile procedere ad una armonizzazione del contenuto e dei limiti della pubblicità, che rappresenta lo strumento principale di finanziamento degli organismi privati televisivi. Si sono contrapposti così senza dialogo due schieramenti di Stati, che corrispondevano alle diverse filosofie esistenti, nei vari ordinamenti nazionali, sulla emittenza privata commerciale. E' mancata infatti una comune linea di tendenza tra i paesi europei in relazione alla emittenza televisiva e, in particolare, dell'accesso dei privati all'attività televisiva. E' rimasto così indefinito l'ambito di protezione dell'emittenza privata commerciale ed il rilievo giuridico de] servizio pubblico degli organismi televisivi, sotto il profilo della libertà di espressione, garantita in Europa dalI'art. 10 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1950 (d'ora in poi CEDU). Per quanto attiene alla Direttiva, l'esclusione dei mezzi di comunicazione di massa dal processo di armonizzazione legislativa avrebbe avuto pesanti conseguenze. Il blocco di uno sviluppo della competenza comunitaria nell'ambito della comunicazione di massa avrebbe portato alla permanenza dei distinti mercati nazionali della pubblicità; e ad una riduzione dell'interesse verso l'instaurazione di un mercato comune delle nuove tecnologie della comunicazione. 162

Per questi motivi va combattuta la distinzione tra aspetti economici e cultura nell 'attività televisiva. La duplicità della natura di questa attività non esclude la competenza comunitaria, dal momento che la Corte di giustizia ha incluso la televisione nel concetto comunitario di « servizio ». Inoltre anche il versante culturale della televisione non esclude per se una competenza comunitaria soprattutto nella prospettiva di una « unione sempre più stretta fra i popoli europei ». Deve essere conservata la concezione della cultura europea come unità nella molteplicità, in quanto l'organizzazione degli enti radiotelevisivi pubblici, le competenze in materia di autorizzazione per le emittenti pubbliche e private, la struttura dei programmi ed, in generale, la politica culturale restano essenzialmente nella competenza degli Stati membri.

LIBERTA' DI INFORMAZIONE E RADIODIFFUSORI COMMERCIALI

L'adozione di un regime europeo per le trasmissioni televisive, discussa al Consiglio d'Europa ed alle Comunità europee cerca ora di coniugare il dogma del libero flusso dell'informazione con gli aspetti specifici dei paesi ad economia di mercato. In particolare gli aspetti relativi alla pubblicità e all'attività di radiodiffusione condotta da soggetti privati commerciali. La ricerca di principi generali per la regolamentazione delle trasmissioni dirette via satellite a livello universale, è stato oggetto di un lungo negoziato multilatetale, daI 1970 al 1982, in seno al Comitato per l'uso pacifico dello spazio extraatmosferico delle Nazioni Unite. In quel-


la sede i paesi occidentali si opposero alla richiesta dei paesi comunisti (e di altri paesi) di stabilire l'obbligo di un accordo preventivo con lo Stato di ricezione; e di affermare il principio della responsabilità dello Stato per l'attività dei radiodiffusori sottoposti alla sua giurisdizione. La Risoluzione delle Nazioni Unite sulla televisione diretta via satellite del 1982 fu approvata, dunque, a maggioranza, con il voto contrario dei paesi occidentali ed è contraria all'opinio juris degli Stati occidentali che dichiaravano in quell'occasione, l'intangibilità del principio del libero flusso della informazione. La libertà d'informazione si basa sul principio dell'applicabilità delle regole dello Stato di trasmissione. Solo in particolari casi dovrebbe essere ammissibile una limitazione da parte dello Stato di ricezione. Una regolamentazione europea delle trasmissioni televisive deve tener conto delle questioni relative ai diritti umani, del diritto di trasmettere informazioni, ricevere informazioni e ricercare informazioni, secondo la norma dell'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), e la Dichiarazione solenne del 1982 del Consiglio d'Europa sulla libertà di informazione. Il principio della libera circolazione della informazione, sancito dall'art. 10 CEDU è una libertà fondamentale, qualificata come « senza considerazione di frontiere ». Gli Stati parte della CEDU devono garantire agli individui questa libertà, ma possono introdurre con legge restrizioni o sanzioni che siano necessarie in una società democratica (di cui vi sia « un bi-

sogno imperioso ») per motivi di sicurezza pubblica, protezione della morale e della salute e per la tutela dei « diritti altrui » (l'elenco più dettagliato previsto dal paragrafo 2 dell'art 10 Cu è in sostanza riconducibile a queste categorie generali )'. La questione della protezione accordata dall'art. 10 CEDU alla pubblicità è stata, ad oggi, mal posta. Non importa stabilire se la pubblicità sia una forma mino-

re di espressione (discorso commerciale contro discorso ideologico). La questione che si pone è quella del diritto di espressione dei radiodi flusori commerciali che, per essere effettivo, in mancanza di finanziamenti pubblici, deve poter disporre del mercato pubblicitario. Nessun radiodiffusore commerciale può assumere carattere transfrontaliero e godere della libertà di espressione « senza frontiere », se non gli è consentito di « pescare » sul mercato dello Stato verso il quale le trasmissioni si indirizzano. In relazione ai principi CEDU, un divieto della pubblicità, diretta al mercato di un altro Stato non può essere riportato alla clausola limitativa (del par. 2 dell'art. 10 CEDU) « diritti altrui » uguale, nel caso di specie, a « diritto dei radiodiffusori nazionali a non subire la concorrenza delle emittenti straniere ». Una siffatta interpretazione costituirebbe una grave limitazione della protezione della « comunicazione commerciale » e dell'accesso all'attività di radiodiffusione da parte dei privati, che, come già riconosciuto dalla Commissione CEDU, ricevono tutela dall'art. 10 CEDU. Al contrario, la concorrenza tra i soggetti commerciali non rientra nell'ambito di protezione CEDu'. 163


I

LIMITI DELL'ARMONIZZAZIONE

COMUNITARIA

Nel Libro Bianco sul « completamento del mercato interno », approvato dal Consiglio europeo di Milano nel giugno 1985, la Commissione ha messo in evidenza che, sebbene il commercio dei servizi abbia un' importanza pari a quello delle merci, esso si è sviluppato molto più lentamente. Per questo motivo, benché il principio della libera prestazione dei servizi sia direttamente applicabile, secondo il Trattato di Roma e la giurisprudenza della Corte, a partire dalla fine del periodo transitorio, né le imprese, né i singoli individui ne hanno potuto ricavare una fruizione completa senza discriminazioni e frontiere. Fra i servizi che non hanno beneficiato di una effettiva liberalizzazione vi sono soprattutto i servizi televisivi che contengono messaggi pubblicitari. Per essi il Libro Bianco della Commissione ha sottolineato la necessità della creazione di un libero mercato. La liberalizzazione del servizio di radiodiffusione è necessaria anche per la creazione di uno specifico mercato dei servizi di informazione. Tuttavia la linea di demarcazione tra competenze comunitarie e competenze degli Stati membri nella radiodiffusione si è assestata, all'inizio degli anni '80 sulla clausola di riserva degli interessi generali di ciascun Stato. La clausola è stata elaborata dalla Corte di giustizia, per consentire la sopravvivenza di differenze normative così rilevanti nei sistemi giuridici nazionali, da far apparire prematura, quindi, controproducente per l'interesse generale della Comunità, una liberalizzazione immediata della circolazione dei servizi. 164

La Corte ha creato questa clausola che rallenta l'apertura dei mercati nazionali della radiodiffusione (e che non trova alcun riscontro nel testo del Trattato di Roma), in riferimento alla pubblicità televisiva. Ha affermato la competenza degli Stati a « disciplinare, restringere o anche vietare del tutto, la pubblicità televisiva sul proprio territorio per ragioni di interesse pubblico... o la pubblicità televisiva originaria di altri stati membri Pertanto, la normativa degli Stati membri, a carattere non discriminatorio, continuerà ad applicarsi nei confronti dei programmi provenienti da un altro Stato membro nei limiti in CUI manchi o sia incompleta l'armonizzazione comunitaria. Alla luce della interpretazione della Corte, anche dopo l'adozione della Direttiva, la circolazione dei Servizi televisivi potrà essere ostacolata a Causa delle differenze legislative relative agli aspetti della pubblicità che non sono per il momento armonizzabili (tutela della salute pubblica, la lealtà delle transazioni commerciali, difesa dei consumatori, pubblicità comparativa, diritto d'autore, ecc.). Le sole norme della Direttiva aventi uno scopo di creare una vera e propria uniformità nella direttiva sono quelle relative al divieto dei prodotti da tabacco ed il tetto massimo di pubblicità per le trasmissioni che siano comunque ricevibili anche oltre la frontiera di uno Stato membro. Peraltro la Direttiva prevede due deroghe, che conferiscono ulteriore flessibilità all'armonizzazione delle legislazioni nazionali. La prima deroga consente la facoltà per gli Stati di applicare regole più dettagliate o più severe alle emittenti radiotelevisive soggette alla propria giuri-


sdizione. Tale facoltà può comprendere un divieto assoluto di pubblicità; oppure il divieto di pubblicità alla domenica o nei giorni festivi; od anche il divieto assoluto di pubblicità per le bevande alcoliche, che invece nella direttiva è permessa a determinate condizioni (art. 3, par. 1). La seconda prevede che il tetto pubblicitano (per giorno e per ora) e le modalità di presentazione della pubblicità possano essere non applicate nei confronti delle emittenti che siano ricevibili solo nel territorio di uno Stato membro. Così facendo si limita in sostanza l'armonizzazione alle trasmissioni televisive transfrontaliere. La soluzione di compromesso appare tuttavia più chiara di quanto non fosse quella proposta dalla Commissione (e criticata dal Parlamento) che distingueva tra trasmissioni interne e trasmissioni transfrontaliere. Infatti quest' ultima distinzione appare discutibile allo stato dello sviluppo tecnologico, a causa del debordamento inevitabile di tutte le trasmissioni in prossimità della frontiera e dell'evoluzione della televisione via satellite. La possibilità di includere nella clausola derogatoria i network nazionali che, tuttavia, non siano, a causa del debordamen-

to inevitabile, ricevibili in un altro paese comunitario significa in concreto che dovrà essere oscurato l'ultimo tratto della rete dei ripetitori in una distanza relativamente ridotta in vicinanza della frontiera. Inoltre la condizione ulteriore imposta dalla clausola derogatoria relativa al rispetto comunitario consente, a nostro avviso, di salvaguardare l'applicabilità delle norme comunitarie sulla concorrenza e, dunque, che determinate modalità di affollamento e di presentazione pub-

blicitaria possano essere considerate come distorsive della concorrenza, ancorché limitate all'ambito territoriale di uno solo Stato membro. La Commissione aveva invece rinunciato ad un'armonizzazione del controllo del contenuto del materiale pubblicitario. Si trattava di una richiesta avanzata dalle associazioni dei consumatori (e relativa ad un'Autorità radiotelevisiva europea o di un'Agenzia europea di controllo sulla pubblicità) giudicata inattuale, stante i diversi sistemi di controllo e i diversi standard previsti dalle legislazioni nazionali o dai codici di autodisciplina. Inoltre, la Commissione ha escluso che presupposto necessario per l'applicazione del principio della libera circolazione dei messaggi pubblicitari all'interno della Comunità sia l'obbligo che tali messaggi vengano preventivamente controllati a livello nazionale, prima della loro trasmissione. Gli Stati membri sono così liberi di adottare la forma ed i mezzi di controllo che ritengono più opportuni. A causa del metodo di armonizzazione prescelto è chiaro che le distorsioni della concorrenza derivanti da differenti regimi pubblicitari non saranno risolte dalla Direttiva, che avrà solo l'effetto di imprimere una spinta verso un cambiamento dei singoli ordinamenti nazionali in materia. Le restrizioni alla pubblicità televisiva (ad es. la esclusione della pubblicità radiotelevisiva in Belgio e Danimarca) hanno un effetto diretto sul finanziamento delle imprese di radiodiffusione e sulle imprese che utilizzano la pubblicità televisiva per far conoscere i loro prodotti. Se da un lato le imprese nazionali di radiodiffusione in questi Stati membri possono comunque trovare una modalità di 165


finanziamento statale che consenta loro di reggere la concorrenza; dall'altro appare invece difficilmente accettabile la limitazione, per le imprese, di promuovere le proprie vendite in uno Stato nel quale la pubblicità radiotelevisiva non è autorizzata o è ristretta, mentre le imprese provenienti dallo Stato che adotti tali limitazioni possano fare liberamente pubblicità sugli altri mercati nazionali. E' prevalsa tuttavia la convinzione che le misure più restrittive (ed anche l'assoluto divieto) finiranno col rivestire un significato ridotto e finiranno con l'essere eliminate a livello legislativo, una volta resa possibile la ricezione di programmi, provenienti da altri Stati, che si uniformino allo standard pubblicitario della Direttiva.

ARMONIZZAZIONE E INTERESSI DELLO STATO DI RICEZIONE

L'evoluzione della regolamentazione della pubblicità in senso restrittivo aveva trovato una prima espressione nella Raccomandazione sui principi relativi alla pubblicità televisiva del Consiglio d'Europa del 1984. In essa veniva affermato il principio che la pubblicità deve rispettare non solo la legge del paese d'emissione ma deve tener conto anche della legge del paese ricevente. L'applicazione della legge del solo Paese di trasmissione avrebbe consentito una vera liberalizzazione delle trasmissioni televisive, senza frontiere, ed un riconoscimento della reciproca « fiducia » degli Stati europei, sulla idoneità dei sistemi giuridici di ciascuna parte, a disciplinare l'attività di adiodiffusione. E' prevalsa invece la filosofia favorevole: I. ad una ridotta liberalizzazione delle tra166

smissiorii, solo alla condizione del rispetto delle regole convenzionali; 2. ad una protezione del mercato nazionale nei confronti delle emittenti straniere. Il campo di applicazione della Convenzione riguarda la televisione transfrontaliera, anche non a carattere internazionale, ma solo materialmente ricevibile oltre il confine dello Stato di trasmissione (debordamento inevitabile). La Convenzione non tende ad armonizzare le regole sulla televisione che resta all'interno di uno Stato o l'attività televisiva in quanto tale. E' di competenza delle Parti determinare la politica ed i sistemi giuridici interni in funzione delle proprie tradizioni giuridiche e culturali. La Convenzione tende a stabilire un denominatore comune sulla base del quale il servizio televisivo beneficia di una libera circolazione transfrontaliera, E' possibile che uno Stato applichi regole più strette e dettagliate di quelle contenute nella Convenzione alle proprie emittenti; tuttavia una parte non può far valere regole più « strette » e dettagliate per opporsi alla ritrasmissione sul proprio territorio di trasmissioni transfrontaliere provenienti da altri Stati quando esse siano conformi alle norme convenzionali. Vi è però una fondamentale eccezione. La Convenzione prevede il divieto di messaggi pubblicitari « diretti, specifcatamerite e frequentemente » verso il pubblico della Parte di ricezione, a condizione che si possano considerare come « elusivi delle regole relative alla pubblicità televisiva » esistenti in quella Parte art. 16). Per determinare il significato dei criteri dell'espressione « diretto » e « specificatamente », dovrebbero essere utilizzati elementi addizionali, quali la lingua utiliz.


zata nella pubblicità: il (nome del) servizio o prodotto che è oggetto della pubblicità; la divisa utilizzata; i punti di vendita menzionati. Si ottiene così la protezione del mercato pubblicitario dello Stato di ricezione che resta libero di porre regole (nazionali) più restrittive e dettagliate di quelle convenzionali (v. art. 28); di imporne il rispetto, tramite questo divieto, alle emittenti transfrontaliere commerciali di altri Stati parte. In sostanza, a fronte degli obblighi dello Stato di trasmissione, non corrisponde un obbligo di apertura dello Stato di ricezione alle trasmissioni in regola con gli standard convenzionali. In mancanza di un'armonizzazione minimale delle regole pubblicitarie dello Stato di ricezione, si rischia una chiusura dei mercati pubblicitari nazionali. Inoltre il divieto per le emittenti transnazionali di eludere le regole dello Stato di ricezione appare fortemente condizionato dalla volontà di quest'ultimo, in mancanza di un adeguato controllo internazionale. il meccanismo convenzionale consente di conservare lo status quo delle leggi nazionali in materia di attività televisiva e di proteggere il proprio sistema televisivo, soprattutto in materia di pubblicità dalla potenziale « aggressività » delle emittenti commerciali straniere.

LE REGOLE SULLA PUBBLICTTA'

Il catalogo deontologico applicabile al

contenuto della pubblicità è così indicato nella Direttiva. La pubblicità televisiva non deve: a) vilipendere la dignità umana; b) comportare discriminazioni di razza, sesso o nazionalità; c) offendere convinzioni religiose o politiche; d) indurre a comportamenti pregiudizievoli

per la salute o la sicurezza; e) indurre a comportamenti pregiudizievoli per la protezione dell'ambiente (art. 12). Oltre alla possibilità di una regolamentazione più rigida (art. 3, par. 1), questo catalogo deve considerarsi integrato dalle norme contenute nella Direttiva 84/450 del 1984 sulla pubblicità. La Convenzione ha invece, a questo riguardo, una clausola generale, di carattere assai vago, che richiama ad un dovere di lealtà ed onestà pubblicitaria, insieme ad un generico divieto della pubblicità ingannevole e della difesa degli « interessi del consumatore » (art. 11, par. i e 2). E' fatto altresì divieto all'inserzionista di esercitare una influenza editoriale sul contenuto della trasmissione (art. 11, par. 4). Per quanto riguarda la protezione dei minori nei confronti della pubblicità, la Direttiva fissa un catalogo di principi: il divieto di « mirare » il pubblico giovanile per l'acquisto di prodotti e di servizi, facendo leva sulla loro immaturità di giudizio e di esperienza; di incitare i minori a convincere i loro genitori o altre persone ad acquistare i beni e servizi in questione; di far leva sul particolare rapporto dei minori con i genitori, gli insegnanti o altre persone; di mostrare senza ragionevoli motivi i minori in situazione pericolose (art. 16). La Convenzione si riferisce agli stessi principi attraverso una clausola generale che fa riferimento alla necessità di salvaguardare « gli interessi » e « la loro sensibilità particolare » (art. 11, par. 3).

Per quanto riguarda la pubblicità relativa ad alcuni particolari prodotti, sia nella Direttiva che nella Convenzione esiste un divieto assoluto di pubblicità per il tabacco. Esiste poi un divieto di pubbli1.67


cità per i prodotti farmaceutici. Rispetto alla Convenzione, la Direttiva contiene il divieto più rigido per la pubblicità dei prodotti farmaceutici disponibili solo dietro presentazione di ricetta medica (art. 17, par. 2). La Convenzione e la Direttiva contengono un catalogo sostanzialmente uguale di principi per la pubblicità delle bevande alcoliche: il divieto di ogni specifico messaggio diretto ai minorenni o che li presenti mentre sono intenti a consumare bevande alcoliche; di presentare il consumo degli alcolici in stretto collegamento con il rendimento fisico o con la guida delle automobili; il divieto di esaltare pretese qualità terapeutiche o effetti stimolanti o sedativi o a conflitti psicologici; di istigare a consumi esagerati o presentare in una luce negativa l'astinenza o la moderazione; di soffermarsi con indebita insistenza sulla gradazione alcolica delle bevande reclamizzate (art. 15, par. 2 Convenzione e art. 15 Direttiva). La Direttiva prevede poi l'obbligo di non favorire la sensazione che il consumo di alcolici contribuisca al successo sociale o sessuale, ma si tratta, come è evidente, di un criterio assai vago (art. 15, lett. c). Nella Direttiva e nella Convenzione è previsto tuttavia la possibilità che gli Stati introducano, per le emittenti televisive soggette alla loro giurisdizione, un divieto assoluto per le be_vande alcoliche (art. 3, par. 1 Direttiva e art. 28 Convenzione). Per quanto riguarda la sponsorizzazione, essa è definita come « ogni contributo di un'impresa pubblica o privata, non impegnata in attività televisive o di produzione di opere audiovisive, al finanziamento di programmi televisivi, allo scopo di promuovere il suo nome, il suo 168

marchio, la sua immagine, ie sue attività o i suoi prodotti ». Secondo la Direttiva e la Convenzione deve essere salvaguardata la responsabilità dell'autonomia editoriale della emittente nei confronti delle trasmissioni; la sponsorizzazione deve essere chiaramente identificabile e non deve tendere ad una dire.tta sollecitazione all'acquisto di prodotti, trasformandosi in un contenitore di pubblicità. La indicazione della sponsorizzazione è già, in sé, una forma di promozione dei prodotti ed il combinato della sponsorizzazione e della pubblicità, o invito all'acquisto, è considerato produttivo di effetti dannosi (art. 17 Convenzione e art. 17 Direttiva). La sponsorizzazione non deve essere un modo di eludere il divieto di pubblicità del tabacco (art. 18, par. 1 Convenzione e art. 17, par. 2 Diret-

tiva).

VOLUME E MODI DELL'INSERZIONE PUBBLICITARIA

Per quanto riguarda le modalità di inserzione della pubblicità nei programmi televisivi la Convenzione e la Direttiva hanno adottato un identico regime. Il principio generale è quello che la pubblicità deve essere inserita tra le trasmissioni, ma essa può anche interrompere le trasmissioni « a condizione che non compromettà l'integrità ed il valore delle trasmissioni e non leda i diritti degli autori » (art. 11, par. 1 Direttiva e 14, par. i Convenzione). La regolamentazione più rigida e dettagliata riguarda l'interruzione della trasmissione di film ed originali televisivi che siano equiparabili a lungometraggi cinematografici (ad eccezione cioè delle serie dei programmi ricreativi e dei do-


cumentari). In questo caso può essere autorizzata una sola interruzione dopo 45 minuti (o se la durata è maggiore di 90 minuti è possibile un'ulteriore interruzione). In ogni caso, salvo che la trasmissione non riguardi programmi •forniti naturalmente di intervalli o parti autonome (sport ecc.), le interruzioni non dovranno avere una frequenza inferiore ai 20 minuti all'interno di una trasmissione. E' fatto divieto di interrompere telegiornali, rubriche di attualità, documentari, trasmissioni religiose e per bambini, di durata inferiore a 30 minuti. Per quanto riguarda il volume della pubblicità, la regolamentazione della Convenzione e della Direttiva è perfettamente identica. L'affollamento massimo per giorno è fissato nella misura del 15%, mentre quello per ora è fissato nel limite del 20%. In entrambi gli strumenti • giuridici è prevista la possibilità di elevare il tetto pubblicitario giornaliero del 5%, ove l'emittente svolga attività di teleshoppin,g; con un massimo, comunque di i ora al giorno (art. 18 Convenzione e art. 12 Direttiva). Per quanto riguarda la fissazione del livello minimo di pubblicità ammissibile, la Convenzione lascia interamente libera la competenza degli Stati-parte rispetto ai radiodiffusori sottoposti alla loro giurisdizione (art. 28). La Direttiva contiene invece un criterio, peraltro assai generico, che richiama l'importanza di conciliare « l'esigenza di pubblicità televisiva con gli interessi del pubblico » (arI. 19). La ricerca di un equilibrio tra pluralismo dell'informazione e dei media, ed il rapporto tra servizio pubblico e privato condurranno gli Stati a dosare gli investimenti pubblicitari attraverso l'adozione di regimi di pubblicità più artico-

lata. Gli Stati conservano la possibilità di modulare le risorse del mercato pubblicitario tra emittenti pubbliche e private, tenendo conto della « funzione di informazione, di educazione, di cultura e di svago della televisione » (arI. 19, lettera a).

PROGRAMMAZIONE DI OPERE DI ORIGINE EUROPEA

Delineato così il quadro delle regole sulla pubblicità, nei due strumenti giuridici, ci appare opportuno accennare alla vexata questio della programmazione obbligatoria di produzioni europee a carattere culturale. Anche il regime di quote di opere di origine europea appare sufficientemente coordinato tra la Direttiva e la Convenzione. Il principio generale, che appare una dichiarazione di intenti, è il raggiungimento di una proporzione maggioritaria di opere di origine audiovisiva « ogni qualvolta sia possibile e ricorrendo ai mezzi appropriati ». Il tempo d'antenna preso in considerazione è quello che investe maggiore creatività ed impegno finanziario (ad eccezione di notiziari, manifestazioni sportive, giochi televisivi, pubblicità o servizi di teletext). Il raggiungimento della quota europea è condizionato, in tutti e due gli strumenti, ad un criterio di progressività e modalità appropriata (art. 4, par. 1, Direttiva e 10, par. i Convenzione). Nella Direttiva si stabilisce una clausola di standstill ed una attività di coordinamento e sorveglianza da parte della Commissione (art. 4, par. 2 e 3). La Convenzione prevede solo che possa essere chiesto un parere consultivo al Comitato permanente da essa istituito, ma esclude 169


che vi possa essere la richiesta di una procedura di arbitrato (art. 10, par. 2). La Direttiva prevede anche una particolare riserva per i produttori indipendenti, che non siano cioè gestori di emittenti (art. 15); nonché la facoltà per gli Stati di imporre, alle emittenti sottoposte alle proprie giurisdizioni, quote di programmazione obbligatoria di opere audiovisive nella lingua nazionale (art. 83). Quest'ultima norma è già stata richiamata nei negoziati tra la Francia e alcuni radiodiffusori privati per l'attribuzione dei canali sui satellite di radiodif fusione diretta francese. Il concetto di opere audiovisive di origine europea è secondo la Convenzione determinato dal controllo della produzione o coproduzione da parte di persone fisiche o giuridiche europee (con riferimento cioè ad un concetto geografico). Il medesimo concetto nella Direttiva fa riferimento non solo all'origine del produttore, ma anche al contributo di autori e lavoratori residenti in uno o più Stati membri. E' previsto anche che le opere che non siano originarie degli Stati membri possano essere considerate pro-parte come opere comunitarie quando esse siano realizzate essenzialmente con il contributo di autori e lavoratori residenti in uno o più Stati membri. Il concetto di opera audiovisiva europea è ora allargato alle opere dei paesi che diverranno membri della Convenzione (ar.t. 6, par. 1); e su richiesta della Repubblica federale tedesca, anche alle opere della Repubblica democratica (Germania dell'Est). LA SOSPENSIONE UNILATERALE DELLA RITRASMISSIONE

La Convenzione, consente un'imposizione, 170

in via di fatto, di un vero e proprio consenso preventivo dello Stato di ricezione che conserva la possibilità di sospensione unilaterale della ritrasmissione (via cavo e per via herziana) dei programmi provenienti dall'estero che violino alcune regole convenzionali. Se appare opportuno trovare un equilibrio tra gli interessi dello Stato di trasmissione e di quello di ricezione, la sospensione unilaterale costituisce misura eccessiva (e non necessaria in una società democratica) quando le violazioni riguardino la materia della pubblicità sia pure in presenza di comportamenti « manifesti seri e gravi » e che investario « importanti problemi di interesse pubblico La formulazione « importanti problemi di interesse pubblico», che ha un contenuto assai vago e che si presta a qualsiasi valutazione di carattere politico, è stata infatti utilizzata proprio perché clausole come « ordine pubblico » o « sicurezza pubblica », non sarebbero state applicabili alla pubblicità provenienti da altri paesi. Alla luce della norma dell'art. 10, par. 2 CEDu appaiono invece, ammissibili misure cautelari di urgenza per il contenuto dei programmi, in relazione a motivi di « public sa/ety, morale, salute e diritti altrui » provvedimenti per violazioni del divieto della pubblicità per il tabacco e del divieto della pubblicità per i medicinali possono essere ricondotti al limite della salute pubblica. Più controversa invece la questione se violazioni delle norme sulla durata della pubblicità, sulla sua riconoscibilità e sulle modalità di inserzione nei programmi possano essere ricondotti al limite del rispetto dei « diritti altrui », in riferimento ai diritti del « consumatore/telespettatore » -


Tuttavia in questi casi sembra dicile immaginare che la sospensione unilaterale da parte dello Stato di ricezione della ritrasmissione dei programmi possa essere considerata misura proporzionata agli interessi in gioco e « necessaria in una societi democratica ». Anche quando siano coinvolti « importanti problemi di interesse pubblico » sarebbe opportuno, in un clima di 'fiducia tra paesi di comune tradizione democratica, provvedere alla ricerca di una soluzione della controversia. Una opportuna collaborazione, nei casi più significativi, dovrebbe infatti portare lo Stato di trasmissione a chiedere il rispetto delle regole convenzionali al radiodiffusore transfrontaliero sottoposto alla sua giurisdizione. In tutti gli altri casi lo Stato di ricezione può sospendere la ritrasmissione dei servizi in programma solo otto mesi dopo la comunicazione allo Stato di trasmissione della pretesa violazione, a condizione che essa perduri. E' escluso tuttavia che una sospensione a titolo provvisorio possa avvenire nel caso di presentazione di notizie e di informazioni distorte o non esatte, nel caso di non rispetto del diritto del pubblico a degli avvenimenti importanti, nel caso di mancata concessione del diritto di rettifica, e delle norme sulle quote di opere audiovisive di origine europea.

LA TUTELA DELLA GIOVENTU'

Una clausola di salvaguardia è ora prevista nella Direttiva per quanto riguarda la protezione dei minori. La Direttiva, infatti, non armonizza il contenuto dei programmi televisivi, salvo che per questo aspetto che solleva questioni di carattere morale e pedagogico e non di-

rettamente economico. Una clausola di salvaguardia che consente la sospensione unilaterale da parte dello Stato di rice zione, costituisce un meccanismo adeguato per la liberalizzazione del servizio te levisivo, in materia non economica. In questo senso è giustificata l'attribuzione alla Commissione di poteri di mediazione e di controllo. La clausola prevede che di fronte a violazioni manifeste, serie e gravi, nonché non occasionali, lo Stato di ricezione debba notificare al radiodif fusore ed alla Commissione la propria intenzione di impedirne in casi di recidiva la ritrasmissione dei programmi sul proprio territorio. Alla Commissione viene così riconosciuto il compito di gestione del diritto co munitario e del diritto derivato contenuto nella Direttiva attraverso una proce dura per la composizione amichevole della controversia. La Commissione può in ultima istanza chiedere allo Stato di ricezione di porre fine urgentemente al provvedimento di sospensione unilaterale che risulti contrario al diritto comunita rio; nell'ipotesi cioè che la misura sia manifestamente sproporzionata rispetto agli effetti perseguiti. Infatti nell'applicazione di tutte le clausole di salvaguardia previste nel diritto comunitario è sempre presente il criterio di ragionevolezza delle misure limitative e della proporzionalitù tra mezzi impiegati e obiettivi perseguiti. L'armonizzazione della protezione dei minori nelle legislazioni nazionali rappresenta la soglia di accettabilitá minima del contenuto dei programmi televisivi a livello del limite della morale. La legittimità di altre restrizioni previste a livello legislativo da parte degli Stati membri dovrà essere giudicato alla stregua 171


della Convenzione europea dei diritti del-

nazionale specializzata nella questione del-

l'uomo. In pratica, tuttavia secondo la

la radiodiffusione e dell'applicazione del-

più recente giurisprudenza della Corte dei

le misure convenzionali.

diritti umani (v. ad es. il caso MLìller),

Per quanto riguarda il sistema cli solu-

considerato che gli Stati sono « meglio

zione delle controversie, il meccanismo

piazzati » nella valutazione di questo con-

contenuto nell 'Annesso alla Convenzio-

cetto; i limiti fissati legislativamente (an-

ne prevede la costituzione di un Tn.

che per le opere ad elevato contenuto ar-

bunale

tistico) saranno sempre riconoscibili come

sia; tuttavia non prima di sei mesi dal-

base legittima di provvedimenti nazionali

l'inizio della procedura di soluzione paci-

restrittivi.

ad hoc

per ogni controver-

fica della medesima controversia. Il Tribunale composto da tre membri (uno cia-

LE GARANZIE GIURISDIZIONALI

scuno, a scelta delle parti, mentre il terzo è designato dal Presidente della Cor-

Il sistema convenzionale si presenta co-

te CEDU o di comune accordo dalle par.

me un quadro più ampio nel quale do-

ti della controversia) dovrà adottare il

vrebbe inserirsi la normativa comunitaria.

regolamento interno. Non è prevista al-

Tra i Paesi comunitari, il diritto co-

cuna forma di intervento da parte di

munitario prevale sulle regole conven-

terzi né che controversie aventi il me-

zionali (clausola di deconnessione, ar-

desimo oggetto possano essere unificate.

ticolo

27).

E' previsto che la Co

La soluzione della controversia richiede-

munità europea in quanto tale ade-

rà pertanto un notevole lasso di tempo

risca alla Convenzione. La procedura di

e non potrà assicurare la creazione e lo

emendamento non consente ai paesi co-

sviluppo di giurisprudenza interpretativa

munitari da soli di chiedere una revisio-

coerente poiché la composizione sarà oc•

ne della Convenzione (art.

23).

casionale e diversa, di volta in volta.

La Convenzione prevede la creazione di

Nel meccanismo prescelto dalla conven-

un organo consultivo che si occupi del.

zione non è fatta menzione delle misu-

l'applicazione delle disposizioni convenzio

re cautelari o del controllo sulle misure

nali nell'ambito degli Stati parte deno-

cautelari, da parte del Tribunale arbitra-

minato Comitato permanente. Al suo in-

le. E' prevista solo la emanazione di una

terno la Comunità europea è previsto

sentenza a carattere definitivo ed obbli-

possa esercitare un diritto di voto di-

gatorio. Pertanto, la situazione di fatto

sponendo di un numero di voti uguale

e di diritto, conseguente alla pretesa vio-

a quello dei suoi Stati membri che sa-

lazione di una norma convenzionale da

ranno parte della Convenzione (artt. 20 e 22).

parte di un radiodiffusore transfrontalie-

Questo organo non ha carattere giudizia-

laterale dello Stato di ricezione fino alla

rio e l'analisi delle questioni interpreta-

emanazione della sentenza definitiva.

ro, sarà quella creata dalla decisione uni-

tive relative alla Convenzione potrà ave-

In considerazione dei fortissimi interessi

re solo carattere morale.

economici, coinvolti soprattutto nelle tra-

Gli Stati parte alla Convenzione dovran-

smissioni televisive via satellite, è estre-

no indicare un'autorità o un'istituzione

mamente improbabile che lo Stato di tra-

172


smissione possa prevedere un ricorso ad una siffatta procedura arbitrale; mentre, al contrario, sarà fortissima la pressione per una soluzione di fatto della controversia; con l'accettazione in pratica della volontà e delle condizioni poste dallo Stato di ricezione. In questo senso la questione si risolve nella richiesta di consenso de facto preventivo dello Stato di ricezione. Per quanto riguarda la Direttiva, meritano di essere ricordate le questioni relative alla competenza della Commissione in materia di sospensione unilaterale dei programmi (art. 2, par. 2) ed il monitoraggio della ricerca di quote maggioritane di trasmissione di opere audiovisive da parte degli Stati membri (art. 4, par. 3). La questione più grave riguarda il coordinamento della giurisprudenza che sarà originata dall'applicazione, da un lato della Convenzione, dall'alto della direttiva. L'esistenza della competenza della Corte di giustizia e delle istanze arbitrarie pre viste dalla Convenzione darà infatti luogo a due distinti corpi interpretativi. Non saranno certamente applicabili, nei rapporti tra gli Stati comunitari, il divieto della pubblicità indirizzata specificatamente alla parte di ricezione e la clausola di sospensione unilaterale in caso di violazioni che riguardino questioni economiche. Ciò in considerazione della indivisibilità del mercato comunitario e della inaccettabilità di clausole di salvaguardia relative a questioni economiche. La Direttivo prevede infatti come unica ipotesi di misura urgente dello Stato di ricezione quella relativa alla protezione della gioventù.

CONCLUSIONI

La competenza normativa degli Stati, di fronte ad un fenomeno televisivo in fase di naturale internazionalizzazione, a seguito dello sviluppo tecnologico, non è stata intaccata. Gli Stati europei, con le forme di armonizzazione adottate, dimostrano ancora di guardare con estrema, forse eccessiva, cautela alle potenzialità dello strumento televisivo; così come già avvenuto in occasione della Conferenza mondiale sulle trasmissioni televisive dirette via satellite del 1977, in seno alI'UIT (nella quale era stata prevista la copertura nazionale per le trasmissioni via satellite che sono invece « naturalmente » internazionali). La normativa elaborata a livello comunitario e del Consiglio d'Europa non ha portato ad un adeguato sviluppo delle questioni relative ai diritti individuali. Ad esempio l'importante settore del diritto dell'onore, alla reputazione, all'immagine, attraverso lo specifico mezzo televisivo, non è stato affrontato né nella prospettiva del diritto penale, né in 'quella del diritto civile. Ci si è limitati soltanto al diritto di rettifica che, peraltro, è uno dei pochi aspetti già consolidati in altri strumenti internazionali (v. Convenzione delle Nazioni Unite in materia) e che già è previsto nella maggior parte degli ordinamenti degli Stati occidentali. Non sono state invece affrontate questioni di fondamentale importanza per lo sviluppo della televisione transfrontaliera, come ad esempio la responsabilità civile per le informazioni diffuse attraverso il mezzo televisivo. Il diritto di rettifica non sarebbe che di scarso aiuto, di fronte alle questioni del diritto all'onore, alla reputazione, all'identità personale, all 'imma gine. In ciascuno Stato europeo questi di. 173


ritti individuali assumono caratteristiche diverse. La questione della responsabilità civile sarà risolta sulla base del diritto internazionale privato di ciascuno Stato e sottoposta a fori e leggi diverse. Sono state affrontate altrove le questioni del sostegno alla produzione audiovisiva europea affinché possa affrontare la con-

correnza internazionale; e resta in discussione la integrazione della disciplina comunitaria della concorrenza, con una normativa nazionale che tenga conto della sinergia di tutti i media. Molto resta ancora da fare per la istituzione di un nuovo ordine giuridico europeo delle trasmissioni televisive.

Note

I documenti di lavoro del Consiglio d'Europa sono tutti « a circolazione limitata » e non possono essere divulgati. Il testo della Convenzione è divenuto pubblico a seguito dell'adozione da parte del Comitato dei Ministri, il 22 marzo 1989 a Strasburgo.

Sui lavori preparatori e sulla evoluzione del testo della Direttiva, vedi: I) Documento della Commissione CEE, « Televisione senza frontiere », •Libro Bianco sull'istituzione del mercato comune delle trasmissioni radiotelevisive, specialmente via satellite e via cavo, (doc. Com . (84) 300 def. del 14.6.1984), pag. 213 SS.; Proposta di direttiva del Consiglio relativa a1 coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri concernenti l'esercizio delle atti vita radiotelevisive (doc. Com . (86) 146 def.. GU.CE. n. 179 del 17.7.1986); Relazione sulla proposta della Commissione delle CE, al Consiglio Concernente una direttiva relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri concrenenti l'esercizio delle attivitl radiotelevisive (relatore on. Barzanti), PE., doc. A2-0246/87 del 8.12.1987.

- Per un'analisi dell'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in relazione alla radiodiffusione, v. KI-ioL, l'he !nicrnational Aspects o! the Freedom o/ Expression in Radio and 7elevision, Revue dea droiis de l'homme, 1975, p. 127 sa.; BULLINGER, Freedo,n a/ Express,on and In/ormalion aii Essential E/emeni o/ Democracy, German YIL, 1986, p. 88 Ss.; ENGEL, The posilion 0/ Public Monopolies under the ECHR, (Mestmiiker ed.), The Law aiicl Economica o/ Transborder 1 'elecomni unicatzons, 1987, p. 65 Ss.; CACCiANO, Le condizioni giuridiche per la circolazione delle Irasmissioni lelevisive in Europa, in La Comunità Internazionale, 1988, p. 17 ss.. 32 ss.

Proposta modificata del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari cd amministrative degli Stati membri concernenti l'esercizio delle attivitti radiotelevisive (Com. (88) 154 def.) in GU, CE. C n. 110/14 del 27.4.88;

Per il raporto fra pubblicitì e libertì d'espressione si 'veda LEs'i'Ea A.-PANNicK .D., Advcrtising and /reedom o/ expression in Europe, 1984, (pubblicato dalla CCI); C0iiEN-J0NA'rAN G., Libertè d'expression ci pobblicité in Revue de Droii des A/Jaires lniernaiiona/es, 1986, voI. Il, pag. 9 sa.

Posizione comune adottata dal Consiglio il 13 aprile 1989 a Lussenburgo (Doc. 5858/89: divulgazione autorizzata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri),

Tesi svilupata nella Sentenza Debauve dcl 18,3.1980, causa 52/79, Raccolta 1980, 833 ss., 838-848) e nella sentenza Coditel/cine Vog dcl 18.3.1980, causa 62/79, Raccolta 1980, pag. 881.

174


La televisione senza frontiere Aspetti politici del negoziato di Nino Cascino

La diffusione di notizie sull'andamento di una riunione del Consiglio del mercato interno della CEE dedicata alla regolamentazione della « televisione senza frontiere » ha indubbiamente giovato ad attirare l'attenzione pubblica su questo importante problema norrnativo, ma nello stesso tempo lo ha fatto in termini così riduttivi e distorti da rendere necessaria un'informazione molto più esauriente (v. l'articolo di G.D. Caggiano) su questo diflkile negoziato. Dalle notizie trapelate e diffuse può sembrare infatti che la trattativa sia recentissima, che sia condotta solo da uomini di governo, e che si sia giocata tutta tra la conferenza dei Ministri responsabili dei « media » (svoltasi a Stoccolma, nell'ambito del Consiglio d'Europa, nel novembre 1988) e poche riunioni del Consiglio del mercato interno, in sede comunitaria, tenute tra il febbraio e l'aprile 1989. Questo riduzionisrno delle informazioni tocca naturalmente anche il contenuto del negoziato: sembrerebbe infatti che gli ostacoli al raggiungimento dell'adozione di un testo normativo a livello europeo siano soltanto due (la questione delle interruzioni pubblicitarie dei programmi e le cosiddette « quote » di programmi europei sul totale di trasmissione) e che per ognuno di questi problemi solo un Pae-

se (l'Italia nel primo caso, la Francia nel secondo) sia stato responsabile di uno slittamento dell'apertura alla firma dei relativi accordi internazionali. Ben diversa è la storia di questo negoziato: apertosi in sede comunitaria a metà del 1986, nel quadro dell'obiettivo « mercato interno », ma anche di precedenti tentativi di intervento comunitario in materia radiotelevisiva, veniva subito ostacolato da un gruppo di Paesi comunitari che non volevano attribuire alla Comunità competenze in questa materia. Questa manovra si formalizzava nella prima conferenza dei Ministri responsabili dei mezzi di comunicazione di massa, promossa dal Consiglio d'Europa, a Vienna, nel dicembre dello stesso 1986. In quella sede il Regno Unito proponeva, come sede più appropriata per la formulazione di uno strumento giuridico cogente in materia televisiva, il Consiglio d'Europa, e l'unanimità dei Paesi membri stabiliva di incaricare il Comité directeur mass-,'nedia (CDMM) del Consiglio d'Europa di predisporre, nel più breve tempo possibile, la bozza di tale strumento. Questa unanimità celava in realtà, da parte di alcuni Paesi, delle riserve mentali: il gruppo che non intende sottrarre competenza alla Comunità in materia televisiva (composto almeno da Italia, Belgio, Spagna, Grecia 175


e, con qualche incertezza, la Francia) intendeva l'avvio delle trattative in Consiglio d'Europa come complementare, e non come alternativo al negoziato per una Direttiva comunitaria. Ciò non toglie che i lavori abbiano proceduto più speditamente, in sede tecnica, a Strasburgo che non a Bruxelles. Questa relativa rapidità era del resto legata ai diversi vincoli che una Convenzione del Consiglio d'Europa impone agli Stati membri, rispetto ad una Direttiva comunitaria. E' noto, infatti, che il solo strumento cogente che può essere approvato in sede di Consiglio d'Europa, la Convenzione appunto, non diventa obbligante per gli Stati membri i cui Parlamenti nazionali non abbiano ratificato il testo adottato dai Governi. E' noto, altresì, che moltissime convenzioni del Consiglio d'Europa non sono state sottoscritte, o successivamente ratificate, da tutti i paesi membri. Si creava così una fittizia facilità di discussione sui contenuti delle norme in oggetto, facilità che non può aversi a Bruxelles, ove, una volta raggiunta la necessaria maggioranza qualificata dei Governi e l'approvazione del Parlamento europeo, tutti gli Stati membri si vedono obbligati ad adeguare la propria legislazione ad una scadenza fissata dal Trattato. Ma anche l'oggetto della trattativa veniva delimitato a Strasburgo in modo da facilitare l'andamento dei lavori. Infatti, se la convenzione del Consiglio d'Europa sarà adottata, essa si applicherà non già ai servizi televisivi nazionali degli Stati membri, bensì solo alla « televisione transfrontaliera », e cioè ai servizi espressamente destinati alla ricezione in Paesi diversi da quello di emissione (per 176

quanto lo sviluppo tecnologico dei mezzi di diffusione renda questa distinzione sempre meno valida). La Commissio. ne della CEE, invece, aveva l'ambizione di arrivare ad una vera e propria forma di armonizzazione, e cioè di far sì che anche per i servizi nazionali il ristretto numero di norme previsto dalla bozza di direttiva sia vincolante e che, con il rispetto di queste poche norme, divenga automatico il principio della libera circolazione dei servizi in tutta l'area comunitaria. Come si intende la differenza non è di poco conto, vista la fiera resistenza di diversi Governi a riconoscere competenze diverse da quella nazionale in materia radiotelevisiva. Risaliamo così alla' vera origine delle difficoltà di questo negoziato. Nessun mezzo di comunicazione, forse, è stato concepi to, organizzato, regolato, amministrato in termini così profondamente nazionali come la televisione. Perfino le prime trattative per l'assegnazione delle frequenze orbitali dei satelliti a diffusione diretta, oggi considerati- strumenti per loro natura « transfrontalieri », erano state indirizzate a vedere come questi satelliti potessero essere un vettore in più di servizi nazionali, e ciò accadeva ancora nella seconda metà degli anni settanta. Da allora, si sono anzitutto moltiplicati i fenomeni di transnazionalizzazione dei servizi televisivi attraverso il trasferimento di segnale su satelliti di comunicazione e la ritrasmissione con reti terrestri (ed in particolare con reti cablate) in altri Paesi. La televisione è già dunque transnazionale, tanto più in un continente-mosaico come l'Europa, e il bisogno di una regolamentazione è comunque indotto dalla tecnologia della


diffusione e dal perfezionarsi continuo degli apparati di ricezione. Ancor più questo bisogno si fa pressante con i satelliti a diffusione diretta, i cui segnali sono captabili con antenne di ragionevoli dimensioni dalle famiglie, senza bisogno di operazioni di ritrasmissione nei diversi Paesi. Quindi l'Europa, in entrambe le istanze (CEE e Consiglio d'Europa) si è vista costretta a stabilire alcune norme perché il principio della libera circolazione si concilii con alcune tradizionali protezioni cui i sistemi nazionali sono avvezzi. Va sottolineato a questo punto l'intreccio fra discussione in sede tecnica e negoziato propriamente politico. La distinzione è importante anche ai fini dell'informazione data alla stampa, e quindi all'opinione pubblica, perché di norma la discussione tecnica non è oggetto di comunicazioni all'esterno, e può trapelare solo in occasione di audizioni di categorie interessate. Quello che è accaduto negli ultimi due anni e mezzo è proprio una lunga trattativa tecnica, anche se vincolata per talune delegazioni, da pregiudiziali o da mandati politici, di cui normalmente non si ha notizia. Infatti, prima delle due occasioni menzionate (Conferenza di Stoccolma e Consiglio del mercato interno) il solo momento in cui il negoziato è stato reso noto al pubblico, risale a quando fu espresso il parere del Parlamento europeo, sulla bozza di Direttiva comunitaria formulato nel 1987. E' quindi in qualche modo normale la scarsa informazione su questo negoziato, come su altri, e quindi ineluttabile il carattere riduttivo di questa informazione intorno a pochi punti più conflittuali che emergono al tavolo politico.

Nel nostro Paese, poi, il tema è esploso sulla stampa contemporaneamente ad un ampio dibattito nazionale, provocato da una proposta dell'opposizione in materia di interruzione pubblicitaria dei film trasmessi in televisione; quindi tutta l'attenzione si è concentrata sulla posizione della delegazione italiana al Consiglio del mercato interno su questa materia. L'informazione emersa è bastata tuttavia a segnalare alcuni rischi della posizione del Governo italiano; si è subito capito: a) che questa posizione non era collegiale e che quindi andava almeno sottoposta al vaglio dello stesso Governo; b) che questa posizione prescindeva dai contributi della delegazione italiana in sede tecnica; c) che effettivamente il problema dell'interruzione pubblicitaria sembrava occupare la preoccupazione della delegazione governativa in modo quasi esclusivo, ciò che non era stato nei precedenti lavori. Lungo sarebbe riferire sulle posizioni nella delegazione italiana sia nel « gruppo ad hoc » della CEE, facente capo agli Affari economici, sia nel Comitato direttivo mass-media (CDMM) a Strasburgo; né sarebbe formalmente possibile riferire di questi lavori, normalmente considerati confidenziali. Basti qui sottolineare che la partecipazione - anche molto costruttiva - di delegazioni prive di un vero mandato politico, nonostante la costante informazione resa alle autorità competenti sull'andamento delle trattative, tende - per non rischiare l'isolamento o l'assenza di un contributo nazionale ad un negoziato internazionale a muoversi proprio sul piano tecnico, con tutto il rischio di essere smentita al momento del vaglio politico. 177


in sede tecnica si constatano convergenze più agevoli, e su alcuni punti la possibilità di compromesso. E' possibile portare avanti l'individuazione dei compromessi possibili, dato che l'esito della discussione, anche se espresso da votazioni indicative, non impegna i Governi nelle sedi di successivo vaglio politico. Tuttavia, la gran parte delle delegazioni ha anche a disposizione i limiti precisi dettati dai Governi, sulla base della preformulazione di testi; è possibile perciò, già in sede tecnica, individuare i punti sui quali non esiste mandato politico per un compromesso. Va aggiunto che la lunghezza della trattativa, nel perdurare di sistemi giuridici radicatamente nazionali, ma anche nella evoluzione di questi sistemi (molti Paesi europei hanno cambiato o stanno cambiando la legislazione sulla televisione proprio in questi anni) fa sì che anche su alcuni punti che sono sembrati più pacifici fino ad un certo momento, sorgano tardivamente proposte diverse da quelle iniziali e quindi nuove controversie. Alcuni esempi più eloquenti: - tutte le delegazioni a Bruxelles sono sempre state d'accordo su un articolo che intendeva assegnare alla produzione indipendente una modesta percentuale di budget di programmazione degli emitten ti; ma una recente revisione legislativa nel Regno Unito ha indotto la delegazione britannica a chiedere e ottenere che la percentuale sia commisurata sul tempo di trasmisione anziché sul budget di programmazione; - in Francia sono entrate in vigore le norme nazionali sul divieto di qualsiasi interruzione dei film a prioritaria destinazione cinematografica; ciò ha irrigidi 178

to la posizione francese su questo punto del negoziato; - il Belgio è stato in grado di concordare con alcuni ernittenti stranieri, i cui servizi sono ritrasmessi via cavo nel territorio belga, una contribuzione alla produzione nazionale; perciò il Governo belga è stato indotto a chiedere l'inclusione di questi contributi economici, alla produzione dei paesi di ricezione, nella normativa europea; ciò ha però incontrato insormontabili difficoltà giuridiche; - il Lussemburgo ha stipulato accordi per il rispetto della legislazione dei Paesi di ricezione in materia di decorrenza, nella programmazione di film, rispetto alla data della prima proiezione in pubblico; ciò lo induce a preferire che questa materia sia oggetto di accordi bilaterali anche per il futuro. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma non c'è dubbio che, vista la difficoltà di arrivare a risultati concreti, molti Paesi hanno continuato a legiferare in materia, con la difficoltà aggiuntiva costituita, nella Germania Federale, dalla competenza dei Lnder; tutto ciò ha dapprima ritardato, e poi reso frettolosa e lacunosa la decisione sulla normativa comune. E' difficile, a questo punto, non fare una riflessione sul « difetto di democrazia che, nelle istituzioni europee, impedisce l'approvazione di ragionevoli norme comuni in una materia che pure tocca non soltanto corporazioni come i « broadcaster », i produttori, i pubblicitari, gli altri « media », ma anche tutto il pubblico, che deve essere tutelato, sia nei programmi che nella pubblicità, in alcuni suoi diritti. Infatti il Parlamento europeo, eletto a suffragio universale, non ha esitato a lungo -ad approvare la gran par-


te della proposta della Commissione relativa ad una direttiva comunitaria in materia televisiva, e vi ha sintomaticamente aggiunto la proposta (per ora respinta) di includere una norma contro le concentrazioni. Purtroppo la necessità di ottenere sullo stesso testo il consenso di una maggioranza qualificata dei Governi rende determinante, nel perseguimento dell'obiettivo, non solo la posizione degli esecutivi, ma anche dei gruppi di pressione di cui essi sono di fatto portatori al tavolo europeo. Il fatto che i diversi Governi risentano maggiormente dalla pressione di corporazioni diverse, non fa che aggiungere difficoltà o al raggiungimento della conclusione del negoziato, o alla qualità del risultato. Sono dunque molte le contraddizioni che segnano questo tentativo di regolazione europea della televisione, e solo l'urgenza obiettiva di regole comuni ha accelerato, nei primi mesi del presente anno, la conclusione del negoziato. Nell'articolo che precede, G.D. Caggiano riassume efficacemente i contenuti principali degli accordi raggiunti. Vale la pena sottolineare qui i punti - noti o meno noti - sui quali le divergenze sono state più acute. Il primo punto concerne, come si è detto, le quote di produzione (comunitaria o « di origine europea ») da richiedere a tutti gli emittenti, pubblici e privati. La- Commissione della CEE ha malvolentieri rinunciato all'indicazione di una quota in cifre, ma ha ottenuto che un organismo comunitario controlli il perseguimento dell'obiettivo, costituito da una percentuale maggioritaria di programmi Grandi concessioni sono state fatte nell'estendere la nozione di audiovisivo eu-

1-opeo, aprendo generosamente ai Paesi non comunitari. Va sottolineato che l'Italia, sempre schie ratasi tra i fautori delle •quote, ha cambiato posizione nell'ultima fase del negoziato. Il secondo punto è costituito dalla « vexata quaestio » dell'interruzione pubblicitaria dei programmi. Una articolazione per generi di programmi ha gradualmente consentito una formulazione di compromesso, che ha impegnato tra l'altro Paesi autorevoli come il Regno Unito e la Germania Federale. Il conflitto più aspro, sull'interruzione dei lungometraggi cinematografici e televisivi soprattutto nel campo della cosiddetta « fiction », ha poi trovato la gran parte dei Paesi d'accordo su una protezione di « tranches di 45 minuti; solo il Governo italiano ha provocato, su questo punto, una deroga al principio dell'armonizzazione. Del terzo e quarto punto la stampa non ha quasi parlato. Si tratta: a) della libertà di trasmissione di messaggi pubblicitari espressamente destinati ad un paese diverso da quello di emissione. Mentre in ambito comunitario, come è meglio chiarito nell'articolo di G.D. Caggiano, i servizi pubblicitari inclusi nei programmi televisivi non possono subire particolari limitazioni, in sede di Consiglio d'Europa la maggioranza delle delegazioni converge sull'obbligo di non « aggirare » le legislazioni dei Paesi di recezione in materia pubblicitaria. Vera petizione di principio che in pratica renderebbe assai dubbia l'applicazione del principio della libera circolazione dei servizi. E' vero tuttavia che un passo avanti si è fatto anche a Strasburgo, sottraendo questa norma dal 179


gruppo di quelle che consentono ai Pae-

rinunce purché si arrivasse, anche in se-

si di recezione procedure relativamente

de comunitaria, ad uno strumento poli-

rapide di interruzione della ritrasmissio-

tico cogente; ma che a sua volta la Con-

ne di programmi provenienti da altri Pae-

venzione non si presenta più pregnante

si membri;

o esauriente della Direttiva.

b) la procedura ora menzionata di inter-

Vorremmo infine sottolineare, per quel

ruzione delle ritrasmissioni in caso di

che riguarda il nostro Paese, le ragioni

violazione delle normative concordate:

della debolezza complessiva del governo

problema di evidente rilevanza nell'applicazione del principio di libera circo-

italiano nel negoziato europeo. Da un lato l'Italia si è schierata tra i paesi « fi-

lazione ed anche di rispetto dell'art. 10

locomunitai-i », cioè favorevoli alla com-

della Convenzione dei diritti dell'uomo.

petenza ed alla priorità comunitaria nel-

In verità qualche altro problema è ri-

la regolamentazione dei servizi televisivi.

masto controverso fino alla fase finale

D'altro lato, la passata clamorosa inadem-

del negoziato: ad esempio, quell'aggiun-

pienza dello Stato italiano nei confronti

ta di 5% di tempo di trasmissione con-

di tante direttive comunitarie - solo a-

sentito al cosiddetto « teleshopping » che

desso in via di correzione con le leggi

per alcuni Paesi sarebbe stato meglio non

annuali proposte dal competente Ministe-

includere, non essendo ancora chiara la

ro - rende questa posizione poco inci-

definizione di questa pratica televisiva,

siva, ed anzi sempre meno rilevante nel-

non assimilabile alla pubblicità ma nean-

l'orientamento di Paesi minori. L'esibi-

che agli altri generi della programma-

zione filocomunitaria ai tavoli di Bruxel-

zione.

les rischia ormai di perdere peso poli-

Ma soprattutto vanno sottolineati quegli

tico a causa della trascorsa, comprovata

aspetti che sono stati sottratti sia dal te-

inattendibilità del nostro Paese nell'ap-

sto della Direttiva, sia dall'articolato del-

plicazione delle direttive, inattendibilità

la Convenzione e che dovrebbero fare

che non sarebbe certo minore in mate-

oggetto di protocolli addizionali. Si trat-

ria televisiva.

ta da un lato della complessa materia

In secondo luogo va rilevata la debolez-

del diritto d'autore, dall'altro dell'inclu-

za di un Paese che riserva le sue posi-

sione dei servizi di radiofonia, sia pure

zioni in attesa di una normativa nazio-

con molti sfrondamenti, nella normativa

nale che si attende da dodici anni, rispet-

in questione. Si tratta indubbiamente di

to alle posizioni di Paesi che hanno le-

due « rimozioni » intese a facilitare l'em-

giferato con conoscenza di causa, pur nel-

blematica apertura di firma degli accor-

la trasformazione del sistema nazionale

di; ma resta vero che due argomenti di

in direzione della privatizzazione e del-

tal fatta non possono essere leggermente

la commercializzazione di una parte dei

scavalcati oltre un ragionevole lasso di tempo.

servizi. L'Italia non ha potuto dunque esercitare alcuna leadership neanche nel-

In conclusione si può dire che, per quel

l'opzione in favore del sistema misto, a-

che riguarda i contenuti delle norme, la Commissione CEE ha tollerato diverse

vendolo lasciato crescere senza regola-

me

mentazione, ed essendo oggi considerata


- a torto o a ragione - largamente responsabile dei rischi che questo sistema, non regolato, comporta ormai nella dimensione europea,. non ultimo quello dell'abuso di posizioni dominanti. L'Italia è, insomma, nella condizione di

dover accettare che un ragionevole sistema televisivo europeo debba differenziarsi notevolmente dall'attuale "non sistema" nazionale, pena un isolamento politico e diplomatico su una materia sensibile per tutti.

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