Anno XVII - n. 79-80 - Semestrale (luglio-dicembre) - spedizione in abb. postale gr. IV/70
queste ìstìtuzìonì Gli eventi memorabili dell'Ottantanove, la Germania, l'Europa: la Comunità va
Giustizia, un'istituzione sempre più difficile Donatella Stasio, Maria Rosaria Ferrarese, Alessandro Criscuolo, Giovanni Melillo
Per una politica dell'innovazione nelle amministrazioni pubbliche Antonio Di Majo, Gerolamo Caianello, Stefano Sepe, Mario Colacito, Francesco Lamanda, Maria Teresa Provenzano Giorgio Pagano, Bruno Dente, Sergio Ristuccia, 11a ne Tei-ese Salvemini
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Taccuino del Gruppo di Studio n. 79-80 1989
queste isffiuziooi rivista del Gruppo di Studio SocietĂ e Istituzioni Anno XVII, n. 79-80 (luglio-dicembre 1989)
Direttore: SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore: VINCENZO SPAZIANTE Redattoe Capo: LUCA MINNITI Comitato di Redazione: ANTONIO AGOSTA, GIOVANNI CELSI, DANIELA FELISINI, MARIA RITA FERRAUTO, ELSA LAMANDA, MARCO LEDDA, MARIA TERESA LENER, MARiA TERESA PROVENZANO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE, DAN!ELA TORDI Responsabile organizzazione e relazioni: GIORGIO PAGANO Segretaria di redazione: DANIELA MONTRONE Direzione e Redazione: Corso Trieste, 62 - 00198 Roma - TeL 0618419608 - Fax 8417102. Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12dicembre 1972).
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n. 79-80. 1989
Indice
3
Gli eventi memorabili dell'Ottantanove, la Germania, l'Europa: la Comunità va
li
Giustizia: un'istituzione sempre più difficile
13
La giustizia alla prova della verità: come funziona la nuova procedura penale DonateLla Stasio
24
Il Consiglio superiore della magistratura e l'identità dei magistrati Maria Rosaria Ferrarese
42
Il nuovo codice di procedura: quale futuro per la giustizia penale Alessandro Criscuolo
51
Il nuovo processo davanti al pretore Giovanni Melillo
59
Per una politica dell'innovazione nelle amministrazioni pubblichè
61
Organizzazione e leadership nelle pubbliche amministrazioni Un dibattito in redazione. Interventi di: Antonio di Majo, Gerolamo Caianello, Stefano Sepe, Mario Colacito, Francesco Lamanda, Maria Teresa Provenzano, Giorgio Pagano, Bruno Dente
89
L'informatica nella pubblica amministrazione fra politica degli investimenti e politica dell'organizzazione Sergio Ristuccia
101
Debito pubblico, patrimonio, privatizzazioni Maria Teresa Salvemini
111
Archivio Media
113
L'Europa delle televisioni Giovanni Celsi
125
Chi ha governato il sistema radiotelevisivo? Rapido profilo di trent'anni di giurisprudenza costituzionale Luca Minniti I libri e il mondo
132
Riflessioni in pubblico del Librarian of Congress James H. Billington
141
Taccuino del Gruppo di Studio
143
Notizie sull'attivitĂ 1989-1990
Alcuni materiali di questo numero sono aggiornati al 1 0 luglio 1990.
Gli eventi memorabili dell'Ottantanove, la Germania, l'Europa: la Comunità va
Riprendere il discorso sull'Europa dopo quanto è avvenuto nel 1989 o, meglio, a partire dal 1989 signijìca prendere coscienza e ragionare su quel che sono i grandi avvenimenti storici. Gli avvenimenti, cioè, sociali e politici, che hanno dinamica tale da realizzare svolte evidenti ed efficaci nella vita dei popoli Abbiamo avuto esperienza, in questi mesi, della Storia come grandi eventi, un 'esperienza che nella vita europea dal dopoguerra in poi avevamo quasi perduto. E dobbiamo dire per nostra fortuna, dato che normalmente eventi del genere erano stati, nella storia d'Europa, distruttivi fatti di guerra. Il principale elemento che caratterizza il « 1989 » è proprio questo: il rivolgimento dell'assetto geo-politico del continente europeo è stato un evento di pace. Nella coincidenza con il bicentenario di una altro storico ottantanove, quello della Rivoluzione Francese, si è chiusa definitivamente la guerra fredda che per oltre un trentennio abbiamo vissutto nella condizione di deterrenza creata dalla bomba atomica. Ed in ciò anzi può vedersi la conclusione definitiva dell'ampio ciclo delle guerre europee fra nazioni. 111989 non nasce naturalmente per caso: nasce dalla crisi del sistema economico dell'Unione Sovietica e dalla conseguente impossibilità di sostenere l'x impero esterno »; nasce dalla politica di Gorbaciov e dai suoi effetti, più o meno indotti, più o meno consapevoli, cioè dalla volontà di sciogliere appunto l'< impero esterno » lasciando libero il suo processo di liberazione dal « socialismo reale ». Sicché questo processo è divenuto più rapido di quanto chiunque avesse previsto. Nel contesto del « 1989 » si realizza entro otto mesi la riunijìcazione tedesca: dopo l'unione monetaria ed economica realizzata il 10 luglio 1990 diviene un passo conseguenziale e necessario l'unione politica, già programmata attraverso l'adesione alla costituzione della Repubblica Federale dei nuovi Lander in via di istituzione all'Est. La rapidità della unificazione dà la misura degli eventi e più ancora darà, in prospettiva, il timbro e le caratteristiche fondamentali all'evoluzione storica cui stiamo assistendo. Non c'è più, dunque, una que-
stione tedesca? Certo, non pii quella che per anni era sullo sfondo della vita europea, questione tendenzialmente rimossa da tutti e gestita con discrezione e prudenza dai governi della Germania Federale. Un anno addietro si poteva ripetere, come noi abbiamo fatto su queste pagine, che « non ci sono da immaginare come possibili e prossime delle importanti modifiche della Deutschlandpolitik che è una politica impostata sul lungo periodo e su un paziente lavoro di lima ». La previsione di allora appare oggi una ben povera previsione travolta daifatti. Eppure anche dopo la caduta del muro di Berlino nell'ottobre '89 gran parte dei commenti e delle dichiarazioni politiche, soprattutto di parte tedesca, fu orientata all'idea di una forte gradualità. E stato il Cancelliere Kohl ad imboccare subito la strada della rapidità, con modi e dichiarazioni non sempre felici, ma con sicurezza d'indirizzo. Alcune correzioni di linea che gli sono state imposte, in particolare dal Ministro degli esteri Genscher, non hanno comunque riguardato i tempi del processo. Oggi si può dire, valutando ex post gli avvenimenti e la politica tedesca di otto mesi, che la grande accelerazione del processo di riunificazione sembra pienamente rispondere agli stessi criteri della gestione della Deutschlandpolitik. Efra tutti al criterio di ricondurre la questione della riunificazione, pur con tutta l'emozione e le sottolineature dei grandi eventi, entro i binari - se così possiamo dire - dell'ordinaria amministrazionr. Ci si è resi conto, e lo si è voluto dimostrare, di avere tutti i mezzi per cogliere e delimitare i problemi e per gestirli. In questo caso, la prevalenza dell'economia non significa soltanto che le vie della politica sono oggi prevalentemente economiche e che nella vicenda tedesca si doveva dare comunque risposta urgente alle ragioni stesse del « 1989 », che erano soprattutto nella crisi economica. Significa che la questione tedesca, non dovendo sopravvivere alla fine ufficiale della guerra fredda, poteva risolversi nell'ambito di un collaudato sistema istituzionale e politico. Qualsiasi problema inter-tedesco, e sicuramente ce n'è piz di uno (e altri se ne creeranno), trova così un sistema di riferimento consolidato. Entro il quale non sono poi da trascurare (per chi ritenga fondate almeno alcune delle ragioni per elaborare una « terza via » in termini di ordinamento economico-sociale) le stesse potenzialità del richiamo all'< economia sociale di mercato » che è stato ripreso nel trattato di riunificazione.
Riguardo alla unificazione tedesca rimane ilquesito fondamentale che già prima degli eventi del « 1989 » si era posto all'attenzione di molti: c'è il rischio di un minore interesse tedesco per la CEE, di un coinvolgimento decrescente nella costruzione comunitaria, di un allargamento del « gioco in proprio » nei processi di riassetto dell'Est euro4
peo? Durante gli avvenimenti dell'autunno '89 e dell'inverno e primavera '90 ci sono stati fatti e dichiarazioni che sembravano avallare il rischio e altri, invece, che sembravano scongiurarlo. Non sembra possibile, in verità, dare risposte sicuramente fondate. Eppure due punti risultano chiari: uno il ruolo economico della Germania nell'Europa orientale è destinato ad essere di crescente rilievo; due il coinvolgimento comunitario ne costituisce un punto d'appoggio fondamentale. Ciò non significa allora che tutto sta bene in equilibrio. Alcontrario. I processi chè sono di fronte all'Europa sono troppo complessi per poterli ormai considerare ben avviati a felici conclusioni. Però i dati di partenza sono buoni per quanto riguarda la linea politica. Infatti, dal momento in cui è stato chiaro l'orientamento elettorale dei tedeschi dell'Est (vittoria dei cristiano-democratici e alleati vari di centro) e il ridimensionamento dei republikaner di destra nazionalista nei Lander occidentali, la linea politica della Germania federale si è energicamente rivelata come comunitaria (dichiarazione congiunta Kohl-Mitterand). Onestamente bisogna darne atto. Contrappesi e contracolpi ci sono, ovviamente. Per esempio la Repubblica Federale non sarà più il tramite o garante di un regime di favore, in ogni caso limitato, per il 130 membro occulto della CEE (come era chiamata la Repubblica democratica tedesca) ma avrà a che fare con i particolari problemi dello sviluppo dei cinque suoi nuovi Lander orientali con tutte le necessità di deroghe alle regole ed in particolare dell'Atto Unico che ne deriveranno. Il che potrebbe fornire qualche scusa ad altri membri della CEE per ritardare o chiede deroghe. E insomma difficile supporre che gli avvenimenti del 1989 non abbiano alcuna incidenza nell'andamento programmato dell'integrazione europea ma sembra da escludere una tendenza regressiva della CEE in ragione della caduta delle barriere Est-Ovest. Piuttosto c'è da ritenere che non sia così facile e così necessario, come qualcuno ba prospettato, il passaggio dalla logica dell'integrazione economica per funzioni, così come le conosciamo e così come sta marciando, a quella dell'integràzione politica secondo un più compiuto modello federale. Fermiamoci su questo punto. Innanzitutto bisogna rendersi conto cheforsefa d'ostacolo a questo passaggio lo stesso successo dell'Europa dei Dodici quale si è realizzato da quando con l'Atto il meccanismo comunitario è stato rimesso in moto nel1985 Unico. Da allòra, secondo Giovanni Baget Bozzo, « è come se fosse cominciata una deriva politica dei continenti con l'Europa dei Dodici per punto di attrazione. Da allora l'immagine dell'Europa è divenuta quella dei cerchi concentrici: i dodici, i paesi dell'Efta, i paesi
dell'Europa orientale. E poi l'URSS e gli Stati Uniti. E infine il pianeta. Ogni parte di esso fa crescentemente riferimento all'Europa Comunitaria che è divenuta così il centro della società mondiale (...). L 'Europa comunitaria è più dell'Europa comunitaria e, sostanzialmente, più dell'Europa geografica. Come sia avvenuto questo fenomeno è difficile dire. I meriti non sono tutti europei: ma la tenace volontà dei dodici di mantenere l'impianto, anche se influenzato da precisi interessi economici, come quello delle lobbies agricole, ha avuto ragione della stessa scarsa inclinazione dei governi europei a trasferire competenze verso la eurocrazia di Bruxelles » ( La Repubblica, 11 luglio 1990). Nelle considerazioni qui riportate c'è qualcosa di eccessivo ma il capovolgimento delle prospettive storiche da un 'Europa depressa ad una attiva ed innovativa è certo un fatto che, pur facendo ogni possibile tara, va riconosciuto in tutta la sua portata. Non c'è dubbio che a questo risultato si sia giunti anche e soprattutto attraverso la macchina dell'Atto Unico e la sua « rivoluzione delle procedure ». La fitta rete di ragno del mercato unico sta costringendo a forti dislocamenti di poteri e di soggetti pubblici e privati e profondamente modifica il contesto entro il quale questi operano. Nel tempo lungo delle istituzioni tutto questo rimodella comportamenti e modi di essere della politica oltre che dell'economia. Paradossalmente questa macchina procedurale è presidiata e stimolata proprio dai più « pragmatici », quelli cioè che dubitano delle prospettive dell'unione politica. Il ministro brittannico Douglas Hurd, titolare del Foreign Office, parla di « Europa forza viva » quando sottolinea che « i nostri concittadini si accorgeranno ad ogni tappa che la Comunità riesce ad ottenere, a loro nome, gli obiettivi che i loro paesi non avrebbero potuto raggiungere separatamente ». Sicché « prima di tutto bisogna fare il mercato unico », ha concluso Hurd (v. la conferenza tenuta a Parigi, Fondation des Sciences Politiques, il 24 aprile 1990). Sul piano più concreto della vita amministrativa è stato notato che talora i documenti comunitari sono ispirati dagli stessi destinatari. Il che però non toglie ilfatto di « un trasferimento progressivo di poteri sostanziali ». Ciò vale soprattutto per i Ministri del Tesoro e delle Finanze degli stati membri ma comincia a valere anche per altri ministri. Così, « se in un primo tempo si utilizzavano le istituzioni comunitarie per autoraccomandarsi politiche già decise in sede nazionale rafforzandole ulteriormente di fronte ai rispettivi Parlamenti nazionali, ora l'obiettivo reale diventa effettivamente quello di concertarsi con i ministri omologhi ». Sul piano di queste notazioni realistiche l'autore che abbiamo citato (Emilio De Capitani su Confronti, 1989 n. 2) ha colto come « elemento non secondario si questo
stato di cose » un diverso atteggiamento delle burocrazie nazionali: queste, « accusate di impedire con ogni mezzo ogni trasferimento di potere a Bruxelles, hanno in realtà scoperto che all'interno dei trecento comitati consultivi o di regolamentazione della Commissione o degli innumerevoli gruppi di lavoro del Consiglio è più facile trovare accordi che in sede nazionale si perderebbero in trattative fra Ministeri concorrenti o anche parlamentari distratti e inaffidabili ». A ciò va aggiunto, sul piano pii propriamente istituzionale, il peso dell'opera svolta dalla Corte di Giustizia, un peso che è stato più volte sottolineato. Nel corso della celebrazione del 400 anniversario della dichiarazione di Robert Schuman (tenutasi il 6 maggio scorso) il Presidente della Corte Ole Due ha ricoradato che la Corte « si è ben guardata dall'interpretare i trattati comunitari come se fossero trattati di diritto internazionale classico. Essa ha sviluppato principi di interpretazione atti a salvaguardare il pieno esercizio delle loro competenze da parte delle istituzioni e ad assicurare l'effetto utile delle regole comunitarie. Ha riconosciuto che ogni regola che impone agli Stati membri obblighi chiari, precisi e incondizionati ha un effetto diretto sui sistemi giuridici interni di questi Stati. E, pér le regole che non hanno tale carattere, ha sottolineato l'obbligo di ogni autorità nazionale, giudiziaria o amministrativa, di darvi effetto nell'ambito delle proprie competenze e in tutta la misura compatibile con il diritto nazionale ». Ma quel che più conta è il legame ormai stretto fra la Corte e le giurisdizioni nazionali. I rinvii pregi udiziali alla Corte hanno un peso crescente come si nota anche in Italia: basta considerare la giurisprudenza dei tribunali amministrativi regionali. Le stesse competenze del Parlamento europeo sono state salvaguardate e in quakhe modo meglio definite, in senso espansivo, dalle sentenze della Corte. A fronte di tutto ciò bisogna fare una ricognizione delle passività e degli aspetti negativi. A proposito dei « trecento comitati » e della relativa comitologia non sono poche nè irrilevanti le preoccupazioni sul sovrappeso procedurale della macchina comunitaria, sulla mancanza di trasparenza, sull'incertezza, in definitiva, del modello amministrativo di Bruxelles (amministrazione di risultato o burocrazia tradizionale?). Ancora, si può temere una influenza crescente delle lobbies. A proposito di una proposta di direttiva elaborata dai servizi della Commissione in materia di regole relative ai prodotti del software informatico è stato di recente osservato quanto questa proposta fosse completamente sbilanciata a favore dei produttori di programmi. Certo - è stato notato - appare del tutto ragionevole garantire l'investimento ditali produttori vietando sul crescere usi e forme di riprodu-
zione non autorizzate dei programmi. Però, « se tali garanzie vengono sancite legislativamente, occorre mettere sul piatto della bilancia gli interessi dell'utente, al quale vanno assicurati, con altrettanta forza legale, diritti altrimenti schiacciati da pratiche contrattuali vessatorie. Invece, la proposta si muove in una sola direzione concedendo al produttore quel che nessun altro imprenditore si è mai visto accordare (anzi, il movimento legislativo "consumeristico" è tutto in senso contrario) senza offrire nulla in cambio ». Così Vincenzo Zeno Zencovich su Il diritto dell'informazione e dell'informatica (1990, gennaio-aprile, p. 81). Il quale prende spunto dall'episodio per esprimere le proprie preoccupazioni circa la capacità delle istituzioni comunitarie di essere all'altezza dei compiti. Sul problema specifico probabilmente sono intervenute o stanno intervenendo le necessarie correzioni. Tuttavia il caso riporta, sia pùre come uno dei possibili esempi, alla questione del « deficit democratico » della Comunità. Le preoccupazioni a questo riguardo sono molto diffuse e confluiscono nel dibattito sull'unione politica e sulle sue caratteristiche: se decisamente federali o piuttosto ancora intergovernative. Secondo alcuni, per esempio secondo Baget Bozzo gia citato, « ilproblema per la CEE oggi è quello di resistere alla doppia domanda di nuove istituzioni e di nuove competenze che il mondo fa gravare sull'Europa ». E da questa posizione egli sembra suggerire forti indicazioni di cautela. Eppure, anche da parte dei moderati, quelli più lucidi, favorevoli al processo di integrazione europea - ci riferiamo all'< Economist » (All abroad, 5 maggio 1990) - si afferma che « tutto dimostra che è giusto preoccuparsi del deficit democratico negli affari della Comunità ». E come primo passo verso una Europa più democratica il periodico suggerisce di democratizzare il foro dove le leggi europee vengono realmente fatte, cioè il Consiglio dei Ministri, ilpotenziale Senato d'Europa. L 'x Economist » propone che il processo legislativo non sia segreto e che il dibattito e le votaioni in Consiglio siano pubbliche in modo che popoli e parlamenti europei sappiano meglio come gli « emissari » dei loro governi agiscono e decidono. In verità, la proposta dell'apertura dei dibattiti e dei processi decisionali del Consiglio non sembra sufficiente e soddisfacente. Si possono pensare altre cose a proposito del Consiglio: per esempio, che diventi più propriamente un Senato non solo dei governi statali, ma anche di quelli regionali. Qualcosa che ricorda, almeno parzialmente, l'esperienza del Bundesrat. Sarebbe un ennesimo caso di prevalenza del diritto tedesco? Non del tutto se si pensa che la costituzione federale è stata anche il portato dell'esperienza federale americana trasferita in Europa. Comunque, seppure non crediamo che pensare in termini di com-
piuto disegno federale debba ancora signiflcare - come dice l'« Economist » - che « alcuni europei continueranno a sognare », siamo ugualmente convinti, questa volta d'accordo con l'< Economist », che senza dubbio la realtà attuale è di per sè, con i suoi problemi e sviluppi istituzionali, « exciting enough ».
queste istituzioni Giustizia: un'istituzione sempre più difficile
Lo stato assai grave della giustizia, il suo vero e proprio collasso costituiscono argomento fisso delle cronache. Una telenovela quotidiana che sarebbe angosciosa, e certo molto spesso lo è, per il degrado che una tale crisi della giustizia comporta per la vita nel nostro paese se non fosse che l'angoscia si stempera in disincatata indifferenza in ragione dell'eccesso di chiacciericcio. La giustizia, per un complesso di ragioni bene indagate da akuni studiosi, è un « istituzione difficile ». Forse la più difficile di tutte nel contesto italiano; nel quale questo è il punto - oltre 'alle consuete e gravi difficoltà dell'« amministrazione giustizia » nella società contemporanea l'istituzione Giustizia è chiamata a distinguersi, se non a contrapporsi, al modo di essere di un sistema politico che gira intorno alla logica dell'appartenenza a gruppi e fazioni. Una contrapposizione che però non riesce a realizzarsi altro che attraverso la logica e la dinamica dei partiti dei magistrati. Ed è un modo di 'realizzarsi per ora sicuramente perdente. La riforma del codice di procedura penale costituisce una vicenda sconcertante. Una lunghissima preparazione e una lunghissima attesa. Un assai vasto consenso. Oggi ci si deve chiedere se fossero stati per tempo valutati tutti i possibili effetti sulla macchina giudiziaria e se, in conseguenza, fosse stata messa a punto una strategia dell'attuazione del codice. La domanda è retorica perché pare evidente che ciò non è stato fatto o non è stato fatto in modo adeguato. Ma quel che conta rilevare è che questa esigenza neppur sia stata fatta valere dai magistrati e dai loro organismi rappresentativi. O meglio è un 'esigenza che, al più, è stata proposta in termini generali e di stile. Dunque, un 'ennesimo casò in cui si trascura l'esame della fattibilità di una legge (e quale legge!). Ma il caso giustizia è anche il più significativo esempio di quanto sia povera - diciamo meglio: inesistente - la cultura dell'organizzazione nelle aree più delicate delle funzioni statali. E divenuto un ritornello ripetere che il problema della giustizia è anche problema di mezzi, organizzazione e strutture. Verissimo. Così come è vero che per la'funzione giustizia le risorse finanziarie complessive sono modeste. Però si vorrebbe venire a conoscenza di quakhe compiuto progetto e studio su quella 11
che potrebbe essere una moderna amministrazione di supporto per la « funzione giustizia ». Si ha invece l'impressione che l'idea corrente, soprattutto fra i magistrati, sia quella di un '. intendenza » qualsivoglia che, fornita di maggiori risorse, dovrebbe rispondere alle domande di supporto, non necessariamente omogenee, dei singoli magistrati. Non è così, ovvia mente. Fra i vincoli ordinari dell'amministrazione statale e quelli particolari, per esempio in termini di riserve di legge, riguardanti la macchina della giustizia, in mezzo alle gelosie di un corpo che sacrosantamente vuole intorno a sè un po' di efficienza ma immagina che questa non debba essere assicurata da dirigenti diversi dai magistrati (nella cui professionalità non c'è, nè deve esserci, la capacità di organizzatori di macchine complesse), in mezzo a burocrazie statali disposte alle « deroghe »- ma non alla rifondazione dei meccanismi amministrativi e comunque ben lontane da cimentarsi sui risultati at'raverso specifiche riconversioni professionali; sembra quasi impossibile andare oltre le lamentele e le rivendicazioni. Invece sarebbe il caso, ormai di progettare concretamente un 'amministrazione per la giustizia, un 'azienda giustizia che abbia le risorse minime necessarie per dare almeno in un quinquennio una risposta di miglior funzionamento dei supporti dell'Istituzione Giustizia. Un 'azienda che risponda all'organo di auto-governo della magistratura e al Parlamento ma esclusivamente in termini di risultati, con una dirigenza ovviamente omogenea ai valori del «fare giustizia » ma scelta, anche fuori dalla magistratura, per la capacità di gestire grandi organizzazioni complesse. Una dirigenza che oggi non c'è, ma che bisogna creare. Consumarsi nella frustrazione, nella conflittualità interna, nella rabbia non serve all'Istituzione Giustizia. Serve invece una seria capacità progettuak.
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La Giustizia alla prova della verità come funziona la nuova procedura penale? di Dona tella Stasio
Un anno di tempo per sopravvivere o morire. E la prognosi fatta pubblicamente il 10 gennaio 1990 dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Vittorio Sgroi, per il nuovo Codice di procedura penale. La riforma processuale ha solo pochi mesi di vita, ma le sue condizioni di salute sono già gravissime. Il motivo è semplice e forse era anche prevedibile: il morbo micidiale da cui è affetta la giustizia italiana ha contagiato mevitabilmente il nuovo processo penale fin dal 24 ottobre 1989, giorno della sua prima apparizione. E questo morbo si chiama "mancanza di risorse finanziarie, di strutture idonee, di personale preparato, dileggi adeguate". In quarant'anni, nessuno è riuscito a distruggerlo o a contenerne gli effetti devastanti, neppure in vista di un evento storico come il varo del primo Codice della Repubblica italiana. Le parole spese da Sgroi e poi riprese dai Procuratori generali presso le 26 Corti d'appello d'Italia per descrivere, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario '90, lo stato comatoso della macchina giudiziaria sono apparse a molti retoriche e comunque esageratamente gravi. Ma è proprio questa diffusa diffidenza l'origine dei mali di cui soffre, da quarant'anni, l'amministrazione giudiziaria, e che ha portato alla paralisi della giustizia civile, al progressivo aumento della microcriniinalità, all'imperversare di mafia, camorra e 'ndrangheta, alle interminabili lungaggini del processo penale.
In questo quadro, quali e quante sono le speranze di sopravvivenza per il nuovo codice di procedura penale? Pochissime, anche perché, se nulla dovesse cambiare, c'è il rischio che fra quarant'anni del nuovo Codice resti davvero ben poco. Il rischio di un profondo snaturamento dei subi contenuti, cioé di una "controriforma", giustifica in pieno il tono delle denunce lanciate in tutta Italia dai Procuratori generali, anche se possono sembrare premature a soli due mesi dall'entrata in vigore della riforma.
LA SITUAZIONE ALL'INIZIO DEL '90
1110 e il 12 gennaio, quando si è celebrata l'apertura dell'anno giudiziario, le consuete tabelle allegate alle relazioni dei Procuratori generali non contenevano dati riguardanti il nuovo Codice. Le statistiche, è noto, si fermano al 30 giugno dell'anno precedente. Ciò nonostante, è stato proprio il "Codice Vassalli-Pisapia" il vero protagonista di quelle celebrazioni, sulla base di informazioni, dati, umori raccolti dai Pg negli uffici giudiziari dei rispettivi distretti. Da Milano a Reggio Calabria, da Venezia a Palermo, da Torino a Roma, da Bologna a Napoli il processo cosidetto all'americana è stato al centro delle relazioni dei Pg a causa degli effetti perversi prodotti da un avvio «che non è stato preceduto - ha sintetizzato Sgroi - dall'approntamento di strutture 13
idonee a favorirne la piena funzionalità, essendosene in sostanza programmata e avviata la realizzazione "in corso d'opera" ». Ma quali sono questi effetti perversi? Sgroi ha parlato di condizioni letteralmente proibitive in cui lavorano i giudici, « senza nuove sedi o nuove aule, senza personale ausiliario sufficiente e qualificato, senza i mezzi tecnici previsti dalla riforma ». Inoltre, la costituzione delle sezioni di polizia giudiziaria presso la Procura è in forte ritardo, mentre alcuni dei nuovi istituti previsti dalla riforma cadono sotto le censure di presunta incostituzionalità sollevate da pretori e tribunali. Senza tacere, infine, del clamoroso "caso amnistia": il provvedimento di clemenza, varato appositamente, se non esclusivamente per soccorrere la riforma, è ancora lontano dall'approvazione del Parlamento. Le conseguenze di tutto questo sono: il rischio di una totale paralisi delle indagini, il gonfiarsi dell'arretrato, la sommarietà dei giudizi, la demotivazione degli operatori, la minaccia di interventi da "controriforma". Tra le città che non hanno retto l'impatto col "nuovo" spicca Napoli. Già gravata da carichi pendenti, intralciata dalla carenza di strutture, infangata da casi giudiziari discussi e dalle polemiche sull'operato dei giudici, la macchina giudiziaria napoletana si è completamente inceppata dopo l'entrata in vigore del Codice. I problemi più gravi sono alla Procura della Repubblica e a quella presso la pretura circondariale (la più estesa d'Italia con 22 sedi distaccate). In entrambe mancano magistrati, personale ausiliario, locali adeguati, attrezzature. E tutto questo a fronte di un arretrato che, per la Procura della Repubblica è di circa 24mila procedimenti (cui se ne aggiungeranno almeno 1800 provenienti dall'ufficio istruzione), e per la Procura circondariale di oltre 80mila, ereditati dalla pretura, cui vanno ad aggiungersi gli 14
oltre 60mila casi aperti dal 24 ottobre. Stesso disastro a Palermo, dove il nuovo Codice non ha potuto far niente contro la cronica mancanza di spazi. Anzi, ha peggiorato la situazione perché rispetto ai venti locali in più richiesti, il presidente del Tribunale ne ha ottenuti soltanto quattro. Per non parlare delle carenze di personale. Alla Procura circondariale mancano ancora 3 sostituti su 13, mentre dei 14 assistenti previsti in organico ce ne sono soltanto una decina. Ma la situazione è drammatica in tutto il distretto (Palermo, Trapani, Agrigento, Sciacca, Termini Imerese, Marsala) dove le sei procure avranno a disposizione solo 137 unità nelle nuove sezioni di polizia giudiziaria, mentre le tre procure presso le preture ne avranno 65. Intanto la criminalità impazza: 139 omicidi, 15 casi di "lupara bianca", 77 tentati omicidi tra cui il fallito attentato al procuratore aggiunto Giovanni Falcone. Sempre per restare nel Meridione, Reggio Calabria è un'altra di quelle piazze che si contraddistinguono per le condizioni « proibitive » in cui è amministrata la giustizia. Qui il problema è soprattutto quello della carenza di magistrati (55 su 82 previsti in organico), seguito dai ritardi della macchina giudiziaria che ha al suo attivo 18mila procedimenti pendenti in istruttoria e 34mila nel civile. La situazione non cambia se proviamo a risalire la penisola. Roma: 321mila procedimenti pendenti in istruttoria; 96mila in giudizio; sulla neoistituita Procura presso la pretura graveranno 250mila procedimenti (ogni giorno arrivano circa 1200 notizie di reato). E tutto questo mentre il personale scarseggia dappertutto. Bologna: 25mila pendenze ereditate dal vecchio regime processuale; sulla pretura circondariale si è scaricato l'80% degli affari penali ma gli organici sono sco-
perti per il 50% tra i magistrati, e addirittura per il 70% tra gli ausiliari. Milano: tutto il distretto « soffre drammaticamente - ha detto il procuratore generale Adolfo Beria di Argentine - delle carenze di uomini e strutture. I giudici sono stati lasciati soli a gestire il più difficile momento di evoluzione del sistema giudiziario dell'ultimo cinquantennio ». La Procura circondariale ha già accumulato un arretrato da nuovo Codice pari a lOmila procedimenti, che non è possibile registrare per l'assenza di operatori informatici. Inutile continuare perché la musica ovunque è la stessa. Vale però la pena di segnalare il caso di Venezia per comprendere quanto potrebbe essere rischioso per la sopravvivenza del Codice il perdurare delle carenze strutturali e di personale nonché la mancanza di un adeguato supporto normativo. Il procuratore generale, nel denunciare il « marasma giuridico, amministrativo e organizzativo che oggi coinvolge l'intera collettività », ha indicato come responsabile principale della crisi della giustizia proprio il nuovo Codice di procedura penale. « Esso ha distrutto - ha detto - antichi sirumenti e strutture che bene o male funzionavano, senza sostituire a questi nulla di valido ».
L'ENTRATA IN VIGORE DEL Nuovo CODICE
Nei mesi immediatamente precedenti il 24 ottobre, erano in molti a sospettare che l'entrata in vigore del Codice sarebbe stata rinviata. In alcuni casi, il sospetto era giustificato dai gravi ritardi della macchina giudiziaria rispetto alla tabella di marcia fissata dal ministero di Grazia e Giustizia (soprattutto per quanto riguarda l'edilizia giudiziaria). In altri casi, invece, il sospetto nasceva dai dubbi sull'effettiva volontà del Governo di far partire la riforma.
Tuttavia, a parte alcuni esponenti democristiani, nessuno disse mai pubblicamente di ritenere opportuno uno slittamento della partenza. Magistrati e avvocati avevano anzi minacciato uno sciopero qualora fosse stata rinviata l'entrata in vigore del Codice. E Vassalli ripeteva che il ministero era in grado di rispettare la scadenza fissata, dichiarazione di cui prese atto anche la Commissione Bicamerale per i prescritti pareri alle norme di attuazione del Codice, la quale aveva più volte convocato il guardasigilli per avere ragguagli sulla preoccupante situazione dell'edilizia giudiziaria. Eppure, fino al 23 ottobre, si continuò a parlare di un possibile slittamento deciso con decreto legge, anche perché, nel frattempo, il Governo aveva annunciato l'amnistia per decongestionare il lavoro negli uffici giudiziari, proprio in vista del nuovo Codice. Tuttavia, il Cosiglio dei ministri affrontò il problema in gran segreto e decise di lasciare tutto com'era. Il Codice Vassalli-Pisapia partì quindi in perfetto orario il 24 ottobre 1989. Ma in quale scenario fece la sua prima apparizione? Ad attenderlo c'erano ben due milioni settecentosettantacinquelTiila novecentocinquanta processi penali arretrati. L'amnistia era ancora molto lontana e i palazzi di giustizia o cadevano a pezzi (Torino e Venezia) o assomigliavano a grossi cantieri (Roma, Milano, Firenze) o erano addirittura mesistenti (Napoli, Foggia). Carenza di magistrati e di personale ausiliario completavano il quadro. Né i soldi a disposizione dell'amministrazione giudiziaria potevano far sperare in un futuro migliore. Anzi, a causa degli esigui stanziamenti destinati alla giustizia nel bilancio nazionale, il nuovo processo penale è partito soltanto per i più ricchi e non ancora per i meno abbienti. I resoconti della stampa danno un quadro a dir poco desolante del battesimo del primo
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Codice dell'Italia repubblicana. Sia a Roma che a Milano le Procure presso le preture erano ancora in fase di allestimento: mancavano i locali, i magistrati, il personale ausiliario. E poi i telefoni; i registri, i fax, i computer, il materiale di cancelleria. A Venezia, l'antico palazzo cinquecentesco che ospita il tribunale stava crollando, per una quindicina di giorni gli uffici rimasero chiusi al pubblico e tutte le udienze (anche quelle con imputati detenuti) furono rinviate, provocando le proteste degli avvocati. Nelle zone cosidette a rischio della penisola vi era una penuria senza precedenti di magistrati: in Ca labria, tra Catanzaro, Cosenza e Reggio ne mancavano 15, e in tutta la regione non erano ancora arrivati i moduli per i verbali del nuovo processo. Manifestazioni diprotesta del personale giudiziario a Perugia; udienze bloccate in Molise per lo sciopero degli avvocati; sospese a Foggia, in attesa del trasloco nel nuovo palazzo di giustizia. A Napoli, la Procura circondariale era assolutamente impraticabile per "lavori in corso". Problemi strutturali gravissimi in fltta la Sicilia. Ma per Vassalli, in quel momento qualunque bilancio sarebbe stato ingiusto e prematuro. Nonostante il bombardamento di notizie allarmanti, se non catastrofiche, su quanto stava accadendo nei Palazzi di giustizia Italiani, il Guardasigilli era fiducioso. «Aspettiamo almeno la primavera - disse nel corso di una conferenza stampa organizzata per festeggiare l'evento, a dispetto del "partito trasversale del rinvio" e poi azzarderemo un primo bilancio. Nel frattempo - aggiunse è necessario l'aiuto del Parlamento e la collaborazione degli enti locali per risolvere i problemi più urgenti del personale, gratuito patrocinio, disponibilità di locali ». Gli sforzi compiuti dal suo dicastero per superare i molteplici ostacoli che si erano frapposti alla pun16
tuale entrata in vigore del Codice non dovevano essere messi in discussione. Ultimo, in ordine di tempo, il disegno di legge sull'amnistia che di lì a qualche giorno avrebbe presentato al Consiglio dei ministri per tentare di smaltire l'arretrato degli uffici giudiziari. In un articolo pubblicato il 25 ottobre sul quotidiano « L'Avanti », Giuliano Vassalli scriveva che l'entrata in vigore del nuovo Codice rappresenta una sfida politica imposta dall'esigenza di cambiamento avvertita negli ultimi anni. Aggiungeva poi che il « rapporto tra il codice e le strutture è stato alquanto esasperato »poiché le scadenti condizioni dell'apparato giudiziario sono un male antico che ha provocato ritardi e inefficienze in tutti i settori della giustizia, a cominciare dal civile. «Il nuovo Codice - concludeva il Guardasigilli - non ha nulla a che fare con queste condizioni e sernmai esso ha avuto l'effetto di convogliare verso la giustizia investimenti che diversamente sarebbe stato impossibile ottenere: cospicui aumenti della magistratura e della altre categorie di personale, considerevoli stanziamenti per l'edilizia e i mezzi materiali, tra cui specialmente quelli informatici ».
LE NUOVE PROCURE PRESSO LE PRETURE CIRCONDARJALJ
Le parole usate da Vassalli per frenare allarmismi prematuri e previsioni nef aste sulla riforma si sono tuttavia scontrate con una realtà che, probabilmente, è andata oltre ogni immaginazione: la realtà delle procure circondariali, registrata a poco più di un mese dal 24 ottobre. Sono 97 in tutta Italia ed hanno il delicatissimo compito di iniziare e portare avanti le indagini per i reati di competenza del preto-
re. Circa l'80% del carico penale passa per questi uffici; eppure, a più di un mese dall'entrata in vigore del nuovo Codice, le neo istituite procure circondariali non erano state ancora dotate di quel minimo di strutture e di mezzi, materiali ed umani, necessari per farle funzionare. Anzi, le carenze strutturali, organizzative e ordinamentali erano tali e tante da far temere fondatamente un'imminente paralisi della giustizia. Era il 29 novembre 1989 quando i capi delle procure presso le preture circondariali si incontrarono nella sede dell'Associazione nazionale magistrati per fare un primo bilancio della situazione. A Roma ne arrivarono 37. Gli altri, nell'impossibilità di lasciare completamente sguarniti i loro uffici, furono costretti ad inviare soltanto una relazione dettagliata della drammatica sitazione in cui lavoravano. Quella riunione segnò un momento decisivo nella storia dei primi passi della riforma, perchè consentì di denunciare pubblicamente i ritardi e gli inadempimenti del ministero rispetto ai programmi, agli impegni, alle promesse, alle tabelle di marcia. Nessuno, a via Arenula, si salvò dalle accuse dei magistrati, i quali usarono parole molto forti (« attentato alla democrazia », « fallimento della riforma », « sciopero ad oltranza ») persino nei confronti di Vassalli, del quale arrivarono a chiedere le « dimissioni ». Non che prima di quella riunione le difficoltà degli uffici giudiziari fossero sconosciute ai magistrati. Il fatto è che in quell'occasione i magistrati si resero conto che i primi a pagare, se le cose non fossero cambiate, sarebbero stati loro. L'opinione pubblica li avrebbe certamente additati come i principali responsabili della paralisi; avrebbero rischiato provvedimenti disciplinari se non fossero riusciti a portare avanti le indagini nei termini prescritti dalla legge; le denunce di
carenze e di ritardi si sarebbero ritorte come un boomerang contro tutto il potere giudiziario, mediante interventi legislativi urgenti ed eccezionali di dubbia leggittimità. Lo spettro della discrezionalità dell'azione penale cominciava ad acquistare sempre più consistenza. In tutte le procure, gli organici (peraltro già insufficienti) del personale di magistratura e ausiliario presentavano ancora vuoti paurosi. E ciò a fronte di carichi di lavoro di giorno in giorno crescenti. Prendiamo alcune città. Il 29 novembre nella procura circondariale della capitale mancavano ancora 20 magistrati (su 49) e 87 ausiliari (su 167). Contemporaneamente erano già arrivate 9800 denunce contro persone note, delle quali soltanto 4800 erano state registrate. A Milano erano in servizio 21 sostituti su 35 e 46 ausiliari su 122. Risultato: dei 20mila affari nuovi pervenuti alla procura ne erano stati registrati solamente 3728. A Catania i fascicoli accumulati erano 12mila, con un personale di 7 magistrati su 15 e di 25 ausiliari su 44. Napoli aveva il record dell'arretrato da nuovo Codice: oltre lOOmila le notizie di reato ancora da registrare, perchè ogni mese giungono 64mila denunce in questa città e 24mila dalle sedi distaccate. Inoltre, la Procura aveva ereditato dal vecchio rito 36mila procedimenti, e con questa pendenza dovevano f are i conti 21 magistrati assistiti da 86 ausiliari (in organico ne sono previsti, rispettivamente, 46 e 160). La procura circondariale di Napoli è la più grande d'Italia, eppure alla fine di novembre i sostituti procuratori non sapevano come raggiungere le sedi distaccate visto che, su 18 auto di servizio in dotazione, ne avevano a disposizione soltanto &. Per quanto riguarda la mancanza di locali, a Catanzaro si era arrivati persino a chiede17
re l'autorizzazione (poi negata) a montare una tenda nel cortile del tribunale, dove sistemare alla meglio i magistrati in mancanza delle stanze. Fatta eccezione per L'Aquila (definita un'oasi felice), la situazione delle altre città evidenziava «l'assoluta impossibilità di adempimento degli obblighi istituzionali e l'mesigibilità delle prestazioni dovute ». A Salerno un automobilista aveva denunciato il magistrato per omissione di atti d'ufficio perché nessuno gli aveva firmato il verbale di «chiusa inchiesta » per il furto della sua auto: la pratica era ammucchiata insieme ad altre ventimila, tutte da registrare. Dappertutto veniva segnalato il rischio concreto di dover chiudere moltissimi procedimenti per scadenza dei termini. Il che avrebbe significato vanificare di fatto l'obbligatorietà dell'azione penale. Di qui la richiesta, avanzata in quella sede da numerosi magistrati, di una sospensione immediata dei termini fissati dal nuovo Codice per le indagini preliminari (4 mesi) o di un loro prolungamento (fino a due anni o almeno a sei mesi), o ancora di far istruire dalla polizia giudiziaria le denunce contro ignoti. Si decise, poi, di non battere questa strada per non essere accusati di voler minare la filosofia del nuovo Codice propugnando pericolosi ritorni al passato. Al termine dell'incontro, la Giunta dell'ANM si recò da Vassalli per riferire, documenti alla mario, le doglianze dei procuratori e per chiedere al Guardiasigilli di prendere atto finalmente della situazione di emergenza. Parola, quest'ultima, che Vassalli e Andreotti si sono decisi a pronunciare soltanto dopo l'inaugurazione dell'anno giudiziario. Da quel 29 novembre, però, presero atto che la situazione in cui versa la giustizia richiede interventi eccezionali da parte del Governo e del Parlamento. 18
Interventi che sono ancora in cantiere, salvo per quanto riguarda uno schema di decreto legislativo sull'ampliamento della delega delle funzioni di pubblico ministero ai vice procuratori onorari e agli uditori giudiziari, per consentire ai sostituti procuratori di partecipare alle udienze. Il Governo lo ha approvato nel Consiglio dei ministri del 15 dicembre ed ora è al vaglio della commissione bicamerale per il prescritto parere obbligatorio. Assai poco è stato fatto sul fronte delle strutture e delle attrezzature tecniche, cosicché, a distanza di mesi dall'avvio della riforma processuale, la situazione delle procure circondariali non appare molto diversa da come la descrissero icapi degli uffici quel 29 novembre dell'89.
LE REAZIONI AL « NUOVO» Al di là delle difficoltà organizzative e strutturali, il processo « all'americana » è stato accolto con molto entusiasmo dai protagonisti, meno dall'opinione pubblica rimasta sconcertata di fronte all'esito di alcuni nuovi processi. E stato il « patteggiamento» l'istituto del Codice « Vassalli-Pisapia » più gettonato in tutta la penisola, dal 24 ottobre ad oggi. Se fino a ieri, per concludere alcuni processi occorrevano testimoni a non finire, dozzine di udienze, centinaia di pagine di verbali da riempire, requisitorie e arringhe lunghissime, adempimenti burocratici di vario genere, e soprattutto tanti soldi, quegli stessi processi dal 24 ottobre si sono potuti inappellabilmente risolvere nel giro di mezz'ora. Merito, appunto, del « patteggiamento » e della solerzia con cui pubblici ministeri e avvocati lo hanno utilizzato. Tuttavia, questo stesso strumento non solo ha lasciato in molti casi sbigottita la gente
per gli « effetti perversi » ai quali si presta, ma è stato anche preso di mira da alcuni magistrati, che lo hanno tacciato di « incostituzionalità ». Si gridò allo scandalo, ad esempio, il 24 ottobre quando a Torino il processo contro un prete accusato di violenza carnale su due bambini e di atti di libidine su altri ragazzi si concluse « patteggiando la pena ». Nonostante la gravità dei reati, l'imputato fu condannato soltanto a due anni di reclusione col beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione. E, tra la costernazione dei genitori delle parti lese e dell'opinione pubblica, se ne tornò libero. Contemporaneamente, nella stessa città un ladro di biciclette colto in flagrante fu condannato dal pretore a ben 14 mesi di reclusione senza condizionale.
sto istituto violerebbero la Costituzione perché lasciano solo al pubblico ministero il potere di concedere o meno all'imputato la possibilità di usufruire dello sconto di un terzo della pena, senza che il tribunale possa intervenire. Eccezione condivisa anche dal Tribunale di Roma e da quello di Bologna. Con il giudizio abbreviato se l'è presa anche il Tribunale di Ancona: sarebbe illeggittima la norma che consente all'imputato di chiedere questo giudizio solo « prima che siano state compiute le formalità di apertura del dibattimento di primo grado ». Infine, a Biella il Tribunale ha contestato che i vecchi processi di pretura debbano continuare ad essere celebrati secondo il Codice Rocco, che prevede il doppio ruolo del pretore, inquirente e giudicante.
Il 26 ottobre, il « patteggiamento » fu man-
LE PROTESTE DEGLI AVVOCATI:
dato per la prima volta davanti alla Corte costituzionale. Ci pensò il Tribùnale di Firenze, che contestava la norma transitoria del nuovo Codice in base alla quale l'imputato non può avvalersi di questo rito speciale se il processo è iniziato col vecchio Codice ed è già in fase dibattimentale. Il 20 novembre fu la volta del pretore di Vercelli, secondo cui l'articolo 444 Cpp « priverebbe il giudice della funzione giudicante » e non consentirebbe all'imputato di tutelare i propri diritti in dibattimento. «Una condanna emanata solo sulla base degli atti compiuti durante le indagini preliminari - è la tesi del pretore - equivale ad una condanna senza accertamento di responsabilità ». Anche a Busto Arsizio sono convinti dell'incostituzionalità del patteggiamento, perché non lascia spazio alla parte civile. Sotto accusa anche il « giudizio abbreviato », finito alla Consulta per opera del Tribunale di Napoli. Le norme che disciplinano que-
RECLUTARE NUOW GIUDICI
La perdurante inefficienza dell'apparato giudiziario, soprattutto in alcuni distretti d'Italia, ha portato un po' tutto il mondodella giustizia, all'esasperazione. Dal 24 ottobre si sono susseguiti scioperi a catena degli avvocati con varie motivazioni, che vanno dalla mancanza del personale a quella di locali. Queste agitazioni hanno paralizzato, o contribuito a paralizzare la giustizia in molte città: a Torino (un giorno), a Marsala (sciopero ad oltranza dali'8 novembre), a Savona (dodici giorni), a Caltanissetta (fermi per mesi per l'abolizione di alcune preture), a Firenze (sei giorni), a Campobasso (due settimane), a Gorizia (dal 17 novembre per un mese). A Roma sono invece scesi in piazza i cancellieri per protestare contro le incombenze del nuovo Codice che li costringono ad essere reperibili 24 ore su 24. 19
Una delle ragioni della protesta degli avvocati è la mancanza del personale di magistratura, che si ripercuote inevitabilmente sui tempi proces suali, allungandoli. Attualmente, infatti, esistono 1200 vacanze negli organici dei magistrati. Per questo motivo una parte degli avvocati guarda con favore la proposta, ora avanzata ora ritirata, del ministero di Grazia e giustizia di ingaggiare nuovi magistrati attraverso i cosiddetti reclutamenti straordinari. Ipotesi, questa, che l'ANM vede invece come fumo negli occhi. Gli avvocati di Gorizia ritengono che sia impossibile colmare col ritmo normale dei concorsi le carenze numeriche dei giudici, e perciò hanno chiesto da tempo « l'avvio di un reclutamento di emergenza fra i procuratori e gli avvocati ». Proposta che è stata, ad un certo punto, recepita dagli uffici tecnici di via Arenula che avevano preparato una bozza di disegno di legge per aggirare l'ostacolo del concorso. Ciò sul presupposto che il concorso richiede tempi lunghissimi: minimo tre anni. Il ministero aveva pensato ad un reclutamento di nuovi magistrati che potesse attingere da cinque categorie ben definite: avvocati, procuratori, vice pretori onorari, ricercatori universitari e giovani laureati in giurisprudenza. Ogni gruppo, per poter essere reclutato, avrebbe dovuto superare una sola prova e, soprattutto, avrebbe dovuto avere determinati requisiti. Per esempio, era previsto che gli avvocati ricoprissero il 20% dei posti disponibili e non dovessero avere più di 35 anni. I neodottori in giurisprudenza, invece, avrebbero dovuto cbnseguire la laurea con un punteggio di almeno 105 su 110. Quanto all'esame di ammissione, niente più prova scritta ma solo un esame orale che preveda la conoscenza dei quattro codici, del diritto costituzionale, di quello amministrativo, del la20
voro e comunitario. Infine il tirocinio: non più quindici mesi di uditorato, ma solo tre. Peraltro, il ministero aveva pensato anche ad altre forme di reclutamento alternativo, come il mantenimento in servizio dei giudici in età pensionale per altri tre anni (a domanda) con retribuzione e gettone di presenza. Il tutto previa accurata visita medica. Fatta eccezioné per quest'ultima proposta, i magistrati sono assolutamente contrari al reclutamento straordinario, soprattutto all'abolizione della prova scritta del concorso che, dicono, è l'unico strumento a salvaguardia della obiettività del giudizio. Perciò, non appena è circolata questa idea del ministero, I'ANM ha ricordato al Guardiasigilli che in passato aveva promesso di non ricorrere a questo strumento senza il consenso dei magistrati. E alla fine Vassalli li ha tranquiffizzati, escludendo la presentazione di un disegno di legge di iniziativa ministeriale, fermo restando che, se e quando mizierà in Parlamento l'esame delle proposte giacenti sul reclutamento dei magistrati, il suo dicastero interverrà nel dibattito tenendo nel massimo conto la posizione dell'ANM. D'altra parte, anche a via Arenula non c'è unanimità di vedute sul reclutamento straordinario di almeno 700 nuovi magistrati. Infatti, mentre la Direzione degli affari generali e del personale spinge per attingere le forze nuove da avvocati, procuratori, ricercatori universitari, vice pretori onorari e neolaureati in giurisprudenza, saltando la prova scritta del concorso, l'ufficio legislativo è decisamente contrario a questa proposta. La partita si giocherà in Parlamento quando verrà messa all'ordine del giorno la proposta presentata da Giorgio Covi (Pri), presidente della commissione Giustizia del Senato. Il suo progetto di legge si rivolge ad avvocati con meno di 46 anni, purché abbiano esercitato continuativamente la professione
da almeno un decennio. Per accelerare i tempi burocratici è previsto che ogni concorso sia bandito per non più di 100 posti.
ALLA RICERCA DELLE RESPONSABILITÀ
Ma di chi è la responsabilità dello stato comatoso della giustizia? Se il nuovo Codice dovesse davvero fallire, su chi ricadrà la colpa di questo clamoroso fallimento? Tutti puntano il dito contro Giuliano Vassalli e i suoi collaboratori di via Arenula, accusati di aver lasciato partire la riforma con troppa leggerezza, senza capire il peso che le strutture avrebbero avuto sul destino del nuovo Codice. Che cosa replicano dal ministero? La difesa di Vassalli è in quelle 111 pagine di relazione scritte all'inizio del nuovoanno per riassumere l'attività svolta dall'amministrazione giudiziaria nel 1989. «Un anno - si legge - nel quale l'azione del ministero è stata portata avanti con un'articolazione, uno spessore ed un'ampiezza senza precedenti, sia sul piano delle riforme legislative che su quello degli interventi ordinamentali e strutturali E questo è stato possibile, secondo Vassalli, anche perché l'89 è stato l'anno del nuovo Codice di procedura penale, che ha permesso di far convogliare sulla giustizia l'attenzione di chi è sempre stato tradizionalmente poco sensibile alle esigenze e ai problemi di questo settore. Il Guardiasigilli, di fronte alle accuse circostanziate che gli sono state mosse da magistrati, avvocati, personale amministrativo e dalle forze politiche, anche della maggioranza, ha dovuto fare un elenco molto dettagliato delle iniziative intraprese nell'anno appena trascorso, dimostrando che in molti casi la responsabilità di ritardi o di inadempimenti non può essere imputata al suo dicastero,
ma ad altri: al Parlamento, per la lentezza con cui esamina i provvedimenti in materia di giustizia; alle amministrazioni comunali, competenti in materia di edilizia giudiziaria e poco sensibili al problema. «111989 - sostiene il ministro - è stato contrassegnato da una raffica di provvedimenti a sostegno della giustizia e in particolare del nuovo Codice ». Sono state istituite le preture circondariali, con la soppressione o la trasformazione di quelle mandamentali in sezioni distaccate. «Ed una più radicale revisione delle circoscrizioni giudiziarie assicura Vassalli - è già allo studio del ministero ». È stata varata l'amnistia per decongestionare gli uffici, soprattutto le preture; è stato presentato (e finalmente approvato dalle Camere) un disegno di legge per l'assunzione di 1200 dattiografi senza dover passare per il collocamento, ma attingendo direttamente dalle graduatorie dei cosiddetti trimestralisti; la legge finanziaria (grazie ad un emendamento del ministro) consentirà di far approvare definitivamente la legge sul patrocinio dei meno abbienti; la riforma del processo civile all'esame del Senato è ormai a buon punto. Soprattutto sul fronte del personale gli interventi legislativi sono stati numerosi e hanno permesso di aumentare notevolmente gli organici. Quello dei magistrati è stato ampliato di 1054 unità, mentre per gli assistenti giudiziari e i dattiografi l'ampliamento è stato, rispettivamente, di 1863 e 2760 unità. Infine, gli autisti sono cresciuti di 848 unità e i commessi di 698 unità. Certo, Vassalli non nasconde che i posti ancora vacanti sono moltissimi, e che il problema della loro copertura non è di facile soluzione, specie per quanto riguarda i magistrati. Negli organici di questi ultimi, infatti, si contano ben 1212 vacanze (saliranno a 1941 nel
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'94) che bisognerà pur riempire in qualche modo. A questo proposito il Guardasigilli conferma che il ministero sta « studiando » interventi legislativi per richiamare in servizio, a domanda, i magistrati ordinari in pensione per un triennio, nonché per un reclutamento "straordinario" dei magistrati. E l'edilizia giudiziaria? Il relativo capitolo si apre ricordando anzitutto che in questo settore la competenza diretta è dei comuni e non del ministero. Tuttavia, Vassalli fa rilevare che fin dall'autunno del 1988 il ministero ha tenuto sotto controllo la situazione dell'edilizia, per verificare lo stato di attuazione degli interventi in vista del nuovo processo penale. «Iniziative che non sempre hanno avuto successo per la non adeguata attenzione dei comuni ai problemi della giustizia ». E questo spiegherebbe perché, a tutt'oggi, le soluzioni adottate per gli uffici giudiziari di molte città (Roma, Napoli, Torino, Venezia, Firenze, Messina, Milano, Catanzaro, Catania) sono ancora provvisorie. Il settore nel quale l'amministrazione giudiziaria ha mostrato maggiore vivacità, ottenendo buoni risultati che dovrebbero far sperare in un futuro migliore per il nuovo Codice, è senz'altro quello dell'automazione, nonostante la penuria degli stanziamenti finanziari. Gestione automatizzata dei registri penali, banca dati con tutte le informazioni sul singolo processo, nuovo sistema back up per il casellario centrale e gestione dello stesso ufficio in office automation, programma di interconnessione con gli altri archivi centrali della pubblica amministrazione: sono tutti programmi in corso che, anche se hanno dato scarsi risultati nelle realtà locali, potrebbero davvero consentixe, se portati a compimento, di far uscire la macchina giudiziaria dal corna irreversibile in cui si trova. 22
L'elenco delle cose fatte, di quelle in cantiere o ancora da fare, potrebbe continuare. Ma Vassaffi ha voluto ribadire ancora una volta che il vero problema della giustizia, nel 1989, è stato sempre quello finanziario. « L'emergenza giustizia - ha detto - è anche emergenza finanziaria », e quell' 1% del bilancio complessivo dello Stato, intorno al quale si è attestata la spesa per la giustizia, ne è una conferma. Nel 1990 è stato fatto un piccolissimo passo in avanti, passando dallo 0,78% del bilancio statale allo 0,81%. In termini di cifre si tratta di 4275 miliardi contro i 3814 dell'anno precedente; ma è ancora troppo poco per uscire dall'emergenza e questo dato, ha aggiunto il ministro, «è in aperta contraddizione con la conclarnata volontà politica di superare una crisi ormai più che decennale ».
CoNcLusIonE
Alla tempesta che, con l'inaugurazione dell'anno giudiziario, si è scatenata sul nuovo Codice, è seguito un periodo di relativa quiete, ma di vigile attesa. I magistrati, che per tanto tempo, sia prima che dopo l'entrata in vigore della riforma, non hanno dato tregua al ministro e al Governo, minacciando più volte uno sciopero, aspettano infatti di vedere se e quando gli impegni assunti dal Governo per migliorare la situazione si tradurranno in fatti. In un vertice a tre (ANM, Andreotti, Vassalli), svoltosi a palazzo Chigi il 21 dicembre scorso, il Presidente del Consiglio ha infatti promesso uno sforzo eccezionale dell'Esecutivo e del Parlamento per risolvere l'emergenza giustizia. Si è anche parlato di una sessione straordinaria delle Camere (a marzo '90) tutta dedicata ai provvedimenti più urgenti del settore. Una promes-
sa difficile da mantenere, visto l'intasamento dell'attività di Montecitorio. I deputati si erano impegnati ad approvare immediatamente, alla ripresa dei lavori parlamentari, la legge sul gratuito patrocinio e ad accelerare, in commissione, l'esame del testo sull'amnistia. Entrambi i provvedimenti, invece, sono ancora lontani dal traguardo. Sul fronte organizzativo, intanto, Andreotti si è fatto promotore di una singolare iniziativa. Ha pregato il neo presidente dell'iai, Franco Nobili, di mettersi in contatto con Vassalli per studiare assieme le lineè portanti di un piano di ristrutturazione dell'azienda giustizia. E la collaborazione è partita il 19 gennaio scorso, giorno in cui si è svolto il primo incontro fra Nobili e Vassalli. L'iniziativa del Presidente del Consiglio, anche se concordata con il Guardasigilli, ha però sorpreso gli uffici tecnici di via Arenula, dove si è subito diffuso un certo malumore dopo aver appreso le ragioni che hanno spinto Andreotti a chiedere l'intervento dei manager dell'rai nell'apparato giudiziario. « Non c'è niente di male - ha sostenuto il Presidente del Consiglio in proposito - perché uno può essere un meraviglioso giurista ma un pessimo organizzatore ». E infatti la disorganizzazione della macchina giudiziaria che preoccupa di più Andreotti, soprattutto da quando è entrato in vigore il nuovo Codice di procedura penale. Di fronte a questo problema, l'esiguità degli stanziamenti finanziari diventa un fatto secondario e accesso-
rio: « Se riusciremo a fare un piano di ristrutturazione - ha infatti affermato Andreotti - tutto il resto diventerà più semplice, anche trovare i denari ». Evidentemente, Andreotti e Vassalli hanno una visione diversa dei mali della giustizia e delle terapie per guarirla. Il primo minimizza sull'emergenza finanziaria, mettendo l'accento sulla ristrutturazione dell'apparato giudiziario, anche dal punto di vista tecnologico, assicurando che i soldi per finanziare un piano di risanamento si troveranno facilmente. Il secondo insiste invece sull'emergenza finanziaria, sottolineando che la perdurante insufficienza di fondi dimostra la scarsa volontà politica di affrontare seriamente il problema giustizia. Il campo di intervento dei manager dell'iru nell'amministrazione giudiziaria è ancora avvolto nel mistero. Ma, qualunque esso sia, l'operazione non è stata salutata con quell'entusiasmo che forse Andreotti si aspettava. Ecco perché, in ttesa di vedere quali frutti avrà dato la collaborazione mi-Ministero per il risanamento del settore (e soprattutto per non far faffire la riforma), i magistrati hanno deciso di continuare sulla strada delle verifica "in loco" degli uffici giudiziari. L'ANM sta infatti girando in lungo e in largo l'Italia per far parlare direttamente i magistrati e portare le loro testimonianze al prossimo incontro con Vassaffi e Andreotti, prima di dichiarare lo stato di guerra.
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Il Consiglio Superiore della Magistratura e l'identità dei magistrati di Maria Rosaria Ferrarese
L'intento di queste pagine è quello di porre in risalto come il csrvl, nella sua attuale configurazione istituzionale, sia leggibile come il prodotto di una complessa interazione con l'insieme dei magistrati. In altre parole, mi propongo di analizzare alcuni dei modi, dei percorsi e delle ragioni per cui, ad un certo punto della storia della magistratura italiana, il CSM diventa un referente importante per la stessa indentità dei magistrati. Questo tipo di impostazione tende dunque ad interpretare le trasformazioni che hanno investito l'organo di autogoverno dei giudici piuttosto come espressione di bisogni e problemi di "identità" della magistratura, che non come un mero effetto di modificati criteri elettorali o di composizione del CSM. Semmai, invece, è vero piuttosto il contrario: le modifiche inerenti ai criteri di elezioni e di composizione del CSM sono piuttosto effetti che cause: effetti di nuove funzioni e bisogni che l'insieme dei magistrati ha proiettato sull'organo di autogoverno.
ISTITUZIONI E PROBLEMI DI IDENTITÀ: LE VICENDE DI UN POTERE "DIFFUSO"
È opportuno precisare che cosa io intenda per "identità" della magistratura. L'identità è l'immagine generalizzata che ciascuno ha di sé stesso. Ma anche le istituzioni (ossia l'insieme di individui accomunati dall'appartenenza ad una data istituzione) condivido24
no generalmente una certa immagine di se stesse. Tale immagine contribuisce a forgiare il funzionamento della istituzione stessa, così come ogni persona è pesantemente condizionata nel proprio comportamento dal modo in cui è abituata a considerare se stessa. Le istituzioni, tuttavia, sono in gran parte regolate da un complesso di norme che è del tutto formalizzato e nel quale è tracciato lo schizzo generale. La gran parte delle istituzioni funzionano così, semplicemente adeguandosi a quello schizzo, limitandosi a forgiare quei vuoti che non sono espressamente regolati, o a interpretare in maniera più o meno letterale le norme regolatrici. In queste situazioni non esiste un problema di identità delle istituzioni. L'identità si pone come problema soltanto nei periodi critici dell'esistenza di una data persona o di una data istituzione: nei periodi di normalità l'identità viene data per scontata e non affiora come problema autonomo: ci si riconosce in un dato ruolo o in una certa funzione e semplicemente ci si comporta di conseguenza. Quando profonde trasf ormazioni investono una persona o una realtà istituzionale, invece, sorgono problemi di identità, ossia bisogni di ridefinizioni della propria immagine e ciò comporta un faticoso travaglio. Alla luce di queste brevi considerazioni, appare chiaro perché un problema di identità per la magistratura non si ponga fino alla fine degli anni 50. Fino ad allora, infatti, pre-
valeva una immagine di tipo burocratico del giudiziario: burocratici erano i modi di reclutamento dei magistrati, i criteri di avanzamento nella carriera, nonché gli stessi moduli di decisione giudiziaria, prevalentemente improntati a ciò che Merton chiama "ritualismo" burocratico'. Anche per quanto attiene ai rapporti tra magistratura ed altri poteri statali prevaleva un'idea di vaga subordinazione che veniva generalmente condivisa 2. Mancava inoltre una dimensione associativa di rilievo nella magistratura e dunque era carente una sede di dibattito. I magistrati si riconoscevano in un'immagine unitaria di carattere burocratico e corporativo ma ciò disegnava anche una fondamentale posizione di debolezza della magistratura rispetto agli altri poteri. Dunque la magistratura costituiva un potere unitario ma debole. Dagli anni '60 in poi, invece, si profila per la magistratùra un periodo di grande inquietudine in cui nuove domande scuotono il vecchio assetto. Chi sono i giudici? Qual'è il loro ruolo? Come si collocano rispetto alla politica ed alla società civile? Sono questi per i magistrati italiani anni di "movimento", ossia di grande mobiitazione ideale, di nuove domande e di nuove sensibilità. Il dibattito è molto animato e riaccende tra i magistrati la dimensione associativa che, nel congresso di Gardone del 1965, ritrova una inconsueta vivacità con il profilarsi di quesiti e problemi che mettono in crisi la tradizionale ideologia della separatezza del corpo giudiziario. Questa nuova mobiitazione ideale dei magistrati ha tuttavia alle sue spalle una realizzazione istituzionale importante: il varo del Consiglio Superiore della Magistratura, avvenuto nel 1958, primo segnale di fuoruscita della magistratura da una situazione di minorità rispetto agli altri poteri.
Da Gardone in poi, la comune riflessione che si sviluppa in seno al movimento tocca il giudice nella dimensione individualistica del suo lavoro, specie attraverso il tema dell'interpretazione. La scoperta dei connotati politici della professione giudiziaria si pone come conseguenza di una riconquistata libertà interpretativa e di un nuovo ruolo di "giudice della legge" reso possibile dalla Costituzione e dunque dalla possibilità per il giudice di attivare il giudizio incidentale di costituzionalità delle leggi. In questa nuova fase, dunque, il problema dell'identità della magistratura si pone proprio attraverso ilcarattere problematico delle domande che affiorano nel dibattito. Le risposte non sono univoche, si atteggiano a diverse ideologie ma sembra predominare al loro interno l'attenzione nei confronti del rapporto tra giudice e legge: è la valorizzazione degli spazi di libertà interpetrativa che dischiude le valenze politiche della professione giudiziaria. Al contempo, tuttavia, gli interrogativi nuovi ed i modi concreti in cui ad essi i magistrati danno risposta, sconvolgono, accanto ai moduli tradizionali del fare giustizia, anche i tradizionali rapporti tra i poteri nell'area del sistema politico, specialmente quello tra potere giudiziario e potere legislativo. Si scopre insomma che il potere giudiziario è un potere "diffuso" e viene dunque accentuata la dimensione individualistica del mestiere di magistrato. Si pensi alle rivendicazioni relative alla cosiddetta "personalizzazione della funzione" giudiziaria o al cosiddetto "uso alternativo del diritto" o alle varie teorizzazioni del pluralismo giudiziario: tutte queste istanze postulavano cambiamenti della magistratura che passavano prevalentemente attraverso linee di politica del diritto. I magistrati emergono dal viluppo burocratico, vogliono essere se stessi, rivendicano la 25
dimensione professionale del proprio lavoro, ma lo fanno attraverso un movimento associativo che moltiplica le valenze rivendicative fino ad estenderle a tutta la magistratura nel suo complesso. Dunque, paradossalmente, la valorizzazione del potere giudiziario come potere "diffuso" conduce ad una percezione sociale della magistratura come potere differenziato al proprio interno (appunto, diffuso) ma forte. Il frazionamento del potere giudiziario gioca insomma a favore di una identità forte della magistratura. La tesi che ora cercherò di sostenere è che, nella prima metà degli anni '70, quando questa fase si chiude e si trasforma ; sarà il CSM a diventare un referente essenziale per il bisogno di identità istituzionale della magistratura italiana. Le varie trasformazioni che coinvolgono il CSM deriveranno proprio da una complessa interazione tra l'insieme dei magistrati e tale polo istituzionale. Sul CSM si proiettano i bisogni di ricomporre l'identità della magistratura e di differenziarla nettamente rispetto agli altri poteri. Questo processo si compie attraverso una progressiva trasfusione dei caratteri della magistratura organizzata nell'organo di autogoverno. Così le correnti che, nell'ambito del movimento avevano mantenuto contorni assai fluidi, quando il movimento si spegne, vengono congelate nelle loro differenze. Ed è in questa veste che troveranno una progressiva rappresentazione nell' ambito dell'organo di autogoverno. Via via che si compie questo processo, il CSM diventa una sorta di luogo simbolico per identificare la magistratura. Il che significa sia che i magistrati individuano in tale istituzione un referente essenziale per la loro identità, sia che agli occhi della pubblica opinione il CSM si afferma progressivamente come una sorta di scorcia26
toia per il dibattito sulla magistratura. Finché i magistrati erano in una situazione di "movimento", la magistratura aveva mantenuto i caratteri, come si è detto, di un potere "diffuso", che, come tale, non aveva bisogno di un terminale istituzionale. Quando prevale il CSM come ente esponenziale della magistratura, il potere giudiziario comincia a ridisegnarsi come un potere unificato ma ancora debole. Contestualmente, l'affermazione del CSM come polo referenziale per i magistrati segna il passaggio da una magistratura che dibatte su temi di politica del diritto verso una magistratura che dibatte essenzialmente temi di politica della giurisdizione.
DAL MOVIMENTO ALL'ISTITUZIONE
La fine della situazione di "movimento" dei magistrati si verifica a ridosso di fenomeni che investono la società italiana nella prima metà degli anni '70: la nascita ed il rapido sviluppo di pratiche terroristiche; il disegnarsi di scenari di illegalità diffusa in ampi settori della vita politica ed economica; il montare di forme di criminalità cosiddetta "organizzata". Tutti questi fenomeni restringono sempre più l'ipotesi di una giustizia che possa funzionare come macchina moltiplicatrice dei diritti e come redistributrice, in chiave solidaristica, di beni ed opportunità che appartengono alla società di welfare. La magistratura si ritrova così a recitare un ruolo prevalentemente penalistico e repressivo al fine di creare argini contro la criminalità. Il magistrato penale diviene allora la figura di magistrato più presente nell'immaginario sociale. L'apparenza è di un giudiziario potente e dotato di ampia discrezionalità. L'abbondante discrezionalità, tuttavia, è una sorte di "valore d'uso" concesso alla magistratura in no-
me di una precisa delega imposta dal potere politico. Delegati alla gestione di problemi di indubbia rilevanza politica quali "la lotta al terrorismo»' o alla criminalità organizzata, i magistrati ricadono in una posizione di "ancillarità" nei confronti del potere politico a cui prestano un gran servizio assumendosi la gestione della "legislazione d'emergenza". Nel frattempo, attraverso la crescente curvatura penalistica assunta dalla magistratura, si sviluppa una nuova logica ispiratrice per l'esercizio della giurisdizione: quella del controllo di legalità. Tale funzionè appartiene istituzionalmente alla magistratura e in un paese come l'Italia, che dimostra una spiccata tendenza all'illegalità, non mancano certo le occasioni per l'esercizio di tale tipo di controllo. Il controllo di legalità si impone come l'unico efficace, d'altra parte, nella situazione di cronica inefficienza dei poteri di controllo amministrativo che caratterizza l'Italia. Tuttavia l'estensione del controllo di legalità pone sempre più in risalto la peculiarità cli due tratti tipici che lo accompagnano: l'obbligatorietà dell'azione penale e la capacità di iniziativa di cui alcuni magistrati (pretori e p.m.) sono dotati. Nasce così in Italia un attivismo giudiziario di stampo penalistico, che sembra interrompere un tratto tipico del bilanciamento tra i poteri, che Tocqueville, in riferimento all'America, aveva così descritto: "Per sua natura il potere giudiziario è privo di azione: bisogna metterlo in moto perché si muova. Gli si denuncia un crimine, ed esso punisce il colpevole: lo si chiama a riparare un'ingiustizia ed esso la ripara; gli si sottopone un atto ed esso lo interpreta, ma non va da solo a perseguire i criminali, a trovare l'ingiustizia, a esaminare i fatti. Il potere giudiziario farebbe in certo senso violenza a questa sua natura passiva, se prendesse lui stes-
so l'iniziativa e si atteggiasse a censore delle leggi" 3 L'attivismo dei magistrati penali italiani contraddice palesemente questi tratti di passività e disegnà un fenomeno inedito sulla scena occidentale 4 . Poco a poco, la capacità di esercizio dell'azione penale comincia ad assumere le valenze di una capacità di minaccia, con quel carattere di "indeterminatezza" che è proprio di questa'. Cresce così un clima di dissonanza tra magistratura ed alcuni settori della pubblica opinione, che via via travalicano la cerchia delle persone che hanno tutte le ragioni per temere l'estensione del controllo di legalità. .
La retrocessione della magistratura italiana nella graduatoria della pubblica opinione ha già alle proprie spalle il "movimento" dei magistrati spentosi, come si è detto, nelle convulsioni provocate al paese dal terrorismo. Ma, contestualmente al progressivo raffred-. damento del movimento, si attua un graduale passaggio di consegne dalla magistratura associata all'organo di autogoverno. Ma anche il CSM dà qualcosa in cambio all'insieme dei magistrati. Il CSM eredita dalla magistratura organizzata essenzialmente la problematica dell'identità politica della magistratura, che ricomprende al proprio interno sia il tema dei rapporti con gli altri poteri, sia quello del riconoscimento ufficiale dei diversi schieramenti ideologici nati nell'ANM. In compenso, il CSM fornisce alla magistratura organizzata non soio un luogo unitario nel quale poter ricomporre la propria immagine, ma altresì una parola d'ordine che costituisce il nuovo simbolo per l'identità della magistratura: autogoverno. Proverà ora ad esaminare queste forme di scambio. 27
AUTOGOVERNO E IDENTITÀ POLITICA
chiara continuità rispetto al tema dell'apertura dei magistrati al controllo della pubblica opinione, che era stato così presente nel Il CSM eredita la problematica della identità dibattito degli anni '70. politica della magistratura e del suo rapporMa il problema dell'identità politica della to con gli altri poteri. Per essere all'altezza magistratura tende a riflettersi anche sulla di tale problema, il CSM non può più restare composizione dell'organo di autogoverno: via rinchiuso dentro una dimensione meramenvia che il dibattito interno alla magistratura te tecnico-amministrativa. organizzata si indebolisce e si cristallizza in Il processo di estensione delle funzioni del correnti ben definite e differenziate, queste CSM inizia attraverso un allargamento delle individuano nel CSM una sorta di ente espocompetenze consiliari verso quei provvedinenziale nel quale confluire ed essere rapprementi che riguardano non più solo i magistra- sentante. Così la magistratura organizzata ti, ma piuttosto lo stesso funzionamento delfornisce all'organo di autogoverno un modell'amministrazione della giustizia; nasce inlo di organizzazione interna di tipo speculasomma il cosiddetto "potere di indirizzo" del re. Opera cioè una sorta di tecnica bonsai per CSM. L'estensione delle funzioni amministrala riproduzione su scala ridotta nell'ambito tive verso esigenze di "governo della giuridel CSM delle varie espressioni della magistrasdizione" implica già una valenza di carat- tura associata. Questo tipo di tecnica è, per tere politico. Mentre, infatti, le funzioni la verità, quella abitualmente usata per la foresplicitamente assegnate dalla Costituzione, mazione degli organi di carattere rappresenquelle amministrative in materia di assunziotativo che, come nel caso del Parlamento, ne, assegnazione e trasferimenti, così come hanno proprio la funzione di essere sedi di quèlle giurisdizionali in materia disciplinare, dibattito oltre che di decisione. In un orgacontemplando decisioni a misura di no di amministrazione, invece, la composimagistrati-individui, il "governo della giurizione di carattere speculare non sempre è del sdizione" richiede uno sguardo più alto e ge-. tutto funzionale alle esigenze di decisionalinerale, squisitamente di tipo politico. Diven- tà dell'organo: soprattutto nel caso del CSM ta altresì necessaria una capacità di colloquio si è spesso profilata una contraddizione tra con le altre istituzioni statali, specie Goverquesti due aspetti. no e Parlamento, ciò che è stato chiamato, Tutto ciò trova espressione in un processo con felice espressione, "potere di esternazioa più tappe legislative che progressivamente ne" del CSM6 . disegna l'organo di autogoverno della magiMa la rivendicazione e la riuscita acquisiziostratura come un corpo "a composizione ne di un diritto di intervento in tutte le virappresentativa" 7 e comunque, con valenze cende che riguardano giudici e giurisdizione rappresentative 8 si iscrive in una logica di carattere politico Questa è la trasformazione istituzionale più anche per l'uditorio al quale il CSM sembra interessante che registra il CSM nell'ambito progressivamente rivolgersi: la pubblica opidi un quadro generale di estensione delle pronione. Non a caso questo processo trova comprie funzioni. pimento nella decisione del CSM, attuata nel 1982, di dare carattere di pubblicità alle proMolto si è discusso di questa curvatura istiprie sedute. Anche qui si può ravvisare una tuzionale assunta dal CSM e variegate sono DELLA MAGISTRATURA
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state le posizioni in proposito sia in dottrina costituzionale, sia nel dibattito politicoistituzionale. A voler tentare una rapidissima rassegna di posizioni, si passa da coloro che registrano con perplessità questo cambiamento, a coloro che accettano e teorizzano fino in fondo come legittima ed opportuna l'assunzione di una valenza rappresentativa da parte del Consiglio. C'è chi, pur negando che il CSM abbia una funzione rappresentativa della magistratura, ritiene che sia "necessario o comunque preferibile che nel CSM si proiettino (o meglio: continuino a proiettarsi) tutte le aggregazioni che caratterizzano il difficile mondo della magistratura" 9 : ciò inf atti equivale a rafforzare il Consiglio che, comunque, non può essere ristretto entro un ruolo puramente b urocratico bo. C'è chi fa risalire la rappresentatività del CSM non solo alla presenza dei membri togati ma anche alla presenza di membri eletti dal Parlamento. In questa luce il CSM diviene rappresentativo non solo e non tanto della magistratura, ma assume i connotati di "una istituzione di derivazione parlamentare' '11• C'è chi parla di una "accentuata capacità del Consiglio superiore di assumere la rappresentanza di interessi generali" dimostrata, ad esempio, attraverso le azioni punitive decise nei confronti dei magistrati compromessi coi poteri criminali 12 . C'è, infine, chi esplicitamente parla di una compartecipazione del CSM all'esercizio della sovranità' 3 . Si può dunque parlare di rappresentatività in un duplice senso: una rappresentatività rispetto all'insieme dei giudici o una rappresentatività rispetto a quegli "interessi generali" che sono di competenza degli organi politici14 . Senza entrare nel dibattito su un piano di diritto costituzionale, ciò che qui interessa osservare è come il carattere rappresentativo del CSM, soprattutto nel primo dei sensi in-
dicati (ossia come rappresentativo della magistratura), abbia funzionato, incidendo sulla decisionalità del Consiglio e, più in generale, sulle dinamiche del sistema politico. Mi limiterò a quattro brevi osservazioni. La funzione rappresentativa ha certo potenziato le valenze del csm come istituzione di rilievo politico in quanto, postulando il potere di parlare per conto della realtà aggregata dei magistrati potenzia l'interazione con le altre espressioni del potere statale, nonché la comunicazione con la pubblica opinione. La rappresentatività ha prodotto nel CSM una logica di funzionamento non sempre coerente con la logica del "governo", anche se gestito in forma di "autogoverno". Mentre, infatti, la rappresentatività produce la tendenza a salvaguardare un'immagine compatta e unitaria della magistratura, la logica del governo ipotizza anche momenti di possibile conflitto con i magistrati governati. La rappresentatività ha nuociuto alla decisionalità dell'organo di autogoverno, assoggettandola a logiche di scambio, di mantenimento del consenso e così via. In tal senso lo stesso esercizio delle funzioni amministrative del CSM ne ha risentito, ritrovandosi spesso bloccato in situazioni di stallo decisionale. La rappresentatività, funzionando sulla base della riproduzione di correnti ideologiche in seno al CSM, produce un congelamento delle differenze tra i vari schieramenti ogni volta che avvengano aggiudicazioni in contraddittorio, come è nel caso dell'azione disciplinare. Come appare dalle quattro notazioni appe29
na esposte, quando si parla di una funzione rappresentativa svolta dal CSM rispetto alla magistratura, occorre ulteriormente distinguere: tra una rappresentanza nei confronti della magistratura unitariamente intesa ed una rappresentanza nei confronti delle varie espressioni ideologiche che si sono consolidate in sede associativa. Il Consiglio superiore tende a svolgere entrambe queste funzioni. Secondo quanto detto nei punti i e 2, il CSM tende a salvaguardare un'immagine unitaria della magistratura ogni volta che interloquisce con gli altri poteri o che svolge funzioni amministrative in cui evita di assestarsi su una logica di "governo". Quando, tuttavia, sono in gioco aggiudicazioni di carattere conflittuale, che toccano il CSM come rappresentante di diverse correnti di magistrati, sono possibili due tipo di esito: o Io stallo decisionale provocato dal bilanciamento tra le varie posizioni, o l'accentuazione delle diversità, che pone in maggiore trasparenza il funzionamento di un meccanismo decisionale "a somma zero" 15 Il funzionamento del CSM è dunque gravato da un'insanabile contraddizione tra una tendenza a proporsi come il luogo unitario dell'identità della magistratura ed una tendenza a riprodurre, nell'esercizio delle proprie funzioni, le differenti posizioni ideologiche esistenti in seno alla magistratura. Tre ulteriori conseguenze sono derivate dall'accentuarsi del carattere rappresentativo del CSM. Il primo luogo una chiara situazione di sovraccarico di funzioni in capo al Consiglio superiore. In secondo luogo, un fenomeno che vorrei chiamare di orizzontalizzazione dell'organo di autogoverno: ossia la tendenza di questo a situarsi più accanto ai magistrati, che al di sopra di essi in una logica di governo. In terzo luogo, un effetto di appiattimento istituzionale: un CSM che riproduce specularmente le posizioni ideologiche pre.
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senti nell'ANM ha finito per omologare le dinamiche presenti nella magistratura, allineando vita associativa e funzionamento dell'autogoverno in una comune logica di ispirazione. Non a caso sono divenute frequenti le lamentele relative all'impoverimento della vita associativa ed alla trasformazione dell'ANIvI in un luogo di formazione delle candidature per il CSM16. Esiste dunque una relazione inversa tra il processo di rafforzamento del CSM come referente per l'identità della magistratura e l'impoverimento che negli anni '80 si è registrato nella vita associativa dei magistrati. Oggi le correnti dei magistrati appaiono al contempo più strutturate e variegate, ma altresì più laiche. Ciò significa altresì che esse si sono progressivamente "allontanate dai giudici, sul piano di una effettiva rappresentanza culturale e politica. Conseguenza di ciò è stata la ricerca di un consenzo da parte delle correnti fondato più sulla tutela degli interessi del giudice che sulla proposta politica per una migliore resa del servizio" 7 . Ma un'ottica di questo tipo non poteva non trovare proiezione sul CSM, quale organo deten.tore del potere di amministrare i giudici. La perdita di peso della vita associativa dei magistrati trova riscontro anche sui piano della letteratura: se negli anni '60 era possibile scrivere una storia della magistratura attraverso le sequenze della vita associativa, così caratterizzate sul piano ideologico, come fece Moriondo 1 s, oggi una storia di questo tipo sarebbe del tutto inefficace per cogliere le reali dinamiche dei magistrati italiani.
LA CULTURA DELL'AUTOGOVERNO E I SUOI PARADOSSI Ho finora esaminato come il movimento associativo dei magistrati abbia dato in gestio-
ne al CSM il problema dell'identità politica della magistratura, nonché il proprio modulo di organizzazione interna. Ebbene, l'insieme di tutte queste funzioni, travasate nel CSM è stato spesso stigmatizzato con l'espressione "acchiappatutto" di politicizzazione del CSM. Sotto tale etichetta, infatti, si sono spesso accomunati fenomeni diversi, quali, ad esempio: la mera proporzionalità della composizione del Consiglio; il conquistato potere di interloquire con gli altri poteri statali in rappresentanza dell'insieme dei magistrati; la capacità di comunicazione con la pubblica opinione; l'esercizio di un tipo di decisionalità ispirato più da logiche di corrente che non da logiche di governo della magistratura. Come si può osservare, ciascuno di questi aspetti trova origine e ispirazione nelle dinamiche del movimento associativo, quale si era espresso specie nella prima metà degli anni Settanta. Se la magistratura organizzata fa ereditare al CSM questo complesso di caratteri, il CSM, per converso, fornisce alla magistratura una sorta di parola d'ordine che è via via assurta al ruolo di unificatore simbolico di una magistratura in realtà ormai abbastanza divisa al proprio interno. La parola d'ordine è: "autogoverno". L'esaltazione dell' autogoverno avviene contestualmente alle note vicende di scontro tra magistratura e potere politico e di attacchi sempre più scoperti contro l'eccessivo potere dei giudici, che intaccano la sacertà delle sedi politiche ed amministrative. Sul filo di questa vicenda, la magistratura si assesta progressivamente su una funzione di controllo di legalità, funzionale sia alle esigenze generali di un moderno stato a conf igurazione sociale, sia alla particolare situa-
zione della vita pubblica italiana e delle sue numerose cadute di legalità. L'autogoverno si giustifica dunque come strumentale rispetto alle esigenze di tutela del potere giudiziario impegnato in un'azione di difesa della legalità. L'autogoverno ha le stesse radici e le stesse giustificazioni dell'indipendenza della magistratura. Come l'indipendenza, l'autogoverno serve a garantire essenzialmente due cose: libertà di giudizio nello svolgimento delle funzioni giudiziarie; le condizioni per un libero esercizio del controllo di legalità anche nei confronti degli altri poteri 19 Oltre a svolgere un ruolo essenziale ai fini dell'indipendenza della magistratura rispetto agli altri poteri, l'autogoverno è stato funzionale anche all'emergenza del potere giudiziario come vero e proprio "terzo potere", ossia come potere che si colloca in posizione di parità rispetto agli altri poteri. .
L'autogoverno è stato dunque la via italiana all'indipendenza della magistratura. Certo non esiste al mondo nessun altro paese che tuteli l'indipendenza dei giudici come l'Italia con il suo organo di autogoverno dei magistrati20 . Forse proprio questa situazione induce a interrogarsi sul paradosso della impopolarità che ha ad un certo punto travolto la magistratura italiana 21 Senza voler rispondere a tale complesso interrogativo, che certo implicherebbe la chiamata in correità di svariati fattori e di diversi soggetti, mi limiterò ad alcune osservazioni relative al significato dell'autogoverno. Una prima notazione riguarda la differenza semantica tra "indipendenza" ed "autogoverno": mentre l'indipendenza rinvia ad una condizione caratterizzata in negativo (non dipendere da alcuno), l'autogoverno, invece, si caratterizza per un tipo di azione marcatamente in positivo: ci si governa da soli. .
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Ma oltre che un'accezione non passiva, l'auticalità del CSM rispetto ai magistrati. togoverno contiene un esplicito riferimento Ma nonostante, o forse proprio a causa di alla magistratura come corpo unitario: menquesto processo di appropriazione del.csM tre l'indipendenza, infatti, trova il suo prinda parte dei magistrati, non hanno tardato cipale terreno di esplicitazione su 1 un piano ad insorgere conflitti ed ambivalenze tra i individuale, l'autogoverno, invece, fa riferimagistrati ed il loro organo di autogoverno. mento alla magistratura nel suo insieme e troIl numero crescente di ricorsi presentati ai va espressione in un corpo di rilievo costituTAR contro decisioni del CSM è il sintomo più zinale. L'autogoverno, insomma, presenta un evidente di un disagio crescente di una sicarattere di grande concretezza e di compiuta tuazione a due poli. Da un canto i magistraistituzionalizzazione che l'indipendenza certi scoprono nel CSM una "concentrazione di to non può raggiungere. poteri" 23 ed una discrezionalità che rischiaL'autogoverno della magistratura è dunque no di profilare nuovi rischi di dipendenza una misura istituzionale di grande rilievo, so"interna". Si pensi al dibattuto problema dei prattutto per un Paese come l'Italia, che è poteri d'inchiesta dell'organo di autogoverparticolarmente permeabile alle influenze ed no o alla mancanza di tassatività delle ipotealle pressioni di carattere politico e partitico. si che rendano praticabile l'azione discipliTuttavia per la magistratura italiana l'autonare. D'altro canto il CSM scopre nei magigoverno è stato più che un meccanismo ististrati la tendenza ad opporsi ad una politica tuzionale di tutela: l'autogoverno ha subito di governo che comprometta vecchi privileuna dilatazione simbolica, che l'ha trasf orma- gi e prerogative: si pensi all'annoso probleto in una chiave di autoidentificazjone della ma degli incarichi extragiudiziari, fattosi magistratura. troppo ingombrante agli occhi dei settori più Essendo divenuto il CSM il luogo ed il refe- sensibili della magistratura 24, ma che ha spesrente essenziale per l'identità della magistraso trovato numerosi magistrati restii ad actura, si è creato un fenomeno di circolarità cettare le tendenze restrittive mostrate dalsempre più spinta tra l'insieme dei magistrati l'organo di autogoverno negli ultimi anni. ed il loro organo di autogoverno. Più questa circolarità si è fatta stretta, più si è creata Si è insomma creata una situazione paradosuna catena di reciproci legami e dipenden- sale per la quale, da un lato, in capo al CSM ze. E caduta insomma la prospettiva del CSM si è verificata una concentrazione di poteri come "potere a sé stante", che sta in qualtalora disagevole per gli stessi magistrati, dalche modo parzialmente fuori della l'altro lato, il CSM è stato tuttavia spesso acmagistratura 22 e si delinea una situazione cusato di essere un decisore debole ed un cuper la quale non solo i magistrati apparstode troppo compiacente nei confronti di altengono al CSM ma anche il CSM appartiecuni vizi del mondo giudiziario 25 . La valone ai magistrati. Ho parlato prima di un rizzazione dell'autogoverno, in altri termini, processo di orizzontalizzazione dell'organon è stata sufficientemente utilizzata per gano di autogoverno: esso ha trovato es- rantire un governo della magistratura e delpressione, tra l'altro, nella domanda se la giurisdizione che fosse in grado di coml'autogoverno comporti una vera e propria pensare la perdita di prestigio che queste hanforma di governo. Il porsi stesso ditale dono registrato negli ultimi anni di storia manda è segno evidente di una perdita di ver- italiana. 32
queville, non hanno tuttavia perso del tutto la propria validità. In secondo luogo, il brano citato pone in rilievo come le istituzioni funzionano non solo sulla base delle norme che esplicitamente le regolano e delle interpretazioni ed attuazioni che a tali norme si riferiscono, ma anche sulla base di criteri non scritti, di prassi e costumi che si affermano e che svolgono un ruolo regolatore non meno rilevante. Vi sono insomma, forme di in-i gegneria istituzionale che non sempre passano attraverso canali formali, ma che sono estremamente importanti ai fini del processo di adattamento delle istituzioni a mutate condizioni o esigenze. Non a caso, quando, agli inizi degli anni '70, la magistratura aveva conquistato nuovi spazi di potere e nuove forme di indipendenza rispetto agli altri poteri, era stata teorizzata una nuova strategia di bilanciamento: di contro all'assunzione di un ruolo, in senso lato, politico, i magistrati dichiaravano di assumere nuove forme di cosiddetta "responsabilità politica": il che significava l'esposizione "Gli americani hanno affidato ai loro tribunali un potere politico immenso: ma ne hanno di molto diminuidel loro operato all'opinione pubblica e nuoto i pericoli costringendoli ad impugnare le leggi soio ve forme di trasparenza dell'istituzione con mezzi giudiziari. giudiziaria28 . Come ho già detto in precedenSe il giudice avesse potuto pronunciarsi contro le leggi za, questo principio elaborato nell'ambito del in modo teorico e generale; se avesse potuto prendere movimento dei magistrati, trova poi concrel'iniziativa e censurare il legislatore in modo teorico e generale; se avesse potuto prendere l'iniziativa e centa applicazione nel CSM, tramite l'accoglisurare il legislatore, sarebbe entrato con scandalo nella mento del criterio della pubblicità delle scena politica; divenuto il campione o l'avversario di un sedute. partito, avrebbe eccitato tutte le passioni, che dividoTuttavia, vi è oggi la comune consapevolezno il paese, a prender parte alla lotta. Ma quando il giuza che tale criterio di bilanciamento non abdice censura la legge in un oscuro dibattito e in un'applicazione particolare, egli nasconde, in parte, l'imporbia retto alla prova dei tempi. L'inasprimento tanza dell'attacco agli sguardi del pubblico. La sua sendel giudizio della pubblica opinione sull'opetenza non ha altro fine che di colpire un interesse indirato dei giudici ha trovato infine un epilogo viduale; la legge risulta toccata solo per caso" 27 in occasione del referendum sulla responsaCredo che l'importanza di questo passo sia bilità civile. Ma anche al di là ditale episodio, i mezzi di comunicazione di massa handuplice. In primo luogo, esso indica degli speno fornito larga eco ad episodi di grave, etacifici criteri di bilanciamento, che, pur con lora eccessivo, dissenso manifestato nei congli adattamenti resi necessari dal tempo trafronti dell'operato dei giudici, anche in setscorso rispetto all'epoca in cui scriveva Toc-
Una nuova acquisizione di prestigio appare infatti indispensabile supporto per consolidare la magistratura in un ruolo di vero e proprio terzo potere e per garantire l'esercizio di una efficace funzione di controllo di legalità nelle sue mani 26 Quando si decanta il modello americano di giudiziario, nel quale ai giudici viene riconosciuto un vero e proprio ruolo di carattere politico, si deve aggiungere che tutto ciò è possibile anche grazie al fatto che la repubblica americana accetta il potere dei suoi giudici e tributa loro un grande prestigio. Grazie a ciò, il giudiziario è efficacemente inserito nel gioco di checks and balances che caratterizza il sistema politico americano. Ma ciò significa non solo che i giudici sono autori di forme di controllo, ma che sono anche soggetti ad alcune limitazioni. È proprio Tocqueville, l'autore che più ha descritto i fasti del giudiziario americano, a ricordarlo in più occasioni; egli, ad esempio, osserva: .
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tori, come quello del diritto minorile, dove, data la delicatezza della materia, una sintonia tra modelli di intervento giudiziario e modi di sentire in ambito sociale, sarebbe davvero auspicabile. Più in generale, per salvaguardare le esigenze di "controllo di legalità" che, come si sa, nel nostro sistema sono particolarmente rilevanti, occorre ripensare ad un difetto di bilanciamento che si è creato nel contesto italiano, che ha al contempo premiato e danneggiato la magistratura. La cultura dell'autogoverno, inf atti, ha in un primo momento creato le condizioni perché finalmente la magistratura assumesse nelle sue mani un efficace controllo di legalità. La dilatazione simbolica dell'autogoverno, tuttavia, nella misura in cui rafforzava i magistrati in una posizione di reale indipendenza nei confronti degli altri poteri, produceva una posizione di arroccamento della magistratura: come se le esigenze di controllo di legalità provocassero uno spostamento nell'organigramma dei poteri, conquistando al giudiziario una collocazione alta, perché è dall'alto che il controllore fa la sua parte. La logica dei checks and balances è invece altra: è quella di elaborazioni istituzionali che permettano contemporaneamente di essere controllori e controllati, di continui rimescolamenti di competenze, che non lascino spazio al consolidarsi di posizioni di preminenza. Insomma, autoidentificandosi troppo in una chiave di autogoverno, e dunque di indipendenza rispetto agli altri poteri, la magistratura ha ad un certo punto trascurato i rischi di un affievolimento della propria immagine, derivante da un eccessivo appiattimento su una funzioiie di carattere penalistico e su un ruolo tutto proteso verso una funzione di controllo. Il risultato era una "tragica situazione" che Tarello così stigmatizzava nel 34
1984: "sempre più spesso si invocano garanzie contro i giudici; segno che in relazione alle paure degli individui, i giudici appaiono come potere massimo e gli altri poteri appaiono come possibili tutori" 29 .
IL CSM E LA PROFESSIONALITÀ DEI MAGISTRATI
Dalle cose fin qui dette appare che il CSM ha mostrato la tendenza a privilegiare un profilo istituzionale più attento alle interazioni con gli altri poteri o alla difesa verso l'esterno della magistratura, che incline a ripercorrere i complicati fili della professionalità giudiziaria e a riparare gli sfilacciamenti che via via si sono andati producendo su questo piano. Oggi, tuttavia, il ruolo che il CSM potrebbe svolgere per la ricostruzione del prestigio della magistratura non potrebbe eludere la dimensione della professionalità e della efficenza del servizio prestato dai magistrati. La richiesta di efficienza, per la verità, oggi chiama in causa anche un problema di scarsità di risorse che assedia la cittadella della giustizia e che certo non dipende dall'organo di autogoverno. Ma, per quanto attiene agli spazi che sono di competenza del CSM, vi sono molte cose da, fare. Due direzioni di azione appaiono particolarmente importanti: una rivolta a curare nuovi standars di deontologia giudiziaria, l'altra più esplicitamente rivolta verso variabili professionali vere e proprie. Per quanto attiene al primo aspetto, esso appare di particolare importanza in un momento in cui la crisi della forma legge mette in crisi la tradizionale concezione della legalità, creando molti vuoti nell'azione giudiziaria, vuoti che i magistrati riempiono alla meglio e spesso con spirito di improvvisazione. Si pensi ad alcuni settori, come quello mi-
norile ad esempio, dove le valenze prescrittrici della legge sono particolarmente deboli e richiedono di essere integrate da cognizioni e competenze anche di carattere extragiuridico: qui il giudice è lasciato completamente solo ad elaborare i propri modelli di azione e ricevere delle indicazioni di carattere deontologico sarebbe di grande rilievo per la costruzione di modelli di azione giudiziaria unitari. La deontologia, infatti, serve anche a creare dei contenitori generali,per i comportamenti, che in parte sollevano da responsabilità l'individuo impegnato in un certo comportamento professionale: la deontologia gioca dunque anche a favore dell'unificazione delle premesse di comportamento. Un impegno del CSM su questo piano richiederebbe un incremento dell'amin.inistrazione "ordinaria" della giurisdizione, ossia una presenza vigile e costante, che permetta una emanazione continua ed il più possibile univoca di messaggi di carattere deontologico. Una cultura deontologica può funzionare come una opportuna compensazione all'indebolimento o all'assenza di carattere burocratico. Proprio l'acquisizione di caratteri professionali da parte della magistratura chiama in causa una "duplice esigenza: portare avanti e completare l'indipendenza della magistratura emancipandola dai poteri burocratici interni; creare nei giudici una coscienza costituzionale del proprio ruolo, fatta anche di
sei!-rest raint' La seconda direzione verso cui dovrebbe rivolgersi la imprenditorialità istituzionale del CSM è quella di una riorganizzazione della professionalità giudiziaria. È questo un tema che ha trovato già più volte eco in vari settori della magistratura, via via che cresceva la sensazione di un processo di decadimento burocratico pieno di privilegi ma sordo ad esigenze di efficienza e di dinamismo della
giurisdizione31 . Com'è stato ben detto, in tema di professionalità dei magistrati è "necessaria una analisi sufficintemente "laica", che colga anche le disf unzioni organizzative eventualmente indotte da alcune particolarità proprie della magistratura, perché connesse ai principi costituzionali posti a garanzia del giudiziario" 32 . Basterà qui segnalare solo alcuni punti più importanti, che sono stati qui e lì toccati nel dibattito. a. L'esigenza di ridisegnare la geografia giudiziaria rendendola adatta a rispondere a bisogni funzionali. Com'è stato ricordato, nel nostro Paese vi sono cinque aree metropolitane (Roma, Milano, Napoli, Palermo e Torino), che da sole assorbono più del 50% del carico giudiziario nazionale 33 . La ripartizione dei magistrati e di tutte le strutture che accompagnano il loro lavoro, che peraltro è notoriamente insufficiente, certo non sta in nessun rapporto con questa percentuale. Il che implica, peraltro, che vi siano situazioni di profonda disparità tra gli stessi magistrati. 1,. L'esigenza di rivedere i criteri di giudizio che assegnano quasi esclusiva priorità all'anzianità di servizio: si tratta di una logica burocratica, che non è da meno di quella che dà luogo alla cosiddetta "onniscienza gerarchica", ossia all'idea che chi sta più in alto nella scala gerarchica ha una competenza generale che abbraccia tutte quelle che stanno ai gradini inferiori34 . Nella nuova logica burocratica, che sta più in alto, in un organigramma ormai quasi privo di altri riscontri, lo decidono lo scorrere del tempo e la longevità delle persone 35 .
c. Non meno perversa è la presupposizione che la competenza professionale, verificata al momento del concorso per l'ingresso in magistratura, sia dotata del dono della per35
manenza eterna e non abbia bisogno né di un iter formativo, né di stimoli ed indicazioni successivi, né di alcuna verifica nel corso della carriera giudiziaria 36
si può rilevare l'importanza del ruolo che il ha svolto per l'identità istituzionale della magistratura. Dopo gli anni del movimento, infatti, è in quest'organo che i magistrati hanno trovato una ricomposizione della prod. L'ultimo punto è forse il più delicato, perpria immagine ed un luogo simbolico della ché può toccare un principio costituzionale propria unità. Anche il motto dell'autogoverposto a tutela dell'indipendenza dei giudici: no ha giocato una parte rilevante, contriquello della inamovibiità. Anche in questo buendo a dare ai magistrati la misura istitucaso, tuttavia, una tutela costituzionale, prezionale della propria indipendenza e dunque vista in chiave strumentale, è divenuta un varafforzandoli in una posizione di vero "terlore assoluto, trasformandosi in un'area di zo potere". privilegi privati dei magistrati. Anche queLa cultura dell'autogoverno ha dunque consto tema ha cominciato ad affiorare nel diquistato la magistratura italiana nell'ultimo battito, mettendo in luce l'anacronismo di decennio, in un clima di crescente rilievo deluna pregiudiziale difesa dell'immobilismo che la funzione di controllo di legalità. Ma, cocaratterizza la carriera di tanti magistrati itame si è cercato di mettere in rilievo, la dilaliani, in un mondo che è contraddistinto ortazione simbolica dell'autogoverno in chiamai proprio dalla mobilità e dal ve di autoidentificazione, ha contribuito a cambiamento". produrre delle deformazioni che andrebbero corrette. 1'autogoverno e gli allargamenOgnuno di questi aspetti chiama in causa un ti di competenze istituzionali in seno al CSM nuovo ruolo del Consiglio superiore: si trat- devono riconquistare una più precisa dimenta di valorizzare l'autogoverno, al fine di assione istituzionale. Il che significa che devosumere nuovi progetti istituzionali. L'autono essere inseriti in una logica funzionale: governo è, insomma, un enorme patrimonio l'autogoverno non è un valore a se stante, che accumulato dalla magistratura, un patrimoserve a gratificare l'identità dei magistrati, • nio che va investito in direzione di nuovi trama è piuttosto una misura strumentale, che guardi della giurisdizione: se esso divenisse serve a garantire l'indipendenza soprattutto fine a se stesso, fonte e protezione di piccoli "esterna" della magistratura. L'indipendene grandi privilegi, non solo rischierebbe di za, a sua volta, va circoscritta in una logica assumere il respiro corto del corporativismo, strumentale: essa si giustifica in quanto serma realizzerebbe un enorme spreco di risorve a favorire una funzione giurisdizionale lise istituzionali, mortificando il rilievo costibera da condizionamenti e pressioni, a saltuzionale del CSM e i grandi spazi di azione vaguardare la sacrosanta libertà di convinciche esso ha saputo conquistare: la grande mento del magistrato. Ma se l'indipendenza montagna, alla fine, avrebbe solo partorito diviene fine a se stessa, essa vale ad espanun topolino. dere indebitamente il ruolo del giudice, rendendolo una sorta di superpotere. Per circoscrivere correttamente la concezioIL CSM E LA CULTURA ne dell'indipendenza del giudice si può utiDELL'ISTITUZIONE GIUDIZIARIA lizzare il riferimento alla differenza che corTirando le fila di quanto si è fin qui detto, re tra la concezione negativa e la concezione 36
CSM
positiva di libertà: tra la "libertà da" e la "libertà di". L'indipendenza dei magistrati non dovrebbe eccedere i confini di una libertà di segno negativo, che neutralizza controlli, pressioni o interferenze indebiti. Talvolta, invece, ha prevalso, in alcuni settori e voci della magistratura, la tendenza a spaziare in forme di "libertà di". Per la verità, alcune forme di libertà di segno positivo, segnatamente in campo interpretativo, sono ormai entrate nello spazio di azione professionale del magistrato, a seguito di profondi mutamenti intervenuti nel modo di f are le leggi e nel rapporto tra legge ed interprete. La stessa concezione della legalità è oggi profondamente mutata e differisce sensibilmente dai vecchi miti che l'accompagnavano nel passato. Detto ciò, tuttavia, una cosa è una cultura istituzionale che di ciò abbia la giusta consapevolezza e che anzi si faccia carico di elaborare nuove strategie professionali e consapevolezze politiche per essere all'altezza dei nuovi compiti: altra cosa è, invece, una teorizzazione istituzionale che tenda a tradurre la crisi della legge in un immediato guadagno di potere del giudice: allora il giudice, perduta la bussola costituita dalla legge, si può ritrovare a creare nuovi criteri di orientamento, tutt' altro che trasparenti 38 Si pensi in proposito a certe teorizzazioni in tema di pluralismo giudiziario. Anche qui si è talora passati dal rilevare una diversificazione del panorama giurisprudenziale che, non risparmiando neanche la Corte di Cassazione, detentrice ufficiale della funzione nomofilattica, non potrebbe certo scandalizzare in altre zone della giurisdizione, all'esaltarla come un ingrediente di democrazia: esso sarebbe, insomma, la cartina di tornasole del radicamento di diverse concezioni ideologiche nella magistratura e dunque proprio la pluralità di indirizzi comproverebbe .
una sorta di carattere rappresentativo della magistratura rispetto alla società civile 9 La diversificazione delle risposte giurisdizionali, tuttavia, per quanto in parte ineludibile, non è priva di conseguenze negative. E per almeno due ragioni. Innanzitutto perchè, com'è stato giustamente osservato, "il dialogo attraverso provvedimenti, prima di dar luogo ad una sintesi, ha comportato per i destinatari effetti gravemente differenziati e difficilmente accettabili. La personalizzazione della risposta giudiziaria ha procurato sconcerto e distacco rispetto ad una delle funzioni essenziali dello stato" 40 . In secofido luogo, perché rischia di indurre distorsioni anche nella società e nel suo modo di rapportarsi alla giurisdizione; si pensi in proposito alla diversificazione di risposte giudiziarie nei vari gradi della giurisdizione: certamente essa risponde ad una ragione di garanzia ed è del resto oggetto di una tutela costituzionale; ma quando travalica certi limiti fisiologici, rischia di tramutarsi in un fattore di incremento della litigiosità 41 , oltre che in una nuova ragione di sconcerto. Una cultura matura della giurisdizione deve insomma essere in grado di liberarsi di scorie che derivano da una fase di transizione della magistratura verso una nuova collocazione istituzionale, non più di carattere ancillare nei confronti degli altri poteri. Queste scorie derivano da un processo di trasformazione che è stato lungo e complesso e che trova radice anche in dinamiche più generali dello stato di welfare. I vari sintomi di una seria crisi della giurisdizione mostrano che è tempo di disegnare una nuova cultura istituzionale. .
PER UNA NUOVA CULTURA DELL'ISTITUZIONE GIUSTIZIA
Le culture (o dottrine) istituzionali possono 37
essere causa o conseguenza del comportamenre trasparenza e suscitare paure e timori in to di una data istituzione. In altri termini, una sfera di azione interpersonale. non sempre le istituzioni sono l'applicazioUna più accentuata cultura istituzionale serne di una dottrina ma spesso le dottrine e ve a mitigare questi aspetti, diventa un utile le filosofie istituzionali sono la conseguenza correttivo alla forma diffusa del potere giudi questa o quella scelta di una data diziario, ed al carattere personale che esso istituzione42 . Anche la magistratura, come può assumere. Una più accentuata cultura tutte le istituzioni, funziona sulla base di dot- istituzionale non potrebbe certo riaccendetrine che le hanno assegnato e che essa stesre i vecchi miti della neutralità del giudice sa si è data. Gli ultimi anni di storia della o della assoluta subordinazione alla legge o magistratura italiana hanno mostrato una dell'oggettività della verità giudiziaria, né poparticolare capacità della magistratura assotrebbe elidere il pluralismo giurisprudenziaciata di elaborare dottrine capaci di modifile, ma potrebbe servire a correggere certi eccare sensibilmente alcuni aspetti del compor- cessi di personalismo che si intravedono taltamento degli organi giudiziari, contrappo- volta. Soprattutto dovrebbe contribuire a nendosi ad una lunga tradizione in cui essa ravvisare il circuito della fiducia tra cittadiera stata governata attraverso dottrine della ni ed istituzione giudiziaria. funzione giudiziaria che l'avevano subordiUn movimento culturale di questo tipo ininata agli altri poteri. In questo contesto, per zia già a serpeggiare in alcuni punti della madebellare il clima burocratico preesistente, è gistratura e non può che trovare spazio nelemerso, talora con prepotenza, il potere che l'ambito della magistratura associata. Qui la si addensava nelle mani del giudiziario e che "sottovalutazione del significato istituzionale costituiva la premessa per un diffuso controldella funzione giurisdizionale" dovrà trovalo di legalità. re dei correttivi, sia per quanto attiene ad Oggi, proprio perché questa funzione non aspetti di "lettura eccessivamente individuavenga messa a tacere, un rafforzamento dellistica del rapporto giudice-legge"', sia per la cultura istituzionale dei giudici dovrebbe quanto attiene, più in generale, all'immaginascere nel seno stesso della magistratura. ne del giudiziario che è presente nell'immaUna cultura istituzionale è pàrticolarmente ginario sociale. Ma anche il Consiglio Supenecessaria per delineare i confini degli spazi riore potrebbe svolgere un ruolo utile sotto d'azione del giudiziario, che è collocato in tale profilo, tanto più in quanto esso, come un punto delicatissimo del sistema politico, si è cercato di mettere in rilievo, non è toladdove si gestisce "l'uso della forza". Cotalmente altro rispetto alla magistratura asme ebbe ad osservare Kelsen, in uno scritto sociata, ma ha invece saldi canali di costansulla democrazia, l'idea di potere dello stato te comunicazione con questa. Così, senza doha anche una matrice democratica: essa "cover invadere sfere di competenza che non gli pre il fatto, insopportabile ad una sensibili- appartengono, potrebbe svolgere un ruolo di tà democratica, di un dominio dell'uomo sul- stimolo culturale, organizzando seminari di l'UOM01144 Ebbene il giudiziario, nello stastudio e di confronto culturale tra magito moderno, è l'unica istituzione forse, dostrati ed, ancor più, esercitando le proprie ve una forma di vero e proprio "potere delfunzioni secondo una più salda logica istil'uomo sull'uomo" può acquistare particolatuzionale.
38
Note i R. K. MERTON, Teoria e struttura sociale, voi. 11, Il Mulino, Bologna 1970, p. 403 e ss. Il ritualismo equivale ad una "incotestata insistenza su una aderenza puntigliosa alle regole formali" (p. 410) e produce "incertezze nelle decisioni, mentalità conservatrice, tecnicismo" (p. 413). Va tuttavia rilevato che la struttura giudiziaria tradizionale, pur se improntata a una logica generale di carattere burocratico, conteneva anche elementi "meritocratici" rappesentati dalle procedure di promozione dei magistrati. L'abolizione di ogni forma di promozione e la graduale introduzione dell'automatismo della carriera giudiziaria hanno in tal senso paradossalmente accentuato alcune valenze burocratiche della magistratura, producendo una situazione in cui i magistrati "condividono i medesimi interessi e questo fenomeno è favorito dal fatto che la competizione è relativamente limirata dall'esistenza di un progresso di carriera in termini di anzianità" R. K. MERTON, Ibidem, p. 413. Sulla riforma a più tappe della carriera dei magistrati, realizzata dal 1966 al 1973, con un parziale correttivo introdotto dalla Corte Costituzionale nel 1982, si veda G. BORR, C'è ancora una "carriera" in Magistratura?,in A. PIGNATELLI E C. VIAzZI (a cura di), La professione del giudice, Quaderni di « Questione Giustizia », Franco Angeli, Milano 1986. Sui tratti burocratici della magistratura italiana, si veda G. Di FEDERICO, La professione giudiziaria e il suo contesto burocratico, in « Rivista trimestrale di diritto e di procedura civile », 1978, p. 798. 2 Sulla transizione da tale situazione verso un contesto di conflittua]ità rispetto agli altri poteri, mi sia consentito rinviare al mio L'istituzione difficile. La magistratura tra professione e sistema politico, E.S.I., Napoli 1984. Si veda inoltre G. REBUFFA, La funzione giudiziaria, Giappichelli, Torino 1988. A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, U.T.E.T., Torino 1968, pp. 123-124. M. R. FERRARESE, Judicial Activism and Judges in CriminalJurisdiction in Italy, in « Revue Internationale de Sociologie International Review of Sociology », n.2/1987. Ibidem, pp. 15 1-152. 6 L'espressione, coniata da Motzo per indicare il ricorso a prese di posizione pubbliche del Capo dello stato, viene da S. Bartole utilizzata in riferimento al C.S.M.,
in Scritti in onore di Costantino Mortati. Aspetti e tendenze del diritto costituzionale, vo1. IV,. Giuffrè, Milano 1977, p.22. L. DAGA, Il Consiglio Superiore della Magistratura, Jovene, Napoli 1973, p. 290 e Ss.
Sulle varie tappe che conducono il C.S.M. ad acquistare tale fisionomia, si veda E. BRUTI LIBERATI, Note 8
sulla composizione e sul sistema elettorale del Cosiglio Superiore della Magistratura, in « Questione giustizia i>, n. 4 11984 . E. P. BoisoFAcIo, Relazione 'al convegno su « Il Consiglio Superiore della Magistratura nell'attuale quadro istituzionale », organizzato dall'Associazione Vittorio Bachelet, il 13 febbraio 1987, i cui atti sono pubblicati in « Documenti giustizia », Supplemento al n. I. La citazione è tratta da p. 7. 10
Ibidem.
Il
V. Fiossru, Relazione al suddetto convegno, p44
della stessa rivista. 12
A. PIZZORUSSO, Relazione allo stesso convegno, p. 19;
di questo A. si veda altresì, Il Consiglio Superiore della Magistratura nella forma di governo vigente in Italia, in « Questione giustizia », n5 2/1984, p. 303. 13 S. Senese, ad esempio, definisce il Cosiglio "una sede per molti versi legata alle istanze della sovranità popolare". Si veda Il Cosiglio Superiore della Magistratura:
difficoltà dell'autogoverno o difficoltà della democrazia?, in « Questione giustizia », n. 311983, p. 487. 14 Questo carattere può derivare al CSM anche dal riconoscimento di una funzione rappresentativa ai magistrati. L. Ferrajoli, ad es. ritiene che la funzione giudiziaria tragga legittimazione direttamente dal popolo, in virtù dell'art. 101 della Costituzione. Si veda, Diritto e ragione, Laterza, Bari 1989, p. 602.
"Il richiamo pubblico ed ufficiale di gruppi di componenti il Consiglio a partiti politici, a prescindere dalla maggiore o minore personale inclinazione alla indipendenza cli giudizio ed agli attejgiamenti diversi che, con la loro "rappresentanza", tengono i diversi partiti, comporta un evidente condizionamentu nella condotta in Consiglio. Accade infatti, anche per la pubblicità delle sedute, che la etichetta partitica solleciti attese di comportamento conforme alle posizioni esterne del partito ed ai suoi interessi". Così V. ZAGREBELSKY, Tendenze e problemi del Consiglio superiore della magistratura, in « Quaderni costituzionali », n. 111983, p. 127. 2
16 Sulla relazione tra ANM e CSM si veda E. BRUTI LrBERATI, Associazionismo giudiziario è autogoverno, in « Democrazia e Diritto », n. 4-5/1986, specie p. 118 e ss. Tale saggio compare anche nel numero di « Documenti giustizia i> sopra citato. Il M. Alrvw.RIGu, Magistrati e crisi associativa, in S. MANNIJZZIJ e F. CLEMENTI (a cura di), Crisi della giurisdizione e crisi della politica, Franco Angeli, Milano 1988,
p. 250.
39
18 E. MosuoNDo, L'ideologia della magistratura italiana, Laterza, Bari 1967. Il Sull'indipendenza si veda C. GUARNIERI, L'indipendenza della magistratura, Cedam, Padova 1981, dove, tra l'altro, si mette a fuoco la problematica dell'indipendenza "come mezzo" e "come fine". 20 In tal modo il giudiziario partecipa anche alle funzionidi policy-moking. Si veda ancora C. GUARNIERI, cit., p. 78. 21 G. PALOMBARINI, Il magistrato è da buttare?, in « Micromega », n. 1/1986. 22 ANNUNZIATA, Cenni sulla natura dell'ordine giudizia-
rio, del Consiglio Superiore della Magistratura e sui rapporti tra loro (anche aifini di eventuale modifica del Consiglio), in Giur. it. 1973, IV, p. 40 e ss., cit. in S. Bartole, cit. 23 Su questo tema si vedano ancora i confronti di Bartole e di Zagrebelsky già citati. 24 Si veda S. .SENESE, cit., p. 501. 21 In proposito G. Di FEDERICO, La crisi del sistema giu-
diziario e la questione della responsabilità civile dei magistrati, in P. Corbetta e R. Leonardi, (a cura di), Politica in Italia, I/atti dell'anno e le interpretazioni. Edizione 1988, Il Mulino, Bologna 1988, specie p. 108 e ss. 26 S. Rodotà ha ripetutamente sottolineato l'importanza di questa forma di controllo nel nostro sistema. Si veda, Le politiche del diritto ieri e oggi, nel volume curato da Mannuzzu e Clementi, già citato. ' A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cia., p. 126. 28 Si veda in proposito E. Cheli, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Il Mulino, Bologna 1978, p. 143 e ss. 25 G. TARELLO, Chi ci salverà dal governo dei giudici?, in « Mondoperaio », n. 3/1984, p. 30. 3 0V. ACCATrATIS, Indipendenza epoliticizzazione dei giu-
dici nella storia della Associazione Nazionale Magistrati, in « Questione Giustizia », n. 3/1986, p. 761. 31 Si veda in proposito la relazione di G. FALCONE, La professionalità e le professionalità del giudice, presentata al primo convegno del "Movimento per la giustizia", Milano, novembre 1988. 32 V. FAzIO, Formazione prnfessionale e cambiamento: una
proposta di analisi sulla magistratura,in « Questione giustizia », n. 2/1985, p. 294. "Si veda L. VIoi..N'rE, Giustizia come servizio, in « Democrazia e Diritto », n. 4-5 1986, p. 127. 31 Si veda G. FREDDI, Tensioni e conflitto nella magistratura, Laterza, Bari 1977. 33
"L'attuale assenza di un qualsivoglia significativo flesso tra prestazioni giudiziarie e conseguimento dei benefici della carriera ( ... ) ha dato il via - soprattutto in
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un corpo reclutato con modalità burocratiche — alla ricerca di gratificazioni esterne alle strutture giudiziarie in misura prima impraticabile" e specialmente al "proliferare degli incarichi extragiudiziari". Così G. Di FEDERICO, la crisi del sistema giudiziario..., cli., pp. 109-110. 36 Sulle differenze tra il nostro Sistema formativo e quello di altri paesi europei, si veda A. MESTITZ, Laformazio-
ne professionale dei magistrati in una prospettiva comparata, in "Documenti giustizia", 1988, n. 9. " Si veda la polemica denuncia di questo problema fatta da G. CoREl, Giudice, alzati e cammina, in « La Repubblica» 15 novembre 1989. 38 In questo rischio incorrono posizioni come quelle di S. Senese allorché, dopo aver rilevato una crisi della legge che impedisce ormai di ritrovare la legittimazione del giudice nel principio di legalità, crede di rinvenire tale legittimazione nella capacità del giudice di farsi interprete del "patto sociale", come se questo fosse dotato di maggiore trasparenza rispetto alla legge e non fosse invece vero proprio il contrario. Si veda S. SENESE, Democrazia, sovranità popolare e giurisdizione, in « Questione giustizia », n. 211987. Si vedano altresì le posizioni di dissenso manifestate, rispetto a tale tesi, da E. PACIOTri, Osservazioni sul rapporto giudice-legge, nello stesso numero di « Questione giustizia » e da L. DE RUGGIERO, La legittimazione del potere del giudice oggi in Italia, in « Questione giustizia », n. 1/1988. 39 Si veda G. Boiuo., A. MARTINELLI, ROVELLI, Unità e varietà della giurisprudenza, in « Foro italiano », n. 5, 1971. 40 V. ZAGREBELSKY, Dalla varietà delle opinioni alla unità della giurisprudenza, in Crisi della giurisdizione e crisi della politica, cit., p. 203. Anche R. BERTONI rileva che, "dopo la provvidenziale rottura del conformismo giurisprudenziale e del monopolio di vertice delle iniziative giudiziarie, è molto diffuso un bisogno di certezza e di rinnovata uniformità, che pure deve essere appagato non foss'altro che per rispetto del fondamentale principio di uguaglianza tra i cittadini", in L'ordinamento giudiziario tra vecchio e nuovo, in « Politica del diritto », n. 2/1985, p. 252. 41 M. R. FERRARESE, Civil Justice and the Judicial Role in Italy, in « The Justice System Journal », '.'oI. 1312, 1988/89, pp. 180-181. 42 M. TROPER, Osservazioni sullo statuto del concetto di rappresentanza politica, in « Filosofia politica », n. 1/1988, 197. 41 Per un'analisi delle dottrine della funzione giudiziaria, G. REBUI'PA, La funzione giudiziaria, cli. 44 H. KELSEN, Ifondamenti della democrazia, il Mulino, Bologna 1970, p. 15. 'V. ZAGREBELSKY, Dalla varietà delle opinioni ... , cit., 203.
Il nuovo codice di procedura: quale futuro per la giustizia penale di Alessandro Criscuolo
Il 24 ottobre è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.P.R. 22 settembre 1988 n. 447, recante l'approvazione del (nuovo) codice di procedura penale, destinato ad entrare in vigore un anno dopo la pubblicazione (art. I, co. 2 1 , D.P.R. cit.). Contestualmente sono state approvate le disposizioni sul processo penale a carico d'imputati minorenni (D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448) e le norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni (D.P.R. 22 settembre 1988 n. 449). Con legge I febbraio 1989 n. 30 sono state poi costituite le preture circondariali, destinate ad avere un ruolo importante nel quadro del nuovo processo. L'evento, o piuttosto il complesso di eventi racchiuso nella normativa qui richiamata, è d'importanza straordinaria per più aspetti. Non solo, infatti, è stata varata la prima grande codificazione della Repubblica, ma sono state infine realizzate le aspirazioni d'intere generazioni di studiosi del processo penale, che nel superamento del codice Rocco (approvato con R.D. 19 ottobre 1930, n. 1399) avevano ravvisato un test significativo,per misurare il grado di ammodernamento della nostra società. Il nuovo codice segna il passaggio da un modello processuale d'impronta autoritaria (sbiadita ma non rimossa dalle riforme novellistiche e dagli interventi della Corte costituzionale che si son succeduti nel corso degli anni) ad un modello dl stampo
fortemente garantista, senza dubbio ben più conforme del precedente agli indirizzi ed ai valori della Costituzione. Se, come sovente si dice, il tasso di civiltà di un paese si misura anche dalla struttura del suo processo penale, è sostenibile che quello destinato ad entrare in vigore in Italia ci ponga ad un livello notevolmente avanzato. Inoltre.l'impianto del nuovo codice appare tecnicamente ben concepito, saldamente collocato nel solco delle elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza più moderne, coerente con gli impegni internazionali assunti dallo Stato in tema di tutela di diritti della persona. A questi motivi di legittima soddisfazione, peraltro, si accompagnano anche preoccupazioni di non poco momento. Esse concernono sia le incertèzze sulle concrete possibilità di buon funzionamento del nuovo modello processuale allorché dovrà confrontarsi con l'assoluta gracilità delle strutture strutture di supporto, sia .il grado d'incidenza che quel modello potrà avere nell'azione condotta dallo Stato per reprimeIe i gravissimi fenomeni di criminalità organiziata presenti in varie parti del paese, sia l'inevitabile cambio di mentalità, di prassi consolidate, di organizzazione del lavoro che sarà richièsto agli operatori della giustizia. Si tratta dunque di un quadro caratterizzato da luci ed ombre, come le pagine che seguono cercheranno d'illustrare.
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L'IMPIANTO GENERALE DEL NUOVO CODICE
Il testo del nuovo codice di procedura penale si compone di undici libri per complessivi 746 articoli (quello ancora vigente ne conta 675, sicché almeno sul piano numerico non può dirsi realizzato l'auspicio di quanti avevano desiderato un codice più agile e snello). Il primo libro è dedicato ai soggetti del processo (giudice; pubblico ministero; polizia giudiziaria; imputato; parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria; persona offesa dal reato; difensore). Il secondo libro tratta degli atti, con particolare riguardo alla documentazione, alle notificazioni, ai termini e alle nullità. Il terzo libro reca la disciplina delle prove, distinguendo - dopo una parte destinata alle disposizioni generali tra mezzi di prova e mezzi di ricerca della prova (l'art. 189 attribuisce rilevanza anche alle prove non disciplinate dalla legge, se risultano idonee ad assicurare l'accertamento dei fatti e non pregiudicano la libertà della persona). Il libro quarto concerne le misure Lautelari, distinte in personali e reali. Il libro quinto riguarda le indagini preliminari (cioé le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale: art. 326) e l'udienza preliminare, istituisce il giudice per le indagini preliminari(che nei casi previsti dalla legge, provvede sulle richiete del pubblico ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato: art. 328), regola il nuovo istituto dell'incidente probatorio. Il libro sesto è dedicato ai procedimenti speciali (giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti, giudizio direttissimo, giudizio immediato, procedimento per decreto). Il libro settimo disciplina la fase del giudizio, il libro ottavo il procedimento davanti al pretore (con la significativa innovazione costituita dall'istitu'zione del procuratore 42
della repubblica presso la pretura circondariale), il libro nono le impugnazioni (appello, ricorso per cassazione, revisione). Il libro decimo riguarda la fase dell'esecuzione e, infine, il libro undicesimo regola i rapporti giurisdizionali con autorità straniere, esecuzione all'estero di sentenze penali italiane). Già le sole enunciazioni dei libri e dei titoli danno la misura delle profondissime trasformazioni che interverranno nel nostro sistema processuale penale. I limiti del presente scritto non consentono un'analisi dettagliata di codeste trasformazioni. In via di estrema sintesi, e per limitare il discorso a quelle più importanti, osserviamo che scompare l'attuale fase istruttoria (sommaria o formale), alla quale subentra la fase delle indagini pIeliminari, di cui sono soggetti attivi la polizia giudiziaria e il pubblico ministero. Si tratta di una fase circoscritta nel tempo (la durata ordinar'ia, per i reati di competenza del tribunale, è di sei mesi, prorogabili fino ad un massimo di due anni), al termine della quale il pubblico ministero, quando non deve richedere l'archiviazione, esercita l'azione penale attivando uno dei procedimenti speciali, quando ne ricorrano le condizioni, ovvero con richiesta di rinvio a giudizio. L'attività di polizia giudiziaria e del pubblico ministero non è finalizzata alla formazione delle prove ma alla ricerca degli elementi che poi, prodotti in dibattimento nel contraddittorio delle parti, assumeranno spessore e consistenza di prove (qualora il giudice dell'udienza preliminare ritenga che quegli elementi giustifichino la fissazione del giudizio). È pre vista la possibilità di procedere alla formazione della prova anche nel corso delle indagini preliminari attraverso il meccanismo dell'incidente probatorio, ma solo in casi particolari (art. 392) e sempre nel contraddittorio delle parti. In sostanza, mentre nel sistema tuttora vigente la prova si raccoglie e si
forma durante la fase istruttoria e in assenza della difesa (tranne gli atti tipici cui il difensore ha diritto di partecipare), con il nuovo codice di procedura la prova sarà raccolta e formata durante il dibattimento (fatta eccezione per l'incidente probatorio) e comunque sempre in contraddittorio. Il pubblico ministero vede fortemente accentuato il suo ruolo di parte nel processo (sia pur con le peculiari caratteristiche proprie della funzione pubblica che esercita), gli ven-gono sottratti i poteri coercitivi (già peraltro notevolmente ridotti con la legge 5 agosto 1988 n. 330), ma diventa unico dominus della funzione inquirente, però entro limiti temporali definiti. È soppressa la figura del giudice istruttore. È istituito l'ufficio del giudice per le indagini preliminari, che però è del tutto privo di poteri inquirenti ma provvede, durante la fase delle indagini preliminari, sulle richieste delle parti. Notevolmente potenziato è il ruolo del difensore, destinato a partecipare direttamente alla formazione della prova (con le connesse maggiori responsabilità, quanto meno circa l'allegazione degli elementi a discarico o degli elementi necessari per contrastare quelli addotti dall'accusa). Del tutto trasformato è l'istituto del pretore, cui è riservato un corposo allargamento della competenza per materia (sintomo della perdurante tendenza del legislatore verso il giudice monocratico di primo grado). Infatti: a) è istituito l'ufficio del pubblico ministero presso il pretore,. sicché vien meno l'anomalia costituita dall'attuale titolarità dell'azione penale in capo allo stesso magistrato che poi procede al giudizio; b) scompare l'antica e gloriosa figura del pretore mandamentale, perché gli attuali mandamenti diventano sedi distaccate delle preture circon-
dariali (il che avrà riflessi anche nel processo civile); c) il giudice per le indagini preliminari, nel procedimento davanti al pretore, è accentrato presso la pretura circondariale, mentre si farà luogo ai dibattimenti nelle sedi distaccate (evidentemente per i reati rientranti nella competenza territoriale di tali sedi). Il dibattimento non sarà più, come oggi avviene spesso, un momento di ricognizione di quanto già compiuto in fase istruttoria, bensì diventerà - per i processi che perverranno alla fase del giudizio - la sede privilegiata di formazione della prova e di accertamento dei fatti. L'imputato vedrà molto più garantita la sua libertà personale. Le misure restrittive potranno essere disposte .solo in casi specifici (sussistenza di inderogabili esigenze attinenti alle indagini, concreto pericolo di fuga, concreto pericolo che l'imputato commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, o diretti contro l'ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede: cfr. artt. 273-274). Dovranno essere immediatamente revocate quando vengono a mancare le cpndizioni che ne avevano giustificato l'emissione. I termini di custodia cautelare vengono ridotti. Un ruolo importante è riservato ai procedimenti speciali (o riti abbreviati), al cui buon funzionamento dovrebbe essere affidata la definizione di parte consistente del contenzioso penale, in modo da lasciare (tendenzialmente) alla fase del giudizio soltanto i processi più importnti e delicati. L'effetto sperato è quello di ottenere una notevole riduzione della durata dei processi, giunta oggi a livelli intollerabili. 43
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PRINCIPALI NODI APPUCATIVI
Come si è detto, il nuovo codice si presenta ben concepito sulo piano tecnico. Chi si dedica all'esame di esso, tuttavia, specialmente se è un pratico del diritto (avvocato o magistrato) non riesce a sottrarsi alla sensazione che il testo sia stato redatto in un quadro alquanto astratto, senza adeguata ponderazione del contesto concreto in cui sarebbe stato chiamato ad operare. Questo, per la verità, è un antico difetto del legislatore italiano, il quale spesso si dispensa da qualsiasi indagine di compatibilità tra la formazione che emana e la realtà in cui la formazione medesima dovrebbe spiegare i suoi effetti. La conseguenza è che frequentemente le riforme si rivelano deludenti quando addirittura non falliscono. Ad un rischio del genere non si sottrae il nuovo codice di procedura, sia per ragioni esterne al sistema processuale, sia per ragioni (per così dire) intrinseche ad esso. Cercheremo qui di seguito d'individuare codeste ragioni, prospettando anche quelle che, a nostro avviso, potrebbero essere le soluzioni. Sul piano esterno, non è possibile ignorare che la giustizia penale italiana si presenta all'appuntamento con la riforma del processo, gravata da un immune carico di lavoro. Le norme transitorie provvederanno a regolare il difficile momento di passaggio. Ma non potranno incidere sulla mole del carico, che dovrà pure essere definito in qualche modo ed imporrà quindi di distogliere dal nuovo processo un numero notevole di magistrati, destinati alla definizione dei procedimenti pendenti o di buona parte di essi. E ciò mentre il nuovo sistema processuale, come meglio si vedrà in seguito, richiederà senza dubbio un maggior numero di magistrati (è previsto un incremento dell'organico, peraltro modesto, 44
ma - tenuto conto dei tempi tecnici per l'espletamento dei concorsi - non è prevedibile che i nuovi assunti possano essere immessi in servizio prima di due o tre anni, sicchè non saranno disponibili proprio nel momento più delicato che è quello del passaggio dal vecchio al nuovo rito). Sembra dunque inevitabile pensare a provvedimenti di clemenza, come l'amnistia e l'indulto, per quanto discutibile pàssa esser considerato il ricorso a tali istituti. Meglio incorrere in una deroga ai principii che rischiare la paralisi. Va poi considerato che il sistema penale italiano è caratterizzato da un numero di norme incriminatrici sicuramente eccessivo. Questo è l'effetto del panpenalismo, che ha condotto ad utilizzare lo strumento della sanzione penale per reprimere fattispecie che avrebbero potuto trovare strumenti di dissuasione magari più efficienti in sanzioni civili o amministrative. Da gran tempo la cultura giuridica ha indicato la via della depenalizzazione, che il legislatore ha imboccato ma con una timidezza non più giustificata dai tempi. L'ultimo intervento generale di depenalizzazione è quello di cui alla legge 24 novembre 1981 n•. 689. L'art. 34 di essa, però, recava una serie di esclusioni che hanno finito col ridurne in misura consistente la portata. Sembra giunto il momento di rivedere in senso restrittivo tali esclusioni, limitando la sanzione penale soltanto alla fattispecie che destano serio e concreto allarme sociale. E perfino superfluo ricordare che la sospensione o la revoca di una licenza di commercio per chi viola la disciplina degli alimenti, la chiusura obbligatoria del cantiere per chi viola le leggi relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, la demolizione o l'incommerciabilità dell'immobile per chi costruisce in violazione delle leggi in materia urbanistica ed edilizia, se realmente e sollecitamente comminate, possono avere effetto deter-
feriranno correre l'alea di vedersi comminarente ben superiore a qualche mese di arresto o di ammenda (con la sospensione e la re una pena magari un po' più grave, ma all'esito di un giudizio molto più lungo con le non menzione) irrogati al termine di un lungo processo, sempre che si riescano ad evi- incognite che questo può riservare? La rispotare gli scogli delle nuffità e della prescrizio- sta a codeste domande non è facile, perché ne o l'intervento di altre cause estintive. In è affidata anche al mutamento di prassi e mentalità oggi radicate, come quella che inassenza di un'ulteriore depenalizzazione, duce l'imputato (pur quando ha ottenuto tutquindi, non sarà facile avviare il nuovo proto ciò che gli si poteva concedere, come le cesso penale. attenuanti generiche, il minimo della pena, Questo sul piano esterno. Venendo agli aspetti interni del nuovo mo- i benefici della legge) a sperimentare tutti i gradi di giurisdizione nella speranza di un dello processuale, bisogna dire con chiarezevento (mutamenti di giurisprudenza, nulliza che la sua riuscita è attualmente affidata tà processuali, intervento di cause estintive) ad alcune ipotesi, che finora nessuno s'è che gli consenta di veder posta nel nulla o preoccupato di verificare almeno a livello di ulteriormente differita la condanna. Sul nuosemplice previsione. vo processo, comunque, grava l'alea qui seLa principale di tali ipotesi, a nostro avviso, è costituita dal funzionamento dei procedi- gnalata; solo la sperimentazione nel vivo della menti speciali o riti abbreviati. Può aversi per realtà giudiziaria potrà dire se e in qual misura essa è destinata ad incidere. certo, infatti, che la nuova disciplina del dibattimento, imponendo ivi la formazione della prova, ne renderà meno sollecita la cele- Altra grossa incognita è costituita dagli effetti che provocherà la scomparsa del giudibrazione. Ciò significa che se oggi la sezioce istruttore. Questo istituto è tipico del mone di un tribunale può trattare in udienza 12 dello di processo inquisitorio, sicché la sua o 15 processi, e definirne una buona parte soppressione era una scelta obbligata. per il (perché almeno il presidente conosce già gli legislatore nel momento in cui si era optato atti e il collegio può avvalersi delle prove racper un modello processuale (tendenzialmencolte durante l'istruzione), con il nuovo rito il numero dei processi definiti in ciascuna te) accusatorio. Tuttavia non è possibile ignorare che tutti o quasi i processi delicati e comudienza sarà senz'altro minore. Pertanto soplessi, che si sono celebrati in Italia nel corlo un minore afflusso alla fase del giudizio potrà bilanciare la riduzione del numero di so degli anni, provenivano dall'istruzione formale. Quando in processi con quelle caratprocessi definiti in dibattimento (altrimenti teristiche si è inteso rinunziare al titolo forsi arriverà progressivamente, ma in tempi male per procedere con il sommario (come non lunghi, alla paralisi). E codesto minor afè avvenuto, per esempio, nel processo per l'oflusso potrà esser provocato solo dal funziomicidio del consigliere Chinnici) i risultati namento dei riti abbreviati. Va ricordato, a non sono stati positivi. Nel nuovo processo tal proposito, che per alcuni di questi (giudizio abbreviato, applicazione della pena su la fase delle indagini preliminari, rientrante nella competenza della polizia giudiziaria e richiesta delle parti, e, per taluni aspetti, andel pubblico ministero, è finalizzata non alche il giudizio immediato) occorrono la richiesta o almeno il consenso degli imputati. la formazione delle prove (riservata al dibattimento) bensì a consentire le determinazioVorranno costoro avvalersi di quei riti? o pre45
ai inerenti all'esercizio dell'azione penale. Si tratta di un sistema che nei processi ordinari (o di routine), con pochi imputati e per fatti di noti elevata complessità, dovrebbe risponder bene, specialmente per una più sollecita definizione delle procedure. Ma nei processi più gravi, per fatti di criminalità organizzata o economica, avverrà lo stesso? Riesce difficile immaginare che, nel contesto attuale, vicende come quelle delle banche di Sindona o del vecchio Banco Ambrosiano, che hanno richiesto anni e anni d'indagini, possano rivelarsi compatibili con.i tempi relativamente ristretti entro i quali le indagini preliminari dovranno concludersi. Basta considerare che oggi, solo per riscostruire certi movimenti contabili nei meandri della società di capitali e degli istituti di credito, occorrono mesi; e quando quei meandri si prolungano all'estero (il che avviene sempre più spesso) i tempi si allungano a dismisura. C'é dunque il rischio che il nuovo sistema funzioni bene per i fatti di inicrocriminalità e si riveli invece scarsamente efficiente di fronte alla criminalità più grave e aggressiva. Non occorre spender molte parole per sottolineare la gravità di un rischio del genere, che, se si avverasse, segnerebbe un pesante arretramento del controllo di legalità nel nostro paese, rispetto ai livelli finora raggiunti (pur con le note insufficienze che caratterizzano l'esercizio della giurisdizione). Per eliminare, o almeno attenuare, il pericolo qui segnalato occorre un forte potenziamento, prima di tutto, della polizia giudiziaria. Il nuovo codice accentua il rapporto di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero. Ma esso conserva in toto il rapporto di dipendenza con i corpi che la esprimono e che, com'è noto, sono diversi e sovente non coordinati (i carabinieri fanno capo al Ministero della difesa, la polizia di Stato al Ministero dell'interno, la guar46
dia di finanza al Ministero delle finanze, per limitarsi agli organismi più importanti). La conseguenza è che il pubblico ministero non ha possibilità d'intervenire sugli organici della polizia giudiziaria; non può interloquire sulla scelta degli uomini che vanno a costituirla; non ha incidenza sui movimenti e sui trasferimenti, nulla o quasi può fare per accrescere la professionalità degli ufficiali e degli agenti in relazione ai compiti specifici loro demandati. In un simile contesto il cennato rapporto di dipendenza funzionale può rivelarsi del tutto insufficiente per una adeguata organizzazione delle indagini volte alla ricerca degli elementi attraverso i quali produrre le prove. Si ripropongono in sostanza, ma in forma aggravata, problemi antichi e mai risolti circa il contenuto da attribuire al precetto costituzionale (invero troppo generico) secondo cui l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria (art. 109 Cost.). E auspicabile che il Parlamento e il Governo si decidano finalmente ad affrontarli con determinazione, se non vogliono compromettere gravemente la riuscita della riforma del processo. Problemi in parte analoghi si pongono anche per l'ufficio del pubblico ministero. Senza dubbio il nuovo codice richiederà a quest'organo un notevole incremento di professionalità, sia nella ricerca degli elementi per la prova dei reati, sia nella scelta degli strumenti processuali più adeguati per farli valere, sia nello svolgimento della dialettica dibattimentale. Tutto ciò, alla lunga, non resterà senza conseguenze sul piano ordinamentale, perché la specifica professionalità acquisita dal pubblico ministero potrebbe condurre quanto meno alla formazione di ruoli separati rispetto ai magistrati del settore giudicante. A parte tale profilo di più lungo periodo, nell'immediato bisognerà porre particolare attenzio-
ne alla costituzione dei nuovi uffici. E sicuramente si potrà un problema di organici, essendo prevedibile che l'allargamento dei compiti demandati al PM renderà insufficienti i magistrati attualmente addetti alle procure. Né è pensabile che il maggior numero di magistrati occorrente possa esser prelevato dai giudici addetti al settore giudicante. A parte il problema connesso alla garanzia costituzionale della inamovibiità, c'è da dire che anche questo settore andrà incontro a gravi difficoltà. E prevedibile, per esempio, che il nuovo ufficio del giudice per le indagini preliminari (che poi dovrà provvedere, secondo l'interpretazione più accreditata, anche all'udienza preliminare) - stante la molteplicità dei compiti demandatigli - richieda un numero di magistrati superiore a quello attualmente destinato agli uffici istruzione. Se a tutto ciò si aggiunge il rilievo che l'istituzione degli uffici del pubblico ministero presso le preture circondariali per definizione comporta l'esigenza di un aumento degli organici, è agevole pervenire al convincimento che l'attuale composizione degli uffici giudiziari nel penale - sia nel settore giudicante che in quello requirente - è del tutto insufficiente a fronteggiare le necessità derivanti dalla entrata in vigore del nuovo codice di procedura. Vanno poi considerati i tempi necessari per immettere in carriera nuovi magistrati: dal bando di concorso al conferimento delle funzioni passano, di regola, non meno di tre anni, e si tratta di tempi insuscettibili di sostanziosa contrazione. D'altro canto sarebbe folle pensare a forme di reclutamento semplificate, sia perché anch'essa richiederebbero comunque tempi tecnici non trascurabili, sia perché sarebbero in radicale contrasto con le esigenze di maggior professionalità che il rtuovo sistema processuale impone. Nell'immediato, dunque, e in attesa dell'indispensabile adegua-
mento degli organici non solo dei magistrati ma anche del personale ausiliario (adeguamento cui però un governo che si rispetti avrebbe dovuto pensare in tempo utile), le difficoltà da affrontare sotto il profilo considerato saranno immense e possono pesantemente condizionare l'avvio della riforma, sia dando luogo alla formazione di un consistente arretrato che poi sarà difficile smaltire, sia e soprattutto indebolendo l'azione giudiziaria nei corrf tonti dei fatti di criminalità organizzata.
IL NUOVO SISTEMA PROCESSUALE E LE INDAGINI SULLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
In precedenza si è fatto qualche cenno ai rischi che si vanno profilando circa l'efficacia dell'azione giudiziaria nei confronti di gravi fenomeni criminali in forma associativa, purtroppo presenti specialmente in alcune zone del nostro paese. E superfluo indugiare sulla pericolosità di codesti fenomeni (mafia, Camorta e consimili associazioni per delinquere) essa è ben presente alle menti e alle coscienze di tutti, com'è presente la gravità dei delitti che in quegli ambiti si commettono (dalle stragi agli omicidi, dai traffici di armi e droga alla corruzione e alle illecite ingerenze nella vita pubblica). Anzi è stato giustamente detto che la mafia non è solo un fenomeno di delinquenza ordinaria, per quanto agguerrita, ma un vero e proprio potere eversivo, organizzato militarmente, che attenta con la violenza ai fondamenti dello Stato di diritto. Finora, se si esaminano le cose con occhio scevro da pregiudizi, bisogna dare atto che l'azione giudiziaria, pur tra cadute e insufficienze (le cui responsabilità non mette qui conto indagare, ma sono composite e diversificate), è approdata a risultati importanti. 47
I processi che si sono celebrati da Torino a Palermo - pur con le critiche e le riserve cui hanno dato luogo - hanno aperto però grandi squarci nel compatto tessuto della criminalità organizzata, consentendo di scorgere interconnessioni, di verificare collusioni, di gettare lo sguardo su misteri grandi e piccoli della nostra vita sociale, di portare in giudizio e veder condannati boss e gregari di grosse organizzazioni criminali. Certo tali organizzazioni non sono state debellate, e sarebbe illusorio attendersi che ciò possa otte nersi soltanto con lo strumento del processo penale, mentre gli interventi principali devono incidere sui fattori economici e sociali che generano la devianza criminale. Tuttavia una risposta dello Stato c'è stata ed è importante mantenere, e anzi potenziare, i livelli raggiunti. Il nuovo modello processuale, in linea di principio, non può definirsi in contrasto con tale esigenza. Non può dubitarsi, tuttavia, che esso rende più complicate l'acquisizione e la formazione della prova. Se si tien conto che in alcune zone del paese riesce difficile perfino trovare testimoni per ufi incìdente stradale, è agevole immaginare quali difficoltà s'incontreranno domani per convincere qualcuno a deporre su gravi delitti di mafia o di camorra in una pubblica udienza. Lo stesso deve dirsi per le dichiarazioni accusatorie. Si possono nutrire le maggiori riserve verso le dichiarazioni dei cosiddetti pentiti. è giusto andare alla ricercà dei riscontri obiettivi, ma nessuno può ragionevolmente negare il contributo che quelle dichiarazioni hanno fornito per la comprensione e la repressione di gravissimi èpisodi di criminalità, terroristica e comune. Saranno disposti domani i dichiaranti a parlare direttamente in pubblica udienza? Certamente si potrà ricorrere all'incidente probatorio, ma anche in quella sede non è garantita la segretezza, con tutte le
conseguenze che ne derivano in termini di protezione dei dichiaranti e dei loro familiari (tra l'altro lo Stato non è ancora riuscito ad elaborare regole adeguate sul punto). Va aggiunto che il nuovo codice guarda con sfavore alle dichiarazioni dei pentiti, prescrivendoche esse "sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibjjjtà" (art. 192, comma 30), il che sembra escludere la sufficienza della sola valutazione di credibiità intrinseca e richiedere invece elementi di prova esterni (credibiità estrinseca). Tutto questo deve indurre, ancora una volta, a sottolineare con forza la necessità di un adeguato potenziamento degli organi d'indagine, se non si vuole assistere ad un intollerabile allargamento dell'area d'impunità per i peggiori e più agguerriti criminali. Soltanto una polizia giudiziaria numerosa, ben addestrata, dotata degli strumenti tecnici necessari, e un pubblico ministero non sommerso dalle carte ed adeguatamente professionalizzato potranno utilizzare con efficacia i nuovi modelli processuali, altrimenti destinati all'impotenza. Uno Stato di diritto non è tale se non assicura un processo giusto. Ma giusto è il processo che consente di assolvere l'innocente è di condannare il colpevole; non può aspirare a quella qualifica se serve ad assicurare l'impunità ai malfattori.
IL PROBLEMA DELLE STRUTFURE
Da quanto sin qui siamo andati dicendo emerge quello che, a nostro avviso, è il nodo centrale del 4iscorso: il profondo divario esistente tra il nuovo sistema processuale e le attuali strutture giudiziarie. Il potere politico finora ha tenuto in non cale le sollecitazioni rivoltegli affinché si decidesse a dare all'amministrazione della giustizia gli stru-
te diversa. Il dibattimento sarà ben più lunmenti necessari per un decente funzionamengo ed analitico, perché in esso bisognerà forto. Eppure doveva esser chiaro che, prima mare tutto il materiale probatorio su cui dodi ogni altra iniziativa, occorreva intervenivrà basarsi la decisione. Ai testimoni le dore proprio sul piano delle dotazioni struttumande saranno rivolte direttamente dal pubrali Quante leggi, che avrebbero potuto ben blico ministero o dai difensori che ne hanno funzionare, si sono rivelate deludenti o sochiesto l'esame. Occorrerà dunque una verno fallite per la rrancanza di mezzi? Sarebbalizzazione sommaria ma precisa dell'esame be stato quindi opportuno prima render moe del controesame (art. 498), con indicazioderno ed efficiente l'apparato servente dei ne delle domande e delle risposte. Se alla traservizi giudiziari e poi riformare il sistema scrizione di queste dovrà procedersi col vecprocessuale, in modo da capire quali ineffichio metodo manuale, i tempi di trattazione cienze derivano dalle carenze di strutture e saranno destinati ad allungarsi a dismisura quali invece erano da ascrivere al modello di con effetti devastanti per la riduzione della processo. Si è seguìto invece l'iter opposto, durata dei processi, che dovrebbe costituire uno degli obbiettivi principali della riforma. con la conseguenza che oggi si giunge all'apE solo un esempio di ciò che potrebbe accapuntamento col nuovo processo in una condizione di inefficienza strutturale a dir poco dere in assenza di un adeguato potenziamento del personale ausiliario, ma in realtà è l'inpreoccupante. In molte sedi (tra cui grandi tero nuovo sistema processuale che nei vari centri come Torino e Napoli) si pongono grapassaggi impone tale potenziamento, non sovi problemi di edilizia giudiziaria, e non è lo numerico ma - si ripete - anche e soneppur chiaro se e come sarà possibile (per prattutto professionale. esempio) sistemare i nuovi uffici dei giudici Poi c'è l'antica questione dei mezzi tecnici per le indagini preliminari e l'udienza preliper l'organizzazione degli uffici. Su questo minare, che richiederanno spazi e personale punto l'amministrazione della giustizia è senben superiori a, quelli occorrenti per il funza dubbio tra le più arretrate nel panorama zionamento degli uffici di istruzione. Lo stes- della pubblica amminstrazione in Italia. Veso dicasi per le nuove procure presso le prero è che è stato finalmente messo in moto ture circondariali. C'è un'esigenza di perso- - un processo informatico che, sia pure tra innale ausiliario specializzato (stenotipisti, stecertezze e soste di vario conio, sta andando avanti. Ma i tempi di attuazione di codesto nografi, trascrittori di nastri registrati), alla processo sembrano ancora molto lontani, quale finora non è stata data nessuna risposta adeguata. Eppure l'udienza preliminare mentre l'entrata in vigore del nuovo rito è oramai alle porte. E comunque ancora una e il dibattimento richiederanno personale di tal genere. Oggi il dibattimento penale vie- volta bisognerà non lasciarsi sorprendere, come troppo spesso è accaduto nel nostro setne verbalizzato in forma riassuntiva perché, tore, in alcuni casi per colpa dei magistrati di regola, l'imputato, le altre parti private, (i quali - bisogna pur riconoscerlo - non i testimoni confermano quanto hanno detto sempre si distinguono per capacità organizin fase istruttoria, limitandosi a volte ad agzative), in altri casi per colpa del potere pogiungere qualche circostanza. La parte più corposa è riservata alla discussione, che non litico, e segnatamente del Ministero della giustizia in persona del suo titolare, cui compeimpegna l'ausiliario verbalizzante se non per te - neppure questo va dimenticato - la la trascrizione delle richieste conclusive. Con responsabilità organizzativa. il nuovo rito la situazione sarà profondamen49
Il nuovo processo davanti al Pretore di Giovanni Melillo
Le profonde trasformazioni del processo penale, delineate nella nuova opera di codificazione, investono in modo particolarmente ampio ed incisivo la giurisdizione pretorile. In generale, essa è destinata ad assumere un ruolo ed un rilievo essenziali nell'ambito dei ridefiniti assetti del sistema processuale penale italiano. E sufficiente considerare la portata innovativa della nuova disciplina della competenza per materia. L'art. 7 del codice, dando attuazione alla direttiva n. 12 della legge delega del 1987, fissa il nuovo e più ampio criterio generale di delimitazione "ratione materiae' '-della competenza del Pretore: lo chiama a conoscere di tutti i reati puniti con "pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni ovvero con pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva" e indica le dodici figure che, pur punibii con pena detentiva superiore a quattro anni, sono attribuite alla competenzadel Pretore. Non occorre dilungarsi in una rassegna, tanto ampia quanto inevitabilmente noiosa, dei reati che definiscono i nuovi spazi di estensione della giurisdizione pretorile, basterà citare a questo proposito l'assorbimento nella sfera di competenza del Pretore di numerose fattispecie delittuose finora assegnate alla Corte di Assise o di altre, particolarmente delicate e importanti, quali, ad esempio, l'omicidio colposo, come pure dei fatti (di cui al capoverso dell'art. 72 L. 22/12/1975 n.
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685) relativi a detenzione, trasporto e commercio delle sostanze stupefacenti (quelle classificate nelle tabelle Il e IV della medesima legge). Non vi è dubbio, quindi,che l'ambito della competenza del Pretore, aconclusione di un processo legislativo di valorizzazione storicamente mai interrotto, sia destinato a raggiungere confini di assai rilevante importanza.
AL CENTRO DELLA GIUSTIZIA PENALE
Le trasformazioni cui si è accennato, rendono il Pretore il principale soggetto dell'amministrazione della giustizia ed il giudizio pretorile il giudizio "normale" in quanto previsto per la più gran parte degli affari penali. Si realizza così, in definitiva, in un raggio di estensione della giurisdizione penale assai ampio ed al termine di un'operazione di nequilibrio del principio della collegialità, l'obbiettivo del giudice monocratico di primo grado, da tempo messo in luce nella riflessione sui temi principali della giustizia penale. In questa prospettiva, le esigenze di massima semplificazione delle forme rituali e dello svolgimento del processo pretorile, indicate dalla direttiva n. 103 della legge delega, appaiono come la consapevole espressione dell'intento legislativo di individuare i caratteri e le forme processuali tali da consen-
tire l'elastico e razionale adeguamento del nuovo modello processuale alle caratteristiche proprie delle variegate vicende processuali ricomprese nell'ormai amplissima sfera di competenza del Pretore. Invero, l'esigenza di delineare un sistema processuale dotato di flessibilità, cioé capace di assumere informazioni concrete di volta in volta adeguate alla complessità delle materie da trattare ed al grado di impegno probatorio necessario, permea l'intero disegno riformatore. Ma in particolare tale esigenza assume rilevanza proprio in relazione al processo pretorile in cui confluiscono affari di rilievo assai diverso: talvolta bagatellare, talvolta grande e socialmente influente. A tale riguardo, peraltro, va condivisa l'opinione di di, osservando che la competenza del Pretore è estremamente eterogenea, ha cornmentato che "non tutto merita il processo delineato nel progetto di riforma" (Zagrebelsky). Siffatta consapevolezza conduce inevitabilmente ad indicare come necessario l'intervento legislativo verso la depenalizzazione, nel quadro di uno sforzo ricostruttivo razionale e coerente di cleflazione del sistema giuridico-penale, che subordini la necessità della giurisdizione a parametri di reale offensività della condotta, e consenta di ovviare al sovraccarico della macchina giudiziaria conseguente al crescente profluvio di norme incriminatrici. Parallelamente, dovrà accogliersi favorevolmente l'invito alla riflessione circa l'opportunità di individuare ed organizzare forme di giustizia minori "i cui tempi e costi siano pari alla minima rilevanza degli interessi in gioco" (Zagrebelsky).
LE FIGURE DEL PROCESSO
L'art. 550 cpp. individua le nuove figure del
processo pretorile: il Procuratore della Repubblica presso il Pretore, il Giudice per le indagini preliminari e il Pretore: i primi due operanti in sede circondariale, il terzo in sede mandamentale. Viene pertanto abolita l'attuale figura del Pretore, insieme inquisitore e giudice, attraverso la distinta attribuzione delle funzioni giudicanti e requirenti. Del resto apparivano ormai superate le argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza costituzionale (da ultimo Corte Cost. 123/1970) per escludere la ravvisabifità di situazioni di ingiustificato stridore con i principi costituzionali nell'attuale cumulo di informazioni (inquirente e giudicante) nella figura del Pretore, argomentazioni che erano imperniate sulla considerazione della limitata gravità delle vicende processuali. Infatti, da un canto, era indubitabilmente in corso un processo legislativo di progressiva valorizzazione del ruolo del procedimento pretorile (L. 400/1984, interventi di depenalizzazione) e, dall'altro canto, la giurisdizione pretorile assumeva maggiore rilevanza in materie, come quelle genericamente riconducibile alla tutela degli interessi diffusi, di particolare delicatezza sociale e giuridica. Di certo, il mantenimento dell'attuale assetto della figura pretorile sarebbe apparso, in coincidenza della trasformazione del processo penale in senso accusatorio, ancor più ingiustificato quando si consideri, come già rilevato, che il giudizio pretorile diviene nel disegno riformatore il giudizio normale, previsto per la maggior parte degli affari penali. A ben vedere la separazione delle funzioni giurisdizionali e requirenti nel procedimento pretorile si pone, rispetto all'estensione verso l'alto della sfera di competenza pretoria, in rapporto di condizionamento reciproco. Non soltanto la natura e la quantità degli affari riservati alla competenza del pre51
tore richiede la modificazione degli attuali profili ordinamentali, ma a sua volta la prevista distinta attribuzione delle funzioni di giudice e di P.M. giustifica la scelta legislativa dell'accrescimento verso l'alto della sfera di competenza del pretore. A questo proposito può essere interessante osservare come l'attribuzione al pretore della competenza in materia di omicidio colposo segua di pochi anni scelte, esattamente di segno contrario, compiute nel 1984 (si veda la legge 400/84 In quella occasione furono da più parti manif estate preoccupazioni sul piano della salvaguardia delle garanzie di terziarietà e di imparzialità, conseguentemente all' attribuzione (che era contemplata nell'originario disegno di legge governativo) al Pretore, insieme giudicante ed inquirente, della competenza in ordine a questo tipo di reato la cui trattazione non pone particolari difficoltà tecnico-processuali, ma che è di grande rilievo sociale. Ben diversa lettura del dibattito parlamentare fu offerta, già nei primi commenti della L. 400/ 84, da chi espresse la convinzione che assai diversa soluzione. si sarebbe avuta, se fosse stata realizzata le scissione delle funzioni requirenti da quelle giudicanti in funzione strumentale "non solo e non tanto di ragioni di garanzia o di terziarietà, ma anche soprattutto di soluzione, almeno parziale, (tramite l'unificazione del potere in un capo ed il vincolo gerarchico), della questione, attualmente chiave,, del controllo della magistratura, in particolare inquirente" (C. Ca-
stelli, Luci e ombre nell'estensione della competenza pretorile in « Questione giustizia » 1984 pag. 664). Tuttavia non sembra che la volontà di' 'normalizzazione", denunciata in quella occasione, sia realmente individuabile alle radici delle scelte contenute nel disegno riformatore. 52
In realtà, la situazione adottata sul piano ordinamentale (creazione di un ufficio del PM in sede di circondano competente in relazione a tutte le Preture ricomprese nella Circoscrizione) appare senz'altro la più idonea a realizzare obiettivi realistici di fattibiità e razionalità operativa. Ciò soprattutto considerando le altre soluzioni in astratto ipotizzabili (istituzioni di uffici del PM in ogni Pretura, attribuzione all'atuale Procuratore della Repubblica di ogni competenza del PM in primo grado) ed escludendo quelle, sostanziamente elusive, del problema, fondate su semplici ripartizioni funzionali all'interno dello stesso ufficio. In generale, la soluzione prescelta, in sè apprezzabile e corretta sul piano degli equilibri ordinamentali, sembra meglio rispondere all'esigenza fondamentale di migliore pianificazione ed attuazione operativa di modelli di intervento giudiziario soprattutto in relazione ai problemi della tutela del territorio, dell'ambiente e del patrimonio artistico, della sicurezza e dell'igiene del lavoro che, notoriamente, sono sempre affidati in maniera frammentaria e disomogenea.
IL RUOLO DEL PUBBLICO MINISTERO
Nell'ambito delle articolazioni soggettive del nuovo processo pretorile, particolari riflessioni vanno dedicate innanzitutto alla figura del PM per il rilievo delle funzioni che gli sono state conferite. Accanto ai compiti tradizionali di investigazione e di accusa, spettanti al PM, in ragione dell'attribuzione della titolanità dei poteri di indagine preliminare e di formulazione della contestazione, sono attribuiti al Procuratore della Repubblica presso il Pretore poteri e funzioni strumentalmente rivolti alla promozione delle diverse soluzioni anticipate del processo, che la legge prevede alfine di evi-
tare, entro limiti ragionevoli, la dispendiosa fase dibattimentale. L'eventualmente scarso esercizio della funzione di promuovere le soluzioni anticipate del processo, con il conseguente afflusso nell'alveo dibattimentale di un numero eccessivo di procedimenti, inciderebbe negativamente sulla efficienza complessiva del nuovo sistema processuale. L'inserimento di metodi complessi e particolarmente garantiti di formazione della prova ha reso la fase del dibattimento naturalmente inadatta ad un'indiscriminata ed eccessiva ampia utilizzazione. Le premesse di razionalità, da cui muovono cpnsapevolmente le scelte riformatrici, esigono che soltanto un numero assai ridotto di affari penali varchi la soglia del dibattimento, altrimenti destinato allo sviimento funzionale ed alla progressiva impossibilità di gestione. Vediamo, dunque, cosa può fare il PM. Innanzitutto, il PM può citare a comparire dinanzi a sè il querelante e il querelato al fine di esperire il tentativo di conciliazione (art. 564 c.p.p.). L'introduzione di questo nuovo istituto, consente al PM di sondare, ancor prima del compimento di ogni attività diindagine preliminare, l'esistenza delle condizioni per una bonaria composizione delle lite allo scopo evidente, trattandosi di reati non perseguibili "ex ufficio",.di evitare il compimento di attività processuali che un'eventuale, soltanto successiva, remissione di querela renderebbe inutili. Più in generale, si è attribuito al PM il potere di favorire la confluenza del procedimento anziché nell'alveo dibattimentale, verso l'attivazione dei riti semplificati quali il giudizio abbreviato e "l'applicazione delle pene su richiesta delle parti" (c.d. patteggiamento), prevedendo la possibilità che il PM, al termine delle indagini preliminari, presti
anticipatamente il suo consenso all'una o all'altra delle soluzioni anticipate, indicandola espressamente già nel decreto di citazione a giudizio da lui emesso (art. 556 cpp). In definitiva, il decreto di citazione a giudizio del PM viene ad assumere connotati strutturali ed effettuali di valutazione complessiva, poiché in relazione all'accusa, oggetto di definitiva formulazione (salvo la modificabilftà del "thema decidendum" di cui all'art. 516 c.p.p.), i poteri di impulso processuali attribuiti al PM si esplicano non soltanto attraverso la tipica "vocatio in iudicium", ma anche mediante la prospettazione di alternative rituali semplificate alle quali l'imputato è invitato ad aderire. Naturalmente, in mancanza dell'iniziativa del PM, al giudizio abbreviato ed al patteggiamento può farsi luogo anche su richiesta dell'imputato. In tal caso il PM dovrà pronunciarsi nel termine di cinque giorni stabilito dall'art. 557 cpp prestando, se lo ritiene, la sua adesione alla domanda della parte privata.
LA CITAZIONE A GIUDIZIO
È stato giustamente osservato che l'efficacia dei vari poteri, attribuiti al iri dipende, in buona parte, dal conferimento al PM medesimo anche del potere di disporre direttamente il rinvio a giudizio dell'imputato, poiché ciò consente di fatto all'accusa di disporre di una fondamentale arma di pressione sull'imputato affinché questo accetti la chiusura anticipata del procedimento (A. Pignatelli). La direttiva n. 103 della legge delega dispone espressamente per il procedimento pretorile, al fine dichiarato di assicurarne snellezza di forme e celerità di svolgimento, che non ci sia l'udienza preliminare, prevista per il procedimento dinanzi al Tribunale. 53
In questa fase il giudice delle indagini preliminari (GIP) valutando la fondatezza dell'ipotesi accusatoria formulata dal PM, può disporre il rinvio a giudizio dell'imputato ovvero pronunciare una sentenza di non doversi procedere allo stato degli atti (art. 425 c.p.p.). Si devono a tale proposito condividere le perplessità manif estate da quanti hanno sottolineato l'evidente contraddizione tra le dichiarate esigenze di economia e celerità pro cessuale, proprie del giudizio pretorile, e l'esclusione di una possibile definizione del procedimento, anteriore all'emissione del decreto di citazione, attraverso declaratoria di improcedibilità. La scelta legislativa, incide inoltre sulla posizione processuale dell'imputato, stretto nella scelta tra la soluzione anticipata del procedimento ed il rischio del dibattimento, e sulla funzione del difensore destinata a sostanziarsi, nella fase processuale in esame, in una attività di consulenza esterna ancorché di grande importanza e delicatezza. In ogni caso, l'opzione del legislatore delegante per l'esclusione dell'udienza preliminare si è concretizzata nel conferimento al PM del potere di citare in giudizio l'imputato. Ciò del resto, costituisce il meccanismo di chiusura e di rafforzamento del complesso dei poteri processuali della parte pubblica, previsti in funzione del favore legislativo verso le soluzioni anticipate del processo. Segnaliamo ora alcuni elementi di disfunzione nelle modalità prescelte per l'attuazione delle direttive della legge delega. In conseguenza dell'attribuzione al PM del potere di emissione del decreto di citazione, il Pretore non potrà più predisporre i ruoli delle udienze calibrandoli in relazione alla natura ed alla quantità degli affari, con rischi evidenti di difficoltà di gestione. 54
Non solo, vi è rischio che il potere del PM si traduca in una "facoltà" di scelta del giudice. Tali inconvenienti di non modesto rilievo potrebbero eliminarsi in radice riconoscendo al PM il mero potere di richiedere la citazione dell'imputato a giudizio, prevedendo correlativamentela fissazione di un termine, da determinarsi secondo criteri di congruità, per l'emissione da parte del Pretore del relativo decreto di citazione.
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
Si può affermare che nel procedimento pretorile, in generale, è stato sottratto al giudice competente per tutte le attività diverse da quelle che si compiono nel dibattimento (per denominazione legale: giudice per le indagini preliminari) il potere di valutare il valore probatorio delle indagini del PM al fine del passaggio alla fase pubblica del dibattimento. Il potere di valutazione dei risultati dell'attività di indagine del PM è invece, a ben vedere, conservato al GIP nell'ipotesi in cui l'esito di questa sia rappresentato non già dal decreto di citazione a giudizio, ma dalla richiesta del PM di archiviazione degli atti. Orbene, è chiaro che nussun problema si pone nel casi in cui il Gli', chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione formulata dal PM, ritenga di accogliere la soluzione prospettata dall'accusa. Ben diversa ed assai più delicata è invece la situazione che si determina nel caso di contrasto di valutazione tra il PM e il giudice, in ordine alla richiesta di archiviazione da quello trasmessa. Nel secondo progetto preliminare del luglio del 1988 si prevedeva che, verificatasi l'ipotesi descritta, il GIP dovesse limitarsi a restituire gli atti del PM indicando le ragioni per
le quali riteneva doversi invece promuovere l'azione penale. In questo modo il PM (salvo la possibilità di avocazione da parte del Procuratore Generale) avrebbe conservato ogni potere di autonoma nuova determinazione. Nel testo definitivo del codice, invece, si è assegnata netta prevalenza, nel contrasto, alle valutazioni del GIP stabilendo che il PM debba, nel termine di dieci giorni dalla restituzione degli atti, emettere il relativo decreto di citazione a giudizio. La soluzione prescelta appare destinata a dar luogo inevit abilmente a situazioni di incertezza e di difficoltà, atteso che non può restare riservato al PM il potere di delimitazione dei confini e dei caratteri oggettivi della contestazione. Pertanto sembra opportuna la previsione normativa che stabilisce che l'ordinanza del GIP di rigetto dellerichieste di archiviazione debba comunicarsi al Procuratore Generale, evidentemente in vista dell'attivazione delle potestà istituzionali di vigilanza circa la legalità e la correttezza dell'azione del PM. Il ruolo e l'importanza del GIP risultano fortemente accentuati nella fase (eventuale) dell'incidente probatorio. Qui trova piena esplicazione la funzione giurisdizionale di controllo delle legalità in ordine all'assunzione delle prove destinate a fondare la decisione del giudice del dibattimento. Il nuovo istituto processuale dell'incidente probatorio è intimamente connesso all'esigenza di consentire che, durante il tempo neces&ario per l'espletamento dell'attività di investigazione, vengano anticipati i meccanismi dibattimentali di acquisizione dello prove che devono essere assunte subito, pena la loro dispersione (Relazione al Progetto Preliminare del c.p.p. pag. 216). A riguardo di questo istituto il legislatore delegante del 1987 dettava la direttiva dell'eccezionalità dei casi di ricorso nel procedimento pretorile ai mecca-
nismi di formazione anticipata della prova. Nel testo definitivò del codice la direttiva anzidetta è stata rispettata in adesione alle sollecitazioni di quanti hanno evidenziato e sottolineato la delicatezza ed il grado di complessità di molte delle fattispecie di reato proprie della sfera di competenza pretoria: in questo senso non sono stati limitati (come era previsto nel Progetto Preliminare) i casi di incidente probatorio bensì è stato fissato il criterio, definito di natura qualitativa, secondo il quale il GIP può accogliere la domanda di incidente probatorio, proposta dal PM o dall'imputato, in tutte le ipotesi contemplate dalla disciplina dettata in tema di procedimento dinanzi al Tribunale, salvo che non sia possibile far luogo immediatamente all'emissione del decreto di citazione a giudizio e così riservare alla sede naturale del dibattimento i compiti di acquisizione probatoria. Al di là di ogni perplessità circa la conformità della soluzione prescelta all'obbiettivo del legislatore delegante, per evitare che il limite individuato non sfumi nella pratica applicazione sino a divenire evanescente, deve essere consentito al GIP di prendere conoscenza integrale del materiale investigativo raccolto dal PM, il quale pertanto dovrà trasmettere tutti gli atti in suo possesso. Soltanto in tal modo potrà trovare effettiva esplicazione la funzione di verifica, demandata al GIP dello stato delle indagini preliminari. Se ciò è vero, il giudice per le indagini preliminari riacquista, anche se limitatamente ai fini della decisione sulla richiesta di incidente probatorio, il potere di valutare l'idoneità degli elementi complessi di indagine acquisiti dal PMin linea di generalità invece a lui sottratto dall'attribuzione a quest'ultimo del potere di citazione a giudizio.
IL
DIBATTIMENTO
L'obbiettivo legislativo di articolare lo svol55
giniento del procedimento pretorile secondo forme massimamente semplificate può essere realizzato anche nella fase centrale del nuovo processo: il dibattimento, affidato al Pretore mandamentale. In particolare, è previsto una duplice organizzazione rituale dello svolgimento delle attività dibattimentali di formazione della prova alfine di consentire l'adeguamento delle forme e delle garanzie processuali alla natura dell'affare pervenuto all'esame del Pretore. Infatti, accanto al sistema tipico di svolgimento dell'istruttoria dibattimentale imperniato sulla regola della "cross examination"è previsto che l'esame delle parti, dei testimoni, dei periti e dei consulenti tecnici sia affidato dall'accordo delle parti alla conduzione del Pretore. In tal modo, allorché l'esame si svolga sulla base pur sempre delle domande e delle contestazioni indicate dal PM, e dai difensori, si assicura la possibilità di conduzione dell'istruttoria dibattimentale in forme più semplici e celeri. E altresì funzionale al soddisfacimento delle esigenze suindicate la previsione della redazione del verbale d'udienza in forma riassuntiva anche al di là dei casi previsti (atti di contenuto semplice o di limitata rilevanza ovvero contingente indisponibiità di strumenti di riproduzioni o di ausiliari tecnici) e sempre che ricorra il consenso delle parti. Particolarmente significativa è infine la norma che prescrive che il pretore rediga la motivazione della sentenza subito dopo la redazione del dispositivo a meno che, ovviamente, ciò non sia possibile in dipendenza della complessità del caso. Non è certo possibile indièare la misura e il grado in cui nella futura prassi degli uffici giudiziari sarà data attuazione alla disposizione in parola. Non pare dubbio, tuttavia, che l'obiettivo di accellerazione dei ritmi procedurali, perseguito dalla
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norma, richiede da un lato rilevanti modificazioni di metodi di lavoro e di modelli culturali ormai inadeguati, dall'altro lato, una grande valorizzazione degli strumenti, innanzi descritti, di deflazione del dibattimento la quale in generale condizionerà positivamente l'efficienza complessiva del sistema. Perpiessità e riserve ha incontrato inevitabilmente lascelta legislativa di previsione della delegabiità delle funzioni di PM in dibattimento ad ufficiali di polizia giudiziaria (benché diversi da quelli che hanno preso parte alle indagini preliminari) nonché ad uditori giudiziari e vice-pretori onorari. Con particolare riguardo alla delega delle funzioni requirenti agli ufficiali di PG, le preoccupazioni nascono dai rischi connessi al vicolo di subordinazione gerarchica, tipico del rapporto di servizio della categoria, sul piano dell'effettiva e completa autonomia dell'esercizio delle funzioni di PM in sede dibattimentale (i rischi in parola sono accentuati dal carattere di irrevocabilità della delega previsto in funzione di rafforzamento della posizione di autonomia del delegato nei rapporti con il delegante). In realtà, lo schema di articolazione funzionale del meccanismo di delega previsto (la delega è conferita nominativamente con riguardo ad una determinata udienza ovverò a singoli procedimenti) sembra tale da permettere un uso accorto, attentamente calibrato in relazione alle caratteristiche ed al grado di difficoltà di trattazione delle varie vicende processuali, che consenta di circoscrivere rigidamente la funzione sul piano residuale di strumenti che allevino' il carico di lavoro degli uffici di Procura. Il ruolo centrale del processo pretorile nel nuovo assetto dell'amministrazione della giustizia, sottolineato già all'inizio dell'esposi-
zione tracciata, richiede un grande impegno perché lo stesso riveli la sua attitudine a divenire un banco di prova positivo di costumi, giudiziari più moderni e vicini ad una società in evoluzione. E necessario innanzitutto che magistrati ed avvocati dimostrino la disponibilità e la capacità di formarsi una nuova ed adeguata professionalità anche se ciò richiederà mevitabilmente una profonda revisione di prassi comportamentali e modelli culturali ormai anacronistici. Sembra comunque necessario proseguire il cammino con un quadro ampio e coordinato
di altre riforme legislative di carattere collaterale e di potenziamenti strutturali per evitare il rischio di divaricazione tra funzioni di sempre maggiore importanza e delicatezza e le condizioni di effettiva esplicazione di queste. Assai efficacemente è stato detto (L. Scotti) che "se fra strutture giudiziarie e resa di giustizia esiste un preciso rapporto di condizionamento tale vincolo è ancora più intenso quando riguarda la messa a regime di meccanismi processuali completamente nuovi i quali sarebbero destinati all'asfissia burocratica se collocati nelle vecchie strutture".
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queste istituzioni Per una politica dell'innovazione• nelle amministrazioni pubbliche
L'ampio dossier pubblicato sul n. 75-7611988 (Fisionomie dell'Amministrazione pubblica) riproponeva con particolari sottolineature le linee di pensiero e d'intervento, vero programma scientifico e di politica culturale, che questa rivista ha da tempo proposto in materia di pubblica amministrazione. In particolare, la questione della cultura amministrativa ci è apparsa come un fondamentale campo di verifiche. Di qui l'ampio dibattito in redazione che successivamente c'è stato a Cortona nell'autunno 1989. Qui ne pubblichiamo gli atti: Sulla politica dell'automazione la rivista pubblica un position paper per sollecitare un chiaro confronto di idee, proposte ed interessi. Su un problema che consideriamo di rilievo strategico tuttora manca, infatti, un dibattito soddisfacente. Per quanto ci riguarda apriamo il discorso e invitiamo tutte le parti interessate ad una seria discussione di prospettiva. Uguale invito vale per la politica delle privatizzazioni, ancor lontana dall'essere intrapresa in modo da considerare soddisfacente. In realtà, di questa politica mancano akuni presupposti tecnici, oltreché - come già è stato segnalato da molti - le regole. Su questi presupposti richiama l'attenzione il, saggio che pubblichiamo. Sulle privatizzazioni rinviamo, per valutazioni comparative, agli interventi già pubblicati nei precedenti numeri di « Queste Istituzioni » C'è da aggiungere che una profonda rivisitazione dei pochi e obsoleti criteri di valutazione dei cespiti patrimoniali dello Stato e degli enti pubblici costituisce un'operazione importante di ammodernamento gestionale. Un aspetto, fra i tanti, della politica dell'innovazione
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Organizzazione e leadership nelle pubbliche amministrazioni Un dibattito in redazione
Antonio Di Majo
UN COMPITO PER L'ECONOMIA PUBBLICA: STUDIARE LA GESTIONE
Le osservazioni molto interessanti di Bruno Dente nel libro sulle Politiche pubbliche, e nel saggio sulla cultura amministrativa negli ultimi quarant'anni', chiamano in causa gli economisti, poiché si può ritenere, con qualche fondamento, che abbiamo dedicato (e ancora dedichiamo) scarsa attenzione ai problemi della pubblica amministrazione. Non c'è dubbio che gli economisti, in particolare quelli che si occupano di Scienza delle Finanze, possano avvertire qualche disagio; nell'ultimo secolo (cioè da quando si può approssimativamente datare l'inizio di una fase più propriamente "analitica" o "scientifica" della disciplina) la scienza economica non ha certamente rivolto molta attenzione ai problemi dell'attività amministrativa pubblica, vista come branca produttiva. Indubbiamente la limitata estensione di tale attività ( se si escludono le fasi beffiche), fino a pochi decenni fa, può spiegare in parte tale disattenzione, anche se non erano mancate interessanti analisi, già alla fine del secolo scorso, sulla possibile accelerata crescita del settore pubblico (legge di Wagner). D'altro canto, la Scienza della Finanza nasce, nell'Europa continentale, dall'evoluzione del pensiero cameralista; e i cameralisti de-
dicavano principalmente la loro attenzione, anche se in assenza dell'apparato analitico successivamente sviluppato, ai problemi dell'organizzazione dello Stato. Non è casuale che il primo testo in lingua italiana con il nome "Scienza delle Finanze", pubblicato a Napoli nel 1858 da Placido De Luca, dedicasse circa 150 pagine alle entrate e quasi 300 pagine alle spese e ai principi economici di organizzazione e funzionamento dello Stato, contrariamente a quanto avverrà nei paesi di lingua inglese con l'affermarsi del pensiero neo-classico. L'analisi di De Luca, fondamentalmente descrittiva, si legava alla tradizione (principalmente napoletana) dell'Economia civile di Antonio Genovesi che, in comune con i cameralisti, poneva al centro dell'attività amministrativa le esigenze del principe, successivamente l'interesse pubblico, concetto non molto preciso dal punto di vista economico. Diverso è l'approccio, che ha finito per dominare, della scienza economica inglese; per l'economia politica neo-classica l'obiettivo, e lo sbocco, del sistema economico è la soddisfazione (l'utilità) dei consumatori. Lo Stato, con le sue attività, deve cercare di evitare di "disturbare" gli equilibri che portano al massimo di utilità. Le sue funzioni si giustificano, oltre che con le esigenze dello Stato "minimo", già riconosciute da A. Smith nella « Ricchezza delle nazioni », con il confronto tra l'utilità della spesa pubblica e il costo (utilità sottratta) della tassazione. 61
In realtà, il principio del contenimento massimo della spesa pubblica (anche se non più improduttiva come per i classici) non viene mai abbandonato, e il suo finanziamento (ordinariamente attraverso la tassazione) non deve gravare troppo sulla ricerca del massimo di utilità, perseguito autonomamente dai contribuenti-consumatori guidati dalla "mano invisibile" del mercato. Le regole dell'allocazione (ripartizione) delle risorse, che mirano a realizzare gli obiettivi di massimizzazione perseguiti dagli individui, costituiscono il "cuore" dell'analisi: con la scuola neo-classica l'individualismo diventa anche metodologico e rappresenta il criterio fondamentale di analisi, non potendosi immaginare un "interesse pubblico" di natura diversa dall'interesse dei singoli individui. Le imposte interferiscono immediatamente nelle scelte individuali ed è opportuno indagare come possano allontanare dagli "ottimi" allocativi, e se sia possibile ricorrere a strutture tributarie il più possibile "neutrali". La spesa pubblica è oggetto di considerazioni etico-politiche, di tipo generalmente descrittivo, che trovano più tardi una sistematizzazione all'interno dell'economia neoclassica con l'individuazione dei "connotati' , dei beni pubblici e delle loro implicazioni sulla definizione degli equilibri allocativi, sia in termini di equilibrio parziale (ad opera dei "volontaristi" italiani, Mazzola, Pantaleoni, De Viti De Marco, ecc.) sia in termini di equilibrio generale (principalmente ad opera di Samuelson e Musgrave). L'approccio prevalente diviene, quindi, di tipo allocativo, e la spesa pubblica assume rilevanza analitica nell'ambito della soddisfazione dei consumatori-utenti, mentre rimane normalmente assente il punto di vista dell'offerta, delle "tecniche" di produzione dei servizi. In ciò non v'è una profonda diffe62
renza tra l'economia "pubblica" e quella di mercato: l'analisi dell'offerta è dominata, fino ai nostri giorni, dall'utilizzo delle funzioni di produzione, spesso giustamente definite black boxes, nelle quali, inseriti gli inputs, la ricerca della massimizzazione del profitto' da parte dell'imprenditore garantisce la produzione efficiente degli outputs. A parte l'inesistenza dell'imprenditore massimizzatore del profitto, gli stessi processi si applicano alla produzione dei beni "pubblici", ma non si precisano i meccanismi attraverso cui è possibile minimizzare i costi di produzione. È in tempi più recenti che la scienza economica cerca di aprire la black-box e indagare più attentamente sui processi che si svolgono nell'impresa. Negli anni trenta si comincia a richiamare l'attenzione sulle grandi corporations nelle quali le funzioni di gestione sono spesso separate dalla proprietà dell'impresa (il capitalisìiio manageriale); attualmente la microeconomia tende a generalizzare un "paradigma" di questo tipo. Si tratta del cosiddetto approccio del principal-agent che, tra l'altro, mette anch'esso in discussione uno dei postulati fondamentali dell'analisi tradizionale, la soddisfacente (completa o quasi) informazione degli agenti economici. E anche nelle asimmetrie informative tra i principals (che nell'economia pubblica possono essere rappresentati dagli elettori, dai politici, dai dirigenti pubblici, ecc.) e gli agents (politici, burocrati, impiegati, ecc.) che debbono essere ricercate le limitazioni a una più efficiente condotta dell'amministrazione pubblica. Già la scuola della "Public Choice" (il cui principale esponente è il premio Nobel J. Buchanan) aveva posto in rilievo il ruolo autonomo dei burocratici, anche se in un contesto analitico diverso. L'analisi. "principal-agent" consente di porre in primo piano i meccanismi dell'offerta pubbli-
Ca; e si può forse così aprire la strada che porta alla diffusione di adeguati criteri di efficienza nella pubblica amministrazione. L'efficienza non va più intesa solamente (almeno da parte degli economisti!) nel senso allocativo, ossia dal punto di vista dell'attribuzione delle risorse ad utilizzi differenti (sanità, giustizia, automobili, ecc.), ma si deve indagare anche nella direzione dell'efficienza gestionale (o tecnica) e di quella definita da Leibenstein "X-efficiency" (entro certi limiti si può distinguere dalla precedente), che concernono il "migliore" utilizzo delle risorse a disposizione per ogni produzione. Ora, l'analisi tipo "principal-agent" suggerisce che gli obiettivi dei vari soggetti coinvolti nell'attività produttiva normalmente non coincidono; inoltre, il filone della "Xefficiency" dimostra che anche il postulato del comportamento massimizzante può essere inadeguato. La ricerca dell'efficienza produttiva tende allora a concentrarsi nella definizione di sistemi di incentivazione che avvicinano (anche attraverso una trasparenza "obbligata") gli obiettivi dei diversi soggetti (nell'economia pubblica politici, burocrati, elettori, impiegati, ecc.) e promuovano un uso più "intenso" delle risorse. Sicuramente, se si ha presente la situazione del nostro paese, si è portati a ritenere che la possibilità di miglioramenti sia molto grande. Le analisi basate sulle asimmetrie informative e sulle inefficienze gestionali sono molto complesse e articolate, spero almeno di averne fatto intuire alcuni aspetti della loro "filosofia". L'economista che si occupa di amministrazione pubblica ha, quindi, davanti a sé un vasto campo di indagine, che finora è stato poco esplorato sia dal punto di vista teorico sia da quello empirico. Non si tratta di limitarsi a indagare sull'espansione dell'attività
pubblica rispetto a quella privata e, più in generale, sull'allocazione delle risorse, ma di attribuire qualche priorità alla ricerca dei motivi che impediscono che le risorse destinate agli impieghi nella pubblica amministrazione non siano organizzate (usate) in modo da fornire risultati massimi (o, almeno, "soddisfacenti"). È ovvio che la separazione tra allocazione e gestione è solo astrattamente ipotizzabile, ma serve a porre l'enfasi sui problemi attualmente forse più rilevanti in molti paesi. Sicuramente in un'economia moderna, articolata e soprattutto soggetta a innovazioni rapide e profonde nei metodi di produzione, anche un'attività, tradizionalmente più "labour intensive", come la P.A. vede entrare in crisi i tradizionali metodi di organizzazione produttiva (gerarchico-funzionale), più idonei, con la stabilità e la ripetitività delle procedure, in economie stazionarie, caratterizzate dalla ripetitività dei cicli produttivi (i paesi agricoli dell'Ottocento). Non si può ovviamente pensare di avere a disposizione facili soluzioni. .Nella produzione per il mercato (ad es. l'industria privata) le difficoltà derivanti da asimnletrie informative sono mitigate dall'esistenza di vincoli/obiettivi (profitti, vendite) agevolmente misurabili, controllabili e soggetti alla "disciplina" del mercato. Nelle attività pubbliche si fa ricorso da qualche tempo, principalmente nei paesi più sviluppati, ad indicatori di produttività ed efficienza, accettati, in genere, nell'ambito di rapporti di tipo "contrattuale" tra principals e agents pubblici. L'esperienza presenta finora luci ed ombre; indubbiamente la facilità di misurazione porta a concentrare normalmente l'attenzione su alcune condizioni di costo, che rappresentano certamente elemento fondamentale per le valutazioni di efficienza produttiva, ma talvolta ciò non è sufficiente. In un 63
recente saggio, pubblicato in «Fisc,l Studies », due economisti inglesi (Barrow e Wagstaff) dimostrano l'inadeguatezza di alcuni indicatori di performance utilizzati nel sistema sanitario britannico; in certi casi la "perfetta" realizzazione del valore-obiettivo dell'indicatore può nascondere inefficienze (anche allocative), a causa di difetti metodologici nella definizione dell'indkatore stesso. Queste sono comunque difficoltà da affrontare, che non possono essere risolte con slogans del tipo "più mercato nello Stato"; certamente è auspicabile introdurre nell' amministrazione pubblica alcuni meccanismi che incentivino comportamenti competitivi (aste, concessioni, ecc.), purché "correttamente" applicati, ma non si tratta della soluzione né teorica né pratica del problema generale della maggiore efficienza di produzioni non destinabii alla vendita, per loro natura o per scelte collettive prioritarie. Da questa breve e sommaria descrizione dello stato dell'arte dell'economia pubblica in materia di amministrazione efficiente dello Stato, si può comprendere come il disagio dell'economista abbia ragione di manifestarsi, in quanto affonda sulla consapevolezza che non esistano attualmente risposte né semplici né adeguate ai problemi in discussione. Tuttavia, l'enfasi che la moderna microeconomia attribuisce all'analisi dei processi che regolano l'offerta costituisce, anche nel campo pubblico, la promessa di futuri risultati, sia teorici sia empirici. Certamente ciò risulta particolarmente importante in un paese, come il nostro, che sembra soffrire di gravi carenze dal punto di vista dell'efficienza "tecnica" dell'amministrazione, probabilmente superiori rispetto a quelle, pure presenti, di tipo tradizionalmente definito allocativo. Queste considerazioni affondano unicamente nell'àsservazione dell'economista in quanto tale, e non 64
escludono ovviamente i rilievi che possono essere avahzati se ci si pone da altri punti di vista (del giurista, del politologo, del semplice cittadino). Note Cfr. B. DENm, Politiche pubbliche e pubblica Amministrazione, pp. 225, Maggioli - Queste Istitùziom Ri-
cerche ed., 1989 e La cultura amministrativa negli ultimi 40 anni in « Queste Istituzioni », n. 75-76 aprilesettembre 1988.
Girolamo Caianiello
PER UNA CLINICA DELL'AMMINISTRAZIONE E PER UNA MIGLIORE SINTASSI ISTITUZIONALE.
Sarà forse una mia deformazione di operatore pratico più che di studioso, ma non mi astengo dal suggerire che a fianco delle utilissime ricognizioni generali come questa si faccia una sorta di clinica dell'Amministrazione, per analizzare qualche caso specifico. Mi spiego meglio. Una qualche volta sarebbe il caso di portare qui, in sala anatomica, una determinata amministrazione, per un esame in corpore vili sulla base dei nostri studi e della nostra esperienza. Questa modesta proposta, che non so quanto possa valere, nasce, come dicevo, dalla mia deformazione di operatore pratico, perché come tale sono tentato di citare tutta una serie di fenomeni concreti. Del resto vorrei ricordare che in Francia sono ben sviluppati gli studi di quella che da noi invece rimane la negletta e marginale scienza dell'amministrazione. Mentre anche lì, nel secolo scorso, Lucien Vivien (che è stato uno dei padri della scienza dell'Amministrazione) lamen-
tava la progressiva deviazione dall'interesse sul fenomeno amministrativo in sé, verso una concentrazione eccessiva sulle problematiche più strettamente giuridiche di origine essenzialmente giurisprudenziale del diritto amministrativo. Queste nostre deformazioni hanno quindi radici lontane anche al di fuori dell'Italia; solo che all'estero, da allora, si sono fatti molti passi avanti. E dire che Vivien venne in Italia a studiarsi le statistiche giudiziarie del Regno di Sardegna, trovandole di grande interesse per delle conferenze da tenere in Francia. In linea generale, l'analisi compiuta da Dente rende inevitabile chiamare in causa il nostro sistema politico ed una sua caratteristica essenziale: l'irresponsabilità della classe politica. Un certo assetto istituzionale, un certo sistema elettorale, una certa situazione politica (quella della non alternanza, il fattore K ecc.) hanno messo questa classe politica in una situazione di irresponsabilità, nel senso che, comunque vadano le cose sul terreno concreto, della cura efficace dell'interesse pubblico, non è in base a questo che si deciderà il risultato delle elezioni. A una classe politica - al Governo e all'opposizione, di maggioranza e di minoranza - praticamente irresponsabile, e lo dico in senso tecnico, non in senso etico valutativo, non poteva non corrispondere una burocrazia altrettanto irresponsabile. Irresponsabilità per i risultati, e perciò l'automatismo che ispira il funzionamento dei nostri apparati burocratici, perché è comodo, perché non pone il problema drammatico di una scelta, di una ponderazione di interessi da soddisfare, essendo un modo migliore di un altro, trattandosi solo di attuare "automaticamente" (più o meno) certi comandi legislativi. Ad esempio nell'attività di accertamento degli uffici tributari è pure stato introdotto il
principio della selettività, ed è stata una grossa rivoluzione perché niente come l'apparato tributario era ispirato al principio dell'automatismo. Criterio di selettività significa responsabilità delle scelte e dei risultati in termini di efficienza ed efficacia. Ma questo principio vive ancora, dopo dieci anni, nell'Amministrazione tributaria in maniera asfittica: per la ragione generale che ricordavo. Bisogna, quindi, trovare il modo di responsabiizzare la classe politica, che a sua volta sarà costretta a scegliersi una burocrazia che risponde a certi requisiti, per poter pretendere da essa il conseguimento di obiettivi prestabiliti. Vorrei dire qualcosa sul tema dei controffi di legittimità, che ci porta a livelli di sistemazione dommatica circa il rapporto fra legalità e interesse, perché l'ideologia del controllo di legittimità è quella di salvaguardare la legalità come valore autonomo e prioritario. Occorre domandarsi se per caso, invece, la legalità non sia altro che la regola per la soluzione di conflitti d'interesse, il che significa che deve esserci, per azionare la legalità, un conflitto. La legalità come neminem laedere dà al privato che si sente leso da un atto illegittimo dell'amministrazione la possibilità di ricorrere, ma il privato può anche decidere di non ricorrere, e l'atto rimane illegittimo ma lui non ha interesse a farlo annullare. Se trasportiamo il discorso sul piano dell'interesse pubblico, a me piace sempre ricordare che fin dalle origini, ovvero da oltre un secolo, il controllo della Corte dei conti, proprio quello preventivo, ha avuto come caratteristica il cosiddetto "visto di riserva" che in una visione legalistica è stato considerato uno strappo alla legalità. Io invece l'ho sempre ritenuto un elemento fisiologico e connaturale al controllo di legittimità, che dovreb65
be avere questo significato: il controllore segnala che un atto è contrario alla legge, ma c'è qualcuno, nella specie il Parlamento (massimo rappresentante dell' interesse pubblico), che decide se sussiste un reale interesse pubblico a eliminare l'atto dalla circolazione (ferme ovviamente restando le garanzie del privato), perché potrebbe darsi che di fronte a un atto formalmente contrario alla legge non ci sia un interesse a rinnovarlo. Allora il visto con riserva non è uno strappo, è l'applicazione di una logica generale per cui la legalità serve solamente come strumento per risolvere il conflitto d'interessi, se in concreto presente. Ciò ha previsto la legge sulla Corte dei conti fin dal 1862. E l'ideologia che ha trasf ormato invece la legalità in un valore assoluto, privilegiando così un minuto controllo atto per atto ed in forma preventiva, e scimmiottando moduli concettuali e formali proprio della giustizia amministrativa (avente il diverso compito di dirimere conflitti), malgrado la mancanza, fra l'altro, dell'efficacia tipica delle pronunce giurisdizionali; e senza accorgersi di abdicare al compito preliminare del controllo - specialmente se esterno all'Amministrazione - di valutare nel suo complesso l'azione concretamente svolta, secondo criteri non limitati alla sola legittimità, ma estesi all'utilità effettiva di tale azione (sempre beninteso al di fuori dei giudizi di valore di pertinenza politica, ma sotto profili tratti dalle diverse discipline non solamente giuridiche rilevanti ai fini del "buon andamento"). Quanto al fatto, da qualcuno segnalato, che per la burocrazia conta soltanto fare un certo numero di pratiche, debbo aggiungere qualcosa per sottolineare la cecità in cui vive la nostra cultura amministrativa, e ancora una volta faccio riferimento a mie esperienze di operatore pratico. Mi riferisco al 66
"fare un certo numero di pratiche" in campo tributario. Bene, la nostra amrninistrazione tributaria funziona in questo modo: che fare un certo numero di pratiche a Roccella Ionica è la stessa cosa che farle a Brescia, dove veramente si dice, e sono stato in questi posti, che se ti chini per strada raccogli ricchezza mentre a Roccella Ionica la cosa è un po' meno facile. Proviamo a scegliere un paragone meno ambiguo, lasciamo perdere Roccella Ionica e facciamo l'esempio concreto del MoUse dove questi pastori, e lo dico a loro difesa, sono molto più tartassati dal fisco di quanto non lo siano gli industrialotti di Brescia o di Bergamo, per il semplice fatto che la media amministrati-addetti a Campobasso o a Isernia è molto più bassa di quella degli uffici settentrionali. Mi diceva il direttore dell'Ufficio di Isernia di avere solo quattro società nella sua circoscrizione, e di andare sempre a controllarle, mentre le società più furbe si vanno a cercare nascondigli più "affollati" nei quali corrono meno rischi. Attraverso questo esempio arriviamo ad un fenomeno di cultura che è ancora più preoccupante, perché questa situazione di sperequata distribuzione geografica del personale assume nel settore tributario un carattere particolare. Nelle altre Amministrazioni c'è almeno la pressione degli utenti che spinge per aver un certo numero di addetti, qui invece gli "utenti" in linea genrale sono individualmente contro-interessati, ed il fenomeno può essere corretto solo in nome di una scrupolosa tutela dell'interesse collettivo all'adempimento dei doveri fiscali. Accade, invece, che la situazione di cui parlo sia determinata in gran parte da circolari firmate dal Ministro (tanto per non fare nomi, ha cominciato Visentini, pur famoso fra l'altro, per una sua certa nota del 1975 sul-
l'Amministrazione, che era un buon documento ma del quale evidentemente si è poi scordato, avendo preferito amministrare i tributi per legge senza più curarsi dell'Amministrazione). Queste circolari, che si rinnovano di anno in anno, prevedono espressamente una deroga a tutta la normativa sui trasferimenti, ammettendo che determinate situazioni personali dell'impiegato (infermità, esigenze di famiglia) possano portare al trasferimento dall'Ufficio, normalmente situato al Nord, ad uno del Sud. Ormai l'80% dei trasferimenti è disposto "extra ordinem" per questi motivi che da eccezione sono divenuti norma. A loro volta, le circolari trovano un pretesto, un alibi, in un accordo collettivo di lavoro consacrato in un decreto presidenziale del 1986/87, nel quale in verità non è prevista questa deroga, che rappresenta uno sgarro in sede puramente amministrativa, e tuttavia il trasferimento di autorità, per esigenze di servizio, viene configurato come qualche cosa di assolutamente eccezionale e straordinario. Ciò mi lascia molto perplesso, perché nel campo della magistratura, dove vige l'inamovibiità del magistrato, è previsto il trasferimento d'ufficio non in via eccezionale, ma solo stabilendosi che quando mancano gli aspiranti per un determiiiato ufficio si provvede di autorità trasferendovi il personale meno dotato di titoli preferenziali. Siamo quindi arrivati al paradosso che, mentre nella magistratura l'esigenza di servizio è contemplata come causa normale, in mancanza di domande, in un accordo collettivo riguardante la burocrazia amministrativa la stessa esigenza è diventata un fatto "straordinario ed eccezionale". Qui allora va sottolineato sempre il fattore "culturale", o ideologico, perché giustamente Dente ci ha ricordato che non stiamo discutendo del cattivo funzionamento dell'Amministrazione,
ma delle premesse ideologiche, della situazione ideologica o culturale che riscontriamo nell'Amministrazione. Ora, a mio parere, c'è un aspetto di ordine ideologico. Se non sbaglio - cito una fonte credo non sospetta - un uomo come Giuliano Amato diceva tempo fa, come Ministro del Tesoro, qualcosa propri6 a proposito del limite che la contrattazione collettiva, e in genere l'intervento del sindacato, dovrebbero incontrare in quelle materie, in quei campi che sono dominio dell'autorità pubblica cui compete valutare, per investitura democratica, l'interesse collettivo. Fermo il diritto del sindacato di pattuire le condizioni di lavoro e le retribuzioni. Ma qui subentra la distorsione ideologica ed anche politico-istituzionale. Mi pare che da molti interventi sia emerso che la classe politica dalla destra storica alle origini dello Stato unitario, in perfetta buona fede, identificava il proprio interesse con l'interesse "generale", con l'interesse dello Stato. La difesa dello Stato era un fatto naturale in quanto, magari, era anche una difesa del proprio interesse, e viceversa la difesa del proprio interesse si attuava attraverso la difesa di uno Stato concepito secondo certi canoni. Oggi, noi andiamo alla ricerca di un titolare di questa investitura, di questo carisma che sarebbe l'interesse pubblico. Non abbiamo più fiducia, non vediamo più nessuno che veramente possa incarnare l'interesse pubblico. Consideriamo le relazioni sindacali. Riesce difficile individuare la "controparte" rispetto al sindacato del personale. Il fatto è che, probabilmente, mentre il sindacato sa bene quello che vuole, conosce bene il proprio interesse, ed è convinto della propria investitura, ho l'impressione che dall'altra parte ci sia quanto meno un dubbio sulla propria legit67
timazione a battere il pugno, a dire no, di qui non si passa, questa linea non si può valicare. Sindacato significa due cose abbastanza diverse. Noi abbiamo sindacati che nelle loro espressioni unitarie e nazionali funzionano, diciamo così, da classe generale, si fanno portatori, lasciamo perdere se giustamente o meno, di interessi generali, per esempio la lotta all'evasione fiscale. Ma quando il sindacato è il sindacato del dipendente pubblico, di chi lavora nell'azienda pubblica, il nome è lo stesso, noi lo chiamiamo egualmente sindacato, però la posizione è ben differente. Quindi la contraddizione sta anche all'interno stesso di questa entità che si chiama sempre sindacato, e l'errore è stato di aver mitizzato il sindacato del pubblico impiego (categoria fra l'altro privilegiata rispetto agli altri lavoratori), permettendogli certe invasioni di campo che forse andrebbero riviste, perché quelle circolari sui trasferimenti che ho citato le gestisce non il Consiglio di Amministrazione del Ministero, ma una Commissione che sta quasi completamente nelle mani dei sindacati; e questo è un pericolo anche per la libertà del singolo dipendente, il quale, se non è "sindacalizzato" corre il rischio di aspirare ad un trasferimento anche per motivi seri e di non ottenerlo perché non ha santi in Paradiso. Voglio sottolineare gli aspetti "culturali" di questa situazione con un esempio che mi ha fatto sobbalzare: parlo adesso della Magistratura della Corte dei conti, nella quale è stato istituito, da un certo tempo, il Consiglio di Presidenza con una componente elettiva di magistrati e un'altra di componenti laici nominati dai Presidenti delle due Camere. Ho letto in un ordine del giorno votato dall'assemblea dell'Associazione magistrati, che nel parlare della componente elettiva del 68
Consiglio di Presidenza, si parlava della componente "democratica" dello stesso Consiglio. Un errore così grave di sintassi istituzionale, non lo perdono ai miei colleghi magistrati, comunque è una spia di una enorme confusione ideologico-culturale, perché la componente democratica semmai è quella nominata dall'esterno, da organi che promanano dalla collettività del popolo al cui servizio si trova la Magistratura della Corte dei conti. L'avere dei rappresentanti elettivi significa avere il privilegio di concorrere all'esercizio del governo della categoria come adempimento di uno speciale dovere a tutela dell'indipendenza, ma scambiarlo per un diritto "democratico" è molto pericoloso. Ripeto: è un errore gravissimo di sintassi istituzionale, ed è per questo che ho voluto ricordarlo, giacché stiamo facendo un discorso di ideologie e di cultura, e dobbiamo deciderci a fare chiarezza su questi punti. C'è un analfabetismo in materia davvero spaventoso, e contro l'interesse generale, che ormai non si sa più chi lo rappresenti, si sono scatenate le corporazioni, le autonomie, le autogestioni, gli autogoverni, e questo è uno stato di cose che preoccupa, dato che a rimetterci è proprio la democrazia, soffocata dal prevalere di agguerrite minoranze settoriali, protette anche da mistificazioni ideologiche.
Stefano Sepe
UNA DIRIGENZA NON PIÙ FIACCA E INCERTA?
Non è certamente mia intenzione allargare troppo gli ambiti cronologici del dibattito, ma non posso non raccogliere alcuni spunti
che mettono in luce temi che fanno parte di una tendenza di lungo periodo riferibile all'insieme della storia politico- amministrativa dell'Italia unita. E certo che le trasformazioni nell'organizzazione amministrativa intervenute in età giolittiana (si pensi soltanto alla creazione delle aziende di Stato e della nascita del primo ente pubblico, l'INA) ebbero un'eco profonda nella dottrina giuspublicistica. Tra Santi Romano, Oreste Ranelletti, Carlo Francesco Ferraris, Emanuele Gianturco ed altri si discusse soprattutto di persona giuridica pubblica ed emersero risposte nuove su temi riguardanti la soggettività di enti dalla definizione incerta (si pensi alle istituzioni di beneficenza) o riferibili a situazioni in qualche modo laceranti nel panorama amministrativo statale (basta qui ricordare il tema della sindacalizzazione nell'impiego pubblico). Rispetto a questo insieme di problemi la dottrina giuridica operò, se non altro, una decisa messa in discussione di alcuni momenti centrali del suo stesso statuto epistemologico. Non altrettanto avvenne - è questo il punto che mi preme sottolineare - in un'altra fase attraversata da trasformazioni forse ancor più profonde. Mi riferisco alla prima metà degli anni '30 di questo secolo. E singolare che mentre avveniva - con la prolif erazione degli enti pubblici - una vera rivoluzione dell'assetto amministrativo italiano, i giuristi continuavano a parlare di uno Stato che non esisteva più. Ciò in presenza di riforme legislative (l'istituzione dell'rai nel 1933 e la legge bancaria del 1936) che modificavano alla radice il sistema amministrativo. In realtà stava avvenendo, in tempi rapidi, uno sdoppiamento destinato a dividere l'amministrazione pubblica in due tronconi sufficientemente distinti tra loro e soprattutto marcatamente differenziati rispetto al regime giuridico dei controlli. In questo quadro,
soltanto per fare un esempio, il rafforzamento della Ragioneria Generale dello Stato operato con la legge Thaon di Revel del 1939 - implicò una ancora maggiore differenziazione tra apparati statali ed enti pubblici. Nell'insieme, mancò da parte della dottrina giuridica, una attenzione sufficiente ad una serie di modifiche destinate ad incidere profondamente sull'intero sistema. Singolarmente l'attenzione degli studiosi di diritto amministrativo e di diritto pubblico fu attirata più da riforme, come quella dell'ordinamento corporativo, che non ebbero nessuna pratica incidenza ma che erano al centro dell'indirizzo politico del regime fascista. Gli spunti più significativi della dottrina diedero origine, in quel periodo, ad una tematizzazione del rapporto "funzionale" tra Stato ed enti pubblici. Solo a partire dagli anni cinquanta prese, poi, quota una riflessione collegata all'affermarsi degli enti "strumentali". Nel complesso la non sufficiente percezione delle novità dell'ordinamento delle pubbliche amministrazioni ha avuto, a mio avviso, riflessi di portata non indifferente. Per questa ragione ho creduto opportuno farne cenno. L'aspetto più importante del problema è certamente - e non causalmente è stato richiamato - quello dei controlli. Mi sembra che la difficoltà a venir fuori da una situazione che sta paralizzando l'amministrazione pubblica affondi le sue radici proprio nelle incertezze della dottrina giuridica intorno ai grandi mutamenti degli anni trenta. Il problema va certamente risolto con gli strumenti di oggi. Non è però privo di senso chiedersi - all'interno di un discorso sulla cultura dell'amministrazione - da dove derivino certe "insufficienze" teoriche. Si parla, infatti, della inderogabile necessità di una radicale riforma dei controlli (tanto che l'argomento 69
sembra essere divento un "luogo comune") e non si è discusso abbastanza, all'interno della cultura amministrativa, sul fatto che la fuga dello Stato operata mediante la creazione degli enti pubblici, mirava appunto a sfuggite ai controlli cui sono sottoposte le amministrazioni statali. Vi è un secondo punto, sul piano teorico, che vorrei riprendere ed è quello della "giustiziabiità" nell'amministrazione. Ad esso si connette - come ha acutamente osservato Dente - la "curiosa costruzione" teorica dell'interesse legittimo. Che essa sia stata una delle strutture portanti del nostro sistema amministrativo non vi è chi possa nutrire dubbi. Ciò non toglie che la categoria di "interesse legittimo" subì autorevoli contestazioni già subito dopo l'istituzione (esattamente un secolo fa) della IV sezione del Consiglio di Stato. Il Procuratore generale della Corte di Cassazione,. Auriti, esprimeva al riguardo le perplessità degli apparati giudiziari di fronte ad una riforma allora molto controversa. Ma il dibattito era tutto interno al diritto amministrativo. Lo ha sottolineato già Dente. Io ricorderei che, proprio in quegli anni, Vittorio Emanuele Orlando aveva operato la svolta destinata ad incidere profondamente nel rapporto tra il diritto amministrativo e le altre scienze che si occupavano dell'amministrazione pubblica. Quell'orientamento avrebbe segnato, come è noto, il destino della cultura amministrativa nel nostro Paese. Sul dominio dei giuristi - almeno fino ad un determinato momento storico - nell'ambito della cultura amministrativa non credo vi sia da discutere. Mi limiterei a porre, problematicamente, una questione: vi è stata un'incidenza effettiva di "altre" culture in quell'importante punto di rottura che Giannini ha individuato nel passaggio dallo Sta70
to "oligarchico" a quello "pluriclasse"? A mio avviso, una traccia di questo fenomeno - dentro l'amministrazione dello Stato - si ritrova, specie all'inizio del secolo, nelle burocrazie tecniche (sanità pubblica, lavori pubblici) e, in particolare, nei Consigli superiori. La vicenda di questi organi tecnici va, credo, rammentata perché si collega, in modo singolare, al dominio della cultura giuridica nell'amministrazione. Non soltanto è la storia di una sconfitta perché il fascismo aboil alla fine del 1923 quasi tutti i Consigli superiori tecnici, ma è anche la riaffermazione del ruolo centrale del Consiglio di Stato, che riassorbì in sé funzioni consultive e giurisdizionali che - nei due decenni precedenti erano state assegnate ad alcuni Consigli superiori. La riaffermata unicità della funzione consultiva e giurisdizionale diventò, come chiedeva Salvatore D'Amelio al ministro delle Finanze De Stefani, uno dei punti cardine della riforma dell'amministrazione attuata nei primi anni del fascismo. La successiva riforma del 1924 sancì in modo definitivo la ripresa di quota del Consiglio diStato e il suo ruolo di "custode" della tradizione giuridica sia per l'aspetto consultivo sia per quello giurisprudenziale. 11 percorso, delineato dianzi, esprime in modo chiaro - a mio modo di vedere - l'esito di quella difficile convivenza, nell'amministrazione, della cultura giuridica e di quella di tipo tecnico. Sullo sfondo vi sono due concezioni assai distanti: mentre l'emergere delle burocrazie tecniche adombrava un modello di tipo partecipativo, la riaffermazione della "dominante" giuridica su tutta l'amministrazione era il segno del perdurare di un'idea statocentrica che gli stessi giuristi avevano tentato di mettere in discussione all'inizio del secolo. Si potrebbe dire - estremizzando un po' i
termini della questione - che la cultura giuridica dentro l'amministrazione riuscì ad essere ancora più impermeabile ai cambiamenti di quanto non fosse per la cultura accademica. Negli apparati si è respirato molto poco che non fosse il diritto amministrativo. Ma veniamo al tema della riforma della dirigenza pubblica. Anche qui è forse opportuno guardare al problema sotto l'angolo visuale della cultura amministrativa. Per quanto riguarda la cultura "di governo" sull'amministrazione non c'è dubbio che la questione del ruolo dell' alta dirigenza e dei suoi rapporti con il ceto politico sia stata tanto reiteramente posta quanto mai risolta in modo soddisfacente. Il fatto che il modello amministrativo cavouriano, affidando tutta intera al ministro la responsabilità degli atti del suo dicastero, costringesse questi ad occuparsi di cose assai minute, relegando in un ruolo marginale i funziopari di grado più alto non fu solo oggetto di ricorrenti polemiche o di richieste di modifica, ma, anche, come è noto, di un decreto - voluto da Bettino Ricasoli nell'ottobre del 1866 - mai convertito in legge dal Parlamento. Il problema si è trascinato per oltre un secolo tra palesi incertezze del potere legislativo ed un progressivo auto-escludersi dell'alta burocrazia dai processi decisionali sull'amministrazione pubblica. Come notavano anni fa Alberto Caracciolo e Sabino Cassese, si consumò, agli inizi del secolo, una "ritirata strategica" della burocrazia rispetto al ceto politico. Si trattò di un processo che procedeva in parallelo con l'ampliarsi degli spazi degli uffici di diretto ausilio dei ministri. Non che non giocassero, in tale evoluzione, delle controtendenze e dei correttivi: l'alta burocrazia, infatti, tendeva a recuperare terreno proprio negli uffici di gabinetto. In questo modo, però, essa abdicava al suo ruolo natu-
rale di corpo deputato al governo degli apparati. La complessiva subalternità dell'alta burocrazia è, credo, quasi tutta in questa perdita di identità. Non casualmente, nei momenti chiave dei dibattiti sulla riforma dell'amministrazione - penso alle commissioni del primo dopoguerra o al dibattito negli anni della Costituente - la burocrazia ebbe sempre una posizione difensiva, limitandosi a chiedere garanzie di statas o a contrastare i progetti di razionalizzazione che incidevano sulle posizioni economiche degli impiegati. Un esempio solare di un orientamento subalterno e di una complessiva incapacità di essere "all'altezza" del ceto politico (di essere, cioè, chiamati a contribuire alla definizione delle linee strategiche degli apparati pubblici) credo possa essere rintracciato nel dibattito degli anni '60 sul "potere di firma". Mentre la Commissione Medici tentava di collegare - con un approccio di alto respiro - la riforma degli apparati pubblici alla necessità della programmazione economica, l'alta burocrazia (e, in particolare la DtRSTAT) riusciva a malapena a rivendicare la possibilità di firmare atti definitivi fino a quel momento spetianti ai ministri. Sulla questione non indugio, richiamandomi alle pagine esemplari scritte da Bruno Dente qualche anno fa. In siffatto contesto l'istituzione della dirigenza pubblica con il DPR 748 del 1972 può a buona ragione - come ha sostenuto Giovanni Marongiu - essere considerata una vera e propria rivoluzione. Non mi soffermo qui sulle ragioni della sua così modesta attuazione. È, più opportuno, per l'economica dei nostri lavori, chiedersi cosa sia cambiato in questi oltre quindici anni nella prassi e nella mentalità della dirigenza pubblica. E soprattutto come è stata vista dalla comunità la funzione dei dirigenti pubblici. Mi servirei, per dare un abbozzo di risposta, di un indizio in71
diretto. La presunta novità del disegno di legge presentato nel dicembre scorso dal ministro Cirino Pomicino riguardo all'autonomia dei dirigenti ed alla separazione di competenze tra essi ed i ministri è, per l'appunto, la parte meno nuova del progetto governativo. In questo, infatti, viene sostanzialmente ricalcata l'impostazione del DPR 748. fl che a mio avviso, dimostra essenzialmente due cose: che le prerogative previste sono state esercitate in modo fiacco ed incerto; e che, per questa ragione, l'autonomia del ceto politico viene vista come una meta ancora da raggiungere. Giustamente, quindi, Sergio Ristuccia considerava - nel corsivo introduttivo dell'ultimo numero della rivista - il tema dell'°"autonomia" un passaggio obbligato per una riforma sostanziale. A questo elemento aggiungerei alcune considerazioni sul significato che assume lanforma della dirigenza pubblica. E abbastanza chiaro che essa si muove in un contesto complessivamente favorevole. Migliore almeno, a mio avviso, del periodo nel quale (a seguito delle leggi delega del 1968 e deI 1970) fu emanata la normativa tuttora in vigore. Siamo, infatti, in una fase attraversata da processi di trsformazione profonda delle amministrazioni pubbliche. In questo decennio si è manifestata una chiara tendenza all'articolazione nell'organizzazione degli apparati pubblici. A differenza di quanto era accaduto negli anni settanta, contrassegnati da alcune grandi leggi di cornice (Regioni, sanità) in questi ultimi anni la politica del governo si è orientata a regolamentare, in maniera specifica, alcuni settori strategici degli apparati pubblici. A questa tendenza all'articolazione, contraddistinta da un deciso riconoscimento della necessità di autoregolazione delle organizzazioni pubbliche, si è affiancato - in modo for72
se meno evidente - un processo fondato su una forte esigenza di raccordo. L'una delle tendenze - lo dico in modo assai schematico e "rozzo" - non è in conflitto necessario con l'altra. Anzi, a me sembra che la logica del disegno di legge sulla dirigenza pubblica vada colta proprio nella sua caratteristica "trasversale". La riforma si presenta, infatti, come il tentativo di dotare gli apparati pubblici in una "tecnostruttura" in grado di partecipare al governo dei processi di intervento dei poteri pubblici. Sotto questo profilo il disegno di legge governativo si presenta come elemento di completamento e di continuità ideale con la legge sulla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Quest'ultima, dopo la riforma, dovrebbe finalmente essere in grado di assolvere alla funzione di struttura servente l'azione di coordinamento politico-amministrativo spettante al presidente del Consiglio. Alla dirigenza pubblica, invece, dovrebbe essere affidato un ruolo più incisivo nella gestione degli apparati ed un maggiore peso nell'elaborazione delle strategie. Si tratta, quindi, di un indubbio tentativo di modernizzare l'amministrazione pubblica, che va salutato con favore da coloro che auspicano un migliore funzionamento dei pubblici poteri. Le stesse norme sui differenziali nel trattamento economico, legati al raggiungimento degli obbiettivi, segnano - nonostante le non poche difficoltà di attuazione - una radicale inversione di tendenza rispetto al modello di un funzionario pubblico sicuro del proprio "posto" e poco stimolato a lavorare di più e meglio. Anche la previsione di un accesso attraverso un dottorato in pubblica amministrazione va considerato molto positivamente. Sull'argomento non mancano - per quello che è dato sapere - resistenze specialmente da parte degli stessi dirigenti statali. Si tratta di far
chiarezza e di far emergere gli aspetti positivi sia di un "sistema concorrenziale" (tra funzionari ed esterni alla pubblica amministrazione) per l'accesso alla dirigenza sia dell'abbassamento complessivo dell'età media dei dirigenti. Il tema dell'accesso è legato, come si sa, alla riforma della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Mi consentirete di sottolineare che l'approvazione del disegno di legge governativo viene dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione - considerato che da alcuni mesi sta conoscendo un rilancio significativo - un elemento essenziale per poter svolgere un ruolo "incisivo" nelle strategie di governo per la pubblica amministrazione.
Mario Colacito
UGUALE È BELLO? RIFLESSIONI SULLA (DIS)ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA
Vorrei soffermarmi sulla organizzazione dell'amministrazione e più in particolare sulla responsabilità degli "addetti" agli apparati. Perchè responsabilità degli addetti? Perchè nell'attuale momento essi stanno giocandosi ogni residua credibilità e, di conseguenza, il loro stesso ruolo. Ma occorre tenere in debito conto le ragioni che hanno condotto al loro sostanziale asservimento alla classe politica o alla loro abulia. Ecco perchè va fatta una riflessione sull'organizzazione. I "cultori" del diritto amministrativo hanno da tempo iniziato ad abbandonare l'inconscia convinzione che, tutto sommato, il principio di legalità applicato alla organizzazione possa far dimenticare i problemi partico-
lan dell'organizzazione, che alla fine conseguono dalla stessa applicazione del principio. Affermare che l'organizzazione di base degli apparati amministrativi deve riposare sulla legge potrebbe indurre ancor oggi nella convinzione che la struttura risulta "legale" soltanto e proprio in quanto prevista da legge, puramente e semplicemente. E la convinzione che, in definitiva, sta dietro l'accoglimento della tesi che in materia di istituzione di uffici ex lege, è sufficiente l'evocazione del nomen degli uffici, senza alcun riferimento alle attribuzioni concrete, per poter ritenere "soddisf atta" la esigenza delle riserva di legge ex art, 97 Costituzione. E un errore di ottica, forse un incosciente errore, avere ritenuto che la riserva di legge sia comunque una garanzia per la saldezza delle istituzioni. In verità da tale visione delle cose consegue un'altra induzione e cioè che l'eguale è bello. L'eguale come proiezione del carattere "generale" della norma giuridica, sicchè il principio riferito ad esempio agli enti locali mette le formiche sul piano dei pachidermi, in virtù della "eguaglianza" rafforzata dagli enti quale è magari desumibile dal fatto che l'art. 128 Cost. prevede che leggi "generali" della repubblica determinano le funzioni di comuni e province. Né va poi trascurata la relativa "immutabilità" delle strutture che consegue da questo tipo di convinzioni. Si preferisce, per esempio, ritenere che nella attività dei dirigenti degli apparati non vi è spazio né per poteri o forze innovative, né per l'esternazione di dissenting opinions nei confronti del potere politico. Tutta colpa, dunque, dell'art. 97 della Costituzione? Direi proprio di no se si considera che la stessa lettura dell'articolo dovrebbe condurre a tutt'altra conclusione dal momento che l'organizzazione per legge degli uffici deve avvenire in modo che sia garantita l'imparzialità e il buon andamento della pub73
buca amministrazione. Imparzialità e buon que precludono interventi troppo minuti nelandamento che sono parole vuote ove non la materia. calate nella concretezza dell'azione amminiL'organizzazione degli uffici della Pubblica strativa e nella specificità delle singole Amministrazione ex art. 97, nel modo che amministrazioni. si è voluto considerare, riesce a dare rispoDunque, finora e per i più, non solo uguale sta sia ai problemi delle strutture che a quelè bello ma basta uno straccio di legge per sili dell'azione amministrativa (al di là del ristemare le cose. Come si fa, d'altra parte, a spetto dei principi dello Stato di diritto) per negare la forza della legge una volta che queprivilegiare quelle che sono le soluzioni più sta sia stata emanata? Che poi serva anche coerenti che pervengono oggi allo Stato amla realizzazione della imparzialità e del buon ministrativo e, cioè, strutture efficienti e riandamento sembra un fatto trascurabile. sposte concrete ai bisogni della collettività. A tale linea di ragionamenti occorre tornare In tale prospettiva, la sostanziale "disponia contrapporre quella di Nigro quale risulta bilità" delle strutture va vista come strumendagli "Studi sulla funzione organizzatrice". to funzionalmente destinato a modellarne le L'intervento del legislatore sull'organizzazio- linee proprio in relazione agli interessi da ne dei pubblici uffici va letto nel contesto realizzare. dell'art. 97 Cost., ma non nel senso che l'arSotto tale angolo visuale, si osserverà che ticolo preveda una riserva di legge in mateproprio la lettura della disposizione in chiaria di organizzazione, bensì nel senso che l'atve di riserva di legge ha avuto un effetto fortività di organizzazione è sempre funzione temente riduttivo di tutti i possibili conted'indirizzo politico anche quando si realizza nuti nella disposizione. Si può anzi dire che mediante la produzione di norme giuridiche. inevitabilmente, anche se coerentemente, la In tale diversa ottica, i due principi dell'imlettura della norma è avvenuta in senso riparzialità e del buon andamento hanno una duttivo: essa è parsa consentire soltanto una diversa logica nell'ambito della norma. Non verifica della non arbitrarietà o irrazionalità nel senso che la loro ricognizione o creaziodelle formule organizzative adottate. L'aspetne come doveri costituisca il nucleo della norto estremamente ridotto o limitato del suo ma, bensì nel senso che questi sono risultati contenuto riporta proprio al fatto che la norda garantire attraverso moduli e regole di orma venga riferita solo ad uno degli elementi ganizzazione. Se ciò è vero si può ricostruidel binomio Parlamento e Governo. re l'art. 97, primo comma, nel senso che es- In realtà, lo stesso art. 97 non appare limiso prevede un canone di ripartizione della tato alla organizzazione. Di questo è riprofunzione di organizzazione e di indirizzo che va il fatto, vale ripetere, che imparzialità e opera in entrambi i sensi e cioè. verso l'Esebuon andamento indicati nella norma non cutivo e verso il Parlamento: quest'ultimo, hanno senso se non riferiti quanto meno anpone (solo) i principi e i criteri organizzativi che all'attività degli apparati e ciò nel senso fondamentali, cui deve uniformarsi l'esercidi criteri o principi da rispettare nell'esercizio della funzione organizzatrice dell'Esecuzio di questa. tivo e questi sono appunto preordinati ad assicurare imparzialità e buon andamento. Per Tralasciamo una serie di passaggi ulteriori e il legislatore, però, questi principi e criteri giungiamo a una provvisoria conclusione: annon sono mera raccomandazione ma comunche in termini di interpretazione giuridica 74
le cose stanno altrimenti da come tanti "cultori" hanno ritenuto. Certo, l'organizzazione e l'attività amministrativa sono disponibili per il potere normativo. Ma la norma può essere letta nel senso che essa individùa in definitiva la funzione amministrativa, proprio come l'art. 101, 2°co., individua la funzione giurisdizionale. Con la conseguenza che da quest'altra visuale è ben altro lo stimolo che può conseguire nell'approfondimento del punto che ci interessa. Non si è più di fronte, per questo aspetto, a organizzazioni ex lege dell'apparato: si è di fronte alla individuazione della funzione e alla sua multiformità rivolta pur sempre alla realizzazione di uno o più interessi pubblici: l'effetto giuridico fondamentale sul quale si concretizza il potere è dato dall'effetto finale del procedimento ovvero, più in generale, dell'attività della P.A.. Ognuno comprenderà che con queste affermazioni si è fatto un giro completo di prospettive. L'importante è che questo discorso sia seguito dagli "addetti" o che comunque essi si ridestino dal letargo nel quale sono sprofondati specie in un momento come quello attuale sempre più prossimo alla scadenza europea del 1993. In problema non sarà tanto quello che l'amministrazione può "soccombere", tenuto conto che le forze economiche e tutti gli altri portatori di interessi pubblici troveranno comunque modo di reagire e di spingere propulsivamente gli apparati pubblici. Il fatto è che, a giudicare dall'andamento generale, si assiste a fenomeni di completa sostituzione dell'apparato pubblico proprio per effetto di una inefficiente classe dirigente pubblica. Forse è abusato ma sempre utile ricordareil caso delle concessioni. Esse, più che forme sostitutive dell'appalto, divengono
forme di sostanziale istituzione di uffici,
in sostituzione di altri uffici assopiti. Perciò non è da meravigliarsi se ci si sta muovendo verso un sostanziale definitivo azzeramento del ruolo e delle funzioni della attuale dirigenza pubblica. C'è solo un'attenuante che la dirigenza stessa può portare a propria difesa: l'aver seguito pedissequamente i denunciati indirizzi dei "cultori" che, come sopra detto, della garanzia della riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici ne han fatto un gran uso a mò di gas soporifero nel rispetto di un'idea molto formale del diritto.
Francesco Lamanda
UNA POSSIBILE LEADERSHIP
Vorrei pormi nella prospettiva di considerare lo Stato come un'impresa. E una simulazione a fini espositivi utile per introdurre alcune considerazioni sul problema delle modalità di gestione del cambiamento nella P.A. inteso come conseguimento di un livello più alto di efficacia ed efficienza. Sono d'accordo con chi ha affermato che analoghi processi nella impresa sono stati facilitatidall'unità di indirizzo e coordinamento assicurate dall'imprenditore. Peraltro non si può trascurare il ruolo cruciale svolto nelle grandi imprese dal livello manageriale il quale assicura la realizzazione della strategia e degli obiettivi definiti assumendosi la responsabilità operativa e gestendo tutte le variazioni e le turbolenze che si possono verificare n'èll'arco temporale, frequentemente ampio, necessario per portare a termine il processo di cambiamento. Credo che analogamente nella P.A. c'è in pro-
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posito l'esigenza di una assunzione di responsabilità, di alto profilo proprio da parte dei massimi livelli dell'Amministrazione. Oggi nell'attesa del cittadino medio la P.A. si legittima se rende verso la collettività un servizio con alta professionalità e anche con tempestività e quindi a basso costo di funzionamento. Si introducono quindi nello scenario elementi di costo, elementi di efficacia che non sono tradizionali per la nostra cultura amministrativa proprio perché la domanda sociale storicamente rivolta agli attori dell'Amministrazione era di tipo diverso. Forse l'esperienza di cambiamento della loro missione e quindi dei loro processi interni che le grandi imprese, anche italiane, hanno seguito può essere in proposito interessante. Brevissimamente vorrei richiamarla. Intanto è stato identificato come momento fondamentale del cambiamento il momento culturale; una grande impresa sa che non è tanto razionalizzando la sua struttura che ottiene un migioramento di efficienza ed efficacia, ma sa che la ottiene se si modificano i comportamenti diffusi delle sue risorse. Continuando in questa similitudine un po' forzata tra P.A. e le aziende di servizio, in queste ultime il problema del comportamento degli addetti è ancora più cruciale, esso è funzione non tanto della motivazione monetaria in senso stretto quanto della loro cultura, cioè di quell'insieme di norme, di valori, di regole implicite, magari mai scritte ma che contano moltissimo, che conducono gli operatori a scegliere certi comportamenti a livello di esecuzione del compito. Chi è in grado di modificare la cultura? La modificazione culturale si ottiene solo tramite un intervento forte e continuo della leadership gestionale, che può intervenire sulla cultura o le sottoculture, dato che - come è stato notato - non c'è una cultura gene76
rale della P.A., ci sono invece sottoculture diverse in funzione degli scopi e delle missioni dei settori che compongono la pubblica amministrazione. Il paradigma che scatta nel piccolo gruppo di lavoro è il seguente: si verificano verso i leaders fenomeni di identificazione che il leader può rafforzare con tre leve: la comunicazione, cioè si deve impegnare nella comunicazione continua dei nuovi valori e della proposta di nuovi atteggiamenti sul lavoro; la formazione che è un momento, se vogliamo, rispetto ai valori di rafforzamento dedicato alla loro razionalizzazione e deve svilupparsi in sintonia con un progetto gestionale, altrimenti la formazione rappresenta solo un momento di fuga dalla realtà lavorativa quotidiana ed è allora una leva apparente. La terza leva è la leva dei compensi. A questo proposito non è solo importante pensare a compensi rozzamente e quantitativamente più significativi, quanto alle logiche che vengono utilizzate nella loro definizione, in particolare concetto di differenziak retributivo, cioè a maggiori livelli di peso delle posizioni di lavoro deve esistere un apprezzabile differenziale retributivo, e a parità di peso delle posizioni è importante siano disponibili spazi retributivi anche variabili per riconoscere le prestazioni individuali, la cui gestione sia affidata alla leaderschip. La gestione dei sistemi di incentivazione, la pianificazione e il controllo delle risorse, la tempestiva progettazione di nuove connessioni amministrative quali ordini e procedure sono altrettanto importanti quanto la gestione dei meccanismi più soft prima descritti. Si tratta di responsabilità che non possono essere delegate verso l'alto al livello politico (sarebbe come se in una grande azienda gli azionisti si occupassero della gestione), ma
devono essere fatte proprie dalla dirigenza, anch'essa composta di grandi numeri e che quindi ha a sua volta al suo interno la necessità di una guida e un riferimento costante nel tempo. Così come è avvenuto nel mondo dell'economia, anche la pubblica amministrazione deve investire nella leadership. E necessaria una scelta di campo forte di un elite amministrativa che si assuma la responsabilità di piotare la grande macchina verso le attese del cittadino riuscendo a fare una operazione di cambiamento culturale tanto profonda e che si coordini a tale scopo. Devo dire che gli strumenti normativi non mancano, in essi c'è una lucida strutturazione del compito del manager nella Funzione Pubblica. Un altro elemento di scenario che è disponibile e può avere grande utilità è la scelta di politica di relazioni industriali che è costituito nel delegare importanti responsabilità di contrattazione ai vari ministeri o camparti. E una scelta pericolosa se il sindacato si pone in una logica di non volontà di perseguire il cambiamento. E invece di grande efficacia se anche il mondo sindacale considera un traguardo importante per la collettività un più alto livello qualitativo della P.A. perché gli accordi di comparto e di amministrazione avranno la funzione di rafforzare l'orientamento delle coscienze collettive delle risorse umane della P.A. ed alla nuova mis-
sione dell'impresa stato. Ma vi sono ulteriori analogie tra mondo dell'economia e amministrazione dello Stato che vanno nella direzione del rafforzamento della congruenza tra i due sistemi. Ad esempio l'acquisizione oramai consolidata della necessità di delegificare il processo decisorio e gestionale della pubblica amministrazione dimostra una volta di più la fon-
datezza della tesi di Luhrnann secondo la quale tutti i sistemi della società contemporanea sono spinti dalla complessità degli scenari e dalle contiguità strutturali verso un reciproco adattamento. L'adattamento comporta non solo la trasmissione di modelli e la ibridazione delle culture, ma anche la circolarità degli effetti sulla organizzazione e distribuzione del potere decisionale. Nel sistema economico sono oramai consolidate strutture de-burocratizzate e flessibili, difatti in conseguenza della impossibilità di governare la previsione degli scenari e procedere quindi ad applicare modelli di programmazione e decisioni centralizzati l'azienda decentra il potere per assicurarsi flessibilità e rapidità di reazione e di adattamento e applica i modelli di "imprese rete" e di organizzazione "ad-hoc-ratica". In essi i collegamenti sono assicurati non dalle norme e dalle procedure, ma dalla struttura; i managers che la compongono sono sintonizzati su una comune visione delle modalità di controllo dei fenomeni in quanto partecipano di una unica cultura organizzativa. La turbolenza dell'ambiente è tale che se si procedesse ad istituzionalizzare in norme e procedure i comportamenti organizzativi, il tempo tecnico della formalizzazione li renderebbe già obsoleti; è pertanto necessario che la vitalità e stabilità dell'azienda siano assicurate dalla capacità di reagire con risposte appropriate e differenziate alle articolate variabili ambientali. A contingenza di scenari si deve rispondere con contingenza di sistemi decisionali. L'adeguamento a tale approccio anche della pubblica amministrazione è nelle cose; da un lato essa partecipa della gestione del sistema economico in quanto essenziale infrastruttu-
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ra, e pertanto deve anch'essa flessibilizzarsi come ha fatto il destinatario del suo servizio, inoltre è anch'essa sollecitata in maniera diretta dal suo mercato Costituito dagli
utenti del welfare state. A questo proposito da più parti si è sottolineato che sono le istituzioni democratiche a permettere in maniera esponenziale la presentazione della domanda sociale sovraccaricando la classe politica che è ad un tempo veicolo della domanda e vettore del suo soddisfacimento, essa può essere alleggerita di quest'ultimo compito disponendo di esperti "organizzatori" dell'offerta in grado di operare in un sistema flessibile e delegificato, appunto gli alti livelli della dirigenza pubblica. La ricaduta sulla struttura di gestione nella pubblica amministrazione è evidente; occorre che tutto il suo management sia in grado di fare propria la flessibilità gestionale e inoltre l'anomia che la crisi dei valori tradizionali determina nel resto del personale rende ancora più essenziali la dirigenza poiché si deve sopperire con il carisma e l'autorevolezza dei capi al venir meno dei punti di riferimento tradizionali. Ho già detto che il disegno generale del sistema quale risulta dalle norme in vigore appare idoneo per recepire la "flessibiizzazione", vi sono strutture normative in grado di sostenere la transizione e le ulteriori iniezioni di flessibilità che più diffusive delegificazioni devono permettere. Il processo peraltro stenta a consolidarsi, in quanto la tradizione centralistica sia del sindacato che dell'amministrazione conduce ad un incerta diffusione del processo negoziale intra-organizzativo. Il timore di leggittimare eccessivamente la gerarchia ha frenato il sindacato nel completamento del disegno di incentivazione del personale, essenziale per rafforzare i nuovi va78
bn, così che l'accordo sulla qualifica funzionale non prevede quegli incrementi orizzontali per merito nei liveffi che sono invece possibili e logici. Certamente ne conseguirebbe la necessità di ridare contenuto alla prassi della valutazione delle prestazioni, aggiornando il metodo ai nuovi valori contando e sollecitando su un minor livello di pragmatismo e opportunismo nella gestione del "rapporto informativo". Segnali incoraggianti giungono dall'area della formazione dove si va esplicitando un orientamento a trasmettere ai dirigenti un "saper essere" invece che un sapere "tout-court", in linea con la necessità imposta dalla contingenza di disporre di una rete di quadri con capacità autonome di coordinamento, gestione delle relazioni laterali e di integrazione, padroni allo stesso tempo del loro segmento quanto a propensione all'auto-direzione.
Mariateresa Provenzano
COME LA PENSANO I DIRIGENTI STATALI Vorrei qui presentare i primi risultati di una ricerca, ancora in corso, sul ruolo del dirigente nella gestione del personale. L'indagine cui collaboro è diretta dal prof. Luciano Visentini ed è condotta nell'ambito del corso concorso di formazione dirigenziale presso la Scuola Superiore della Pubblica amministrazione. L'esperienza del corso concorso ci ha permesso di usufruire di una preziosa fonte di informazione diretta: tutti i futuri dirigenti cui è destinato il corso di cui alla legge 301/84. Abbiamo quindi cercato di cogliere nei partecipanti al corso il duplice aspetto di "ge-
stori" del personale e di "gestiti" ed è in questa ottica che sono stati predisposti gli strumenti di rivelazione. Le fonti su cui abbiamo basato la ricerca sono sia di tipo documentale che empirico e sono sostanzialmente: -300 questionari somministrati ai partecipanti al corso, quindi a futuri dirigenti delle amministrazioni centrali e delle aziende di stato; -i risultati di una esercitazione di gruppo (i dati sono stati rilevati su 40 gruppi di lavoro) per stabilire la percezione dello spazio che il singolo dirigente ha nella gestione del personale; -alcuni rapporti comparativi tra pubblica amministrazione e aziende private redatte dagli stessi partecipanti dopo un periodo di stage aziendale di tre mesi; -alcuni colloqui con direttori generali, sindacalisti e rappresentanti del Dipartimento per la Funzione Pubblica; -un esame della normativa sul pubblico impiego condotta con il preciso obiettivo di individuare gli spazi decisionali, per i diversi organi ed uffici, riguardo alla gestione del personale. Per quanto riguarda l'ultimo aspetto, cioè la normativa, è stata analizzata con l'aiuto di un personal computer. La nostra analisi è partita dal testo unico del '57 per arrivare agli ultimi accordi di comparto ed intercompartimentali. Abbiamo preventivamente definito quali strumenti di gestione del personale ci interessava rilevare. Ne abbiamo presi in considerazione 25 dalla determinazione dei fabbisogni di personale alla gestione dei conflitti individuali e collettivi (determinazione di fabbisogni qualitativi e quantitativi, selezione e reclu. tamento, inserimento, carriera, mobilità orizzontale, esodo, pensionamento, gestione delle posizioni, valutazione, controllo, retribuzione fondamentale, trattamento accessorio, incentivazione, addestramento e formazione, tempo individuale di lavoro, sanzioni, condizioni di lavoro, organizzazione del lavoro, circolazione delle informazioni, tempo collettivo di lavoro, sicurezza ed igiene, servizi culturali e sociali, clima umano, conflitti individuali, conflitti collettivi). Abbiamo altresì individuato gli organi e gli uffici che intervengono nella gestione del personale sia a livello di definizione delle strategie generali che a livello operativo. Gli organi e gli uffici individuati sono 20 (dal Parlamento all'ufficio del singolo dirigente) di cui 11 esterni alla singola amministrazione ed i rimanenti interni (Parlamento, Presidente del Consiglio dei Ministri, Consiglio dei Ministri, Dipartimento per la Funzione Pubblica, Ministero del Tesoro, IGOP, Consiglio superiore della P.A., Scuola Superiore della PA., Com-
missioni varie, Osservatorio sul Pubblico impiego, Ispettori ex art. 27 1.93183, Corte dei conti, Consiglio di Stato, Consiglio di amministrazione, Direttore del personale, Divisioni che si occupano del personale, singolo dirigente, Commissione di disciplina). Abbiamo inoltre considerato l'intervento delle organizzazioni sindacali sia nel caso in cui la normativa preveda che siano "sentite" o "informate" sia nel caso in cui intervengano ai vari livelli di contrattazione. Per ogni singolo articolo di Legge quindi, che individua competenze e che riguarda strumenti di gestione del personale, abbiamo rilevato, oltre agli estremi normativi, gli organi interessati, il tipo di tecnica, il ruolo di ogni singolo organo o ufficio (decisionale, propositivo, consultivo, operativo, informativo).
In conclusione la metodologia seguita nella nostra ricerca mette in grado di individuare le competenze che la normativa demanda ad ogni singolo organo su ogni singola tecnica di gestione. Questo tipo di lettura consente sia una analisi di funzioni che di procedure Non è questa la sede per parlare in dettaglio della parcellizzazione delle competenze e di come sia difficile di volta in volta, identificare il reale potere decisionale. Certo è che se da un lato si scoprono spazi che neanche' il singolo dirigente sa di avere, dall'altra le contraddizioni sono tante e tali, probabilmente perché la normativa ha poco considerato i riflessi che l'uso di ogni strumento ha suglialtri. Nell'analizzare la normativa è emerso un dato che a mio avviso richiederebbe un approfondimento: il linguaggio è cambiato, c'è stata una grossa evoluzione e termini fino a poco tempo fa utilizzati esclusivamente dagli aziendalisti sono diventati patrimonio del linguaggio tecnico giuridico. Ciò non toglie che un glossario che renda omogenei modi di esprimersi così diversi sarebbe necessario. Rischiamo altrimenti di utilizzare vocaboli che in altri contesti assumono significati diversi. Non è questo però Io scopo della nostra ricerca, l'analisi della normativa è stata con79
dotta con l'obiettivo di fotografare il foimale, di stabilire quanto il tanto lamentato vincolo normativo sia reale, di individuare se, a fronte delle attività e delle responsabilità demandate al dirigente, esista per lo stesso dirigente la possibilità di gestire il personale a lui assegnato. Si tratta inoltre di analizzare come i vincoli normativi siano percepiti, qual'è il loro peso e soprattutto se i limiti nella gestione del personale siano attribuibili in modo predominante alla legge o ad altri fenomeni strutturali o culturali. E per questo che la prima parte del questionano di rilevazione è stato strutturato per poter rilevare come, ad avviso dei dirigenti, viene attualmente gestito il lavoro nella P.A., come potrebbe essere gestito senza cambiare la normativa e quale sarebbe il sistema di gestione ideale. E la parte di ricerca che ab-
dono, in modo predominante, di poter utilizzare sanzioni e controlli formali sui collaboratori, ma ritengono che i miglioramenti possano raggiungersi con una maggiore partecipazione alle decisioni di chi possiede le conoscenze tecniche con un controllo sulla effettiva prestazione, un miglioramento delle comunicazioni e con una maggiore chiarezza degli obiettivi generali da perseguire.
La seconda serie di domande tende a rilevare come il futuro dirigente valuta il lavoro nella pubblica amministrazione rispetto al soddisfacimento dei propri bisogni, quali bisogni riterrebbe di poter soddisfare in una situazione ideale e come, rispetto agli stessi problemi, giudica i suoi colleghi. Il quadro che ne emerge merita qualche riflessione. La maggior parte dei dirigenti si sente "diversa", ovviamente migliore, ha ideali e nebiamo chiamato l'attuale, il possibile, l'idea- cessità più "nobili", si colloca nei livelli più le. Il quadro che ne emerge è interessante. elevati della scala dei bisogni di Maslow, Non potendo qui soffermarmi sulle singole mentre gli altri vogliono una amministraziovariabili prese in considerazione, ho sintetizne così come è, che offra sicurezza del pozato nel grafico i alcuni aspeti. sto, lavoro tranquillo ed orario comodo, che Quello che colpisce è che, mentre nella siconservi inalterata, preferibilmente ampliantuazione attuale alcuni aspetti sono giudicadola, la caratteristica di lasciare la pos sibiliti non soddisfacenti, le possibilità, stante l'attà di fare favori a parenti ed amici. Il singotuale normativa, di raggiungere buoni livelli lo si sente diverso, come mostrano i dati della di gestione, non solo esistono ma si avvicitabella i (tra parentesi viene riportato il vanano a quanto ritenuto ideale. lore medio di cui il massimo teorico è 5), vorQuello che i futuri dirigenti auspicherebberebbe avere un lavoro interessante, vorrebro è una migliore circolazione delle inf ormabe poter utilizzare al meglio la propria prozioni, una maggiore partecipazione alle defessionalità, vorrebbe essere gratificato per cisioni un mutamento nei processi decisionaquello che fa e vorrebbe avere buoni rapporti li, una maggiore possibilità di motivare i colcon i colleghi che però sono così diversi da laboratori e di essere motivati. lui! Tutto ciò sarebbe possibile senza interveniIl dirigente e gli altri colleghi re con nuove norme. Per comodità espositiA) cosa offre il lavoro nella Pubblica va ho qui dovuto sintetizzare le prime 33 doAmministrazione: mande del questionario, vorrei però sottoli- sicurezza del posto di lavoro (4, 6) neare che dall'analisi dettagliata delle singo- orario comodo (3, 9) le variabili emerge che i dirigenti non chie- lavoro tranquffio (3, 4)
IL DIRIGENTE DI FRONTE AL PROPRIO RUOLO I vantaggi del ruolo dirigenziale i
141Cl I 3:ld 123.0 1140 1050 :37Cl 780
BE cc I I e3f- 1 i
MIcpi ri i cne pe r. cna 1 ,2
a = retribuzione più elevata; b = lavoro più interessante; c = maggior prestigio; d = maggior potere decisionale; e = coordinamento del lavoro altrui; f = contrattare con le organizzazioni sin4acali.
IL DIRIGENTE DI FRONTE AL PROPRIO RUOLO - SVANTAGGI GRiiF I CO I°•'l. 2 100Cl 955 930 :395 E:60 79Cl 720 E.85 650
IM
COLLEGHI
t: OPINIONE PERSONALE
a = avanzare a scapito dei colleghi; b = avere più responsabffitè; c = aumento di impegno; d = dover scendere a compromessi con politici; f = dover contrattare con le Organizzazioni Sindacali.
si ..PETTI GESTIONALI E: Ci Ci Ci 7kji,jll
SOOCi 4000
2OCiCl 1OC1O CI
ll ATTUALE EJ IDEALE
. t. POSSIBILE
b = partecipazione alle decisioni; c = motivazione del personale; d = percorsi decisionali; e = innovazione; f = controllo e valutazione della prestazione.
a = circolazione delle informazioni;
le aspirazioni dei colleghi - sicurezza del posto di lavoro (4, 5) - orario comodo (4, 0) -. lavoro tranquillo (3, 8) - possibilità di fare favori a parenti e amici (3, 6)
k aspirazioni personali - interesse per il lavoro svolto (4, 6) - utilizzare la propria preparazione professionale (4, 4) - riconoscimento per il lavoro svolto (4, 3) - buoni rapporti con i colleghi(4, 4) - svolgere un lavoro socialmente utile (4, 2) La situazione non cambia quando andiamo ad analizzare i meccanismi di progressione in carriera: i sistemi attualmente in uso sono sostanzialmente condivisi dai colleghi, personalmente si auspicherebbe invece un sistema che premi preparazione professionale (4, 6), capacità innovative (4, 5), capacità di programmare (4, 5) e di assumersi responsabilità (4, 4). Ben diversa la situazione nell'amministrazione che premia anzianità (3, 8), rapporti con i politici (3, 3) e, nella stessa misura, titolo di studio e lealtà verso i superiori (3, 2). I colleghi condividono che si premi l'anzianità (3, 8) ed il titolo di studio (3, 6) anche se un premio alle doti naturali di intelligenza (3, 4) e alla capacità organizzativa (3, 2) sarebbe ben visto. Lo scostamento tra sé e gli altri diventa ancora maggiore se si chiede ai futuri dirigenti un giudizio sul proprio ruolo. Come mostra il grafico n. 2 il peso di dover scendere a compromessi con i politici è elevatissimo per il singolo intervistato che ritiene però che ai propri colleghi pesi molto meno. I colleghi del resto sentono in modo predominante il peso delle responsabilità cosa che invece non pesa a livello di opinione personale. Lo stesso vale per quanto riguarda il fatto che assumere posizioni dirigenziali comporti una valutazione del lavoro altrui ed un aumento di impegno in termini di orario. Posizioni me-
no differenziate si hanno per quel che concerne il dover contrattare con le organizzazioni sindacali: qui il peso attribuito individualmente e quello che si pensa costituisca per i colleghi coincide (su un massimo teorico di 5 il peso è 2,8). Le posizioni personali e quelle attribuite ai colleghi coincidono anche per quel che riguarda alcuni "vantaggi" del ruolo dirigenziale: l'avere una retribuzione più elevata e il godere di un maggior prestigio fanno scomparire le differenziazioni tra sé e gli altri. Il grafico 3 evidenzia però che, anche sui vantaggi del ruolo, ognuno continua a considerarsi un "diverso" rispetto ai colleghi: mentre il lavoro più interessante, il maggior potere decisionale, la più elevata autonomia e la necessità di coordinare il lavoro altrui sono vissuti positivamente a livello personale, ognuno ritiene che i colleghi non colgano pienamente questi privilegi connessi al nuovo ruolo. Vorrei concludere riportando sinteticamente i dati relativi all'ultima parte del questionano che mirava a rilevare quanto i dirigenti condividano obiettivi e finalità dell'azione amministrativa. Abbiamo infatti chiesto quali sono i fini che attualmente l'amministrazione persegue, quali ad avviso del singolo dovrebbe perseguire e che cosa vorrebbe l'utenza. L'analisi dei dati evidenzia lo scostamento tra ciò che l'amministrazione attualmente persegue e quello che il dirigente, le cui posizioni sono spesso coincidenti con quelle dell'utenza, riterrebbe giusto perseguire. L'amministrazione garantisce la corretta applicazione delle leggi e dei regolamenti e la sua funzione "garantista" è condivisa dai dirigenti, salvaguarda in buona misura i livelli occupazionali - ed in questa sua funzione ha l'approvazione del cittadino ma non del dirigente stesso ma non assicura la qualità dei servizi né l'efficienza e la redditività, né recluta il personale più capace come non si ri-
vela adeguata a fornire il supporto tecnico per le decisioni politiche. E ancora una volta l'immagine di una organizzazione che non riesce a raggiungere le finalità che ne giustificano l'esistenza e che opera in modo difforme non soio dalle aspettative del cittadino ma anche da quelle di chi ne fa parte. La ricerca cui collaboro e di cui qui ho voluto solo anticipare alcuni risultati parziali, se da un lato induce ad un minimo di ottimismo poiché mette in luce che per quanto l'attuale amministrazione sia ben distante da quella ritenuta "ideale" le possibilità di una migliore gestione esistono, dall'altro evidenzia la mancanza di "integrazione" dei singoli dirigenti che prestano la loro attività in una organizzazione che a loro avviso, non è in grado di raggiungere i propri fini e che si trovano a collaborare con colleghi giudicati non certo "migliori" della stessa amministrazione. Il mancato funzionamento dell'apparato amministrativo è quindi da attribuire, ad avviso di questo gruppo di dirigenti, non tanto, o quanto meno non solo, ai vincoli normativi ma alle aspettative, agli atteggiamenti, ai comportamenti degli individui che operano nell'organizzazione. Un altro aspetto su cui non mi sono soffermata riguarda le differenziazioni tra amministrazione ed amministrazione, tra risposte fornite da dirigenti "tecnici" e dirigenti "amministrativi", tra diverse preparazioni culturali di base ed anzianità nell'amministrazione tra dirigenti centrali e periferici. Dai primi incroci che abbiamo potuto effettuare viene ancora una volta confermato quello che è stato piú volte messo in luce nel corso di questo dibattito: non si può parlare di una unica amministrazione ma di tante realtà tra loro differenziate che pur se caratterizzate da "vincoli normativi" analoghi, si muovo-
no ed agiscono con logiche fortemente differenziate. Nota: Come è noto A.H. Maslow ha stabilito una gerarchia tra i diversi bisogni degli individui. Ai primi livelli della scala si pongono i bisogni fisiologici e di sicurezza mentre ai liveffi più elevati queffi di stima e di sicurezza. Secondo Maslow ogni individuo avverte un bisogno gerarchicamente superiore solo quando quello inferiore è stato, almeno parzialmente soddisfatto. A.H. Maslow, Motivation and Personality, Harper and Row, N.Y. 1954.
Giorgio Pagano ADDIO LEGGE QUADRO. VERSO UN MERCATO DELLE INDENNITÀ?
Quando nel 1983 fu emanata la legge quadro sul pubblico impiego molte ed autorevolissime voci parlarono di grande rinnovamento delle regole di gestione ed organizzazione delle pubbliche amministrazioni italiane. Si parlò inoltre di grande rilevanza costituzionale, di buona fattura normativa e si sottolineò (con grande enfasi) l'importanza della delegificazione del rapporto di pubblico impiego introdotta dalla nuova legge. In quell'occasione si verificò uno dei rari casi in cui alta burocrazia (interna alla P.A.), studiosi di teorie e fatti amministrativi (esterni alla PA.) e grandi centrali sindacali (interni/esterni) concordano sulla utilità ed importanza di mettere regole all'agire dei pubblici dipendenti. Tutti, comunque, ritenevano che l'introduzione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego rappresentava una profonda innovazione culturale nel modo di intendere il ruolo delle pubbliche amministrazioni nella società. Si venne così a creare un momento collaborativo tra soggetti portatori di interessi che proceduralizzano l'azione ed i ruoli delle figure presenti nell'amministrazione. In sostanza stava cambiando il modo di intendere il ruolo del pubblico dipendente: 83
si passava cioè da un figura per definizione
sottomessa al vertice che decide ad una figura che viene chiamata a collaborare alle decisioni. Questa, possiamo dire, era una delle motivazioni di fondo della nuova legge. Le altre, chiaramente complementari alla prima, si trovavano in quelle ragioni che spinsero il legislatore (quindi amministrazioni, quindi organizzazioni sindacali e politiche) ad intervenire nel settore. L'intendimento era quello di perseguire la perequazione economica, omogeneizzare il trattamento giuridico del personale, giungere ad una sua trasparenza, eliminare le troppe aree negoziali esistenti fino ad allora. Inoltre, per rendere tutto ciò possibile (dal lato amministrazione) venne scorporato il ruolo svolto dal Ministero del tesoro, quale organo di controllo della gestione normativa e di spesa del personale pubblico, assegnando definitivamente alla Presidenza del Consiglio (dipartimento della funzione pubblica) il ruolo di coordinamento della politica salariale in termini amministrativi e politici. E quindi, il ruolo di raccordo delle varie branche dell'amministrazione. Il quadro delineato potrebbe portare a ridi-
scutere uno degli assiomi fondamentali degli studiosi di pubblica amministrazione (in particolare i "riformisti") che hanno sempre sostenuto come la legge, per sua natura, non sia l'unico strumento per la riforma ma anzi, ne sia solo uno degli elementi e nemmeno il più importante. Tuttavia, come in seguito vedremo, l'assioma resta ancora valido, confermando ancora una volta che lo strumento legislativo rappresenta realmente solo un marginale strumento di modifica. Ciò è ancora più vero se si considera come in questi sette annI le cose che sono accadute nell'universo amministrazione (e mi rif erisco in particolare all'amministrazione centrale dello Stato) certamente non abbiano seguito il modello di amministrazione delineato dalla legge quadro. Soffermiamoci in particolar modo su ciò che è accaduto proprio a livello retributivo relativamente all'auspicata trasparenza, perequazidne ed omogeneità di trattamento economico. Lo scenario che si sta configurando, si può affermare, sta determinando una divisione dell'amministrazione in tre grandi tronconi: uno di serie A, uno di B ed infine uno di C. B
COMMERCIO ESTERO DIFESA FINANZE ISTITUTO SUP. SANITA' LAVORO TRASPORTI AVVOCATURA DELLO STATO CONSIGLIO DI STATO CORTE DEI CONTI GRAZIA E GIUSTIZIA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI TRIBUNALI AMMINISTRATIVI
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LAVORI PUBBLICI PUBBLICA ISTRUZIONE AFFARI ESTERI SANITA' AGRICOLTURA PARTECIPAZIONI STATALI
BILANCIO CORPO FORESTALE VIGILI DEL FUOCO POLIZIA DI STATO INTERNI
UNIVERSITA' E RICERCA
TESORO
MARINA MERCANTILE
INDUSTRIA. TURISMO BENI CULTURALI
I tre tronconi si sono creati grazie alle indennità delle quali pian piano sono riuscite a dotarsi alcune amministrazioni. Queste indennità hanno preso varie denominazioni: di "funzione", di "produttività", "giudiziaria", di "penitenziario", e così via ed ognuna di esse corrisponde ad un quantum salariale (accessorio come si dice in gergo) senza che siano minimamente rapportabii tra loro, sia per il quantum che per il tipo, considerando anche che ciascuna viene concessa con criteri diversi dalle altre (in base o alla sola presenza, o alla sola appartenenza a quella data amministrazione, e così via). Ora, bisogna sottolineare che queste indennità sono create dalle amministrazioni, anzi sono figlie delle amministrazioni e non del legislatore il quale in questo caso è solo "strumento di appoggio", che riceve pressioni per portare in Parlamento istanze che partono da presupposti, da regole, di tipo X che in sede applicativa diventano di tipo Y. Come è -possibile che avvenga tutto ciò ed inoltre, se queste indennità servono a rendere l'amministrazione più funzionale qualcuno - ad esempio le grandi centrali sindacali - ha verificato se ci sono stati risultati? oppure si è trattato solo di distribuzione di soldi a "cascata" senza una vera motivazione di funzionalità? Forse queste domande, e proprio alla luce della legge quadro, dovrebbero porsele le organizzazioni sindacali, visto il nuovo ruolo che svolgono nei rapporti con le amministrazioni. Comunque, sono queste delle domande che portano ad un'ipotesi di ragionamento su una diversa configurazione del "salario pubblico". Altre domande incalzano. A fronte di tre distinti concorsi banditi - per la stessa qualifica funzionale - in tre diverse amministrazioni di tipo A, B e C ci si troverà in una situazione
in cui avremo presumibilmente più aspiranti al concorso dell'amministrazione A e B rispetto a C con diverse possibilità di selezione. Dopo di che cosa accadrà in caso di applicazione delle norme in materia di mobilità tra amministrazioni? I tre tronconi in cui tendenzialmente si sta configurando l'amministrazione potrebbero condurre ad un "mercato" della forza lavoro pubblica dove l'offerta-lavoro sarà una variabile legata direttamente alla mera "monetizzazione" dell'impiego che si andrà ad assumere. Si vuol dire che questo gioco delle indennità capovolge il vecchio adagio cultural-ammiistrativo che affermava: che chi trova un impiego presso amministrazioni di tipo forte - Esteri, Lavori Pubblici, Difesa, Tesoro, Interni - entra a far parte del corpo statale che conta. Se è vera l'ipotesi delle tre amministrazioni si potrà verificare una situazione in cui l'offerta lavoro inseguirà, naturalmente, le amministrazioni dove maggiori sono (o saranno) le indennità. Ciò è da verificare, non dovrebbe rappresentare un danno. In conclusione non bisogna certamente essere contrari a differenziali retributivi ma, occorre attrezzarsi affinchè differenziali tra amministrazioni o tra adetti della stessa qualifica funzionale all'interno della stessa amministrazione determino una migliore funzionalità amministrativa. Ancora un'ultima considerazione. La parola d'ordine del riformismo amministrativo negli anni ottanta è stata quella della "deregolamentazione". Bene, ragionando su queste cose si è assaliti dal sospetto che deregolamentazione, in materia di pubblico impiego c'è, o meglio c'è stata tanto che bisogna fare qualcosa per riregolamentare la materia.
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Bruno Dente
ALLA IUCERCA DEI FATr0RI STRATEGICI DEL PROCESSO DI RIFORMA.
In questo intervento vorrei reagire, sia pure in ordine sparso, alle sollecitazioni che mi sono venute dal dibattito. Sono ovviamente grato dell'attenzione che gli intervenuti hanno voluto mostrare nei confronti del mio saggio pubblicato su « Queste Istituzioni » che nasceva da un'analisi dei tentativi di riforma amministrativa chiedendosi perchè essi non avevano dato i frutti sperati. La risposta che ipotizzavo cercava di porre in luce come coloro che di quelle riforme erano stati i principali attori, e cipè la "policy community" della riforma amministativa (che comprende giudici, avvocati, magistrati, professori ecc.), condividessero un tipo di ideologia di cui ho ricostruito le stratificazioni, cercando di metterne in luce, con tutta la protervia di chi si occupa di un'altra disciplina, l'intima contraddittorietà, anche se mi rendo conto del fatto che, all'epoca, non c'era nient'altro di disponibile. Ho cercato di capire come si è formata tale cultura anche perchè la nostra amministrazione è profondamente cambiata negli ultimi 15 anni, perchè, entro certi limiti, la riforma c'è effettivamente stata. Ciò premesso, penso che vi siano vari punti emersi nel corso della discussione da riprendere. In primo luogo un aspetto richiamato da Sergio Ristuccia, che mi sembra legato a quanto evocava Stefano Sepe, e che mi ha fatto molto riflettere. Il problema è quello dell'interesse pubblico. Cioè il problema che giustamente Ristuccia metteva in luce è il paradosso della giustizia amministrativa, nata per difendere l'interesse pubblico contro i privati, e in realtà divenMe
tata il modo attraverso cui i privati si difendono dallo Stato. In parte ciò è legato a quanto diceva Stefano Sepe sul fatto che la costruzione dottrinale dell'interesse legittimo, e più in generale la svolta Orlandiana, coincidano temporalmente con l'affermazione dello Stato pluriclasse. La prima ipotesi che si può avanzare è che alla radice di tali trasformazioni vi sia l'interesse nei confronti della giustizia amministrativa di un gruppo sociale ben identificato, con un modo ben definito di svolgere la professione di avvocato. Tuttavia è molto più importante sottolineare come, attraverso la nascita dello Stato pluriclasse, sia avvenuta la progressiva dissolu-. zione del concetto di interesse pubblico come interesse generale e cioè, per usare una metafora economica, come funzione del benessere sociale. Vi è però una perpetuazione della categoria di interesse generale, come capacità di sintesi degli interessi particolari. E' questo un interessante esempio dell'egemonia che il diritto ha avuto nei confronti delle altre discipline, nel senso che esse, senza saperlo, e soprattutto senza controllare le conseguenze, utilizzano concetti giuridici. Del resto, basta pensare alla concezione dello Stato presente in molti interventi di economisti: fortemente giuridica, gerarchica, garante dell'interesse generale. E la stessa cosa è avvenuta nelle discipline sociologiche e politologiche, fino al punto che in alcuni manuali di Scienza Politica i tipi di governo identificati coincidono esattamente con le forme di governo stabilite nei manuali di diritto costituzionale comparato. Se questo è vero, il problema non è tanto costituito dal fatto che i nostri burocrati sono dei giuristi, ma quello di capire se la capacità egemonica di questi concetti giuridici (ad esempio del concetto di autonomia locale, ti-
pico concetto giuridico applicato dagli scienziati politici con diversi significati) è adeguata al tipo di Stato e al tipo di società che abbiamo oggi. Anche la scomparsa delle burocrazie tecniche, che in chiave comparativa costituisce senza dubbio uno dei maggiori fattori di debolezza della pubblica amministrazione italiana, può essere letta all'interno di questa prospettiva: come sconfitta di chi non riusciva ad omologarsi ai criteri giuridici dominanti. Un altro esempio di giuridicizzazione indebita (in questo caso di un ragionamento economico) è il caso del iIo: l'àpplicazione di una tecnica di analisi costi/benefici, che ha margini di validità di un certo tipo, è divenuta una procedura formale, salvo poi scoprire che i parametri dell'equazione, e cioè gli obbiettivi dell'azione, erano in realtà decisi dai tecnici e approvati da un CIPE che non sapeva di cosa si stava occupando e che non interveniva mai nel merito. Ma su questo caso tornerò ancora brevemente. Ciò che voglio dire è che il regolamento giuridico si domanda se un atto è lecito o è illecito, se si può fare o non si può fare. Tutte le categorie giuridiche funzionano in questo modo dicotomico, mentre tutte le scienze sperimentali non funzionano in maniera dicotomica, ma con diversi gradi di probabilità. Se questo è vero, il dibattito sulle privatizzazioni, o sull'uso di moduli privatistici nella pubblica amministrazione, dovrebbe svolgere una riflessione preliminare su quale area dell'azione dello Stato sia ancora necessario questo modo di ragionare. Ad esempio, io credo che bisogna distinguere tra la trasparenza e la garanzia che chiedo se qualcuno sta limitando la mia libertà personale e la trasparenza e la garanzia che chiedo se qualcuno mi sta fornendo un servizio pubblico. Nel secondo caso è più importante che il servi-
zio ci sia, e sia di qualità e quantità sufficiente a soddisfare i bisogni della collettività. Ho la sensazione che invece una parte delle proposte di riforma continui a fare riferimento al curioso principio in base al quale se nessuno ruba allora l'azione amministrativa è efficace e efficiente. Un ulteriore elemento di riflessione riguarda il sistema politico. Che il nostro sistema politico sia potenzialmente irresponsabile non c'è dubbio. Ho però la sensazione che, per quanto certamente meccanismi istituzionali diversi potrebbero favorire un maggior grado di responsabilità, tuttavia vi sia un elemento di politica spettacolo, tipico della politica moderna, (che può piacerci o non piacerci, ma che è un dato) che non ha a che fare solo con la patologia italiana e tanto meno con la patologia istituzionale italiana. Allora il problema non è tanto se la riforma elettorale si farà o no e quale tipo di riforma elettorale è preferibile: gli interessi dei politici resteranno comunque interessi a breve termine e quindi tendenzialmente incompatibili con una costruzione amministrativa, che è necessariamente di lungo periodo. L'esigenza di potenti burocrazie tecniche, che possano fungere da contrappeso, resta esattamente identico qualsiasi sia il tipo di riforma istituzionale. Questo è un problema sostanzialmente sottovalutato dall'ideologia della "policy community" che ha fatto le riforme amministrative, il che è tanto più grave se si riflette sul fatto che gli attori politici in senso stretto a queste riforme hanno contribuito abbastanza poco. Molte delle riforme che abbiamo fatto (dalla riforma del bilancio, alla riforma sanitaria, alla stessa creazione delle Regioni, ecc.) sono state decise, nelle loro linee generali, dentro quel gruppo sociale cui accennavo prima, in sostanziale autonomia. Se quel87
le riforme non hanno funzionato, la ragione va trovata qui, non nelle isufficienze del sistema dei partiti. La mia sensazione è che il bandolo della matassa vada cercato in profondità e cioé che si debba andare alla radice dei concetti di Stato, di interesse, di potere e che forse il modo migliore è iniziare a delimitare i settori di intervento in cui questi concetti, che sappiamo usare bene, servono davvero e dov'è che invece occorre sviluppare nuovi concetti e nuovi criteri. Dopo questa premessa sin troppo generale vorrei affrontare alcune domande più specifiche che sono emerse nel corso della discussione sin qui svolta. Il primo riguarda il dilemma tra riforme puntuali o riforme sistematiche. Le riforme palingenetiche non si fanno perchè la complessità su cui dovrebbero intervenire è ormai troppo alta. In questo senso la riforma della pubblica amministrazione o è costituita da un insieme di riforme puntuali, o non ha alcuna possibilità di esistere. Quindi occorre andare al di là di un dilemma che rischia di essere falso, o comunque senza via d'uscita. Non credo di essere particolarmente originale se affermo che la scelta non è fra gli interventi puntuali e gli interventi sistematici, ma occorre riuscire ad identificare gli aspetti "strategici", capaci di mettere in moto processi che poi vadano avanti. Da questo punto di vista sono d'accordo con chi ha detto che la cultura dell'emergenza è pericolosa perchè tende a presentare la necessità di interventi sulla base della loro indifferribiità, senza stare a preoccuparsi delle conseguenze positive o negative che da essi possono discendere. Quali sono i fattori strategici che possono modificare il modo di funzionamento della pubblica amministrazione? Alle burocrazie tecniche ho già accennato; altri possibili canED
didati cui dedicherò una menzione sono la formazione ed i sistemi di informazione e controllo. Ma non bisogna ritenere che non vi siano altre possibilità: ad esempio forse può essere strategico il principio, introdotto dal recente disegno di legge sulla dirigenza pubblica, che inverte il meccanismo tradizionale di attribuzione dei cosidetti poteri a rilevanza esterna ai dirigenti, affermando che spetta a questi ultimi tutto ciò che il ministro non si riserva espressamente. E altri esempi ancora si potrebbero avanzare. Tuttavia c'è un altro problema che è stato sottolineato: a tanti tentativi non avrebbe corrisposto nessun risultato. Non sono convinto che sia proprio così: potrei citare uno dei miei economisti preferiti, Albert Hirschmann, quando dice che: "la delusione del riformatore nasce dalla sua mancanza di immaginazione", e cioè dal fatto che egli immagina che la riforma consisterà nel totale inveramento della sua intenzionalità, mentre in realtà essa è sempre in qualche modo un compromesso con quello che c'era prima e quindi egli è sempre deluso. Da questo punto di vista, pur avendo spesso criticato la riforma del bilancio e il modello astratto di decisione che la sottendeva, tuttavia non mi sentirei di affermare che i discorsi introdotti in sede di programmazione di bilancio ci abbiano lasciato esattamente al punto di prima. Io credo che in qualche modo e lentamente sia cresciuta una maggiore consapevolezza rispetto a queste problematiche, tenendo anche conto del fatto che sull'amministrazione c'è pochissima conoscenza al di fuòri del mondo degli addetti ai lavori. Questo è un punto importante: ad esempio ho già accennato al FIO ed ai nuclei di valutazione, per cercare di mostrare come nascondere tutta la "tecnica" dietro la norma giuridica rischi di essere controproducente.
Il mio esempio è il seguente: si prende una tecnica che come tale è una tecnica rispettabilissima, ma con dei limiti di affidabilità che noi conosciamo, e ad essa si accoppia una norma giuridica secondo la quale se i progetti passano il test vanno bene, altrimenti vanno respinti. In questo modo il sistema decisionale è sostanzialmente rigido e ogni conflitto rischia di diventare una questione di principio. Ma il sistema politico amministrativo non può vivere solo di principi, esso vive di compromessi e di continui aggiustamenti. Visto che facciamo tante volte riferimento al privato, nessuna azienda privata si scandalizzerebbe più di tanto e penserebbe di dover cambiare completamente le sue procedure decisionali per un singolo caso di conflitto: un certo margine di errore deve essere comunque consentito.
In altre parole il passaggio "rivoluzionario" non è da una cultura giuridica dell'atto amministrativo rigida e tutta basata sulla liceità a una cultura del controllo economico e di efficienza "aziendale" altrettanto rigida. Il passaggio è da un modo rigido, e giustamente rigido, perchè aveva a che fare con la dialettica autorità-libertà, a un modo molto più flessibile perchè basato sulla capacità di apprendimento, perchè basato sulla capacità di sperimentazione. Il problema dei sistemi informativi e di controllo è un problema che mi sta molto a cuore. Si tratta però di capire molto bene che cosa si vuole controllare. Se l'amministrazione non è più solamente produttrice di atti amministrativi che determinano posizioni soggettive, non è però nemmeno solo assimilabile ad una azienda produttrice di beni e servizi.
È qui che bisogna sviluppare una nuova cultura: non si tratta di sostituire a una rigidità un'altra rigidità, ma si dovrebbe cercare di introdurre un atteggiamento sperimentale. La parte più criticabile del progetto di legge sulla dirigenza attualmente in discussione in Parlamento mi sembra la previsione degli indicatori di produttività per i dirigenti stabiliti a priori da consulenti esterni, sui quali si innesta un meccanismo di contenzioso con tanto di garanzie. Gli indicatori sono una cosa molto seria, ce lo ha detto Di Maio, ma possono provocare, se applicati rigidamente, risultati perversi. Un sistema di controllo non deve stabilire una volta per tutte gli indicatori e poi ritenere che, se abbiamo raggiunto i valori prestabiliti va tutto bene. Esso deve riaggiustare, modificare il tiro, creare una funzione di valutazione che usi anche gli strumenti degli indicatori, ma sia soprattutto capacità di individuare le possibili strade di evoluzione.
La pubblica amministr'azione ha vari strumenti a sua disposizione e in particolare almeno due: distribuire direttamente o indirettamente denari, o stabilire regole di comportamento. Molto spesso le due cose possono essere usate contemporaneamente, ragion per cui, l'uso eccessivo della metaf ora aziendale rischia continuamente di occuparsi soltanto dell'aspetto di produzione di beni, perchè è relativamente facile da misurare e non della regolazione che sembra porre. Io ho la sensazione che se vogliamo far crescere sistemi informativi e di controllo nella pubblica amministrazione, non possiamo dare per scontato che il modello sia così semplice e dobbiamo elaborare qualcosa di diverso dalle tradizioni aziendali anche sulla scorta delle esperienze straniere più mature. Io sono convinto che l'istituzionalizzazione di sistemi informativi e di controllo nelle pubbliche amministrazioni sia oggi probabilmente matura, e sia uno degli elementi strategici su 89
cui oggi si può intervenire, a patto però di costruire meccanismi che pongano in primo piano la misurazione dell'efficacia dell'azione pubblica in chiave di apprendimento organizzativo. È per questo che preferisco parlare di controllo e valutazione delle politiche, piuttosto che delle singole leggi e tanto meno dei singoli atti amministrativi. Occorre avere consapevolezza che nella società contemporanea gli attori che intervengono a determinare la soluzione di un problema che la coscienza pubblica ritiene di interesse collettivo sono molto numerosi, e che limitarsi a verificare la funzionalità delle burocrazie pubbliche non è solo un approccio parziale, ma in alcuni casi fuorviante alla ricerca di soluzioni accettabili. L'ultimo punto importante che vorrei affrontare riguarda la formazione. Dentro la logica che sto cercando di proporre, il problema delle tecniche e delle professionalità si configura essenzialmente come un problema di risorse per la risoluzione di problemi, non come la risoluzione dei problemi. Io sono preoccupato della tendenza in atto nelle università italiane che pensano di dover creare professionisti perfetti in settori molto limitati, perchè agli studenti verranno insegnate tecniche precise, nell'uso delle quali essi saran-
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no sicuramente ferratissimi, ma il modo di formulazione dei problemi viene completamente ignorato o comunque dato per scontato che il modo tradizionale di formulazione del problema sia quello giusto. Io credo che la questione fondamentale nelle pubbliche amministrazioni contemporanee sia quella di insegnare "l'impostazione" dei problemi. Una parte rilevante dei problemi della pubblica amministrazione sta qui. In definitiva, sono le cose cui faceva riferimento Francesco Lamanda quando parlava di mutazioni culturali: la vera mutazione culturale è quella che riguarda il modo in cui si affrontano i problemi, non le soluzioni che ad essi vengono date. La questione della formazione diventa una questione essenziale nella misura in cui essa riesce ad essere una educazione alla impostazione, alla formulazione ed alla riformulazione dei problemi. Buona parte dei problemi che ci troviamo di fronte sono insolubili: bisogna riuscire a riformularli perchè diventino solubili. Certo non è facile. Ma se le varie culture che oggi vivono nella pubblica amministrazione accettano di mettersi in discussione e di confrontarsi tra loro, allora è possibile. Io sono certo, peraltro, che è necessario ed urgente.
L'Informatica nella Pubblica Amministrazione fra politica degli investimenti e politica dell'organizzazione di Sergio Ristuccia
Quelle che seguono sono considerazioni di sintesi su alcuni dei problemi da affrontare e risolvere per realizzare una migliore e più sensata informatizzazione delle pubbliche
amministrazioni. Innanzitutto vorrei sottolineare questo plurale. Credo che si debba parlare il più spesso possibile di « pubbliche amministrazioni» e non di «pubblica amministrazione ». Per la ragione molto semplice che facendo rif erimento genericamente alla Pubblica Amministrazione si continua a dare sostanza ad una nebulosa. La Pubblica Amministrazione può avere, anzi sicuramente ha, alcuni tratti comuni, ma si rischia sempre, in così generica visione, di impedire una buona analisi. Le «pubbliche amministrazioni » sono, in realtà, i tanti centri di azione e di spesa, le tante « aziende » o « quasi aziende » che compongono lo Stato nella sua accezione larga: quella che ricomprende oltre ai ministeri centrali tutti gli organismi pubblici dotati di autonomia territoriale o funzionale. Un complesso di sub-sistemi che certamente interagiscono ma che in nessun modo si integrano al punto che se ne possa parlare in modo unitario. Del resto, è difficile oggi avere un disegno compiuto della Pubblica Amministrazione in termini di normativa formale data la moltiplicazione delle fonti legislative. Figuriamoci se ciò è possibile sul piano sostanziale. In ogni caso è proprio per parlare di informatica nell'amministrazione pubblica che occorre assumere questa prospettiva delle am-
ministrazioni al plurale. Il principale problema di cui vale oggi occuparsi è, infatti, quello del rapporto informatica-organizzazione nelle amministrazioni pubbliche, cioè un problema che non può essere correttamente affrontato a scala troppo ampia.
IN ATIESA DI UNA TEORIA DELL'ORGANIZZAZIONE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
In premessa va detto, e necessariamente in termini molto generali e un po' approssimativi, che manca una aggiornata e rivisitata teoria delle organizzazioni pubbliche dopo la lunga stagione del predominio della cultura giuspubblicista. Un predominio, quello della cultura giuridica, che è caratteristica storica dell'Europa continentale, e che vale per l'Italia in particolare, ma che è riscontrabile anche nell'area anglosassone. Gli studi sul comportamento burocratico alla Herbert Simon sono stati illuminanti. Essi tuttavia hanno prodotto risultati più sul piano del « discoprimento » dei fenomeni che su quello, per esempio, della metodologia della riorganizzazione. I grandi mutamenti intervenuti sul piano scientifico e culturale nell'ambito delle discipline dell'organizzazione hanno invece creato o rinnovato nell'ambito del settore privato strumenti teorico-pratici, che poi sono stati sperimentati nei processi di ristrutturazione delle imprese. I trasferimenti di tali risultati 91
nel settore delle pubbliche amministrazioni hanno un carattere posticcio e rimangono inadeguati e impropri senza una rivisitazione profonda e creativa di teorie e prassi dell'organizzazione nel settore pubblico. Naturalmente questa rivisitazione dovrà partire da due dati: uno, il settore pubblico ha caratteri proprio che lo rendono irriducibile al settore privato d'impresa e che comunque impediscono trasferimenti facili, pur quando possibili, di sapere organizzativo dal mondo d'impresa a quello delle amministrazioni pubbliche; due, l'amministrazione non è il mondo dell'« uguale è bello» come l'abitudine a storiche concettualizzazioni giuspubblicistiche può suggerire.
INFORMATICA COME POUTICA DI INVESTIMENTI
In realtà, c'è un terreno ove si può fare un discorso generale e coerentemente « macro » su Pubblica Amministrazione e Informatica ed è quello della politica degli investimenti pubblici per l'informatizzazione. Da una parte, si tratta di un aspetto della politica delle infrastrutture (quando informatica significa comunicazioni ovvero interconnessione di sistemi informatici pubblici); dall'altra parte, si tratta di un aspetto della politica della spesa per beni e servizi. Mi pare che soprattutto per questo tipo di problemi è stato creato un apparato istituzionale di coordinamento presso la Funzione Pubblica. Nel periodo che va dall'inizio deI 1989 alla primavera del 1990 sono stati meglio identificati ruoli e compiti di questo apparato. Occorre, a questo proposito, valutare alcuni atti normativi. Il primo è il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 15 febbraio 1989 che del coordinamento si preoccupa già fin dal 92
titolo (« Coordinamento delle iniziative e pianificazioni degli investimenti in materia di automazione nella amministrazioni pubbliche »). Il Dipartimento, secondo il decreto, deve individuare l'area funzionale dei « progetti intersettoriali di particolare rilievo », deve preoccuaparsi di emanare direttive per la standardizzazione delle modalità di interscambio delle informazioni e delle documentazioni su supporti informatici e telematici e di predisporre programmi per il reclutamento di personale specialistico e di formazione degli utiizzatori, nonché ha potere di proposta e consultivo in materia di iniziative legislative e normative per l'informatica nella Pubblica Amministrazione. Alle funzioni di coordinamento si vuole provvedere anche attraverso due altri compiti attribuiti al Dipartimento: quello di « definire gli obbiettivi in ordine ai criteri organizzativi, alle metodologie ed alle strategie di utilizzazione e di sviluppo delle tecnologie» e quello di « verificare la conformità delle iniziative di automazione agli obiettivi indicati e valutare i risultati di costi e benefici ». Delineare bene compiti del genere non è f acile. Infatti mi pare che non si arrivi, con il decreto citato, a definizioni sufficienti e convincenti. Sembra di avere di fronte, a seconda delle prospettive, o un centro di programmazione generale dell'azione amministrativa (il che ovviamente non può essere) o un'agenzia di trasferimento e aggiornamento delle conoscenze (il che sembra improprio e poco credibile) o un osservatorio specializzato (certamente utile) o una sede di valutazione tecnica dei singoli progetti di automazione (cioè una stazione di passaggio nelle procedure contrattuali di acquisto di beni e servizi informatici). È quest'ultimo ruolo quello che sembrerebbe destinato ad essere giocato con più frequenza anche perché è quello più consono al modello consolidato delle procedure
d'acquisto della Pubblica Amministrazione. Dunque, un passaggio in più nell'iter lungo delle decisioni d'impegno della spesa. Se così fosse, si può intravedere subito un rischio: che nel concentrarsi prevalentemente su questo compito si finisca per contribuire a mantenere fissa l'attenzione, malgrado le intenzioni e gli sforzi contrari, sui soli problemi dell'acquisizione di beni e servizi informatici, cioè poi in definitiva delle attrezzature, sia pure munite, in misura sempre più consistente, di pacchetti di servizi. Il che, costituendo già una costante nelle pubbliche amministrazioni soprattutto statali, è una causa del ritardo con cui vengono colti i problemi più rilevanti del processo di informatizzazione in relazione allo stato delle tecnologie e della cultura. Probabilmente, in una visione appena avvertita sul piano strategico, già da tempo risulta ben chiaro alle stesse imprese produttrici che non si può continuare a trattare le pubbliche amministrazioni come semplice mercato dell'hardware. E tuttavia il salto da fare spetta alle amministrazioni pubbliche. Innanzitutto, razionalizzando la domanda pubblica di hardware e software e modificando conseguentemente le dominanti del mercato, cioè riequilibrando il peso attuale dell'offerta dei produttori con una più razionale e organizzata domanda degli utenti pubblici. In secondo luogo, occorre affrontare le questioni che sono al fondo dei fallimenti e delle sottoutilizzazioni, gli uni e le altre più numerose nelle amministrazioni pubbliche italiane di quanto avvenga in altri grandi complessi organizzativi comparabii.
del maggio 1990 (rispettivamente pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale nel settembre 1989 e nel giugno 1990) servono a meglio chiarire il ruolo dello stesso Dipartimento. La prima ha per oggetto «il coordinamento delle iniziative e la pianificazione degli investimenti ». Vengono innanzitutto fissati alcuni orientamenti. Sono identificate le aree funzionali entro le quali realizzare progetti intersettoriali. Esse sono: uno, personale, organizzazione e formazione; due, informazioni personali e servizi ai cittadini; tre, inf ormazioni sul territorio e l'ambiente; quattro, informazioni fiscali e contributive; cinque, libera circolazione, a livello comunitario, delle merci e delle persone. Poi vengono indicati i criteri per la definizione dei progetti intersettoriali, che sono tali « in quanto implicano il coinvolgimento di soggetti istituzionali diversi per tipo di competenza, per ruolo istituzionale, per ambito territoriale di azione ». Oltre all'identificazione delle necessità di automazione i progetti (che nelle stessa circolare vengono precisati) sono distinti fra « applicativi » e « tecnologici ». Per i primi si prevedono la realizzazione di sistemi prototipali anche multipli da installare in situazioni geograficamente o funzionalmente delimitate per verificarne la qualità, e poi, l'« ingegnerizzazione » e messa a disposizione dei sistemi stessi una volta sperimentati con successo. Per i progetti tecnologici si prevede la sperimentazione in installazioni pilota di nuove tecnologie sia software che hardware per l'eventuale successiva standardizzazione. Altro capitolo della circolare, riguarda i metodo dei programmi triennali.
UN RUOLO PER LA FUNZIONE PUBBUCA
Sulla base della considerazione che « l'automazione richiede tempi non rapidi, dovendosi predisporre, tra l'altro, un'adeguata struttura funzionale ed operativa » si richie-
In verità le due circolari del Dipartimento della Funzione Pubblica dell'agosto 1989 e
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de ad ogni amministrazione di rilevante dimensione di istituire un apposito Comitato con funzioni di promozione, coordinamento ed integrazione delle iniziative informatiche. Tale Comitato dovrebbe formulare, per gli organi decisionali di ciascuna Amministrazione, il piano triennale di automazione da inviare poi al Dipartimento della Funzione Pubblica. A questa spetterà di esprimere il parere di merito. «Il Provveditorato Generale dello Stato si aggiunge - non esprimerà il parere di congruità tecnico-economica sui progetti di automazione non compresi nei programmi triennali ». La circolare del maggio 1990 si pone «l'obiettivo di creare una tipologia di domanda pubblica che faccia riferimento a criteri comuni e che anticipi l'offerta anziché inseguirla ed esserne condizionata ». Pur senza rappresentare di per sé veri e propri standard (essendo a tale funzione preposti appositi organismi internazionali), le indicazioni della circolare mirano ad un'Òpera di normalizzazione dei metodi per l'analisi e lo sviluppo del software come degli aspetti tecnologici in senso stretto (reti, sistemi operativi, « ambienti » di sviluppo e di accesso ai sistemi). Inoltre la circolare sottolinea l'esigenza che « le metodologie di controllo del progetto e del collaudo finale siano diffuse nella Pubblica Amministrazione ». In sostanza, le due circolari chiariscono in termini di maggior concretezza che il Dipartimento della Funzione Pubblica si propone fondamentalmente come organo coordinatore, per quanto concerne i profili di metodo, della domanda della pubbliche amministrazioni e soprattutto come organo promotore e organizzatore di nuova domanda pubblica, quest'ultima identificata come la domanda di sistemi informativi interconnessi. 94
I
DILEMMI DELLA DOMANDA PUBBLICA
Per quanto riguarda il coordinamento della domanda che nasce dalle amministrazioni pubbliche il compito da svolgere è ampio. E non tanto nella forma di un'ipotetica, ma improbabile, programmazione generale dell'automazione (il rischio a questo riguardo, è quello che ho innanzi sottolineato: la « programmazione» come mero passaggio burocratico di una procedura d'acquisto) quanto sotto il profilo del trasferimento e aggiornamento delle conoscenze in materia di prodotti e di metodologie e del contributo alla valutazione dei singoli progetti. Basta, a questo riguardo, tener conto della stessa realtà del discorso sugli standards quale si è sviluppato in questi ultimi anni. L'esigenza di standards per i sistemi operativi nasce sì dal mercato in ragione degli ostacoli allo sviluppo medesimo che sorgono dall'anarchia prodotta da un'eccesso di sistemi informativi cd. « proprietari », fra loro più o meno incomunicabili, ma viene appunto raccolta ed imposta dagli stessi produttori nella logica di regolare la competizione fra loro senza che si creino occlusioni dal mercato. Tuttavia, nella misura in cui la questione degli standards è centrale per il processo di informatizzazione essa chiama necessariamente gli utenti ad un ruolo attivo, in qualche modo porta ad organizzare la domanda. E si è visto già altrove, che la questione degli standards ha rilanciato il ruolo delle pubbliche amministrazioni come soggetti di grande domanda, potenzialmente coordinabile. Ma c'è dell'altro. È chiaro che la realizzazione di sistemi operativi open costruiti sulla base dei processi di standardizzazione dà maggiore flessibilità, e con ciò ulteriori potenzialità, all'informatizzazione. Ma soltanto per chi cominci ora o per chi intenda rinnovare
ampiamente, se non radicalmente, le proprie attrezzature nell'ambito di sistemi di dimensioni medie. Per i grandi utenti, invece, e fra questi ci sono molte amministrazioni pubbliche - c'è il problema di salvaguardare e valorizzare i grandi investimenti fatti in vent'anni di sviluppo di informatica. Sicché non meraviglia che, «malgrado quanto si è detto o scritto a proposito dell'aumento dei workstation networks e delle macchine Unix a basso costo, gli utenti stiano continuando a costruire la maggior parte delle nuove applicazioni attorno ai mainframes proprietari »1. Insomma, per la gran parte dei grandi utenti è vano assumere che essi, al momento, si stiano muovendo con l'unico proposito di mettere insieme e collegare i loro sistemi informativi. Il vero problema, per questi utenti, sono piuttosto i bngde products, cioè la tecnologia che consenta di eliminare ladistanza fra vecchio e nuov0 2 . Far chiarezza in tutto ciò con un'opera di diffusione di conoscenze e con una sorta di qualificata consulenza « interna '» al settore delle pubbliche amministrazioni è un compito importante che appare implicito nella linea assunta dal Dipartimento della Funzione Pubblica. Si tratterà di vedere se il suo assetto attuale e la sua natura di organismo classicamente ministeriale possono rispondere pienamente, sul piano operativo, a esigenze di questo tipo. Ben dentro al processo di standardizzazione e di organizzazione della domanda pubblica è il ruolo relativo ai progetti speciali di interconnessione. Siamo nell'ambito delle grandi infrastrutture informatiche che sono per grande parte da realizzare ex novo. Probabilmente la prospettiva di cui bisogna tener conto a questo riguardo è quella dell'interconnessione anche a scala europea dei sistemi informativi delle grandi amministrazioni dei vari paesi della CEE. Siamo nell'ambito
dei problemi sottolineati da Filippo M. Pandolfi, vice-presidente della commissione attraverso la proposta di un « sistema nervoso europeo ». Infine, si potrebbe suggerire che nel difficile lavoro di promozione e di guida dei progetti intersettoriali si sperimentino quegli strumenti e metodi per il lavoro di gruppo che nelle ricerche in corso vengono chiamati (secondo un gioco metaforico che si diffonde) come groupware. Il suggerimento può essere in pratica prematuro, ma sembra importante tener d'occhio l'evoluzione in questo campo 4 .
A PROPOSITO DI PARTECIPAZIONI STATALI: UNA SENTENZA DELLA CORTE DI
GIusnzxA
Che succede se cambia la domanda pubblica? A porre questa ipotesi varie risposte possono darsi su diversi versanti. Importante, ma qui può essere trattato solo sommariamente, è il problema posto dalla recente sentenza del 5 dicembre 1989 della Corte di Giustizia della Comunità secondo la quale la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza degli articoli 52 e 59 del Trattato CEE nonché della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1976 n. 77/62' in quanto ha riservato alle sole società a prevalente o totale partecipazione statale o pubblica, diretta o indiretta, la possibilità di concludere convenzioni per 'la realizzazione di sistemi informativi per conto della pubblica amministrazione. A parte la considerazione di tutti gli aspetti specifici di una controversia rilevante anche sul piano dell'interpretazione, alla luce dell'ordinamento comunitario, di taluni istituti giuridicoamministrativi (concessione, convenzioni « chiavi in mano » e simili) frequentemente usati nei rapporti fra partecipazioni statali e pubbliche amministrazioni, qui bisogna ricordare che in sostanza, attraverso l'ampio « mandato » che pr vent'anni è stato dato alle società del gruppo IM
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si è in qualche modo risolto anche il problema di dare un primo assetto organico alla domanda pubblica di attrezzature informatiche. Ma se questa domanda, appunto, venisse a cambiare in ragione di molteplici processi convergenti (necessità di un profilo più forte e diretto dell'utenza pubblica di fronte all'evoluzione dei prodotti e del mercato dell'informatica, miglioramento delle capacità di utilizzo dei sistemi, regole del mercato unico europeo) allora verrebbe naturalmente in questione il ruolo delle partecipazioni statali. Da valorizzare ancora, certamente, ma attraverso una ridefinizione e ridistribuzione diversa dei compiti. E con quest'ultimo cenno ad una questione calda chiudo, forse essendomi troppo indugiato, sul tema della politica degli investimenti. Sotto i due aspetti, inizialmente segnalati, di politica delle infrastrutture e di politica della spesa per beni e servizi si tratta, come abbiamo visto, di un insieme di problemi che meritano attenzione, messe a punto, rinnovati e qualificati ruoli d'intervento. Eppure non è qui il punto nodale.
INFORMATICA E POLITICA DELL'INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA
Nella citata circolare dell'agosto 1989 e soprattutto nel suo paragrafo iniziale si trovano varie frasi che ricordano aspetti di organizzazione. Si parla della necessità di individuare « nuove modalità organizzative » in riferimento sia alle strutture attualmente esistenti nell'ambito dell'informatica pubblica sia ad altre eventualmente da costituire. L'ottica, in generale, è quella delle «condizioni organizzative necessarie al successo dei progetti complessi ». Veniamo, dunque, alla politica dell'organizzazione; parliamo cioè 96
tanto per usare un'altra metafora, dell'orgware, cioè della componente organizzativa
dell'informatizzazione ovvero della profonda connessione che esiste fra informatizzazione e processi organizzativi (o riorganizzativi). Non credo che si debbano spendere molte parole per sottolineare o illustrare tale connessione che dunque assumo come un pressupposto. Credo però che si debba notare una prospettiva importante: non si tende più a parlare soltanto di organizzazione (e flessibilità dell'organizzazione) per l'informatica ma anche di informatica - e telematica e quant'altro vi è connesso - per l'organizzazione. Cioè l'occasione informatica viene intesa come strumento di analisi dell'organizzazione e come strumento di innovazione del funzionamento organizzativo. Bisogna dire che fin dall'inizio la letteratura ha evidenziato questo aspetto, diciamo meglio questa attesa. « Il più grande vantaggio di questi sistemi elettronici non è la potenza elaborativa delle macchine, ma la razionalizzazione dell'organizzazione ». Così agli inizi degli anni settanta Alberto Predieri affermava nel libro « Gli elaboratori elettronici nell'amministrazione dello Stato ». Egli scrive ancora e vale integralmente riportare: «La razionalizzazione imposta dall'elaboratore porta innanzitutto alla conoscenza del reale funzionamento delle organizzazioni e dei procedimenti vigenti. Ad essa consegue la loro considerazione, che dev'essere effettuata già nello studio per l'analisi dei processi e la loro tendenziale unificazione, imposta dalla razionalità del sistema informativo che può portare a semplificare taluni processi, ad abolirne taluni segmenti e, al limite, l'intero processo, quando si constati che anziché automatizzarlo esso deve essere abolito. Superato il primo periodo di rodaggio, il funzionamento del sistema, raggiunti in parte gli scopi iniziali e a breve termine, ripropone in
evidenza le manchevolezze delle organizzazioni esistenti e dei procedimenti vigenti. In modo particolare risaltano le frammentazioni organizzative, i residui di sedimentazioni e stratificazioni normativo-organizzative di varie date e regimi, riconducibili, in fondo, ad un modello di amministrazione vetusta e inadeguata. Le complicazioni procedurali sono il più delle volte connesse ai teratismi organizzativi, con la conseguenza che non è possibile talvolta modificare un procedimento perché il mutamento porterebbe sconvolgimenti alla organizzazione ed ai gruppi di potere burocratico interessati al mantenimento dello statu quo. Agli inconvenienti che riguardano soprattutto il personale, le organizzazioni, i procedimenti, viene posto rimedio man mano che si rendono intollerabili, ottenendo talune modificazioni della normazione, oppure, talvolta, aggirando gli ostacoli da essa posti Arrivato a questo punto Predieri concludeva: non èfacik né l'una né l'altra via6 . E ciò l'esperienza ha ampiamente dimostrato, con un ridimensionamento spesso drastico delle attese. Nella pratica è spesso avvenuto, allora, che ci si sia ridotti a considerare soltanto le condizioni minime necessarie per impiantare un'attrezzatura informatica, a quest'ultima attribuendo comunque la capacità di un miglioramento complessivo della macchina organizzativa. L'idea ingenua di un'informatica passepartout si ritrova spesso nelle generiche richieste di macchine e PC che vengono fatte da uffici e dipendenti nella Pubblica Amministrazione, idea forse coltivata più del lecito dalle campagne pubblicitarie dei produttori. Tuttavia, l'idea è declinante da tempo e giustamente i problemi vengono colti da tutti con maggior senso della realtà. Ma è proprio attraverso questo senso della realtà che il legame informatica-organiz-
zazione appare assai stretto malgrado le notevoli difficoltà, che sono tipiche del settore pubblico. Perché se è vero che ogni organizzazione di rilevante dimensione ha sempre molti vincoli esterni (nella struttura dei costi, cioè nel mercato: finanziario, del lavoro, dei prodotti), nel settore pubblico tali vincoli assumono il peso di plurime variabili indipendenti, cioè di vincoli quasi intangibii in quanto derivano da un contesto normativo esterno, di più ampio spettro e di maggior cogenza in confronto a quello vigente per il settore privato. Per quanto siano andate differenziandosi le norme riguardanti i vari soggetti o apparati pubblici, è carattere costante il forte assoggettamento a regole esterne il cui cambiamento è in mano ad altri soggetti pubblici sovraordinati. Ciò vuol dire che il cambiamento organizzativo è impedito, altre volte sopraggiunge fuori tempo, altre volte - ma è questo lo spazio da valorizzare - è diciamo così, interstiziale. Va ottenuto cioé operando attraverso « interpretazioni » di norme e una loro più efficace combinazione: non sempre le norme sono così rigide come appaiono attraverso la prassi consolidata dalla pigrizia intellettuale che deriva dalla mancanza di responsabilità diretta dei dirigenti.
VERSO I SISTEMI ESPERTI?
Per dare contenuti più concreti al discorso, mi pare importante segnalare alcune questioni specifiche che mi pare necessario mettere nell'agenda per urgenti approfondimenti. Chiediamoci, .per esempio, se è possibile muovere, al di là del data processing, verso i sistemi esperti. Possiamo partire dall'assunto che è da considerare accettata, e tutto sommato ampia97
mente sperimentata, nelle pubbliche amministrazione la logica del data processing. Il che non significa, beninteso, mancanza di fallimenti né scomparsa degli ampi margini di sottoutiizzazione dei sistemi normativi. Comunque sulla scia di tale accettazione si è diffusa l'idea che l'informazione deve trasformarsi da semplice dato in una « risorsa conoscitiva ». Ciò ha concettualmente aperto la strada ai sistemi esperti. Ritengo che nell'ambito delle amministrazioni dove le risorse conoscitive sono oggetto di funzioni da esercitare secondo procedure e a fini ben determinati ci sia ampio spazio di applicazione per sistemi esperti. Arriverei a dire che nelle amministrazioni pubbliche si può trovare un vero terreno d'elezione per questi sistemi. Tanto che sull'integrazione di più sistemi esperti, capaci di interrogare determinate banche dati, si fonda l'ipotesi di un'informatica di supporto alle decisioni pubbliche (su questa rivista ne hanno già trattato S. Birga e B. Graziadio). Del resto, in questo campo ci sono esempi importanti anche se finora ci si è limitati alla fase della messa a punto di prototipi. Per limitarmi all'ambito del settore pubblico che conosco più da vicino mi paiono di grande interesse il prototipo di sistema esperto realizzato dall'IBM alla Corte di Appello di Roma per aiutare il giudice nel verificare la corretta conduzione di attività processuali. Di altrettanto rilievo è il prototipo SARC (Sistema di Ausilio alla Revisione di Contratti) realizzato dall'Italsiel per la Corte dei Conti al fine di agevolare l'attività istruttoria del controllo in materia contrattuale. In ambito contiguo a quello della magistratura contabile mi pare sia da ricordare il sistema esperto realizzato da una banca per analizzare i bilanci delle aziende prenditrici di credito. Se poi si passa alle amministrazioni che forniscono servizi, il ventaglio delle sperimenta98
zioni si amplia molto. Nell'ambito della Sanità si trovano esempi rilevanti. La questione decisiva che però l'avanzamento di ricerche e sperimentazioni non ha ancora risolto, e forse neppur compiutamente affrontato, è quello dell'ambiente organizzativo necessario per l'uso regolare e conveniente del sistema esperto. Qui emerge ancora una volta, e con forza, la centralità del rapporto informatica-organizzazione.
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ORGANIZZATIVA
Il dibattito che s'è riaperto a proposito di dirigenza pubblica è di particolare rilievo per i processi di informatizzazione e per una buona gestione dell'informatica. Non c'è bisogno di particolare impegno argomentativo per dimostrare che un ambiente organizzativo adeguato è funzione della dirigenza, anche quando si rimanga in presenza di tutti quei caratteri e vincoli per cui sarà sempre un'illusione pensare un apparato pubblico come un'impresa. Il problema si pone in tutto il settore pubblico, anche al di fuori dell'amministrazione « attiva », come si suol dire, cioè per esempio in magistratura. È difficile immaginare una concreta utilizzazione dei sistemi esperti per l'attività istruttoria ove non sia effettivo il ruolo di presidenti di tribunale, di presidenti di sezione o comunque di altri magistrati con funzioni direttive e ove questo ruolo non abbia, per esplicarsi, un'area discrezionale di scelte organizzative. Ove l'attività magistratuale dovesse sempre essere immaginata come fortemente e gelosamente individuale, solo il data retrieval e i supporti informativi che sono « stand alone » potrebbero essere utilizzati. Con la conseguenza di un pregiudiziale
rifiuto dell'utilizzazione dei nuovi strumenti di frontiera della tecnologia e delle culture informatiche. Tornando all'amministrazione attiva, è chiaro che gli obiettivi di una maggiore autonomia decisionale della dirigenza, di una sua maggior presa sull'organizzazione, di una più ampia responsabilità contabile e finanziaria sono obiettivi rilevanti e influenti per una buona informatica nelle amministrazioni pubbliche. A proposito di dirigenza una notazione. Nell'ambito delle amministrazioni statali il Provveditorato Generale dello Stato ha preso, tempo addietro, l'iniziativa di ricordare, attraverso una circolare, quali sono gli elementi conoscitivi che devono accompagnare le proposte di acquisto di béni e servizi informatici8 . Viene segnalato che, pur dopo le istruzioni emanate con due circolari del 1980 e del 1981, le proposte vengono « presentate carenti di quelle informazioni necessarie per una adeguata valutazione ». Di qui la messa a punto di una più organica metodologia di preparazione e presentazione delle proposte e il richiamo alle amministrazioni affinché nella documentazione, a parte tutto quanto concerne aspetti più strettamente contrattuali, non manchi la « relazione progettuale » nella quale, fra l'altro, vengano valutati i « riflessi sull'organizzazione ». Ho qualche fondato dubbio circa la congruenza del dato organizzativo ai fini delle valutazioni d'acquisto che spettano al Provveditorato (né qui vorrei toccare il pur delicato ed importante tema del suo ruolo). Devo osservare l'opportunità, in ogni caso,'del richiamo. Si tratta di un buon esercizio di funzione pedagogica. La dirigenza delle amministrazioni deve imparare che proprio dai profili organiz-
zativi bccorre partire. Ma come fare? Innanzitutto una premessa: ogni amministrazione deve essere responsabile della propria organizzazione e della propria informatica. In questo senso è importante la lezione che viene dalla Francia dove pure esistono i poteri prorompenti dei grand corps. Per l'informatica si è partiti dal principio che « i ministeri sono responsabili della loro gestione e che il campo dell'interministeriel deve essere ridotto allo stretto indispensabile (si potrebbe parlare d'interministeriel base zéro) ». L'informatica cioè viene considerata una risorsa propria della singola amministrazione che deve farla propria coinvolgendo profondamente tutte le strutture.
PER UNA RIFLESSIONE STRATEGICA
Nelle pubbliche amministrazioni si opera normalmente di rimessa, cioè in risposta a spinte esterne o a inputs dei livelli sovraordinati di governo. Il fatto può essere considerato sotto più profili: quello dei principi costitutivi e ordinatori dell'amministrazione dello Stato, quello dei comportamenti. Questi ultimi, anche quando legittimati dai principi, hanno poi ragioni ed evoluzioni proprie. Non entro, ovviamente, nel tema. Dico, soltanto, che l'azione amministrativa condotta «di rimessa », è per propria natura tutta schiacciata sul giorno per giorno e magari sullo smaltimento dell'arretrato di « pratiche » accumulatesi, appunto, nel giorno per giorno. Con ciò si trova totalmente spiazzata di fronte agli eventi e subisce, e subirà ancor più nel prossimo futuro, difficoltà insuperabili. Si pone per le amministrazioni pubbliche l'esigenza di abituarsi ad una riflessione strategica e di tener conto di questa per impostare e realizzare la propria attività. Come 99
dire che c'è bisogno di ripristinare il rilievo del fattore tempo nelle pubbliche amministrazioni sia come vincolo cli rispetto costante dei termini nello svolgimento dell'attività ordiana sia come orizzonte di riferimento (soprattutto a medio termine) per l'impostazione delle attività e l'organizzazione delle risorse e dei mezzi. Vediamo donde vengono le spinte. Dal pubblico, innanzitutto, cioè dai cittadini-utenti che divengono sempre più esigenti verso l'amministrazione in materia di servizi resi. Dalla competizione fra sistemi amministrativi, in secondo luogo, quando si arriverà al mercato unico europeo secondo il programma fissato dall'Atto Unico. Si può ben dire dunque, anche per le amministrazioni pubbliche, che la situazione di contesto si fa complessa, globale e mutevole cioè ricorrono le condizioni per affermare utile, se non necessaria, una guida strategica delle amministrazioni.' 0 Una funzione riflessiva entro l'amministrazione non è un lusso come di solito usa ritenere il disincanto burocratico, ma è invece uno strumento di lavoro. Per il quale ci vogliono qualità superiori di dirigenza anche in ragione dei rischi di mero chiacchiericcio retorico che le prospettive nuove producono spesso nel settore pubblico (e non solo in questo). Come dire che le cose si fanno ardue: ma, ripeto, necessarie. Nei processi d'innovazione, oltre a dover collocare in posizione efficace la funzione strategica, c'è da realizzare il pieno coinvolgimento di vari livelli operativi, di varie competenze tecniche e della «conoscenza completa e intima» delle questioni, così come della « tradizione e dei costumi » del singolo apparato pubblico interessato. In questi processi si è già potuta constatare come possa essere utile la funzione di soggetti, anche 100
esterni all' amministrazione o comunque esterni alla specifica singola amministrazione, che operino come integratori di sistemi'1 Si tratta, infatti, di comporre e utilizzare intelligentemente, anche nelle pubbliche amministrazioni, interessi e stili diversi: quelli dell'alta dirigenza, degli staff tecnici, di tutti gli addetti e operatori 12 . Ed in più, in molti casi, si tratta di mettere direttamente a confronto le componenti dell'amministrazione con le esigenze degli utilizzatori finali dei suoi servizi, cittadini o imprese. .
IN CONCLUSIONE: LE DOMANDE FONDAMENTALI E QUALCHE RISPOSTA
Credo che risulti chiaro, a questo punto, perché ho detto innanzi che il punto nodale è nella politica dell'organizzazione nel senso dell'innovazione organizzativa. A questo riguardo mi sembra però inevitabile concludere con alcune domande. In qual modo le pubbliche amministrazioni si disporranno ad affrontare in concreto i nodi principali dell'evoluzione tecnologica, quali gli standards di comunicazione e quelli industriali, quale l'ingegneria del software in un contesto di mercato e di ricerca e sviluppo in cui sviluppano i processi di integrazione europea? Riuscirà la Funzione Pubblica nei suoi propositi, giustamente ambiziosi, di coordinatore della domanda pubblica, e di promotore di nuova e mirata domanda pubblica? E ancora; quali saranno gli strumenti operativi e professionali non solo per le valutazioni « ex-ante » ma per un serio auditing dell'informatica pubblica? Queste domande consentono ancora una risposta facile: si tratta, puramente e semplicemente, di rilevare ritardi e assenze. Ma sarebbe anche risposta semplicistica ed elusiva. Allora cerchiamo di ricapitolare.
Innanzitutto, occorre creare una professionalità di adeguato profilo per i soggetti pubblici in modo da dare al settore pubblico la voce che oggi non ha. Torniamo un momento sul problema degli standards. Nella definizione degli standards è stata di notevole rilievo la presenza attiva dei grandi utilizzatori di informatica. Talora stimolati, questi ultimi, dai fallimenti di molti sistemi e dalle difficoltà di espansione e sostituzione. In alcuni casi, soprattutto negli Stati Uniti, le pubbliche amministrazioni, e non solo quelle di riievo.strategico hanno avuto una loro specifica presenza e un ruolo determinante nella soluzione di problemi di standardizzazione. In qual modo può essere presente il settore pubblico? Occorre porsi, da una parte, il problema del tipo di soggetto pubblico chiamato ad operare. Si è alcune volte pensato ad una apposita « agenzia » dall' alto profilo professionale che fosse in grado di esprimere ed elaborare le esigenze tecnologiche delle pubbliche amministrazioni. Anch'io mi sono espresso in questo senso. Meglio approfondendo il tema c'è da chiedersi se, nella logica da me sottolineata della pluralità delle amministrazioni, non si debba pensare ad una associazione degli utenti pubblici che accompagni e/o sovraintenda ad una agenzia ad hoc. L'esperienza delle associazioni di utenti è ben nota in questo campo. Quanto alla scala di operatività, credo che sarebbe difficile immaginare oggi una scala diversa da quella europea. Di qui l'esigenza di sollecitare e stringere i rapporti con le altre amministrazioni dentro e fuori le sedi comunitarie. Quel che vale per gli standards vale anche,in particolare, per l'ingegneria del software che ritengo sia di grande interesse e
rilievo per le amministrazione pubbliche. Una seconda questione mi preme segnalare. Quella dell'auditing informatico nel settore delle pubbliche amministrazioni. Se torniamo alle indicazioni del Decreto del Presidente del Consiglio che ho innanzi citato ritroviamo in qualche modo, nell'elenco delle funzioni, anche quella della valutazione ex-post delle realizzazioni informatiche. Ma sub specie di osservatorio informatico. Nelle circolari si fano auspici per la diffusione di una cultura del controllo. C'è da dire che l'auditing o entra nella quotidianità della organizzazione e nel concreto di uno specifico ambiente organizzativo o semplicemente non è. L'assenza, salve le eccezioni che certamente ci sono, non è di poco conto. Anche qui si tratta di vedere se debba esserci una struttura ad hoc (forse la stessa agenzia di cui prima facevo cenno con opportune ramificazioni) ovvero se la funzione debba essere realizzata solo all'interno delle singole amministrazioni. Certo, la vera difficoltà - per certi aspetti al momento insuperabile - è costituita da tutte le ben note strozzature che presenta il settore pubblico nel reclutare adeguate professionalità e comunque dall'insufficienza ormai dimostrata dal mercato del lavoro a soddisfare la domanda per le molteplici professionalità informatiche. Una nuova concreta verifica sarà presto possibile quando si passerà all'attuazione del regolamento concernente « l'assunzione del personale per l'espletamento delle attività di conduzione tecnica del centro elaborazione dati della Ragioneria generale dello Stato », regolamento che è stato approvato con il D.P.R. n. 83/1990. Si vorrebbe poter dire che non è qui la strozzatura maggiore. Invece è qui, di certo. Perciò bisognerà tentare di eliminarla. 101
Note
L'articolo è la rielaborazione, con ampi aggiornamenti, di un intervento al seminario sull'informatica pubblica organizzato dal « Cantiere dell'Informatica » di RSO il 27 settembre 1989 a Milano.
'JEFF M0AD, Large Systems are hot! in « Damation » 15 maggio 1990. 2 JEFF Mon, The New Agenda br Open Systems, in « Datamation», i aprile 1990. 'Un dossier è stato prédisposto dalla Direzione Generale Ricerche e Sviluppo Telecomunicazioni. DANIEL WILLIAIVIS, New Technologiesfor Coordinating Work, in « Datamation », 15 maggio 1990. La sentenza della Corte di Giustizia è stata pronunziata nella causa 3188 promossa dalla Commissione della CEE contro l'Italia. Giudice relatore G.C. Moitinho de Almeida. 6 ALBERTO Pao1EM, Gli elaboratori elettronici nell'am-
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ministrazione dello Stato, Il Mulino 1971, Cfr. in particolare pp. 35-36. STEFANO BIRGA e BRUNO GRAzIAmo, Decisioni, Pubblica Amministrazione, Intelligenza Artificiale, in « Queste Istituzioni », n. 75-76. 8 Cfr. Miniatero del Tesoro, Provveditorato Generale dello Stato, Circolare n. 10 del 22 aprile 1989. n. 75/76, 1988. JEAN PAuI. BASQUIAST e WIM VAN DE DONK, L 'enjeu
politique de l'informatisation dans l'administration publique. Experiencesfranaises, in « Revue Internationale dea Sciences Administratives » 1989, a. 4. 10 PIER Lusos BONTADINI, La collocazione organizzativa del controllo strategico, in « Kybernetes », settembre 1989. Cfr. il quaderno n. 7 degli « Etudea sur la gestion Publique » dell'OCDE,dedicato all'a applicazione delle tec-
nologie dell'informazione nell'amministrazione pubblica. Questioni di gestione», Paris 1989. 12 DAN vLsar'i, ToJIA BIKSON, BAIIA Gu'rEK e CATELEEN STASZ, Managing Technological Change: the Process is key, in « Datamation », 15 settembre 1988.
Debito pubblico, patrimonio, privatizzazioni di Maria Teresa Salvemini
Fra le azioni proposte per il risanamento della finanza pubblica, e cioè per bloccare la crescita del debito pubblico, troviamo la vendita di parte del patrimonio pubblico. La vendita dei « gioielli di famiglia » è ritenuta accettabile anche da chi non fa delle privatizzazioni una questione ideologica, in quanto questa vendita potrebbe: a) ridurre il fabbisogno primario, b) ridurre la spesa per interessi, per il ridursi dell'ammontare di titoli pubblici in circolazione, c) consentire una riduzione del tasso medio di rendimento del debito, nell'ipotesi che tale tasso sia legato, esso stesso, al volume del fabbisogno e del debito (ovvero, secondo un' interpretazione frequente, al rapporto al PIL' di queste grandezze).
IL MERITO DI CREDITO
Quest'ultimo punto riflette una visione del « premio al rischio », cioè del rendimento aggiuntivo richiesto dal mercato sui titoli pubblici, certamente esatta (e confermata dall'esperienza italiana più recente), ma in qualche modo incompleta. Se ragionassimo come ragionerebbe il mercato, o un analista finanziario, nel valutare il merito di credito di una azienda, vedremo che questo non guarda solo al risultato di gestione, o solo al volume dell'indebitamento, ma anche al rapporto tra debiti e mezzi propri, tra debiti e valore complessivo del pa-
trimonio. Anche il creditore dello Stato, nell'esaminare il merito di credito potrebbe voler sapere quali attività si trovano a fronte del debito, e quale è il grado di liquidità di tali attività in caso di necessità. Sapere quali sono le attività serve anche ad identificare nel capitale pubblico una fonte di « reddito » capace di fronteggiare il flusso dei pagamenti: questo sia in un senso « diretto », cioè per il possibile rendimento patrimoniale, sia in un senso indiretto, e cioè per la maggiore redditività del sistema privato connessa alla maggiore o minore dotazione di infrastrutture pubbliche 1 Anche da un punto di vista meramente contabile, la differenza di metodo tra lo Stato che calcola in uscita l'intero flusso di spesa per costruzione di capitale e il sistema privato che calcola solo il deprezzamento porta alla necessità di riflettere meglio sul significato dei disavanzi accumulati per finalità d'investimento. Sapere qual'è il grado di liquidabilità serve a rafforzare la fiducia del mercato: è certamente possibile sostenere che interventi capaci di rendere più liquidabile il patrimonio pubblico (ad esempio la trasformazione degli enti pubblici in SpA, o la predisposizione di un inventano accurato dei beni vendibili), potrebbero essere addirittura sostitutive, dal punto di vista dell'impatto sul meccanismo di formazione del premio al rischio, di azioni intese a ridurre il debito liquidando alcuni cespiti. Sapere infine se il debito .
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è stato accumulato per finalità di consumo o per finalità di investimento serve anche per valutare in che misura l'onere è stato spostato dalle generazioni presenti alle future, o in che misura un soggetto « perfettamente razionale », e cioè capace di reagire all'accumulo di debito come reagirebbe ad un aumento di imposta, sarà indotto ad una riduzione dei consumi: il debito « a fondo perduto », cioè non usato per accumulare capitale, non fa parte infatti della ricchezza privata netta. Ad esempio, Modigliani, lappelli, Pagano ,2 nel misurare il rapporto tra propensione al risparmio e ricchezza, e nel valutare l'ipotesi di perfetta razionalità dei risparmiatori, considerano deficit reale il deficit totale corretto per l'inflazione meno gli investimenti dello Stato in capitale reale; essi però non sono del tutto sicuri della natura di « investimenti » di tutte le spese in conto capitale e perciò operano una correzione, considerando a fondo perduto anche una parte del debito accumulato in contropartita di spese in conto capitale. Il risultato dei loro calcoli è che « nel caso dell'Italia il debito a fondo perduto è presumibilmente abbastanza piccolo da poter essere ignorato ».
RICCHEZZA NETTA DELLO STATO E PRIVATIZZAZIONI
È stata, pure sostenuta la tesi che il debito non sia un problema se a fronte vi sono attività di adeguato valore. Ad esempio, R. Eisner3 con riferimento agli Stati Uniti, ha calcolato che la ricchezza netta del Governo Federale è stata ampiamente positiva nel 1980 - 382 miliardi di dollari - e solo moderatamente negativa nel 1984 - 58 miliardi di dollari -; limitando il calcolo alle sole attività e passività finanziarie, naturalmente, il peso del debito sale, ma non tanto da deter104
minare un serio problema, egli afferma. Questo tipo di ragionamento trova la sua debolezza nella difficoltà di valutare con la stessa accuratezza le attività finanziarie e le attività reali: se immobili residenziali e non residenziali, attrezzature e scorte possono essere valutati al costo di rimpiazzo, la terra e tutti gli altri beni non sostituibili devono avere altri criteri. E tuttavia condivisibile sia l'esigenza di completezza (egli, ad esempio, considera anche la moneta e le riserve del sistema assicurativo) sia l'esigenza di trovare criteri più ampi per valutare la pericolosità della politica di bilancio che si sta perseguendo, in particolare valutando appieno quel che si lascia alle generazioni future, sia in termini di debito da pagare, sia in termini di fonti potenziali di reddito (e qui si apre per qualcuno la questione della valutazione del capitale umano, e quindi anche del debito accumulato a fronte di spese rivolto ad accrescere tale capitale: un tema fuori dei confini di questo studio). La tesi che riduzioni del fabbisogno primario realizzate vendendo cespiti patrimoniali possano avere, sul,la domanda di debito, non solo effetti positivi ma anche effetti negativi, dovuti alla perdita di fonti di reddito future, porta comunque alla necessità di riprendere in mano il tema della costruzione dei conti del patrimonio. Prima di affrontare questo tema, è però opportuno ricordare che le privatizzazioni possono avere finalità molteplici, come segnala la recente esperienza fatta in Francia e in Inghilterra; tra queste quella di ridurre il fabbisogno finanziario attraverso una riduzione dell'onere per interessi, o quello di ridurre il volume del debito pubblico, è solo una, e non sempre la più importante. Particolare rilievo ha assunto, ad esempio, nel caso inglese, l'obbiettivo di accrescere l'efficienza economica del sistema, nell'ipotesi che lo Sta-
to sia peggiore amministratore dei privati. Nel caso francese, invece, ha assunto rilevanza l'obbiettivo del rafforzamento patrimoniale e gestionale di alcune imprese chiave, attraverso il collocamento di pacchetti di controllo in mani forti (« le noyau dur »). In generale, la questione delle privatizzazioni tocca la questione della scelta degli strumenti di Governo dell'economia da parte dello Stato: proprietà o controlli, monopolio pubblico o leggi antitrust, organizzazione dei mercati o pianificazione dei comportamenti, sono le alternative sempre in discussione, a livello teorico oltre che nel dibattito politico. La questione delle privatizzazioni tocca inoltre il problema dell'efficienza dei mercati, di quello finanziario in particolare; alcune privatizzazioni sono state suggerite, ad esempio, dall'interesse ad accrescere il numero dei possessori di titoli azionari, anche attraverso forme di azionariato popolare o di compartecipazione dei dipendenti; altre trovano stimolo nell'esigenza di rafforzare i controlli sugli amministratori attraverso il giudizio del mercato; la prospettiva dell'Unione Europea, e in genere l'apertura di un paese alla competizione internazionale, possono imporre la necessità di abbandonare i mercati protetti, omogeneizzando le istituzioni economiche di un paese a quelle degli altri paesi. Su tutte queste motivazioni esiste già non solo una letteratura teorica, ma anche un primo nocciolo di rassegne delle esperienze fatte in molti paesi. Qui ci interessava farvi cenno, ma non entrare in argomento.
LA NECESSITÀ DI CONTI PATRIMONIALI
Se vogliamo stare solo al problema finanziario, e cioè all'ipotesi che privatizzando si possa contribuire alla soluzioie del problema del
debito, allora, come si diceva, occorre almeno dare chiara evidenza al significato patrimoniale dell'operazione: la privatizzazione diviene economicamente conveniente se il prezzo di vendita del cespite ceduto è più alto del valore attualizzato dei redditi che se ne possono trarre, o se l'assetto istituzionale complessivo abbassa talmente il valore di liquidabilità da ridurne il significato di garanzia patrimoniale. Vi è peraltro un problema, a proposito della vendita di imprese come mezzo di riduzione del fabbisogno « del Tesoro ». Osserva Gassese: «I soldi delle privatizzazioni non vanno nel bilancio dello Stato, ma nelle casse degli enti. Neppure una lira delle privatizzazioni va a beneficio déllo Stato, il quale ricava solo un beneficio indiretto, in quanto il miglioramento delle condizioni di bilancio dei grandi gruppi pubblici fa sì che queste non debbano rivolgersi, per aiuto, al Tesoro dello Stato »'. Occorre dire che anche questo beneficio indiretto è cosa di non poco conto, visto che il debito pubblico che è stato accumulato negli ultimi venti anni riflette un ruolo del Tesoro come erogatore di risorse finanziarie a tutto il sistema, e che perciò certamente il minor disavanzo dell'ente destinatario, comunque realizzato, si risolve in un minore debito del Tesoro. Gli inglesi, che pure si trovano in questa situazione, hanno portato la vendita di attività a riduzione del fabbisogno pubblico (PSBR) in quanto il controvalore delle vendite è stato acquisito al Tesoro, e non, come avvenuto da noi agli enti di gestione (che stanno fuori, contabilmente, dal settore pubblico). Nel caso inglese però si è discusso il tema dell'equivalenza tra il valore del cespite venduto ed il valore attuale del reddito futuro per il settore pubblico anche per nega105
re fondatezza alla contabilizzazione in termini di flusso, cioè di riduzione del PSBR 6 Tornando al tema generale delle privatizzazioni, il punto è che alla valutazione di opportunità dell'intervento deve preesistere una adeguata conoscenza del valore dei cespiti privatizzabii. Beninteso, tale conoscenza è necessaria anche quando lo scopo di una politica di privatizzazioni non sia, prioritariamente, quello di migliorare la situazione finanziaria dello Stato ma quella di accrescere l'efficienza del sistema produttivo o del mercato finanziario. Le tecniche contabili, infatti, impongono spesso una relazione tra valore e reddività, che può servire a mettere in luce, in maniera formale, i casi di uso non buono. Essa è tanto più necessaria, poi, quando delle privatizzazioni si vogliano vedere e controllare gli aspetti redistributivi: è evidente, infatti, che contabiizzazioni non corrette sono l'altra faccia di operazioni di favore per questo o quell'interesse costituito 7 Il problema è se si debba procedere caso per caso, effettuando il calcolo sul valore dell'asset nel momento in cui se ne immagina la vendita - ed in questo caso, con quali procedure, con quali interventi, con quali garanzie - oppure se si debba avere a monte, un quadro generale, un conto patrimoniale del settore pubblico, sul quale, eventualmente, impostare una politica generale, ma comunque utilizzabile per valutazioni « di partenza ». .
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Quii E QUANTI CONTI PATRIMONIALI
La risposta mi sembra debba essere: sono necessarie ambedue le cose. Anche nel caso di imprese o di gruppi di imprese - pubbliche o quale che siano - per le quali esistono bilanci (ovviamente di natura patrimoniale) 106
operazioni importanti come fusioni, cessione di pacchetti di controllo, o altre simili, avvengono per lo più con l'intervento valutativo di soggetti chiamati ad hoc (in genere, società di revisione o banche di investimento). Il valore di cessione richiede infatti analisi che partono dalle valutazioni degli amministratori, ma non si fermano a queste. Il che non significa che i bilanci patrimoniali non servano, anche come base di ragionamento, come del resto avviene per le quotazioni di borsa, ove l'impresa fosse quotata. Nel caso di vendita di singole attività nel settore privato si distingue, anche nel caso di cespiti iscritti in bilancio, il valore « di mercato » dal valore « di libro ». E nel momento in cui il cespite diviene oggetto di transazione, interviene, come si è detto, una certificazione fatta dall'esterno, che parte dalle valutazioni degli amministratori, ma non è certo vincolata a queste. La ragione della divergenza tra valore «di libro » e valore « di mercato » nel caso dei beni pubblici potrebbe derivare dallo scarso interesse dell'Amministrazione a « mostrare » la redditività, attuale o prospettica, del bene; lo stesso può avvenire -- e lo dimostra il caso inglese, in talune imprese pubbliche. Ciò non toglie affatto interesse al dato « di bilancio », cioè ad un affidabile conto del patrimonio. Anzi. Va inoltre detto che un buon processo di privatizzazione richiede un programma di privatizzazioni: e questo difficilmente può essere fatto su basi razionali se non si dispone di un insieme completo di valutazioni patrimoniali. Inoltre, se anche il prezzo di vendita finisce per inglobare valutazioni contigenti, elementi riservati, sovrappiù da negoziazione difficilmente sistematizzabili in parametri da codice amministrativo, resta di fondamentale importanza conoscere, sia pure come punto
di partenza, la valutazione degli amministratori del bene. Diciamo dunque che occorrerebbe avere un conto patrimoniale del settore pubblico, ma poi, nel momento della privatizzazione, una «procedura» di valutazione ad hoc. E da• chiedersi se tale procedura vada affidata ad un organo appositamente creato ovvero alla amministrazione titolare del bene, o ad altra sede. In Francia, fu creata nel 1986 la Commissione delle privatizzazioni, composta di sette esperti, con il compito di stimare di volta in volta il valore di ogni società da privatizzare. Gli esperti potevano ricorrere alla consulenza di merchant banks, anche straniere; questa esperienza tuttavia non è delle più convincenti, almeno secondo il Rapporto della Commissione d'inchiesta presieduta da M. 1orhi, già citato.' In Inghilterra, invece, la responsabilità è del Department of Trade and Industry (trattandosi di imprese pubbliche) e dei singoli enti proprietari, nel caso di immobili. Da un punto di vista astratto, si potrebbe pensare di avere non tanti conti del patrimonio relativi a singoli enti o amministrazioni, ma un conto del patrimonio dell'intero settore pubblico. A questo riguardo giova ricordare che la tradizione di conti pubblici aggregati è del tutto recente: fino a pochi anni fa, i dati disponibili riguardavano i bilanci annuali dei vari soggetti; e tra questi, primeggiava come punto di riferimento della politica economica il bilancio dello Stato. Chiedere che si faccia un conto patrimoniale del settore pubblico significa dunque chiedere che l'innovazione della L. 468 venga portata avanti, operando anche a livello di conti del patrimonio quell'operazione di consolidamento dei vari bilanci dei singoli enti che nel caso dei bilanci di flusso comporta l'eliminazione delle transazioni interne, e nel caso dei bilanci di stock l'eliminazione delle po-
ste creditorie - debitorie interne. Ma per fare questo - e fin troppo evidente è la difficoltà dell'operazione - occorrerebbe comunque partire da conti del patrimonio dei singoli enti, adeguatamente standardizzati, affidabii, completi. Lo « stato dell'arte » al riguardo è, a dir poco, insoddisfacente 8 . I tentativi d'indagine fin qui esperiti (ad esempio, dalla Commissione Cassese) hanno messo in luce in tutti gli enti carenze dal punto di vista della tenuta degli inventari, della conoscenza dello stato dei beni, persino dello stato giuridico che ne determina l'uso. La ragione della difficoltà è innanzitutto concettuale: come ben si sa, la misurazione del «capitale » è tema quanto mai controverso nella scienza economica, ed è sempre difficile porre un chiaro confine tra beni capitali e beni di consumo. Vi è poi una difficoltà di natura conoscitiva, e riguarda, per gli immobili in particolare, destinazione degli stessi, vincoli, stato di conservazione. Questo pregiudica seriamente la possibilità di dare valutazioni economicamente valide, poiché il valore di un bene dipende strettamente dall'uso che se ne fa (il che, tra l'altro, è motivo di cautela nel procedere a frettolose e poco redditizie dismissioni di beni che potrebbero avere migliore utilizzazione.) 9 Non è possibile perciò porre la questione della costruzione di un conto patrimoniale del settore pubblico se non come obbiettivo cui convergere attraverso la predisposizione di conti patrimoniali dei singoli enti e dello Stato. Ma questi conti - ed è questa la tesi che si vuole sostenere - devono essere costruiti .
su un 'intelaiatura omogenea di convenzioni statistiche e contabili che deve essere del tutto cosiruita ex novo. Lo scopo di questa operazione di reimpostazione è duplice: consentire un inquadramento migliore del problema delle dis107
missioni patrimoniali, indurre nelle Amministrazioni comportamenti più efficienti nell'uso del patrimonio stesso, rendendo evidente, nel calcolo, gli effetti e le responsabilità delle cattive utilizzazioni. Quanti e quali problemi ciò ponga può essere visto considerando il conto dél patrimonio dello Stato.
che e scientifiche ll , la scarsa significatività della distinzione tra beni demaniali, esclusi dal conto e beni patrimoniali, inclusi; i limiti del concetto di « partecipazione », la cui definizione attuale sottrae al conto molti importanti Enti pubblici. Sul primo e sul secondo di questi temi, appare necessario acquisire, oggi, i contributi di riflessione di importanti filoni di pensiero economico e statistico; ad esempio, sui principi di valutazione IL PATRIMONIO DELLO STATO dei beni culturali ed ambientali si è portato avanti un dibattito che per la parte « produDal 1980 - in attuazione della L. 468/1978 zione » sta confluendo, in molti paesi, nella e dopo un intervallo di circa quarant'anni costruzione di « conti satelliti » ai conti ecola Corte dei Conti ha esteso l'area della rennomici nazionali, e per la parte «patrimodicontazione ai dati patrimoniali dello Stanio » in tentativi di stima assai interessanti 12 . to. Questo fatto ha avviato un processo di Sul secondo punto, l'esclusione dei beni derevisione critica sia delle scritture patrimomaniali sulla base di presunte difficoltà di vaniali che delle disposizioni disciplinanti la lutazione apre, paradossalmente, la strada ad compilazione e la gestione di tale conto'°. un uso del tutto antieconomico di questi beMa i problemi che sono emersi sono di tutni; e comunque non sembra una motivaziot'altro che facile soluzione. Escludendo i più ne appropriata per il cosidetto « demanio acimportanti problemi di diritto amministracidentale » (autostrade, ad esempio). tivo riguardanti essenzialmente le proceduSul terzo punto, le partecipazioni, basta scorre di rilevazione o di aggiornamento e la rere l'elenco della tab. 2 per percepire alcustruttura di controlli e fermandoci a quelli ne macroscopiche « assenze »: in primo luoeconomici, vediamo che essi riguardano l'ago la Cassa Depositi e Presiti e le sue « parrea da considerare e i criteri di valutazione. tecipate », tra cui 1Ml, e CREDIOP e l'ISono problemi che nascono tutti da una inastituto Nazionale per le Assicurazioni, andeguatezza delle norme tecnico-contabili, ed ch'esso con le sue partecipazioni. Vi sonootè per questo che può proporsi la costituziotimi motivi che spiegano, allo stato attuale, ne di un organismo strettamente tecnico cui l'esclusione di voci siffatte; il problema è cosia dato dal Governo - a termine - il comme includerle, dunque, eventualmente attrapito di elaborare una proposta organica, che verso interventi di ristrutturazione della forpoi confluisca in una riforma delle norme e ma giuridica delle istituzioni interessa te 13. dei regolamenti. Ancor più spinoso è il tema dei criteri di vaIl conto patrimoniale dello Stato è sintetizlutazione. Va osservato, al riguardo, che zato nella tab. 1. Essa riflette la nuova immentre la adozione del costo storico non popostazione data dalla Ragioneria Generale, ne alcun problema, ma determina un'assolucon circolare n. 6 del 7.2.1981. ta inutilità del conto stesso, ogni altro criteDal punto di vista dell'area, cioè dell'esten- rio non può che riflettere una convenzione, sione del conto, i problemi maggiori riguarin analogia, del resto, a quanto avviene neldano la carenza di dati sulle raccolte artistile contabilità private; ove invece si ammet108
tesse una area di flessibilità (nel caso privato, il « prudente apprezzamento degli amministratori ») questo però, allora, richiede ben strutturate procedure di controllo, non superficialmente formali. La normativa attuale non affronta in modo adeguato il tema, sia per incompletezza, sia per interna incoerenza. Essa è inoltre estremamente frammentaria, trattandosi in gran parte di circolari del Ministero delle Finanze (per la parte immobili e mobili). Per le partecipazioni, e in genere per le partite finanziarie, il Tesoro usa come criterio quello della corrispondenza con i pagamenti storicamente effettuati dal bilancio annuale dello Stato, ma questo, escludendo una valutazione del « valore o della partecipazione comporta una lettura « restrittiva o del concetto di variazione della L. 468, che parla del bilancio e « di ogni altra causa N'n, è certo qui la sede per suggerire soluzioni: ribadiamo però il punto che non è soio in « migliori » comportamenti amministrativi che può oYNarsi la soluzione, come sem-
bra ritenere la Corte dei conti 14 in effetti, sembra necessario ristabilire ex novo i criteri di valutazione di immobili, mobili, e attività finanziarie, attraverso una approfondita ricognizione delle prassi e delle formative del settore privato, dei paesi esteri (in particolare europei, nel quadro dell'integrazione), e delle più condivise prese di posizione delle scienze economiche, statistiche e ragionieristiche attuali. Senza tale ricognizione, e senza una formale adozione cli criteri di valutazione, anche iniziative importanti come quella della Commissione Cassese, o quella della L. 99/1985 sulla rilevazione della situazione del patrimonio immobiliare pubblico, finiscono per risultare di solo parziale utilità. Ed anche prese di posizione come quella della Sezione Enti Locali della Corte dei Conti che ha ritenuto di dover puntualizzare ex novo alcuni principi e regole di classificazione e aggregazione degli elementi del patrimonio" troverebbero maggiore eco e maggiore riscontro ove confluissero in un corpus normativo di carattere generale. ;
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Tav.1
Conto generale del patrimonio dello Stato (al 31.12.87) (miliardi di lire)
Attività
Passività
Finanziarie
Finanziarie
Denaro presso gli agenti della riscossione Somme da pagare Crediti di tesoreria Fondo di cassa
18.342 25.514 226.590 118
Somme da pagare
92.920
Debiti di tesoreria
581.916
Crediti e partecipazioni Crediti Partecipazioni
38.232 58.390
Beni patrimoniali Immobili Musei, pinacoteche Ferrovie Beni mobili
Passività patrimoniali 17.693. 1.156 2.398 28.458
Debiti pubblici consolidabii e redimibili Debiti vari Monete Residui perenti
484.100 10:324 1.226 13.378
Eccedenza passività su attività al 31.12.1987 766.974 Fonte: Decisione e Relazione della Corte dei Conti sui Rendiconto Generale dello Stato per l'esercizio finanziario 1987.
Tav. 2
Fondi di dotazione SACE. ZECCA - ENEL- ENI - 1Ml - GEPI - ARTIGIANCASSA MEDIOCREDITO CENTRALE - EFIM
Partecipazione al capitale di istituti di credito Consorzio Nazionale per il credito agrario di miglioramento - Cassa per la formazione delle piccole proprietà contadine e Istituto di credito per le piccole industrie e l'artigianato - Istituto di credito a medio termine per il Friuli-Venezia Giulia, Venezie, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria - Banca Nazionale del Lavoro - Banco di Napoli - Banco di Sicilia - Banco di Sardegna - ISVEIMER - IRFIS - CIS 110
Note Il saggio è stato scritto per un volume collettaneo della Ragioneria Generale dello Stato di prossima pubblicazioiie.
D. A. ASCHAIJER (Is public expenditure productive? in « Journal of Monetarv economics » 1989) ha dimostrato, per gli Stati Uniti, che vi è una correlazione positiva tra la dinamica della produttività del sistema privato e la dotazione di capitale pubblico. 2 F. MODIGLIANI, T. JAPPEw, M. PAGANO. L'impatto del-
la politica fiscale e dell'efficienza sul risparmio nazionale: ikaso italiano, in « Moneta e Credito» 1985. ' R. E!SNER. Budget Deficits: Rhetoric and Real:ty. in « The Journal of Economic Perspectives » 1989, N. 2 Cfr. anche R. Eisner, P.J. PIEI'ER. A new view o! the Federal Debt ami Budget Deficits. in « The American Economic Review » marzo 1984. Sull'esperienza estera cfr. G. YARROW, La privatizzazione in teoria e in pratica, in « Queste Istituzioni » 1987, n. 71 e n. 72. 'Sano CASSESE. Leprivatizzazioni in Italia. Riv. Trim. Dir. Pub. 1988. 6 Cfr. BUITER, A guide to Pnblic Sector Debt ed Deficits, in « Economic Policy» 1985.
Si vedano, al riguardo, il Rapport sur lei operations de privatisation, chiesto dalla Assemblea Nazionale francese (28.10.1989) ed il Report by the Comptrolkr and Auditor Generai, Department of Trade and Industry: Sale of Rover Group plc to British Aerospace plc; chiesto dalla House of Commons inglese. 8 Nella Relazione Conclusiva della Commissione di indagine sul patrimonio immobiliare pubblico (Nov. 1987), si da' ampio ed analitico ctinto delle fonti disponibili e di quelle attivate in termini censuari.
Così, nella Relazione sulla gestione del Patrimonio, 1988, Roma, Camera dei Deputati, ad esempio, a proposito dei beni immmobili, la Corte dei Conti lamenta « una pluralità di comportamenti indirizzati al sistematico svilimento dei beni stessi » (pag. 48). E cita: concessioni di fitti a condizioni non conformi, occupazioni senza titolo, concessioni a canone ricognitorio ad altri enti pubblici, vincoli di vario genere alla scelta della destinazione di maggiore rilevanza economica o pubblica. 10 Angelo Buscema. La certificazione dei bilanci ed ilgiudizio di parificazione del rendiconto generale dello Stato.
in « Amministrazione e Contabilità degli enti pubblici » 1987. cui gestori sono, tra l'altro, esclusi dalla presentazione del conto giudiziale (art. 7 e 627 Reg. cont. gen.). 12 Cfr. MAUFJZI0 Di P<wvIA. Il Conto economico dei beni culturali, della ricerca e dell'ambiente: il quadro generale e i conti satellite. Relazione al convegno di studi «La statistica Italiana per l'Europa del 1993 », Roma, Maggio 1990. 13 Un tema, questo, che ha già trovato espressioni in disegni di legge come quello del Sen. Cavazzuti sulle privtizzazioni. 14 La Corte segnala, ad esempio, la scarsa dimostrazione dei requisiti di certezza ed esigibiità per i crediti; la lentezza incompletezza delle procedure di iscrizione e cancellazione dei beni immobili e mob;l'estensione del concetto di «servizio tecnico » nella dotazione di autovetture: e la situazione assai diversificata e per lo più negativa, per quanto riguarda la tenuta degli inventari; la mancanza di idonee strutture degli usi del demanio marittimo; ed altri, peraltro assai importanti, aspetti di disfunzione dell'Amministrazione che meriterebbero assai maggiore attenzione da parte del Parlamento e del Governo di quanto sia fin qui avvenuto. ' Corte dei Conti - Sezione enti locali, deliberazione n. 650 deI 1988.
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queste istituzioni
Archivio Media
Borges ricordava in « Altre Inquisizioni » (1960) che « il mondo, secondo Mallarmé, esiste per giustificare un libro; secondo Bloy, siamo versetti o parole o lettere di un libro magico, e codesto libro incessante è l'unica cosa che è al mondo: è, per meglio dire, il mondo ». Ilfilosofo Emmanuel Lévinas a chi gli chiedeva come si comincia a pensare rispondeva che probabilmente cia avviene in seguito a traumi o colpi ai quali non si sa dare una forma verbale (una separazione, una scena di violenza, la brusca coscienza della monotonia del tempo). Ma « è alla lettura dei libri che questi shocks iniziali divengono questioni e problemi, danno a pensare » (« Ethique et Infini » dialoghi con F. Ne0
mo, 1982). Con lo spirito di queste citazioni inseriamo il discorso dello storico J. Billington, da quakhe anno Librarian of Congress, nel dossier in cui vengono ripresi i temi della difficile regolamentazione delle televisioni sul piano europeo e su quello nazionale. Su questo argomento si vedano i precedenti interventi di Raffaele Barberio e Nino Cascino sul n. 6811986 e di Giandonato Caggiano e Nino Cascino sul n. 77-7811989.
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L'Europa delle televisioni di Giovanni Gelsi
Il seminario organizzato da « Queste istituzioni » a Roma il i di giugno 1989 su "L'Europa delle televisioni" ha rappresentato una ulteriore occasione per far emergere - e riflettere su - la complessità della questione televisiva alla vigilia dell'integrazione europea. Un resoconto ragionato del dibattito, pur nei limiti di un incontro che non pretendeva di trovare risposte definitive, consente una lettura critica dei molteplici aspetti e fattori che lo sviluppo della televisione, facendo crollare non soio le barriere geografiche, ma anche quelle lingiustiche e culturali, mette in gioco. Si è tentato, con la collaborazione di studiosi dei media, giuristi, operatori del settore dell'informazione e delle comunicazioni, rappresentanti politici e istituzionali, di mettere a fuoco quali possano essere le condizioni più favorevoli all'evoluzione di un sistema televisivo che sia sufficientemente flessibile da garantire un corretto rapporto tra:. pubblico e privato; fattori economici, tecnici, politici e istituzionali; integrazione e concorrenza internazionale e identità nazionali; funzioni di servizio di interesse generale, diritti di cittadinanza ed interessi economici; produzione culturale e distribuzione commerciale; potenziale tecnologico, risorse e contenuti.
UNA NORÌVIATIVA EUROPEA
Certo, la complessità delle tematiche afferen-
ti alla televisione non è una scoperta dell'ultim'ora. Ma essa è tale da riemergere puntualmente anche quando si tenta di ridurne la portata attraverso un approccio più specialistico, quale quello adottato per il seminario di Queste Istituzioni, dove il tema della "Europa delle Televisioni" è servito a riprendere le fila di una riflessione avviata anni prima dal "Gruppo di Studio su Società e Istituzioni". Riflessione che verteva, appunto, sul rapporto tra televisione e istituzioni. Che fosse non solo impossibile, ma anche del tutto inutile nascondere le complessità del tema dietro l'approccio istituzionalista è emerso esplicitamente dall'intervento di Sergio Ristuccia - direttore di « Queste Istituzioni» e presidente del Gruppo. di Studio Società e Istituzioni - il quale, aprendo i lavori, ha esposto subito le possibilità, più che gli obiettivi, offerte dall'incontro di studio. Possibilità consistenti innanzitutto nell'occasione di verifica, in termini politici e culturali, di almeno tre grandi problemi di carattere generale, rappresentati da: il rapporto tra società e istituzioni, dove a volte, come nel caso italiano, il « dato del fenomeno sociale ha sopravanzato quello dell'adattamento delle istituzioni »; il processo che sta interessando l'Europa comunitaria e « che qualcuno chiama di Stato prefederale, caratterizzato, tra l'altro, da una democrazia quanto meno da definire "mista", e cioè in parte democrazia di voti o di rappresentanza, e in parte demo115
crazia di interessi, se così si può dire »; c) la portata del mercato interno post '92, tenendo conto che siamo nell'area dei "servizi", un contesto particolare dove "ci sono, si fanno valere, si usano e, se si vuole, si strumentalizzano anche, temi di etica degli affari". Il dibattito è stato introdotto da Giandonato Caggiano e da Nino Cascino, i quali hanno fatto il punto sullo stato dei lavori in sede comunitaria e di Consigli d'Europa volti a definire una regolamentazione del sistema televisivo europeo, che tenga conto della pluralità politica, culturale, tecnologica ed economica degli interessi coinvolti. Giandonato Caggiano, nel suo intervento ha inteso sottolineare gli "aspetti che riguardano le conseguenze dell'adozione del regime giuridico europeo in seno alla Comunità Europea e al Consiglio d'Europa e sul regime in Italia applicabile alle televisioni". Tra questi aspetti ci sono sicuramente quelli derivanti dalle nuove condizioni del "paesaggio audiovisivo europeo" determinate dalla "rivoluzione della tecnica delle trasmissioni televisive", che hanno portato da una parte al superamento della "distinzione tra satelliti di telecomunicazione da punto a punto e sateffiti di telediffusione diretta": e dall'altra, al riconoscimento - che smentisce le precedenti convinzioni - che "le risorse delle frequenze sull'orbita geostazionaria non sono più risorse limitate". L'unica distinzione che resta - ha quindi precisato Caggiano - è la distinzione tra ricezione diretta delle trasmissioni televisive che vengano da un satellite a ricezione indiretta tramite il cavo". Per Caggiano, il dato che emerge dal nuovo paesaggio audiovisivo europeo è che "se si vogliono imporre delle limitazioni alle trasmissioni che sono ricevibili direttamente dal sateffite non si può che imporle allo stato di trasmissione". 116
Infatti, la questione che si pone con sempre maggiore urgenza, riguarda il rapporto tra emittenza nazionale ed emittenza transfrontaliera. Caggiano ha evidenziato che "i due strumenti giuridici, rappresentati dalla convenzione e dalla direttiva europea, sostanzialmente si occupano della televisione transfrontaliera". Ma ha ricordato pure che essi avranno necessariamente ricadute sul piano interno, anche alla luce della sentenza n. 153 del 1987 della Corte Costituzionale, che mentre ha stabilito la nullità del monopolio statale per le trasmissioni rivolte all'estero, "ha anche affermato la necessità che il legislatore preveda una autorizzazione di carattere discrezionale, tipo "licenza", dato il carattere particolare delle relazioni internazionali e la necessità del mantenimento dei rapporti con gli altri stati". Tra le conseguenze che una direttiva comunitaria comporta sul piano interno c'è anche quella "della scelta di tecnica legislativa che il legislatore ha davanti" per la sua attuazione. Per quanto riguarda l'Italia, in particolare, Caggiano ha ricordato che il legislatore dovrà valutare sia l'opportunità di conservare o meno i codici di autodisciplina, "che sono una lunga e felice tradizione del nostro ordinamento"; sia l'opportunità di versare i nuovi principi della direttiva in un unico testo di legge per la televisione, oppure di "fare una legge speciale applicabile alle trasmissioni a carattere transfrontaliero e internazionale". In ogni caso, la Convenzione europea prevede, come Caggiano ha ribadito, "il condizionamento della circolazione delle trasmissioni televisive al rispetto della legge dello stato di ricezione". Il che, ha poi fatto notare lo stesso Caggiano, se appare legittimo "per quanto riguarda la moralità, l'incitamento alla violenza e la protezione degli adolescenti", pone maggiori problemi, suscettibili di negoziati e còntrattazioni tecnico-
politiche più difficili, se ci si riferisce "al tetto della pubblicità, alla separazione ed indentificabilità della pubblicità all'interno del programma, alle modalità di interruzione, alla pubblicità del tabacco e di altri prodotti particolari". Per tutti questi aspetti, che vanno dalla moralità alla pubblicità, laConvenzione contiene "l'affermazione di un grande potere da parte dello Stato di ricezione", il quale, in presenza di violazioni, può ottenere in breve tempo "una sospensione unilaterale del programma", in attesa che venga poi accertata la effettiva violazione della norma nazionale. E questo, per Caggiano, si traduce, di fatto, nell'affermazione di "una forma di consenso preventivo" di cui può disporre uno stato di ricezione, dal momento che nessun radiodiffusore potrebbe aspettare anni prima che una sentenza gli restituisca il diritto a trasmettere di nuovo un proprio programma sospeso preventivamente. Caggiano ha poi sottolineato la "tendenza a plasmare il diritto comunitario - anche per quanto riguarda le trasmissioni televisive attraverso clausole di salvaguardia ed eccezioni" ed ha denunciato la scarsa attenzione nei confronti degli "aspetti culturali ed ideologici della televisione". L'altro intervento introduttivo alla discussione è stato, come si detto, quello di Nino Cascino. Cascino ha esposto alcuni punti del testo della direttiva europea che sono stati sottoposti ad emandamenti dal Parlamento europeo. Si tratta, evidentemente, di emendamenti riguardanti questioni molto controverse emerse già nel negoziato sia a livello tecnico sia a livello politico. Tra i vari punti ricordati da Cascino c'è quello concernente le concentrazioni televisive, che solo nell'introduzione alla direttiva vengono condannate, e quello riguardante le quote di produzione comunitaria. A questo proposito il Parlamento europeo ha chiesto
che "gli stati membri provvedano con appropriati mezzi giuridicamente efficaci e con una progressività commisurata alla situazione in atto, entro quattro anni dall'entrata in vigore della direttiva, che ciascuna emittente televisiva (quindi pubblica e privata) riservi la parte maggioritaria" della propria programmazione alla produzione comunitaria. Per quanto riguarda, invece i cosidetti "produttori indipendenti", C ascino ha ricordato che, mentre nel negoziato "si era tutti d'accordo che un 5% del budget di programmazione degli enti televisivi fosse dato ai produttori indipendenti per stimolare una produzione ed una ideazione esterna agli organismi televisivi, all'ultimo momento la Gran' Bretagna aveva chiesto che questa percentuale fosse riferita al tempo di programmazione". Il Parlamento, quindi, ha "salomonicamente" proposto di dire: "5% (e dopo qualche anno il 10%) o del tempo di trasmissione o del budget di programmazione". Sulla questione, invece, delle interruzioni pubblicitarie il compromesso cui si è giunto, prima in sede di consiglio d'Europa, poi in sede comunitaria, prevede che la pubblicità televisiva non interrompa l'organica coerenza dei programmi e sia inserita tra le trasmissioni in modo da non comprometterne l'integrità che è tra i diritti dell'autore dell'opera. L'interruzione pubblicitaria dovrà insomma essere consentita solo quando essa non costituisce una "indebita interferenza". Cascino ha puntualizzato i 4 principi che dovrebbero regolarmentare le interruzioni. Il primo è quello dell"intervallo naturale, valido per i programmi, come quelli teatrali o sportivi, che hanno all'origine, appunto, un intervallo naturale". Il secondo principio, quello che - come ha rilevato Cascino con una frase incisiva - "ha fatto scorrere sangue", stabilisce 45 minuti protetti nel lungometraggio, sia cinematografico che televi117
sivo. Il terzo principio riduce a 20 i minuti protetti per il resto della programmazione. Il quarto ed ultimo principio garantisce che per 30 minuti non vengano interrotti con la pubblicità l'informazione, i programmi religiosi, scolastici e per bambini. Cascino ha, però, ricordato che per tutti questi principi è stata chiesta una deroga da parte italiana per le trasmissioni "che direttamente o indirettamente non son'o ricevute in altri paesi diversi da quello di trasmissione". Cascino ha poi sottolineato il carattere particolarmente repressivo della parte della direttiva riferita alla sponsorizzazione, per la quale sono stati proposti limiti talmente restrittivi da renderla quasi impraticabile. Infine, è soprattutto a riguardo del rapporto tra negoziato tecnico e negoziato politico che si registra il maggior "deficit da democrazia", come Cascino ha definito il poco spazio riservato alle garanzie democratiche nelle procedure istituzionali che dovrebbero dotare l'Europa comunitaria di un sistema televisivo moderno, efficiente e democratico.
ASPErrI
POLITICO ISTITUZIONALI
Era naturale che la discussione, sulla base delle premesse esposte da Caggiano e Cascino, partisse proprio dalla posizione assunta dall'Italia nel negoziato europeo per una normativa sulle televisioni. Posizione resa particolare proprio dalla attuale situazione interna, dove ancora non si è colmato il vuoto legislativo che si è venuto a creare in seguito all'instaurarsi, di fatto, di un sistema misto, pubblico-privato che ha soppiantato il più tradizionale, almeno per l'Europa, monopolio statale nel settore televisivo. Partendo da considerazioni di tale natura, Sebastiano Sortino ha affermato che quella 118
italiana è una posizione molto "singolare" e anche contraddittoria, proprio perchè si tratta di uno stato, il quale "in dodici anni non è riuscito a fare una legge, e che poi partecipa attivamente a iniziative comunitarie dirette a stabilire direttive in materia". Ancora più radicale l'accusa di contraddittorietà da parte di Roberto Zaccaria, che si è dichiarato quanto mai sconcertato dal comportamento dell'Italia, che prima ha subordinato la firma della convenzione - destinata a regolare soltanto le trasmissioni transfrontaliere - alla emanazione della direttiva - che invece armonizza le legislazioni nazionali nei confronti di tutti i tipi di trasmissioni, rivolte sia all'interno che all'esterno dei confini nazionali - e poi, però, ha chiesto ed ottenuto una deroga all'applicazione della direttiva per le trasmissioni a livello nazionale. Per Luigi Ferrari Bravo, invece, non c'è stato nulla di scandaloso o particolare nella posizione italiana, anche perchè, in realtà, come ha spiegato lo stesso Ferrari Bravo, "quella che è passata come una proposta dell'Italia, cioè l'esclusione delle trasmissioni nazionali dalla disciplina della pubblicità, non ha sollevato la benchè minima obiezione", anzi la riserva, "è stata il frutto di una riflessione comune". Oltre al fatto che la posizione italiana era condivisa dagli altri partner europei, essa non contraddice lo spirito comunitario, ma, per alcuni dei partecipanti all'incontro, rientra a pieno diritto in quella che può essere considerata la filosofia su cui si basa la convivenza comunitaria. Claudio De Rose ha, infatti ricordato che "tutto il sistema della comunità si muove nell'ambito di una duplice scelta" distinguendo tra la "soglia nazionale" e la "soglia comunitaria". "Quindi - ha continuato De Rose - non è che la soglia nazionale sia anticomunitaria per principio, la soglia nazio-
nale rientra nella logica della convivenza comunitaria". Piuttosto, l'atteggiamento dei rappresentanti italiani in sede di negoziato europeo, per qualcuno, può essere interpretato come la conseguenza dell'incontro-scontro tra "due tendenze" che in Italia vedono contrapposti altrettanti schieramenti con concorrenti diversi a riguardo della legislazione nazionale, ancora a venire, che dovrà regolamentare il settore televisivo. Di questo parere si è detto Sortino, per il quale, da un lato, ci sono "coloro che vorrebbero una legge, e non essendoci riusciti finora, speravano che una qualche regola comunitaria potesse ricadere a livello italiano"; e , dall'altro, ci sono "coloro che la legge non l'hanno fatta, non l'hanno voluta e che, quindi, hanno agito af finchè ciò che arriva dall'esterno non solo sia in alcun modo una regola per l'interno" ma consenta anche "di non adottarne alcuna". Che una normativa europea possa avere ricadute a livello nazionale tale da sblQccare una situazione legislativa che in Italia, in assenza di un accordo politico, si trova da lungo tempo in una posizione di stallo, è una speranza condivisa da numerosi partecipanti all'incontro di Queste Istituzioni. Per Zaccaria, infatti, "noi viviamo questa situazione particolare per cui non potendo fare la legge in Italia per una serie di motivi abbastanza noti abbiamo sperato in due grimaldelli in qualche modo esterni al Parlamento: uno avrebbe dovuto essere l'Europa, l'altro la Corte costituzionale". Stessa opinione quella di Antonio Bernardi, il quale, nel suo intervento, si è detto convinto che la direttiva europea "rappresenta un tentativo per dare una cornice di riferimento alle varie legislazioni nazionali". Tuttavia sui possibili effetti a livello nazionale della direttiva europea i pareri restano discordi. Da una parte c'è chi ritiene, come
De Rose, che "quando noi andremo ad attuare la direttiva avremo una legge, che, per quanto possa essere limitata l'attuazione della direttiva, certamente investirà tutti questi problemi, anche di interesse nazionale". Dall'altra, invece, c'è chi, come Ferrari Bravo, dichiara l'impressione che la normativa europea "sia una scatola a maglie molto larghe" per cui "resta tutto quanto intero il problema della legislazione nazionale". Perchè, sempre secondo il giudizio di Ferrari Bravo, "se una preoccupazione di carattere nazionale può avere ispirato chi è andato a rappresentare il governo italiano, è quella di evitare che i contenuti della direttiva e della convenzione fossero tali da pregiudicare le opzioni legislative da prendere in sede nazionale'. Una preoccupazione che Ferrari Bravo ritiene sia stata dettata dal possibile "pericolo di strumentalizzazione" della normativa comunitaria in sede nazionale. Della stessa natura è l'opinione di Caggiano, il quale ha rivendicato la "necessità di ridimensionare l'attesa di questo strumento (la direttiva europea, n.d.r.), che, in realtà, era destinato a poco più che ad un riconoscimento della competenza comunitaria". Sono proprio le scelte adottate per stabilire la base giuridica della direttiva sulle televisioni che hanno influenzato anche la natura, gli ambiti e i confini della direttiva stessa. Infatti, per Ferrari Bravo, "se la direttiva ha un difetto, è proprio quello della sua base giuridica, che ne ha anche un pò orientato e deviato il contenuto e il modo di essere". Perché "ogni volta che si adotta un atto all'interno della Comunità, bisogna trovare la cosidetta base giuridica, cioè il « gancetto » dell'articolo del trattato CEE al quale attaccarlo: ora, il gancetto in questione è quello sui servizi, l'articolo 59". È proprio la particolare base giuridica conferita alla televisione che ha focalizzato gli obbiettivi del119
la normativa sulla "disciplina della concorrenza", nell'ottica di problema costituito dal settore dei servizi. Un approccio molto particolare che pone in primo piano la questione delle risorse economiche, tra le quali la pubblicità riveste un ruolo predominante.
ASPETTI TECNOLOGICI
Tale ottica è quella che prevale anche sugli aspetti tecnologici della questione televisiva, che secondo alcuni non sono stati tenuti nella dovuta considerazione nel negoziato europeo. Caggiano, ad esempio, ha denunciato la obsolescenza della distinzione che si continua a fare tra "trasmissioni transfrontaliere" e "trasmissioni tout court". Secondo Caggiano "è una distinzione estremamente artificiosa ed è in fondo il limite di questi due strumenti (convenzione e direttiva, n.d.r.), che nascono obsoleti da un punto di vista tecnico". Perchè, come Caggiano ha ricordato, "in realtà le trasmissioni cosidette nazionali sono sui satelliti di telecomunicazione: la Rai, ad esempio, è in Belgio su un satellite ditelecomunicazione e potrebbe essere ricevuta liberamente, oltre che via cavo, senza alcuna limitazione dello stato di ricezione, se l'utente avesse sul tetto un'antenna tecnicamente predisposta". Il motivo di questa distinzione ha origine nelle esigenze nazionali di tutela economica dei mercati. Infatti, la distinzione, ha precisato lo stesso Caggiano, "è stata proposta da alcuni Stati Comunitari, quali Gran Bretagna e Olanda, e sostenuta con grande favore da altri, quali Svizzera, Austria, Svezia, che, in quanto paesi «innaffiati» dalle trasmissioni di altri paesi, vedevano turbato non soltanto il loro sistema multimediale, ma addirittura il loro intero sistema economico". 120
Sortino, d'altro canto, ha sottolineato che « lo strumento tecnico per fare televisione è oggi per definizione transnazionale, transcontinentale, è uno strumento che scavalca i confini amministrativi dei singoli Stati. Quindi in questa materia o si stabilisce una regola generale che valga per tutti oppure stabilire semplicemente le regolette che valgono quando si esporta il prodotto, significa non solo far retrocedere il problema ad un rango puramente mercantile, ma anche non risolverlo, visto che il problema è tale, da un punto di vista tecnologico, che non può collocarsi, in un tempo più o meno rapido, in un sistema multinazionale, per Io meno europeo ».
ASPETTI ECONOMICI
Tuttavia, come si diceva poco sopra, la stessa base giuridica prescelta per accreditare la competenza comunitaria favorisce il prevalere degli aspetti economici nella questione televisiva alla prova dell'integrazione europea. Con tali premesse "quello della percentuale di pubblicità dentro le trasmissioni è sicuramente un aspetto importante - ha sostenuto Sortino - anche se può apparire il più commerciale, perchè è la chiave di tutto". Sul problema, rappresentato appunto dalle percentuali di pubblicità è intervenuto Sergio Vione, presentando alcune riserve di carattere tecnico-operativo avanzate dalle organizzazioni internazionali della pubblicità: « nel dettaglio le riserve che vengono poste riguardano proprio la quantità di pubblicità oraria che è consentita in relazione all'estrema limitazione dei blocchi. Per cui, paradossalmente, sia il 20% sia il 18% diventano un assurdo dal punto di vista tecnico, in quanto, nelle condizioni più favorevoli, sono, consentite tre interruzioni, il che vuol
dire tre break estremamente lunghi, insopportabili, economicamente poco validi come proposta pubblicitaria ». Ancora maggiori, secondo Vione, sono le perplessità dei pubblicitari per la sponsorizzazione, di cui la normativa europea potrebbe essere la tombstone, perchè "in quelle condizioni non c'è nessun utente pubblicitario che abbia alcun interesse a fare della sponsorizzazione ». Va tenuto conto, ragionando sulla pubblicità, di un altro problema sollevato da Vione, il quale ha affermato che « le risorse del mercato pubblicitario relative alla pubblicità televisiva pan-europea, quindi sovranazionale, sono in questo momento modestissime", ancora più limitate di quelle dello scorso anno che pure non erano arrivate alla soglia dei 100 miliardi in tutta l'Europa. Ne consegue, per Vione, che si sta allargando la forbice tra potenziale tecnologico e risorse pubblicitane, per cui «uno dei problemi futuri sarà proprio quello di arrivare ad un equilibrio tra le due situazioni ». Riserve a parte, la questione della pubblicità resta centrale, ed è proprio quella intorno a cui ruota la direttiva europea, per cui, «il modo in cui ci si comporta sulla pubblicità - anche secondo il parere di Antonio Bernardi - diventa questione fondamentale ». E non solo per quanto riguarda, come hanno ricordato Sortino e Vione, i rapporti tra diversi media, stampati e elettronici, ma anche per l'evoluzione dell'intero sistema mediale e audiovisivo internazionale. E quest'ultima un'opinione sostenuta in modo particolare da Giuseppe Guarino, il quale, durante l'incontro, ha ricordato che già quando si pose la questione televisiva a livello nazionale aveva affermato che « il problema tecnico era un problema secondario e che avrebbe perduto ogni importanza: il vero punto della questione era quello economico ».
Per Guarino lo stesso discorso è applicabile alla televisione transfrontaliera, che è "una questione economica rilevante, perchè uno Stato può avere un mercato locale di dimensioni maggiori, e quindi i prodotti di questo mercato, se la televisione che li pubblicizza è in grado di oltrepassare le frontiere, finiscono per avere automaticamente un vantaggio su prodotti che traggono origine da un mercato di dimensioni inferiori ». In questa ottica, acquista una particolare rilevanza il problema rappresentato dalla libertà di concorrenza, che chiama in causa la questione delle concentrazioni e dei monopoli, soprattutto alla luce del "pericolo" che si creino posizioni dominanti incrociate tra il settore delle trasmissioni e quello della raccolta e vendita di pubblicità. Per Guarino la questione centrale, infatti, è rappresentata dalla possibilità che, come è già avvenuto o sta avvenendo in Italia, si creino monopoli privati. Ora sempre secondo il ragionamento di Guarino, se qualcuno ha avuto la tentazione di favorire il formarsi di monopoli a livello nazinale, perchè, poi forti di una posizione di partenza già consolidata, questi stessi monopoli potessero espandersi all'esterno dei confini domestici, portando anche nel mercato europeo la bandiera italiana, ebbene, quel qualcuno rischia di vedere disattese le proprie aspettative, se l'intero settore viene abbandonato in balia delle regole di mercato, in assenza dileggi anti-trust adeguate. «In base a queste stesse regole - ha infatti proseguito Guarino -, che non sono regole date da qualcuno di noi, o dal Parlamento o dal Governo, ma sono leggi ineluttabili del mercato, il più grande dei nostri produttori ad un certo punto passerà la mano ad un grande produttore internazionale; e noinon avremo più il mezzo di difesa » per impedi121
re che avvenga «a rovescio quell'operaziodenze in atto. Perchè, ha affermato Barbene che immaginavamo di fare » nei confronrio, se da una parte è vero che "fino ad ora ti dell'ambito internazionale. la transazione commerciale che avviene in teGuarino ha puntualizzato la sua proposta di levisione, avviene perchè le televisioni venun più marcato orientamento anti-trust, in dono pubblico ai pubblicitari"; da un'altra funzione della salvaguardia di un controllo è, invece, probabile che in un prossimo funazionale sulle imprese televisive di proprietà turo "le televisioni saranno sempre più deprivata, puntando il dito sulla pubblicità: stinate ad essere strumenti di distribuzione" "Per questa ragione - ha affermato - io e di vendita diretta di un prodotto audiovicredo che noi dobbiamo batterci contro la suale ad un dato pubblico, come sta già avpubblicità nelle trasmissioni e dobbiamo esvenendo in molti paesi, soprattutto negli Stasere favorevoli alla sua limitazione, perchè, ti Uniti, dove si diffonde il fenomeno delle se la pubblicità nelle trasmissioni non è tale pay TV o delle pay per view. da consentire un'accumulazione capitalistiIl semplice passaggio da un livello ad un alca nell'ambito del settore, allora questi eftro della transazione commerciale che può vefetti non si determineranno". rificarsi nel settore privato dell'ambito teleAnche la tesi da cui nascono tali considera- visivo, basterebbe, dunque, a invalidare sozioni, dunque, pone al centro della questiostanzialmente la prospettiva assunta ai fini ne televisiva le sue valenze economiche e predell'elaborazione di una normativa, e di consuppone la dipendenza della sua evoluzione seguenza l'efficacia e la corrispondenza alla dalla tendenza all'internazionaljzzazjone dei realtà di quest'ultima. mercati. Il fulcro intorno a cui ruotano le analisi e le IL PROBLEMA DELLE IDENTITÀ CULTURALI proposte che derivano da un approccio prevalentemente economico resta la pubblicità, Sullo sfondo del dibattito è emerso frequenassunta, nel bene o nel male, in positivo o te il richiamo alla difesa delle identità cultuin negativo, quale settore privilegiato sul quarali nazionali le quali, secondo alcuni dei parle operare con interventi normativi sia a litecipanti, rischiano di essere sacrificate in novello nazionale sia a livello comunitario, al me di un processo d'integrazione europea dofine di orientare lo sviluppo del settore televe tendono a prelevare gli interessi di natuvisivo in particolare, e dell'intero comparto ra economica, quelli più visibili e percepibiaudiovisuale in generale. li, almeno nell'immediato. Su questo aspetto è intervenuto Raffaele BarQuando si discute delle questioni afferenti berio, sottolineando come l'attenzione focaal sistema televisivo in chiave europea, inlizzata sulla pubblicità possa rivelare una cer- fatti, sono proprio gli aspetti propriamente ta inadeguatezza del dibattito attuale, o se culturali e sociali che vengono trascurati, opsi vuole una sua arretratezza e un suo errore pure è la stessa cosa, dati per scontati. Di di prospettiva. Per Barberio, infatti, paradosquesto parere si è detto, ad esempio, Ferrari salmente, "potrebbe accadere che, dopo anBravo, per il quale "sia la direttiva che la conni di discussione in chiave comunitaria, i ri- venzione hanno finito, per una serie di mesultati che si ottengono siano già arretrati, schinità e di avarizie, per inini.iserire l'aspetto come spesso accade nel rapporto tra normaculturale della disciplina panaeuropea occitive che si elaborano, fatti compiuti" e tendentale in materia televisiva". In effetti af122
frontando la questione televisiva sotto l'approccio socio-culturale le cosi si complicano in misura esponenziale, anche perchè, come ha affermato Bernardi, «non è materia per niente facile da regolamentare, non solo perchè non era prevista negli atti fondativi dalla Comunità, ma perchè il rapporto tra il sistema delle comunicazioni sociali e il potere è talmente intrecciato e complesso, lo spessore delle tradizioni storiche e culturali è talmente forte che difficilmente si possono intraprendere nuove strade da percorrere La preoccupazione maggiore per Bernardi, è che la difficoltà a legiferare, sia a livello nazionale sia a livello europeo, porti ad una situazione in cui « si avranno modificazioni che tenderanno ad annullare l'identità nazionale e anche la forza europea ». Anche Guarino si è detto convinto che l'impegno di tutti debba essere volto alla creazione di una identità culturale europea, la quale, però, perchè possa essere riconosciuta a livello mondiale "deve favorire la fertilizzazione delle identità subcontinentali, cioè quelle nazionali". In questa prospettiva, sempre secondo Guarino, l'accento si sposta necessariamente sul rapporto tra interessi culturali e interessi commerciali, anche perché c'è chi, come Bernardi, legge, dietro. la cultura veicolata attraverso le trasmissioni televisive, gli interessi "economici e sociali di interi paesi". La difesa delle identità nazionali, tuttavia, tende a trasformarsi in una richiesta di chiusure commerciali, che insieme alle limitazioni imposte alla pubblicità televisiva, riducano l'importazione di prodotti audiovisuali extra comunitari. È questa una posizione rappresentata in Europa soprattutto dalla Francia e che trova in Italia numerosi sostenitori. Posizione che, tuttavia - se è consentito di esprimere un'opinione al curatore di questo resoconto -
rischia di ridurre la ricerca di una soluzione articolata per l'intero, complesso fenomeno televisivo, ad una mera scelta protezionistica, destinata, nei fatti, ad essere impraticabile nel lungo periodo, e alla fine dei conti, a rivelarsi un rimedio peggiore del male che intende curare, riducendo la capacità competitiva dei prodotti nazionali sui mercati internazionali, invece di promuoverla ed incrementarla.
PRODUZIONE/DISTRIBUZIONE
Un problema che si pone con sempre maggiore urgenza, anche a giudizio di molti dei partecipanti all'incontro, è quello del rapporto tra capacità produttive e capacità distributive. Perchè, come ha ricordato Giovanni Cesareo, in Europa "uno dei problemi di fondo è che il sistema televisivo si è andato sviluppando prevalentemente come un sistema di distribuzione, molto piú che come sistema di produzione ». Inoltre, come ha sottolineato Vione, il "potenziale di sviluppo tecnologico è enorme", dal momento che all'aumento delle reti a terra, favorito dalle deregolamentazioni, si aggiunge il "potenziale teorico" delle televisioni via sateffite, che raggiunge già il centinaio di canali. Tutto ciò a fronte, come è stato denunciato in numerosi interventi, di « un'industria audiovisiva europea che non è affatto in floride condizioni », soprattutto per quanto riguarda la produzione dei programmi. Un tale squilibrio, tra capacità produttive e capacità distributive, non fa altro che aumentare il deficit commerciale dei paesi comunitari, nei confronti d'i quei paesi, come gli Stati Uniti, che vantano una lunga tradizione nel comparto della produzione culturale e audiovisuale. E proprio per questo motivo che Ferrari Bravo si è augurato che, oltre ai due strumenti 123
normativi europei, « si possono sviluppare al più presto altre iniziative, come 1" 'Eureka audiovisivo" e altre ancora, che possano in qualche modo mettere dei soldi nella produzione europea, perchè il problema della regolamentazione giuridica viene dopo, se non esiste effettivamente la produzione da trasmettere ». A proposito della produzione europea, Cascino ha riconosciuto che « i sostenitori delle "quote" (di produzione europea da inserire nella programmazione televisiva, n.d.r.) non hanno mai pensato che la norma potesse essere un incentivo alla produzione ». Per Cascino, piuttosto, «la norma ha rappresentato un modo per stimolare l'adeguamento dei sistemi produttivi. Infatti, liberatisi dalla voglia di piantare l'albero delle quote da parte degli uni, e di annacquarlo da parte degli altri, liberatisi da questi obiettivi che i paesi di un gruppo e dell'altro si ponevano, oggi si stanno accelerando sia le inziative sia gli studi per l'incremento della produzione ». C'è, tuttavia, un rischio d'effetti perversi, e forse non voluti, determinati dalla normativa CEE sulla qualità dei programmi prodotti e trasmessi cui non è stata data la giusta rilevanza. Si tratta del rischio, evidenziato da Augusto Preta, che una normativa volta a favorire la distribuzione della pubblicità per blocchi all'interno della programmazione televisiva e a ridurre la diffusione e l'uso di una pubblicità -break, finisca per penalizzare alcuni tipi di programmi come il "drama" o il film, i quali, a differenza dei giochi o dei varietà, non possono essere suddivisi in sottoprogrammi così da sfruttare al massimo le possibilità offerte da una distribuzione pubblicitaria a blocchi. «Ciò potrebbe portare, secondo Preta, al prelevare nei canali generalisti finanziati dalla pubblicità, dei generi televisivi meno costosi e più remunerativi, con conseguente sca124
dimento complessivo della programmazione, un risultato questo in stridente contrasto con i principi ispiratori della normativa. Alla programmazione di fiction, soprattutto quella di qualità, rimarrebbe pertanto come unica alternativa praticabile quella rappresentata dalle emittenti nelle quali la risorsa prevalente è il canone (alcuni servizi pubblici nazionali, il cui numero appare comunque in diminuizione), oppure l'abbonamento (le cosidette pay-tv). In definitiva dunque quei canali nei quali la pubblicità non costituisce la fonte primaria di finanziamento ».
COMMERCIALIZZAZIONE DEI SERVIZI
Tra i diversi problemi emersi nell'ambito della discussione, ce n'è uno in particolare che meriterebbe ulteriori approfondirnenti, perchè chiama in causa l'area dei diritti di cittadinanza e le funzioni pubbliche di interesse generale. A sollevare la questione è intervenuto Cesareo, il quale ha affermato « che bisogna stare attenti a capire se la commercializzazione dei servizi (sulla base della quale si è stabilita la competenza comunitaria, n.d.r.) non rischi di diventare una commercializzazione dei diritti ». Su questo punto è ritornato Cascino, il quale, soprattutto a riguardo dei "diritti dell'utenza all'informazione", ha detto che, in effetti, tutto il negoziato europeo «ha ignorato radicalmente il diritto all'informazione attiva » evitando di « parlare di accesso e del diritto, sia degli individui che dei gruppi e delle realtà locali, e una comunicazione attiva ». Non solo, Cascino ha inteso anche stigmatizzare come, a fronte di una presa d'atto di un processo di concentrazione del potere comunicativo, i riferimenti ai diritti sull'informazione passiva siano stati "veramente ridottissimi".
RICAPITOLANDO SINTETICAMENTE CON QUALCHE OSSERVAZIONE
servizi, riduce la possibilità di affrontare la questione nel modo più' adeguato;
le trasmissioni nazionali e transfrontaliere: Sia il negoziato sulla normativa europea in materia di televisione, sia il dibattito di Queste Istituzioni, che da esso ha preso avvio, confermano, per dirla ancora con le parole di Nino Cascino, « che un muccio di problemi sono meritevoli di studio ulteriore e poi anche di adeguamento della normativa ». In questa sede, come durante l'incontro, sarebbe prematuro trarre delle conclusioni. Sembra più utile, invece, al punto in cui è giunta una riflessione che lascia ancora aperte numerose possibilità di sviluppo, ricapitolare sinteticamente, accettando quindi i rischi propri delle schematizzazioni, le controversie principali emerse nel corso della discussione sulla « Europa delle Televisioni ». In buona sintesi, dunque, il dibattito ha affrontato i seguenti temi: l'Italia nel negoziato europeo: la posizione italiana per alcuni è contradditoria, in quanto prima ha chiesto l'armonizzazione delle legislazioni in materia di televisione e poi ha ottenuto una deroga per le trasmissioni nazionali, per altri, invece, è frutto di una scelta volta a salvaguardare le possibilità di opzioni legislative interne, evitando rischi di strumentalizzazioni di parte;
la ricaduta sul piano interno della nomiativa europea: C'è chi ritiene che la normativa CEE condizioni in qualche modo la legislazione nazionale, e chi, invece, ritiene che quest'ultima resterà comunque un problema aperto a tutte le soluzioni; la competenza comunitaria: i pareri sono tutti concordi sulla legittimità della competenza comunitaria in materia televisiva, ma la base giuridica dalla quale viene fatta discendere e che la fa rientrare nel settore dei
la distinzione tra trasmissioni nazionali e trasmissioni transfrontaliere è superata di fatto dallo sviluppo tecnologico, e appare più che altro rispondente alla esigenza di conservare i vecchi equilibri dei mercati nazionali;
la pubblicità: tutti d'accordo sulla limitazione di tempo pubblicitario, le perplessità restano sulla regolamentazione delle interruzioni dei programmi. mercati, libertà di concorrenza, concentrazioni: accertata la tendenza in atto verso le concentrazioni delle proprietà, resta aperto il problema di garantire la libertà di concorrenza, condizionata dalla possibilità di intrecci tra posizioni dominanti sia nel settore delle trasrnissioni televisive sia nel settore della raccolta e vendita pubblicitaria;
cultura e identità culturali: gli aspetti economici tendono a prevalere su quelli culturali, trascurati dalla normativa europea, mentre dietro il problema di un'identità culturale europea che, salvaguardando le singole identità nazionali non venga dispersa in seguito alla massiccia invasione di prodotti culturali extra europei, si celano, molto spesso, interessi di natura commerciale, politica e corporativa; distribuzione e produzioni: si allarga la forbice tra potenziale tecnologico, che moltiplica la possibilità di distribuzione dei programmi televisivi, e capacità produttiva, mentre aumenta la dipendenza europea dai mercati extra-comunitari e la norma sulle quote di produzione europea non sembra sufficiente a incentivare e incrementare la produzione; servizi, diritti, funzioni pubbliche: sembra riduttiva la scelta di relegare la questione televisiva nell' ambito del settore dei servizi, in quanto essa coinvolge diritti oramai acquisi125
ti, che non riguardano soltanto la libertà di concorrenza, ma anche la possibilità di usufruire dei mezzi di informazione attiva e passiva; diritti che non possono essere abbandonati completamente in balia delle leggi di mercato, senza tenere conto di quelle funzioni una volta assolte e garantite dal settore pubblico;
10) tecniche normative: appare sempre più chiaramente il iato tra attività legislativa e evoluzione del settore televisivo, che pone un problema di adeguatezza delle tecniche normative prevalentemente adottate; in particolare, ci si chiede se non siano più utili altri strumenti, quali ad esempio i codici di autodisciplina, di cui è ricca la nostra tradizione di cultura giuridica, più flessibili e adattabii ad un settore in rapida e costante trasformazione Più che trovare risposte alle singole controversie esposte poco sopra - le quali tutte insieme, comunque, non esauriscono la questione televisiva - l'incontro di Queste Istituzioni ha posto nuovi problemi, e, soprattutto, ha fatto emergere, in modo ancora più
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marcato, il limite maggiore del dibattito sulla televisione, che sta nell'approccio prevalentemente tecnologico ed economico. Ciò che più difetta, in generale, è la capacità di individuare il cordone ombelicale che lega il sistema televisivo non tanto agli altri settori del campo delle comunicazioni di massa e della produzione culturale, quanto all'intero sistema sociale e alle sue trasformazioni. Indice di una carenza di analisi socio-culturali sono proprio i frequenti riferimenti alla difesa delle identità e dei valori culturali europei, che raramente fanno i conti con quel processp ormai reale che è la formazione, recente, di una cultura sovra-nazionale e con le sue contaminazioni, tutte particolarissime e originali, con le culture locali e nazionali. Lo studio ditali contaminazioni culturali, e quindi una loro conoscenza più approfondita, consentirebbe non solo di orientare il dibattito sulla televisione verso orizzonti più ampi, ma probabilmente, fornirebbe anche un contributo utile alla individuazione di modalità più pertinenti, sia sul piano giuridiconormativo, sia sul piano culturale, per adeguare le istituzioni alla società.
Chi ha governato il sistema radiotelevisivo? Rapido profilo di trent'anni di giurisprudenza costituzionale di Luca Minniti
«Soltanto la Corte Costituzionale, ed è un grande merito da tutti riconosciuto, nei limiti dei propri poteri ha profondamente inciso sulla materia a partire dalla fondamentale decisione del 1974 (sent. n. 225) ». Con queste parole si espresse il Presidente della Corte Costituzionale Saja nella conf erenza stampa del 7 febbraio 1989 tenuta al palazzo della Consulta. Trattando in quella sede il tema della libertà di manifestazione del pensiero, lo stesso Presidente Saja descrisse la portata socio-economica del fenomeno radiotelevisivo e ne indicò la nuova dimensione giuridica: «l'enorme crescita della stampa e, ancor più, la diffusione e la potenza suggestiva del messaggio radiotelevisivo hanno alterato il precedente quadro, in quanto le attitudini proprie di tutti questi mezzi di comunicazione hanno oggi una straordinaria forza non soltanto di inf ormazione, ma anche di persuasione e di coinvolgimento, sicché il rischio di massificazione delle coscienze è tale che il soggetto individuale, da centro dell'intero sistema costituzionale, può ridursi ad una mera entità trascurabile ». L'obiettivo è chiaramente evidenziato: realizzare un effettivo pluralismo del sistema informativo, pilastro insostituibile dell'ordinamento costituzionale. Ma per leggere questi trent'anni di disciplina del sistema radiotelevisivo bisogna tener conto, al contempo, dell'attività della Corte Costituzionale in sé considerata, dell'attivi-
tà e della inerzia dei Governi e del Parlamento; della evoluzione tecnologica che ha attirato sul sistema radiotelevisivo una quantità, davvero grande, di risorse economiche.
1960:
LA PRIMA IMPOSTAZIONE
A dire il vero il quadro di riferimento la Corte lo aveva descritto con coerenza già trent'anni fa, almeno relativamente a quello stadio dello sviluppo tecnologico. Nella sentenza n. 59/1960' il ragionamento si snodava intorno a due nuclei: la tutela della libertà di iniziativa economica (contrasto con gli articoli 41 e 43 Cost.) e la tutela della-libertà di manifestazione del pensiero (contrasto-con l'art. 21 Cost.). La Corte rilevò allora che, data la limitatezza dei canali utilizzabili, l'attività radiotelevisiva fosse « predestinata naturalmente », in regime di libera iniziativa, a dar luogo a situazioni di monopolio o di oligopolio. Tale caratteristica collocava, secondo la Consulta, l'attività di emittenza radiotelevisiva tra le categorie di imprese che si riferiscono a situazioni di monopolio sicché l'art. 43 consentiva di sottrarla alla libera iniziativa. Inoltre questa attività, si disse, presentava i caratteri di attività « di preminente interesse generale » data l'altissima importanza degli interessi che la televisione tende a soddisf are « nell'attuale fase della nostra civiltà ». Nel 1960, quindi, la Corte riscontrò l'esisten-
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za di ragioni di utilità generale idonee a giustificare l'avocazione in esclusiva del servizio radiotelevisivo allo Stato, dato che questo, istituzionalmente sarebbe stato in grado di esercitano in più favorevoli condizioni di obiettività, di imparzialità, di completezza e di continuità in tutto il territorio nazionale. Con questi argomenti la Corte escluse il contrasto con gli artt. 41 e 43 Cost. della concessione in esclusiva allo Stato del servizio radiotelevisivo. Quanto al secondo nodo giuridico si argomentò che la libertà di manifestazione del pensiero con ogni mezzo di diffusione, messa in pericolo dalla naturale tendenza alla concentrazione in poche mani dei (limitati) canali, può e deve essere tutelata, garantita e permanentemente "organizzata" dallo Stato monopolista che si trova istituzionalmente nelle condizioni di obiettività e imparzialità più favorevoli. Di qui una prima indicazione della Corte ai responsabili del servizio: sullo Stato incombe l'obbligo di assicurare, nei modi richiesti dalle esigenze tecniche, di funzionalità e di tutela di altri interessi meritevoli, l'ammissione degli interessati all'utilizzazione del servizio. Ma dalle indicazioni della Corte scaturì una unica innovazione: l'introduzione di due programmi "Tribuna Politica" e "Tribuna Sindacale" 2 .
5974:
I SET5E COMANDAMENTI
Quattordici anni dopo la Corte fu chiamata a pronunciarsi di nuovo sull'argomento con ordinanze di rimessione le quali asserivano (quasi tutte) che il principale presupposto di fatto che aveva sostenuto la decisione del 1960 fosse mutato: lo sviluppo della tecnologia avrebbe evidenziato l'esistenza di anipie bande di frequenza; i moderni metodi di trasmissione multicanale, il sistema di emis128
sione su uno stesso canale da parte di stazioni lontane, non interferenti, avrebbero reso illimitata la possibilità di trasmissioni. Ma la Consulta sulla scorta di una relazione tecnica del Consiglio Superiore delle Telecomunicazioni ribadì3 tutte le osservazioni della precedente sentenza: limitatezza dei canali, situazione di tendenziale oligopolio di fatto uguale a situazioni di monopolio di cui all'art. 43 Cost., preminente interesse generale, fini di utilità generale, previsione che il monopolio statale, trattandosi di servizio pubblico essenziale, può meglio garantire il pluralismo, anzi deve garantire il massimo di accesso « almeno a tutte quelle più rilevanti formazioni nelle quali il pluralismo si esprime », e, si aggiunse, che il monopolio pubblico, in definitiva, doveva essere inteso e configurato come necessario strumento di allargamento dell'area di effettiva manifestazione della pluralità delle voci presenti nella nostra società. In questa decisione la Corte si soffermò sul pluralismo inteso da una parte come obbiettività, completezza dell'informazione, apertura a tutte le correnti culturali, imparzialità, e dall'altra come diritto di accesso. Solo una disciplina legislativa così orientata poteva evitare che il mezzo radiotelevisivo corresse il rischio, ancor peggiore che se esso fosse stato in mano di pochi privati, di diventare un « poderoso strumento a servizio di parte ». A tal fine la Corte in questa decisione pose un elenco di previsioni normative che riteneva fossero necessarie nel nostro ordinamento. Monopolio legittimo dunque, ma subordinato a determinati requisiti fondamentali: la Corte ne indicava sette al legislatore che fu determinato ad intervenire di lì a pochi mesi. La stessa decisione poi, sulla scorta dei medesimi argomenti, concludeva che la riserva allo Stato fondata sulla limitatezza dei canali
non poteva coprire anche attività come quelle inerenti ai c.d. ripetitori di stazioni trasmittenti estere, che non operavano sulle bande anzidette. Tale attività sarebbe stata sufficiente sottoporla ad un regime autorizzatorio e non più concessorio riconoscendo quindi la libertà d'iniziativa al singolo, previa autòrizzazione. In questo ambito il monopolio risultò illegittimo perché determinava, secondo la Corte, "una specie di autarchia nazionale delle fonti di informazione".
vità, che non può essere sottratta alla iniziativa privata; quanto all'ambito nazionale invece, solo perché essa « non soggiace ad una disciplina sufficiente a garantire il raggiungimento dei fini in vista dei quali la Costituzione la consente ». Ed a quest'ultimo proposito la Corte richiamava i "sette comandamenti" enucleati nella sentenza che (con la stessa data) la Corte pronunciava in riferimento alle trasmissioni via etere.
1975: LA LEGGE DI RIFORMA IN ATTUAZIONE DEI PRECETTI DELLA CORTE 1974, SECONDA SENTENZA: CON IL CAVO SI PUÒ, MA SOLO IN AMBITO LOCALE
Ma il 9 luglio 1974 la decisione n. 225 non fu la sola a vertere in materia di telecomunicazioni. La Corte intervenne anche sulle trasrnissioni via cav04 le quali presentavano una rilevantissima differenza pratica: la illimitatezza dei canali utilizzabili'. Peraltro la Corte distinse tra reti radiotelevisive via cavo di ambito locale ovvero di estensione nazionale. Queste ultime potevano essere riservate allo Stato perché il pericolo di oligopolio pur non fondandosi sulla limitatezza dei canali utilizzabili sarebbe stato determinato dall'alto costo della installazione (e gestione) di reti nazionali (via cavo), alti costi che non avrebbero permesso l'esercizio ai più del diritto che si affermava violato dal regime concessorio. Diverso discorso concerneva le reti via cavo a raggio limitato. La Corte a questo proposito non riscontrò i "fini di utilità generale" richiesti dall'art. 43 Cost. per l'avocazione allo Stato e ne dichiarò l'illegittimità. Il regime della televisione via cavo risultò quindi in contrasto con la Costituzione sotto due diversi profili: quanto all'ambito locale, per la riserva allo Stato di questa atti-
È sufficiente qui ricordare che circa un anno dopo le due sentenze del 1974, il legislatore intervenne con una riforma che asserendo la natura di "servizio pubblico essenziale e a carattere di preminente interesse nazionale" del servizio radiotelevisivo via etere ne riservava il servizio allo Stato mediante concessione a diverso soggetto; la legge (n. 103 del 1975) riprendeva le indicazioni della Corte (i c.d. sette comandamenti) a tutela di un effettivo pluralismo dell'informazione. Ma la vicenda era ben lungi dal concludersi: difatti tra le sentenze del 1974 e la legge di riforma del 1975 erano state aperte numerose altre stazioni radiotelevisive locali.
VIA LIBERA ALL'ETERE PRIVATO LOCALE.
Dai procedimenti penali a carico dei responsabili delle suddette attività sorsero nuovi incidenti di legittimità costituzionale circoscritti alle attività di trasmissione via etere di carattere locale. L'asserzione principale concerneva l'aspetto tecnico della non limitatezza dei canali utilizzabili e dei bassi costi. Mancando la limitatezza dei canali e gli alti costi sarebbero venute meno le giustificazioni del 129
monopolio statale dettate in precedenza dalla Corte. In realtà la Corte aveva affiancato al dato tecnico, l'elemento politico della valutazione del servizio radiotelevisivo come servizio pubblico essenziale per giustificarne l'avocazione allo Stato; è la stessa Corte a ricordarlo nella sentenza n. 202 del 15 luglio 19766, ma per trarne conclusioni diverse. Difatti su scala locale esiste, sostiene la Corte, una « disponibilità sufficiente a consentire la libertà di iniziativa privata senza pericolo di monopoli od oligopoli privati »: illegittimo venne dichiarato quindi il divieto previsto dalla legge. Dall'altra parte, è necessaria una disciplina legislativa che tenga in considerazione la connessione con il servizio pubblico essenziale (o costituito tra l'altro dalla diffusione via etere su scala nazionale.. affidato al monopolio statale ») e che pertanto detti una serie di regole di cui la Corte enunciava i principi ispiratori a cominciare dall'individuazione dell'Amministrazione competente a provvedere all' autorizzazione. Inoltre la Corte concludeva questa importantissima decisione con la dichiarazione di illegittimità dell'art. 14, L. 103 del 1975 che prevedeva la "realizzazione graduale" a carico della società concessionaria, di altri impianti radiofonici e televisivi, ad esaurimento delle disponibilità consentite dalle frequenze assegnate all'Italia dagli accordi internazionali. Questa sentenza costituì una svolta, in gran parte inaspettata, a circa una anno dalla nuova legge, e propriograzie ad essa nuovi processi economici hanno potuto determinare lo scenario attuale del sistema radiotelevisivo.
1981:
FATTORI TECNOLOGICI E
CONCENTRAZIONE OLIGOPOUSTICA.
Fu proprio la mutata realtà socio-economica 130
e cioè la grande esplosione delle emittenti locali a determinare il contenuto della sentenza del 1981, le conclusioni non mutano: è legittimo il monopolio statale delle trasmissioni su scala nazionale, anzi è necessario per evitare l'accentramento dell'emittenza in monopolio od oligopolio privato. « Necessità », sostiene stavolta la Corte, che non emerge soltanto in relazione alla maggiore o minore disponibilità delle frequenze di trasmissione, ma attiene alla natura del fenomeno delle radiotrasmissioni visto nel contesto socioeconomico in cui esso è destinato a svilupparsi. In particolare la Corte in questa valutazione ha in mente o una serie di fattori di ordine economico o e tecnologico che fanno permanere i rischi di concentrazione oligopolistica: le interconnessioni in primo luogo. Ma la Corte lasciò aperta al legislatore la possibifità di determinare condizioni diverese di governo del sistema radiotelevisivo, riservandosi di giungere a conclusioni differenti ove una disciplina completa e approfondita avesse apprestato «un sistema di garanzie efficaci al fine di ostacolare in modo effettivo il realizzarsi di concentrazioni... non solo nell'ambito delle connessioni fra le varie emittenti, ma anche in quello dei collegamenti tra le imprese operanti nei vari settori dell'informazione, incluse quelle pubblicitarie ».
IL DECRETO "BERLusC0NI".
In questa fase un significativo incremento del contenzioso giudiziario ha investito le trasmissioni private in interconnessione: da parte di alcuni si sosteneva l'illiceità della interconnessione su scala nazionale per violazione della riserva statale; da parte di altri, invece, si distingueva tra interconnessione
strutturale (o degli impianti) e interconnessione funzionale (o dei programmi) mediante la diffusione, in contemporanea o con un brevissimo sfasamento dei tempi, dello stesso programma preregistrato. Quest'ultima opinione considerava la connessione funzionale lecita se attuata da emittenti che trasmettevano in ambito locale. Il legislatore per impedire l'oscuramento, disposto dalla magistratura, delle emittenti collegate intervenne con un primo e poi un secondo decreto legge, convertito con modificazioni con la L. 4 febbraio 1985 n. 10. Cardine del provvedimento fu l'art. 3 che autorizzò per sei mesi la prosecuzione delle attività delle emittenti già in funzione alla data del 1° ottobre 1984, consentì i ponti radio (2° comma) e la trasmissione contemporanea (connessione funzionale) di programmi preregistrati (3 0 comma), ma non in diretta. Il decreto convertito con la legge n. 10 del 4 febbraio 1985, assunto anche dalla giurisprudenza come provvedimento legislativo a carattere temporaneo in vista della legge di riforma, è ritenuto non senza contrasti ancora in vigore.
1985:
LA PUBBLICITÀ IRRADIATA DALL'ESTERO
Con la decisione dell'85 8 la Corte interviene di nuovo in materia di impianti di ripetizione privati, via etere, di trasmissioni irradiate dall'estero. Con una precedente decisione (la n. 225/74) la Corte aveva già sottratto questo settore al monopolio dello Stato. La legge di riforma n. 103/1975 aveva subordinato l'esercizio di questa attività ad autorizzazione, la quale «obbliga(va) il titolare ad eliminare dai programmi esteri tutte le parti aventi, sotto qualsiasi forma, carattere pubblicitario ». Questa decisione pur concernendo un aspetto
relativamente marginale cadeva in una fase di acceso dibattito e fu la prima, dopo l'approvazione del c.d. decreto Berlusconi bis, che intervenne in un « quadro legislativo frammentario e dichiaratamente transitorio, condizionato dai mutamenti di fatto intervenuti e consolidati nel settore radiotelevisivo nazionale, soprattutto privato, a fronte delle straordinarie innovazioni già assicurate o promesse dallo sviluppo scientifico e tecnologico ». La censura dedotta riguarda il divieto posto alle imprese di ripetizione, e non già emittenti, di diffondere via etere i messaggi pubblicitari commerciali irradiati dalle emittenti estere. Ma la Corte sottolineò la netta distinzione tra manifestazioni del pensiero (tutelate dall'art. 21 Cost.) e pubblicità commerciale, che è fonte di finanziamento degli organi di informazione e assistita dalle garanzie dell'art. 41 Cost. e quindi assoggettabile alle limitazioni ammesse dal secondo e terzo comma. Secondo la Corte la pubblicità commerciale costituisce attività di impresa anche per l'impresa di ripetizione. E quindi la Corte dovette limitarsi a verificare la congruità tra il mezzo (il divieto posto dal legislatore ordinario) e il fine, quello di "non inaridire" una tradizionale fonte di finanziamento della stampa..., così da garantire attraverso una ripartizione delle risorse, il massimo di pluralismo. Sicché alla Corte fu sufficiente sostenere che rispetto a questo fine il divieto assoluto appariva mezzo incongruo e sproporzionato e perciò in contrasto con l'art. 41 Cost. Di conseguenza due delle stazioni interessate, "TeleMontecarlo" e "Capodistria", divennero importanti network usati per la diffusione di notiziari ed eventi sportivi in diretta, che altrimenti avrebbero dovuto sopportare le restrinzioni proprio della principale fonte di guadagno. 131
1987: VERSO L'ESTERO BASTA L'AUTORIZZAZIONE Secondo la Corte le trasmissioni verso l'estero non sono assimilabili a quelle locali, purtuttavia si è in presenza di situazioni diverse da quelle che hanno giustificato il monopolio statale delle trasmissioni su scala nazionale: destinatari delle trasmissioni verso l'estero infatti non sono i cittadini del nostro Paese, bensì stranieri rispetto ai quali non può parlarsi di una collettività verso la quale Io Stato debba assicurare il diritto all'informazione pluralista. La Corte, inoltre, esaminò in questa decisione una serie di norme contenute in accordi internazionali ove non si rinviene né un generale divieto di emittenza verso l'estero, né un principio di esclusione dei privati da tale tipo di emittenza. Essa pertanto conclude che anche un regime autorizzatorio può essere sufficiente a governare questo settore in conformità con l'interesse pubblico ad intrattenere distese relazioni internazionali.
1988: IL MONITO DELLA CORTE Con questa decisione la Corte torna ad effettuare un sindacato sul fatto di fronte all'asserzione del Pretore di Roma diretta a sostenere che i rischi di monopolio od oligopolio sarebbero stati frutto di una prognosi errata. L'assunto del giudice a quo è stato contestato dalla Consulta che ritiene confermata dai fatti la propria previsione. Essa stessa inoltre nega ogni rilievo alla distinzione tra informazione in senso stretto e programmi di svago rispetto ai quali sarebbe incongruo il richiamo alla tutela del pluralismo. Ma il vigente regime del settore (alla luce della conversione del decreto Berlusconi bis) è stato contestato anche dal versante opposto, 132
con l'asserzione, nell'ordinanza del Tribunale di Genova, della lesione dal pluralismo in assenza di garanzie atte ad evitare il realizzarsi di concentrazioni private. La Corte in proposito, rilevava, come la disciplina dettata dal legislatore con la conversione del secondo decreto (L. n. 10/1985), non abbia, in effetti, seguito le indicazioni contenute nella sentenza n.148 del 1981. Ciò nonostante la Corte poté ammettere che una legge siffatta potesse « nella sua provvisorietà trovare una base giustificativa ». «Naturalmente », proseguiva la sentenza, «se l'approvazione della nuova legge dovesse tardare oltre ogni ragionevole limite temporale la disciplina impugnata ( ... ) assumerebbe di fatto carattere definitivo: sicché questa Corte nuovamente investita non potrebbe non effettuare una diversa valutazione con le relative conseguenze ». Ad analoghe conclusioni perveniva la Corte relativamente alle Censure del Pretore di Torino che riguardavano l'irragionevole disparità di trattamento contenuta nella legge n. 10/1985 tra coloro che avevano intrapreso prima del 10 ottobre 1984 l'attività autorizzata provvisoriamente dalla suddetta legge e coloro che non l'avevano fatto pur volendolo ora.
CONCLUSIONI La pressione costituita da una nuova (influente) decisione della Corte Costituzionale sembra aver accelerato l'iter della legge di riassetto del sistema radiotelevisivo. Peraltro alla luce del contenuto del disegno di legge già approvato dal Senato c'è da ritenere che la lunga storia non volga al termine; questo lungo periodo di mora costituzionale del legislatore ordinario ha prodotto effetti considerevoli, probabilmente irreversi-
Note 1 Sentenza (6luglio) 13 luglio 1960, n. 59, in Giurisprudenza Costituzionale, 1960, I, p. 759 e ss. 2 Cfr. Paolo Barile, Riflessioni di un giurista su Tribuna Politica", in ÂŤ Diritto delle radiodiffusioni e telecomunicazioni Âť, 1970, p. 143 e ss. Sentenza (9 luglio) 10 luglio 1974, n. 225 in Giurisprudenza Costituzionale, 1974, I, p. 1775 e ss. Sentenza (9 luglio) 10 luglio 1974, n. 226 in Giurisprudenza Costituzionale, 1974, I, p. 1791 e ss. La prima stazione televisiva privata in Italia (Tele Biel-
la) sorse nel 1971 ed era una stazione di trasmissione via cavo. Vd. R. Duiz, Le tappe della TV commerciale in Italia. Dal cavo artigianale di Biella al dominio di Berlusconi, in Problemi dell'Informazione 1986, p. 543 e ss. 6 Sentenza (15 luglio) 25 luglio 1976, n. 202, in Giurisprudenza Costituzionale, 1976, I, p. 1267. Sentenza (14 luglio) 21luglio 1981, n. 148, in Giurisprudenza Costituzionale, 1981, I, p. 1379 e Ss. 8 Sentenza 11 ottobre 1985, n. 231, in Foro Italiano, 1985, I, p: 2829 e ss. Sentenza n. 153 del 1987 0 Sentenzan. 826 del 1988
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I libri e il mondo Riflessioni in pubblico del Librarian of Congress di James H. Billington
La mostra intitolata "Legacies of genius" (aprile 1988) ci ricorda la prestigiosa storia di Filadelfia come sede di biblioteche e centro di sapere. Fra le istituzioni che hanno collaborato a questa mostra, molte hanno contribuito a stimolare la mia attività di giovane studente a Filadelfia. Siamo qui convenuti, io e numerosi miei colleghi della "Library of Congress", non solo per visitare questa mostra, ma anche per contribuire ad alimentare, in tale spirito, la collaborazione durante due giorni di dialogo. Stiamo appunto cercando, attraverso una serie di fori nazionali, di individuare metodi specifici per migliorare la collaborazione e la comunicazione fra la "Library of Congress" e le biblioteche del paese. Ci proponiamo di conferire rinnovato impulso al sistema e quindi siamo particolarmente grati per questo invito a Filadelfia, meravigliosa città tanto importante per le origini del nostro paese. Oggi, quale "Librarian ofCongress" e custode di una biblioteca veramente universale, desidero parlare del più ambizioso collegamento che le biblioteche possono e devono garantire ed in effetti garantiscono: il collegamento fra la più piccola e la più grande unità cui esse si rivolgono, fra l'individuo e il mondo. Come studioso, desidero anche pagare il mio debito personale alle biblioteche, luoghi in cui i libri e le altre testimonianze della memoria e dell'immaginazione umana vengono trasmessi da un gruppo di individui, gli autori, ad un altro, i lettori. E nelle bi134
blioteche che la magia di questo processo di trasmissione si compie ed i bibliotecari sono coloro che lo rendono possibile, i mediatori della magia. In qual modo i libri - e i bibliotecari - istituiscono un fruttuoso contatto fra l'individuo isolato ed il mondo esterno, il vasto mondo le cui complessità ci toccano tutti così da vicino? Il processo di mediazione che i libri attuano fra individui deve avvenire presto. Iniziò, nel mio caso, grazie a mio padre, che pure non aveva ricevuto un'istruzione superiore. I libri che per anni soleva portare a casa avevano ai miei occhi un valore speciale: sia perché provenivano da lui, sia perché spesso recavano le misteriose sottolineature di un precedente lettore. Queste costituirono, per così dire, il mio tirocinio all'apprendimento, facendomi riflettere sui perché un dato passaggio, e non un altro, fosse stato considerato importante e sottolineato. Ad introdurmi al vasto mondo della lettura fu un'indimenticabile emigrata russa che mi insegnò' la sua lingua a Chestnut Hill, durante la guerra, quando era ancora studente. Ricordo che ad una mia domanda sulle cause dei successi che i Russi stavano riportando a Stalingrado rispose: « leggi "Guerra e Pace" », un consiglio che non ho mai dimenticato, sia perché, dopo quello, tutti gli altri libri mi sono sembrati brevi, sia perché mi fece capire come la risposta ad un quesito importante possa trovarsi più spesso in un libro di ieri piuttosto che in un giornale di oggi
Dai successivi studi sulla cultura russa ho tratto due lezioni: la prima riguarda il pericolo di deificare alcuni libri escludendo l'accesso ad altri. In tale situazione tendono naturalmente a crearsi aspettative esagerate sul libro proibito, perché si finisce per considerarlo segreto portatore di rivelazioni utopistiche - valga per tutti, come ultimo esempio di una lunga serie, « il Capitale » di Karl Marx. Ancora oggi, l'Unione Sovietica incoraggia la tendenza ad idolatrare alcuni libri e a trascurarne altri. Un certo numero di autori statunitensi viene pubblicato su vasta scala, ma persino nelle migliori biblioteche sovietiche sono pressoché assenti le opere di importanti scrittori americani atte a illustrare il contesto storico e sociale dell'America di tali autori. Un testo senza un contesto rischia di divenire un pretesto. La seconda lezione tratta dai miei studi della cultura russa è motivo di maggiore ottimismo: nel corso dei lunghi soggiorni effettuati per fini di ricerca presso le biblioteche dei paesi dell'Est europeo fra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Settanta, ho imparato come le biblioteche possano offrire un sereno rifugio all'integrità del sapere anche in condizioni difficili. Fra i più raffinati studiosi da me conosciuti vi sono molte personalità che, ritiratesi dall'arena pubblica, hanno accettato di buon grado la situazione di relativo anonimato del lavoro in biblioteca, mantenendo viva in segreto un'eredità che non avrebbe potuto essere onorata in pubblico. Le speranze che oggi esistono per il futuro in tali paesi si devono a quanti sono vissuti fra i libri. Nella nostra epoca, i primi passi verso un rinnovamento morale sono stati rappresentati dall'abolizione del divieto di pubblicare un gran numero di libri di autori per lungo tempo vietati quali Rybakov, Grossman e simili. In questo periodo di nuovi fermenti, è par135
ticolarmente tragico il fatto che l'Unione Sovietica abbia subito la più grave perdita di tesori culturali che il mondo abbia registrato negli anni recenti: mi riferisco all'incendio divampato nella grande biblioteca dell'Accademia delle Scienze di Leningrado nei giorni 14 e 15 febbraio 1988. L'esame in loco dei danni arrecati dall'incendio ha indotto me e l'illustre sovrintendente della Libray of Congress, Peter Waters, a valutare in circa 400.000 i libri distrutti e in oltre tre milioni quelli danneggiati. È possibile che le perdite superino persino quelle causate dall'alluvione di Firenze, ma speriamo che la Library of Congress, insieme ad altri organi competenti, possa intervenire rapidamente nel ripristinare nella sua forma originaria la biblioteca, punto di contatto fra la Russia e l'Occidente, al duplice scopo di contribuire alle buone relazioni fra i nostri due paesi e di riaffermare l'indissolubile vincolo di solidarietà fra le biblioteche di tutto il mondo. E proprio in questo spirito di collaborazione ad un fine comune, tipico delle biblioteche di ricerca, siamo qui convenuti per la celebrazione congiunta, da parte di sedici biblioteche di ricerca, dei tesori che si trovano in questa città. Lo speciale vincolo esistente in America fra biblioteche e legislatori, di cui la Libra7y of Congress è un esempio, si manifestò per la prima volta proprio qui a Filadelfia. Il primo Congresso continentale si riunì nel 1774 nella Carpenters' Hall, l'edificio che ospitava la biblioteca di Filadelfia ed uno dei primi atti di quel Congresso fu quello di fissare le modalità di accesso al prestito. Dopo la ratifica della Costituzione, la prima riunione del Congresso, a New York, ebbe luogo anch'essa in una biblioteca, ed il legame fra legislatori e biblioteche fu confermato definitivamente allorché, nel 1800, Jefferson creò la Library o! Congress e ne stabili la
sede nel nuovo Campidoglio di Washington, D.C. Lo stesso Jefferson provvide più tardi a garantire il carattere universale della collezione sia facendo della propria biblioteca il nucleo centrale della biblioteca nazionale, sia insistendo sul fatto che nessun ramo del sapere dovesse considerarsi irrilevante ai fini degli interessi potenziali delle legislature della nuova repubblica.
maggiore di quanto spesso si ritenga. Anzitutto oggi si preferisce il processo di evoluzione a quello di rivoluzione come mezzo per attuare i mutamenti sociali e come fonte di legittimazione politica. Tranne alcuni successi di regimi estremamente autoritari come quelli di Cuba e dell'Etiopia, la rivoluzione di tipo leninista non sembra avere riportato molte vittorie nel dopoguerra. Lo sviluppo economico, sociale e politico degli ultimi anni Attualmente noi della Libra7y of Congress sia- è da attribuire più ad una costruttiva evolumo impegnati a trasformare in un "centro zione verso la democrazia che a rivoluzioni mondiale di documentazione del sapere" l'edistruttive tendenti ad instaurare regimi ditdificio originale della Library, imponente tatoriali. E questo il caso dell'Europa occiespressione del tardo diciannovesimo secolo dentale, del Giappone, del Sud America e del sapere universale. Vi saranno sale di letdell'Asia meridionale, in particolar modo deltura per ciascuna regione del mondo con l'India. E pur vero che il fuoco della rivoluesposta gran parte dei libri della Library in zione stà ancora consumandosi in alcune aree lingua diversa da quella inglese (circa tre periferiche del terzo mondo, ma di fronte alla quarti del totale). Come primo librarian of lista degli orrori perpetrati in nome di ideoCongress studioso di cultura estera, mi ratlogie rivoluzionaria che storici di varie natrista il fenomeno del crescente disinteresse zionalità ci elencano, il modello americano, per le lingue straniere cui si assiste nel nobasato sul principio dell'evoluzione, sembra stro paese ed anche quello del deterioramenpiù convincente - nonostante tutte le sue to inarrestabile di gran parte della documenimprovvisazioni e imperfezioni - dei modeltazione scritta degli ultimi centocinquanta li assolutistici, con i loro miti pubblici e deanni (dovuto all'uso della carta ad alto gralitti privati. do di acidità e di microfilms a base di nitraUna seconda forza che può dare nuovo risalti). Come cittadino americano, mi preoccuto al modello americano è il ritorno al sacro. pa ancor più la possibilità che sia in atto un Lungi dal divenire irrilevante per il procespiù generale processo di deterioramento dei so di trasformazione in atto, in molte parti valori che caratterizzano la nostra vita di nadel mondo la religione è divenuta un imporzione: in debito verso gli altri, carenti verso tante fattore in tale processo. Fra i nuovi fenoi stessi, indifferenti alla crescente tendenza nomeni emersi negli ultimi anni rispettivaall'egoismo, sempre più decadenti, avviati mente nell'area comunista e nel terzo monforse verso un irreversibile declino, come ci do, i più imprevisti (l'affermarsi di Solidarvien detto nel più recente best selkr autode- nosc in Polonia e del regime di Komeini in nigratorio di origine accademica «. The rise Iran) sono entrambi movimenti politici ispiand fali of great powers »1. rati a forme di monoteismo profetico. TI nuoIo ritengo tuttavia che l'America non sia in vo ed insospettato dinamismo delle politiche fase di declino e che anzi l'esperienza e l'econservatrici nel Nord America e di quelle sempio americano per il resto del mondo stiaradicali dell'America Latina è da attribuire no forse assumendo un'importanza molto in gran parte all'opera della religione e dei 136
leaders religiosi. L'impegno e la partecipazione che la fede richiede possono a volte far sorgere perplessità negli altri e persino in noi stessi, ma ci permettono di identificarci con una dimensione dell'esperienza umana totalmente preclusa alla comprensione dell'ateo mondo comunista. Quest'ultimo non è in grado di capire la risorgente forza della religione ed il suo ruolo nel ricostruire una società civile indipendente dallo Stato in Polonia, una forza crescente persino nella Germania dell'Est e nella stessa Unione Sovietica, nell'imminenza delle celebrazioni per il millennio della conversione al cristianesimo degli slavi dell'Est. Un terzo caso in cui un vecchio ideale americano si stà rivelando una necessità sempre più sentita a livello mondiale è dato dal nostro impegno al rispetto del pluralismo etnico e religioso. Il mantenimento di un rapporto di civile coesione fra le diverse comunità è un aspetto del sogno americano che assume rilievo crescente in un mondo che sembra divenire tanto più diversificato culturalmente quanto più si integra sul piano tecnologico. L'America è riuscita nell'esperimentodi pervenire ad un certo grado di unità dalla diversità; essa potrebbe quindi divenire una sorta di laboratorio sperimentale per la comunità mondiale. Agli strati più antichi dell'immigrazione di origine europea ed africana si sta sovrapponendo quella di due altri continenti, attraverso i recenti flussi di immigrazione ispanica e dell'Asia orientale. Questi ultimi rappresentano una forma di collegamento interno con i principali problemi esterni che dovremo affrontare nel prossimo futuro: mi riferisco a quelli di carattere sociopolitico con il Messico ed economico e culturale con il Giappone. Nell'affrontare i primi, saremo attirati verso il Sud e si intensificherà il nostro rapporto con il terzo mondo. Il già stretto legame con il Giappo-
ne e con i paesi del bacino del Pacifico ci attirerà sempre più verso l'Est, mettendoci in contatto con culture a noi lontane ma alla cui comprensione dovremo avvicinarci in modo nuovo, poiché rappresentano le più popolose, oltre che le più antiche civiltà della terra. È ben probabile che il nostro principale compito, nel lungo periodo, sia quello di trovare il modo di convivere in armonia con le grandi culture asiatiche, e mi auguro che gli studenti del futuro le studino così come io ho studiato la cultura russa, e, sia detto per inciso, utilizzino maggiormente l'immenso patrimonio - spesso sottoutiizzato - disponibile in tali lingue presso la Library of Congress.
Ed ecco che il discorso ci ha portato, ancora una volta, a soffermarci sulla importanza della ricerca, così necessaria in un mondo nel quale dobbiamo vivere esercitando sempre più il nostro intelletto piuttosto che il potere. La quarta - e ultima - forza in atto nel mondo che sembra dare nuova rilevanza all'esperienza americana è costituita dalla crescente importanza dell'istruzione e del ruolo svolto dai leaders intellettuali nella politica mondiale. L'aumento della popolazione istruita sul totale mondiale può in effetti rappresentare un fenomeno ancor più significativo per il nostro futuro di quello della stessa esplosione della popolazione mondiale. La vita dello spirito ha un interesse particolare alla libertà e un'educazione liberale e tendenzialmente orientata verso società libere. Il nostro impegno a diffondere il più possibile l'istruzione superiore è, sia in termini relativi, sia assoluti, il più importante mai realizzato e costituisce un polo di attrazione oltre che un esempio per gran parte del resto del mondo. Nell'epoca dell'informazione, qual'è l'attuale, una più intensa ricerca della verità può contribuire ad accentuare la compe137
titività della nostra economia, ma si tratta pur sempre di un processo il cui fine ultimo non è economico. Quando ad una popolazione mondiale crescente fanno riscontro risorse limitate, forse solo una più intensa ricerca della verità potrà assicurare che gli orizzonti del nostro amato ideale di libertà rimangano davvero infiniti. La ricerca della verità è la più elevata forma di ricerca della felicità nel senso jeffersoniano, la realizzazione ultima del sogno americano basato sulla fiducia che le cose possano continuare a migliorare, e che la nostra è una società che rifiuta di accettare risposte da quanti abbiano cessato di porsi domande. Proprio perché l'esempio americano ha assunto una così grande importanza e perché a ciò ha contribuito in modo fondanientale l'ampliamento e l'approfondimento del sapere, mi sembra che le nostre biblioteche debbano porsi come fine prioritario quello di assicurare la possibilità di un contatto creativo fra un più vasto pubblico di giovani e la lettura. In particolare, la Library o! Congress e il Centerfor the Book sperano di poter collaborare con le biblioteche di tutto il paese
per l'anno del giovane lettore. Nel considerare in qual modo le biblioteche possano in futuro rispondere non solo alle esigenze degli studiosi, ma anche agli interessi nascenti dei nostri figli; è importante sottolineare l'intrinseco valore morale della lettura per la salute del nostro tipo di società, una società che, come si è detto, rappresenta un modello verso il quale altri, per un verso o per l'altro, sembrano gravitare. L'imperativo morale alla lettura sorge anzitutto dal semplice fatto che la nostra è una democrazia basata sulla conoscenza e formatasi sui libri. Per loro stessa natura i libri tendono ad alimentare la libertà con dignità; essi non costringono, convincono; parlano all'individuo intento a recepire attivamente, in 138
privato, la voce della ragione; non urlano ad una folla passiva, intimidita di fronte ai megafoni del potere. Storicamente, i libri sono sempre stati i compagni di società democratiche e responsabili, essi ci permettono di capire il dinamismo del nostro passato e la competitività che il nostro paese potrà avere in futuro. I libri costituiscono l'anello di congiunzione fra la realtà del passato e le possibilità del domani; essi tendono a raccogliere conoscenze per metterle a disposizione di individui sparsi in tutto il mondo, a trasformare l'informazio ne in sapere. Le biblioteche raccolgono i libri per metterli a disposizione degli individui - libri spesso portatori di idee contrastanti - e richiedono una partecipazione individuale attiva, inculcando al contempo saggezza in coloro che vivono nei libri e a contatto con essi. Northrop Fry& ha scritto che "Io specchietto retrovisore è la nostra unica sfera magica". Sempre più di frequente, nell'era moderna, si nota come la vera innovazione sia spesso ispirata da un ritorno all'antico, dalla riscoperta di qualcosa di dimenticato, da una rilettura di qualcosa a lungo trascurato. I rivoluzionari grattacieli di Chicago si devono alla riscoperta del gotico francese da parte di Viollet-le-Duc; la pittura astratta di New York alla riscoperta delle icone russe da parte di Kandinsky. Analogamente, non vedo contraddizione nell'intento, da parte della Library of Congress e delle principali moderne biblioteche di ricerca, di esplorare con il massimo interesse il potenziale delle nuove tecnologie e di conservare e restaurare gli antichi libri del passato. I libri vengono conservati non soio per un istintivo attaccamento ai manufatti della memoria, o unicamente perché hanno incoraggiato il processo democratico e impresso dinamismo alla nostra società: li conserviamo
perché costituiscono una forma di collegamento facile e immediata fra l'individuo e la memoria, il pensiero e l'immaginazione del resto dell'umanità, un antidoto morale, per così dire, alla subdola tendenza alla passività, al provincialismo e alla ridotta capacità di attenzione caratteristici della nostra video cultura. L'Umanesimo ebbe origine nel tardo Medio Evo e fiorì durante il Rinascimento fra individui che amavano i libri e vivevano fra di essi; la nostra civiltà avrà bisogno dell'umanesimo maturo di quanti vivono fra i libri per combattere sia le ideologie disumane provenienti dall'esterno, sia le forze interne che tendono a renderci disumani. Da ultimo, ma non meno importante, i libri sono la migliore guida di cui disponiamo per l'esplorazione della nostra stessa natura umana: del mondo interno e di quello esterno, dello stato confuso, indeterminato, nel quale tutti siamo costretti a vivere in quanto creature umane, in qualche modo inferiori agli angeli, ma superiori agli animali. Siamo una specie vulnerabile, straordinaria, su un fragile pianeta, destinata a vivere al limite fra il naturale e il soprannaturale, eternamente protesa nello sforzo di dominare il mondo e nello stesso tempo costretta a convivere con il mistero. Angeli caduti alla ricerca del vero o scimmie nude4 di fronte al mistero del buono e del bello, abbiamo comunque bisogno, tutti, del maggior numero possibile di guide; perché la vita è una terribile, spesso solitaria, ricerca: al tempo stesso esplorazione del mondo esterno e scoperta interiore. Oltre al valore dei libri nel sostenere ed imprimere nuovo dinamismo alla nostra democrazia, vi è poi l'arricchimento intellettuale che essi ci procurano nei tentativi che ciascuno di noi fa per raggiungere quel dominio di sé necessario a sopportare il mistero della creazione Le librerie sono il punto di partenza dell'av-
ventura del sapere, che può continuare indefinitamente, quale che sia la nostra vocazione e collocazione nella vita: Leggere è un'avventura paragonabile a quella dei viaggi di esplorazione, i cui campi base sono le biblioteche e la cui natura può essere illustrata dal viaggio di Colombo di cui nel 1992 sarà celebrato il cinquecentesimo anniversario alla
Library o! Congress. Cristoforo Colombo non trovò esattamente ciò che stava cercando. Era un italiano che navigava dalla Spagna alla ricerca dell'Asia, ma poiché era disposto ad osare, trovò qualcosa di ancor più importante. Egli ha fatto dello spirito di avventura il principio stesso del nuovo mondo e la nostra America, così come si venne formando lentamente al Nord fu fondata al pari dell'antico Regno d'Israele, su un patto impostato sul rispetto della giustizia nel tempo piuttosto che sul desiderio di estendere il potere nello spazio. Era l'alternativa dei padri pellegrini a forme di governo più antiche e assolutistiche. Limitando, piuttosto che estendendo il potere centrale, proclamando i diritti prima di imporre norme, imbrigliando il potere in un sofisticato modello costituzionale piuttosto che collegandolo ad un'ideologia semplicistica, i fondatori di questo paese realizzarono un'innovazione della cui portata non siamo forse ancora pienamente consapevoli. Dobbiamo continuare a scoprire l'America; ma essere americano non vuole dire disporre di una patente di privilegio; è piuttosto un invito all'avventura; significa aspirare a conquiste spirituali oltre che a successi concreti. E la ricerca dell'orso di Faulkner 5 , della balena di Melville 6 , del "bocciolo di rosa" del cittadino Kane 7 , è il sogno che un maggior pluralismo nel nostro paese possa contribuire ad assicurare un pacifico pluralismo sulla terra. Indipendentemente dal fatto che riescano o 139
meno a migliorare la comprensione fra individui di differenti parti del mondo, nel fare questo tentativo i bibliotecari arricchiscono comunque la loro vita spirituale e professionale. Quando, all'inizio del diciottesimo secolo, l'ordine dei gesuiti abbandonò definitivamente la Cina, rinunciando al tentativo di stabilire un ponte fra l'antica cultura orientale e l'Occidente cristiano che più di ogni altro nella storia si sia avvicinato al successo, lasciarono dietro di sé questo inquietante epitaffio: Abi, viator Congratulare mortuis, Condole vivis, Ora pro omnibus, mirare et tace.8 Guarda e taci. Ciò è più facile per i lettori che per gli osservatori, per coloro che amano l'avventura che per i meri spettatori. Di stupore e silenzio deve essere stata la reazione di quei primi colonizzatori che portarono la lingua e la cultura inglesi sulle nostre sponde quando gli uomini di John Smith 9 furono sbattuti per caso sulle coste delle Bermude prima di raggiungere la Virginia. Quello strano interludio trascorso da naufraghi su di un'isola incantata sembra avere affascinato - e forse anche ispirato direttamente - la fantasia del più grande poeta della nostra lingua allorché si apprestava a scrivere la sua ultima opera. La Tempesta di Shakespeare, ricorderete, narra appunto di come, durante un breve interludio su di un'isola deserta, la fantasia contribuisca alla scoperta di sé fra gente colpita da una tempesta e che poi ritorna, più saggia, al mondo esterno. Verso la fine dell'opera Shakespeare ci dice, attraverso l'invecchiato Prospero, che il valore di una commedia brevemente rappresentata su tale isola non consisteva nell 'eterea rappresentazione, 140
che era svanita, ma nella scoperta che, quantunque "la nostra breve vita è circondata dal sonno", siamo, nondimeno, fatti "della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni" 10 Quali che siano le tempeste che li aspettano, possano, i mediatori dell'esplorazione e dell'avventura intellettuale del nostro paese, non vergognarsi mai di sognare; e, pur guardando al futuro, volgiamoci anche indietro, persino oltre l'ultimo frutto della fantasia di Shakespeare, per ricondurci a quello, precedente, di Dante: I"alta fantasia" dell'ultimo canto della Divina Commedia, che è al contempo una visione di beatitudine e un'immagine scientificail. Molti dei primi esploratori europei che raggiunsero la parte settentrionale del Nuovo Mondo stavano cercando un passaggio a Nord-Ovest verso il Pacifico. Il filosofo francese Michel Serres 12 ha definito i nostri attuali tentativi di conciliare il sapere umanistico e quello scientifico, l'antica saggezza e le nuove tecnologie il "passaggio a NordOvest" che dobbiamo scoprire e nel quale dobbiamo orientarci. I custodi dei libri possono essere modelli, oltre che guide per soddisfare l'aspirazione istintiva dell'uomo a credere che le cose possano essere ancora integre e comprensibili. I libri veramente validi spesso ricercano la coerenz. Essi ci aiutano, al di là dell'incoerenza del momento, a ricordare come la metà destra e quella sinistra del cervello si compongano in unità nella mente umana, proprio come gli emisferi costituiscono un solo pianeta. .
(traduzione di Rosaria Giuliani Gusman)
N o t e del traduttore Il libro, di Pani Kennedy, professore di storia alla YaIe University, è una ponderosa analisi delle politiche delle principali potenze mondiali negli ultimi cinque secoli.
tano Achab, lotta con disperato accanimento contro il L'autore esamina in particolare come il rapporto fra ponemico simbolico, Moby Dick, la balena bianca. tere economico e potere militare influisca sul destino "Citizen Kane" (Quarto potere), è il titolo di un film delle nazioni. americano (1941) considerato fondamentale nella stoUno dei capitoli finali, nei quali l'autore tratta della storia ria del cinema soprattutto per la novità delle tecniche ie dedicato agli Stati Unirecente delle principali nazioni, e impiegate. Scritto da O. Welles e da H. Mankiewicz ti, a proposito dei quali egli scrive: e prodotto e diretto da Welles che ne è anche il prota"Sebbene gli USA rappresentino ancora una classe a sé gonista, il film si ispira alla vita del magnate dell'indusotto il profilo economico e fors'anche militare, non postria giornalistica, W. R. Hearst. « Kane muore a 60 tranno evitare di affrontare le due grandi prove che metanni, solo, in un castello fantastico isolato nel mezzo tono in pericolo la longevità di qualsiasi potenza che ocdi un parco favoloso. Egli è stato un re dell'oro, della cupi il primo posto negli affari mondiali, e cioè: saranstampa, della politica... ma nella sua vita resta un seno in grado, in campo strategico e militare, di mantegreto da scoprire, un segreto che riguarda l'ultima panere un ragionevole equilibrio fra quelle che ritengono rola che egli ha pronunciato sul letto di morte: "Roseessere le esigenze di difesa e i mezzi a disposizione per bud"... Solo quando si stanno bruciando tutti i ricordi mantenere tali impegni?; potranno serbare intatta, in ingombranti del morto, veniamo a scpprire che questo termini relativi, la base tecnologica e militare del loro uomo... giunto alle vette più alte della potenza, ha sempotere di fronte al continuo mutare della strutturadelpre rimpianto una vita mediocre e la libertà dei giochi la produzione mondiale?... i responsabili della politica infantili in mezzo alla neve, simbolizzata dal nome delmidi Washington devono prendere atto del fatto la sua slitta, chiamata appunto "Rosebud" (bocciolo di barazzante e non transitorio - che l'insieme degli inrosa) ». (da: Cari Vincent, Storia dei Cinema, I, Garzanteressi e degli impegni degli Stati Uniti è oggi molto suti, 1988). periore alla capacità del paese di seguirli ed assolverli 8 "Nel cimitero cattolico di Pechino, il cimitero dei Pa(The Rise and Fali of the tutti contemporaneamente". dri francesi, dove riposarono tanti illustri missionari, il Great Powery, Economic Change and Military Conflict 14 ottobre 1774, il P. Giuseppe Amiot fece apporre una from 1500 to 2000, Paul Kennedy, Random House, New lunga epigrsfe latina in onore della Compagnia di GeYork, copyright 1987). La traduzione italiana è Stata sù, già canonicamente soppressa. pubblicata da Garzanti nel 1989. 2 F?ye, Northrop, nato nel 1912, è professore di lingua L'epigrafe cominciava con queste parole: e letteratura inglese presso l'Università di Torosto, sagIn nomine lesu: gista e critico letterario canadese noto soprattutto per amen! la sua teoria del mito. Inconcussa diu, tandem tot victa procellis, Vioiiet-ie-Duc, Eugène-Emmanuei, (1814-1879) "Aroccubuit. chitetto e scrittore francese... è forse la più saliente fiSta, viator et gura di quel periodo di studi e di opere in campo archilege; tettonico che in Francia si svolse direttamente paralleAtque humanarum inconstantiam rerum paulisper lo al romanticismo letterario e artistico: il periodo dutecum reputa. rante il quale i monumenti, fino allora trascurati, del (Nel nome di Gesù: Medioevo, furono oggetto di ricerche e restauri... Così sia! il Dictionnaire raisonné de i'architecture francaise è l'oA lungo ferma, finalmente abbattuta da tante tempeste, pera veramente monumentale in cui è espressa la dotEssa è caduta! trina profonda del V.-le-D. nell'archeologia medievale, Viaggiatore, specialmente riferita alle costruzioni gotiche di Francia". Fermati e leggi, (da: Enciclopedia Italiana Treccani) Riflettendo un p0' in te stesso all'ineratanza delle cose umane.) Vedasi l'introduzione al libro di Desmond Morris "The L'epigrafe finiva con queste altre parole: Naked Ape" (1967), (La scimmia nuda, Bompiani): 'Ti Abi, viator, congratulare mortuis, sono 193 specie viventi di scimmie e antropodi. Di quecondole vivis, ora pro omnibus, mirare, et ste 192 sono ricoperte di pelo. L'eccezione è rappresenTace. "Homo tata da una scimmia nuda che si autodefiisce (Va, viaggiatore, rallegrati coi morti, sapiens". Compiangi i vivi, prega per tutti, fatti meraviglia e "L'oryo" è il titolo di una "short story" di W. Fauikner. Taci.)" 'Nel "Moby Dick", di Melville, il protagonista, capi141
(Felix Alfred P/attner, "L'antica via del/a seta", Studi missionari, Editrice missionaria italiana, 1958, Torino) John Smith (1580-1631) Espoloratore, cartografo e scrittore, principale fondatore del primo insediamento inglese stabile in Nord America, a Jamestown, Virginia. 10 W. Shakespeare, The Tempest, Atto IV, scena I, ("Tutte le opere di W. Shakespeare", a cura di M. Praz, Ed. Sansoni, 1964) ' Qual'è il geomètra che tutto s'affige Per misurar lo cerchio, e non ritrova Pensando, quel principio ond'egli indige, Tale era io a quella vista nuova: Veder voleva come si convenne L'imago al cerchio e come vi s'indova, Ma non eran da ciò le proprie penne; Se non che la mia mente fu percossa Da un fulgore, in che sua voglia venne. All'alta fantasia qui mancò possa; Ma già volgeva il mio disiro e il velle, Si' come ruota ch'egualmente è mossa, L'amor che muove il sole e l'altre stelle. (Dante, Paradiso, Canto XXXIII, versi 133 e seguenti: "Come lo studioso di geometria che si applica con tutte le facoltà mentali.., per risolvere il problema della qua-
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dratura del cerchio e per quanto si sforzi non riesce a trovare il principio di cui avrebbe bisogno, in questa stessa situazione psicologica mi trovavo io in presenza della straordinaria visione.., volevo capire come l'umanità e la divinità convivono in Cristo, ma le mie facoltà intellettuali non erano capaci di sostenere tale volo. Senonché la mia mente fu investita da un'improvvisa folgorazione per mezzo della quale la volontà di penetrare il mistero delle due nature di Cristo venne a compimento". (La Divina Commedia a cura di Tommaso Di Salvo, Zannichelli, copyright 1987, nota). 12 Serres Michel (1930-) Filosofo francese, professore di storia delle scienze all'Università di Paris I, dedicatosi, come storico, allo studio di Leibniz, del XIX secolo e del mondo antico (Epicuro, Lucrezio); elaboratore, come epistemologo, di una filosofia che egli definisce del "nouveau nouvel esprit scientifique" (cfr. i suoi cinque Hermès: I "La communication" (1969), lI "L'interférence" (1972), III "La traduction" (1974), IV "La distribution" (1977), V "Le passage du Nord-Ouest" (1980). Preoccupato del "passaggio" fra scienze esatte e scienze umane, ha dedicato numerosi saggi alla letteratura (Michelet, Zola, Verne, Faulkner) e all'estetica (Pussin, La Tour, Turner, Carpaccio). (da "Dictionnaire des philosophes, K-Z, Denis Huisman, presses universitaires de France, 1984).
Taccuino del Gruppo di Studio
Il Gruppo di Studio Società e Istituzioni è l'associazione d'iniziativa culturale che dal 1972 pubblica la rivista « Queste Istituzioni » (qualche lettore commenterà: « come può e quando può ». Ed è vero). Da alcuni anni il Gruppo, composto di 35 soci, ha ampliato il campo delle sue attività. Per questo crediamo opportuno dare ai lettori, anch 'essi « soci » dell'impresa, più ampia informazione su queste attività.
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Notizie sulla attività 1989-90
Il Gruppo di Studio Società Istituzioni ha vissuto il 1989, secondo anno del suo rilancio, portando a buon fine o ad avanzata fase di organizzazione le diverse iniziative annunciate all'inizio dell'anno. Altre ne sono state avviate nel primo scorcio del 1990. La direttrice delle attività del Gruppo è stata, come sempre, l'analisi delle dinamiche istituzionali e delle politiche pubbliche in riferimento con l'evoluzione del contesto sociale ed economico. Qui di seguito le linee di sviluppo e le principali iniziative realizzate dal giugno 1989 ad oggi.
rizio Canotti, Nino Cascino, Giovanni Celsi, Giovanni Cesareo, Claudio De Rose, Luigi Ferrari Bravo, Giampiero Gamaleri, Giuseppe Guarino, Carlo Macchitella, Luigi Mattucci, Maurizio Mirabella, Stefano Rodotà, Vincenzo Roppo, Sergio Vione, Roberto Zaccania.
Nuovo assetto giuridico italiano ed europeo delle trasmissioni televisive
Come già nel 1988 si sono tenute tre giornate di studio con la partècipazione dei soci del Gruppo, dei collaboratori di « Queste Istituzioni » e divari altri studiosi invitati. Anche nell'89 il Comune di Cortona ha ospitato il Gruppo nella Sala Medicea di Palazzo Casali. Due i temi al centro dei lavori: - il « capitale Comune» cioè: qual'è il capitaleJìsso sociale e il capitale ambiente dei Comuni per lo sviluppo del paese? - la cultura amministrativa degli ultimi 40 anni in Italia (a proposito del primo libro edito da Maggioli - Queste Istituzioni Ricerche: « Politiche Pubbliche e Pubblica Amministrazione » scritto da Bruno Dente). L'incontro cortonese che ormai s'avvia a diventare una tradizione del Gruppo ha visto anche nell'89 una discussione utile per im-
Seminario (Roma, Residenza Ripetta, 1 0 giugno 1989) L'iniziativa ha voluto offrire, subito dopo il « varo » dell' apposita Convezione da parte del Consiglio d'Europa e l'adozione di una posizione comune sulla direttiva comunitaria, la possibilità di una prima riflessione di qualche respiro, tra addetti ai lavori e non, attorno alle innovazioni introdotte ed alle implicazioni destinate a conseguire sul processo di trasformazione del sistema televisivo europeo e sui suoi effetti sulla normativa italiana. Questi i partecipanti: Raffale Barberio, Antonio Bernardi, Giandonato Caggiano, Franco Cappuccini, Mau-
Del dibattito Giovanni Celsi ha tratto un ampio resoconto che viene pubblicato su questo stesso numero della rivista. 2 0 Incontro Cortonese (29-30 settembre e 10 ottobre 1989).
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postare ulteriori iniziative ed interventi, soprattutto quelli a carattere continuativo. La giornata sulla politica urbana si è aperta con due relazioni: una di Maurizio Coppo e l'altra di Paolo Urbani. Il dibattito è stato vivace come sempre quando si confrontano prospettive disciplinari diverse. Sono riemersi nel dibattito tutti i quesiti di fondo della politica urbana sia sul piano degli strumenti urbanistici sia su quello del funzionamento istituzionale dei poteri locali. Sono intervenuti nel dibattito: Domenico Cecchini, Bruno Dente, Lucio D'Ubaldo, Carlo Gasparrini, Alberto Lacava, Giulio Lamanda, Roberto Mostacci, Nicolò Savarese, Giancarlo Storto.
fl seminario sulla cultura ammministrativa introdotto dallo stesso Bruno Dente che ha ricapitolato le tesi e le regioni del suo libro sulle politiche pubbliche si è svolto con gli interventi di Ernesto Basile, Ernesto Bettineffi, Riccardo Bonadonna, Mario Caciagli, Girolamo Caianello, Mario Colacito, Francesco Lamanda, Maurizio Meloni, Maria Teresa Provenzano, Guido M. Rey, Onorato Sepe, Stefano Sepe, Vincenzo Russo.
Riforma delle autonomie locali e politica urbana.
La prima riunione si è svolta presso il Cresme il 30 novembre 1989. L'iniziativa è conseguenza del dibattito di Cortona. Infatti, l'incontro cortonese ha evidenziato la necessità di una ridefinizione dei poteri e delle reali capacità tecniche dell'Ente Locale. La legge in corso di approvazione sulla riforma delle autonomie locali non sembra in grado di determinare quella svolta che permet146
ta alle amministrazioni di recuperare il governo della città, in una fase in cui questa deve essere in qualche modo « ricostruita ». Non vi è dubbio che la progressiva modificazione delle strutture economiche e dei mercati, le più ampie e dirette interazioni tra settori economici diversi, le crescenti esigenze infrastrutturali hanno determinato il formarsi di nuovi bisogni e fortemente ridisegnato gli interessi. Rispetto a tutto ciò occorrono cultura, strumenti, risorse, modelli organizzativi diversi. Altrimenti si assisterebbe ad una ulteriore progressiva ritirata delle amministrazioni pubbliche nel mero controllo, tradizionale insieme discrezionale, dei processi di trasformazione urbana senza nuove e precise regole del gioco e senza solidi punti di riferimento per gli interessi collettivi. Nella base di queste prime valutazioni il Gruppo di studio, dopo il seminario, ha costituito un panel di cultori della «questione » urbana che, prendendo spunto dall'attuale dibattito sulla riforma delle autonomie locali, affronti con sistematicità, i problemi sul tappeto come gruppo di riflessione e di proposta attento agli « interessi » delle istituzioni locali. Workshop sulla finanza pubblica
L'Assemblea del Gruppo, ha deciso, nella riunione di Cortona, di dare nuova vita al filone di studi sul governo della finanza pubblica che già nel passato ha fortemente caratterizzato le attività del Gruppo: negli anni scorsi è stato pubblicato il libro « Dentro la finanziaria - Bilancio '86 e politiche pubbliche» e poi il numero monografico di «Queste Istituzioni » (n. 74) dedicato all'esame della finanziaria '87. Il metodo finora seguito non ha retto all'esperienza soprattutto dopo la legge n. 362 del 1988 che, ridu-
cendo la legge finanziaria ad una legge che fissa soltanto il quadro dei lavori finanziari della manovra di bilancio, rende ipotetici i legami con le politiche pubbliche e comunque ne rinvia la concreta definizione a leggi di accompagnamento che vengono approvate (se vengono approvate) solo successivamente e senza scadenze predeterminate. In tal modo, bilancio e legge finanziaria non possono costituire oggetto di un esame annuale delle politiche pubbliche, così come inizialmente si era inteso fare con le pubblicazioni promosse dal Gruppo. D'ora innanzi l'attenzione alle politiche e quella alle tecniche finanziarie e di bilancio tornano in qualche modo a distinguersi. Il primo seminario del nuovo ciclo del Workshop è stato dedicato ad una valutazione aggiornata della spesa sanitaria con particolare riferimento a quella farmaceutica. Il seminario si è tenuto presso l'Istituto Superiore di Sanità l'il dicembre. Sono stati presenti, oltre ad alcuni studiosi, alcuni dei massimi e più qualificati esponenti delle Amministrazioni interessate: Ernesto Basile, Paolo Bogliaccino, Nadio Delai, Bruno De Leo, Antonio Manzoli, Maurizio Meschino, Andrea Monorchio, Franco Zacchia. Fra gli echi di stampa interessante il commento del « Corriere della Sera » che riportiamo: Il Ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, ha appena quantificato il problema: il Sistema.sanitario nazionale assorbir'a, quest'anno, risorse valutabili attormo ai 70-73 mila miliardi di lire (pari a oltre la metà del fabbisogno pubblico complessivo, valutato in 133 mila miliardi) contro 162 mila 720 miliardi stimati dal ministro della Sanità, De Lorenzo, al netto però degli effetti del rinnovo dei contratti di lavoro del settore. Tra i maggiori esperti della spesa pubblica italiana, riuniti nei giorni scorsi nell'austera aula Marotta dell'Istituto superiore di sanità in un panel coordinato da Sergio Ristuccia, presidente del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, si alza un brusio di consenso. « Bisogna trovare il modo di porre fine a questi continui sfonda-
menti di bilancio, vere legslizzazioni a posteriori di spese non autorizzate » osserva il vicesegretario generale della Corte dei conti, Ernesto Basile. « Questo è uno strano Paese - sospira Bruno De Leo, ispettore generale capo del ministero del Tesoro -. Tutti infatti, assente che la spesa sanitaria è costantemente sottostimata dai nostri bilanci di competenza, e avrete probabilmente ragione. Ma a me risulta che questa spesa sottostimata è, dall'83 ad oggi, costantemente non spesa. Insomma che stiamo discutendo su una mera astrazione contabile ».
I paradossi di De Leo. « Non so se sapete - continua De Leo - che il decreto sul ticket, reiterato per la settima ed ottava volta, stabilisce il passaggio alla Tesoreria unica dei fondi gestiti dalle tesorerie Usl. Trasferiamo debiti? Ma no, trasferiamo una massa impressionante di soldi: 1800 miliardi di giacenza media per UsI! » Ma i paradossi non finiscono qui: nello stesso decreto vengono concessi due mesi di tempo alle Regioni per ottenere il ripiano dei deficit pregressi (che stime meramente contabili farebbero ammontare alla bellezza di 418 mila miliardi di lire). Ebbene: solo quattro Regioni si sono fatte vive! E le altre, hanno o non hano crediti da vantare nei confronti dello Stato? Sulla carta li hanno ma forse, « causa la non perfetta trasparenza dileggi e controffi contabili regionali » ipotizza De Leo - trovano serie difficoltà a giustificarli. Il Tesoro, ad esempio, fornisce a pié di lista i soldi per ripianare le posizioni debitorie accese dalle Usl nel 1983, ponendo come sola condizione la prova del loro effettivo saldo entro 30 giorni. Ebbene - conclude De Leo - quasi tutte le somme anticipate ci vengono restituite! »
I paradossi del Censis. I dati di De Leo confermano la diagnosi del Censis - dice il suo direttore, Nadio Delai: « Il Sistema sanitario nazionale è una quasi - azienda che produce dei quasi - servizi a dei quasi - prezzi con dei quasi - costi, ma scontentando letteralmente tutti (che è l'unica cosa non quasi) ». Per uscirne bisogna cominciare a sperimentare (e il Censis sta per farlo a livello microterritoriale) un sistema concorrenziale a tre poli: pubblico, privato (già oggi costretto a pagare due volte almeno un quinto dei suoi costi sanitari) e assicurativo. Quando alla riforma del pubblico da anni tutti dicono « partiam partiam » ma la sola Regione che ha deciso qualcosa è il Trentino, che ridurrà da 11 a 1 (per 430 mila abitanti) le sue Usl. « Se per abolire i sanatori ci sono voluti 50 anni - si chiede Delai - quanti ce ne vorranno per riformare le UsI? » 147
Il paradosso di Zacchia. « Non solo il via a una gestione manageriale, controllabile ed efficace delle Usi viene rinviato all'infinito, ma si cerca nel frattempo di ridurre allo stesso livello zero anche l'indotto imprenditoriale che quel tipo di gestione era riuscito a darsi », afferma Franco Zacchia, magistrato della Corte dei conti passato da qualche mese alla direzione della Farmindustria. « Con un blocco dei prezzi - sostiene Zacchia - e un sistema di tickets altissimi (ma che il 60% degli italiani, senza controlli, non paga) si è ottenuto l'effetto di ridurre sensibilmente, tra l'86 e 188, quella spinta agli investimenti nella ricerca che aveva portato la nostra industria farmaceutica al quarto posto nei mondo per la scoperta di principi attivi. Insomma, affondino le Usi con tutti gli operatori sanitari! » I paradossi di Monorchio. Sulla paradossalità della spesa sanitaria concorda anche il Ragioniere generale dello Stato. Basta vedere cosa succede a livello regionale: non solo i cittadini ricevono un'assistenza migliore nelle regioni che spendono meno, ma anche le cosidette programmazioni regionali coprono in realtà, senza corregerli, squilibri rilevantissimi. Su un solo punto non sembrano esservi rilevanti differenze territoriali: un'ispezione a una Usi si conclude,quasi ovunque, davanti alla Procura della Repubblica. [Carlo MenottiJ
1990 L'Istituzione Governo
Giornata di studio (Roma, Residenza Ripetta, 27 gennaio 1990) La giornata di studio è stata dedicata alla valutazione di alcune recenti novità nell'ambito delle istituzioni costituzionali: la legge n. 400 del 1988 sui poteri del Governo e di riforma della Presidenza del Consiglio, la modificazione di alcune importanti norme dei Regolamenti Parlamentari che incidono sui rapporti tra Camere e Governo soprattutto in relazione alla produzione normativa, l'eliminazione dell'arretrato da parte della Corte Costituzionale e le esperienze di guida del Governo nel corso degli anni Ottanta. Eventi che inducono a riprendere, in particolare, la riflessione sul tema dell'Istituzione Gover148
no e della sua produzione normativa. Si tratta di un campo tradizionale di ricerca del Gruppo. Il libro «L'Istituzione Governo » del 1977 (Ed. Comunità, Milano), oltreché lanciare un'espressione semantica che s'è affermata, rappresentò un' anticipazione ditemi di li a poco raccolti prima nel dibattito politico-istituzionale e poi nella legislazione. Oggi si pongono alcuni interrogativi. In termini generali e, diciamo, di « forma di Governo », cosa è mutato, a cominciare dalla prima esperienza del Governo Spadolini fino ad oggi, nell'Istituzione Governo rispetto al passato? Spadolini, Craxi e De Mita - per parlare delle principali esperienze di Governo che si sono realizzate e concluse negli Anni Ottanta - hanno rappresentato tre modi, diversi tra loro e diversi dai precedenti più consolidati, di interpretare il ruolo istituzionale del Presidente del Consiglio a fini di rafforzamento dell'Esecutivo. Tutti e tre sembrano evidenziare la stretta connessione tra la possibilità di giocare questo ruolo in maniera sufficientemente autonoma dal sistema dei partiti e la necessità della legittimazione popolare diffusa. E possibile allora dare stabilità e autonomia al Governo,, tramite la figura del Presidente del Consiglio, seguendo altre vie che non siano l'elezione diretta di questo ultimo o del Capo dello Stato? All'opposto, la via della riforma elettorale è in grado di assicurare gli stessi risultati in termini di governabilità, incidendo su un sistema dei partiti, che sembra intanto ricevere impulsi dinamici dalle vicende più recenti di formazioni politiche vecchie e nuove? In termini di funzionamento istituzionale e di organizzazione amministrativa, la legge n. 400 può sembrare relativamente neutrale in confronto a queste possibilità di interpretazione del ruolo. Ma, nell'un caso e nell'altro
alcuni quesiti si impongono Per esempio: il disegno funzionale di un Segretario Generale della Presidenza del Consiglio quale risulta dalla legge serve veramente ad un Presidente vincolato alla logica operativa del sistema dei partiti? In che senso la riforma della Presidenza del Consiglio si può dire avviata? Quali sono i punti di debolezza che presenta e quali risultati si possono, invece, considerare acquisiti? Ancora venendo alle problematiche poste dal sistema delle fonti, c'è in generale, profondo malessere intorno alle norme giuridiche, coinvolte dalla stessa crisi di leggittimazione sofferta dalle istituzioni che le producono. D'altra parte, è pensabile un ampliamento del processo di delegificazione, o anche solo di delegazione, da parte di un Parlamento che si sente minacciato nelle sue competenze? E un tale processo è, poi, auspicabile ferma restando l'attuale composizione ed organizzazione del Consiglio di Stato? Cosa occorre « dare in cambio » al Parlamento, se si vuole che il Governo controlli tutta la legislazione di spesa? In questo quadro, la riforma dei Regolamenti Parlamentari, rimasta monca, e le disposizioni della legge n. 400 in materia di fonti, hanno avuto effetti apprezzabili? E come può oggi delinearsi il ruolo della Corte Costituzionale rinnovato dall'eliminazione dell'arretrato? Anche il sistema delle fonti attende di conoscere gli sbocchi della crisi istituzionale. Su questi interrogativi il Gruppo ha sollecitato il dibattito tra addetti ai lavori e « cultori della materia ». Nella giornata di studio del 27 gennaio Valerio Onida e Carlo Mezzanotte hanno introdotto la discussione con due relazioni: una sulle dinamiche più propriamente istituzionali, l'altra sulle vicende del sistema delle fonti.
Nel dibattito, moderato al mattino da Sergio Ristuccia e al pomeriggio da Sergio Lariccia, sono intervenuti nell'ordine: Piero Calandra, Antonio Baldassarre, Pier Alberto Capotosti, Alessandro Pizzorusso, Ugo De Siervo, Andrea Manzella, Maurizio Mirabella, Carlo Chimenti, Cesare Pinelli, Mario Colacito, Maurizio Meloni, Vincenzo Spaziante, Giuseppe Cogliandro e Domenico Marchetta. Hanno partecipato all'incotro anche M. Andolfi, G. Azzariti, F. Bassaniri, E. Berarducci, B. Caravita, G. Carbone, M. Carli, A. Cervati, A. Cheffini, G. Correali, M. Dogliani, G. D'Auria, B. Dente, F. Garri, M. Luciani, A. Meccanico, A. Malaschini, F. Merloni, R. Milaneschi, S. Panunzio, S. Petitti, P. Petta, G. Procaccini, R. Romboli, A. Ruggeri, D. Siclari, E. Colasanti, P. Gambioli, Falcucci, P. Silvestri.
Europa '93 e Amministrazioni Pubbliche.
Il primo seminario si è svolto presso la Biblioteca della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione in Roma, il 19 marzo 1990. Questo che segue è il documento di apertura del dibattito. La Corte di Giustizia della Comunità Europea ha di recente pronunciato una decisione (sentenza 22 giugno 1989) che non può non essere colta come ulteriore fattore dell'integrazione comunitaria rilanciata dall'Atto Unico. Nel corso di un procedimento instaurato dal TAR Lombardia e destinato ad ottenere dalla Corte CEE in via pregiudiziale l'interpretazione della direttiva n. 71/305/CEE in materia diappalti di lavori pubblici (TAR Lombardia, Milano, I Sez., 24 Marzo 1988, n.82) la Corte - nel quarto punto del dispositivo 149
- ha così stabilito: «Al pari del giudice nazionale, l'amministrazione, anche comunale, è tenuta ad applicare l'art. 29, paragrafo 5, della direttiva del Consiglio n. 71/305 ed a disapplicare le norme del diritto nazionale non conformi a questa disposizione ». Tale interpretazione del Trattato è destinata, com'è facile comprendere, a suscitare un importante dibattito, anche sotto il profilo della gerarchia delle fonti che è questione primaria per ogni ordinamento giuridico. Il Gruppo ha da tempo aperto un filone di approfondimenti, studi, ricerche e riflessioni sugli effetti del processo di integrazione comunitaria sulle amministrazioni nazionali. Il contesto politico europeo sta rapidamente mutando sulla spinta di eventi e sconvolgimenti di grande rilievo internazionale. Questi cambiamenti, a nostro avviso, non fermeranno il processo ma certo ne segneranno carattere e ritmo. Il quadro presenta, da una parte, l'istituzione Comunità Europea già sede di elaborazione di numerose politiche pubbliche, in un nuovo rapporto tra amministrazione, politica e interessi; dall'altra le amministrazioni nazionali, e alcune in particolare come la nostra, stressate per il crescere di domande sociali in gran parte inedite alle quali la cultura tradizionale stenta a trovar risposte amministrative adeguate. La domanda che poniamo è, dunque, queste: l'amministrazione troverà nel processo di integrazione comunitaria elementi di ulteriori crisi ovvero validi fattori di rifondazione? Il processo di integrazione sta muovendosi su due binari: l'armonizzazione normativa ed il riconoscimento reciproco. Il peso che assumerà l'uno o l'altro degli strumenti adottati dalla Comunità implicherà differenze di non poco conto nei vari settori interessati dalla integrazione.
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Il mutuo riconoscimento agisce «in corso d'opera » come strumento giuridico per la soppressione delle barriere (fisiche, tecniche, ecc.) poggiando sul minimum di armonizzazione che si ritiene essenziale; ma costituisce anche la clausola conclusiva del processo assunto nell'Atto Unico: l'art. 100 B del Trattato infatti prescrive che, nel corso del 1992, la Commissione CEE proceda ad un inventano delle disposizioni nazionali (nelle materie che nell'art. 100 A sottopone a decisione a maggioranza qualificata), che non siano state armonizzate. Esse saranno oggetto di una dichiarazione di equivalenza deliberata dal Consiglio europeo. Cosa il riconoscimento reciproco possa attivare nella nostra realtà amministrativa è uno degli interrogativi principali cui vogliamo trovare una risposta. Poiché sarà l'allocazione spontanea delle risorse a penalizzare i sistemi meno efficienti, è necessario porsi in un orizzonte strategico di alto profilo. La chiave di volta potrebbe essere rintracciata forse proprio nella recente decisione della Corte di Giustizia. Nel « grande mercato » ogni soggetto si porterà dietro un pezzo della propria amministrazione sulla quale il controllo rimarrà al paese di origine (home control): il confronto tra sistemi sarà dunque immediato e diretto, avverrà in tempo reale. Fuori dai luoghi comuni che circondano il tema « Europa 93» è interesse del Gruppo raccogliere testimonianze significative dagli addetti ai lavori circa i processi già in atto nei diversi ambiti ma anche individuare i percorsi che le singole amministrazioni intendono seguire nel prossimo futuro. Riteniamo quindi estremamente utile promuovere un workshop fra studiosi e addetti ai lavori nell'Amministrazione per favorire, com'è tradizione del Gruppo, uno scambio di idee che accresca il bagaglio complessivo
di esperienze e prospettive davanti agli obiettivi prossimi e quelli più remoti della nuova Europa. Hanno partecipato al seminario Matteo Baradà, Fabio Luca Cavazza, Mario Chiti, Alberto Colabianchi, Mario Colacito, Alberto Massera, Luca Minniti, Giuseppe Morbidelli, Giorgio Pagano, Sergio Ristuccia, Marinella Rucireta, Diego Siclari, Domenico Sorace, Ennio Spaziani Testa, Lucio Todaro. In tema di Europa-Amministrazioni il Gruppo sta promuovendo una inchiesta fra i dirigenti delle amministrazioni pubbliche. In realtà, intorno al tema Europa '93 e Amministrazioni pubbliche si è fatta ancora poca chiarezza, quanto a rilievo dell'impatto e a obbiettivi da raggiungeree. Per questo il Gruppo ha ritenuto di aprire una fase di osservazione permanente sulle esperienze del processo di integrazione. Di qui un primo questionario esplorativo destinato ad alti esponenti delle amministrazioni pubbliche. Entro giugno '90 saranno noti i primi risultati dell'indagine. A proposito di «Metropoli per progetti »,
(Roma,— Biblioteca della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione - 23 maggio 1990) L'incontro ha preso avvio dalla presentazione del libro di Bruno Dente « Metropoli per progetti - Attori e processi di trasformazione urbana a Firenze, Torino e Milano » (ed il Mulino 1990) ed ha rappresentato la naturale continuazione del dibattito precedentemente affrontato a Cortona in materia di politica urbana. Nella premessa che la riforma degli Enti Locali non è in grado di garantire una svolta che consente effettivamente alle amministrazioni pubbliche di recuperare il governo delle
città (soprattutto rispetto alle esigenze infrastrutturali dettate dall'interazione tra i diversi settori economici ed i vari mercati), è emerso ancora una volta il bisogno di una cultura e di mezzi d'intervento nuovi. Partendo dal presupposto èhe i tempi richiedono una rapida trasformazione dell'assetto urbanistico, perché le nostre città possano fornire un'adeguata rete di servizi, senza perdere (come è ben possibile) la propria identità storicoculturale, si è molto discusso, in chiave critica, sulle modalità che caratterizzano nella fase attuale l'intervento pubblico e privato. Alcuni hanno evidenziato i guasti causati da quei piani di trasformazione « per blocchi» non rientranti in un organico programma generale di riassetto. Altri, invece, hanno sottolineato i rischi di una logica di « ricentralizzazione » delle città di per sè destinata a non sbloccare le strozzature dello sviluppo urbano. Partendo dall'analisi della legge di riforma degli enti locali, è stata da tutti richiamata la necessità di ridefinire al più presto l'intervento pubblico, ricomponendo il quadro delle competenze che, a livello locale, appaiono frazionate al punto da precludere la possibilità di adottare una progettualità di ampio respiro, che proceda cioé per piani integrati. Inoltre, si è dibattuto circa l'esigenza di garantire, da un lato, la massima trasparenza quanto alla gestione dei progetti, dall'altro, la ottimizzazione del profilo tecnico. L'incontro ha fornito altresì un'utile occasione per « riconsiderare » sommariamente alcune questioni attinenti alla realizzazione dello S.D.O. di Roma, che diversi problemi ha posto e continua a porre sotto una molteplicità di profili (interventi espropriativi, lottizzazioni). Ma ci si è anche chiesti se una questione S.D.O. esista ancora. Sono intervenuti, oltre a Bruno Dente che ha introdotto la discussione, Antonio Cantaro, Melma de Caro, Giorgio Gardella, Al151
berto Lacava, Pina Lacava, Giulio Lamanda, Enrico Appetecchia, Franco Karrer, Sergio Ristuccia, Nicolò Savarese, Stefano Se-
152
pe, Federico Spantigati, Anna Migliorini, Giancarlo Storto.
Bruno Dente
Politiche pubbliche e pubblica amministrazione
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Collana diretta da Ettore Giannantonio e Pietro Rescigno O
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RIVISTA TRIMESTRALE DELLA SOCIETÀ ITALIANA PER LORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE
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GIULIANO VASSALLI Diritti dell'uomo e durata della custodia cautelare. J. RIBAKOV- L. SKOTNIKOV - A. ZMEEVSKY- Il primato del diritto nella politica. GIANDONATO CAGGIANO- La Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera. ANTONIO VIGILANTE .. L'America Latina all'inizio degli anni novanta. Rassegne.delle attività delle Organizzazioni Internazionali. Documenti. Recensioni.
CEDAM
Vol. XLIV
CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA Quarto trimestre 1989
N. 4
democra~ia e Aritto anno XXX, numero 2, marzo-aprile 1990
IL TEMA
Sistema elettorale e democrazia Gianfranco Pasquino La filosofia politica della ri/orma elettorale Augusto Barbera Un'alternativa neo parlamentare al presidenzialismo Stefano Merlini Sistemi elettorali e forme di governo Oreste Massari L'elezione diretta del capo dello stato: una comparazione Fulco Lanchester Doppio turno di tipo francese e strategia riformatrice Salvatore d'Albergo Quale democrazia nel ÂŤ caso francese, Eckhard Jesse Il sistema elettorale in R/t: i vantaggi di una ri/orma Sergio Fabbrini La lea4ersh:p politica nella democrazia delle comunicazioni di massa IL DIBArFITO Pietro Barrera Il difficile referendum sulle leggi elettorali ARGOMENTI Adriana Cavarero Il modello democratico nell'orizzonte della differenza sessuale IL SAGGIO Pietro Barcellona Stato di diritto e principio democratico DOCUMENTI Proposte di legge di ri/orma elettorale per la camera dei deputati
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"BAILAMMI? rivista di spiritualità e politica SOMMARIO
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"LIBERI NONOSTANTE IL FATTO DELLA SOCIETÀ" diM.H. Tonn ......... ................................. PER NATURA E STORIA di Edodo Bonvonrno ..................
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LA FASE
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43
LA PIETÀ
RICORDANDO 8. IL DRAGO, LA BANCA, IL PAPERO diRonno Gorniori ......................................
59
,, BALLATA ALLA MADONNA DI CZESTOCHOWA di don Giosoppo Do Loon ...................................
112
LA DEVOZIONE ALLA MADONNA DI LORETO TRA UMBRIA E MARCHE di Modo Sonni .................................
121
ELISA SALERNO E L'"ERESIA AN'IlFEMMINISTA" di Eliso S'iconsini ..........................................
ESPERIENZE
SIARIANNE WEBER di Adri.n
Volorio
.....................
IL SIONISMO IN ITALIA NEL PRIMO QUARTO DEL NOVECENTO. UNA "RIVOLTA" CULTURALE? (prins. p.nso) di Dooid Bidonno .........................................
SCENARI DEL SAPERE LETTURE MEDITAZIONI E PREGHIERE LETTERE E RECENSIONI
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oIL MERAVIGLIOSO DELLA RAGIONE*. UNA RILETTURA DEL PENSIERO DI GUSTAVO BONTADINI di Isolo Volnn, ..
134 153 168 245
I,A "PROFEZIA" DEL NICHILISMO. L'UOMO E IL SUO DESTINO NELLA CULTURA TRA '800 E '900 di Anno Giannatiempo Ouinzio .............................. DALI.A LEGGENDA DI SANTA MARIA EGIZIACA .........
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LA "SCELTA DI VITA" DI GERSCHOM SCHOLRM di D*vid Bidonno .... .....................................
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N° CINQUE/SEI
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DICEMBRE 1989
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