Anno XVIII - n. 81 - 82 Semestrale (gennaio-giugno) - Sped. in abb. postale gr. IV/70
queste ĂŹstituzĂŹooi
Governo del territorio e Riforma degli enti locali Sergio Ristuccia Roberto Mostacci
Maurizio Coppo Fabio Angelico Marco ('remaschi Antonio Fernandez Carlo Gasparrini Francesco Toso
n.81-82
1990
queste isMuzioni rivista del Gruppo di Studio Società e Istituzioni
Anno XVIII - n. 81 - 82 Direttore: SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore: VINCENZO SPAZIANTE Redattore Capo: LUCA MINNrn Comitato di Redazione: ANTONIO AGOSTA, GIOVANNI CELSI, DANIELA FELISINI, MARIA RITA FERRAUTO, ELIsA LAMANDA, Mitco LEDDA, MARIA TERESA LENER, MARIA TERESA PROVENZANO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE, DANIEI.A Toitoi
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Gruppo di Studio Società e Istituzioni
CRESME
NeI 1989 queste istituzioni ha dedicato una giornata di studi a Cortona ai problemi del governo delle città, in collaborazione con il CRESME. In quell'occasione fu decisa la costituzione di un gruppo di lavoro per sviluppare i temi trattati nel corso dell'incontro. La legge di riforma dell'ordinamento delle autonomie locali, approvata nel frattempo, ha suggerito al CRESME di orientare la riflessione sulle prospettive aperte dal nuovo quadro normativo. Il gruppo di lavoro, coordinato da Maurizio Coppo, è composto da Fabio Angelico, da Antonio Fernandez e da Carlo Gasparrini e si è valso anche dei contributi di Marco Cremaschi e di Francesco Toso.
n. 81-82 1990
Indice
7
Governo del territorio e riforma degli enti locali Sergio Ristuccia Roberto Mostacci
12
Il nuovo ordinamento amministrativo Antonio Fernandez
36
I grandi interventi infrastrutturali tra governo centrale e amministrazioni locali Fabio Angelico
47
Pianificazione territoriale e riforma delle autonomie locali Maurizio Coppo
122
Piano e gestione del piano Carlo Gasparrini
214
Gli interventi nelle aree metropolitane Marco Cremaschi
233
Le nuove classi dimensionali dei comuni Francesco Toso
Città d'Europa. Una Scuola d'Atene per una nuova classe dirigente
Abbiamo varie volte trattato su queste pagine la questione, sempre aperta, del governo del territorio e della città. E abbiamo varie volte trattato, soprattutto negli ultimi numeri, la questione dei difficili rapporti che stanno per instaurarsi fra pubbliche amministrazioni e nuova Europa del '93. Forse il momento è giunto per cominciare a fare incontrare queste due linee di riflessione e di progetto. Non per contribuire al consueto bestiario che consiste nel condire con salsa "europea" un po' di tutto (su questo piano saremmo tentati di stare ben alla larga o, addirittura, di contrastare con energia) ma per inteipretare correttamente alcuni fenomeni che si vanno presentando nella realtà sociale. E quindi per cercare di mettere a punto le risposte alle questioni che tali fenomeni pongono, o stanno per porre, sull'agenda politica. Vediamo in breve. C'è in Europa la questione delle identità. I segni sono molteplici. Alcuni possono non piacere (le aree di strenuo ribellismo localistico in varie zone èuropee), altri possono sembrare curiosità folkloriche (la rinascita di interesse per l'uso delle lingue e dei dialetti locali), altri piz2 in generale sono testimonianze di una ri»resa d 'attenzione per le radici e le tradizioni d'insediamento nel territorio. Nè la questione dell'identità può essere colta semplicemente come questione etnica, così come può apparire in alcune parti dell'Europa orientale. Si tratta piuttosto della ripresa, sul ritmo lungo della storia profonda, delle tante storiche facce della realtà europea. L'idea d'Europa è stata sempre sostanziata di molteplicità di culture e assetti sociali, spesso fra loro in conflitto. Il superamento dei sistemi nazionali in un più ampio sistema di relazioni di governo e istituzionali, quale si va realizzando attraverso l'integrazione europea, non signflca la compressione definitiva delle identità locali. Al contrario, in qualche modo l'integrazione europea, indebolendo la rete degli stati nazionali, libera molte realtà sociali. D'altra parte, le stesse forti spinte all'omologazione che derivano dal grande mercato internazionale stimolano, per reazione, le identità locali a ricomporsi ed esprimersi.
C'è in Europa la questione delle migrazioni. Giustamente è stato detto che non si tratta tanto di fenomeni di immigrazione paragonabili a quello - pur grandioso - realizzatosi fra Sud e Nord d'Italia durante il "miracolo economico" degli anni Cinquanta-Sessanta. Si tratta di più ampi, impressionanti fenomeni di migrazione paragonabili a quelli realizzatisi in altre, e lontane, epoche della storia d'Europa. La questione delle migrazioni pone, certo, alle brave persone il bisogno di affrontare i temi del 'pluralismo" culturale ed etnico, ma essa prima ancora, nel concreto della vita sociale, s'intreccia con la questione delle identità perché ilfenomeno migratorio accentuerà il bisogno diidentità. Bastano questi cenni per ricordare le ragioni concrete e profonde di una terza importante questione: quella dei livelli di governo del territorio come elemento fondamentale dell'assetto istituzionale europeo. L'idea che altrove ho sostenuto (e rzjrenderò su queste pagine) di un Senato delle Regioni per l'Europa nasce anche da queste considerazioni. Le città, nel loro complesso rapporto con il territorio, sono il luogo dove si scaricano tutti gli effetti del grande mercato, delle migrazioni, della rinascita delle identità. Ed è il luogo deputato a maturare e dare, se possibile, concrete e utili risposte. La cultura del governo locale e la cultura delle città hanno bisogno d'integrarsi ma anche, tutto sommato, di crescere di qualità. Ed in fretta. Sul "governo del territorio "pesano numerose frustazioni già accumulatesi nel tempo e s'è annidata la diffusa sensazione di una invincibile, sotterranea ingovernabilità. Concentrare gli sforzi, cogliere le occasioni è nel contesto dei problemi segnalati, la linea migliore da seguire. Per questo riteniamo che qui, in Italia, ci sia intanto da sfruttare bene l'occasione delle recente riforma delle autonomie locali. Non importa continuare a discutere se sia o no una buona riforma. Importa trovare comunque il modo di realizzarla bene (del resto, essa consente varie possibilità positive). C'è in giro un 'attesa di concretezza che va raccolta e che, per parte nostra, suggeriamo caldamente di raccogliere. Certo, ogni proposta di questo segno sottintende ormai la chiamata di una nuova leva di classe dirigente locale. Che si deve costruire intorno ad un progetto di integrazione e sviluppo della cultura del governo locale e della cultura delle città. C'è da chiedersi se nella prospettiva Europa non si debba al più presto creare un grande progetto di "Scuola d'Atene" (penso al manifesto di Le. Corbusier la chart d'Athènes) per questa classe dirigente in fieri che è chiamata a restituire al buon governo del territorio la sua necessaria centralità.
o
Discutere i contributi ospitati in questo numero è il piccolo contributo che intendiamo dare in questa prospettiva, mentre continuiamo e continueremo almeno a suggerire, se non ci sarà possibile contribuire a promuovere, una piÚ sistematica operazione culturale eformativa. (Sergio Ristuccia)
Una proposta per il gòverno del territorio di Roberto Mostacci
La legge 142/90 rnnesca un ampio processo di innovazione sulla maggior parte degli aspetti dell'assetto e della azione delle amministrazioni locali. La riforma infatti, investe l'ordinamento delle autonomie locali nella accezione più ampia, toccando aspetti legati all'autonomia statutaria e regolamentare, all'assetto organizzativo e al sistema di responsabilità, alla finanza locale, agli istituti di partecipazione e alla elezione, al controllo sugli organi e sugli atti, al rapporto tra le diverse amministrazioni, agli strumenti di pianificazione, alla gestione dei servizi, all'accesso agli atti amministrativi, etc. UN AMPIO PROCESSO DI INNOVAZIONE
La molteplicità dei temi trattati non ha impedito al legislatore di intervenire con innovazioni estremamente decise, al punto che la prima impressione che si può ricavare dalla legge è quella di preoccupazione per il difficile rapporto che si viene ad instaurare tra la complessità dei compiti (e l'ampiezza delle risorse che un numero così ampio di innovazioni richiede) e la cronica carenza di strumenti.e risorse propria di gran parte delle Amministrazioni Locali. D'altro lato però occorre notare che il legislatore è ben consapevole della vastità del disegno e dei lunghi tempi del processo di innovazione: la riforma dell'ordinamento delle autonomie locali deve essere consi-
derata una "legge di principi", una strategia di rinnovamento che si applica a tutto il "sistema delle autonomie" e che, per essere attuata, richiede un sistema coerente di atti legislativi, di interventi, di azioni, che concretizzano un percorso destinato a svilupparsi nei prossimi anni. La legge dunque ci propone due ordini di riflessioni: il primo sui principi fondamentali, sui riferimenti e sul sistema di obiettivi indicati esplicitamente, o determinati indirettamente dal combinarsi dei vari articoli: il secondo sui modi, sulle azioni e sugli interventi che rendono possibile il raggiungimento ditali obiettivi o, più direttamente, sull'ampio e articolato processo di attuazione che la riforma richiede. Entrambi i piani di riflessione, riferiti al rapporto tra riforma e governo del territorio, sono stati indagati da un gruppo di lavoro che ha operato basandosi sull'esperienza della giornata di studi di Cortona promossa da «Queste Istituzioni» in collaborazione col CRESME e tenutasi alla fine del 1989 proprio sul rapporto tra governo del territorio e strutture amministrative locali. Il lavoro che presentiamo di seguito non costituisce dunque una riflessione estemporanea sulla legge di riforma quanto piuttosto il risultato di una attività congiunta CRESME-Queste Istituzioni nella quale i due istituti hanno riportato il proprio specifico patrimonio di esperienze e riflessioni. Quali dunque, in sintesi, i risultati di que-
sta attività? Anzitutto occorre dire che la legge, sul piano dei principi, individua quattro nodi cruciali sui quali interviene in termini estremamente decisi: la geografia delle partizioni amministrative, la scala dell'azione di governo sul territorio, l'oggetto dell'intervento pubblico, la qualità dell'azione amministrativa. LA NUOVA GEOGRAFIA AMMINISTRATIVA
Il primo punto, probabilmente il più dibattuto, riguarda la geografia delle partizioni amministrative per le quali la legge prevede un ampio processo di accorpamento (la fusione dei comuni) che è in netta controtendenza rispetto alle dinamiche attuali (ogni anno si registrano nuovi frazionamenti amministrativi con una progressiva crescita dei comuni di minime dimensioni) e quindi di non semplice e immediata realizzazione e proprio per questo sostenuto da programmi e incentivi diretti e indiretti accuratamente calibrati. In particolare il legislatore segnala con grande evidenza l'opportunità di calibrare le dimensioni delle circoscrizioni amministrative (comunali e provinciali) tenendo conto dell'assetto territoriale e socio economico locale e dell'opportunità di superare le "dimensioni soglia" che consentono una razionale ed efficiente gestione dei servizi. La razionalità e l'efficacia di gestione assumono una importanza fondamentale in relazione alla autonomia finanziaria e impositiva degli Enti Locali che in prospettiva determinerà un rapporto diretto tra: quantità e qualità dei servizi erogati; efficacia ed efficienza di gestione dei servizi; pressione impositiva sulla comunità locale. La questione non riveste quindi solo una importanza economica e organizzativa ma rimanda ad un modo affatto nuovo di con-
siderare le circoscrizioni amministrative: non più unicamente eredità storica e fattore di conservazione delle identità culturali e sociali locali ma anche strumento per assicurare un più corretto rapporto tra l'azione amministrativa da un lato e i processi di sviluppo economici, civili, sociali e territoriali dall'altra. Una visione estremamente moderna che rompe decisamente con quelle più tradizionali e che, negli auspici del legislatore, dovrebbe condurre ad un sistematico riassetto della geografia aniministrativa sia in relazione ai vistosi cambiamenti socio-economici e territoriali intervenuti negli ultimi 30 anni, sia in funzione di specifici programmi di sviluppo e nequiibrio territoriale e socioeconomco. LA scALA DELL'AZIONE DI GOVERNO
Il secondo punto nodale che la legge affronta è quello della scala dell'intervento. Dopo anni di attesa e di tentativi parziali e contraddittori, viene individuato un soggetto cardine sul quale far ruotare le grandi scelte di sviluppo locale, i grandi interventi che orientano le direzioni dell'evoluzione della struttura economica e sociale di area: si tratta della Provincia e, nel caso delle grandi aree urbane, della provincia metropolitana (o più precisamente della Città Metropolitana). Sembra in altri termini che il legislatore abbia preso atto del fatto che, nell'attuale quadro socioeconomico, la scala dei fenomeni da controllare ben raramente si colloca a livello del singolo comune. Quasi sempre i processi di sviluppo della struttura economica e l'evoluzione dell'assetto sociale investe aree piuttosto vaste che comprendono molti comuni diversi. Conseguentemente il governo di tali processi non può passare, come in ampia misura
accade oggi, attraverso l'azione di governo di una molteplicità di soggetti scarsamente coordinati tra loro ma presuppone la definizione di una politica, unitaria gestita con fermezza da un soggetto dotato della autorità e dei poteri necessari. Non si tratta di una semplice operazione di trasferimento di competenze e funzioni da un soggetto ad un altro, si tratta piuttosto (e finalmente) della individuazione del soggetto di governo adeguato alla dimensione e alla natura dei problemi da affrontare. L'OGGETtO DELL'INTERVENTO La terza area di innovazione della legge è costituita da un, implicito, aggiustamento di tiro circa l'oggetto dell'azione di governo dell'Ente Locale. A questo proposito la legge segnala a più riprese il ruolo di indirizzo dello sviluppo sociale, civile, economico e territoriale dell'Ente Locale. Non più dunque solo un'azione di definizione del disegno formale delle città, la salvaguardia di valori ambientali, la tutela dei centri storici, la programmazione e realizzazione dei servizi e delle infrastrutture ma anche - soprattutto - l'indirizzo dei processi di crescita della collettività locale attraverso un insieme organico di interventi in materia di tutela e valorizzazione delle risorse locali, di definizione delle reti i nfrstruttuj:a li, di individuazione delle linee di sviluppo della struttura economica e sociale di area. Viene cioè pienamente riconosciuto all'Ente Locale il ruolo di soggetto che partecipa alla definizione dello sviluppo non solo con compiti di supporto ma anche con compiti di guida e indirizzo; ciò che più conta si cominciano a delineare i possibili strumenti per consentire alla Amministrazione Locale di esercitare concretamente tale ruolo e il Piano Territoriale di Coordi-
namento è probabilmente lo strumento più importante in questa direzione. LA
NUOVA QUALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA
L'ultima area nodale di innovazione riguarda la qualità dell'azione amministrativa. Una delle critiche più ricorrenti (e più giustificate) che viene rivolta all'Arnministrazione Pubblica (e alle Amministrazioni Locali in particolare) è quella di settorialità dell'azione di governo. Gli interventi si definiscono sempre all'interno di uno specifico settore di competenze, i non diffusi esempi di azione intersettoriale hanno avuto in generale un carattere sperimentale e raramente hanno dato luogo ad una pratica consolidata proprio perché la compartimentazione delle decisioni e degli interventi faceva parte dei tratti strutturali dell'ordinamento delle autonomie locali. La legge modifica profondamente questa "qualità" dell'azione amministrativa e richiama in diverse occasioni il principio delle competenze integrate, della convergenza cioè di più soggetti decisori su un unico nodo problematico e su un'unica azione di governo. Su questo piano la legge non si limita ad indicare o ad auspicare una qualità o una modalità dell'azione amministrativa, ma determina un assetto di funzioni e competenze tale da rendere del tutto inevitabile la integrazione delle competenze e la concertazione delle scelte e delle decisioni tra diverse Amministrazioni poste a diversi livelli. LE PROSPETtIVE DI ATrIJAZI0NE DELLA LEGGE La legge tocca molti altri punti e nelle pagine seguenti gli autori, ciascuno nel proprio campo, illustrano con maggiore dettaglio 9
l'ampio ventaglio di innovazioni e le implicazioni di queste; prima tuttavia di concludere queste brevi considerazioni introduttive ritengo opportuno soffermarmi brevemente sugli aspetti legati alle condizioni e alle prospettive di attuazione della legge. La prima considerazione da svolgere riguarda una questione che potremmo definire classica nella problematica della attuazione delle leggi di riforma: quella del rapporto tra obiettivi della riforma e mezzi dei quali dispongono i soggetti chiamati ad attuarla, nel nostro caso il rapporto tra gli obiettivi di innovazione e le risorse, gli strumenti disponibili per il loro raggiungimento. Da quando ci occupiamo di problemi economico-territoriali tutte le riforme in materia edilizia, abitativa, territoriale, hanno richiesto alle Amministrazioni Locali di intraprendere un oneroso processo di attuazione e sempre gli attori dell'attuazione hanno lamentato di essere lasciati soli di fronte ai numerosi e complessi problemi posti dalla riforma. La legge 142/90 non sfugge a tale rituale ma ci sembra che in questo caso ci siano più elementi che per il passato a giustificare le richieste di sostegno avanzate dalle Autonomie Locali o, addirittura, che le difficoltà poste dalla riforma siano per alcuni aspetti sottovalutate. Al momento attuale l'attenzione sembra infatti fortemente centrata su tre temi: i nuovi statuti, la definizione delle nuove province metropolitane, le difficoltà economiche che deriveranno dal drastico ridimensionamento dei trasferimenti erariali e dalla conseguente necessità di far fronte all'autonomia finanziaria con imposte e tariffe locali sono certamente temi di grande rilievo che tuttavia lasciano nello sfondo alcuni fattori forse meno appariscenti ma certamente più rilevanti sul piano strutturale. 10
La riforma infatti collega, sia pure indirettamente, alla autonomia finanziaria e statutariadeg1i enti locali il processo di riassetto delle circoscrizioni amministrative, la rior ganizzazione dei modi di gestione dei ser vizi pubblici e una maggiore coerenza e integrazione tra l'azione delle diverse amministrazioni. In altri termini il legislatore impone alle amministrazioni locali di far fronte più direttamente e con una maggior quota di risorse proprie alle esigenze di servizio e di governo della collettività locale ma propone anche di far fronte ai nuovi oneri riunendo risorse e capacità. troppo sparse e suddivise sia attraverso la fusione dei comuni e più in generale la ridefinizione di nuove e più adeguate circoscrizioni amministrative sia attraverso la riorganizzazione delle funzioni e delle strutture dell'Amministrazione. In questa logica la definizione dei nuovi statuti e regolamenti delle amministrazioni comunali possono (e debbono) diventare lo strumento per far si che questa fusione sia qualche cosa di più che una semplice somma di parti, per farla diventare cioè una struttura non solo quantitativamente maggiore ma anche qualitativamente più adeguata, più efficientee, in ultima analisi, capace di una azione più efficace nei confronti del territorio governato. Parallelamente l'azione di programmazione e gestione dell'Ente Locale non si sviluppa in termini rigidamente compartimentati sulla base di funzioni e competenze settoriali ma si articola secondo il principio delle competenze integrate e cioè presuppone una stretta e diretta interazione (sia sul piano delle conoscenze sia su quello delle scelte) tra amministrazioni diverse e di diverso livello. Ma è del tutto evidente che questo modo di procedere presuppone un ampia innovazione di tecniche, strumenti,, procedure, etc.
PROGETFARE L'ATIlJAZIONE DELLA RIFORMA
In definitiva la riforma richiede una elevata capacità progettuale da parte delle Amministrazioni Locali (e da parte delle Regioni chiamate a indirizzare e assistere il processo di attuazione della riforma) per definire una configurazione complessivamente rtuova dove i confini amministrativi, l'organizzazione degli uffici, i modi attraverso cui gestire i servizi pubblici, il rapporto con le altre amministrazioni, gli strumenti tecnici impiegati e le professionalità chiamate a gestire il processo costituiscono altrettanti aspetti parziali di un disegno unitario teso a rendere possibile e concreto un diverso e più importante ruolo dell'Ente Locale e un nuovo rapporto tra Amministrazione e amministrati. In una logica complessiva di questa natura il problema della definizione di un nuovo statuto o quello della riduzione dei trasferimenti erariali e della istituzione di imposte e tariffe locali, diventano nodi parziali che trovano spunti e soluzioni in una molteplicità di strumenti e di risorse che vengono appositamente riconfigurate. Anche il problema della definizione delle provincie metropolitane può essere affrontato in termini più concreti e operativi riferendolo ad una strategia complessiva che riunisce in un insieme organico la determinazione dei nuovi confini, l'individuazione delle linee di sviluppo dell'area, i moduli organizzativi dell'azione di governo, etc. La questione è piuttosto se vi siano o meno gli strumenti tecnici, le professionalità, le risorse conoscitive per poter affrontare e progettare una azione strategica di così grande portata. A questa domanda sembra di poter rispondere senza eccessivi dubbi che allo
stato attuale mancano molte delle condizioni indispensabili e che l'attuazione della riforma richiede anzitutto la creazione degli strumenti necessari per porre mano ai problemi da affrontare. In massima parte tali strumenti non richiedono impegni intensivi di risorse finanziarie: si tratta infatti di prevedere la formazione dei quadri tecnici, di predisporre le procedure, di svolgere analisi e simulazioni sui probabili effetti delle diverse configurazioni geografiche e organizzative, di creare sistemi a supporto delle valutazioni e delle scelte etc. Tutti fattori la cui realizzazione richiede un forte impegno di risorse umane e di professionalità elevate piuttosto che grandi investimenti in danaro. Questi potranno seguire ma in una logica decisamente diversa che vede una maggiore cooperazione tra parte pubblica e parte privata, una maggiore trasparenza di obiettivi e di strategie, una più serrata concertazione sulle azioni e sugli interventi (pubblici e privati) da intraprendere secondo una visione profondamente innovativa del ruolo e del significato dell'azione pubblica, più coerente con lo scenario economico e sociale attuale, già proiettato in una dimensione europea. In questo spirito, vedendo cioè nella riforma non un elenco di piccoli e grandi compiti ma i riferimenti chiave di un grande processo di innovazione e adeguamento della struttura amministrativa del Paese, abbiamo voluto affrontare il tema del rapporto tra riforma dell'ordinamento locale e governo del territorio: l'obiettivo che ci siamo posti era quello di fornire spunti di riflessione e suggerimenti per affrontare sul giusto piano il processo di attuazione della riforma. 11
Il nuovo ordinamento amministrativo di Antonio Fernandez
Con la emanazione della Legge n. 142 sull'Ordinamento delle autonomie locali" si è finalmente realizzato, dopo 50 anni, il dettato dell'art. 128, della costituzione. In realtà al realizzarsi del dettato costituzionale non si accompagn4 ancora un compiuto assetto del sistema autonomistico. Come è noto il termine autonomia ha nel diritto pubblico un significato semantico non univoco. Tradizionalmente il termine viene riferito ad indicare la particolare posizione di porre norme giuridiche aventi efficacia nell'ordinamento generale. Si parla in tal caso di autonomia normativa che, per gli enti locali, si estrinseca nella potestà regolamentare. Oltre a tale autonomia si distinguono altre due forme autonomistiche: quella politica e quella finanziaria. LA LEGGE 142.ALL'INTERNo DELL'ORDINAMENTO cOSTITUZIONALE
La prima esprime la potestà per l'Ente di dotarsi di un indirizzo politico-amministrativo, cioè di porre le norme del proprio ordinamento organizzatorio, fissandòle nel proprio statuto, volte ad individuare i caratteri e gli aspetti di originalità di ogni singolo ente, con riferimento al territorio, al corpo sociale, alle particolari esigenze di sistemazione e di sviluppo del territorio, all'interno dei principi dell'ordinamento, fissati con legge dello Stato. 12
L'autonomia finanziaria attiene invece alla garanzia strumentale di poter disporre di risorse certe e proporzionali alle funzioni assegnate. Ora, nella lettura della 142, si nota come il dispiegarsi del sistema autoriomistico sia ancora in "fieri", e presenti chiaroscuri che necessitano di ulteriori puntualizzazioni e correttivi e, questo, non soltanto perché la legge di riforma è una legge di principi, ma perché è stato minato un sistema autonomistico che faticosamente in questi anni aveva raggiunto un equilibrio. È sufficiente, a riguardo, far riferimento al DPR 616/77, che puntualmente aveva determinato le funzioni e le competenze degli enti territoriali: Stato-Regione-Province e Comuni, e che ora, in virtù del Il comma dell'art. 3, viene messo completamente in discussione, in quanto viene assegnato al legislatore regionale l'individuazione dei ruoli della provincia e del comune, attraverso l'identificazione, nelle materie di cui all'art. 117 costituzione, degli interessi comunali e provinciali. È quindi necessario attendere che i legislatori regionali provvedano all'individuazione delle materie di interesse esclusivamente locale, attraverso i criteri della popolazione e del territorio, perché sia completatoil quadro delle funzioni e competenze comunali, condizione "sine qua non" perché possa sussistere una qualsia-
si forma di autonomia normativa e politica nel senso sopra descritto. L'architettura di base dell'art. 3 della legge è da ritenersi poco corretta, sul piano costituzionale, per almeno due motiyi: non attribuisce direttamente ai comuni la titolarità di funzioni proprie, violandone la condizione qualificatoria di enti autonomi; non rispetta la riserva di legge contenuta negli arti 118 e 128 costituzione, atteso che affida alla Regione il potere di ripartizione ed attribuzione delle funzioni stesse, che è proprio ed esclusivo dello Stato. Anche qualificando come "relativa" e non "assoluta" questa delega "extra ordinem" alle regioni, sarebbe parimenti illegittima, in quanto i criteri della popolazione e del territorio non hanno valenza esaustiva per consentire il raggiungimento dell'efficienza e della funzionalità e non sono parametri precisi ed effettivi tali da circoscrivere ed arginare la discrezionalità della Regione, che sarà piena ed assoluta. Si è voluto accogliere il principio della differenziazione delle funzioni da attribuire ai vari comuni, a seconda della dimensione demografica, abbandonando il consolidato principio che attribuiva al Comune in quanto tale, la titolarità delle medesime funzioni a prescindere dalle sue dimensioni demografiche e territoriali. Tutto questo porta ad identificare concettualmente la condizione di autonomia con la capacità naturale di esercizio- ottimale delle funzioni, degradando l'autonomia alla potestà di determinazione dell'ordinamento interno attraverso il nuovo strumento dello statuto. Tralasciando le esperienze amministrative dei grandi comuni, per smentire la presunta bontà ditale soluzione, il problema
dell'esistenza dei comuni di dimensioni ridotte va affrontato e risolto con gli strumenti indicati dal sistema giuridico, aborrendo nel contempo da inutili asserzioni acritiche, di segno opposto, per cui "piccolo è bello". Occorre piuttosto differenziare i due momenti separando l'attribuzione della titolarità delle funzione dall'efficienza gestionale, per cui sarebbe stato costituzionalmente più corretto attribuire con legge statale le funzioni proprie ai comuni nell'ambito delle specifiche materie di competenza della Regione (ex art. 118 costituzione), recuperando così l'impostazione contenuta nel DPR 616/77, lasciando agli organi rappresentativi, attraverso lo strumento statutario, la possibilità di scelta della forma di esercizio in maniera singola o associata. La soluzione indicata, nell'esaltazione del principio autonomistico, avrebbe accresciuto la responsabilità della classe dirigente nei confronti del corpo elettorale in caso di eventuali risultati negativi in termini di efficacia ed efficienza. A livello teorico, riguardo i concetti di autonomia locale, così come si presentano agli artt. 114 e 128 della Costituzione, si contrappongono due diverse teorie. La prima afferma il principio di equiordinazione dell'autonomia locale e ritiene che il legislatore costituzionale abbia posto in piena parità i tre enti territoriali locali in cui si riparte la Repubblica, e, andando oltre il tenore letterale della formula costituzionale, ha formulato una teorizzazione che abbandonando l'impropria semplificazione degli ordinamenti locali in soggetti giuridici, ha tentato di evidenziare la unitarietà dell'organizzazione pubblica e dunque l'impossibilità di una sua strutturazione piramidale. In relazione a questo indirizzo vennero emanati 13
importanti provvedimenti normativi, quali la L. 382/75 con i conseguenti decreti legislativi (tra cui il 616/77) e la L. 833/78 di istituzione del servizio sanitario nazionale. Secondo un'altra corrente di pensiero, le autonomie locali si sostanzierebbero in un "unicum" indistinto di competenze, con diversità di ruolo. Al vertice la Regione con ruolo sovraordiriato di scelta, coordinamento e programmazione, ed in ultimo il comune con ruolo esecutivo e, a conferma della propria tesi, afferma che mentre il limite autonomistico dell'ente Regione trova fondamento nella Costituzione stessa (art. 155), Comuni e Provincie sono garantiti nella loro autonomia con legge dello Stato. Secondo questa teoria "panregionalistica", in considerazione al problema mai risolto delle dimensioni demografiche e della migliore funzionalità gestionale è preferibile che l'attribuzione fattuale dell'esercizio delle funzioni sia disciplinata con legge regionale di organizzazione che meglio aderisce alla realtà locale e, pertanto, propone una rilettura dell'art. 128 costituzione nel senso che non è precluso all'ente Regione, una volta che la legge statale abbia individuato astrattamente le funzioni dei comuni e determinato criteri attributivi, organizzare l'esercizio delle funzioni anche al di fuori delle materie elencate nell'art. 117 Costituzione. In realtà da una equilibrata lettura della carta costituzionale si evince come il problema dei rapporti degli enti minori con lo Stato, da un lato, e con la Regione dall'altro, sia stato risolto adottando una linea mediana tra quelle estreme dell'affidare ogni còmpetenza in materia all'uno o all'altro dei due enti maggiori. La scelta accolta dal costituente è una soluzione di compromesso, non priva di in14
congruenze e sfasature, che è stata adottata per far sì che comuni e province cessassero di essere enti ausiliari dello Stato e non lo diventassero della regione. Così l'art. 128 preclude allo Stato di intervenire con leggi singolari o di dettaglio e alle Regioni di intervenire in materia di ordinamento e funzioni di questi Enti. Quale la soluzione accolta dal legislatore della "142", si è già accennato. Non solo con il comma 2 dell'art. 3 si è finito con il considerare comuni e province come organi subordinati alla Regione, privi o quasi di autonomia, (né questa affermazione può essere messa in dubbio sulla base dell'art. 2 che riconosce ai comuni e province potestà statutaria, che, com'è noto, attiene alla disciplina dell'organizzazione interna e non si occupa dei rapporti esterni di funzionalità, che restano regolate dalla legge); ma si è attribuita alla provincia una posizione di sovraordinazione rispetto ai comuni. Così si osserva che mentre le competenze attribuite al Comune (Art. 9) attengono ai tradizionali ed ormai recessivi settori or ganici' individuati dal 616 (servizi sociali, assetto ed utilizzazione del territorio, sviluppo economico), quelle riservate alla provincia ineriscono alle più innovative ed espansive materie: dalla tutela dell'ambiente alla valorizzazione dei beni culturali; dalla viabilità e dai trasporti alla organizzazione dello smaltimento dei rifiuti e del controllo degli scarichi; dai servizi sociosanitari alla informatizzazione; con l'ovvia conseguenza che nel regime che ne deriverà, l'ente di riferimento principale per la comunità di base sarà la nuova provincia. Ciò non significa necessariamente un decadimento delle funzioni e del ruolo del Comune, ma sarà decisivo il ruolo del legi-
slatore regionale che dovrà assegnare al comune una funzione, logicamente prima che strutturalmente diversa, e cioè una funzione di partecipazione e controllo alle linee programmatiche della provincia i. Soltanto attraverso un oculato ed attento intervento legislativo regionale è possibile comporre un sistema equilibrato e coordinato dei diversi interessi locali, in cui, all'interno degli obiettivi della programmazione regionale, dovrà essere assegnata una partecipazione propositiva ai comuni, non solo nel momento iniziale ma anche in quello della attuazione e verifica dei programmi regionali e provinciali (art. 3 e 5), realizzando quindi un efficiente sistema delle autonomie locali, caratterizzato da un percorso procedurale programmatico in cui sia assegnato un contenuto ampio e significativo delle istanze di base, di cui i comuni sono i centri esponenziali diretti. Infine, un'ultima considerazione, circa il raccordo tra enti territoriali e lo Stato. Nel disegno della "142", non è previsto, a differenza di quanto indicato nell'art. 11 del D.P.R. n. 616/77, un raccordo diretto tra programmazione nazionale e programmazione degli enti minori, con la conseguenza che lo Stato, quale massimo ente territoriale, non parteciperà che indirettamente ad un rapporto costruttivo e di collaborazione tra i diversi enti territoriali e quindi, in ultima analisi, all'attuazione della propria politica interna. In realtà il 5 ° comma dell'art. 3 prevede una partecipazione dei comuni e delle Province alla determinazione degli obiettivi contenuti nei programmi dello Stato e alla loro specificazione, ma non sono individuate né le modalità procedurali, né gli strumenti né le forme di controllo e di verifica, per cui sembra ancora una volta confermato l'assunto che il metodo della programma-
zione rimane soltanto una enunciazione di principio, a cui non corrisponde una effettiva volontà politica di attuazione, e questo non soltanto per una instabilità politica di fondo che caratterizza negativamente i governi centrali e locali, o perché vengono paradossalmente disattesi gli impegni e le regole che la stessa classe politica si sono date, ma, come in questo caso, per l'assenza di un preciso quadro di riferimento. LE ISTITUZIONI DI GOVERNO DEL TERRITORIO
Le soluzioni individuate dal legislatore in ordine ai sempre più pressanti problemi della gestione del territorio, sono : confini amministrativi; il frazionamento dell'azione di governo; l'insufficienza delle risorse economiche; l'inadeguatezza del sistema istituzionale. Per ciascuna di queste aree tematiche verranno illustrati i principi generali sottostanti ed i limiti e le problematiche posti dalla stessa legge di riforma, mentre nei successivi capitoli verranno trattati i problemi più specifici della pianificazione e programmazione del territorio e della gestione degli interventi operativi.
I confini amministrativi Da tempo era stato posto in evidenza lo scarto tra dimensione dei confini comunali e dimensione della struttura insediativa da un lato e dimensione territoriale ed efficienza ed economicità della struttura comunale dall'altro. È proprio in relazione a quest'ultima variabile che trovano ragione di essere il divieto lo comma art. 11 di costituzione di comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti, la predisposizione di un 15
programma di revisione delle circoscrizioni comunali da parte del legislatore regionale -2 comma art. 11-, l'incentivazione alla fusione dei comuni con popolazione minore di 5.000 abitanti con trasferimenti aggiuntivi da parte dello Stato (3°comma). In realtà al di là della enunciazione di principio, gli strumenti individuati non sembrano talmente incisivi da vincere le forti resistenze del "mini-comune-campanile", ampiamente diffuso nel nord e nelle aree interne. Più significativo l'effetto indiretto previsto dal 5 comma dell'art. 54, che prevede una rideterminazione del trasferimento erariale, limitato ai soli servizi indispensabili È da ritenere plausibile che il piccolissimo comune, in presenza di un trasferimento erariale ridimensionato e di entrate "proprie, limitate per la ridotta base fiscale (che in ogni caso è solamente parzialmente compensata dal trasferimento perequativo), trovi conveniente addivenire, seppure gradualmente e passando prima attraverso le forme associative delle convenzioni e dei consorzi, alle unioni di comuni, previste all'art. 26, prodomiche alle fusioni stesse. Sicuramente di maggiore portata politica, tale da costituire la vera novità della legge stessa, è l'individuazione dell'istituto delle aree metropolitane, che vuole essere la risposta istituzionale più avanzata ai numerosi problemi posti dal fenomeno delle conurbazioni. Prima di procedere alla lettura normativa occorre considerare quelli che sono stati definiti i punti nodali delle grandi aree urbane e, che possono essere riassunti, procedendo per grande approssimazione nei seguenti: a) necessità di riorganizzare le maggiori strutture urbane attorno alle grandi reti infrastrutturali e alle attrezzature di rango 16
elevato indispensabili per consentire le funzioni di direzione e controllo che tendono a concretizzarsi in queste aree; riqualificazione delle grandi periferie residenziali non tanto in termini edilizi, quanto urbanistici (adeguamento dei servizi e delle infrastrutture, miglioramento delle condizioni di accessibilità); risanamento delle aree degradate dai processi di trasformazione abusiva del territorio z In relazione a queste tematiche, la risposta offerta dalla "142" può considerarsi "parziale", ma prima di motivare il giudizio, esaminiamo i punti più significativi delle norma. Innanzitutto il legislatore si è limitato ad individuare soltanto 9 comuni (TorinoMilano-Venezia-Genova-Bologna-Firenze-Roma-Bari-Napoli) che insieme agli altri comuni con rapporti di stretta integrazione, costituiscono aree metropolitane. Certamente pochi rispetto alle 31 aree metropolitane individuate da alcuni studiosi 3, ma è anche vero che l'elenco esciude comuni quali Verona, Ancona e Pescara, che, almeno in base ad indicatori economici e volume d'affari sarebbero potuti esser inseriti a pieno titolo. La delimitazione delle aree (quando non coincide con la provincia) e il riordino delle circoscrizioni territoriali (si che possano anche istituirsi nuovi comuni per scorporo o fusione) è demandata alla Regione. È prevista inoltre una delega al Governo in caso di reiterata inattività delle Regioni, sentiti i comuni interessati e previo parere delle competenti commissioni parlamentari (art. 21 - 40 comma). Nell'area metropolitana l'amministrazione si articola in due livelli: città metropolitana e comuni, ed ancora una volta è demandato alla legge regionale la ripartizione delle funzioni tra comuni e città me-
tropolitana. Alla città metropolitana sono assegnate per lo più funzioni che erano proprie dell'ente provincia (art. 14) con qualche aggiunta significativa quale viabilità, traffico, servizi urbani, quando hanno precipuo carattere sovracomunale o debbano, per ragioni di economicità ed efficienza, essere svolte in forma coordinata in ambito più vasto. Anche da una lettura superficiale dell'art. 19 emerge chiara la necessità, da un lato, di provvedere stante la stretta integrazione tra gli insediamenti comunali dell'area metropolitana, alla unificazione delle competenze comunali e dall'altro di addivenire in tempi ristretti, al coordinamento tra le diverse amministrazioni dell'area in questione per avere comuni e città metropolitane competenze concorrenti, in materie uguali. Ritornando al discorso interrotto, perché un giudizio parziale? Questo va ricercato nella insufficiente risposta al primo dei problemi sopra accennati: quello di creare in queste aree centri di direzione e controllo anche a livello sovranazionale. L'attività di direzione e di controllo presuppone un chiaro e preciso processo programmatorio. È dato invece assistere a diversi centri (regione-provincia-area metrop6litana-comune) di pianificazione ter ritoriale e non sono delineati i principi, i rapporti, le procedure, i controlli intercor renti tra questi diversi livelli, per cui ad esempio non è dato comprendere come vada ad inserirsi la pianificazione territoriale dell'area metropolitana (art. 19 lett. a) con il piano di coordinamento territoriale della provincia (art. 15 c. 2), qualora non coincidano gli ambiti territoriali. Lasciare al legislatore regionale una materia così complessa, oltre alle notevoli dif-
ficoltà di determinazione delle funzioni a carattere sovracomunale, senza alcuna determinazione di principi direttivi, che non siano una generica indicazione di materie, crea il rischio, non indifferente, che si provveda alla creazione di un altro ente burocratico, con il solo effetto, qualora fosse necessario, di fare lievitare la spesa pubblica. Il discorso sulle circoscrizioni sarebbe però incompleto, qualora non si accennasse al nuovo assetto delle comunità montane. Queste sono state finalmente definite enti locali acquisendo così una precisa natura e qualificazione giuridica. Anche in "subiecta materia,,, il riordino delle circoscrizioni, la regolamentazione dei rapporti esistenti, le modalità ed i tempi di attuazione della riorganizzazione è affidata alle regioni, che dovranno portarla a termine entro un anno dalla legge, secondo le modalità indicate all'art. 28 c. 2 e 3. Se si considera che dalle comunità montane sono esclusi i comuni con più di 40.000 abitanti, nonché i comuni nei quali la popolazione residente nel territorio montano è inferiore al 15% della popolazione complessiva, acquista un significato preciso la norma, indicata nell'ultimo comma dell'art. 29, che prevede la trasformazione delle comunità montane in "unioni", di comuni montani. Già si è avuto modo di esprimere una sfidùcia a queste unioni volontarie e si ritiene che sarebbe stato più efficace, in presenza di ridotte realtà comunali, una costituzione "ex lege regionale" di consorzi obbligatori. Quanto affermato trova conforto nel fatto che, a ben vedere, le comunità montané finiscono con l'essere, in forma più democratica e rappresentativa, consorzi tra 17
comuni, mentre "l'unione" ha in sé un carattere di transitorietà, essendo sciolta di diritto se non si perviene alla fusione. In conclusione la "142" offre senz'altro nuovi e diversificati strumenti giuridici per aggredire nel suo complesso il problema della ristrettezza dei confini amministrativi. Questi istituti andranno certamente raffinati con il prezioso apporto della dottrina e della giurisprudenza, ma un ruolo decisivo è affidato alle Regioni, che dovranno compiere soprattutto uno sforzo di immaginazione politica, stante i pochi riferimenti espressi dal legislatore nazionale. Ad una mirata politica regionale dovrà poi accompagnarsi un processo di riorganizzazione degli enti locali che impone soprattutto un salto qualitativo che potrà essere realizzato soltanto con una nuova cultura gestionale, in grado di sapere coniugare al contempo efficienza con legittimità, in una ottica di migliore combinazione delle risorse disponibili per l'ottenimento di prestazioni e servizi còrrispondenti ai bisogni della comunità amministrata, in un contesto di nuove regole, poste dalla stessa legge di riforma, per un più equilibrato rapporto tra cittadini ed istituzioni pubbliche.
Ilfrazionamento dell'azione di governo Altro terna ricorrente nel dibattito sul governo del territorio e che costituisce uno dei nodi strutturali più appariscenti dell'intervento pubblico, riguarda la settorializzazione dei programmi, l'articolazione secondo competenze rigide, che hanno determinato nel lungo andare pesanti diseconomie, tempi di intervento inaccettabilmente lunghi, difficoltà crescenti, rispetto la complessità dei progetti da realizzare. IN
Da qualche anno, per superare questo tipo di limiti, sono stati definiti dei meccanismi volti a ridurre l'eccessiva frammentazione dei processi decisionali, attraverso concentrazioni nelle scelte e l'elaborazione di programmi, alla cui definizione collaborano tutti i soggetti coinvolti (pubblici e privati). Tali procedure hanno assunto una fisionomia precisa nell'art. 7 della L. 64/86 che ha introdotto nel nostro ordinamento l'istituto dell"Accordo di programma". Seppure l'esperienza dell'Accordo di programma non sempre ha dato risultati positivi, tuttavia, stante la validità del principio, l'Accordo di programma è stato inserito nella legge di riforma dell'Autonomia con qualche variazione significativa rispetto la previsione enunciata nella L.64/86. In un successivo capitolo in cui verranno trattati i problemi dei grandi interventi infrastrutturali tra governo centrale ed an -iministrazione locale, l'argomento sarà ripreso ed approfondito, qui il discorso è limitato a porre in rilievo, le novità più salienti e le prospettive di sviluppo dell'istituto. L'innovazione di maggiore portata è senz'altro quella di un coinvolgimento pieno delle Regioni. Così se per la realizzazione di un'opera, intervento o programma è coinvolta la Regione, la promozione dell'accordo spetta al Presidente della Regione accordo deve essere approvato con atto formale regionale e pubblicato sul bollettino regionale. Inoltre, ed è questa la novità di maggiore rilievo, se l'accordo viene adottato con decreto del Presidente della regione, produce gli effetti di cui all'art. 81 del DPR 616/79, determinando le eventuali conseguenti variazioni degli strumenti urbanistici e sostituisce le concessioni edilizie, anche se, perché questo effetto si realizzi, è richiesta l'adesione del
Sindaco del comune interessato, che deve essere ratificata dal consiglio comunale entro 30 giorni a pena di decadenza. La vigilanza sull'esecuzione dell'accordo spetta ad un collegio a cui possono partecipare il Con-iniissario di Governo e il Prefetto qualora all'accordo partecipino amministrazioni statali o eliti pubblici nazionali. In una ottica volta ad eliminare lo scarto tra affermazioni di principio ed azione concreta, il legislatore ha previsto anche il caso di accordi tra regioni finitime. In quest'ultimo caso la conclusione dell'accordo è affidata alla Presidenza del Consiglio che partecipa altresì alla vigilanza dell'accordo insieme ai rappresentanti regionali. In conclusione la legge va in direzione di una maggiore concretezza operativa, saranno però indispensabili ulteriori riferimenti, non soltanto legislativi, ma anche amministrativi ed emanati a diversi livelli, nonché la necessitt che l'accordo sia esteso alla partecipazione di privati, rappresentati almeno per categoria (come quella degli industriali e degli operatori economici) ed agli istituti finanziari pubblici e privati, perché l'accordo di programma passi da strumento straordinario, impiegato in via eccezionale da pochi soggetti, a strumento ordinario e ricorrente per affrontare i problemi della gestione del territorio: problemi che raramente sono riconducibili all'interno delle funzioni e competenze di un solo soggetto istituzionale.
L 'insufficienza delle risorse economiche È questo uno dei problemi purtroppo noti ed apparentemente insolubile, stante il collegamento tra bilancio dello Stato e bilancio comunale, per cui i vincoli e la ri-
gidità del primo, condizionano in mod6 diretto il secondo impedendo ogni ipotesi di espansione. A questo occorre aggiungere tutta una serie di deleghe con trasferimento di competenze operate da organismi centrali e regionali non sostenute da un corrisppndente trasferimento delle risorse necessarie per il corretto svolgimento delle funzioni assegnate. Non c'è da meravigliarsi, quindi, che un notevole numero di comuni, specialmente meridionali, si siano trovati innanzi a notevoli difficoltà economiche e a gravi squilibri di bilancio, non sempre dovute ad una incapacitt di "buon governo" locale, ma il discorso non sarebbe completo se non si accennasse anche alla mancanza di un quadro di riferimento determinato e preciso. È ancora fresco, nella memoria di molti amministratori e funzionari, il ricordo della reiterata serie di decreti legge sulla finanza locale e la relativa conversione in legge con modificazioni nei mesi di agosto e di novembre, a gestione pressoché ultimata. Ne è derivato un quadro confuso e nebuloso che è stato acuito dal comportamento di molte amministrazioni di far "slittare" i bilanci al momento della conversione legislativa, ricorrendo ad un uso eccessivo dell'esercizio provvisorio, con conseguente rallentamento del momento dell'impegno della spesa, che ha comportato un lievitamento oltre misura della massa dei residui passivi, che ha avuto, quale effetto finale, una minore incisività dell'investimento pubblico all'interno del contesto economico. Ritornando alla legge di riforma, è più utile passare in rassegna i capisaldi, fissati dal legislatore, per il riassetto del regime della finanza locale. 19
Innanzitutto una considerazione di fondo. Non è stata accolta dal legislatore la proposta della lega delle Autonomie, sostenuta anche dall'ANCI di correlare, in percentuale, i trasferimenti statali dovuti agli enti locali, al gettito annuale delle entrate dello Stato: La tesi della Lega trovava giustificazione ell'esigenza di accordare certezza di risor se agli E.E11. e di creare condizioni di trasparenza finanziaria in modo che potesse essere conosciuta in anticipo, dal contribuente, la percentuale delle imposte dovute da devolversi alle istituzioni locali a lui più vicine. Al contrario viene invece stabilita, in termini generali, una correlazione tra autonomia finanziaria (fondata su risorse proprie e trasferte) e potestà impositiva autonoma, che andrà disciplinata in dettaglio con successiva legge dello Stato. Riguardo la capacità tributaria locale, che si esprime fondamentalmente nell'autonomia finanziaria, è previsto (art. 54 c. 3) il principio della revisione delle attuali norme tributarie, per assecondare il sistema fiscale ai principi autonomistici. Verranno pertanto superate tutte quelle disposizioni che limitano di fatto il potere degli enti locali di definire in modo autonomo la loro politica tariffaria: Molto più significative e decisamente più bilanciate, rispetto le precedenti stesure, sono le norme relative ai trasferimenti statali. Ai trasferimenti statali, determinati triennalmente e irriducibili sono assegnate due finalità (art. 54 e 5): garantire i servizi locali indispensabili; assicurare una perequata distribuzione delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalità locale. Spetterà invece alle entrate fiscali il finanziamento dei servizi ritenuti necessari ed
integrare la copertura finanziaria dei servizi pubblici indispensabili. Lo svolgimento di questi principi dovrà trovare attuazione in un decreto legislativo, per la cui delega al governo, è stato presentato, un apposito disegno di legge, attualmente all'esame del Senato. È possibile comunque, sin da ora, affer mare che il trasferimento ordinario, volto al finanziamento dei soli servizi indispensabili (probabilmente determinato a livello centrale in base a costi standard dei vari servizi), verrà verosirriilmente ridimensionato, e, pur rimanendo l'attuale tripartizione dei trasferimenti erariali (ordinario-perequativa-investimento), verranno notevolmente mutati i criteri di riparto nell'ambito dei singoli fondi ed il sistema di determinazione dei fondi complessivi. Altre novità di rilievo riguardano la costituzione di un fondo speciale per investimenti per OO.PP. in aree o situazioni definite dalla legge statale, e la garanzia, agli EE.LL., di trasferimenti compensativi, nel caso in cui le leggi statali o regionali prevedano la gratuità di servizi di c muni o provincie, ovvero fissino prezzi o tariffe inferiori al costo effettivo delle prestazioni. È previsto inoltre l'obbligo per le Regioni di provvedere alla copertura finanziaria degli oneri derivanti dall'esercizio di funzioni trasferite e delegate. In linea generale deve riconoscersi che sono stati compiuti nella redazione finale del testo dell'art. 54 progressi significativi in direzione di un rapporto più equilibrato e corretto tra finanza locale ed ordinamento finanziario statale. Certamente sarebbe stato utile ed in qualche modo rassicurante stabilire con precisione che, in ordine ai contenuti dell'autonomia tributaria, i cittadini concorrono al finanziamento delle spese pubbliche locali, attra-
verso tributi collegati alla loro capacità contributiva anziché la formula ibrida del comma 8, per cui gli EE.LL. fissano tariffe e corrispettivi a carico degli utenti, anche in modo non generalizzato (ad esempio per categorie professionali con i conseguenti problemi già sollevati in sede diiCIAP). Infine la legge pone, ma lascia aperta a tutte le soluzioni, la questione di fondo per cui da un lato occorre assicurare ai cittadini i servizi indispensabili e dall'altro occorre ripartire i contributi erariali in base a criteri obiettivi che tengano conto della popolazione, del territorio e delle condizioni sociali, ed il problema emerge in tutta la sua portata se si considera che le combinazioni di "inputs" attraverso le quali i servizi pubblici locali sono forniti, sono largamente differenziate sul territorio anche in relazione alla stessa fascia dimensionale
L'inadeguatezza del sistema istituzionale Se è vero che la ristrettezza dei confini amministrativi, il frazionamento dell'azione di governo, l'insufficienza delle risorse, hanno costituito dei limiti oggettivi ad una efficiente gestione del territorio, è anche vero che gli EE.LL. sono stati costretti ad operare all'interno di un quadro di riferimento istituzionale inadeguato alle nuove funzioni e ai nuovi compiti assegnati. È lecito affermare che dall'inizio degli anni Settanta, le profonde modificazioni della struttura economica e dei mercati, le più ampie interazioni tra settori economici, le crescenti esigenze di reti infrastrutturali a sostegno dello sviluppo delle attività economiche, hanno attribuito alle Amministrazioni locali non soltanto diverse competenze funzionali, ma hanno ri-
chiesto diverse capacità gestionali di tipo imprenditoriale che, non soltanto hanno trovato quasi del tutto impreparate le strutture ed i funzionari, ma anche inadeguate le procedure, gli strumenti, le tecniche, a causa di un ordinamento istituzionale che è rimasto ancorato al vecchio ruolo dell'inizio del secolo, di tipo "notarile", con qualche puntata sul terreno dell'assistenza , ma con minime interazioni con i processi economici (4). La 142, pur con le limitazioni accennate, ha individuato alcuni stnimenti e correttivi per una diversa gestione del territorio; qui si limiterà la riflessione al nuovo ruolo assunto dalle provincie e alla nuova configurazione dei servizi pubblici, mentre in un successivo capitolo verranno esaminati i processi di riorganizzazione a cui sono chiamati gli EE.LL per adeguare la propria struttura ai nuovi principi posti dalla riforma. Il discorso sul diverso ruolo che il legislatore ha disegnato per la provincia non può prendere spunto che dalle molteplici competenze programmatorie assegnate, tra cui, un ruolo preminente è assunto dalla programmazione urbanistica che si esplica nella redazione del piano territoriale di coordinamento, per la cui formazione la provincia dovrà avvalersi del concorso dei comuni e della regione per le diverse competenze. È da ritenere plausibile che tale piano, essendo destinato a determinare gli indirizzi generali di assetto del territorio, finirà col condizionare strettamente lo sviluppo socio-economico e l'equilibrio ambientale di tutta l'area provinciale. Ancora in materia urbanistica, alla provincia sono attribuite le funzioni di approvazione degli strumenti urbanistici comunali, anche se, a ben vedere, non si tratta di 21
una competenza del tutto nuova in quanto molte provincie vi provvedono già per delega regionale. Il ruolo programmatorio non si esaurisce nell'ambito urbanistico, ma si estende a quello socio-economico attraverso l'elaborazione dei programmi pluriennali, sia di carattere generale che settoriale, recuperando ed assegnando alla provincia quel ruolo di ente intermedio, che costituisce il riferimento privilegiato del circuito programmatorio regionale. Dovrebbe infatti realizzarsi un sistema di trasmissione che, per un verso, trasferisca a livello regionale le esigenze programmatorie formulate in sede locale, e, dall'altro, consenta la partecipazione dei diversi livelli di governo infraregionali all'attuazione della programmazione stessa. Le riserve a questo disegno sono state gi espresse nella parte introduttiva a cui si rinvia, qui occorre, per completezza, por re l'attenzione alle diverse ed innovative funzioni amministrative assegnate alla provincia dall'art. 14. Tra queste è opportuno sottolineare quella indicata come ultima nell'elenco dell'articolato di legge, ma che potrebbe rappresentare un settore di impegno notevole e di grande importanza: "raccolta ed elaborazione dati e assistenza tecnico-amministrativa agli EE.LL.". Particolarmente nel campo della raccolta ed elaborazione dati, si èra sentita l'esigenza di creare un livello di governo che si offrisse come "tavolo", attorno cui poter effettuare un vero e proprio censimento della domanda di informatizzazione proveniente dagli EE.LL. e, dall'altro, delineare strategie di risposta, in modo da rendere minimi i sovradimensionamenti di apparecchiature e l'accrescersi del numero delle incompatibilità fra sistemi già esistenti. 22
Riguardo l'assistenza tecnico-amministrativa agli EE.LL., già nel1983 (art. 11 L. 131/83) fu inserito, nel primo provvedimento sulla finanza locale, una norma di analogo contenuto e c'è da augurarsi che, al contrario di quanto avvenuto negli ultimi sette anni, si possa affermare questo ruolo delle provincie che già allora, erano state stimolate a far proprio. Delle altre funzioni elencate nell'art. 14, non si può non osservare che da un lato sono proprie del livello comunale (smaltimenti rifiuti) o di quello regionale (difesa del suolo-tutela dell'ambiente) per cui saranno necessarie leggi regionali di ritaglio di competenze, così come saranno necessarie leggi dello Stato volte ad unificare e razionalizzare per materia competenze oggi eccessivamente parcellizzate in tema di istruzione secondaria ed artistica, edilizia scolastica e formazione professionale. Come già si è visto in tema di aree metropolitane, anche qui si verifica la concor renza di competenze e non sembra che la formula indicata nel primo comma dell'art. 14 "spettano alla provincia le funzioni che interessano vaste zone intercomunali", possa costituire un preciso punto di riferimento per il legislatore regionale. Si rendono pertanto necessarie soluzioni atte ad evitare conflittualità tra i due Enti, che operano entrambi sul territorio e spesso in materie che coincidono o si integrano. Una soluzione è offerta dallo stesso legislatore al capo VIII che espressamente prevede la possibilità di forme di collaborazione e cooperazione tra comuni e provincie. È possibile allora, indicare nel metodo della programmazione coniugato alle necessarie "intese" con i Comuni le direttrici di intervento della nuova provincia. Cer-
tamente nella fase attuativa potranno sorgere notevoli difficoltà e spinte centrifughe, magari alla luce del tanto agognato principio autonomistico velato da più o meno celati interessi di questo o quel partito, per cui saranno necessarie opportune ricomposizioni, per le quali potrà essere decisivo lo strumento dell'accordo di programma, che si è già avuto modo di illustrare. Al volto nuovo e alle potenzialità elevatissime della provincia, che andranno opportunamente coordinate in sede regionale, si accompagna un diverso ed in parte inedito sistema di gestione dei servizi pubblici locali, certamente più consono al ruolo centrale che gli EE.LL. vanno svolgendo sulla spinta. di una domanda sociale sempre più crescente ed avanzata. In linea con la propria natura istituzionale di legge cornice, la "142" ha demandato, in conformità all'art. 43 Costituzione, ad una successiva legge statale, l'individuazione dei servizi da riservare in via esclusiva ai 'comuni e alle province e un disegno di legge di iniziativa governativa in tal senso è già all'esame in sede referente della Prima Commissione Affari Costituzionali del Senato (A.S. 750). L'attenzione del legislatore è stata posta, invece, nell'individuare le condizioni per il ricorso alle varie forme di gestione di servizi pubblici ed a riguardo al quadro già esistente sono state aggiunte due formule del tutto inedite: l'istituzione e la società per azioni. La prima trova la sua ragione d'essere nell'esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale e la seconda, a prevalente capitale pubblico, qualora, per la natura del servizio da erogare, si rende opportuna la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Rinviando ad un momento successivo l'a-
nalisi di dettaglio della S.p.a. comunale, è interessante sottolineare le non poche novità che hanno investito la tradizionale azienda speciale, alla quale viene finalmente conferita personalità giuridica ed autonomia statutaria ed imprenditoriale per la gestione di servizi di notevole rilevanza economica. Carattere innovativo assume anche l'organizzazione interna dell'azienda la quale potrà avvalersi di un consiglio di ammimstrazione presieduto dal presidente e coadiuvato dal direttore al quale compete la responsabilità gestionale. Non soltanto dalla lettura del testo legislativo emerge con chiarezza un "favor" verso questa forma gestionale, ma sembra anche confermato, dal disegno di legge in corso di esame, il ricorso alla azienda speciale come forma istituzionale per la gestione dei servizi pubblici, con l'ovvia conseguenza che verrebbe conferita una posizione residuale alle attuali e frequenti gestioni in economia. All'azienda speciale così come all'istituzione è imposto l'obbligo del pareggio del bilancio da perseguire attraverso l'equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i trasferimenti. Da un punto di vista economico può essere considerato un assurdo equiparare i ricavi ai trasferimenti rappresentando questi ultimi, non tanto dei proventi derivanti da una cessione di beni o servizi, quanto, una variazione incrementativa della sostanza patrimoniale derivante da risorse esterne. La "ratio" della norma, porta invece ad una diversa lettura, per cui occorre fare riferimento più al carattere pubblicistico dell'azienda, per cui tutte le entrate, qualunque sia la natura e la provenienza concorrano al pareggio finanziario, che alla natura economico-aziendale della stessa. 23
Piuttosto occorre interpretare esattamente l'espressione "hanno l'obbligo del pareggio del bilancio". È evidente che questa costituisce una condizione di minimo (al di sotto della quale si incorre nelle responsabilità gestionali), e che l'espressione ha comunque una valenza diversa secondo il tipo di azienda. È indubbio che il pareggio costituirt un obiettivo "massimo" per le aziende dei trasporti o di erogazione dell'acqua potabile, tradizionalmente deficitarie. Costituiri invece un "cofitrosenso", al concetto di autonomia imprenditoriale e gestionale, per le aziende del gas e di energia elettrica, considerate da sempre, come settori di alti profitti e di notevoli utili. Infine, come preannunciato, un cenno alla S.p.a. comunale. È indubbio che le S.p.a. comunali, prerogativa esclusiva dei grandi comuni, hanno costituito una eccezione alle forme tradizionali di gestione dei pubblici servizi. Infatti anche prima della "142" (ma soltanto con la "142" questa forma gestionale è stata formalmente esplicitata e normata) i comuni potevano partecipare a società azionarie in forza dell'art. 98 TU 383/34, relativo all'acquisto da parte dei Comuni di" azioni industriali" e dell'art. 26 TU 2578/25, sull'esercizio in concessione dei servizi pubblici. Si trattava però di norme che, per il tempo in cui furono emanate, non potevano più costituire un valido riferimento legislativo per la stessa approssimazione degli istituti giuridici e tutto questo si sostanziava in una genericità della formula e nella mancanza di precise procedùre. È stato compito della giurisprudenza amministrativa sopperire alle lacune legislative. Tra le più recenti decisioni ricordiamo la 24
sentenza C.d.S. n. 370/90 che ha confermato la possibilità per i comuni di acquistare partecipazioni azionarie, in ragione di una capacità giuridica di cui sono titolari, corrispondente a quella di ogni altro soggetto dell'ordinamento che sia persona giuridica. Stabilito il principio, il giudice amministrativo è intervenuto a stabilire i limiti dell'esercizio. Così il C.d.S. con dec. 374/90 ha affermato che la partecipazione azionaria del Comune deve essere riVestita di particolari cautele e rappresentare il risultato di una adeguata ponderazione di tutti gli interessi coinvolti da tale scelta, non ultima la convenienza economica. Infine il Tar veneto con sent. 152/82 ha stabilito il principio che è precluso all'Ente pubblico costituire una S.p.a., quando la legge offra, per il perseguimento delle finalità soltanto strumenti di diritto pubblico. Questi limiti devono ritenersi ancora validi, anche alla luce dell'art. 23, che ne pone di ulteriori. L'art. 23, infatti, stabilisce che la società deve avere prevalente capitale pubblico e detenere quindi la quota di maggiorazione. Tale quota non potrà comunque raggiungere la totalità del capitale, sia per la consegi.ente assunzione di una responsabilità illimitata, che in tale situazione si accompagna, sia soprattutto per il divieto edittale che obbliga il comune a partecipare necessariamente con altri soggetti pubblici o privati. È plausibile ritenere che l'effettiva costituzione di S.p.a. da parte dei comuni, possa trovare, al momento attuativo, degli ostacoli, da un lato nel reperimento di un management veramente qualificato (se non ricorrendo a formule di collaborazione esterna) e dall'altro nelle resistenze dei privati ad intervenire con partecipazioni a-
zionarie, in qualità di soci di minoranza, senza responsabilità diretta ai massimi vertici. Sarà necessario elaborare raffinati meccanismi statutari che, da un lato, assicurino all'ente pubblico capacità di osservazione, controllo e direzione e, dall'altro, riservino agli azionisti privati, possibilità di partecipazione alla strategia della società, ottenendosi così una simbiosi tra pubblico e privato che valorizzi gli elementi positivi propri di entrambe le parti. LA RIORGANIZZAZIONE DELLE STRU1TURE cOMUNALI
In questo terzo paragrafo si cercherà di delineare, alcune linee di approccio ai notevoli e differenti problemi di riorganizzazione che gli EE.LL. dovranno affrontare a seguito del varo della "142", senza alcuna pretesa esaustiva o di risolvere gli irìnumerevoli problemi strutturali che caratterizzano il variegato mondo delle autonomie. Si tenterà, invece, di fornire delle prime valutazioni di massima, puramente orientative, in ordine ad alcuni aspetti della potestà statutaria, accordata ai comuni, in tema di organi, trasparenza amministrativa, partecipazione, organizzazione burocratica e gestionale, personale. È noto come l'art. 4 abbia assegnato autonomia statutaria per tutte le materie ed istituti richiamati dal legislatore nel dettato legislativo, accordando una vera e propria apertura di credito legislativo all'ente locale. Apertura di credito legislativo che si concretizza nella possibilità, per quest'ultimo, di emanare norme subprimarie, equiordinate alle norme primarie dello Stato, trovando la potestà. statutaria limiti nei principi fissati nell'ordinamento statale con legge o atto normativo equiparato, con
possibilità comunque di integrarli o specificarli nel contenuto.
Gli organi Un settore particolarmente importante di articolazione dell'autonomia statutaria attiene alla organizzazione degli organi. Respingendo le tesi di coloro che sostenevano una riduzione degli organi, è stata mantenuta la tripartizione tradizionale (consiglio-giunta-sindaco), mentre è stata operata, in linea con una prassi che si è andata consolidando nel tempo, una di-. versa e più funzionale distribuzione delle funzioni e delle competenze, che si sostanzia nella centralità della gestione corrente in capo alla giunta. Il consiglio comunale è stato così liberato dalle funzioni amministrative ordinarie, recuperando invece una funzione, più rilevante, di indirizzo, programmazione e controllo. In un contesto normativo reso senz'altro più agevole dalle precise competenze dei diversi organi, (per cui non sarà più necessario ricorrere fino all'abuso al deliberato d'urgenza od impegnarsi in defati-, ganti sedute consiiari di ratifica degli atti di giunta, spesso già definiti, tali da esautorare il consiglio stesso), le formule organizzative assumeranno configurazioni diverse, innanzitutto in relazione alla di.mensione demografica. Nei comuni di minori dimensioni, la tripartizione legislativa è sufficiente e le norme statutarie potranno limitarsi a regolare il sistema delle deleghe e delle attribuzioni agli amministratori comunali, sulla falsariga delle norme preesistenti. Negli enti di maggiore dimensione si potrebbe individuare un diverso sistema òrganizzativo che, da un lato, garantisca mag-
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giore rilevanza esterna agli assessorati e, dall'altro, amplii il numero degli organi subcomunali dotati di precise competenze, in grado di impegnare l'Ente verso terzi. La prima ipotesi di tipo "dicasteriale", accrescerebbe la competenza esterna degli assessori e lascerebbe il coordinamento tra assessorati alla giunta, che verrebbe così ad assumere un carattere tecnico-politico. All'interno della giunta potrebbe essere prevista una articolazione interna, (sul tipo dei comitati interministeriali), tra assessori con funzioni affini e presieduta dal Sindaco. Questa articolazione trova fondamento nella prassi, ormai consolidata, del rapporto diretto tra assessore e dirigenti dell'assessorato con scavalcamento della segreteria generale, la quale, invece, in relazione al nuovo carattere, eminentemente politico della giunta, recupererebbe, nell'ipotesi proposta, il ruolo di coordinamento del diverso operare degli assessorati. La seconda ipotesi riguarderebbe l'ampliamento, nei grandi comuni, degli organi con competenze esterne che potrebbero essere individuati oltre agli assessorati, nelle commissioni consiliari e negli organi di decentramento territoriale. Naturalmente a questi organi andrebbero attribuite competenze precise, nell'ambito di delibere quadro consiliari, con finalità di coordinamento soprattutto finanziario. Al fine di rendere effettivo il ruolo del consiglio di indirizzo, programmazione e controllo potrebbero essere individuati organi interni con funzioni di controllo-conoscenza e controllo-direzione 5. Il primo dovrebbe provvedere all'acquisizione di dati e notizie sullo stato di attuazione dei programmi approvati, onde consentire all'organo assembleare, oltre al sindacato politico sull'attività dell'ese26
cutivo, la verifica sul piano delle realizzazioni concrete, delle scelte programmatiche effettuate ed il loro eventuale aggiornamento. Il secondo dovrebbe seguire lo svolgimento delle singole attività amministrative, al fine di promuoverne l'efficienza e l'efficacia in forme comportanti coinvolgimento e corresponsabilità degli amministratori delegati e dei dirigenti responsabili. Nel principio che agli organi elettivi spettano i poteri di indirizzo e controllo ed ai dirigenti la gestione amministrativa, compete allo Statuto determinare gli atti di quest'ultimi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno e non siano riservati, dalla legge, agli organi di governo. Sulla falsariga di quanto avviene nello Stato e nelle Regioni è possibile prevedere in capo ai dirigenti l'emanazione di atti esecutivi di provvedimenti-quadro adottati dal consiglio o dalla giunta, ed ancora la possibilità di emettere ordinanze di liquidazione e pagamento di spese nei limiti di competenza e valore, statualmente determinati. Ai dirigenti potranno essere attribuiti tutti quegli atti finali, oggi di spettanza dell'organo monocratico sindaco, frutto di una discrezionalità tecnica operata da una apposita commissione comunale: autorizzazioni, licenze, concessioni, etc. Ovviamente quelle indicate sono soltanto alcune delle formule organizzatorie ipotizzabili. Ogni Ente in relazione alle proprie esigenze e dimensioni provvederà a determinare le formule più congeniali che, comunque, dovrebbero tutte essere volte da un alto, ad accrescere la capacità dell'Ente di formulare obiettivi, ed indirizzi razionali e coerenti con le risorse disponibili e dall'altro forme snelle di controllo e di verifica dei programmi, in gra-
do di misurare con prontezza, òltre la corrispondenza interna ai principi di legittimità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione politico-amministrativa.
L 'accesso alle informazioni Altro vasto settore in cui si esplica l'autonomia statutaria attiene all'accesso alle informazioni e alla partecipazione degli interessati all'attività provvedimentale. In tema di accesso alle informazioni, il dispositivo della legge è sufficientemente preciso e più articolato dall'art. 25 L. 8 16/85 in quanto prevede la possibilità non solo per il cittadino, ma anche per enti, associazioni, organismi di volontanato di ottenere copia degli atti, di essere informati sullo stato dei procedimenti e di accedere, in via generale, alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione. Inoltre è affermato con chiarezza che tutti gli atti della amministrazione locale sono pubblici, ad eccezione di quelli nservati per legge o quelli la cui diffusione è vietata, temporaneamente dal sindaco perché pregiudicano il diritto alla riservatezza delle persone, gruppi o imprese (art. 7 - 3 cornma). ° Stante la chiarezza del testo e l'esperienza acquisita per la redazione del regolamento previsto dalla L. 8 17/85, non dovrebbero sorgere particolari difficoltà nella compilazione dei nuovi regolamenti e nella redazione delle formule statutarie. Al contrario le difficoltà maggiori attengono al superamento di una certa forma "mentis" della burocrazia, soprattutto se questa si è formata ai principi del segreto d'ufficio, generalmente protetto (art. 326 c.p.) e della riservatezza garantita dall'art. 15 TU 3.1.1957 n. 3. L'art. 15 prevede infatti il divieto di dare informazioni e, dall'altro,
l'obbligo di fornirle, ad eccezioene di chi abbia un interesse qualificato 6 Questa concezione è stata poi articolata da elaborazioni della giurisprudenza amministrativa che hanno confermato un orientamento restrittivo in tema di accesso agli atti amministrativi, solo in parte mitigato dalla previsione di un generico diritto dell'interessato (C.d.S. sezione VI 22.4.1969 n. 205) o di controinteressati al provvedimento (TAR Abruzzo 14.10.1977 n. 50). Occorre quindi rifondare una nuova cultura amministrativa, superando lo stato di tradizionale riservatezza dell'Amministrazione, promuovendo le forme più opportune perché l'operato della Pubblica Amministrazione sia volto ad una tendenziale pubblicità che meglio si adatta ai parametri costituzionali dell'imparzialità e buon andamento (art. 97 Costituzione), degradando il segreto ad ipotesi residuale posta a tutela di interessi costituzionalmente protetti 7.
La partecipazione al procedimento Trasparenza come obiettivo della PA., implica, come corollario al diritto di accesso all'informazione, la partecipazione del cittadino alle varie fasi del procedimento, il controllo democratico sul provvedimento, la motivazione del provvedimento finale. Il 2° comma dell'art. 6 della legge di rifor ma stabilisce che "nel procedimento relativo alla adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive, devono essere previste forme di partecipazione degli interessati secondo le modalità stabilite dello statuto". Il problema della partecipazione del soggetto o dei soggetti interessati al procedimento amministrativo costituisce uno dei 27
nodi centrali della tutela del privato nei confronti della Pubblica Amministrazione "iure imperii". È noto come l'attività autoritativa della pubblica amministrazione impone, a fronte del perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico, la concorrente compressione delle posizioni soggettive. Tale compressione dovrebbe avvenire sulla base di una attività amministrativa discrezionale. improntata al principio di imparzialità e buon andamento, la cui patologia è censurabile in sede giurisdizionale. In relazione alla stretta connessione tra attività provvedimentale e procedurale è evidente come la prima, al pari della seconda, implichi un'adeguata presenza del soggetto toccato dal provvedimento. Se da un punto di vista concettuale è chiaro e di assoluta evidenza la necessità del contraddittorio, dal lato dell'ordinamento normativo, si registra "ante 142" un pressoché vuòto normativo se si eccettua l'art. 25 L. 816/85, applicabile alle sole amministrazioni locali. È stato compito, ancora una volta della giurisprudenza amministrativa colmare il vuoto normativo ed elaborare la teoria del giusto procedimento. Così la corte costituzionale con sentenza n. 13 del 1962 ha stabilito il principio che è lecito imporre sacrifici o limitazioni alla posizione soggettiva dei privati, solo dopo che siano stati svolti i normali accertamenti da parte della Pubblica Amministrazione e dopo aver posto i privati nelle condizioni di esprimere le proprie valutazioni sia "uti singuli" sia "uti civis". Ovviamente della congrua composizione ditali accertamenti e valutazioni si deve trovare traccia nella motivazione provvedimentale. Alla sentenza della Corte non è però, seguito in forza della mancata costituzio-
ci
nalizzazione del principio una applicazione generale, ad eccezione dei casi in cui il contraddittorio risultava puntualmente disciplinato dalla legge. Ora, con l'espressa previsione del 2° comma dellart. 6, gli Enti locali dovranno attualizzare nella formula statutaria il principio del giusto procedimento elaborato dalla Corte Costituzionale, disponendo l'estensione del principio del contraddittorio a tutte le posizioni giuridiche private, sia sotto forma di limitazioni, vincoli, oblazioni, restrizioni, compressioni di diritti in genere. Ovviamente il dettato normativo dell'art. 6, deve essere inteso nella forma lata di situazioni soggettive che si sostanziano in diritti soggettivi ed interessi legittimi, così come del resto confermato dal giudice amministrativo. Il problema potrebbe, a questo punto, dirsi concluso, in quanto la linea adottata dal legislatore della 142 e quella già indicata con puntualità dal giudice amministrativo, per cui il contraddittorio si pone come elemento di legittimità necessaria per il procedimento amministrativo soltanto laddove trattasi di situazioni di diritti soggettivi o interessi legittimi mentre è escluso in mancanza ditali presupposti. Questa conclusione, almeno ad avviso di chi scrive, non è soddisfacente. L'"audire partem", non costituisce infatti solo espressione di civiltà giuridica, ma premessa per la determinazione dell'interesse pubblico, per cui deve erigersi a principio generale del procedimento amministrativo. Si potrebbe, e forse non a torto, obiettare che l'obbligo di una previsione generale del contraddittorio rallenterebbe oltre modo la già lenta azione amministrativa, rendendo vano l'obiettivo dell'efficienza. Una soluzione potrebbe però essere indi-
viduata nel ribaltamento della concezione del provvedimento amministrativo, visto non più come espressione autoritativa della Pubblica Amministrazione, ma come punto di incontro del potere della Pubblica Amministrazione con il diritto del cittadino, ovvero come composizione dei contrapposti interessi pubblici e privati, ovvero come rinnovato luogo di composizione del perenne conflitto autorità e libertà. Questa nuova concezione ha trovato puntuale conferma nella L. 7 agosto 1990 n. 241 intitolata "Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi" che costituisce legge di principio a cui debbono attenersi le regioni nella disciplina organizzatoria dei propri ordinamenti. Se le norme sul diritto di accesso ai documenti amministrativi, previste al capo V, entreranno in vigore soltanto dopo l'emanazione da parte del governo di uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità di esercizio ed i casi di esclusione del diritto, in relazione alle materie stabilite dalla legge stessa, le norme sul procedimento amministrativo sono già esecutive e molte sono le novità e tutte di grande rilievo. In relazione al discorso svolto e alle esigenze amministrative dei Comuni citiamo: l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di determinare per ciascun tipo di procedimento, il termine entro cui deve concludersi (art. 2); l'obbligo della motivazione del provvedimento con l'indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione (art. 3); la determinazione del responsabile del procedimento, il cui nominativo deve essere comunicato a chiunque vi abbia interesse (art. 5);
l'obbligo di dare comunicazione scritta dell'avvio al procedimento (art. 7); la possibilità per qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati, nonché per le associazioni o per comitati, portatori di interessi diffusi, di partecipare al procedimento qualora possano subire un pregiudizio dalla decisione finale (art. 9). Ma la norma di maggiore portata è senz'altro quella indicata all'art. 11 che consente, per i soli provvedimenti discrezionali, di addivenire ad accordi con gli interessati circa il contenuto finale, per cui sembra finalmente scardinato il principio della P.A. in posizione sovraordinata ed il provvedimento come espressione naturale ditale sovraordinarietà, che aveva fino ad ora caratterizzato il rapporto amministrativo. In una concezione più moderna ed adeguata il rapporto è configurato su un piano di parità di tipo contrattuale cosicché a tali accordi si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti (art. 11 - 2° conima). Trattasi dunque di un nuovo e diverso negozio giuridico che assomma in sé i caratteri della libera contrattazione delle parti circa il contenuto (pur nel rispetto del pubblico interesse) e le forme di tutela e di controllo proprie degli atti amministrativi tout court. Ovviamente la norma necessita di ulteriori e più approfondite analisi che verranno effettuate nelle sedi competenti, qui occorre segnalare, in una logica di maggiore trasparenza dell'attività pubblica, la nuova versione dell'art. 15 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3 prevista dall'art. 28, per cui il pubblico impiegato nel principio del mantenimento del segreto di ufficio per gli atti in corso o conclusi ha la possibilità di rilasciare atti o documenti secon29
do le modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Per gli E.E.L.L. questa norma va raccordata da un lato con la regolamentazione degli atti e documenti di cui al 2° comma dell'art.4 e dall'altro con l'art. 51 L. 142/90 circa l'organizzazione degli uffici e del personale in quanto con l'abrogazione quasi totale del T.U. 3/3/1934 n. 383, la norma di riferimento circa lo stato giuridico del personale degli E.E.L.L., fin tanto che non si sarà provveduto alla normativa regolamentare è proprio il T.U. 10/1/1957 n 3 in materia di impiegati civili dello Stato. In conclusione, anche in tema di partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo, si impone un diverso atteggiamento mentale. Occorre uscire fuori dagli schemi convenzionali e tradizionali, anche come sono stati insegnati da una certa dottrina per troppo tempo, ed il disposto dell'art. 6, opportunamente coordinato con le disposizioni della L. 241/90, costituisce già un buon punto di partenza nella nuova direzione. Seppure i temi posti dall'art. 4 necessitano di ulteriori approfondimenti, sia in termini di diritto che di modelli e procedure operative, è necessario, trattando di riorganizzazione degli Enti locali, accennare ai problemi più specifici posti dalla riforma in tema di organizzazione del personale e degli uffici e di controllo direzionale della gestione di bilancio. Il controllo digestione Si è già accennato al principio posto dall'art. 51, per cui spettano agli organi elettivi i poteri di indirizzo e controllo mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti, i quali sono direttamente responsabili, in relazione agli obiettivi dell'ente, della 30
correttezza amministrativa e dell'efficienza della gestione (art. 51 comma 4). Se quindi l'obiettivo della efficienza gestionale è comune a tutti gli enti, diverse possono essere le formule organizzatorie per il raggiungimento dell'obiettivo e tale diversificazione non può poggiare che sulla reale diversità dimensionale degli Enti. Così, per i comuni di piccolissime dimensioni (inferiori ai 500 abitanti), siti nelle zone interne o di montagna, la strada dell'efficienza gestionale non può passare che per le forme associative, previste al capo VIII, accelerando una tendenza già in atto che vede in queste zone una notevole presenza della forma consortile. Si è già accennato, parlando dei principi riformatori della finanza locale al diverso ruolo assegnato ai trasferimenti statali e come questi siano volti ad assicurare il finanziamento dei servizi indispensabili, mentre quelli necessari o aggiuntivi devono trovare copertura nelle entrate fiscali, in cui un ruolo centrale è affidato alle imposte proprie. Se quanto affermato corrisponde a verità è ragionevole ritenere che in presenza di una base fiscale ridotta e di un trasferimento ridimensionato e soltanto parzialmente recuperato da un intervento perequativo centrale, l'unica strada percorribile, per questi comuni, è quella, già indicata, dell'associazione e della cooperazione che dovrà diffondersi e passare dai servizi attuali (ufficio di segreteria, tecnico, ragioneria) alla gestione in forma consortile o associata di servizi collettivi e generalizzati (smaltimento rifiuti, trasporto scolastico, impianti di depurazione, etc.). Anche qui è necessario un salto qualitativo e culturale da parte della classe dirigente: occorre infatti superare la logica del "campanilismo" o del "colore politico"
e rapportarsi a grandezze economiche, alla determinazione effettiva dei costi e benefici dei servizi, per cui soltanto bacini di utenze maggiori e gestione consociata dei servizi possono assicurare una efficiente gestione economica e permettere il mantenimento di quei servizi alla popolazione che sono alla base dello stesso consenso politico. Se quindi per questi comuni la strada dell'efficienza è una strada a senso unico, in quanto è minata la stessa sopravvivenza istituzionale degli stessi, diverso è il caso dei restanti comuni e specialmente di quelli di dimensioni medie e grandi. In relazione a questi ultimi è possibile affermare che il tipo di gestione, ma forse più propriamente il tipo di cultura gestionale, finora attuato sia stato quello, peraltro lodevolissimo, del rispetto delle competenze e dell'adempimento della legittimità dell'atto. Si diceva comportamento lodevolissimo se non avesse portato la pubblica amministrazione a ripiegarsi su se stessa, ad organizzarsi in maniera verticale per essere la più garantista possibile, ma che, come conseguenza ha portato a perdere di vista quella che può definirsi la "missione aiendale": l'erogazione di servizi alla realtà sociale che circonda l'Ente. Non a caso si ha l'impressione sovente che quella sia in funzione di questa e non il contrario: l'utente come agente di disturbo, e il servizio come giustificazione dell'esistenza del funzionario. È pertanto necessario che all'interno della Pubblica Amministrazione si realizzi un vero e proprio salto culturale affinché si affermi un nuovo modello di comportamento amministrativo che, superando l'equivalenza di atto formale corretto - efficacia azione comunale, sia invece dominato
• dalla ricerca della migliore combinazione delle risorse disponibili per l'ottenimento di prestazione e servizi in qualità e quantità corrispondenti ai bisogni della comunità amministrativa 8 Questa cultura è tutta da costruire. Nessuno si illuda che questo salto qualitativo possa essere fatto da un giorno all'altro, perché non si tratta tanto di rompere con il passato quanto di un "quotidiano" cambiamento che richiede investimenti sul piano della volontà, della costanza e della pianificazione creativa. Non esistono poi ricette e formule magiche. È necessario allora procedere per tentativi, applicando e sperimentando nuove tecniche gestionali, avendo il coraggio di sbagliare e di fare dell'errore una vera e propria risorsa di gestione. Proprio per la mancanza di una verità depositata è possibile indicare una linea di azione, che non è detto che sia la più giusta e corretta, ma soltanto una delle tante praticabili, in tempi più o meno brevi e con le strutture esistenti. A riguardo, sembra possibile affermare, dall'esame della normativa finanziaria che negli ultimi anni si è succeduta, che la tecnica gestionale sottesa alla "ratio" legislativa sia quella della "Direzione per obiettivi" i cui principi sono stati introdotti negli anni Cinquanta. Negli EE.LL. è possibile adottare, con qualche correttivo, questa tecnica aziendale. Così gli obiettivi generali verranno definiti dall'organo politico nella relazione previsionale e programmatica, che dovrà contenere le linee di orientamento politico dell'amministrazione, nell'ambito delle quali dovranno essere riportate tutte le decisioni, affinché siano coerenti con l'indirizzo generale. Spetterà invece all'organo burocratico ed 31
deve investire direttamente le modalità di gestione delle risorse, di tutte le risorse, siano esse umane che strumentali. Un tale tipo di controllo è stato chiamato dagli operatori "controllo di gestione". Seguendo impostazioni ormai consolidate, esso può essere definito come l'attività di guida, tesa a fare in modo che l'azienda persegua gli obiettivi posti, seguendo criteri di efficacia e di efficienza nell'acquisizione e nell'impiego delle risorse o • Il controllo di gestione ha avuto ormai pieno riconoscimento in disposizioni giuridiche di carattere generale. Ricordiamo l'art. 22 del DPR 421/79 che prevede che al conto consuntivo degli EE.LL. sia allegata una relazione illustrativa "dalla quale risulti il significato amministrativo ed economico dei dati, ponendo in particolare evidenza i costi sostenuti e i risultati conseguiti per ciascun servizio, programma e progetto"; ed in tempi più recenti l'art. 30 del DPR 347/83, l'art. 27 del DPR 494/87 e soprattuttò l'art. i bis del DL 318/86. In linea molto schematica è possibile individuare le linee guida del sistema di si settori; controllo gestionale nelle seguenti: siano coerenti e chiari agli operatori i) determinazione per ciascun servizio dei che devono partecipare alla loro indiviseguenti centri di responsabilità principali: duazione e condividerli; centro di costo (indistintamente per siano realisitici, nel senso che devono tutti i servizi); essere proporziOnati alle risorse concrete centro di provento (entrate non deridell"Ente"; vanti da cessioni di beni e servizi); siano abbastanza elevati da presupporcentro di ricavo (per i servizi produttivi re un reale impegno, e nel contempo aba domanda individuale). bastanza ragionevoli, perché possano es2) individuazione per ogni centro di responsere conseguiti 9. sabilità delle quantità e valore dei fattori opeL'ultima fase è quella del controllo. Il rativi impiegati (input); delle quantità e valocontrollo, tipico atto dirigenziale, non dere dei servizi erogati (output); determinaziove essere limitato a che le operazioni prone del contributo offerto dall'attività al concedano nel modo più efficiente possibile, seguimento degli obiettivi (impatto). Il rapo che nei tempi intermedi siano conseporto input/output misura l'efficienza del guiti i risultati prestabiliti, ma il controllo
in particolar modo ai dirigenti, operare in coerenza con gli obiettivi da raggiungere nei diversi settori, per identificare prima ed organizzare poi i mezzi necessari per ottenere e controllare in ultimo il conseguimento dei risultati. L'identificazione dei mezzi passa attraverso tre momenti. raccolta dei dati essenziali del settore specifico, oppure di diversi servizi e settori a seconda dei casi; interpretazione di detti dati; chiarificazione ed individuazione degli obiettivi specifici. La raccolta ed interpretazione dei dati presuppongono la conoscenza della "cultura" dominante, il livello di autonomia dei settori, i vincoli di carattere normativo e finanziario, i vincoli gerarchici esistenti all'interno dell'ente, le procedure applicate, i carichi di lavoro, le caratteristiche degli utenti a cui il servizio si rivolge. Finita la raccolta ed interpretazione dei dati, si procede alla individuazione degli obiettivi. A riguardo è necessario che: gli obiettivi siano equilibrati tra i diver-
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centro, il rapporto output/impatto l'efficacia. Gli strumenti tecnico-contabili necessari per il controllo tanto preventivo che consuntivo in ogni centro sono il budget economico (attraverso il quale, sulla base degli obiettivi fissati, si programmano le attività da realizzare, nonché i fattori operativi da impiegare e le risorse finanziarie necessarie) e la contabilità analitica (per la determinazione sia dei costi dell'attività dei diversi centri, sia dei proventi che dei ricavi). Da questa brevissima illustrazione emerge come il sistema del controllo di gestione, implichi la tenuta di una regolare contabilità economica, quando, com'è noto, i comuni dispongono solo di una contabilità finanziaria. È da ritenere quindi che una profonda e radicale modifica dell'attuale sistema organizzativo sia possibile soltanto dopo l'introduzione, generalizzata, per legge, di una diversa contabilità. Ciò non di meno, è dato notare che gli enti medi e grandi per motivi fiscali hanno dovuto impostare una contabilità 'jure privatorum" per le loro attività commerciali e molti di essi hanno sperimentato il controllo di gestione, conseguendo significativi risultati gestionali ed un consistente risparmio di costi. Se tutto questo corrisponde a verità è anche vero che il dato di fatto da cui non si può prescindere è quello che non c'è ancora, a livello istituzionale, una contabilità generale di tipo economico ed in particolare dei costi e che non si può richiedere agli EE.LL. efficacia, efficienza e produttività, contando solo sulla buona volontà di funzionari ed amministratori, soprattutto in una realtà, come quella italiana, di oltre 5.000 piccoli comuni. Le considerazioni che precedono portano a concludere che il punto di partenza, per un diverso approccio organizzativo, deb-
ba essere ricercato più che nella contabilità generale di tipo economico, nella dotazione fissa di ogni comune. È data infatti facoltà ad ogni comune, anche a quello di piccole dimensioni, di conoscere e comprendere la realtà di fatto che lo compone ed a interrogarsi in merito, per la scelta di soluzioni più razionali. Un esempio può essere di aiuto i. Il comune di Belluno nel 1985 presentava un deficit di 1800 milioni, nel 1986 di 695 milioni, nel 1987 un avanzo di 850 milioni. Come è stato possibile passare nel giro di soli tre anni da un consistente deficit ad un significativo avanzo? La risposta va ricercata in una diversa logica di operare. Si è passati da un sistema in cui il bilancio veniva redatto su una base storica, incrementata di anno in anno ad una logica di recupero del significato politico dell'attività di bilancio attraverso una ricognizione dei processi di evoluzione dell'entrata e della spesa. Dalla ricostruzione analitica dei flussi finanziari si è proceduto a definire degli indicatori di efficienza e di efficacia, in grado di rapportare le quantità finanziarie ai livelli dei servizi prestati ed al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Dalla elaborazione analitica delle schede dei diversi settori e dal loro confronto sono emersi dati significativi. Così, ad esempio rapportando le schede del servizio TRRSU con quello delle licenze commerciali è emersa una evasione del 45%. Dall'analisi della scheda del servizio idrico, rapportando il quantitativo dell'acqua immessa nella rete con i consumi oggettivi, è risultata una perdita del 48%. Infine dall'analisi della scheda energia elettrica è stato possibile, attraverso una più razionale programmazione degli interventi manutentivi, un risparmio di 300 milioni. 33
Il risultato comunque più significativo raggiunto dall'Amministrazione bellunese è stato quello di aver trasformato il bilancio, da semplice atto formale di approvazione delle entrate e delle uscite, ad un processo continuo di responsabilità gestionale, con notevole ricaduta in termini di produttività e di migliore organizzazione del personale. Così è stato possibile elevare il premio di produttività da 350 a 420 milioni, con notevole gratificazione per il personale dipendente. L'esperimento del comune di Belluno non può essere considerato come una rigorosa applicazione del metodo del controllo di gestione, perché non è stata introdotta una contabilità analitica ed un vero e proprio budget economico. Si è trattato piuttosto di un processo di contenimento e riqualificazione della spesa operato attraverso una intelligente lettura dei dati fisici. Niente di trascendentale quindi, ma soltanto un esempio di buona amministrazione, che è stato possibile realizzare attraverso una conoscenza completa e critica della realtà comunale. Ma quante amministrazioni in Italia hanno adottato ed adottano, un sistema di buona amministrazione, come quello proposto? È possibile affermare che il livello su cui si attestano gli EE.LL. a proposito del controllo di gestione dei propri bilanci, sia talmente arretrato, che vi sia la necessità di aggredire il problema nella sua grossolanità lasciando ad una seconda fase l'elaborazione di strumenti raffinati e meglio mirati, rispetto ai singoli problemi specifici connessi alle varie attività economiche 12 Il sistema adottato dal comune di Belluno, per la sua semplicità ed efficacia, può pertanto assurgere a modello, almeno in34
questa fase, in attesa che il legislatore provveda a modificare il sistema attuale di contabilità degli EE.LL.
La gestione del personale Modelli e procedure organizzative non sono però sufficienti a di imprimere una vera e propria svolta alla riòrganizzazione degli EE.LL. se non si accompagnano ad un effettivo e diverso ruolo del personale dirigente e delle relazioni sindacali in complesso, al fine di restituire alle amministrazioni autonomia gestionale in tema di personale. Riguardo il primo aspetto, occorre che il dirigente sia posto nella condizione di poter effettivamente selezionare il personale, valutarne l'efficienza ed adottare gli eventuali atti sanzionatori e disciplinari. Così non è sufficiente attribuire al dirigente la presidenza delle commissioni di concorso, come previsto all'art. 51, se queste continuano ad essere gestite secondo le logiche di sempre. È necessario che le commissioni concorsuali siano formate da personale altamente qualificato ed esterno, ad eccezione del presidente, all'amministrazione, in modo da ridurre al minimo l'ingerenza politica nelle procedure selettive. In tale commissione, il dirigente rapprésenterebbe l'elemento di raccordo con l'Ente di riferimento, in grado di selezionare con obiettività il personale più adatto alla struttura nella quale dovrà operare. In questa logica, come corollario, andrebbero previste, nei prossimi accordi sul personale, quelle norme che estendono ai dirigenti la valutazione della produttività dei dipendenti rispetto a tutti i servizi e non soltanto a quelli "pilota". Nel nuovo spirito della legge di riforma
sono da considerarsi, ormai anacronistiche, le norme che attribuiscono al sindaco il potere di irrogare le sanzioni minori, quali la censura. Lo statuto dovrebbe pertanto prevedere l'attribuzione di tale sanzione al vertice burocratico e cioè al segretario, ovviamente attraverso una procedura caratterizzata dalla massima trasparenza, in cui sia assicurato il diritto al contraddittorio e alla legittima difesa delle ragioni del dipendente. Il nuovo ruolo delle funzioni dirigenziali dovrebbe essere inserito in una diversa cornice di relazioni sindacali. Oggi qualsiasi provvedimento attinente alle mobilità del personale, all'organizzazione del lavoro, agli orari, agli straordinari, all'organico e via dicendo, è oggetto di una apposita contrattazione decentrata, molto defatigante e dall'esito spesso compromissorio. È necessario pertanto ridurre la contrattazione ai principi e ai criteri di massima e lasciare alle singole amministrazioni, attraverso le proprie strutture direttive, la possibilità di poter gestire il personale in conformità alle proprie strutture ed esigenze, limitando l'onere buro-
cratico alla semplice comunicazione per l'acquisizione del relativo parere. Da tutte le considerazioni svolte in questa parte, emerge chiaro come l'effettiva applicazione della legge e la riorganizzazione degli EE.LL. richieda un ribaltamento degli attuali valori ed un diverso atteggiamento della struttura amministrativa. Ovviamente le risposte, come più volte sottolineato dovranno avvenire, in maniera coordinata e coerente, a diversi livelli, ma è indubbio che la classe dirigente locale è chiamata ad una prova di maturità, come finora non era mai stata richiesta. Una lettura attenta della storia della nostra democrazia testimonia come le forze istituzionali, nei momenti più difficili, hanno saputo offrire capacità di resistenza e di tenuta, ed è da ritenere plausibile che anche gli EE.LL. nel medio periodo, siano in grado di dare le risposte attese da tutti e per primi dai cittadini. È un auspicio ed un augurio insieme e se i risultati saranno possibili, lo saranno anche in virtù ai principi e alle direttive della "142", e questo è già molto.
Note
7
1
Vedi Andrea Piraino in ANCI n 5/90 pag. 26.
2
Vedi Roberto Mostacci, ANCI n 3/90.
L'accesso ai documenti amministrativi è ora regolato con la Legge 7 agosto 1990 n. 241. Michele Fazio "La direzione per obiettivi negli Enti Locali, in comuni d'Italia n 6190. 8
9
Ugo Marchese - Aree metropolitane in Italia - CEDAM 1989.
Michele Fazio v. infra.
3
10 Giuseppe Marcon in "Il controllo di gestione" Comuni d'Italia n. 12/89 pag. 1478.
Roberto Mostacci in ANCI n. 3/90 pag. 56. Francesco Staderini• L'autonomia statutaria degli enti locali nel Sistema costituzionale e nelle più recenti prospettive di riforma" in Nuova Rassegna n. 17-18-1989. 5
Ora sostituiti dall'art. 26 Legge 7 agosto 1990 n 241 vedi infra pag. 30. 6
Il Vedi atti del Convegno su "Un nuovo processo di bilancio per le valutazioni di produttività e per il controllo di gestione. L'espèrienza del Comune di Belluno" in comuni d'Italia n. 12— Dicembre 1989. 2 Gianclaudio Bresse "La sfida dell'efficienza come nuova dimensione della finanza locale" in Finanza locale n. 12/89 pag. 1607 e segg.
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I grandi interventi infrastrutturali tra governo centrale e amministrazioni locali di Fabio Angelico L'entrata in vigore della legge 142 apre a tutti i livelli istituzionali un periodo di intensa attività, indispensabile per renderne concretamente attuativi i principi ispiratori. Infatti, la legge è nella sostanza una 'legge quadro" che affida il reale compimento della riforma enunciata ad una serie di successive norme di carattere nazionale e regionale e ad atti amministrativi. In particolare gli elementi fondamentali per una reale determinazione del nuovo contesto istituzionale, saranno le delimitazioni delle aree metropolitane, gli statuti e i regolamenti che gli enti locali e provinciali si dovranno dare, nonché le attribuzioni di funzioni a livello comunale e provinciale che a livello regionale si provvederà a puntualizzare. LA RIFORMA ANNUNCIATA
Le grandi novità che sono state introdotte sia sul piano istituzionale che sul piano gestionale amministrativo, potranno infatti cominciare a concretizzarsi esclusivamente a valle di questi atti preliminari,, all'interno dei quali si giocano gran parte degli esiti effettivi della riforma varata. Si apre oggi in sdstanza un lungo periodo di adeguamento del sistema delle autonomie locali, alla ricerca di un effettivo punto di equilibrio dei poteri, delle fun36
zioni e dei compiti di gestione fra i diversi soggetti ad esso afferenti. Il nuovo sistema delle autonomie locali attende altri importanti provvedimenti di carattere normativo, connessi in particolare agli aspetti della finanza locale, nonché forme di cooperazione a tutti i livelli della pubblica amministrazione ai fini delhi determinazione delle condizioni di concerto operativo fra tutti i soggetti che operano sul territorio, indispensabili per assicurarne un suo corretto sviluppo in relazione all'evolversi delle specifiche esigenze di servizi espresse dalla collettività. La riforma annunciata è dunque tutta ancora da costruire, anche se le condizioni normative poste dalla 142 offrono un reale terreno sul quale è possibile coagulare gli sforzi di tutti verso una reale crescita della capacità di governo a livello locale più aderente all'attuale sviluppo socio-economico del Paese ed ai fabbisogni generali di servizi ad esso correlati. Se in particolare si pensa ai problemi delle grandi infrastrutturazioni del territorio, che necessitano per essere affrontati, vista la loro peculiare natura, della partecipazione delle strutture del gover no centrale a fianco di quelle esistenti a livello locale, appare evidente l'esigenza di garantire, fin dai primi passi del nuovo ordinamento le condizioni migliori
per avviare concretamente l'attuazione ditale cooperazione, nel rispetto delle autonomie di tutti i soggetti interessati al fine di meglio affrontare gli specifici fabbisogni espressi dal territorio. La esistente disaggregazione dei momenti decisionali (sia a livello centrale che locale, connessa alla realizzazione delle grandi infrastrutturazioni del territorio), unita agli ingenti capitali necessari per l'attuazione di interventi sul territorio predetto ed alle sempre minori diponibilità finanziarie pubbliche, evidenziano un terreno particolare, certamente non secondario, intorno al quale occorre individuare da subito formule operative che, previste a monte nelle prime fasi di attuazione della nuova legge sulle autonomie locali, possano concretamente assicurare un nuovo e più produttivo modo di operare in materia della Pubblica Amministrazione. In tale senso, non cogliere le opportunità di ripensamento complessivo del modo di agire in materia offerte dalla legge 142, senza stimolare al meglio il rapporto di cooperazione produttiva fra governo centralé e amministrazioni locali, in un periodo particolarmente critico per lo sviluppo del territorio quale quello che si sta attualmente vivendo, caratterizzato fra l'altro dalla prossima apertura europea e da una particolare attenzione doverosamente posta alla tutela ambientale (intorno alla quale si è peraltro parallelamente avviato con la recente legge n. 183/89 sulla difesa del suolo uno specifico precorso di sistematizzazione istituzionale anche esso tutto da costruire), può rappresentare non solo un'occasione persa, ma una più che significativa prospettiva di fallimento dell'azione pubblica sul territorio.
Su tali basi pertanto, per fornire un contributo alla riflessione propositiva da sviluppare, si esplorano una serie di nodi problematici di fondo, sul piano istituzionale, gestionale-amministrativo e finanziario, che devono necessariamente essere considerati nelle proprie potenzialità di soluzione, nella determinazione dei primi atti attuativi della legge n. 142. Nell'approccio a tali problemi appare di fondamentale importanza creare il massimo delle sinergie fra le diverse innovazioni normative oggi esistenti o in fieri sul tema del governo del territorio; ciò rappresenta infatti una condizione indispensabile per garantire una reale trasformazione del modo di operare sul territorio in piena sintonia con quanto richiesto da una società moderna e avanzata come la nostra. Per garantire tale ultima condizione appare necessaria una significativa maturazione della efficienza anche delle strutture centrali competenti in materia di ter ritorio: ad esse, in particolare nelle loro articolazioni territoriali, appare opportuno assegnare un ruolo strategico di collegamento fra governo centrale e amministrazioni locali sia sul piano conoscitivo che propositivo. A tale ultimo fine, dette strutture territoriali statali, ferme restando le rispettive competenze, dovrebbero sviluppare la propria azione in modo da assicurare, oltre all'espletamento delle funzioni tradizionali, l'erogazione di sevizi qualificati a supporto dello sviluppo locale (a sostegno delle amministrazioni locali e del più ampio concerto operativo fra i diversi soggetti pubblici e privati competenti in materia di territorio) all'interno del più ampio quadro pianificatorio e programmatorio di livello nazionale. 37
I PRINCIPALI PROBLEMI DA AFFRONTARE
Come già sottolineato, per realizzare in concreto una politica di infrastrutturazione del territorio in linea con le esigenze espresse dalla attuale realtà socio economica del paese, risulta indispensabile impostare logiche di azione complessive che presuppongano la cooperazione positiva di tutti i livelli istituzionali operanti in materia di territorio. Il momento centrale di un'organica azione pubblica a supporto dello sviluppo del territorio è rappresentato da una significativa trasformazione del modello comportamentale complessivo degli ultimi decenni, prevalentemente concretizzatosi in una serie di interventi straordinari di tamponamento delle emergenze verificatesi, nella totale assenza di una reale politica di infrastru ttu razione del territorio finalizzata alla prevenzione dei problemi, e fondata su una attenta valutazione dei fabbisogni e dei rapporti causa-effetto associabii agli interventi posti in essere per il loro soddisfacimento. È evidente che una cooperazione positiva delle diverse competenze locali e centrali in materia di sviluppo del territorio (comprendente cioè la sua trasformazione, la sua salvaguardia e la sua gestione), necessiti di disegni organici e di ampio respiro intorno ai quali coagulare il consenso dei diversi livelli istituzionali interessati. Tale condizione costituisce il presupposto di fordo per la definizione di idonee politiche di acquisizione delle risorse finanziarie pubbliche e/o private per la realizzazione degli interventi e per garantire la fattibilità degli stessi in tempi e con modalità in sintonia con le reali esigenze manifestate dalla collettività.
Le grandi aree problematiche che oggi manifestano un forte fabbisogno di intervento sono: - la gestione della risorsa idrica, - la tutela ambientale e la difesa del suolo; - le grandi reti di trasporto; - le grandi reti di distribuzione; - i servizi e le infrastrutture a supporto di una diversa "qualità' della vita" nell'ambito delle aree metropolitane e/o comunque a livello urbano. Appare evidente da tale schema come il complesso quadro di competenze oggi esistente in materia di assetto e trasformazione del territorio e la difficoltà sempre crescente di reperire risorse finanziarie adeguate alla portata dei problemi da affrontare e risolvere, rendano indispensabile determinare su tali aree problematiche una reale sinergia fra azione del governo centrale e istituzioni regionali e locali, in grado fra l'altro di determinare concretamente condizioni di cooperazione da parte del mondo imprenditoriale privato alla soluzione dei grandi problemi che connotano tali settori. Un concreto e positivo avvio dell'attuazione della legge 142 non può pertanto che confrontarsi in modo serio ed organico con quanto suesposto, dovendosi necessariamente individuare, all'interno delle autonomie sancite a livello locale, criteri operativi omogenei in materia di sviluppo e salvaguardia del territorio, tali da poter assicurare il più positivo ed equilibrato rapporto con l'azione del Governo centrale, e da poter trarre da tale rapporto il massimo livello di supporto per la concreta realizzazione di interventi integrati in risposta ai fabbisogni emergenti sui territori amministrativi. È pertanto nella individuazione delle for-
mule operative e dei modelli organizzativi da adottare per la più efficace ditali sinergie fra azione centrale e azione locale che vanno ricercate soluzioni concrete in grado di operare positivamente sul territorio, componendo i diversi interessi e le diverse competenze oggi esistenti in materia, nel rispetto delle autonomie decisionali dei singoli, determinando intorno ad interventi puntuali, ma comunque inseriti all'interno di azioni organiche e integrate per lo sviluppo del territorio, adeguati livelli di convenienza e di consenso generale. A tal fine è indispensabile ripercorrere brevemente i problemi operativi che occorre superare per potersi ricondurre ad una nuova logica di approccio all'infrastrutturazione del territorio quale quella prefigurata. In tal senso è opportuno mettere a fuoco i principali fattori che oggi connotano l'azione pubblica sul territorio: un quadro normativo incerto, complesso e sovrapposto che provoca un ampio frazionamento delle competenze in materia (Ministeri centrali, Regioni ed Enti locali); una generalizzata scarsa qualificazione delle strutture della Pubblica Amministrazione sia a livello centrale che locale; la determinazione di contesti operativi incertinelle regole attuative (tempi e procedure) che scoraggiano l'iniziativa privata a sostegno di quella pubblica; l'adozione - dell'intervento straordinario, cOnnotato da regole proprie in deroga a quelle ordinarie, e finalizzato nei fatti molto spesso esclusivamente ad un tamponamento fittizio di fabbisogni emergenti; l'assenza di una adeguata cultura e sensibilità sui problemi della gestione del patrimonio pubblico;
la determinazione di interventi, sia pur apparentemente validi a livello locale, spesso contrapposti negli effetti generali indotti a scala territoriale più ampia. Da tale quadro di riferimento consegue l'attuale impossibilità reale di operare concretamente in modo efficace in materia di grande infrastrutturazione del territorio, anche in considerazione della già sottolineata scarsezza di risorse finanziarie pubbliche oggi disponibili a tali fini. È evidente che in coerenza con quanto prima esposto, la ricerca di modelli operativi, organizzativi e di relazione fra i diversi soggetti pubblici e privati operanti sul territorio ai diversi livelli (centrale e locale), deve necessariamente porsi come obiettivo sostanziale la profonda trasformazione dei fattori problematici prima elencati. In tale linea, come già ricordato, la L. 142, pur delineando dei presupposti di base fondamentali, affida alla responsabilità operativa di tutti i soggetti in essa coinvolti il compito di individuare modalità e modelli organizzativo-comportamentali idonei a garantire una efficace azione sul territorio. Pertanto, la reale possibilità di dare corpo ad un nuovo modo di governare il processo di infrastrutturazione del territorio che faccia, dell'efficienza operativa e dell'efficacia i suoi cardini fondamentali, si incentra sugli specifici obiettivi che devono connotare l'interpretazione degli spazi operativi consentiti a ciascun dal nuovo contesto normativo, nel quale gioca un ruolo altrettanto importante una diversa, organica e ben finalizzata interpretazione di altri contesti normativi chiave dell'intero processo di sviluppo del territorio quali il D.P.R. 616/78 (decentramento regionale), la legge n. 431/85 (beni ambientali) e la legge n. 39
183/89 (difesa del suolo) ed i suoi atti conseguenti L'AZIONE DEL GOVERNO CENTRALE E DELLE AUTONOMIE LOCALI
Nell'attuale contesto economico e sociale del paese, a fronte di una costante crescita dei fabbisogni di infrastrutturazione del territorio, si è in presenza di una sempre minore disponibilità finanziaria pubblica. L'attuale articolato quadro di competenze pubbliche in materia di interventi sul territorio (Ministeri centrali, Regioni, Enti locali, Enti parapubblici), quasi sempre unito a logiche di azione diverse (sia sul piano tecnico e amministrativo che di valutazione dell'efficacia della spesa) e molto frazionate negli obiettivi perseguiti, provoca sul piano complessivo un uso non coordinato e non ottimale delle pur ingenti risorse pubbliche che ogni anno vengono impiegate in materia di opere pubbliche. In tal contesto al duplice scopo di incrementare la capacità di risposta ai crescenti fabbisogni di infrastrutturazione del territorio prima delineati, e di individuare formule operative e modelli organizzativi più idonei rispetto a quelli sin qui utilizzati, appare fondamentale orientare il complesso delle azioni sia a livello centrale che locale verso i seguenti obiettivi prioritari: a) assicurare il massimo livello di efficacia degli interventi sul territorio, attraverso: - una approfondita conoscenza, comune ai diversi soggetti chiamati ad operare in materia, continuamente aggiornata nel tempo (gestita, sulla base di standard omogenei e comuni per tutti, attraverso le più avanzate e collaudate tecnologie og40
gi utilizzabili) dei problemi del territorio, della spesa pubblica effettuata su di esso dai diversi soggetti e degli effetti delle azioni poste in essere sia su scala territoriale locale che ampia; - una attenta programmazione degli interventi all'interno di una logica di'prevenzione" dei problemi e non di tamponamento delle emergenze (avanzato in tal senso appare il disegno istituzionale avviato in materia di difesa del suolo con il piano di bacino della legge n. 183/89); - la determinazione di tempi di realizzazione e costi degli interventi certi e contenuti; una gestione più attenta delle opere già esistenti e dei servizi ad esse afferenti per garantirne la piena ed efficiente funzionalità: b) definire un modello di approccio ai problemi del territorio basato su un efficace sistema di relazioni e di confronto fra Governo centrale, i diversi livelli di autonomia locale, gli Enti parapubblici e il mondo imprenditoriale privato che consenta, attraverso l'impegno comune di tutti e nel rispetto dei diversi ruoli e interessi, di: - garantire da parte del Governo Centrale un organico disegno dell'azione di indirizzo, coordinamento complessivo e promozione dello sviluppo del territorio che deve necessariamente costituire il tessuto connettivo al quale devono correlarsi, con le proprie autonomie e specificità territoriali, i modelli di intervento a scala locale; - garantire alle autonomie locali ed alle Regioni di trovare nel contesto dell'azione centrale un ampio sostegno (di tipo promozionale nei confronti degli altri soggetti interessati sia pubblici e privati oltre che per quanto possibile finanzia-
rio) alle iniziative da esse avanzate, do di garantire un contesto operativo quando si collochino all'interno delle complessivo di "certezze" sul piano poliprincipali linee ispiratrici ditale azione; tico, tecnico ed economico e tale da conc) dotare il processo di infrastrutturaziosentire un effettivo superamento delle ne del territorio delle indispensabili ri- prevalenti logiche di continua emergensorse finanziarie attraverso: za e di straordinarietà che connotano a- l'ottimizzazione dei livelli di produtti- bitualmente l'azione pubblica in materia. vità della spesa pubblica da perseguire Tale necessità, fortemente avvertita a lisia attraverso un adeguato recupero di vello locale, risulta più che mai esaltata efficienza interna della Pubblica Ammini- anche a livello di governo centrale, sostrazione locale e centrale, sia nell'operaprattutto in connessione con l'esigenza re sul territorio attraverso interventi orga- improrogabile di assicurare un diverso linici determinati con il concerto delle di- vello di produttività della spesa pubblica verse competenze all'interno di attente in relazione ai pressanti problemi di risalogiche di panificazione e programmanamento dell'economia nazionale. zione della spesa; Il complesso quadro delle competenze - utilizzando le limitate risorse pubbliesistente in materia e la numerosità di che disponibili all'interno di ampi pro- strumenti e procedure previsti dall'attuagetti che presuppongano anche l'interle normativa, determina tuttavia notevoli vento di capitali privati; difficoltà nell'assicurare lo sviluppo di u- stimolando la partecipazione del capina azione pianificatoria del territorio e di tale privato, sia determinando regole del una programmazione dell'intervento gioco certe (sul piano dei tempi e delle pubblico che, abbracciando organicaprocedure) che adeguate politiche tarifmente i diversi livelli in cui necessariafarie in grado di garantire, nel rispetto mente occorre che essa si articoli, garandelle esigenze della collettività, un adetisca l'ottimizzazione e la valorizzazione guato interesse dell'investimento privato; dell'azione di tutti all'interno di logiche - provvedendo, attraverso una opportuintegrate. na gestione di quanto esistente che facProprio su tale punto pertanto occorre cia anche ricorso alla cooperazione priprovocare un significativo sforzo di omovata, a determinare condizioni di econo- geneizzazione delle logiche operative mia complessiva delle risorse esistenti dei diversi soggetti. pur garantendo funzionalità complessiva Il cardine fondamentale di tale azione e servizi migliori; resta comunque l'assicurazione di una - condividendo fra diversi soggetti pub- approfondita organica e omogenea coblici, ogni qualvolta possibile, risorse noscenza del territorio e dei suoi probleproduttive (conoscenza, personale etc.), mi per tutti i soggetti chiamati ad operare evitando duplicazioni di costi. su di esso. In defintiva risulta indispensabile svilup- Solo una volta assicurata tale base conopare, in un quadro unitario di indirizzi di scitiva comune, che valorizzando al mascarattere tecnico-amministrativo, una for- simo gli indispensabili investimenti da te azione di pianificazione e programma- effettuare in tal senso, appare realisticazione dello sviluppo del territorio in gra- mente possibile attuare una logica di co41
operazione fra centro e esigenze locali che, faccia della "prevenzione dei problemi" la propria filosofia di fondo, e all'interno della quale possano produttivamente calarsi le risorse finanziarie pubbliche disponibili e/o le indispensabili risorse finanziarie private di cui occorre stimolare un maggiore impiego sul territorio. L'AZIONE DI INDIRIZZO GENERALE DELLO SVILUPPO DEL TERRITORIO
Per rendere concreto lo scenario quale fin qui. delineato, occorre che il Governo centrale trasformi la propria azione in materia, in modo da assicurare una continua funzione di proposta e di sostegno dell'iniziativa locale. In particolare occorre che a livello centrale si determini una organica azione di pianificazione complessiva che assicuri: la realizzazione a livello locale delle necessarie azioni sul territorio all'interno di una programmazione a livello nazionale; l'adozione di idonei ed unitari criteri di valutazione dell'efficacia e dell'efficienza tecnico-economica degli interventi da realizzare. Tale esigenza ormai irrinunciabile emerge anche nel più generale dibattito politico e culturale, che registra fra l'altro anche iniziative di carattere legislativo tendenti a concretizzare modelli operativi alternativi a quelli oggi esistenti (vedasi disegno di legge recante norme per l'accelerazione della procedure per l'esecuzione delle opere pubbliche attraverso l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio di un Sottosegretario alle grandi infrastrutture). Appare opportuno che momento di ag42
gregazione principale di un siffatto ruolo, in virtù dell'esperienza accumulata in vari decenni e delle sue peculiari caratteristiche di presenza articolata sul territorio, sia il. Ministero dei LL.PP. Per realizzare ciò appare peraltro evidente la necessità che tale Dicastero modifichi significativamente la propria azione, trasformandosi da un organismo prevalentemente di spesa in un organismo in grado di assicurare una continua funzione propositiva e di stimolo allo sviluppo del territorici attraverso l'erogazione di servizi reali a supporto dell'azione locale. Al di là delle scelte operative che potranno in tal senso essere determinate, occorre che la predetta azione unificante, di indirizzo tecnico e amministrativo e di promozione e sostegno dell'azione pubblica sul territorio, debba realizzarsi in modo da orientare le funzioni del Governo centrale verso: una concreta, puntuale e sistematica azione di controllo e monitoraggio unitario della spesa sviluppata da tutti i soggetti pubblici (di livello, centrale e/o locale) in materia di opere pubbliche, edilizia statale ed abitativa e interventi sul territorio; una articolata e continua azione di studio ed analisi dei fabbisogni di infrastrutturazione del territorio; una attenta e sistematica programmazione degli interventi che miri a: - sviluppare una azione di prevenzione e non di tamponamento delle emergenze; - assicurare la massima efficienza degli interventi curandone, oltre gli aspetti tecnico realizzativi, anche i connessi aspetti di funzionalità a regime (modelli gestionali, politiche tariffarie, etc.) - assicurare un adeguato livello di finanziamenti per le necessarie azioni di
manutenzione ordinaria e straordinaria e di adeguata gestione ordinaria delle opere esistenti e di quelle da realizzare; - favorire la compartecipazione del capitale privato agli investimenti; - definire modi e tempi di realizzazione; una sistefriatica azione di indirizzo tecnico-amministrativo dell'attività svolta da tutti i soggetti, finalizzata a garantire la coerenza della spesa ai più ampi obiettivi di carattere nazionale (prevenzione dei problemi, omogeneità ed uniformità delle valutazioni tecniche ed economiche, etc.) attuata attraverso lo sviluppo concreto dei seguenti strumenti operativi: - la valutazione preventiva della rispondenza tecnica e amministrativa agli indirizzi generali; - la promozione delle nècessarie azioni di carattere normativo o di concerto operativo fra i vari soggetti competenti sul territorio, finalizzate alla determinazione dei contesti operativi più adeguati alla realizzazione agli interventi previsti; - una continua funzione di carattere tecnico consultivo, articolato anche territorialmente, in ordine agli aspetti tecnici e amministrativi in materia pianificatoria, programmatoria, progettuale, valutativa e realizzativa (affidamenti e/o controllo attuazione); tale funzione in particolare potrà svilupparsi anche attraverso una azione di alta consulenza fornita a tutti i soggetti sia da parte del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici sia da parte delle diverse strutture territoriali a carattere statali o comunque di rilievo nazionale (Provveditorati alle opere pubbliche, Autoritàdi bacino, etc); la indispensabile azione di coordinamento territoriale e funzionale di tutte le azioni sul territorio su basi tecnico amministrative unitarie ed efficaci, finalizzata a
garantire l'efficienza delle azioni poste in essere e l'ottimale impiego delle risorse, da svilupparsi anche attraverso: - la promozione ed il coordinamento dell'azione pianificatoria sul territorio, orientata alla trasformazione del sistema di vincoli d'uso dello stesso in un sistema meno astratto di quello attuale e più coerente con la dinamica di sviluppo del contesto territoriale, sociale, ambientale ed economico sul quale insiste e sui relativi fabbisogni di irifrastrutturazione; - la promozione anche a livello locale, sul piano dell'ideazione, progettuale e dell'ingegneria, del consenso gli interventi di infrastrutturazione, anche di competenza non statale, rilevanti per garantire le migliori condizioni di sviluppo del territorio; - la promozione dei necessari interventi di carattere integrato sul territorio e degli eventuali accordi di programma che consentano effettive sinergie operative fra i vari soggetti interessati. una continua funzione di studio, presenza attiva nel dibattito tecnico-scientifico, proposizione e supporto tecnico alla produzione normativa in materia di regime dei suoli, di infrastrutturazione del territorio, di controllo e gestione delle sue trasformazioni, di difesa del suolo e di politica abitativa. PER UN'ORGANIcA AZIONE DI INFRASTRUYrURAZIONE DEL TERRITORIO
Nella platea delle azioni indispensabili per garantire la concreta fattibilità di uno scenario quale quello fin qui prefigurato, appare necessario che Regioni e amministrazioni locali, sostenute per quanto possibile dal Governo centrale, diano ampio spazio alle seguenti azioni che as43
sumono rilevanza particolare e propedeutica per un effettiva trasformazione del modo di operare sul territorio: a) lo sviluppo di un attento processo di qualficazione interna delle strutture della P.A. orientato in particolare a dotare tali strutture di una diffusa capacità: - di interpretare i nuovi modelli di sviluppo del territorio che devono necessariamente venire a concretizzarsi (equilibrio fra sviluppo dell'antropizzazione e salvaguardia ambientale); - di approcciare e gestire le trasformazioni del territorio a partire dalle indispensabili analisi di fattibilità economico-finanziaria, ambientale e sociale del loro impatto effettivo sul contesto territoriale locale direttamente amministrativo e con quello più ampio sul quale possono scaricarsi eventuali effetti indotti positivi o negativi; - di gestire in modo produttivo il rapporto tra pubblico e privato (sia in direzione della realizzazione di nuove iniziative che per una efficiente gestione dell'esistente) avendo la capacità di individuare e attuare formule di cooperazione che valorizzino le caratteristiche imprenditoriali del privato all'interno delle finalità e dei vincoli propri dell'amministrazione pubblica (occorre garantire anche nelle formule più avanzate di appalto un ruolo qualificato e manageriale di controllo e indirizzo della pubblica amministrazione); - di gestire un ruolo propositivo e di presenza qualificata sui diversi tavoli di confronto con i diversi soggetti istituzionali che operano sul territorio, operando in modo di favorire l'acquisizione delle risorse finanziarie necessarie all'interno delle comunque rilevanti opportunità che si manifestano; 44
- di interpretare tutte le possibili sinergie realizzabili con gli altri soggetti istituzionali nella direzione di una più efficace risposta ai fabbisogni di intervento, di gestione e di servizi espressi dal territorio; b) dotare le Amministrazioni di una forte capacità progettuale in senso economico-finanziario oltre che tecnico, rappresentando ciò un requisito indispensabile per partecipare attivamente al confronto comune fra Governo centrale, Regioni, Amministrazioni locali e mondo imprenditoriale pubblico e privato per la definizione e la realizzazione di ampi progetti di infrastrutturazione di carattere integrato. In parallelo a tali azioni appare altrettanto indispensabile determinare adeguati ed avanzati strumenti di gestione della conoscenza strutturata ed organica dei problemi del territorio, da condividere il più possibile fra tutti i soggetti interessati. C6me già sottolineato per pianificare e programmare una azione coordinata sul territorio tra Governo Centrale e Amm. Locali, risulta infatti determinante essere propedeuticamente in grado di conoscere lo stato delle infrastrutturazioni esistenti, le relative condizioni di conservazione e le connesse modalità di gestione. Prendendo ad esempio il problema idrico, che proprio in quest'anno ha fatto pienamente rilevare tutte le deficienze di impostazione complessiva che la sua gestione manifesta, emerge chiaramente come l'assenza di un chiaro e strutturato quadro conoscitivo delle modalità di prelievo e gestione della risorsa, del complesso delle reti attualmente esistenti, del relativo stato di manutenzione e delle effettive utilizzazioni dell'acqua da esse distribuita, impedisca di affrontare in mo-
do organico una nuova politica dell'acqua nell'ambito della quale coordinare gi sforzi ai vari livelli istituzionali (sia di tipo finanziario che normativo e tecnicoorganizzativo) necessari per assicurare un livello di servizi in materia adeguato alle effettive esigenze della collettività. Analogo discorso può estendersi, con le dovute peculiarità, ad altre tipologie di infrastrutture quali le reti stradali, le altre reti tecnologiche (elettricità, gas) e per le ovie connessioni, alla definizione comune dei bacini o carichi di utenza ad esse collegate. Problemi conoscitivi ditale natura, particolarmente sentiti per poter superare logiche di intervento esclusivamente fondate sull'emergenza, devono essere necessariamente affrontati con il contributo di tutti. In tale linea, in materia di difesa del suolo e tutela ambientale già si muove la struttura centrale dei Servizi tecnici nazionali, che come previsto dalla legge n. 183/90 sono delegati alla realizzazione con il contributo di tutti gli Enti pubblici del Sistema Informativo nazionale in materia. Senza aggiungere tale livello di centralizzazione, appare comunque opportuno che a livello regionale si crei un piano di conoscenza comune sullo stato delle opere pubbliche in genere, che veda come interlocutori e ovviamente come utenti, sia le Regioni che le Amministrazioni Provinciali e Comunali che le strutture periferiche dello Stato e gli Enti parastatali interessati allo sviluppo del territorio (Provveditorati regionali alle opere pubbliche, ENEL, SIP, FF55. ANAS etc). In particolare appare necessario che gli investimenti pubblici da effettuare in questa linea siano ottimizzati, evitandosi
duplicazioni di spesa e muovendosi tutte le Amministrazioni secondo standard omogenei di trattamento dell'informazione che consentano un effettivo, produttivo e continuo interscambio fra le stesse delle conoscenze accumulate. Tale condizione richiede però la costituzione di particolari nuclei operativi qualificati e dotati di idonee strumentazioni per il trattamento delle informazioni che necessita di adeguate risorse finanziarie oltre che della cooperazione di tutte le Amministrazioni nella produzione e fornitura delle informazioni di base, generate continuamente attraverso la normale attività amministrativa. Un ruolo particolare su tale specifico problema, peraltro in sintonia con l'assetto istituzionale che si sta venendo a determinare sui problemi del territorio - sia a seguito della legge n. 142/90 e della già citata legge n. 183/89 che di quanto oggi avviene in pieno dibattito parlamentare (vedi problema idrico etc.) - potrebbe essere assegnato ai Provveditorati regionali alle opere pubbliche del Ministero dei lavori pubblici. Detti organismi, potrebbero essere infatti configurati in modo da porsi come strutture di sevizio a supporto delle Regioni e delle Amministrazioni locali su questa azione di monitoraggio continuo del territorio, assicurando la creazione di Sistemi informativi territoriali relativi alla grande infrastrutturazione del territorio comuni anche all'Amministrazione centrale (e di cui quest'ultima potrebbe assicurare la relativa onerosa copertura finanziaria). In tale caso si potrebbe venire a determinare, a supporto dello sviluppo locale, una base comune di riferimento intorno alla quale avviare il necessario confronto fra logiche di pianificazione e program45
centrale e Amministrazioni centrali in mazione regionale e locale e le analoghe materia di sviluppo del territorio, appaia logiche di livello nazionale, iniziando a pervenire ad un quadro conoscitivo condeterminarsi un primo confronto sui reatinuamente aggiornato sulla spesa che li fabbisogni del territorio, fondato sugli su di esso viene effettuata dalle diverse indispensabili livelli di omogeneità coAmministrazioni pubbliche, e sui suoi noscitiva per garantire una piena valutazione preventiva delle scelte da adottare reali effetti. Tale elemento è infatti ormai irrinunciaai diversi livelli decisionali. Da ultimo appare utile sottolineare come bile per assicurare lo sviluppo di un dialtrettanto indispensabile per poter svi- verso livello della produttività della speluppare un nuovo rapporto fra Governo sa pubblica.
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Pianificazione territoriale eriforma delle autonomie locali di Maurizio Coppo
Oggetto di. questa sezione è l'esame delle innovazioni che la legge di riforma dell'ordinamento delle Autonomie Locali introduce in termini di pianificazione e programmazione territoriale. i Il tema, se affrontato con l'attenzione rivolta agli aspetti sostanziali della legge e alle numerose implicazioni tecniche e operative che le norme determinano, è tutt'altro che semplice poiché da un lato interagisce con i maggiori nodi della pianificazione territoriale, materia che nell'ultimo periodo è diventata progressivamente più complessa e problematica, e dall'altro deve tener conto di un'ampia gamma di processi evolutivi socioeconomici e territoriali che hanno radicalmente modificato il quadro dei problemi sui quali si applicano le politiche e gli strumenti di pianificazione territoriale. Si consideri inoltre che la riforma, ispirandosi al principio delle "competenze integrate" 2 modifica radicalmente la struttura stessa dell'azione amministrativa che, specialmente per quanto concerne il governo. del territorio, non si articola più in sequenze lineari di scelte e interventi, dai livelli amministrativi sovraordinati verso quelli subordinati, ma assume una struttura più complessa caratterizzata appunto da una sistematica interazione e integrazione di funzioni e compiti. Tutto ciò comporta che spesso il significato di una norma (e delle azioni amministrative che
tale norma implica) viene determinato non solo dai contenuti specifici della norma stessa ma anche dalle relazioni che legano queste a molte altre (e le funzioni, i compiti di una Amministrazione a quelli di altre Amministrazioni). Abbiamo cercato di analizzare e raccontare questo fitto tessuto di rimandi e di interazioni alla luce di una linea interpretativa che tende anzitutto a definire la collocazione della riforma in' relazione alla evoluzione recente del quadro socioeconomico e territoriale, tenendo conto in particolare di quelle condizioni e di quei processi che interagiscono direttamente con i contenuti e con le prospettive di attuazione della riforma con particolare riguardo per il settore della pianificazione territoriale. In relazione alle considerazioni svolte nel primo capitolo àbbiamo esaminato il nuovo ruolo e i compiti della Provincia e della Città metropolitana poiché siamo convinti che il disegno di governo del territorio al quale rimanda la legge è in ampia misura centrato proprio su questo livello e che i nuovi problemi con i quali la pianificazione territoriale deve confrontarsi sono prevalentemente problemi di "area vasta", che possono essere conosciuti e governati efficacemente solo ad una scala sovracomunale. Ci è sembrato dunque utile iniziare l'esame puntuale della legge partendo dal livello ammini-
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strativo che dovrà registrare le maggiori innovazioni e svolgere un ruolo cruciale di raccordo tra livello comunale e livello regionale. Siamo quindi passati a trattare del livello comunale, cercando di analizzare sia le innovazioni che derivano direttamente dalla legge sia quelle determinate indirettamente dalla presenza, nel quadro del governo locale, della 'nuova" Provincia. Abbiamo anche ritenuto opportuno riservare un capitolo apposito al tema dell'autonomia finanziaria e impositiva di Provincie e Comuni, al fine di evidenziare alcune importanti connessioni tra questa rilevantissima innovazione e la pianificazione e programmazione territoriale. Infine, abbiamo analizzato il ruolo della Regione. Tale collocazione, ribaltata rispetto alla sequenza seguita dalla legge, è risultata più utile ai nostri fini in quanto ci ha consentito una maggiore concretezza di riferimenti, ci ha permesso cioè di trattare dei cruciali compiti di indirizzo e attuazione propri del livello regionale avendo già chiarito (o almeno avendo tentato di farlo) le esigenze, gli obiettivi e le prospettive degli enti subordinati verso i quali dovrà orientarsi l'azione di indirizzo normativo e di programmazione regionale. Nelle brevi conclusioni abbiamo cercato di raccogliere alcune riflessioni di ordine generale sui principali problemi attuativi della riforma. 1.
STRUiTURE INSEDIATIVE
Il sistema insediativo italiano, come è ben noto, è costituito da un fitto tessuto di centri grandi e piccoli dotati di una propria storia, di una identità culturale, di uno specifico e spesso rilevantissimo patrimonio di
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valori ambientali, architettonici, artistici. A queste strutture insediative corrisponde una struttura di collettività locali che hanno dato forma al proprio territorio, hanno governato i fattori produttivi locali costruendo una propria identità economica, hanno determinato le linee del proprio sviluppo sociale. In altri termini la ricchezza della nostra struttura insediativa è costituita anche da una ricchezza di istituti, di attività, di esperienze, di capacità politiche, gestionali e imprenditoriali. Questa interazione virtuosa tra strutture fisiche e risorse immateriali non caratterizza unicamente (e non caratterizza sempre) gli insediamenti dove si concentrano grandi quantità di popolazione o di attività economiche ma è presente in tutté quelle strutture territoriali che da un lato si vengono plasmando sull'identità culturale, sociale ed economica di una collettività locale e dall'altro costituiscono la premessa e la condizione necessaria affinché la collettività locale possa svilupparsi attraverso il controllo delle attività economiche e dei fattori produttivi locali, le scelte di organizzazione territoriale, l'esercizio della politica come momento di mediazione e integrazione degli interessi dei vari gruppi e delle varie figure sociali, lo sviluppo delle capacità professionali e imprenditoriali, etc... Sotto questo aspetto la complessità, la ricchezza e la dinamicità delle strutture insediative non deriva dunque dalla grande dimensione demografica o produttiva; ciò è stato in ampia parte vero in una particolare fase dello sviluppo del Paese ma non è certo vero nella fase attuale e in quella che l'ha immediatamente preceduta. Si possono dare casi di grosse strutture insediative dove la rete di infrastrutture e at trezzature di servizio è del tutto carente, dove non è completamente formato quel
patrimonio di istituti, di capacità professionali e gestionali, di abitudine all'esercizio non formale del governo del proprio territorio e della propria economia che, nonostante le grandi dimensioni, hanno il carattere della periferia dipendente da un centro che sta altrove. Per contro esistono strutture insediative di minute dimensioni che svolgono con piena maturità le funzioni di autogoverno dei fattori locali dello sviluppo sociale ed economico. Chiariamo dunque che nel breve esame della struttura insediativa nazionale faremo riferimento alle caratteristiche delle strutture insediative in quanto sistemi caratterizzati da una interazione complessa tra strutture territoriali e collettività locale, tra risorse materiali e risorse immateriali, tra beni e abilità, istituti, capacità di autogoverno, etc... sistemi che - entro certi limiti - non sono caratterizzati da una particolare dimensione. L'EVOLUZIONE TERRITORIALE RECENTE
Negli anni Settanta, nel periodo più grave dell'ultima crisi economica, a causa di numerosi fattori il processo di accentramento demografico e produttivo che aveva caratterizzato l'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta si modifica radicalmente. L'entità del trasferimento di risorse tra periferia e centro subisce un deciso ridimensionamento. Le aree metropolitane vedono drasticamente ridotto il ruolo di punti terminali dei processi di sviluppo; a un processo di concentrazione su pochi poli si sostituisce un processo più complesso e articolato che registra una netta diffusione dei punti di crescita demografica, economica ed edilizia. Certamente i fattori di questa profonda modificazione delle modalità di sviluppo
sono numerosi e complessi e si è ancora ben lontani dall'averli analizzati tutti in modo esauriente, ma non v'è dubbio che uno dei principali fattori è costituito dal crescente divario tra i livelli di congestione e saturazione registrati nelle aree urbane maggiori e la 'ricchezza" della struttura urbanistica, delle infrastrutture e attrezzature di servizio, delle risorse professionalf e delle capacità gestionali presenti (sia pure in diversa misura) nei sistemi urbani intermedi e minori.
Lo sviluppo dyfuso Nella seconda metà degli anni '70 dunque per motivi legati da un lato alla congiuntura economica complessiva e dall'altro al miglioramento delle comunicazioni a scala nazionale e all'assetto urbanistico delle strutture insediative, si sviluppano nuovi distretti industriali o terziari, centrati su reti di piccole strutture insediative o su centri urbani di limitate dimensioni. Il fenomeno nasce indubbiamente come processo dipendente - spesso costituisce il risultato degli intensi processi di decentramento produttivo - ma in breve acquista caratteristiche di maggior vigore e autonomia e arriva a determinare strutture economiche complesse, autocentrate e in grado di competere sul mercato nazionale o su quello internazionale. Il successo di questa modalità di sviluppo è tale che molti tecnici e studiosi cominceranno a considerarlo un modello alternativo di sviluppo, fondato sulla sapiente combinazione di fattori locali, su abilità manageriali diffuse, sull'uso di nuovo tecnologie che non richiedono le grandi concentrazioni tipiche delle aree metropolitane, sulla flessibilità e tempestività delle risposte alle dinamiche del mercato, 49
sulla capacità di "cogliere l'occasione". In effetti questa modalità di sviluppo nella prima metà degli anni Ottanta è stata nettamente sopravvalutata nella sua portata strategica. Occorre infatti ricordare che lo "sviluppo diffuso" (o come alcuni l'han chiamato, sottolineandone aspetti parziali, l'economia sommersa", lo "sviluppo a cespuglio", il "modello adriatico") è stato determinato anche da una specifica congiuntura del mercato a livello sovranazionale, congiuntura attualmente del tutto esaurita. 5 Ma ciò che ci preme notare è che l'intensità dello sviluppo decentrato e la sua ampia diffusione sono state rese possibili in misura sostanziale, forse decisiva, dalla presenza nelle aree urbane minori di un 'consistente (e spesso sottoutilizzato) patrimonio di infrastrutture, di risorse umane e professionali, di spazi edificati e di possibilità edificatorie. In altri termini in una economia in grave crisi le nuove attività produttive si sono sviluppate solo (o prevalentemente) laddove v'è stata la possibilità di sfruttare appieno il vantaggio di risorse materiali (infrastrutture, residenze, attrezzature di servizio, etc.) e immateriali (abilità professionali, capacità gestionali, imprenditorialità diffusa, etc.) che veniva assicurato in alcune particolari aree del territorio: principalmente nei sistemi urbani intermedi e minori. Le strutture insediative minori del nostro Paese hanno dunque svolto in:questa fase il ruolo di una vera e propria risorsa chiave, di condizione necessaria, a supporto di una particolare modalità di sviluppo.
La nuova fase di concentrazione Nella seconda metà degli anni Ottanta torna a manifestarsi un nuovo processo di 50
concentrazione sulle grandi aree urbane. Non si tratta più - come avveniva negli anni '50 e '60 - della tendenza a trasferire grandi quote di popolazione e di produzione industriale nelle aree metropolitane ma del pieno recupero del ruolo di centri motori dello sviluppo da parte di strutture insediative ove si concentra il terziario produttivo di rango più elevato, i centri di gestione e determinazione dei mercati a livello sovranazionale, etc. In particolare, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 le maggiori strutture economiche hanno saputo avviare e portare a compimento una riorganizzazione strutturale giocata sul piano degli assetti societari, dell'innovazione tecnologica, dell'integrazione tra strutture produttive e strutture finanziarie, della razionalizzazione dei processi e dell'inserimento nei mercati più evoluti. Tale riorganizzazione ha giocato un ruolo fondamentale non solo nell'intenso sviluppo che la nostra economia ha registrato nella seconda metà degli anni '80 ma anche nel riproporre un nuovo assetto territoriale basato non più sulla concentrazione delle attività produttive ma sulla gerarchizzazione e specializzazione degli spazi determinata dalle attività del terziario evoluto e in particolare dal terziario direzionale legato alla determinazione delle grandi scelte di politica economica, territoriale e sociale. Se inoltre si tiene presente la dimensione ormai decisamente sovranazionale dei mercati e delle strutture economiche, appare del tutto evidente come le aree metropolitane (non tutte e non sempre in termini compiuti) tendano a costituirsi come elementi di un sistema sovranazionale dove per alcuni aspetti è più "logico" e consueto che Milano o Roma dialoghino tra loro o con Londra o Parigi piuttosto
che con il contesto regionale in cui si collocano. Si delinea un circuito sovranazionale, l'appartenenza al quale sembra destinata a diventare il tratto peculiare delle aree metropolitane contemporanee. Al di fuori di questo "circuito" la tendenza, per le grandi aree urbane, è verso il ridimensionamento di ruolo e la stagnazione o verso una "crescita senza sviluppo" alimentata in misura sempre maggiore dai trasferimenti sociali e fondata su un'economia costituita in misura prevalente da apparati della Amministrazione Pubblica. EFFETrI INDESIDERATI DELL'EVOLUZIONE TERRITORIALE
Possiamo dunque leggere la dinamica dell'ultimo periodo, (degli ultimi 15-20 anni) come un'interazione particolarmente stretta tra i processi di sviluppo dei sistemi territoriali e i processi di sviluppo della struttura economica nazionale. Il sistema delle strutture insediative non è stato solo il luogo, lo spazio fisico, dove si sono realizzate le diverse fasi dello sviluppo economico e sociale: i caratteri delle strutture insediative e dei sistemi territoriali sono stati fattori chiave che hanno determinato le forme e l'intensità dei percorsi seguiti dalle diverse fasi dell'evoluZione economica. Ma ciò che appare più interessante ai nostri fini è che nel corso ditale evoluzione si sono venuti a determinare sul territorio un insieme di effetti indesiderati, di nodi .problematici che incidono in modo pesantemente negativo sia sulle prospettive di sviluppo economico sia sulla qualità della vita di gran parte della popolazione italiana. Si tratta di una serie di condizioni strutturali che abbiamo cercato di illustra-
re schematicamente aggregandole in quattro temi fondamentali. Il "disordine" dei nuovi distretti produttivi Come abbiamo già notato, il passaggio da uno sviluppo centrato su pochi poli ad uno sviluppo diffuso, a partire dalla seconda metà degli anni '70, ha determinato la creazione di aree dove le diverse attività economiche interagivano positivamente tra loro e sfruttavano in modo ottimale il potenziale di infrastrutture e risorse del luogo. Questi sistemi territoriali in rapida evoluzione nascono e si sviluppano proprio mentre il mondo tecnico e politico dibatte sull'ordinamento, le dimensioni, il ruolo e le risorse da attribuire allo "ente intrmedio". Apparentemente si tratta di una mirabile tempestività che conduce tecnici e politici a volgere lo sguardo dalle aree metropolitane verso i sistemi territoriali nel loro complesso e in particolare verso quelle strutture insediative e quelle condizioni economico-produttive che di lì a poco avrebbero svolto un ruolo così importante. Tuttavia questa sensibilità non è riuscita a tradursi in azione amministrativa concreta, in azione di governo sui processi di sviluppo diffuso. La mappa delnuovo sviluppo si organizza secondo partizioni e confini che hanno una ben scarsa rispondenza con le circoscrizioni territoriali dell'ente intermedio. I processi di creazione delle nuove reti di imprese e servizi si svolgono sostanzialmente in modo "spontaneo". In termini più precisi lo sviluppo diffuso è governato da un sistema di convenienze e obiettivi immediati, da contingenze del mercato ma non è indirizzato da un programma o da linee direttrici definite da un'autorità di governo lo51
cale estesa su una dimensione territoriale coerente con quella dei processi in atto e dotata di competenze e funzioni adeguate ai compiti. L'assenza (o l'inadeguatezza) di un progetto complessivo e di una autorità di governo alla scala dei processi in corso ha lasciato i più ampi spazi ad uno sviluppo economico e territoriale basato sullo sfruttamento dei livelli di infrastrutturazione preesistenti e con una produzione di nuova infrastrutturazione del tutto inadeguata alla crescita della popolazione e delle attività. Per tali ragioni in queste aree, a partire dalla metà degli anni '80, cominciano a diffondersi quelle condizioni di saturazione e di congestione che in precedenza avevano caratterizzato in modo pressoché esclusivo le aree urbane metropolitane. Se all'inizio del periodo (metà anni '70) le condizioni di mobilità in un distretto urbano minore erano più soddisfacenti di quelle verificate in un'area metropolitana, se l'esigenza dei parcheggi, di attrezzature direzionali e di spazi culturali era sostanzialmente soddisfatta dalle strutture esistenti, se i suoli per l'edificazione erano disponibili in grande misura e in località facilmente accessibili, se, infine, la qualità e i valori ambientali dello spazio costruito e di quello naturale erano scarsamente o niente affatto compromessi, tutto ciò, col progredire degli anni, diventa sempre meno vero e non solo perché la "risorsa insediamento" è stata progressivamente consumata, ma anche perché in molti casi - specialmente nei sistemi urbani minori e nei sistemi diffusi meridionali - l'edificazione non sempre è avvenuta nel pieno rispetto delle norme e dei vincoli esistenti e spesso ha addirittura registrato grosse quote di edificazione totalmente abusiva. 52
Gli effetti di queste non piccole carenze possono essere agevolmente misurati qualche anno dopo, verso la seconda metà degli anni '80, quando ormai la fase di intensa crescita del processo di sviluppo diffuso può considerarsi virtualmente esaurita ed è possibile cominciare a tirare i primi bilanci 6 Lo scotto da pagare per il mancato coordinamento (o per l'eccessiva fiducia nelle capacità di guida della mano invisibile del mercato) comincia ad essere del tutto evidente: i primi bilanci sull'abusivismo edilizio, la necessità di pesanti riconversioni e riorganizzazioni di strutture insediative plasmate su obiettivi troppo immediati senza tener conto delle esigenze future (esigenze, peraltro, facilmente prevedibili), i pesanti costi di adeguamento di infrastrutture che avrebbero potuto essere realizzate anche con l'occhio al domani, il consumo di porzioni sempre più ampie di territorio e il degrado ambientale che troppo spesso accompagna tale consumo, etc., sono questioni ben note e con le quali saremo costretti a confrontarci nei prossimi anni. 7 Il "ritardo urbanistico" delle aree metropolitane La situazione non appare molto più rassicurante nelle aree metropolitane. Quando lo sviluppo del Paese era concentrato nel "triangolo industriale" e nelle maggiori aree metropolitane del Paese e si accompagnava ad ingenti flussi migratori si sosteneva che lo sviluppo delle strutture insediative, centrato sostanzialmente sulla pura aggiunta di quantità residenziali, sull'aggregazione alla città di successive fasce periferiche, era un prezzo da pagare per poter far fronte ai tempi
convulsi della irruefite crescita demografica, alla fame di spazi abitativi determinata dai grandi flussi migratori e dal progressivo miglioramento degli standard abitativi. Non tutti la ritenevano una spiegazione accettabile o una scelta condivisibile ma di fronte all'incalzare dell'emergenza abitativa e delle esigenze occupazionali, con il benessere economico a portata di mario, queste perplessità apparivano del tutto astratte dalla urgente concretezza dei problemi immediati. Quando tuttavia lo sviluppo si è spostato in aree meno congestionate, i flussi migratori si sono ridimensionati o annullati, la crescita demografica si è fatta meno intensa e in linea generale il rapporto tra popolazione e abitazioni ha assunto valori più accettabili, le modalità di crescita delle strutture urbane non sono cambiate in modo significativo. La crisi economica, il decentramento, lo sviluppo spontaneo dei nuovi distretti industriali e delle strutture diffuse, sono stati all'origine di un certo "disinteresse" per le aree metropolitane. Certe letture affrettate, ed errate, delle statistiche che registravano la contrazione demografica del comune centrale sono state interpretate come segnale di crisi irreversibile delle grandi concentrazioni urbane mentre in realtà misuravano solo l'effetto di un mai sospeso processo di terziarizzazione in competizione (vincente) con le destinazioni residenziali. La lettura dominante del fenomeno consisteva dunque nell'attribuire alle grandi concentrazioni urbane non tanto una condizione di intensa e vitale riorganizzazioné della composizione delle attività e del ruolo che esse svolgevano quanto una condizione di crisi (e, per alcuni, di crisi irreversibile) tale da non tichiedere Piani e Progetti di ampio respiro per orientare e gestire lo sviluppo e l'adat-
tamento alle nuove condizioni socio-economiche. Tutto ciò ha determinato un progressivo deficit di attrezzature e infrastrutture ma è soprattutto in termini qualitativi che si registra in questi anni un crescente scarto tra la struttura economica e l'organizzazione territoriale delle grandi concentrazioni urbane. Questo deficit di "forma", di organizzazione degli spazi, delle infrastrutture e dei servizi che costituiscono l'ossatura funzionale' ed economica della struttura urbana, diventa l'elemento caratterizzante delle grandi città sul finire degli anni '80. Ed è importante notare che tale deficit non si esprime solo in termini di carenzedi parcheggi, di attrezzature di servizio, di infrastrutture ma soprattutto in termini di configurazione complessiva della forma urbana. Le grandi aree urbane, per continuare a svilupparsi e per inserirsi in quel circuito sovranazionale al quale accennavamo sopra, devono avere caratteristiche di funzionalità, comunicazione e accessibilità che non sono legate alla presenza o meno di una specifica rete di infrastrutture o di attrezzature di servizio ma al sistema complessivo che struttura l'organizzazione spaziale e funzionale dell'area urbana; sistema che in quasi tutte le grandi città italiane presenta forti carenze al punto che molte rischiano di diventare semplicemente grosse: malate di quel processo composto da gigantismo e recessione economica che è stato opportunamente chiamato "crescita senza sviluppo". La tesi che qui si sostiene è che le caratteristiche spaziali, funzionali e organizzative dei sistemi urbani costituiscono un fattore di capitale importanza tra quelli che determinano le occasioni e le possibilità di sviluppo dello stesso sistema economico e se questo in linea teorica e di princi53
pio è sempre vero per qualunque Paese, è drammaticamente vero per il nostro che su questo piano registra un ritardo assolutamente notevole.
La residenza tra abusivismo e periferia Dall'inizio degli anni '80 la tesi che la questione abitativa appartenesse ormai alla storia del nostro paese ha registrato un numero crescente di sostenitori. Si notava che il 60% delle famiglie italiane possedeva l'abitazione in cui viveva, che l'indice aggregato di affollamento registrava 1,5 stanze perabitante 8, che la qualità media delle abitazioni era collocata su standard generalmente piuttosto elevati, etc. Questi e molti altri argomenti, troppo noti perché occorra richiamarli in dettaglio, hanno fatto ritenere a molti osservatori che la questione abitativa in Italia fosse del tutto superata a meno di sacche particolari presenti in situazioni in qualche modo eccezionali. In realtà questa tesi ci sembra solo in parte confortata dai dati dell'ultimo censimento e dalle poche indagini parziali svolte in epoca successiva. L'ingente produzione di abitazioni registrata nell'ultimo decennio intercensuale e la ancora sostenuta produzione dei periodi più recenti è andata solo in minima parte a ridurre le condizioni abitative deficitarie al punto che nel 1986 il "Libro bianco sulla casa" 9 del Ministero dei Lavori Pubblici valuta che circa il 20% delle famiglie italiane vive in condizioni di marcato disagio abitativo. Vi sarebbero dunque argomenti per sostenere che il problema abitativo, se pure ridotto di ampiezza e di intensità, conserva caratteri di urgenza e drammaticità per una quota del tutto consistente della popolazione italiana. Ma questa, in una qualche misura, ri54
schia di essere una considerazione secondaria e di non mettere in adeguata evidenza alcuni caratteri nuovi della questione abitativa. In effetti la questione abitativa all'inizio degli anni '90 tende sempre più a intrecciarsi con la questione delle vivibiità delle strutture insediative, con una questione cioè, che male si presta ad una lettura seccamente parametrica svolta su pochi indici aritmetici mentre è determinata in ampia misura dalla dotazione di servizi per la popolazione, dalle condizioni di accessibilità, dall'organizzazione del territorio, dalla qUalità dell'ambiente. Occorre infatti notare che la crescita del sistema residenziale dal dopoguerra ad oggi (o in altri termini l'edificazione dell'80% del patrimonio edilizio attualmente esistente) è avvenuta seguendo tre canali: quello della edificazione delle periferie urbane ampiamente giustificate negli anni '50 e '60 dalla penuria di abitazioni e dall'urgenza di dare risposta alle esigenze abitative non soddisfatte, sempre meno giustificate negli anni '70 e '80; quello della edificazione sparsa che ha assunto rilievo e consistenza a partire dagli anni '70, in stretta connessione con la crescita dello sviluppo diffuso e con il miglioramento dei livelli di reddito delle famiglie italiane; quello dell'edificazione abusiva che, come il precedente, ha assunto rilevanza a partire dagli anni '70. Orbene questi tre canali, che raccolgono la parte di gran lunga maggiore dello sviluppo residenziale italiano dal dopoguerra ad oggi, si caratterizzano tutti per la scarsa integrazione con le strutture urbane preesistenti e per la bassa dotazione di attrezzature di servizio. Ecco dunque che la questione degli standard abitativi, delle condizioni di affollamento o del numero
di coabitazioni, Costituiscono nel loro complesso solo uno degli aspetti del malessere abitativo attuale: gli altri , non meno importanti aspetti, riguardano la relazione (o meglio la mancata relazione) tra casa e città. Il deterioramento dell'ambiente L'ultimo effetto non desiderabile determinato dallo sviluppo recente riguarda il degrado ambientale. Negli ultimi anni sembra essere stata raggiunta una maggiore coscienza della gravità del danno ambientale. Lo stato dell'ambiente ha raggiunto livelli di degrado e compromissione tali da giustificare ampiamente i termini di "disastro ambientale" o di "emergenza ecologica" che vengono utilizzati sempre più spesso. Inoltre la questione della tutela e risanamento ambientale è percepita in termini sempre meno antagonisti rispetto a quella dello sviluppo economico e occupazionale o rispetto a quella del soddisfacimento dei fabbisogni abitativi. Proprio nelle aree che maggiormente hanno subito i processi di degrado ambientale si sta sviluppando una chiara consapevolezza di quanto un ambiente degradato incida negativamente non solo sulla qualità della vita ma anche sulle effettive possibilità di sviluppo dell'economia locale. Occorre tuttavia considerare che i fattori che determinano tali drammatiche condizioni non sono circoscritti ai pochi fenomeni tradizionalmente invocati per spiegare il degrado ambientale (l'inquinamento da lavorazioni industriali, la carenza di reti fognanti e di depuratori, il traffico automobilistico, etc.) ma derivano anche da fenomeni apparentemente più "distanti": l'eccessiva concentrazione dei ser-
vizi nelle aree centrali delle strutture insediative, l'assenza pressoché sistematica di piani di viabilità, trasporti, parcheggi adeguati alle esigenze di mobilità attuali, uno sviluppo edilizio troppo spesso indifferente alle qualità dell'ambiente, etc. Più esplicitamente, ancora una volta ritroviamo che l'assétto organizzativo e funzionale delle strutture insediative costituisce uno dei nodi centrali anche nella definizione delle possibili linee di soluzione del problema ambientale. QUAITRO PROBLEMI CHIAVE
Risulta dunque chiaro che l'interazione tra evoluzione socio economica ed evoluzione delle strutture insediative negli ultimi 15/20 anni ha determinato una gamma piuttosto ampia di nodi problematici che possiamo schematicamente riassumere nei seguenti termini.
Strutture insediative e circoscrizioni amministrative A partire dalla seconda metà degli anni '70, ma in particolare nel corso degli anni '80, la struttura insediativa del paese ha subito quello che potremmo chiamare un "salto di scala". Si tratta di un fenomeno complesso che non ha nulla a che vedere con l'espansione quantitativa dei singoli insediamenti e che è determinato sia dall'intenso sviluppo delle infrastrutture di trasporto sia dalla profonda modificazione della struttura produttiva. L'interazione tra queste condizioni ha determinato un repentino e deciso incremento, della concentrazione relativa delle popolazioni e delle attività economiche, una forte dilatazione delle dimensioni territoriali dell'abitare, dell'utilizzare i servizi, dei mercati, etc. 55
Attualmente, salvo rari casi riscontrabili prevalentemente nelle aree interne - o che comunque si situano ai margini del processo di sviluppo - i servizi, le occasioni lavorative e produttive, le strutture residenziali, sono condivise (sono potenzialmente condivise) da gruppi di imprese e popolazioni che si estendono su aree molto estese che comprendono molti comuni, una o più province; si situano cioè in una dimensione di area vasta. Questo salto di scala, che ritroviamo come tratto caratteristico anche nelle dinamiche dello sviluppo diffuso e nella crescita dei nuovi distretti produttivi è all'origine di un sistematico e crescente scarto tra strutture insediative da un lato e circoscrizioni amministrative dall'altro.
Specializzazione territoriale La maggicire integrazione dei mercati e della struttura produttiva ha determinato, tra i molti altri effetti, la formazione di distretti produttivi fortemente specializzati ed altamente con-ipetitivi in un mercato che sempre più acquista dimensioni nazionali o sovranazionali. La crescente concentrazione/integrazione della struttura produttiva e dei mercati infatti da un lato tende ad eliminare ogni nicchia localistica di mercato e dall'altro pone severi requisiti di competitività. A fronte del diffondersi di queste condizioni si registra una gamma di risposte molto differenziate per quel che concerne il tipo di attività ma caratterizzate tutte da un accentuato sfruttamento di economie e vantaggi di area e da una marcata specializzazione derivante dalla necessità di inserirsi in questo tessuto compatto con una identità e un ruolo economico ben precisi, con chiari rapporti di integrazione e com56
plementarità, pena una sostanziale emarginazione. In termini brutalmente schematici, possiamo notare che sotto questo profilo non sembrano esservi molte alternative: o le comunità economiche locali riescono ad inserirsi con un ruolo preciso all'interno di un mercato fortemente integrato o restano ai margini del flusso principale dello sviluppo del paese. L'alternativa taglia trasversalmente tutta la gamma insediativa della nostra struttura territoriale: dalle grandi aree metropolitane ai minuti insediamenti diffusi della provincia. io
Servizi e reti infrastrutturali Dopo una lunga fase espansiva, centrata sullo sviluppo industriale e sulla crescita quantitativa delle strutture insediative, il Paese è entrato in una fase di intensa riorganizzazione della struttura insediativa sulla spinta di diversi fattori ma soprattutto in relazione ai processi che abbiamo schematicamente presentato sopra e alla crescente importanza del settore terziario. Questo, in termini puramente quantitativi, mostrava intense dinamiche di segno positivo sin dagli anni '60 ma solo nel periodo più recente è diventato un fattore critico che da un lato determina le possibilità di sviluppo complessivo del Paese e le occasioni di decollo delle collettività economiche locali e dall'altro è direttamente determinato dalla struttura stessa dell'insediamento, dalla qualità e quantità dell'infrastrutturazione, dalla gamma e dalla qualità dei servizi di base. Non si tratta più, come nei periodi precedenti, di un settore trainato dalla produzione o dalle esigenze della popolazione ma di un settore che determina la qualità e l'intensità stessa dello sviluppo, creando in
ampia misura le condizioni di produttività e competitività degli altri settori economici.
Sviluppo economico e salvaguardia ambientale Il disinvolto sfruttamento del territorio e il sostanziale disinteresse per gli effetti dello sviluppo sull'ambiente hanno determinato un crescente danno ambientale (dell'ambiente naturale ma anche di quello costruito) che ha cominciato a tradursi in costi progressivamente crescenti. Ciò ha provocato una maggiore attenzione ai problemi ambientali sia in virtù di una maggiore sensibilità sociale e politica sia a causa di un più banale calcolo economico e cioè della sempre più chiara riconoscibilità e della crescente dimensione dei costi che il deterioramento ambientale impone alla collettività e alle singole imprese economiche. 'i La questione non si pone solamente o prevalentemente in termini di salvaguardia dei beni naturali ma assume i contorni più ampi del controllo complessivo sul 'sistema ambiente" nel quale viviamo e quindi anche (forse prevalentemente) del controllo sulla qualità delle nostre strutture insediative, sulle condizioni di mobilità, sulla qualità dell'aria e dell'acqua, sulla dotazione di verde, sull'accessibilità effettiva di servizi, strutture e beni culturali, etc. Sotto questo profilo occorre dire che tra gli ambienti più degradati del paese vanno sicuramente annoverate le grandi periferie urbane e la cospicua massa di insediamenti abusivi sorti negli ultimi quindici anni. Il tema si collega strettamnte con quello dei servizi e delle reti infrastrutturali al quale avevamo accennato sopra: il degrado dell'ambiente costruito, la povertà del-
le strutture insediative costituite da sequenze di periferie, è l'altra faccia della carenza di reti infrastrutturali e servizi di base senza i quali è impossibile ogni sviluppo del settore terziario. LE "RISPOSTE" DELLA RIFORMA
La gestione dei problemi indicati sopra, singolarmente e nel loro complesso, richiede strutture, livelli, strumenti di governo del territorio radicalmente innovativi. Lo scarto tra dimensione delle strutture insediative e dimensione delle circoscrizioni comunali pone l'esigenza di un sistema di livelli di governo diverso, adeguato sia alla più ampia dimensione territoriale dei processi socioeconomici e delle strutture insediative sia alla diversa qualità dei problemi che le caratterizzano. La crescente specializzazione territoriale, l'esigenza di costruire un ruolo specifico della comunità economica locale all'interno di un sistema produttivo e di mercati sempre più integrati, richiede la messa a punto di strumenti di analisi, pianificazione e programmazione territoriale diversi da quelli tradizionali e in grado di comprendere e orientare efficacemente le risorse e le potenzialità di sviluppo locali e quindi di "dialogare" adeguatamente con la struttura produttiva locale, di conoscerne orientamenti e programmi e di mediarli all'interno di un sistema di obiettivi e priorità determinati dall'interesse collettivo. Il nuovo e più importante ruolo del settore terziario e la netta esigenza di adeguamento e riorganizzazione delle reti di servizi e sistemi infrastrutturali proprie di questo settore, richiede da un lato la capacità di un'azione più coordinata tra i diversi livelli e settori della pubblica amministrazione e tra questi e le aziende con-
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cessionarie di servizi a livello locale e nazionale che sino a non molto tempo addietro avevano operato con logiche decisamente settoriali e dall'altro l'abilità di utilizzare risorse e capacità del settore privato. Infine, l'esigenza di integrare sviluppo economico e tutela dell'ambiente, richiede forme di pianificazione del tutto innovative, in grado di incorporare organicamente analisi economiche e valutazioni dei costi e dei benefici conseguenti alle diverse alternative di sviluppo ma in grado anche di centrare l'attenzione dell'intervento non solo e non tanto sulle aree da edificare e sulle forme dell'espansione quanto sull'ambiente costruito e sull'ambiente naturale al fine di governarne l'evoluzione (o la conservazione), tenendo conto dei processi che li investono, degli "attori" che realizzano questi processi, delle possibilità di orientare processi e comportamenti in relazione alle risorse normative e finanziarie, alle capacità di interventi e, necessariamente, ai sistemi di convenienze e obiettivi che guidano questi stessi processi. Non è dunque del tutto casuale che in questo stesso periodo vengano elaborati diversi provvedimenti tesi ad una sostanziale revisione dell'ordinamento delle autonomie locali e che, dopo una lunga fase di gestazione, nel giugno del 1990 si giunga alla approvazione della Legge n° 142, "Ordinamento delle autonomie locali" che raccoglie e integra in un quadro organico diverse proposte in materia. La riforma dell'ordinamento delle autonomie locali infatti oltre a ridefinire funzioni e competenze dei diversi livelli di governo locale e a rendere possibile un radicale riassetto della struttura organizzativa degli enti locali, interviene in modo siste01.1
matico su quasi tutti i punti che abbiamo indicato e sotto questo profilo tende a costituirsi come risposta complessa ai problemi che gli Enti Locali si trovano ad affrontare per quanto riguarda il governo del territorio. Ciò che piùconta, la rifor ma consente di agganciare la ridefinizione puntuale delle funzioni, delle competenze, delle strutture organizzative ai processi che abbiamo indicato, permettendo in questo modo di legare le valenze istituzionali-organizzative ai problemi specifici presenti in una determinata area. Inoltre, e si tratta di un punto molto delicato, la riforma sancisce il principio dell'autonomia finanziaria e impositiva degli Enti Locali, aggiungendo un non banale problema ai molti indicati sopra. Tale principio comporta infatti che nel prossimo futuro il livello delle infrastrutture e dei servizi di base sarà strettamente correlato da un lato alla pressione fiscale locale e dall'altro all'efficienza e all'efficacia dell'azione dell'Ente Locale. 12 Tutto ciò apre la prospettiva a differenziazioni territoriali che possono diventare anche molto marcate e che, se non adeguatamente controllate e corrette, potrebbero determinare un ulteriore rafforzamento degli squilibri territoriali. Se dunque da un lato la legge di riforma sembra in piena sintonia e corrispondenza con quelli che riteniamo essere gli attuali problemi nodali del governo del territorio, d'altro lato la legge fornisce solo gli indirizzi fondamentali e gli strumenti di base per attuare la riforma e realizzare le strutture e gli strumenti organizzativi necessari per affrontare gli attuali nodi problematici. Come chiarisce bene la stessa circolare esplicativa del Ministero dell'Interno, la L. 142/90 è una legge di principi che dovrà essere attuata nei prossimi
anni, ben oltre le scadenze e i compiti specifici fissati dalla normativa, da tutta l'Amministrazione Pubblica e in primo luogo da Regioni, Province e Comuni; la legge infatti " ...va vista come un processo costituito da un susseguirsi di interventi finalizzati a trasformare l'ordinamento vigente per renderlo conforme al principio di autonomia. Sarà la coerenza di questi interventi rispetto a quel principio a consolidare l'efficacia della riforma " . 13 Le questioni alle quali cercheremo di fornire risposta nei prossimi capitoli riguardano dunque anzitutto l'individuazione del rapporto ottimale tra i nodi problematici e le soluzioni offerte dalla legge e in secondo luogo le azioni da intraprendere per dare piena attuazione alla riforma. 2. LA NUOVA PROVINCIA
Il livello di governo provinciale costituisce probabilmente il "luogo" di maggiore innovazione della riforma. 14 Ciò accade anzitutto poiché, come abbiamo già accennato, da un lato i problemi di pianificazione e gestione del territorio tendono a spostarsi sempre più ad una scala di area vasta che tendenzialmente coincide con quella provinciale e dall'altro perché la riforma attribuisce proprio al livello provinciale numerosi e importanti compiti e funzioni in materia di programmazione e pianificazione territoriale. In secondo luogo ci sembra che la legge di riforma non consideri l'attuale assetto delle circoscrizioni provinciali come un dato immutabile ma piuttosto come un punto di partenza dal quale è possibile arrivare, in un arco di tempo ragionevole, ad una ripartizione del territorio nazionale in circoscrizioni entro le quali .. ... si svolge la maggior parte dei rapporti sociali, eco-
nomici e culturali della popolazione residente;". 15 Ciascun territorio provinciale i.. noltre " ... deve avere dimensione tale, per ampiezza, entità demografica, nonché per le attività esistenti o possibili, da consentire una programmazione dello sviluppo che possa favorire il riequiibrio economico, sociale e culturale del territorio provinciale e regionale;". 16 Ma soprattutto, il livello provinciale appare essere quello dove più che in ogni altro dovrà realizzarsi il nuovo modo di amministrare, ci riferiamo in particolare al principio dell'amministrazione integrata e cioè alla cooperazione e concertazione delle scelte tra diversi settori e livelli dell'Amministrazione Pubblica. 17 Su questo stesso punto la circolare esplicativa del Ministero dell'Interno evidenzia che la norma fissa "i principi fondamentali di un nuovo rapporto tra regioni ed enti locali minori.....e che "Sono previsti, in particolare meccanismi nuovi di cooperazione dei comuni e delle province tra loro e con la regione al fine di realizzare un efficiente sistema delle autonomie locali al servizio dello sviluppo economico, sociale e civile." e in particolare, a proposito della Provincia, che "Nell'attribuzione delle funzioni alla provincia la legge ha continuato a seguire il criterio delle competenze integrate..... 18 Le direttrici lungo cui la nuova Provincia potrà concretizzare il ruolo che ad essa attribuisce la legge sono sostanzialmente tre: lo sviluppo delle nuove funzioni e competenze ad essa attribuite, l'attuazione del ruolo di raccordo verticale tra Comuni e Regione e orizzontale tra i diversi Comuni, la realizzazione di nuovi Strumenti di pianificazione e programmazione indicati (genericamente) dalla legge di riforma.
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LE FUNZIONI DELLA "NUOVA" PROVINCIA
Le funzioni della Provincia vengono indicate attraverso due criteri: il richiamo alla scala provinciale o comunque sovracomunale e l'elenco dei settori di intervento. Questi sono dettagliatamente elencati nel I comma dell'art. 14 come riportiamo di seguito: 'a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità; tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; valorizzazione dei beni culturali; viabilità e trasporti; protezione della flora e della fauna; O caccia e pesca nelle acque interne; organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, rilevamento, disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica attribuiti dalla legislazione statale e regionale; compiti connessi alla istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l'edilizia scolastica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale; 1) raccolta, ed elaborazione dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali." In sintesi i settori di specifica competenza provinciale possono esser ricondotti a tre grandi raggruppamenti: sviluppo delle risorse di area (dalla valorizzazione delle risorse energetiche e idriche, alla valorizzazione dei beni culturali, alla viabilità); sicurezza e tutela ambientale (difesa del suolo, protezione della flora e fauna, smaltimento dei rifiuti, eliminazione o riduzione dei diversi fattori di inquinamento); infrastrutture e servizi di base (sanità, 60
istruzione, trasporti). È importante notare che il complesso dei settori di intervento attribuiti alla Provincia identifica in ampia misura l'area di intervento sui fattori cmciali dello sviluppo socio economico. In altri termini, l'azione della Provincia assume un ruolo e una importanza fondamentale nell'azione di sostegno e promozione dello sviluppo socio economico delle collettività locali. Alla Provincia vengono inoltre attribuiti importanti compiti di raccordo tra il livello comunale e quello regionale: raccoglie e coordina le proposte comunali in tema di programmazione economica, territoriale e ambientale; concorre alla determinazione della programmazione regionale; formula e adotta una propria programmazione pluriennale (settoriale e generale) in accordo con la programmazione regionale; promuove il coordinamento della programmazione comunale. 19 V'è quindi un preciso collegamento tra questi compiti di raccordo e di programmazione e la funzione di raccolta ed elaborazione di dati nonché l'assistenza tecnico amministrativa agli enti locali. Tale funzione costituisce uno dei punti cardine della riforma poiché, come cercheremo di mostrare più chiaramente nel prossimo paragrafo, la realizzazione di un servizio in grado da un lato di assicurare un interscambio attivo di informazioni di base ma anche delle linee di possibile soluzione, delle scelte e delle opzioni che vengono maturando altri livelli e settori della Pubblica Amministrazione e dall'altro di mettere a disposizione degli enti un repertorio di possibili linee e strumenti di intervento, costituisce la indispensabile premessa affinché il criterio delle "competenze integrate" 20 possa tradursi concretamente in azioni di coordinamento e raccordo.
Sempre alla Provincia vengono poi attribuiti compiti di pianificazione territoriale consistenti nella predisposizione e adozione del "Piano Territoriale di Coordinamento" che, in attuazione dei programmi regionali, indica: "a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulicoforestale ed in generale per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali." 21 In altri termini la legge indica che il Piano Territoriale di Coordinamento deve definire tutte le valenze fondamentali della pianificazione territoriale, fissando la struttura del territorio e le direttrici della sua evoluzione. In questo modo il Piano Territoriale di Coordinamento interagisce direttamente con gli strumenti urbanistici generali di livello comunale. Ad una lettura affrettata potrebbe sembrare che questa interazione assuma un prevalente significato di ridimensionamento della pianificazione generale di livello comunale, relegata ad un ruolo di definizione di dettaglio delle grandi scelte di trasformazione e tutela del ter ritorio operate a livello provinciale. In realtà riteniamo che la riforma indichi un sistema di governo del territorio complessivamente più articolato e complesso, che piuttosto che ridimensionare la pianificazione territoriale comunale tende a ridefinirne le caratteristiche e la qualità in relazione alla pianificazione territoriale provinciale (sempre in omaggio al principio delle competenze integrate).
Infine la Provincia ha anche compiti realizzativi in quanto "promuove e coordina attività nonché realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo." 22 Dunque mentre la legge di riforma accentua il ruolo di soggetto di programmazione e legislazione della Regione e quello di soggetto di amministrazione del Comune, riserva alla Provincia un ruolo complesso, dove i compiti di coordinamento, programmazione e pianificazione si integrano con quelli di realizzazione delle principali opere di interesse provinciale e di gestione dei servizi alla scala provinciale. Se a questo punto ricordiamo quel processo di dilatazione delle dimensioni territoriali entro cui si svolgono le dinamiche sociali ed economiche del quale abbiamo parlato nel precedente capitolo, dobbiamo ritenere che, almeno in linea di principio e in prospettiva, il livello provinciale tenda a concentrare componenti particolarmente significative della programmazione e pianificazione territoriale (e della realizzazione delle relative opere), orientate allo sviluppo della struttura produttiva locale. A differenza di molti comuni caratterizzati oggi da dimensioni molto ridotte e da strutture e capacità operative coerenti con tali dimensioni, la provincia appare infatti in grado di orientare e sostenere il processo di adeguamento e riorganizzazione delle principali infrastrutture e di orientare il processo di rafforzamento e specializzazione del ruolo territoriale di strutture insediative che non di rado travalicano i ristretti confini delle circoscrizioni amministrative comunali. Se dunque il forte rilancio del livello provinciale non è indifferente rispetto alla 61
configurazione delle competenze e delle funzioni del livello comunale, occorre peraltro notare che la realizzazione della nuova Provincia non determina una caduta di importanza e incisività del livello Comunale quanto piuttòsto una decisa ridefinizione del ruolo e del campo di azione del Comune. In buona sostanza riteniamo che sarebbe del tutto fuorviante cercare di analizzare fino a che punto le nuove competenze della Provincia erodano le attuali competenze comunali mentre appare decisamente più proficuo ragionare su quali debbano essere le competenze del "nuovo" Comune complementari e integrabili con quelle della "nuova" Provincia. L'AZIONE DI RACCORDO
Come abbiamo visto uno dei ruoli fondamentali della nuova Provincia è quello di svolgere un'azione di raccordo verticale (tra livello comunale e livello regionale) e orizzontale (tra diverse amministrazioni comunali); ruolo che risponde in pieno a quel principio delle competenze integrate e a quel superamento dei settorialismi che certamente sono tra le componenti più innovative e importanti della legge. Si tratta di un punto piuttosto delicato che evidenzia in modo chiaro le potenzialità positive della riforma ma ne mostra anche quello che consideriamo, se non un limite ricorrente, una caratteristica strutturale decisamente critica. La riforma individua un principio guida, quello appunto delle competenze integrate o della amministrazione concertata tra diversi soggetti e livelli della Pubblica Amministrazione e, coerentemente, articola su questo principio una struttura organizzativa, ruoli, competenze. Nella fat62
tispecie ruoli e competenze della Provincia anzitutto ma, indirettamente, anche del livello comunale e regionale. 23 In relazione a questo impianto ideale, vengono definite le funzioni che organizzano in dettaglio il ruolo di raccordo della Provincia: la raccolta ed elaborazione di dati, l'assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali, la raccolta e il coordinamento delle proposte avanzate dai Comuni alla Regione in tema di progranlmazione economica-territoriale-ambientale, la partecipazione alla determinazione della programmazione regionale. La legge di riforma si ferma a questo punto: alla dettagliata esposizione di compiti, ruoli, funzioni, senza fornire indicazionisui modi, sulle procedure, sugli strumenti da utilizzare. Certamente la "riservatezza" del legislatore appare ampiamente condivisibile, tanto più trattandosi di una legge di principi che per essere pienamente attuata richiede un'ampia serie di ulteriori atti legislativi sia da parte dell'Amministrazione Centrale sia, soprattutto, da parte delle Amministrazioni Regionali. Resta tuttavia il fatto che in questo caso, come in molti altri che indicheremo nel seguito, la concreta attuazione della riforma richiede un'accurata definizione delle tecniche, delle procedure e degli strumenti senza i quali appare assai difficile, se non impossibile, passare dal piano dei principi a quello delle concrete azioni amministrative. Questo corpo di determinazioni, che raccorda ruoli e funzioni dei diversi soggetti del "sistema delle autonomie locali" 24 alla loro concreta operativit, individuando gli strumenti, le tecniche e le procedure, cer tamente non può essere lasciato alla abiit dei singoli soggetti sia per banali motivi di efficacia (si correrebbe il rischio di conti-
nue quanto inutili duplicazioni di sforzi di progettazione e realizzazione) sia per motivi di omogeneità (una definizione di tali strumenti e procedure affidata alle singole amministrazioni correrebbe il rischio di determinare una crescente eterogeneità che alla lunga metterebbe in crisi lo stesso principio di amministrazione integrata). Inoltre, questo repertorio di tecniche, procedure e strumenti dovrebbe essere ideato in stretta relazione all'assetto organizzativo regionale, alla ripartizione di funzioni e competenze tra livello provinciale e livello comunale che Amministrazione Centrale e Regioni debbono definire. Nel caso specifico la definizione degli strumenti necessari allo svolgimento del ruolo di raccordo della provincia pone diversi problemi. Anzitutto è necessario chiarire se la funzione di raccolta ed elaborazione dati e di assistenza tecnica e amministrativa agli enti locali prefiguri nulla più che una sorta di servizio a metà strada tra l'ufficio statistico e il centro di documentazione o se invece non si tratti di qualche cosa di ben più complesso e importante che interagisce direttamente e attivamente con l'azione amministrativa dei tre principali livelli di governo locale. Noi siamo decisamente convinti che sia necessario praticare la seconda alternativa e cercheremo di chiarire i motivi. In secondo luogo, abbiamo già notato che la riforma degli enti locali pone con grande chiarezza il principio della amministrazione integrata o concertata, non a caso la legge si riferisce al "sistema delle autonomie locali", evidenziando in questo modo un carattere di organica unitarietà dell'azione pubblica in contrapposizione alle tradizionali caratteristiche di rigida suddivisione per settori e livelli. Nel
determinare questo indirizzo il legislatore segue una tendenza abbastanza diffusa nella produzione legislativa più recente che fa riferimento ad un processo decisionale basato sull'interazione di diversi soggetti pubblici e sull'integrazione di diversi processi decisionali piuttosto che a quello, più tradizionale, basato su scelte e decisioni settoriali che si svolgono in una sequenza gerarchicamente lineare. La presenza di un maggior numero di decisori e la loro partecipazione simultanea al processo decisionale consente infatti di superare alcuni limiti tradizionali dell'azione pubblica, di definire piani o interventi in sintonia con la natura complessa dei problemi che oggi abbiamo di fronte ma certamente determina anche un incremento di complessità del processo decisionale che per esser gestito efficacemente richiede profili professionali e abilità gestionali molto elevati.
La gestione dei processi decisionali complessi In particolare la gestione dei nuovi processi decisionali comporta una radicale modificazione della struttura stessa del processo decisionale che perde la configurazione di percorso lineare che si snoda all'interno di un settore definito con pochi o nulli interscambi con altri settori, e tende a diventare un processo caratterizzato dalla interazione diretta di molti decisori che appartengono a diversi settori e a diversi livelli amministrativi della Pubblica Amministrazione (si veda la rappresentazione Schematica riportata nella Figura i alla pagina 115). Il "percorso decisionale" perde le caratteristiche di settorialità e linearità per acquisire forme e strutture più complesse. 63
In queste condizioni le Amministrazioni Provinciali in particolare (ma anche i Comuni, le comunitt montane e le Regioni) non si trovano semplicemente di fronte ad un problema di aumento di difficoltà e di complicazione dell'azione amministrativa quanto, piuttosto, ad una questione affatto nuova, che occorre valutare attentamente e affrontare con strumenti adeguati. Il nuovo contesto normativo richiede, a nostro avviso, di affiancare alla gestione del territorio intesa come sequenza di decisioni da assumere per attuare i Piani e i Progetti, una gestione dei processi decisionali complessi. Questi sempre più costituiscono la premessa e determinano i vincoli da rispettare sia nelle fasi di pianificazione e progettazione sia nelle fasi di realizzazione. Le strategie che possono determinare il successo o meno di un progetto di ampio respiro riguardano sempre meno gli aspetti tecnici o gestionali della realizzazione degli interventi, si collocano sempre meno sul percorso che procede dai progetti urbanistici o edilizi verso la loro realizzazione e si misurano sempre più sulla capacità di organizzare, orientare, gestire, valutare nel modo più efficace i percorsi decisionali dei diversi soggetti; di governare un contesto dove si confrontano direttamente diversi decisori dotati di pari autorità e autonomia; di proporre a tutti i soggetti concorrenti obiettivi, valutazioni, linee di azione efficaci e convincenti. In altri termini se in prospettiva l'azione di governo di una qualsivoglia Amministrazione non arrivasse a comunicare con esplicita chiarezza i propri obiettivi e i propri vincoli; a documentare gli aspetti tecnici, organizzativi e le implicazioni economiche dei progetti sui quali chiede la convergenza delle scelte degli altri decisori (non solo pubblici); a informare in 64
modo chiaro e tempestivo i cittadini su ciò che è possibile fare e su ciò che non lo è; ma soprattutto se non arrivasse a "certificare" perché sia opportuno "fare" in una certa direzione; non sembra che il principio delle competenze integrate possa tradursi in azioni concrete e, soprattutto, in condizioni di maggiore efficacia ed efficenza. 25 L'alternativa che ci si pone di fronte è tra una convergenza di scelte e di azioni resa possibile da un sistema di informazioni condivise e da una comunicazione adeguata alla natura delle scelte da effettuare e qualche cosa di molto simile alla confusione di" lingue" e di" genti" che rese impossibile la costruzione della torre di Babele. Strumenti dell'amministrazione integrata Questa poco appariscente ma decisiva "rivoluzione" del processo decisionale e dell'azione amministrativa richiede, come è del tutto intuibile, strumenti adeguati. In particolare si richiede la presenza di una struttura in grado di raccogliere e organizzare non solo i dati elementari ma anche le informazioni complesse utilizzate dai vari soggetti per la definizione delle proprie scelte (dei propri programmi e piani), di comunicare questa struttura di conoscenze ai diversi decisori, ma soprattutto appare necessario che le opzioni, gli indirizzi, le valutazioni di base che strutturano il percorso decisionale possano essere in varia misura condivise da tutti i soggetti che partecipano al processo decisionale. In altri termini il principio di amministrazione integrata contenuto nella riforma non richiede banalmente un raccordo a posteriori laddove con mediazioni più meno riuscite si possono determi-
nare condizioni di coerenza e compatibilità tra le azioni delle diverse amministrazioni: ciò accade già oggi (o almeno dovrebbe accadere) e tale "percorso" è tutto compreso all'interno di una logica di intervento settoriale della Pubblica Amministrazione. La legge di riforma richiede invece che il coordinamento, la concertazione e la determinazione delle condizioni di compatibilità, integrazione e sinergia, vengano definite all'interno degli stessi percorsi decisionali svolti autonomamente dai diversi soggetti. Ne consegue che la funzione di raccolta ed elaborazione di dati e quella di assistenza tecnica e amministrativa procedono ben oltre i limiti di un centro statistico o di documentazione e consulenza più o meno sistematica su quesiti specifici per arrivare a definire una struttura il cui compito primario è quello di comunicare e rendere trasparente l'insieme di informazioni, valutazioni, orientamenti e opzioni attorno al quale va costruita la concertazione delle scelte e delle azioni amministrative. Allo stesso modo apparirebbe decisamente riduttivo un ruolo di coordinamento delle proposte comunali in materia di sviluppo economico e tutela ambientale che si limiti alla semplice raccolta dei documenti senza acquisire e organizzare in adeguate strutture descrittive e analitiche anche le conoscenze e le valutazioni che hanno guidato quelle stesse proposte e gli obiettivi che la collettività locale ha inteso raggiungere nel formularle. In altri termini riteniamo che la proposta del livello comunale (o più in generale la proposta avanzata dal livello subordinato a quello sovraordinato) non debba assumere il senso di una rivendicazione o di una ipotesi più o meno credibile da presentare alle istanze superiori ma quello, ben più costruttivo, di contributo
attivo di conoscenze, analisi, obiettivi, alla programmazione regionale. Infine, la funzione di promozione del coordinamento tra le diverse amministrazioni comunali, tra i Piani e i Programmi da queste espressi, non può certo consistere semplicemente nella illustrazione della pianificazione e programmazione di livello superiore e nella verifica delle eventuali condizioni di incoerenza e incompatibilità che si dovessero riscontrare a posteriori. Anche in questo caso appare necessario garantire la possibilità, da parte delle amministrazioni comunali, di condividere conoscenze, strumenti di analisi, informazioni sulle scelte operate dalle altre amministrazioni ma soprattutto occorre garantire alle Amministrazioni subordinate la possibilità di utilizzare queste stesse conoscenze all'interno dei processi di analisi e di valutazione che vengono autonomamente svolgendo. Le considerazioni appena esposte conducono direttamente ad una ridefinizione dei tradizionali sistemi informativi ai quali in generale è affidato il compito di assicurare la raccolta, l'organizzazione e l'elaborazione delle informazioni. Questi non possono più essere solamente uno strumento per la costruzione, l'organizzazione e l'elaborazione di dati tecnici che verranno utilizzati per fornire un 'ausilio ai progettisti degli strumenti urbanistici o per individuare le alternative di intervento da sottoporre alla valutazione e alla decisione politica. Assume invece una crescente importanza la capacità da parte di questi sistemi di svolgere un duplice ruolo. Da un lato v'è infatti la necessità di strutture e strumenti a sostegno: - della formazione delle scelte e della corretta interazione tra i diversi processi decisionali; 65
- della comunicazione di quadri infor mativi completi ai numerosi decisori affinché questi possano operare all'interno di un corpo di vincoli e di opzioni il più possibile noto; - della concertazione delle molte decisioni che concorrono nel processo di trasformazione del territorio. In sostanza un ruolo di supporto alla "gestione del processo decisionale" (si veda la rappresentazione schematica in Figura 2, posta alla pagina 116). Dall'altro appare sempre più necessario disporre di strumenti e modi di comunicazione orientati non solo verso il corpo dei decisori ma anche verso l'insieme dei cittadini e delle imprese e con caratteristiche tali da assicurare una informazione completa,, facilmente comprensibile, di reale utilità sul complesso di norme, procedure, vincoli e sostegni offerti dalle diverse amministrazioni in materia di trasformazione territoriale. In sostanza si tratta di realizzare uno "Sportello Urbanistico" e cioè uno strumento e un servizio che nel loro complesso rendono disponibili e facilmente consultabili informazioni dettagliate su tutti i caratteri normativi, le procedure, i vincoli, che insistono in una qualsivoglia porzione di territorio o di tessuto edificato. 26 A questo proposito occorre notare • che un agevole accesso dei cittadini alla normativa in materia di trasformazione territoriale (e non solo in materia di trasformazione territoriale) risponde a due ordini di esigenze. Da un lato una corretta informazione appare essere un requisito indispensabile per avviare la gestione di processi decisionali complessi e di concertazione delle scelte che costituisce la premessa per un reale coinvolgimento di risorse e capacità privata all'interno di 66
programmi e progetti orientati su obiettivi di pubblica utilità; sotto questo aspetto l'accessibilità alla informazione costituisce essa stessa uno "strumento" della pianificazione territoriale e più in generale dell'azione amministrativa (su questo tema si veda anche il paragrafo "Lo sportello urbanistico"a pag. 93 nel cap. IV, "Il livello comunale"). D'altro lato la trasparenza degli atti amministrativi e delle scelte operate dall'amministrazione ha un valore in sé, risponde a istanze di democrazia e partecipazione sulle quali la legge di riforma si sofferma in dettaglio indicando forme di partecipazione, obblighi alla determinazione di forme di consultazione che dovranno esser precisati nello statuto, diritti di accesso agli atti amministrativi definiti dal regolamento provinciale e comunale. 27 In particolare l'Ente Locale (sia la Provincia che il Comune) nel regolamento " ... individua, con norme di organizzazione degli uffici e dei servizi, i responsabili dei procedimenti; - per l'accesso agli atti amministrativi - detta le norme necessarie per assicurare ai cittadini l'informazione sullo stato degli atti e delle procedure e sull'ordine di esame di domande, progetti e provvedimenti che comunque li riguardino; assicura il diritto 'dei cittadini di accedere, in generale, alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione." 28 Come si può facilmente intuire la questione non si pone affatto in termini puramente, o prevalentemente, tecnici e settoriali, non riguarda solo le tecniche e i metodi della corretta gestione degli archivi di dati e della loro elaborazione. La natura del problema investe in modo centrale sia le forme di governo del territorio e la concreta possibilità di dare esito operativo al principio delle competenze integra-
te e delle scelte e interventi concertati tra pubblico e privato, sia la possibilità di orientare in modo efficace comportamenti economici e sociali diffusi (processi di riuso e rilocalizzazione, interventi di microtrasformazione urbanistica ed edilizia, etc.) verso assetti e obiettivi che la pianificazione ha indicato come auspicabili, sia infine il rapporto tra Stato e cittadini. Concludiamo notando che tutto ciò comporta una diffusione e circolazione di informazioni qualitativamente diversa da quella che in generale caratterizza l'attuale modo di amministrare, strutturato da processi decisionali tendenzialmente settoriali e poco permeabili, che determinano esiti non sempre coerenti con quelli attesi ed auspicabili. IL PIAj'o TERRITORIALE DI cooRDINAMENTo
Il secondo punto nodale sul quale vogliamo richiamare l'attenzione riguarda la pianificazione territoriale di livello provinciale: il Piano Territoriale di Coordinamento. Ad un esame affrettato sembrerebbe trattarsi della riproposizione di uno strumento che, sia pure con diverse connotazioni, con contenuti e a scale differenti (sempre comunque di livello sovracomunale) è stato impiegato sino alla metà degli armi '60. Un' utilizzazione più sistematica di questo livello di pianificazione si è tuttavia verificata solo con l'istituzione dell'"Ente Intermedio", ancorché spesso gli esiti non siano stati soddisfacenti e il livello di effettivo controllo dei processi reali che investivano il territorio sia frequentemente risultato piuttosto basso. In realtà riteniamo che almeno due fattori concor rano - o possano concorrere - ad innovare radicalmente i contenuti del Piano
Territoriale di Coordinamento portandolo ad essere uno strumento centrale del governo del territorio. Il primo fattore riguarda una crisi da eccessiva articolazione degli strumenti di pianificazione territoriale sia in termini di progressiva moltiplicazione di strumenti settoriali scarsamente raccordati tra loro e con ampie sovrapposizioni sia in termini di stratificazione dei livelli di pianificazione, con numerosi passaggi poco strutturati e di difficile attuazione. 29 Il reale controllo dei processi evolutivi del territorio non è stato tuttavia migliorato da questo "eccesso" di pianificazione come testimonia da un lato lo scarso governo degli ampi processi di riuso-rilocalizzazione e la gran massa di microinterventi "spontanei" di riqualificazione e ristrutturazione e dall'altro la notevole mole di abusivismo ediizio. Inoltre, la stessa architettura complessiva del governo del territorio a partire dagli anni '80 assume una configurazione caratterizzata da elementi di contraddittorietà e da una sempre più sistematica presenza di strumenti, norme, programmi straordinari che operano in dichiarata alternativa (e in implicita contraddizione) rispetto al tessuto degli strumenti ordinari di pianificazione territoriale. A questa situazione, caratterizzata da una notevole complicazione e contraddittorietà da un lato e da una scarsa incidenza degli strumenti di governo del territorio sui processi reali dall'altro, si è tentato, con sempre maggiore frequenza, di contrapporre un assetto della pianificazione territoriale più strutturato, centrato su pochi strumenti fortemente integrati e in grado di rappresentare in modo chiaro ed esaustivo le possibilità di trasformazione, i vincoli e gli indirizzi di sviluppo lungo i quali si concentrano gli sforzi dell'amministrazione pubblica e sui quali viene ri67
chiesto il coinvolgimento delle risorse private. In altri termini si registra in modo sempre più diffuso un orientamento verso la riduzione del livello di complicazione della pianificazione (e dunque una riduzione del numero dei piani e una maggiore chiarezza e consistenza dei rapporti che legano i diversi strumenti della pianificazione territoriale) e, parallelamente, verso un incremento di complessità (e cioè verso un arricchimento dei contenuti e degli strumenti a supporto del Piano) necessaria per governare i processi di riorganizzazione socioeconomica e territoriale che caratterizzano l'attuale fase di sviluppo territoriale. Rispetto a questi orientamenti la riforma offre ampi spazi di ridefinizione sia direttamente, chiamando le Regioni a fissare .i criteri e le procedure per la formazione e attuazione degli atti e degli strumenti della programmazione socioeconomica e della pianificazione territoriale' dei comuni e delle province rilevanti ai fini dell'attuazione dei programmi regionali." 30, sia indirettamente, attraverso la riorganizzazione delle circoscrizioni amministrative, la ripartizione di funzioni tra livello provinciale e livello comunale, i regolamenti comunali e provinciali, le indicazioni di concertazione e integrazione dell'azione arriministrativa. Il secondo fattore che gioca a favore del "nuovo" Piano Territoriale di Coordinamento riguarda il ruolo della Provincia che, per quanto attiene alla pianificazione territoriale, è decisamente centrato sulle scelte chiave in materia di destinazioni fondamentali del territorio, localizzazione delle grandi infrastrutture e linee di comunicazione, definizione delle linee di intervento per la difesa idrogeologica, consolidamento del suolo e regimazione 68
delle acque, individuazione delle aree protette. In altri termini sembra di capire che il legislatore ha voluto individuare nel piano territoriale elaborato dalla Provincia, appunto il Piano Territoriale di Coordinamento, uno strumento di definizione delle grandi direttrici di sviluppo del territorio evitando ogni determinazione quantitativa, fisica, che non fosse strettamente funzionale ai contenuti "qualitativi" del Piano. In questi termini il Piano Territoriale di Coordinamento assume le caratteristiche di un "piano di struttura", fortemente orientato al governo dei processi economici e sociali e alla tutela dell'ambiente naturale e costruito attraverso una serie integrata di azioni sul territorio piuttosto che quella di un piano di definizione fisica delle strutture insediative. Sul Piano Territoriale di Coordinamento infatti possono (o debbono) convergere conoscenze, valutazioni e scelte particolari elaborate dai Comuni e dalla Regione, così come le opzioni individuate dall'Amministrazione provinciale e le esigenze espresse dagli operatori economici privati in termini di mobilità, di dotazione di infrastrutture e servizi, di riqualificazione e riorganizzazione delle strutture insediative in relazione alle istanze di rilocalizzazione espresse dalla struttura produttiva e dalla popolazione. Sotto questo aspetto il Piano Territoriale di Coordinamento potrebbe essere pensato come il punto terminale, l'espressione ultima, di un processo ciclico che tende ad acquisire dati elementari e informazioni complesse sia sulle caratteristiche e sui processi che investono il territorio sia sulle valutazioni e sulle scelte operate da amministrazioni pubbliche e da soggetti privati. Si tratterebbe cioè di uno stru-
mento che non fa conseguire la pianificazione territoriale solo da una attività di conoscenza delle condizioni e dei processi che investono il territorio e dalla elaborazione di queste conoscenze ma anche da una sistematica attività di ricognizione sulle scelte e sui programmi dei diversi attori (pubblici e privati) delle trasformazioni territoriali, per arrivare ad un progetto che da un lato tenga conto del quadro delle scelte e delle opzioni che si manifestano nella provincia e dall'altro sia in grado di riproporle in una configurazione più integrata ed organica, più coerente con il sistema di risorse materiali e immateriali presente nel sistema delle strutture insediative dell'area, in sintonia con gli obiettivi di sviluppo sociale ed economico locale. Una impostazione di questo genere comporta da un lato uno stretto collegamento con le attività di raccordo che abbiamo indicato nel precedente paragrafo e dall'altro una solida capacità di valutare le implicazioni economiche e sociali delle diverse scelte sia in termini generali per la collettività di area vasta sia in termini particolari per i singoli operatori e per le di'erse collettività locali (comunali). Dunque le premesse del Piano Territoriale di Coordinamento adombrato dalla legge di riforma sono costituite da un efficace sistema di raccolta di dati e informazioni complesse, da adeguati strumenti di elaborazione, comprendendo tra questi anche un apparato di modelli di valutazione degli effetti economici e sociali, ma soprattutto da un efficiente sistema di comunicazione delle informazioni di base, delle scelte operate dai vari soggetti agenti nell'area e delle valutazioni sviluppate dall'Amministrazione Provinciale che costituisce il supporto della gestione del
processo decisionale che organizza le scelte di Piano. Quest'ultimo carattere può essere considerato la componente cruciale attorno alla quale ruota la capacità o meno di esprimere un Piano condiviso dai diversi soggetti (pubblici e privati) presenti nell'area e, quindi, la possibilità di definire programmi dove convergano in modo coerente e integrato risorse e capacità operative pubbliche e private. In questa direzione il Piano Territoriale di Coordinamento può diventare uno strumento attivo per il raccordo strutturato e orientato dei diversi Piani e Programmi settoriali (non solo per quelli formalizzati elaborati dalla Amministrazione Pubblica ma anche per quelli, più informali e flessibili, che solitamente esprime l'area degli operatori privati) ponendo particolare attenzione al coinvolgimento delle forze produttive; può diventare cioè strumento per la costruzione e l'orientamento di un progetto complessivo (espresso in vari modi e a vari gradi da tutta la collettività del sistema insediativo provinciale) che non è ancora disegno urbanistico e che di questo ha bisogno per diventare concreto intervento sul territorio. E non sarà inutile notare che al di fuori di questa collocazione le caratteristiche strutturali del Piano Territoriale di Coordinamento tendono a slittare verso quelle dello strumento urbanistico generale di livello comunale (causando ben prevedibili sovrapposizioni e frizioni) o verso la programmazione regionale (riducendosi al rango di esplicitazione locale di scelte sviluppate altrove). Per contro nell'ambito che abbiamo schematicamente indicato il Piano Territoriale di Coordinamento può coprire un vuoto di pianificazione (i cui effetti ci appaiono sempre più preoccupanti) e può raccordare il sistema di o69
biettivi e di scelte particolari espresse dalle collettività locali e dagli operatori economici alle direttrici generali individuate dalla programmazione regionale e statale. 3. LE GRANDI CONCENTRAZIONI URBANE
Probabilmente uno dei punti più noti, ed attesi, della riforma riguarda l'istituzione delle aree metropolitane. 3' I nove sistemi metropolitani indicati dalla legge, stando ai risultati elaborati nel corso degli studi e delle indagini sulla struttura territoriale italiana effettuati dal CRESME in varie occasioni 32, comprendono POCO meno di 800 comuni (circa il 10% del totale) e si sviluppano su una superficie di 23.000 chilometri quadrati (circa l'8% della superficie nazionale) raccogliendo oltre 18,6 milioni di abitanti (il 33% della popolazione italiana) con una densità demografica media di 800 abitanti per chilometro quadrato. Tra i caratteri peculiari di questi sistemi si registra la ridotta dimensione territoriale dei comuni (in media 29 chilometri quadrati contro i 37 del dato nazionale) e il fatto che dal 1951 (quando il censimento generale dell'ISTAT attribuiva a questo comparto territoriale 12,3 milioni di abitanti) al 1981 l'incidenza percentuale della popolazione delle aree metropolitane sulla popolazione complessiva del Paese è passata dal 26% al 33%. 33 I processi di espansione delle maggiori città italiane e di saldamento con le piccole strutture insediative circostanti a formare sistemi territoriali sempre più estesi e integrati tra loro, hanno assunto dimensioni macroscopiche fino dagli anni '60 per arrivare, alla soglia degli anni '90 a configurazioni piuttosto paradossali laddove ad un continuum edificato corri'70
sponde, sul piano del governo locale, una suddivisione in molti comuni: da diverse decine a oltre cento (nelle tabelle riportate a pag. 114 si illustrano alcuni dati quantitativi delle nove aree metropolitane indicate dalla legge). 3 Se tuttavia la questione consistesse unicamente nello scarto tra dimensioni territoriali della struttura insediativa e dimensioni delle circoscrizioni amministrative saremmo di fronte ad un fenomeno che non riguardo solo le maggiori aree del paese ma quasi tutto il territorio nazionale come abbiamo cercato di evidenziare nei precedenti capitoli 35. Certamente nelle aree metropolitane il fenomeno ha iniziato a manifestarsi sino dagli anni '60 mentre nel resto del paese appare essere il risultato di modificazioni e processi che iniziano alla fine degli anni '70. Inoltre non v'è dubbio che nelle aree metropolitane il livello di interazione e interdipendenza tra le diverse parti del territorio è particolarmente marcato. In definitiva è evidente che vi è una differenza di intensità e di misura, nello scarto tra strutture insediative e circoscrizioni amministrative nel caso delle aree metropolitane rispetto ai restanti sistemi territoriali. Tuttavia questa è solo una delle differenze, anche se forse è la più appariscente. In realtà vi sono differenze qualitative ancora più rilevanti, quelle stesse che hanno determinato la impegnativa affermazione del Ministero dell'Interno che rileva la presenza di " ... numerosi e difficili problemi che l'ormai diffuso fenomeno delle conurbazioni pone a chi voglia farsi cariCO di amministrare realtà territoriali estese e sempre più ingovernabili con gli strumenti che l'ordinamento comune mette a disposizione.". 36 In termini più espliciti tra il sistema urba-
no di Ferrara che comprende circa 50 comuni per un complesso di circa 500.000 abitanti e il sistema metropolitano di Genova che ne comprende poco più di 30 e conta poco meno di 900.000 abitanti, la differenza non consiste solo nella maggiore densità dell'insediamento e nel fatto che le quantità in gioco sono in rapporto grosso modo di i a 2; la qualità dei problemi da affrontare presenta differenze che vanno ben oltre queste semplici misurazioni. 37 Senza sviluppare in alcun modo un discorso sulle aree metropolitane che ci porterebbe molto lontano dagli obiettivi di queste pagine, ci limitiamo a notare come tra i principali fattori che caratterizzano la condizione metropolitana in Italia debbano essere indicati da un lato il ruolo che la struttura produttiva e terziaria tende a svolgere sia a livello nazionale che internazionale e dall'altro la condizione di drammatico "ritardo urbanistico" 38 che è il risultato diretto di oltre 20 anni di espansione quantitativa strutturata in netta prevalenza su una continua aggiunta di periferie. La realtà metropolitana italiana è dunque identificata, tra l'altro, da una decisa contraddizione tra l'esigenza di una riorganizzazione delle strutture insediative in grado di garantire quelle dotazioni infrastrutturali e di servizi senza le quali diventa molto difficile se non impossibile sviluppare quel ruolo direzionale che caratterizza le aree metropolitane negli anni '80 e '90 e una marcata povertà di infrastrutture, servizi, strutture in una condizione di frazionamento amministrativo che rende ancora più complicato un problema già per sua natura piuttosto complesso. Si consideri inoltre che le grandi periferie urbane degli anni '50 e '60 stanno suben-
do un processo di degrado edilizio particolarmente veloce e che tale condizione, combinandosi con la povertà dei servizi e infrastrutture e con condizioni molto diffuse di difficile accessibilità ai luoghi dove si concentrano le strutture dei servizi vari, determina quelle situazioni di drammatico deterioramento urbano e sociale che - presumibilmente - hanno condotto ad un giudizio tanto grave (quasi una dichiarazione di impotenza) da parte dell'estensore della circolare ministeriale. LE FUNZIONI DELLA CIrrÀ METROPOLITANA
A fronte di questa situazione che lo stesso Ministero dell'Interno valuta essere sempre più ingovernabile, il legislatore, con la riforma dell'ordinamento delle Autonomie Locali, ha voluto determinare una decisa concentrazione di funzioni e competenze (quindi di poteri) in una autorità di governo unica: la "Città Metropolitana". In particolare la riforma tratta la Città Metropolitana come caso particolare della "nuova" Provincia, precisando che questo ente, oltre alle funzioni proprie della Provincia, è chiamato a svolgere le funzioni normalmente attribuite ai Comuni quando queste abbiano precipuo carattere sovracornunale o debbano essere svolte in forma coordinata per ragioni di economicità o efficenza. La legge inoltre indica sette materie di competenza specifica della Città Metropolitana: "a) pianificazione territoriale dell'area metropolitana; b) viabilità, traffico e trasporti; c) tutela e valorizzazione dei beni culturali e dell'ambiente; d) difesa del suolo, tutela idrogeologica, tutela e valorizzazione delle risorse idriche, smaltimento dei rifiuti; e) raccolta e distribuzione delle acque e delle fonti energetiche; i') servizi per lo sviluppo economico e 71
grande distribuzione commerciale; g) servizi di area vasta nei settori della sanità, della scuola e della formazione professionale e degli altri servizi urbani di livello metropolitano.". 39 Si noterà tuttavia che, a ben guardare, l'articolo 19 ripropone tutti i settori di intervento propri del livello provinciale ad eccezione del riferimento alla "pianificazione territoriale dell'area metropolitana" e ai "servizi per lo sviluppo economico e grande distribuzione commerciale". L'elenco delle funzioni suggerisce due considerazioni immediate. Anzitutto ci sembra significativo che l'elenco di funzioni "aggiuntive" che il legislatore attribuisce alla Città Metropolitana in realtà aggiunge ben poco alle competenze già proprie della Provincia. Ciò avviene a causa di due fattori: il rilevantissimo ruolo che la legge già attribuisce al livello provinciale e il fatto che la Città Metropolitana sul piano istituzionale e aniministrativo deve essere considerata come una provincia dalle caratteristiche particolari che, per quanto riguarda competenze, funzioni e ruolo, ricalca da vicino quelle proprie della Provincia in generale. La seconda considerazione riguarda il fatto che le funzioni " ... normalmente affidate ai comuni vengono attribuite alla Città Metropolitana quando hanno precipuo carattere sovracomunale o debbono, per ragioni di economicità ed efficienza, essere svolte in forma coordinata nell'area metropolitana Tale specificazione, riferita ad un'area che per definizione è caratterizzata da una stretta interdipendenza delle sue parti e da una interazione diretta tra i processi che si svolgono sul suo territorio, si risolve, a meno di vistose forzature nell'interpretazione e nell'attuazione della legge, in una implicita e generale attribuzione delle funzioni .....
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comunali in materia di pianificazione territoriale, viabilità, trasporti, tutela e valorizzazione dei beni culturali, servizi per lo sviluppo economico, etc. alla Città Metropolitana con l'eccezione di interventi, scelte e azioni di livello decisamente localistico e di scarsa incidenza rispetto alle dinamiche e ai processi che investono l'area metropolitana. In sostanza dunque nel caso delle aree metropolitane la riforma prevede un deciso rafforzamento del livello di governo di area vasta (quello appunto su cui opera la Città Metropolitana) ma ciò non sembra avvenire prevalentemente per una crescita dei settori di competenza rispetto a quelli attribuiti alla Provincia. L'articolato della legge afferma proprio questo ma, come abbiamo visto, un banale confronto tra le competenze esplicitamente attribuite alla Provincia e quelle aggiuntive attribuite alla Città Metropolitana rivela una sostanziale ripetizione delle competenze provinciali. Piuttosto sembra che il legislatore, distinguendo tra Piano Territoriale di Coordinamento e Pianificazione Territoriale in generale e facendo esplicito riferimento ai servizi, abbia inteso determinare un ampliamento "qualitativo" delle competenze della Città Metropolitana, una loro dilatazione verso l'area gestionale, verso la definizione delle caratteristiche fisiche, dimensionali, quantitative del territorio e delle trasformazioni ammesse. La Città Metropolitana dunque tenderebbe ad assumere una configurazione specifica che integra competenze proprie del livello provinciale con competenze proprie del livello comunale. Se, dunque, per la Città Metropolitana restano in genere valide le considerazioni che, per quanto concerne le caratteristiche strutturali della pianificazione territo-
riale e i relativi strumenti, abbiamo svolto a proposito della Provincia, l'estensione delle competenze della Città Metropolitana verso la pianificazione urbanistica e la gestione dei servizi ampliano notevolmente il raggio di azione di questo Ente (e, simmetricamente, riducono quello dei comuni compresi all'interno dell'area metropolitana) configurando una specificità del governo del territorio nelle aree metropolitane che esamineremo nei prossimi paragrafi. L'ultima, brevissima, considerazione di carattere generale riguarda il fatto che la configurazione dei poteri locali indicata dalla riforma per il caso delle aree metropolitane determina una netta differenziazione dei Comuni a causa di una tendenziale riduzione di competenze e funzioni dei comuni delle aree metropolitane rispetto ai restanti Comuni del Paese. LA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE NELLE AREE METROPOLITANE
In relazione alle configurazioni di funzioni e competenze che la riforma attribuisce alle Città Metropolitane la pianificaziooe e programmazione territoriale pone tre distinti ordini di problemi. Anzitutto sembra opportuno valutare se nelle aree metropolitane debba essere redatto o meno il Piano Territoriale di Coordinamento o se invece questo possa o debba essere compreso all'interno della pianificazione territoriale generale. 4° Nel caso in cui si ritenga che vi debbano essere due distinti strumenti di pianificazione territoriale sembra poi opportuno valutare quale debba essere il rapporto tra il Piano Territoriale di Coordmamento e la pianifìcazione territoriale generale attribuita come competenza aggiuntiva alla Città Me-
tropolitana. In termini più espliciti ci sembra opportuno valutare se il Piano Territoriale di Coordinamento debba riassorbire tutta la pianificazione territoriale di livello generale della Città Metropolitana (diversificandosi così dai Piani Territoriali delle province non metropolitane) o se invece accanto al Piano Territoriale di Coordinamento debba essere previsto un altro strumento di pianificazione e in questo caso con quale ruolo e caratteristiche. In secondo luogo, mentre appare chiaro (o almeno relativamente chiaro) il rapporto tra Piano Territoriale di coordinamento di livello provinciale e Piano Regolatore Generale di livello comunale in tutte le provincie "non metropolitane", più complesso è il rapporto tra pianificazione generale dell'area metropolitana (sia nel caso che questa risulti compresa all'interno del Piano Territoriale, sia nel caso che venga espressa da un altro strumento) e pianificazione generale dei comuni che costituiscono l'area metropolitana. Sembra cioè necessario chiarire se sia opportuno (e cioè se risponda a criteri di efficacia ed efficienza) che i Comuni dell'area metropolitana svolgano una pianificazione di tipo generale come i restanti comuni del territorio nazionale (e in questo caso si pone il problema del rapporto tra strumento urbanistico generale della Città Metropolitana e strumento urbanistico generale del Comune che fa parte dell'area metropolitana) o se invece tale livello di pianificazione non debba essere in tutto o in parte riassorbito, a livello dell'intera area, dalla Città Metropolitana (riproponendo, limitatamente alla pianificazione territoriale, tra Città Metropolitana e Comuni dell'area, il rapporto oggi esistente in un grande comune tra amministrazione comunale e circoscrizioni). In terzo luogo si pone il problema della 73
definizione dei modi e dei percorsi più adeguati per l'attuazione delle indicazioni dello strumento urbanistico generale e se tale percorso debba essere governato unicamente dalla Città Metropolitana o dai Comuni e Città Metropolitana e in questo caso con quali modalità e con quale ripartizione di compiti. Cercheremo di svolgere alcune considerazioni su ognuna delle questioni sollevate cominciando dalla prima: il rapporto tra Piano Territoriale di coordinamento e pianificazione urbanistica.
Piano territoriale e Piano Urbanistico Come abbiamo cercato di evidenziare nel capitolo precedente 41 , vi sono molte ragioni per ritenere che il Piano Territoriale di Coordinamento non debba essere un Piano Regolatore Generale alla scala provinciale quanto piuttosto uno strumento con qualità del tutto diverse che da un lato tende a definire le condizioni territoriali a sostegno di una definita linea di sviluppo socio economico a livello di area vasta e dall'altro integra tra loro programmi e opzioni di sviluppo e localizzazione, che assicura cioè coerenza territoriale ai processi che investono l'area vasta, indirizzandoli verso assetti coerenti con obiettivi di interesse generale. Ciò comporta l'opportunità di prevedere o due strumenti di pianificazione territoriale, e cioè un Piano Strutturale e un Piano Urbanistico di definizione delle caratteristiche fisiche dell'insediamento, oppure di definire per le aree metropolitane un Piano Territoriale di Coordinamento dalle caratteristiche formali completamente diverse da quelle dei Piani Territoriali di Coordinamento delle restanti provincie, caratteristiche comunque tali da assicurare allo
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strumento di pianificazione territoriale della Città Metropolitana entrambe le valenze. 42 Ci sembra dunque che anzitutto si possa affermare che nelle aree metropolitane la pianificazione generale (di tipo urbanistico) non assorbe automaticamente il Piano Territoriale di Coordinamento: questo esprime una qualità specifica del governo del territorio che deve essere presente anche, soprattutto, nelle aree metropolitane. Il problema dunque si riduce a definire se sia più opportuno, sul piano formale, disporre di due strumenti (e in questo caso con quali rapporti) o se invece non sia più opportuno pensare ad uno strumento formalmente unico dalle caratteristiche specifiche e tale da integrare sia le valenze del Piano Territoriale di Coordinamento sia quelle del Piano Urbanistico. A tale questione non riteniamo possa essere data una risposta assoluta in quanto la soluzione più opportuna è necessariamente condizionata da numerosi fattori, tra i quali assume una importanza fondamentale quello della ripartizione di funzioni e compiti tra Città Metropolitana e Comuni dell'area. Tuttavia in termini generali ci sembra più efficace e convincente una modalità di governo del territorio articolata su due livelli di pianificazione funzionalmente e formalmente distinti. Ai fini di una più chiara esposizione della materia è poi strumentalmente utile pensare a due strumenti distinti per ragionare con chiarezza sui rispettivi ruoli e sui rapporti che li legano senza con ciò escludere in modo assoluto la possibilità di riunificarli in uno strumento unico qualora la specifica situazione indicasse questa come la configurazione più desiderabile. Svolgeremo dunque le nostre considerazioni assumendo che la Città Metropolita-
na debba definire e adottare sia un Piano Territoriale di Coordinamento (come la legge impone a tutte le Province) sia un Piano Urbanistico generale. Il primo svolge un ruolo di determinazione degli• indirizzi generali di assetto del territorio" (L. 142/90, art. 15, comma 2 °) mentre il secondo concretizza la funzione aggiuntiva di "pianificazione territoriale dell'area metropolitana" (L. 142/90, art. 19, comma 1°, lettera "a"). 43
Città Metropolitana e Comuni dell'area Le caratteristiche della pianificazione territoriale generale nelle aree metropolitane sono direttamente condizionate dal rapporto che si viene ad instaurare tra l'autorità di governo di area vasta, la Città Metropolitana, e le amministrazioni comunali. In questo caso, come per il restante territorio nazionale vale la considerazione che la ripartizione di funzioni tra autorità di area vasta e autorità locale e la riorganizzazione delle circoscrizioni comunali incidono in modo diretto sia sulla programmazione e gestione dei servizi sia sulle caratteristiche e sui contenuti della pianificazione generale. Senza anticipare temi che saranno sviluppati trattando del livello comunale e della autonomia finanziaria degli enti locali 44, ci limitiamo a notare che le indicazioni di sistematica riorganizzazione delle circoscrizioni comunali tesa a conseguire un assetto di circoscrizioni amministrative coerente con la scala e la dimensione dei processi socioeconomici in atto e con le esigenze di efficace ed efficiente gestione dei servizi 45 se riferite all'area metropolitana assumono un significato del tutto particolare. La Regione infatti deve predisporre un programma di modifica delle circoscri-
zioni comunali e di fusione dei piccoli comuni 46 laddove questa riorganizzazione delle circoscrizioni comunali ha il senso di assicurare effettive capacità di governo e di gestione che appaiono difficilmente conseguibili quando le dimensioni e le strutture dell'amministrazione comunale scendono sotto una certa soglia o comunque quando non v'è alcuna corrispondenza tra la scala dei processi socio economici che investono il territorio e la scala delle circoscrizioni amministrative. Nel caso delle aree metropolitane la legge di riforma ribadisce questo compito delle Regioni fissando dei tempi, "entro diciotto mesi dalla delimitazione dell'area metropolitana ' ma precisa anche la possibilità di istituire " ... nuovi comuni per scorporo di aree di intensa urbanizzazione..." precisando altresì che "I nuovi comuni enucleati dal comune che comprende il centro storico, conservano l'originaria denominazione alla quale aggiungono quella più caratteristica dei quartieri o delle circoscrizioni che li compongono" e prevede che a tali comuni siano trasferiti, dal comune preesistente, in proporzione agli bitanti ed al territorio, risorse e personale, nonché adeguati beni strumentali e tutto ciò per assicurare " ... il pieno esercizio delle funzioni comunali, la razionale utilizzazione dei servizi, la responsabile partecipazione dei cittadini nonché un equilibrato rapporto tra dimensioni territoriali e demografiche." 48 In altri termini ci sembra che il legislatore, nel caso delle aree metropolitane da un lato si sia preoccupato dell'eccessivo frazionamento amministrativo del territorio, condizione questa riscontrabile su tutto il territorio nazionale ma certamente particolarmente accentuata nelle aree metropolitane dove la dimensione media delle .....
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circoscrizioni comunali è pari a circa i 2/3 di quella nazionale. D'altro lato lo stesso legislatore si preoccupa di indicare la necessità di suddividere strutture amministrative troppo ampie che risulterebbero collocate in una dimensione ibrida: troppo grandi per svolgere un ruolo di puntuale gestione di servizi alla scala locale e per garantire una effetiva partecipazione dei cittadini alla gestione locale, inutili per gestire i problemi di area vasta che sono tutti attribuiti ad un altro livello di governo: la Città Metropolitana. Nel caso in esame dunque il riordino delle circoscrizioni amministrative assume un significato e un ruolo del tutto peculiare, non è finalizzato alla "eliminazione dei comuni polvere" 49 ma alla determinazione di una configurazione di autorità comunali in grado da un lato di costituire mediazione tra gli interessi delle collettività alla scala locale e le grandi linee di sviluppo socioeconomico e territoriale che costituiscono oggetto dell'azione di governo della Città Metropolitana e dall'altro (e conseguentemente) a suddividere la complessa realtà metropolitana in articolazioni amministrative dotate di una certa omogeneità interna. Due percorsi dunque, quelli seguiti dai processi di ridefinizione delle circoscrizioni amministrative, tendenzialmente opposti: verso una maggiore dimensione, complessità e integrazione delle circoscrizioni comunali nelle province non metropolitane, verso il frazionamento e la suddivisione in ambiti omogenei nelle aree metropolitane. Il piano urbanistico tra Città Metropoli-
tane e Comuni dell'area Questo processo di articolazione amministrativa delle aree metropolitane ha note76
voli riflessi sul governo del territorio. Le diverse circoscrizioni comunali tendenzialmente identificheranno delle areeproblema: la riqualificazione delle grandi periferie urbane, la riorganizzazione di comprensori industriali, i processi di espansione, etc. Più in generale il doppio livello di governo locale in strutture territoriali fortemente integrate come quelle metropolitane determina necessariamente l'interazione tra problematiche locali e tendenzialmente settoriali o comunque parziali, proprie del livello comunale e problematiche generali di sviluppo complessivo del sistema, proprie del livello metropolitano. Ne consegue che la pianificazione territoriale generale assume, nei due livelli di governo, caratteri strutturali ben diversi. La Città Metropolitina si trova a dover tradurre in progetto urbanistico le indicazioni di tipo più strutturale proprie del Piano Territoriale di Coordinamento dell'area metropolitana avendo come obiettivo quello di assicurare coerenza e compatibilità territoriale ai diversi percorsi di trasformazione e riorganizzazione dello spazio che si sviluppano nei sottosistemi insediativi che articolano il sistema metropolitano. I Comuni dell'area metropolitana si trovano invece a dover esprimere un progetto urbanistico che, in relazione al quadro generale di coerenze e compatibilità e ai grandi interventi alla scala dell'intero sistema metropolitano, valorizzi - e tuteli - le risorse e le potenzialità locali, esprima in modo puntuale le esigenze e gli obiettivi locali, indirizzi l'insieme dei comportamenti dei soggetti privati verso assetti coerenti con tali obiettivi. La pianificazione territoriale nelle aree metropolitane tende dunque a svolgersi su tre livelli: il Piano Territoriale di Coor-
dinamento, la pianificazione urbanistica alla scala metropolitana, la pianificazione urbanistica alla scala locale. È inoltre interessante notare che il collegamento tra i tre livelli di pianificazione non si configura come un rapporto lineare e gerarchico ma come interazione circolare che trasferisce conoscenze, valutazioni e obiettivi tra i diversi strumenti all'interno di un percorso complesso, condiviso da diversi soggetti ciascuno con proprie finalità operative e di governo. Sotto questo aspetto si può notare che il principio delle competenze integrate, in termini di pianificazione territoriale, assume il carattere della pianificazione integrata e cioè di una modalità di governo del territorio fondata su quella gestione dei processi decisionali complessi della quale abbiamo trattato in un precedente paragrafo. 50 Un'ultima considerazione: fino ad oggi non era definita alcuna differenziazione, ovviamente sul piano formale, tra strumenti di pianificazione territoriale generale riferiti a strutture insediative di dimensioni minime e caratterizzate da problematiche sostanzialmente elementari e strumenti riferiti a realtà assolutamente complesse quali quelle costituite dalle aree metropolitane. La riforma dell'ordinamento delle Autonomie Locali, proprio perché legge di principi che dovrà essere attuata attraverso successivi interventi legislativi, non entra certo nei dettagli di una materia che, tra l'altro, è di specifica competenza regionale, tuttavia le indicazioni circa la riorganizzazione delle circoscrizioni amministrative e la ripartizione delle funzioni tra i diversi livelli di governo, conducono, ancorché implicitamente, ad una netta differenziazione non solo dei contenuti della pianificazione territoriale in relazione alla complessità del con-
testo (il che sarebbe del tutto banale) ma anche della struttura e delle componenti concettuali della pianificazione, separando nettamente la pianificazione territoriale da quella urbanistica in tutto il territorio nazionale e, nelle aree metropolitane, la pianificazione urbanistica alla scala metropolitana da quella alla scala locale. Certamente nell'articolo della legge non troveremo nessuna norma che affermi esplicitamente questa differenziazione ma altrettanto certamente ad una configurazione di questo tipo si deve necessariamente arrivare a meno di non forzare marcatamente l'interpretazione della legge stessa.
Un problema spec/ìco delle aree metropolitane Concludiamo queste riflessioni, tutt'altro che conclusive, sulle innovazioni che la legge di riforma determina sulla pianificazione territoriale nelle aree metropolitane richiamando alcune considerazioni a proposito dei nodi problematici propri delle aree metropolitane italiane. Notavamo che due fattori caratterizzano in modo generalizzato l'assetto delle grandi aree urbane italiane: il "ritardo urbanistico" (e cioè la carenza quantitativa e qualitativa della dotazione di infrastrutture e attrezzature di servizio specialmente per quanto riguarda i comparti di maggiore importanza per lo sviluppo delle funzioni terziarie direzionali che sono proprie delle strutture metropolitane) e la contemporanea diffusione di condizioni di pesante degrado ed emarginazione delle grandi periferie urbane. Certamente l'aver individuato un'autorità di governo ad una scala coerente con i processi da governare e con ampi poteri di intervento costituisce una opportuna pre77
messa per l'avvio della soluzione ditali problemi. Occorre tuttavia tenere presenti due fattori di fondamentale importanza. La dimensione e la gravità dei problemi, sia di quelli relativi alla riorganizzazione della struttura urbana e allo sviluppo dei sistemi di infrastrutture e servizi, sia quelli relativi alla riqualificazione delle grandi periferie urbane, non sembra assolutamente affrontabile con risorse (finanziarie e tecniche) ordinarie, a meno - forse di non ipotizzare tempi incontrollabilmente lunghi. La dimensione quantitativa e qualitativa dei problemi delle aree metropolitane è stata determinata da processi di sviluppo (di disequiibrato sviluppo) di scala nazionale durati oltre trenta anni e certamente non sembra credibile pretendere che tali problemi, possano essere risolti all'interno dell'autonomia finanziaria prevista dalla legge per le autorità locali. Lo sviluppo del terziario di tipo direzionale e di alcune attività produttive qualificate è condizionato direttamente dall'assetto territoriale e urbanistico e dalla qualità dei sistemi infrastrutturali e di servizio presenti nelle nove aree metropolitane indicate dalla legge. In altri termini lo sviluppo territoriale di questi sistemi territoriali condiziona, direttamente le prospettive di sviluppo complessive del sistema economico nazionale. Si tratta di considerazioni già svolte in molte altre sedi che qui richiamiamo unicamente perché vogliamo segnalare con grande chiarezza che la necessità di risorse e strumenti straordinari non deve assolutamente generare interventi e programmi in alternativa o addirittura in contrapposizione al quadro di funzioni, poteri, strumenti che la riforma delinea per le aree urbane. Vi sono diversi motivi per evitare di riproporre la logica dell'intervento straordina-
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rio: la difficoltà di calibrare i contenuti dell'intervento tenendo conto delle numerose implicazioni e retroazioni che esso determina in un contesto complesso come quello dei sistemi metropolitani, l'incertezza che determina sui programmi e sui progetti ordinari e conseguentemente la maggiore difficoltà (o l'impossibilità) a coinvolgere risorse e capacità tecniche private su questi stessi progetti e programmi, e così via senza riproporre la lunga e ben nota lista dei motivi che sconsigliano la ricerca di scorciatoie quando si debbono fronteggiare problemi strutturali che possono essere risolti solo con un'azione continuativa, stabile, e con garanzie di certezza tali da raccogliere l'adesione degli operatori economici chiamati a condividere il progetto e a partecipare ai suoi costi. V'è tuttavia un ulteriore motivo per evitare la strada dell'intervento straordinario nelle aree metropolitane. L'assetto di azioni e poteri delineato dalla riforma non appare di immediata e semplice realizzazione, ha piuttosto il carattere di un percorso complesso che richiede un grande impegno e una reale capacità di rinnovamento da parte di amministratori, tecnici e operatori. In queste condizioni ogni intervento che si sovrapponga alla delicata e faticosa costruzione di nuovi equilibri può avere effetti del tutto disastrosi sull'effettivo coinvolgimento dei soggetti ai quali è affidata l'attuazione delle riforme. È invece auspicabile che alla dimensione e alla qualità dei problemi di risanamento e di riorganizzazione presenti nelle aree metropolitane si risponda da un lato con il potenziamento degli strumenti ordinari o comunque all'interno dello strumento dell'accordo di programma che la legge riforma, a nostro avviso, migliora sensibilmen-
te portandolo più "vicino" agli strumenti e all'intervento ordinario e dall'altro con il coinvolgimento diretto (sia sul piano delle risorse che su quello delle capacità operative) della struttura produttiva dell'area. Nell'uno e nell'altro caso valgono le considerazioni già avanzate nel precedente capitolo a proposito della necessità di disporre di strumenti adatti alla gestione di processi decisionali complessi e alla costruzione di una convergenza di scelte e di risorse su progetti e programmi condivisi da diversi soggetti pubblici e privati. 4. IL LIVELLO COMUNALE
A livello comunale la legge di riforma, per quanto concerne la pianificazione ter ritoriale, pone, in via del tutto indiretta, tre ordini di problemi. 5' La questione probabilmente più evidente riguarda il rapporto tra la pianificazione territoriale e l'ampio e sistematico processo di rideterminazione delle circoscrizioni comunali indicato dalla riforma in diversi articoli. 52 In astratto questo potrebbe essere considerato un aspetto secondario, o comunque strumentale, rispetto al tema della pianificazione. In realtà l'attuazione della riforma è fortemente condizionata dal processo di rideterminazione delle circoscrizioni comunali al punto che riteniamo utile avviare l'esame della pianificazione territoriale di livello comunale proprio dal tema della ridefinizione delle circoscrizioni comunali e dal rapporto tra questa e la pianificazione territoriale. La seconda questione attiene alla natura del rapporto che si deve realizzare tra Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale e Pianificazione Generale Comunale, sia in termini di relazioni funzionali
e di percorso procedurale che lega i due livelli di pianificazione sia in termini di struttura e contenuti specifici dei due strumenti di pianificazione La terza questione infine deriva direttamente dal principio delle competenze integrate che costituisce uno degli assi portanti di tutta l'architettura della riforma e riguarda sia i rapporti di decentramento collaborazione con altre amministrazioni di pari livello e di collaborazione concertazione con amministrazioni di livello sovraordinato sia il rapporto tra azione amministrativa e processi socio economici e territoriali che investono l'area amministrata. In particolare si tratta non solo di impostare e calibrare l'azione di governo del territorio tenendo conto ditali rapporti ma anche soprattutto, di dotarsi di strumenti adeguati per poterli gestire in modo efficace. FUSIONE, UNIONE E "DIMENSIONE OTrIMALE" DEI COMUNI
La legge di riforma indica la necessità di individuare "ambiti territoriali adeguati" per l'esercizio delle funzioni comunali 53, richiama la potestà delle Regioni a modificare le circoscrizioni territoriali comunali e, ciò che più conta, fa obbligo alle Regioni di predisporre "un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione.dei piccoli comuni" e di aggiornano ogni cinque anni, indica precisi vincoli dimensionali per la m'dificazione delle circoscrizioni comunali,, stabilisce dei contributi straordinari per incentivare la fusione di più comuni tra loro, prevede l'istituto della "Unione di Comuni" come forma "transitoria" di aggregazione che faciliti il passaggio alla fusione vera e propria, dilatandola su un arco di tempo suf79
ficientemente ampio (fino a dieci anni), tale da consentire la messa a punto dei nuovi modi di operare. 54 Stabilisce inoltre che la Regione debba promuovere le Unioni di Comuni, prevedendo a tal fine la erogazione di contributi aggiuntivi a quelli normalmente previsti per i singoli comuni e ammettendo che in caso di erogazione ditali contributi la Regione ha il potere/dovere di determinare la fusione anche se questa non sia stata richiesta dai comuni stessi. 55 Infine, tra gli scopi fondamentali delle comunità montane individua quelli dello "esercizio associato delle funzioni comunali, nonché la fusione di tutti o parte dei comuni associati". 56 Sembra dunque del tutto evidente che la riforma dell'ordinamento delle autonomie locali non solo attribuisce una importanza fondamentale alla "fusione" dei comuni e cioè al processo di aggregazione delle circoscrizioni territoriali e delle strutture amministrative comunali, ma intende anche avviare una fase di sistematica e generalizzata ridefinizione delle circoscrizioni comunali e non solo alcuni aggiustamenti puntuali, relativi a casi isolati ed eccezionali. Solo in relazione a questo obiettivo di sistematicità si giustifica infatti l'obbligo regionale alla predisposizione di un programma di fusione da ridefinire ogni quinquennio, la previsione di contributi straordinari a favore dei Comuni che danno luogo alla fusione o alla unione e, più in generale, la costante atténzione del legislatore per i processi di aggregazione che vengono dettagliatamente formati anche in termini di dimensioni demografiche minime. D'altra parte a questo proposito la circolare esplicativa del Ministero dell'Interno è assolutamente chiara in quanto da un lato fa riferimento ad una "valutazione
della dimensione ottimale per l'esercizio delle funzioni, sia essa sovracomunale che infracomunale,..." 57 e dall'altro individua, negli articoli 11 e 26 della legge, la prospettiva "di realizzare l'eliminazione dei «comuni polvere'." 58 laddove se la dizione "comuni polvere" non costituisce definizione rigorosa, alla luce della normativa e in particolare dei dettagliati vincoli dimensionali in essa contenuti, sembra possibile riferirla genericamente a tutti i comuni con dimensione demografica inferiore a 5.000 abitanti e cioè ad un comparto che raccoglie 11 milioni di abitanti, il 19,5% della popolazione Italia, che comprende 5.963 comuni (il 73,7% del totale) e insiste su una superficie di 166.000 chilometri quadrati (il 55,1% dell'intera superficie nazionale). La dimensione demografica media di tali comuni risulta essere di 1.800 abitanti, mentre la superficie territoriale è pari a 28 chilometri quadrati. 59. Quanto questo obiettivo, così ampiamente definito e fortemente argomentato da obblighi e incentivi, potrà essere raggiunto e in quali tempi è questione che.non vogliamo affrontare in questa sede e che toccheremo parzialmente in un successivo capitolo, 60 resta tuttavia del tutto evidente che si tratta di un obiettivo in netta controtendenza rispetto ai processi reali, che registrano continui frazionamenti delle circoscrizioni comunali che spesso generano comuni di poche migliaia o di qualche centinaio di abitanti, e che richiede uno sforzo organizzativo e "politicoamministrativo" di tutto rilievo del quale il legislatore si è reso ben conto come testimoniano i molti incentivi individuati e i poteri di surroga attribuiti alla Regione nel caso di unioni di comuni che dopo dieci anni, ayendo goduto dei finanzia-
menti aggiuntivi della Regione, non de- rogare non sono caratterizzati da una diterminano la fusione. mensione demografica e territoriale OttiSe dunque su un piatto della bilancia male in assoluto; tale dimensione dipendobbiamo mettere lo sforzo di invertire la de piuttosto dalle caratteristiche del terrinetta tendenza al frazionamento e i costi torio, dalle condizioni di accessibilità meorganizzativi, politici, amministrativi, sodia, dalla distribuzione della popolazione ciali del processo di aggregazione, quali delle attività e delle attrezzature di servisono i benefici che il legislatore si attende zio, dal tipo di servizio e dall'assetto orgae che potranno compensare tali oneri? In nizzativo dell'Ente Gestore e da molti altri altri termini, quali sono i motivi di fondo fattori minori. Molti di questi fattori preche hanno condotto il legislatore ad avsentano una evoluzione piuttosto rapida viare un ampio processo di aggregazione nel tempo e a rigore la dimensione ottidei comuni e quali effetti tale processo male del bacino tende ad evolvere, con può determinare sulla pianificazione terpari rapidità, in relazione ai fattori che la ritoriale comunale? determinano. In secondo luogo, difficilmente i bacini Limiti del concetto di dimensione ottimale dei diversi servizi presenteranno tutti la stessa dimensione e conseguentemente Ovviamente la ragione prima dell'attensarebbe corretto riferirsi più che ad una zione riservata dal legislatore al processo dimensione ottimale ad una dimensione di aggregazione è da ricercare nella semche costituisca il migliore compromesso pre più diffusa consapevolezza dello tra le diverse dimensioni ottimali, tra i discarto tra strutture insediative e circoscriversi bacini. zioni amministrative che abbiamo indicaInfine, non è detto che la dimensione ottito sin dal primo capitolo. In particolare il male per gestire un servizio o l'insieme dei legislatore interpreta tale scarto in termini servizi sia anche la dimensione ottimale prevalentemente organizzativo-funzionaper governare i processi socioeconomici listici, centrando la propria attenzione che si sviluppano sul territorio indirizzansulla necessità di arrivare ad un "efficiendoli verso obiettivi socialmente utili. te sistema di autonomie locali al servizio In definitiva i riferimenti alla efficacia ed dello sviluppo economico, sociale e civiefficienza appaiono piuttosto astratti se rile" 61 articolato su dimensioni delle circoferiti a singoli servizi e funzioni o a singoscrizioni amministrative tali da consentire li raggruppamenti, scarsamente utili se riuna gestione di servizi efficace ed effiferiti al complesso dei servizi e delle funciente e assume, implicitamente, che gli zioni svolte dal livello comunale. auspicati livelli di efficacia ed efficienza Ciò nonostante siamo del tutto convinti non siano conseguibili su dimensioni deche il principio di fondo della legge di rimografiche e territoriali molto frazionate forma che persegue un "sistema di ammicome quelle odierne. Orbene, questa imnistrazioni locali" fortemente orientato a postazione per vari aspetti può essere conseguire un assetto funzionale e territoconsiderata piuttosto riduttiva ed astratta. riale che consenta il raggiungimento di In primo luogo, i diversi servizi che l'amcondizioni di efficacia ed efficienza sia uministrazione comunale è chiamata ad ena condizione assolutamente necessaria 81
per garantire un diffuso miglioramento della qualità della vita, specialmente nelle regioni meridionali, e per assistere e sostenere lo sviluppo della struttura produttiva locale. La questione nodale è che il miglioramento dei livelli di efficacia ed efficienza più che una formula da applicare ai singoli casi costituisce a nostro avviso un criterio utile da impiegare all'interno di un progetto complessivo di razionalizzazione che investe l'assetto delle funzioni e delle competenze, le strutture e l'assetto organizzativo di queste, le previsioni e gli indirizzi di sviluppo contenuti dal Piano Territoriale di Coordinamento formulato dal livello provinciale, le opzioni di sviluppo espresse in forma esplicita o implicita dalla struttura produttiva locale. In altri termini i criteri di miglioramento di efficacia ed efficienza, se risultano astratti per razionalizzare singoli aspetti dell'assetto esistente, costituiscono invece un prezioso riferimento per la formulazione di un progetto complessivo di riorganizzazione del sistema delle amministrazioni locali, progetto che necessariamente deve essere l'espressione di diversi livelli amministrativi e in particolare della Regione, della Provincia e dei Comuni.
Valenze progettuali del processo di fusione dei comuni Ecco dunque che i ricorrenti riferimenti ai processi di fusione dei "comuni polvere" a nostro avviso non si giustificano tanto sul piano organizzativo-funzionale quanto su quello progettuale-amministrativo. Non si tratta di applicare analisi di produttività e di valutare la variazione dei costi unitari al variare delle formule organizzativo-gestionali dei servizi e della dimen-
sione del bacino servito quanto di individuare un "Progetto di Area" e di derivare da questo la configurazione più efficiente ed efficace sia in termini di compiti e funzioni sia in termini di strutture organizzative che debbono assicurare il necessario supporto di servizi al progetto stesso. In questo senso il processo di aggregazione delle circoscrizioni amministrative e di riorganizzazione delle loro strutture ha valenze prevalentemente progettuali e si colloca sul piano dello sviluppo economico e sociale piuttosto che su quello della mera riorganizzazione dei servizi e del risanamento dei bilanci. Ovviamente le valutazioni economiche e di bilancio sui costi di erogazione dei servizi e di svolgimento delle proprie funzioni non possono affatto essere trascurate ma riteniamo che debbano costituire una componente interna e parziale del "Progetto di Area" indicato sopra. Componente tanto più importante se teniamo conto del principio dell'autonomia impositiva sancito dalla riforma e del fatto che i trasferimenti erariali dovranno coprire unicamente parte dei costi dei servizi indispensabili mentre all'autorità locale spetterà l'onere di garantire la copertura residua ditali servizi e la copertura totale di tutti gli altri. 62 Secondo questa impostazione la fusione di più comuni, o la unione che ne può costituire la premessa, costituisce atto politicoamministrativo che esprime in termini formalmente compiuti un "Progetto di Area" che da un lato individua le linee di sviluppo, la struttura e l'organizzazione dei servizi e delle infrastrutture che consentono di perseguire nei modi più efficaci ed efficenti gli obiettivi di sviluppo e dall'altro definisce i processi di riorganizzazione delle strutture amministrative e di accorpamento
delle circoscrizioni territoriali che risultano funzionali alle ipotesi di sviluppo. Occorre poi precisare che il termine "Progetto di Area" certamente non allude ad un ulteriore strumento di pianificazione o programmazione quanto alla necessità di raccogliere le opzioni e le ipotesi di sviluppo in un disegno chiaro (e condiviso da tutti i soggetti coinvolti) rispetto al quale calibrare gli atti amministrativi formali. Si noti infine che ira i soggetti che partecipano alla definizione del progetto di area non possono mancare né la Provincia né la Regione in virtù delle strette relazioni tra questo e la programmazione e pianificazione regionale e provinciale. Ricordiamo anche che proprio alla Provincia sono assegnati i compiti di raccordo tra i diversi comuni che appaiono di vitale importanza per rendere più agevole (o meno difficile) il processo di fusione. PIIFIcAzIoNE coMuNALE,
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NAMENTO E PROGETrO DI AREA
Appare a questo punto evidente che vi sono ampie e profonde connessioni tra la ripartizione di compiti e funzioni che dovrà essere fatta dalla Regione, il Piano Territoriale di Coordinamento definito dalla Provincia, il "Progetto di Area" e la Pianificazione Territoriale Generale di livello comunale. Se infatti il Progetto di Area, che definisce i "contenuti" della fusione, è determinato: dalla scala dei processi e delle caratteristiche socio-economiche dei comuni ai quali è riferito; dalle forme attraverso cui si intende governare gli uni e gli altri; dalle ipotesi di programmazione e gestione delle infrastrutture e dei servizi; se, inoltre, il progetto è condizionato dall'autonomia impositiva e in particolare dal cal-
colo dei costi e dei benefici derivanti dalle diverse formule, dai diversi livelli di servizi offerti e dalle diverse dimensioni possibili, allora, la pianificazione territoriale costituisce una componente centrale dello stesso Progetto di Area. In particolare il Progetto di Area è strettamente condizionato dal Piano Territoriale di Coordinamento che individua le linee di sviluppo e le strutture fondamentali dell'organizzazione territoriale condizionando in questo modo direttamente le prospettive di sviluppo di area e dunque lo stesso Progetto di Area. Inoltre la Pianificazione Urbanistica di livello comunale, in quanto determinazione della distribuzione delle infrastrutture e attrezzature di servizio nonché definizione del loro dimensionamento e delle loro caratteristiche, costituisce l'espressione dell'organizzazione spaziale e degli interventi fisici dello stesso Progetto di Area. Dunque possiamo assumere che la pianificazione generale di livello comunale (quella che attualmente si risolve nel PRG e nei diversi Piani di Settore) presenta due connessioni chiave: da un lato con il Piano Territoriale di Coordinamento che definisce le condizioni complessive di coerenza tra l'area e il restante territorio provinciale e regionale e definisce scelte e indicazioni che dovranno essere direttamente recepite e dettagliate a livello comunale 63 e dall'altro con il Progetto di Area che individua i contenuti e i modi della riorganizzazione delle strutture amministrative e gli obiettivi chiave di sviluppo sociale economico e territoriale che indirizzano le stesse ipotesi di riorganizzazione delle strutture amministrative e delle circoscrizioni territoriali. Le considerazioni appena esposte ci conducono a ritenere che la legge di riforma
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comporti, sia pure in via indiretta, l'opportunità di adottare alcuni criteri innovativi nella redazione degli strumenti urbanistici comunali sia perché, come abbiamo avuto modo di notare, l'introduzione del Piano Territoriale di Coordinamento implica alcune modificazioni nello strumento urbanistico generale di scala comunale 64 sia, soprattutto, perché nel caso di fusione o unione di più comuni tra loro è necessario che la pianificazione territoriale non si risolva banalmente nel mosaico degli strumenti urbanistici dei comuni di origine ma, al contrario, costituisca espressione organica del Progetto di Area che struttura il processo di fusione. Inoltre è necessario ricordare che, anche a prescindere dalle innovazioni introdotte dalla legge di riforma, il PRG presentava ampi limiti, denunciando con estrema chiarezza il fatto di essere uno strumento che si è formato e sviluppato in una fase caratterizzata prevalentemente da processi di espansione della struttura insediativa e per contro da una scarsa presenza di quei processi di riorganizzazione e rilocalizzazione che caratterizzano invece la attuale fase di sviluppo socio-economico e territoriale. 65 In relazione a queste considerazioni possiamo cercare di delineare, in via del tutto sintetica ed indicativa, le caratteristiche fondamentali che dovrebbe assumere lo strumento urbanistico generale nelle nuove condizioni di contesto. Ci sembra che l'attenzione dovrebbe concentrarsi su quattro punti: lo sviluppo in termini urbanistici delle scelte di ruolo territoriale dell'area, lo spostamento di attenzione dai processi di espansione ai processi di riorganizzazione e rilocalizzazione nella città costruita, il rapporto tra strumento urbanistico generale e svilup-
mi
0 socioeconomico locale, il rapporto tra piano e gestione.
Piano urbanistico e ruolo territoriale di area Nel capitolo introduttivo abbiamo accennato al "salto di scala" che ha caratterizzato gran parte della struttura insediativa del Paese a partire dalla fine degli anni '70 e alla esigenza di una maggiore "specializzazione territoriale" delle strutture insediative obbligate a ricercare una specifica collocazione all'interno di un sistema economico sempre più integrato che tende a ridurre drasticamente gli spazi di ogni nicchia localistica. Il processo di decentramento prima e di sviluppo diffuso poi, ancorché sia stato indicato come un processo di affermazione dei localismi, è stato e rimane tutt'ora un processo di progressiva integrazione di strutture insediative e collettività locali, un tempo periferiche o marginali, all'interno di un articolato processo di sviluppo. Le molte definizioni che fanno riferimento al "localismo" dello sviluppo delle aree periferiche segnalano dunque la distribuzione fisica del fenomeno, articolato appunto su numerose strutture insediative nettamente separate dai grandi centri urbani e la presenza di fattori propulsivi locali, mentre non evidenziano le caratteristiche strutturali di un processo del quale oggi possiamo cogliere più facilmente i tratti di articolata organicità. Questo nuovo assetto ha un riflesso diretto sulla pianificazione territoriale comunale specialmente se ricordiamo che la legge di riforma si pone esplicitamente l'obiettivo dell'aggregazione dei "comuni polvere" in unità amministrative più ampie e più coerenti con le dimensioni dei processi sociali ed economici in corso.
In termini generali infatti la tendenza alla specializzazione di ruolo delle strutture insediative si presenta come un processo del tutto spontaneo che, come abbiamo indicato nel primo capitolo, da un lato presenta caratteri di grande flessibilità e vitalità ma dall'altro è orientato da logiche che privilegiano fortemente obiettivi e convenienze economiche di breve periodo che alla lunga restringono gli spazi di sviluppo del processo stesso. La "spontaneità" del processo in altri termini causa diversi effetti indesiderati che abbiamo indicato nel loro complesso. con il termine di "disordine urbanistico". In particolare il processo di specializzazione territoriale è determinato dalla convergenza spontanea più o meno ampia di una serie di comportamenti espressi da attività economiche (e in misura minore dai nuclei familiari) che tendono a sfruttare i vantaggi offerti dalla rete di risorse materiali (infrastrutture, spazi edificati, attrezzature di servizio, etc.) e immateriali (abilità professionali, servizi, trasporti e comunicazioni, qualità ambientali) presenti nell'area. Questa convergenza determina una tendenziale riorganizzazione della struttura insediativa (sia in termini di espansione che in termini di rilocalizzazione di attività e popolazione) orientata da sistemi di obiettivi e convenienze di breve periodo, privi di una verifica delle condizioni di coerenza interna delle modalità di sviluppo, delle implicazioni su un arco di tempo medio-lungo, delle prospettive di passaggio dalla fase di sviluppo a quella di consolidamento, etc.. Si tratta di carenze strutturalmente legate allo sviluppo locale quando questo non sia governato da una politica di sviluppo che tenga conto non solo dei fattori di breve e lungo periodo e delle condizioni presenti
nell'area ma anche delle tendenze che possono essere registrate in un contesto territoriale (ed economico) più ampio che può condizionare i processi locali o comunque suggerire alternative e ottimizzazioni che altrimenti non potrebbero essere colte. La definizione da parte dell'Ente Locale del "ruolo territoriale di area" risponde allo scopo di eliminare proprio questo tipo di carenze delineando un progetto di sviluppo centrato su quattro fattori: il riconoscimento dei processi di sviluppo in atto; l'individuazione dei modi per ottimizzare l'uso delle risorse materiali e immateriali presenti nell'area a fini di sviluppo sociale ed economico; la valutazione delle condizioni di coerenza interna delle tendenze in atto sia per quanto riguarda i singoli processi di sviluppo sia per quanto riguarda il rapporto tra questi e il complesso di risorse materiali e immateriali di cui sopra; la valutazione delle condizioni di coerenza tra i processi in atto nell'area e quelli che investono le altre strutture insediative a livello provinciale e regionale. In sostanza si tratta di indicare occasioni e prospettive di sviluppo e di corretta utilizzazione delle risorse di area sia alla luce dei fattori locali sia in relazione alle scelte e ai programmi di intervento definiti dalle Amministrazioni di livello sovracomunale. Infine, proprio perché la definizione del ruolo territoriale si presenta come una componente dello strumento di pianificazione territoriale, dall'insieme dei risultati indicati sopra deve discendere una serie di determinazioni di natura urbanistica che, a seconda delle necessità, potranno assumere l'aspetto della definizione dei modi dell'espansione dell'edificato, della crescita o ristrutturazione dei sistemi di infrastrutture, della riqualificazione e riorganizzazione di particolari aree o attrez85
zature urbane, della tutela di ambienti naturali o costruiti, degli incentivi alla mobilità e rilocalizzazione di popolazione e attività secondo direttrici giudicate ottimali, età.. In questo senso anche l'Amministrazione Comunale partecipa attivamente al processo di sviluppo locale, calibrando obiettivi e interventi urbanistici in relazione alle specifiche analisi e valutazioni circa le alternative di sviluppo della struttura economica e sociale locale. La definizione del ruolo territoriale di area non costituisce dunque prefigurazione di uno sviluppo astrattamente possibile, è piuttosto un programma di azioni e interventi che dovrà raccogliere il consenso esplicito o implicito della popolazione e della struttura produttiva e sul quale dovranno convergere risorse tecniche e finanziarie pubbliche e private. In questo senso da un lato le analisi, le valutazioni e il quadro complessivo delle alternative di sviluppo diventano, nel loro complesso, uno strumento per agevolare le scelte della collettività locale; dall'altro, l'insieme delle determinazioni e degli interventi di natura urbanistica della parte pubblica diventano uno strumento per orientare le scelte della collettività locale verso assetti e comportamenti che l'Amministrazione Locale giudica i più coerenti con gli obiettivi di utilità collettiva e con le condizioni del contesto provinciale e regionale. La determinazione del ruolo territoriale di area obbliga dunque a far derivare alcune scelte urbanistiche di fondo da un apparato di analisi tipico della programmazione economica, tipico cioè di strumenti di governo del territorio che in genere vengono impiegati (quando vengono impiegati) alla scala dell'area vasta e non a quella della circoscrizione comunale. In realtà l'analogia con la programmazione
Mo
economica è parziale. La definizione del ruolo territoriale dell'area comporta solo l'individuazione delle condizioni di coerenza tra i processi di sviluppo e la struttura insediativa e delle eventuali azioni correttive necessarie per eliminare contraddizioni e debolezze delle modalità di sviluppo in atto, agendo in particolar modo sugli obiettivi e sulle prospettive di medio-lungo periodo e sul rapporto tra processi locali e linee di sviluppo provinciali e regionali. Obiettivi di sviluppo di più ampia portata restano di competenza della Provincia (col Piano Territoriale di Coordinamento) e della Regione (col Programma Regionale di Sviluppo), Enti che, per ruolo e funzioni, risultano certamente più orientati alla programmazione economica e più attrezzati per gestirla. La città costruita Nell'ultimo decennio si è registrata una progressiva crescita di importanza dei processi socio economici che investono la città costruita rispetto ai processi di espansione di questa. Il fenomeno è ben noto e può essere richiamato limitandoci a notare che la questione abitativa, i processi di sviluppo del settore terziario e quelli di riorganizzazione del settore industriale, le esigenze di adeguamento delle infrastrutture e attrezzature di servizio, investono in misura sempre maggiore strutture edificate esistenti, le aree che occorre ristrutturare e riusare in relazione alle mutate condizioni socioeconomiche. Questa modificazione determina effetti più ampi di quanto si potrebbe ritenere a prima vista. Il processo a nostro avviso non consiste semplicemente nel passaggio da una modalità di sviluppo centrata sull'espansione ad una
modalità centrata sulla manutenzione e riqualificazione del tessuto edificato esistente ma nel passaggio da uno sviluppo per aggiunta di porzioni edificate ad uno sviluppo che si risolve in misura sempre maggiore in una riorganizzazione ciclica della struttura insediativa nel suo complesso, con un predominio qualitativo e quantitativo dei processi di riuso e rilocalizzazione rispetto ai processi di nuova localizzazione. Le implicazioni di questa evoluzione hanno effetti dirompenti sugli strumenti urbanistici generali per almeno due motivi. La struttura formale del PRG, basata in ampia misura sullo zonning, consente di determinare con qualche precisione la distribuzione delle attività e della popolazione nel caso della espansione, laddove lo strumento urbanistico riesce ad associare zone e destinazioni d'uso. Un controllo ben più carente si determina invece nel caso dei processi di riuso .e rilocalizzazione, sià perché in genere tali processi sfuggono alle rilevazioni correnti e risultano conseguentemente poco noti, sia perché risultano difficilmente governabili attraverso lo strumento urbanistico nella sua configurazione usuale. In particolare i processi di modificazione delle caratteristiche dei nuclei familiari e di mobilità residenziale determinano una evoluzione nella composizione e nella quantità di domanda di servizi che per essere analizzata comporta strumenti di indagine e analisi della popolazione piuttosto raffinati e comunque diversi da quelli usualmente impiegati per valutare le esigenze di espansione del patrimonio abitativo. Ancora più intensi sono gli effetti dei processi di terziarizzazione o più in generale di rilocalizzazione delle attività sulla quantità e composizione della domanda
di servizi. Anche in questo caso il procedimento che fa derivare il dimensionamento dei servizi e delle infrastrutture dalla quantità di spazi per le diverse attività attraverso la definizione degli standard non risulta pienamente applicabile. Per rispondere adeguatamente alle esigenze di infrastrutture e servizi determinate dai processi di riuso occorre infatti analizzare le quantità e la distribuzione dei processi stessi, valutare le esigenze in relazione alla distribuzione e all'accessibilità dei servizi e delle infrastrutture esistenti, individuare le condizioni necessarie per dare risposta alle nuove esigenze all'interno delle aree investite dal processo attraverso operazioni di ristrutturazione alla scala urbana, avviare i necessari interventi sul tessuto urbano esistente e cioè su un contesto che, in linea generale, pone problemi di progettazione e gestione ben più complessi di quanto solitamente non accade in un'area edificabile libera. In sintesi, il governo dei processi di sviluppo della città costruita sembra richiedere strumenti di analisi ed elaborazione tendenzialmente più complessi di quanto non accada nel caso dei processi di espansione. Sono necessarie conoscenze molto dettagliate sulla distribuzione della popolazione e delle attività e sull'intensità dei processi di riuso in atto. È indispensabile valutare la compatibilità tra usi, tipologie e zone urbanistiche. Occorre esaminare le esigenze di infrastrutture e servizi che, tenendo conto delle condizioni di accessibilità, si verificano nelle varie zone sia in relazione allo stato attuale e alle tendenze in atto sia in relazione alle ipotesi di ruolo territoriale. Occorre valutare le diverse alternative, di intervento per assicurare i servizi e le infrastrutture individuando le condizioni di fattibilità, i costi 87
diretti e indiretti, i benefici di ciascuna alternativa. Occorre inoltre ricordare che la legge di riforma, attribuendo agli Enti Locali autonomia finanziaria e impositiva determina una relazione diretta tra pressione fiscale e quantità/composizione dei servizi érogati e inserisce ulteriori variabili in un problema già complesso. Su questo aspetto della questione tuttavia non ci soffermiamo affatto, rimandando al capitolo successivo dove la materia è trattata in modo specifico .66 Tutto ciò suggerisce l'opportunità di definire classificazioni di usi, attività e tipologie edilizie, di definire un repertorio di condizioni di compatibiità tra usi e tipologie in relazione al quale esercitare il controllo sui processi di riuso, di disporre di modelli di valutazione della domanda di infrastrutture e servizi non solo in relazione alle quantità e composizione di popolazione e attività ma anche in relazione alle quantità, composizione e accessibiità delle infrastrutture e attrezzature di servizio presenti. In definitiva si tratta di costituire un apparato di strumenti di analisi e di valutazione che "affianca" le scelte di Piano, consentendo il controllo delle dinamiche e dei processi evolutivi che investono la struttura insediativa nel suo complesso. Senza sviluppare ulteriormente un tema che per importanza richiederebbe una trattazione autonoma, ci limitiamo a notare che le esigenze di maggior conoscenza, di maggior controllo delle destinazioni d'uso e dei processi di riuso, di più raffinati strumenti di elaborazione e intervento, cominciano a trovare risposta sia in termini di definizione di strumenti urbanistici innovativi, sia in termini di normativa urbanistica regionale. Per tutti citiamo il PRG del comune di Modena che, tra quelli che
conosciamo, testimonia in modo estremamente chiaro sia l'attenzione dell'Amministrazione per i processi che investono la città costruita, sia, conseguentemente, le esigenze di innovazione dello strumento urbanistico generale che abbiamo molto schematicamente riportato.
Due livelli di Piano La necessità di definire il ruolo territoriale della struttura insediativa in un quadro caratterizzato dalla crescente importanza del governo dei processi di riuso e riorganizzazione della città costruita determina un problema di notevole interesse sul quale riteniamo necessario svolgere qualche considerazione. L'azione di governo che tende a definire il ruolo territoriale e a determinare le linee fondamentali del processo di riorganizzazione della struttura insediativa, deve necessariamente plasmarsi su obiettivi di periodo medio-lungo e su un corpo di azioni e interventi rigidamente definiti al punto da orientare i processi evolutivi della stessa struttura insediativa. Sotto questo aspetto una continua modificazione di obiettivi e interventi creerebbe infatti condizioni di incertezza tra gli attori delle trasformazioni territoriali e renderebbe impossibile lo sviluppo di progetti di ampio respiro specialmente nel caso di progetti concertati tra diversi soggetti pubblici. D'altro lato, proprio perché non si tratta più di definire le quantità dell'espansione e realizzarle progressivamente nel tempo ma di sostenere processi di sviluppo sociale ed economico che dipendono da fattori spesso in rapida evoluzione, questa stessa condizione di certezza e di stabilità potrebbe facilmente tradursi in una condizione di rigidità estremamente limitante.
Apparentemente dunque si verifica una contraddizione strutturale tra esigenze di stabilità e certezza da un lato ed esigenze di flessibilità dall'altro. Gli effetti di questa contraddizione hanno assunto di volta in volta o la forma dell'utilizzazione sistematica dello strumento della Variante Parziale del PRG o quello della definizione di programmi e progetti di intervento in deroga alle previsioni di Piano. In particolare la produzione normativa più recente, specialmente quella di livello nazionale, sembra assumere la modalità dell'intervento in deroga come l'unico possibile per superare la rigidità della pianificazione. In ogni caso, sia ricorrendo allo strumento della Variante, sia ricorrendo ad interventi in deroga, la sostanza della questione non cambia: allo strumento urbanistico generale vengono riconosciuti caratteri di rigidità che rendono "necessaria" una sua continua revisione. Ma a questo punto il Piano Regolatore Generale perde le caratteristiche di strumento per la definizione unitaria delle linee di sviluppo della struttura insediativa rispetto alle quali determinare azioni e interventi sul territorio; nel migliore dei casi costituisce un quadro di riferimento rispetto al quale valutare la coerenza delle varianti o degli interventi in deroga, nel peggiore assume il valore di documento dove si registrano scelte e interventi definiti caso per caso. Rispetto a questo stato di cose si va affermando un'ipotesi di articolazione dello strumento urbanistico in due livelli, uno, più rigido, centrato sulle scelte tra le grandi alternative di sviluppo e l'altro, più flessibile, mirato sulle scelte inerenti la configurazione fisica e le modalità di attuazione delle scelte definite al primo livello. I due livelli sono stati definiti in va-
rio modo, spesso centrando l'attenzione su aspetti parziali della questione. A nostro avviso tuttavia l'ipotesi di articolazione del Piano urbanistico generale in due livelli è quella più convincente non solo rispetto alla natura dei problemi da affrontare ma anche rispetto alla implicazioni della legge di riforma sulla pianificazione temtoriale. Sembra infatti opportuno (se non necessario) che vi sia un livello strutturale in grado di fissare con certezza le grandi linee di sviluppo territoriale in relazione sia a ipotesi di sviluppo della struttura socioecononiica dell'area, sia alle scelte espresse nel Piano Territoriale di Coordinamento. A questo livello (o modalità) della pianificazione generale è affidato il compito di assicurare concretezza alle scelte di definizione del ruolo territoriale della struttura insediativa nel suo complesso. Inoltre appare necessario un livello operativo in grado di tradurre le scelte di strategia cli sviluppo in termini di intervento fisico su una porzione limitata di città, tenendo conto di tutti quei fattori contingenti e in rapida evoluzione che orientano i singoli specifici comportamenti di riuso e rilocalizzazione sul territorio. Questo "sdoppiamento" dello strumento urbanistico generale consentirebbe di conciliare l'esigenza di certezza sulle prospettive di sviluppo e sugli investimenti pubblici (che è una condizione necessaria affinché la struttura economica aderisca al progetto di sviluppo dell'area) con le esigenze di flessibilità e tempestività determinate dalla rapida evoluzione dei processi socio economici e in particolare dei processi di riuso e rilocalizzazione che investono la città costruita.
Piano e gestione Infine, alcune brevi considerazioni su un
tema, quello del rapporto tra Piano e gestione degli interventi di attuazione del Piano, che sarà trattato più organicamente nella relativa sezione. 67 Il Piano Regolatore Generale, nell'accezione che si sta delineando, tende ad acquisire valenze di strumento per orientare e sostenere i processi di riuso e riorganizzazione della struttura insediativa (e cioè di fattore chiave per il governo del processo di continuo riassetto dell'area) e parallelamente tende a perdere quelle di rappresentazione di un assetto territoriale ideale al quale ricondurre il "disordine" dei processi evolutivi reali. In queste condizioni la gestione del Piano non si risolve semplicemente nella sua corretta realizzazione ma presuppone: la costante analisi degli effetti determinati dai singoli interventi o più precisamente dall'impatto che, sui processi evolutivi, hanno determinato gli interventi urbanistici di secondo livello e le relative realizzazioni; la successiva valutazione se tali effetti siano coerenti con gli obiettivi definiti dal livello strutturale della pianificazione o se invece non occorra modificare qualche cosa negli obiettivi o negli interventi per conseguire risultati più soddisfacenti. In sostanza mentre attualmente la retroazione degli effetti sulle scelte e sulle attuazioni di Piano è decisamente limitata, quando non del tutto assente, in prospettiva questa fase di retroazione appare sempre più importante e richiede strumenti di gestione del tutto diversi da quelli sino ad ora utilizzati e, sicuramente, integrati nel Piano stesso. Il processo di pianificazione che tradizionalmente assume la forma di una sequenza lineare che dalle indagini procede verso le valutazioni, le scelte e l'attuazione del Piano, tende ad arricchirsi di nuove fasi e ad as90
sumere una forma "circolare" che prevede: indagini e valutazioni ma anche l'acquisizione di programmi e scelte elaborate da altri soggetti; la comunicazione del proprio quadro di analisi e valutazione e la concertazione delle scelte assieme agli attori delle trasformazioni territoriali; la definizione del livello strutturale di pianificazione e la progettazione degli interventi urbanistici di secondo livello; l'analisi degli effetti sui processi evolutivi della popolazione, della struttura produttiva e del territorio, la valutazione delle scelte e degli interventi da realizzare e il loro eventuale adeguamento. I
MODI DELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA
co-
MUNALE.
Il terzo fattore chiave che avevamo indicato in apertura di questo capitolo riguarda il rapporto tra azione amministrativa di livello comunale e le scelte e iniziative sviluppate sia da altre amministrazioni pubbliche sia da soggetti privati che operano nell'area con particolare riferimento agli strumenti necessari per una efficace gestione ditale rapporto. Abbiamo già visto come la Provincia per esercitare in modo efficace il ruolo di raccordo attivo tra livello comunale e livello regionale e tra i diversi Comuni debba costituire al proprio interno una capacità di gestione dei processi decisionali complessi dandosi a tal fine gli strumenti adeguati. La gestione di processi decisionali complessi e gli strumenti a ciò necessari costituiscono infatti la premessa logica e operativa per l'integrazione delle diverse opzioni e dei diversi programmi dei principali soggetti pubblici e privati all'interno di un disegno unitario e coerente con obiettivi di utilità sociale. Questa attività
di concertazione costituisce una delle caratteristiche peculiari del Piano Territoriale di Coordinamento. 68 Alcuni dei principi di fondo che hanno determinato tale configurazione del processo di governo del territorio di livello provinciale restano pienamente validi anche a livello comunale. Al Comune infatti "spettano tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale.., salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale..." 69 laddove tale riserva, a nostro avviso, non è indicativa di una sorta di competenza di risulta (tutto ciò che non viene espressamente attribuito ad altri enti resta di competenza del livello comunale) quanto di una istanza di integrazione, come la legge precisa subito dopo: "il comune per l'esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua sia forme di decentramento sia di cooperazione con altri comuni e con la provincia. " 7o e come bene chiarisce la circolare esplicativa del Ministero dell'Interno laddove precisa che l'azione amministrativa del comune viene determinata da un lato, dal necessario riferimento alla popolazione e al territorio comunale, dall'altro, dall'attribuzione di competenze ad altri soggetti da parte della legge statale o regionale" e in questo modo la legge sancisce " ... un sistema di competenze integrate in cui più soggetti concorrono con le rispettive azioni ad integrare il nuovo quadro istituzionale." 71 Fermo restando dunque che il principio della amministrazione integrata non è limitato al solo livello provinciale ma investe pienamente anche quello comunale e che conseguentemente le considerazioni a proposito della gestione dei processi decisionali complessi e degli strumenti "...
che tale gestione richiede restano valide in linea generale anche per il livello comunale, occorre tener conto di alcune peculiaritt proprie di questo livello. V'è infatti una profonda differenza tra lo strumento di pianificazione territoriale provinciale (il Piano Territoriale di Coordinamento) e lo strumento di pianificazione territoriale di livello comunale (il Piano Regolatore Generale). Si tratta di due strumenti complementari che trovano un punto di aggancio reciproco nella articolazione dello strumento urbanistico in due livelli e in particolare nella relativa omogeneità che esiste tra Piano Territoriale di Coordinamento e Piano Strutturale (o livello strutturale del piano urbanistico) per quanto concerne la struttura formale, il tipo di obiettivi, la natura delle norme, il tipo di processo analitico e propositivo. Questa omogeneità formale e, tendenzialmente, di contenuti è anche quella che assicura la circolarità del raccordo tra livello provinciale e livello comunale. In termini più espliciti, le analisi, le valutazioni e le scelte svolte nell'ambito del livello strutturale dal piano urbanistico costituiscono un fattore fondamentale di conoscenza per la pianificazione territoriale provinciale e quindi concorrono alla definizione del Piano Territoriale di Coordinamento. Allo stesso modo le analisi, le valutazioni e le scelte svolte a livello di Piano Territoriale di Coordinamento definiscono il quadro dei vincoli e delle linee di sviluppo di area vasta delle quali i Comuni debbono tener conto in sede di pianificazione urbanistica (e in particolare per la definizione dei contenuti del piano strutturale). Occorre tuttavia notare che mentre il Piano Territoriale di Coordinamento ha esiti piuttosto limitati in termini di attuazione 91
- la legge attribuisce alla Provincia la realizzazione di opere di rilevante interesse provinciale 72 - il Piano Urbanistico, specialmente nella componente che abbiamo indicato come "piano operativo", è in ampia misura uno strumento orientato alla determinazione delle caratteristiche fisiche delle trasformazioni territoriali e al governo dei comportamenti di riuso e rilocalizzazione in accordo con le ipotesi di riassetto e riorganizzazione della struttura insediativa definite a livello di "piano strutturale". In altri termini possiamo notare che mentre il Piano Territoriale di Coordinamento tende a controllare e orientare i processi socioeconomici in relazione ad una determinata ipotesi di assetto di area vasta ed agendo su alcuni fattori chiave che consentono di indirizzare verso l'assetto obiettivo i processi socioeconomici e territoriali nel loro complesso, il Piano Urbanistico Generale tende a svolgere un ruolo analogo in relazione all'insieme dei singoli soggetti e dei comportamenti che articolano e concretizzano i processi socioeconomici di cui sopra. Il livello comunale cioè è chiamato ad una più stretta e diretta interazione con gli attori dei processi socio economici che determinano l'evoluzione delle strutture insediative. A tal fine da parte del Comune si richiede una conoscenza ben più dettagliata di quanto non sia necessario ed opportuno a livello provinciale e una capacità di intervento non solo sui fattori e le condizioni generali che orientano i processi di sviluppo e trasformazione territoriale ma anche sui singoli e specifici comportamenti che di questi stessi fattori sono la diversificata espressione o il risultato. Tutto ciò presenta alcune implicazioni di notevole interesse. 92
Gli strumenti conoscitivi Anzitutto appare del tutto evidente come l'insieme dei processi di riuso, mobilità e rilocalizzazione debbano essere conosciuti con grande dettaglio fino a poter isolare le singole componenti, i singoli raggruppamenti di comportamenti sui quali agire con incentivi o disincentivi. In termini operativi tutto ciò comporta da un lato la messa a punto di procedure di monitoraggio e analisi (concretamente possibili solo nell'ambito di una stretta collaborazione tra amministrazione comunale, enti e aziende erogatrici di servizi, etc.) e dall'altro la progettazione e realizzazione di strumenti e schemi di valutazione atti a interpretare i comportamenti e i processi analizzati in relazione sia alle dinamiche di riorganizzazione della struttura insediativa sia agli obiettivi di riassetto propri del Piano Urbanistico Generale. In secondo luogo appare necessario disporre di valutazioni certe circa i termini in cui la quantità, qualità, distribuzione e accessibilità delle attrezzature di servizio e delle infrastrutture incidono sulla qualità e quantità dei servizi disponibili, sui processi di redistribuzione della popolazione e delle attività e su quelli di riqualificazione, degrado, ristrutturazione, delle strutture edilizie. Anche in questo caso si rendono necessari strumenti e procedure di analisi reiterate nel tempo, forme di collaborazione tra diversi soggetti al fine di rendere operativamente e finanziariamente accessibile un tipo di conoscenza che altrimenti potrebbe risultare troppo onerosa, schemi e modelli di valutazione che consentano di individuare le alternative ottimali sia in termini di dimensionamento e redistribuzione dei servizi in relazione ai processi evolutivi in corso e a-
gli obiettivi di Piano, sia in relazione alla sformazione) assicurata da questa "azione qualità e ai costi dei servizi stessi. parallela" dell'amministrazione locale si è A questo proposito occorre notare che i fortemente ridimensionata. costi dei servizi, in base al principio delAssume invece importanza un'azione piihl'autonomia finanziaria e impositiva degli blica di natura affatto diversa, centrata sulEnti Locali sancito dalla riforma, tendela capacità di condizionare indirettamente ranno immediatamente a tradursi in tarifi comportamenti dei diversi attori del profe o imposte, dunque in pressione fiscale cesso di riorganizzazione della struttura ine che conseguentemente qualunque vasediativa. riazione ditali costi determinerà una paIn altri termini se prima era possibile deter rallela variazione di pressione fiscale. minare la dimensione e la localizzazione di un insediamento (residenziale o produttiINTERVENTO PARALLELO; INTERVENTO STRATEGIcO vo) e il suo rapporto con le infrastrutture e i servizi attraverso lo strumento dello zoOccorre anche notare che il tipo di interning, attualmente per orientare un flusso di vento reso necessario dalla crescente imterziarizzazione o la nilocalizzazione di attiportanza dei processi di riorganizzazione vità economiche o l'abbandono di porzioni delle strutture insediative, rispetto ai prodegradate della struttura insediativa tale cessi di espansione, modifica radicalmente strumento è del tutto inutile. Ciò che occor i termini del rapporto tra intervento pubblire è la capacità di intervenire sui sistemi di co e dinamiche socio economiche. Tradiconvenienze, sui fattori territoriali, sulle zionalmente l'intervento pubblico alla scala norme che determinano un certo comporlocale procede come "azione parallela" alle tamento per modificarli (laddove ciò sia dinamiche e alle trasformazioni territoriali possibile) governando in via indiretta i prodeterminate dai comportamenti dei soggetcessi di riorganizzazione della città costi -uiti privati: garantisce le infrastrutture e i serta. Tutto ciò comporta il passaggio da una vizi alla popolazione e alle attività econoazione che è tutta compresa tra la progettamiche e svolge quella che potremmo defizione urbanistica e la realizzazione degli nire una funzione di riequiibrio o di supinterventi previsti ad un sistema di azioni la porto ai processi di trasformazione che cui realizzazione comporta l'àdesione attivengono realizzati con risorse private. Nelva e il coinvolgimento diretto di risorse da le precedenti fasi espansive un intervento parte degli attori privati. Un intervento di tale natura costituiva un forte condiziodunque che non si misura sulle azioni ed namento attraverso la determinazione delle opere direttamente realizzate dall'Amminicaratteristiche delle espansioni e della stretstrazione Pubblica ma sugli effetti che tali ta relazione che si poteva stabilire tra quanopere ed azioni determinano sul contesto tità residenziali e spazi per attività extraresisocioeconomico e territoriale. In questo denziali da un lato e servizi e infrastrutture senso appare legittimo parlare di "Intervendall'altro. Nella fase attuale, caratterizzata to strategico". da una sempre più marcata prevalenza dei processi di riuso e nilocalizzazione sui proLo "Sportello Urbanistico" cessi di espansione, la capacità di condizionamento (di governo dei processi di traUn'ultima considerazione prima di conclu93
dere questo capitolo. Abbiamo visto come il governo del territorio a livello comunale richieda una interazione diretta con l'universo dei decisori privati, singole famiglie, piccole attività economiche o grandi strutture produttive che siano. Più precisamente tale interazione assume la forma di una adesione sostanziale, anche se non necessariamente formale agli obiettivi del Piano, e in particolare al sistema di incentivi e disincentivi che dovrebbe orientare i singoli comportamenti. Il presupposto dunque del successo di una politica di governo del territorio applicata sulla città costruita e sui processi socioeconomici ed edilizi che la investono (escludendo ipotesi autoritarie, per altro di dubbia utilità pratica) è quello della completa e agevole conoscenza di un sistema di norme e di incentivi, di possibilità e agevolazioni che l'Amministrazione pone in essere per orientare questi stessi processi. Questo presupposto tuttavia contrasta vivamente con la crescita dell'apparato di norme, con la numerosità degli enti che possono determinare vincoli, etc. In altri terniini nel momento in cui si richiede la massima trasparenza del corpo di norme poiché il processo di trasformazione si fraziona in una miriade di microinterventi e gli attori cessano di essere figure professionali (l'operatore economico, il tecnico progettista, l'impresa edile, etc.) per diventare singoli operatori e cittadini dai quali tuttavia ci si attende una risposta in termini di adeguatamento dei comportamenti agli obiettivi del Piano, in questo stesso momento il corpo normativo registra la massima complessità che a volte sembra richiedere un esercizio di raffinata ermeneutica. In tali condizioni appare indispensabile la realizzazione di uno "Sportello Urbanistico" e cioè di un servizio di raccolta, organizzazione e restituzione combinata delle
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norme, dei vincoli, degli incentivi e delle procedure che insistono in una qualsivoglia porzione di territorio (o che riguardano un qualsivoglia edificio). Occorre, in altri termini, uno strumento e una procedura che consentano di raccordare la complessità della normativa con le esigenze di chiarezza e di agevole accessibilità dell'insieme dei caratteri normativi da parte di figure "non tecniche".
5.
AUTONOMIA FINANZIARIA E IMPOSITIVA DEGLI ENTI LOCALi
Uno dei principi fondamentali della legge di riforma è quello dell'attribuzione a Province e Comuni della "autonomia finanziaria fondata sulla certezza di risorse proprie e trasferite". 73 A tal fine la riforma assicura agli enti locali "potestà impositiva autonoma nel campo delle imposte, delle tasse e delle tarif fe con conseguente adeguamento della legislazione tributaria vigente." e subito dopo stabilisce che "I trasferimenti erariali devono garantire i servizi locali indispensabili e sono ripartiti in base a criteri obiettivi che tengano conto della popolazione, del territorio e delle condizioni socio-economiche, nonché in base ad una perequata distribuzione delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalità locale" 74 In altri termini l'articolo 54 della legge di riforma stabilisce anzitutto che i trasferimenti erariali saranno dimensionati per assicurare unicamente i servizi indispensabili (dunque non tutti i servizi ma solo alcuni che saranno definiti da successiva normativa) e in secondo luogo che i trasferimenti erariali restano suddivisi in ordinari, perequativi e di investimento 7 5 ma si modifica sia l'ammontare complessivo
dei trasferimenti sia il criterio di ripartizione che viene legato a criteri obiettivi e di perequazione degli squilibri di fiscalità locale. Se la legge di attuazione della riforma della finanza locale seguirà fedelmente questi principi si avranno alcuni effetti notevoli anche in tema di pianificazione e programmazione. Anzitutto si verrà a determinare una corrispondenza diretta tra l'ammontare dei servizi offerti e la pressione fiscale sugli amministrati, condizione che oggi si verifica solo in ambiti molto ridotti e che, nel complesso, possiamo giudicare sostanzialmente assente nel panorama nazionale. In secondo luogo l'esplicito riferimento dei criteri perequativi agli squilibri di fiscalità locale sembra escludere ogni forma di compensazione che tenda a riequilibrare il differente costo dei servizi nelle diverse aree del paese. In particolare sembra di capire che l'azione perequativa tenderà a compensare il minore gettito dovuto alla concentrazione di bassi redditi o alla minore presenza di attività economiche in alcune aree ma non i diversi costi imputabili a condizioni organizzative o alla struttura delle circoscrizioni amministrative o ad altri fattori che non siano diretta espressione delle caratteristiche della popolazione e del territorio. In termini astratti, entrambe le condizioni costituiscono espressione di buon governo, di trasparenza della spesa.pubblica, di assetto normativo che tende a premiare le condizioni di maggiore efficienza ed efficacia nell'organizzare e gestire i servizi e, per contro, a penalizzare le situazioni di cattiva gestione. Occorre infatti notare che nelle condizioni attuali, se i trasferimenti erariali o regionali su un'area vengono impiegati in difformità anche marcata da criteri di efficienza ed efficacia il
vantaggio conseguente ai trasferimenti, ancorché ridotto dalla bassa produttività, ricade nell'area stessa mentre il costo della bassa produttività ricade genericamente sulla collettività nazionale o regionale. In queste condizioni è del tutto evidente come non vi siano incentivi diretti per migliorare la produttività della spesa pubblica da parte degli enti gestori. Ciò non significa ovviamente che questi stessi enti non tendano al miglioramento della produttività della spesa pubblica ma certamente la bassa corrispondenza tra efficacia ed efficienza della spesa e quota dei servizi erogabili sposta l'attenzione dal piano degli incrementi di produttività a quello della rivendicazione per più ampi trasferimenti. L'autonomia finanziaria e impositiva definita dalla riforma tende a colpire proprio questo tipo di situazione, che concede ampi spazi alla bassa produttività sociale della spesa pubblica, legando strettamente tre fattori: pressione fiscale, efficacia ed efficienza dei servizi, quantum dei servizi erogati. In termini meno astratti tuttavia si pongono due ordini di problemi. A livello centrale v'è infatti il non trascurabile problema di definire parametri e criteri adeguati sia per la valutazione dei costi dei servizi indispensabili nelle diverse aree sia per la determinazione dei modi della perequazione; si pone cioè il problema di tradurre un principio che appare pienamente condivisibile in una serie di parametri, indici e tabelle dalle quali derivare la distribuzione dei trasferimenti erariali. Un discorso analogo, sebbene certamente meno vasto e critico, dovrebbe porsi per il livello regionale. A livello locale si pone un duplice problema, da un lato occorre valutare il gettito complessivo e determinare le condizioni ot95
timali di "equilibrio" tra pressione fiscale e quantum di servizi offerti, con la consapevolezza che l'errata valutazione di tale "punto di equilibrio" può provocare effetti estremamente dannosi non solo in termini di qualità della vita delle popolazioni locali ma anche in termini di prospettive di sviluppo della struttura economica localizzata nell'area; d'altro lato è necessario individuare le forme organizzative, gli strumenti tecnici, l'assetto complessivo attraverso cui rendere minimi i costi a parità di servizio erogato (o massimo il servizio a parità di costi). Tralasciando i problemi propri dell'Amministrazione Centrale (e non già perché poco rilevanti ma perché un discorso su questo argomento ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema) esaminiamo in via sommaria i principali nodi che debbono essere affrontati a livello locale al solo fine di valutarne le implicazioni in termini di panificazione territoriale. L'EQUILIBRIO TRA PRESSIONE FISCALE E SERVIZI EROGATI Sul tema del rapporto tra pressione fiscale e quota di servizi erogati v'è un'ampia letteratura alla quale rimandiamo direttamente. In queste pagine ci interessa tuttavia sviluppare qualche considerazione sul rapporto tra autonomia finanziaria, riorganizzazione delle circoscrizioni amministrative e governo del territorio, assumendo il punto di vista delle amministrazioni comunali e provinciali. Le questioni di fondo che si pongono all'Ente Locale sono tre. La prima consiste nel fatto che, a parità di altre condizioni, se viene aumentata la quantità di servizi offerti si determina sul lato della popolazione un miglioramento della qualità della vita (trasporti pubblici più efficienti, aule meno affollate, attrez96
zature sportive e spazi culturali più diffusi e accessibili, etc.) mentre sul lato della struttura produttiva si determina sia il miglioramento di alcune condizioni di lavoro (riduzione dei tempi di spostamento casa/lavoro, ambienti di lavoro più salubri perché inseriti in insediamenti opportunamente attrezzati e più comodi perché dotati di servizi, etc.) sia, soprattutto, una maggiore produttività media locale (riduzione dei tempi di consegna e approvvigionamento, disponibilità di spazi attrezzati per lo stoccaggio, servizi di orientamento nel mercato e promozione dei prodotti, attrezzature espositive, miglioramento delle comunicazioni, etc.). La maggiore quota di servizi offerti determina però anche un aumento della pressione fiscale e conseguentemente una riduzione del reddito spendibile sul lato della popolazione e un incremento dei costi sul lato delle imprese. Inoltre occorre notare che, per quanto riguarda la popolazione, non tutte le figure sociali potranno trarre lo stesso beneficio dalla presenza di un determinato servizio. Conseguentemente l'utilità a fronte della spesa per tasse o imposte varierà in funzione delle caratteristiche sociali. Comunque, una crescita sensibile della pressione fiscale per alcùne componenti sociali si potrebbe tradurre in un incentivo al trasferimento in aree a minore pressione fiscale. Per quanto riguarda le imprese si verifica un fenomeno analogo: non tutte le imprese traggono lo stesso vantaggio dai servizi erogati, alcune riescono a tradurre pienamente e concretamente tali servizi in incrementi di produttività o comunque in miglioramenti della collocazione sul mercato, altre non sono affatto in grado di compiere questo passaggio cosicché mentre per le prime l'incremen-
to dei Costi è ampiamente compensato da un incremento dei ricavi, per le seconde questa compensazione non avviene. In questo modo si determinano, in capo al secondo gruppo di imprese, condizioni di progressiva perdita di posizione fino al caso estremo della chiusura dell'attività o del suo trasferimento in aree con minore pressione fiscale Si noti inoltre che un processo inverso accade in presenza di una riduzione dei servizi e di un conseguente alleggerimento della pressione fiscale. In questo caso le figure sociali che trarrebbero maggior giovamento dai servizi o che non possono rinunciarvi, sono costrette, laddove ciò è possibile, a ricorrere a servizi privati sostitutivi o a rinunciare ad una qualità di vita che potrebbe essere alla loro portata. Quando lo scarto supera una certa soglia cominciano a verificarsi processi di trasferimento in aree giudicate più favorevoli. Ancor più diretta potrebbe risultare la risposta delle imprese che, in presenza di un tessuto di infrastrutture e servizi carente al punto da limitare la produttività o la posizione sul mercato, disinvestono e si rilocalizzano in aree più favorevoli. Questa dicotomizzazione dei processi che da un lato tendono ad un circolo virtuoso (dove la maggiore quota di servizi si traduce in migliore qualità di vita e in rafforzamento della struttura produttiva) e dall'altro in un circolo vizioso (dove la maggiore quota di servizi si traduce unicamente in riduzione del reddito disponibile delle famiglie e in costi aggiuntivi per le imprese), è ben nota in quei Paesi dove l'autonomia impositiva dell'Ente Locale è una condizione ormai consolidata. Qui non è raro registrare rapidi e intensi decadimenti di strutture insediative per eccessiva pressione fiscale (o, al contra-
rio, per scarsità e inadeguata composizione dei servizi offerti) ma anche altrettanto intensi, sviluppi locali guidati e sostenuti, se non determinati, da un contesto ricco di infrastrutture e servizi. In sintesi vogliamo segnalare che la questione dell'autonomia finanziaria e impositiva solleva problemi decisamente ampi e non tutti compresi all'interno della questione del pareggio di bilancio: questo è sicuramente un vincolo ma gli obiettivi sono ben più significativi e riguardano direttamente le prospettive di sviluppo sociale ed economico della collettività locale. IMPOSTE, TARIFFE, POLITICA FISCALE DELL'ENTE LOCALE La questione si presenta ancora più complessa qualora si consideri che la legge di riforma lascia libero l'Ente Locale di graduare imposte e tariffe, di attribuire cioè i costi dei servizi direttamente all'utenza specifica o di ripartirli in modo più diffuso sulla popolazione dell'area. L'Ente Locale dovrà cioè definire non solo il grado di pressione fiscale ma le caratteristiche e la configurazione complessiva delle proprie entrate, dovrà cioè determinare una propria "politica fiscale". Come è del tutto intuibile, in linea di massima una politica che tenda a recuperare i costi dei servizi attraverso le imposte rendendo minime le tariffe ha valenze eminentemente redistributive. Tale indirizzo tuttavia da un lato può dar luogo a sprechi e dall'altro pone pesanti problemi in ordine alla gestione dei servizi stessi. La legge di riforma infatti precisa che i servizi possono essere gestiti in economia, in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale (per i servizi di rilevanza economiche e imprenditoriale), a mezzo 97
di istituzione (per servizi sociali senza rilevanza economica e imprenditoriale), per mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico. 76 Orbene, se si esclude la prima soluzione (servizi gestiti quando in economia) da utilizzare: per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o un'azienda;" , in tutti gli altri casi la separazione tra costi e tariffe determina la necessità di un intervento compensativo dell'Ente Locale, altrimenti non necessario, che apre una gamma di problemi circa il controllo di gestione e il perseguimento di condizioni di efficienza ed efficacia. In particolare mentre l'obbligo al pareggio di bilancio in assenza di interventi compensativi, o con interventi compensativi minimi, determina un riscontro diretto sulla resa economica del servizio e sulla disponibilità degli utenti a sostenere l'onere delle tariffe, la presenza di un consistente intervento compensativo (quale sarebbe quello derivante da una politica di trasferimento dei costi del servizio dalle tariffe alle imposte) determinerebbe la necessità sia di un attento "controllo di gestione" sia di continue verifiche sulla configurazione del servizio erogato per conoscere eventuali aree di sovrautilizzazione e sottoutilizzazione. In termini più generali. Le tariffe possono essere l'espressione dei costi sostenuti e assumere quindi il carattere di prezzi (ancorché controllati dall'Amministrazione Locale). In questo modo il sistema delle tariffe è in grado non solo di consentire un reale controllo sul processo di gestione e sul bilancio ma, fattore altrettanto importante, permette anche all'ente gestore di acquisire numerose informazioni sui centri di costo e di spesa e sull'ap"...
prezzamento del servizio stesso da parte degli utenti. Le tariffe potrebbero tuttavia essere l'espressione di una politica redistributiva e perequativa: in questo caso il raggiungimento degli obiettivi di efficacia e di efficienza comporta, da parte dell'Ente Locale, un attento e puntuale controllo sulla evoluzione dei costi, sulle quantità, sulle caratteristiche e sulla distribuzione del servizio erogato, senza il quale si potrebbe facilmente verificare un progressivo scostamento dalle condizioni ottimali e, alla lunga, un decadimento del servizio stesso che certamente determinerebbe un allontanamento dalle condizioni "di equilibrio" tra pressione fiscale e quantità-composizione dei servizi erogati nell'area. Occorre tuttavia notare che tali controlli contrastano con quelle istanze di snellimento e decentramento di compiti di gestione alle quali la riforma intende rispondere prevedendo la possibilità di istituire diverse forme di soggetti gestori di servizi. La necessità dell'Ente Locale di occuparsi direttamente delle verifiche di efficienza ed efficacia nella programmazione e gestione dei servizi ridurrebbe in ampia misura i vantaggi del decentramento della gestione dei ser vizi presso Enti appositamente costituiti. Con ciò non si vuole certo sostenere che una politica dei servizi basata sull'abbattimento delle tariffe e su un intervento compensativo dell'Amministrazione Locale alimentato da maggiori imposte sia da considerare estranea a principi della riforma o comunque sub-ottimale rispetto ad altre alternative, più semplicemente si vuole evidenziare che una politica ditale natura se da un lato può determinare indubbi vantaggi di ordine sociale, dall'altro presenta costi organizzativi e politici di tutto rilievo e pertanto dovrebbe essere riservata a casi specifici,
individuati sulla base di attente valutazioni sia di ordine sociale che di ordine economico. P0P0IAzI0NE E ATtIVITÀ ECONOMICHE
Il terzo ordine di problemi che l'Amministrazione Locale si trova a dover affrontare riguarda la composizione dei servizi rispetto a due grandi comparti: i servizi alla popolazione e queffi alla struttura produttiva. 78 Naturalmente alcuni servizi svolgono pienamente un doppio ruolo (incidentalmente notiamo che questo raggruppamento di servizi, per così dire polivalente, tende progressivamente a crescere in relazione allo sviluppo del settore terziario e in particolare del terziario direzionale) nella maggior parte dei casi tuttavia riteniamo che l'alternativa abbia un significato ben concreto in termini di investimenti e di ripartizione della spesa pubblica e di definizione di una linea di prioritt. Entro certi limiti infatti gli interventi a sostegno dello sviluppo economico e quelli a sostegno dello sviluppo sociale (del miglioramento delle condizioni di vita) sono almeno in parte alternativi: in linea generale le strutture insediative con condizioni di elevata produttività industriale, dove tutto è finalizzato al miglioramento delle condizioni di produttività media di area, non risultano essere i luoghi dove è più piacevole vivere e per contro quelli caratterizzati dalle più elevate presenze di servizi sociali, culturali, di strutture per il tempo libero (e non intendiamo riferirci alle aree a "monoproduzione turistica") non necessariamente garantiscono la maggiore produttivit media di area. In teoria dunque si potrebbe cercare di individuare il "giusto equilibrio" tra servizi per la popolazione e servizi per la struttura produttiva, magari ricorrendo a
raffinati modelli economici che tendono a individuare la frontiera di scambio tra crescita del reddito individuale determinato dallo sviluppo economico e benefici derivanti dalla presenza di servizi sociali per poi riferire a tale complesso (ma spesso astratto) equilibrio una ripartizione tra i due aggregati di servizi. In realtà riteniamo che in ampia misura questo sia un approccio dispersivo. La questione, in termini più concreti, a nostro avviso si risolve nella. capacità di trovare linee di sviluppo che sappiano conciliare e integrare attivamente entrambi i termini dell'alternativa. Si tratta di individuare un progetto complessivo di sviluppo di area (quello del quale scrivevamo nel paragrafo, "Valenze progettuali del processo di fusione dei comuni" del capitolo lv, "Il livello comunale") al quale riferire la programmazione e la gestione del complesso dei servizi. Per fare ciò è possibile che si debbano utilizzare raffinati stru menti di analisi economica e sociale (e in alcune aree particolarmente complesse più che di possibilità dobbiamo parlare di necessità) ma certamente è opportuno sviluppare le condizioni di partecipazione attiva della popolazione e della collettività economica a tale progetto. In particolare i soggetti economici dovrebbero essere sentiti non solo e non tanto per conoscerne le richieste quanto per analizzarne i programmi e le opzioni, utilizzando tali conoscenze per la definizione di un progetto di sviluppo che, per quanto concerne l'Ente Locale, in ampia misura è un progetto di infrastrutture e servizi.
Pianificazione territoriale e gestionale dei servizi E veniamo al punto chiave di queste bre-
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vi note: il rapporto tra pressione fiscale e quantità/caratteristiche dei servizi erogati da un lato e la pianficazione territoriale dall'altro. In sintesi possiamo notare che se le condizioni di efficacia ed efficienza possono essere migliorate agendo sul piano dell'assetto organizzativo dell'ente gestore e su un migliore controllo dei meccanismi di gestione, come è tenuto ben presente dalla legge di riforma che dedica diversi articoli alla materia, 79 è altresì certo che tali condizioni possono essere nettamente migliorate in sede di pianificazione territoriale. In particolare il livello di efficacia del servizio, il suo impatto sui processi di sviluppo, dipende strettamente dal rapporto tra configurazione delle reti, distribuzione delle attrezzature di servizio e caratteristiche dalla struttura insediativa. In altri termini la qualità del servizio di approvvigionamento idrico dipende dalla qualità della gestione,dalla struttura organizzativa, dai livelli di efficenza interna che l'Ente Gestore è riuscito a raggiungere ma certamente dipende anche dalle caratteristiche della rete, dalla configurazione dell'insediamento o degli insediamenti serviti, dalle caratteristiche dei processi di espansione della struttura insediativa e di riuso e rilocalizzazione della popolazione e delle attività, dalla chiarezza e tempestività con cui sono governati i programmi di espansione e rilocalizzazione delle attività, consentendo in questo modo all'Ente Gestore di adottare i provvedimenti e i programmi del caso. Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte sia a proposito di altri servizi di rete, sia a proposito di servizi basati su attrezzature puntuali, laddove la forma dell'insediamento, la distribuzione di popolazione e attività economiche, la grana e la distribuzione 100
delle attrezzature sulle quali si basa l'erogazione del servizio, condizionano direttamente la qualità finale del servizio, i suoi costi e il suo impatto sul territorio, a parità di condizioni di gestione. Dunque, se da un lato i principi di efficacia ed efficienza possono essere concretizzati sul piano gestionale e organizzativo, dall'altro non v'è dubbio che gli strumenti che definiscono la distribuzione territoriale e le caratteristiche tecniche delle attrezzature di servizio e delle reti infrastrutturali costituiscono un ulteriore piano per migliorare se non l'efficienza interna del servizio, certamente la sua efficacia, la quantità e la qualità dei servizi erogabili. Sotto questo aspetto la pianificazione ter ritoriale, e in particolare la pianificazione urbanistica di livello comunale, entra direttamente in quella che possiamo chiamare la progettazione delle condiziom di elevata efficienza ed efficacia nell'erogazione dei servizi. 80 Ovviamente una attenzione alle implicazioni in termini di costo e qualità dei servizi nella pianificazione territoriale generale e di settore c'è sempre stata ma a nostro avviso la riforma richiede un ulteriore sviluppo in questa direzione per almeno due fattori.
Piano urbanistico e costo dei servizi Anzitutto il principio di autonomia finanziaria comporta la necessità di far fronte con risorse proprie ai costi di erogazione di servizi con l'esclusione dei servizi indispensabili che, ricordiamo, sono alimentati da trasferimenti erariali determinati da criteri oggettivi. In questo quadro qualunque disfunzione si traduce immediatamente in una crescita del costo del servizio intervenendo sfavorevolmente sul delicato rapporto tra pressione fiscale e
quota di servizi erogati. La ricerca di assetti efficaci non risponde più ad istanze generiche di corretta gestione della spesa pubblica ma diventa immediatamente un fattore di sviluppo sociale ed economico dell'area (o per contro un fattore di depressione delle potenzialità di sviluppo). In termini più espliciti, se fino ad ora una progettazione di espansioni residenziali o di aree produttive poco attenta alle implicazioni sul fronte del costo dei servizi o una gestione dei processi di rilocalizzazione delle attività economiche scarsamente attenta alle implicazioni in termini di redistribuzione sul territorio della domanda di servizi poteva determinare un incremento di costi che si poteva tentare di compensare attraverso maggiori trasferimenti erariali, dal momento in cui l'autonomia finanziaria prevista dalla nforma diventeni pienamente operativa queste stesse disattenzioni si tradurranno immediatamente in una secca alternativa: aumento della pressione fiscale o riduzione della quota di servizi erogati. Ci sembra dunque che il nuovo assetto della finanza locale che si va (lentamente) prefigurando richieda in termini generalizzati una valutazione puntuale (e corredata di rigorose analisi quantitative) dei costi per l'erogazione dei servizi determinati dalle diverse alternative di assetto della struttura insediativa. Una più organica ed interattiva connessione tra calcolo economico e progettazione urbanistica è stata indicata come opportuna da numerosi studiosi della materia ma in generale è rimasta ben al di fuori della progettazione urbanistica corrente (ad eccezione di pochi casi notevoli). Oggi questo più stretto rapporto tra progettazione urbanistica e costo dei servizi appare una condizione non solo opportuna ma' del tutto necessaria, un portato diretto della riforma.
La concertazione delle scelte In secondo luogo la stretta connessione tra processi di sviluppo dell'efficienza' interna e processi di sviluppo della efficacia del servizio determinano l'esigenza di una parallela integrazione tra scelte di gestione e programmazione dell'ente gestore e scelte di pianificazione e programmazione dell'Autorità. Locale. Lo Strumento Urbanistico Generale sotto questo aspetto tende a diventare luogo di raccordo e di integrazione di diversi ordini di scelte svolte da diversi soggetti, tende cioè ad assumere il significato di strumento di integrazione e coerenziazione in un disegno unitario degli interventi sul territorio programmati e realizzati dai diversi attori del processo di trasformazione territoriale. Tutto ciò conferma quanto abbiamo gi notato a proposito delle caratteristiche della pianificazione territoriale generale di livello comunale, precisando ulteriormente una delle caratteristiche innovative fondamentali dello Strumento Urbanistico Generale: quella appunto di diventare luogo della sintesi di diversi processi di analisi, valutazione e scelta svolti da soggetti diversi. Ed è poco più che superfluo ricordare come l'apparato di norme e disegni che costituiscono tradizionalmente lo Strumento Urbanistico Generale assumano il valore di punto terminale, di punto di arrivo di un processo di raccolta di dati, di analisi, di scambio delle informazioni così elaborate tra i vari soggetti che cooperano alla determinazione del piano, di valutazione della coerenza e compatibilità delle varie alternative settoriali. In sostanza ci sembra che trovi ulteriore conferma l'ipotesi che avevamo avanzato circa l'opportunità di innovare con decisione i contenuti e, per alcuni aspetti, la 101
stessa struttura dello Strumento Urbanistico Generale che ha sempre meno le caratteristiche della prefigurazione di un assetto territoriale, modello al quale ricondurre i "disordinati" processi evolutivi della realtà, e sempre più tende a costituirsi da un lato come quadro di raccordo tecnico, dotato di un apparato permanente di strutture e strumenti per la raccolta di dati, la loro elaborazione secondo schemi di interpretazione e valutazione, l'acquisizione di programmi e scelte operate da altri settori e da altri livelli della pubblica amministrazione e dai principali soggetti della trasformazione territoriale e dall'altro tende a configurarsi come strumento per l'integrazione attiva delle scelte e delle prospettive di intervento in un processo decisionale condiviso e caratterizzato da un elevato tasso di comunicazione e di scambio tra diversi soggetti che vi partecipano.
vince", definiscono le funzioni delle Province e dei Comuni in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio, stabiliscono "forma e modi della partecipazione degli enti locali alla formazione dei piani e programmi regionali , ripartiscono le funzioni tra Città Metropolitana e i restanti comuni dell'area metropolitana 81, fissano "i criteri e le procedure per la formazione e attuazione degli atti e degli strumenti della programmazione socioeconomica e della pianificazione territoriale dei comuni e delle province rilevanti ai fini dell'attuazione dei programmi regionali", disciplinano con norme di carattere generale "modi e procedimenti per la verifica della compatibilìti fra gli strumenti di cui al comma 7 (programmazione regionale, ove esistenti." 82 Alle Regioni viene cioè affidato dall'art. 3 il ruolo di disegnare un nuovo assetto a livello locale delle funzioni amministrative essendo la finalità della norma quella di .. fissarè un nuovo rapporto tra regioni ed enti locali minori Tale nuovo rapporto comporta che vengano determinate, tramite legge regionale, anche le forme e i modi della partecipazione di Comuni e Province alla pianificazione e programmazione regionale, nonché i necessari raccordi con gli strumenti di programmazione comunale e provinciale. Tramite questa riorganizzazione delle funzioni e delle competenze degli enti locali le Regioni .. dovrebbero essere sempre meno soggetto di amministrazione e sempre più soggetto di legi• slazione e di programmazione Si intende dunque bene come la riforma attribuisca alle Regioni il compito di definire in termini operativi l'architettura dei poteri locali sia per quanto riguarda la ripartizione di competenze e funzioni (sal.....
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6.
LA REGIONE E L'ATfUAZIONE DELLA RIFORMA
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Veniamo infine al livello regionale. La legge di riforma tratta dei compiti della Regione sino dal 30 articolo, noi ne parliamo nell'ultimo capitolo, prima delle conclusioni e questo ribaltamento deriva proprio dalla centralità del ruolo della Regione nel processo di attuazione della riforma. Al livello regionale spettano infatti una serie di compiti cruciali di indirizzo, programmazione e definizione delle modalità di attuazione della riforma dei quali sarebbe stato ben difficile trattare senza aver prima chiarito gli aspetti fondamentali della riforma a livello comunale e provinciale. In particolare le Regioni "organizzano l'esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le pro102
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vo quelle espressamente previste dalla legge) sia per quanto riguarda i rapporti tra le diverse amministrazioni e di queste con la Regione stessa. Inoltre le Regioni svolgono un ruolo decisivo nella definizione della nuova geografia delle circoscrizioni amministrative sia perché "predispongono un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei piccoli comuni e lo aggiornano ogni cinque anni..... 85 , sia perché "promuovono le unioni di comuni e a tal fine provvedono alla erogazione di contributi aggiuntivi.....e, dopo aver erogato contributi per dieci anni, possono determinare la fusione qualora questa non sia stata ancora deliberata dagli stessi comuni 86, sia perché promuovono l'iniziativa dei Comuni per la revisione delle circoscrizioni territoriali s, sia, infine, perché delimitano le aree metropolitane e provvedono al riordino delle circoscrizioni amministrative dell'area, provvedendo anche all'istituzione di nuovi comuni o alla fusione di comuni contigui, in modo da assicurare "il pieno esercizio delle funzioni comunali, la razionale utilizzazione dei servizi, la responsabile partecipazione dei cittadini nonché un equilibrato rapporto fra dimensioni territoriali e demografiche." 88 In buona sostanza una mole di compiti che già ad un esame sommario appare di tutto rilievo ma che osservati alla luce delle considerazioni svolte nei precedenti capitoli (in particolare laddove veniva evidenziato come la redistribuzione delle funzioni, la riorganizzazione delle circoscrizioni amministrative e il principio delle competenze integrate, presentano àmpie e profonde interazioni con la pianificazione territoriale e con gli strumenti di gestione del territorio) risulta essere ancora più consistente.
Infatti, se da un lato è possibile disegnare un assetto di funzioni e compiti di Comuni e Province in relazione a valutazioni contingenti o comunque ispirate a criteri di razionalizzazione della attuale configurazione come pure è possibile ipotizzare una ridefinizione delle circoscrizioni provinciali sulla base di istanze già presenti o di quelle comunali cercando di eliminare i casi più evidenti di sottodimensionamento 89 è altresì del tutto evidente che questi criteri da un lato contrastano profondamente con lo spirito della riforma e dall'altro risultano del tutto insoddisfacenti sotto il profilo del conseguimento di un effettivo sviluppo delle autonomie locali. In effetti ci sembra che il punto di approccio alla materia possa essere utilmente individuato in un criterio guida abbastanza semplice nei suoi termini concettuali (ancorché probabilmente non altrettanto semplice nell'applicazione operativa) che possiamo esprimere nei seguenti termini: l'attuazione della riforma dell'ordinamento delle autonomie locali comporta un significativo sviluppo dei livelli di programmazione e pianificazione territoriale della Regione, poiché entrambe interagiscono direttamente con l'attuazione della riforma e ne tracciano le direttrici operative. PROGRAMMA REGIONALE DI SVILUPPO, PIANO TERRITORIALE DI COORDINAMENTO E "RUOLO TERRITORIALE" DEI COMUNI
Come abbiamo già avuto modo di notare, esistono strette relazioni tra la attribuzione di funzioni e competenze a Province e Comuni, le caratteristiche strutturali dei processi socioeconomici che tendono a riorganizzare il territorio, l'assetto territoriale delle strutture insediative, la ridefinizione delle circoscrizioni amministrative 103
provinciali e comunali, la possibilità di esercitare una effettiva azione di governo sullo sviluppo socioeconomico dell'area. La materia presenta relazioni così dirette da rendere estremamente difficile ogni tentativo di definizione delle funzioni degli Enti Locali prescindendo dalle caratteristiche dei processi socioeconomici in atto o dall'assetto delle circoscrizioni amministrative, oppure dai contenuti del programma di aggregazione dei territori e delle strutture comunali tramite la unione e fusione dei comuni e così via. La nostra impressione anzi è che senza tener conto di queste relazioni tra aspetti amministrativi, territoriali, socioeconomici e di programmazione, il problema non solo si presenta complesso sul piano operativo ma risulta anche indeterminato su quello concettuale (come abbiamo cercato appunto di evidenziare nel caso del dimensionamento "ottimale" delle circoscrizioni comunali). 9° In effetti riteniamo che la definizione delle nuove circoscrizioni territoriali (così come la ripartizione delle funzioni tra Province e Comuni " e in generale gran parte delle scelte che la legge di riforma richiede a Regione, Province e Comuni) presenti forti valenze progettuali; richieda cioè un esplicito riferimento a una ipotesi di sviluppo sociale, economico e territoriale rispetto alla quale anzitutto "misurare" l'assetto amministrativo, funzionale e territoriale attuale e, successivamente, intervenire per orientarne l'evoluzione. In termini brutalmente schematici ciò comporta che il Programma di Sviluppo Regionale dovrà arricchire i propri contenuti (e i propri strumenti di analisi e di valutazione) per raccordare le ipotesi di sviluppo socioeconomico e territoriale della regione: 104
- al "programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei piccoli comuni"; 92 - alla determinazione del "nuovo assetto a livello locale delle funzioni amministrative"; 93 - alla determinazione delle circoscrizioni metropolitane; - alla definizione delle forme e dei modi di partecipazione degli Enti Locali alla programmazione regionale; - ai criteri e alle procedure per la formazione e l'attuazione della pianificazione e programmazione di Comuni e Province laddove questi siano rilevanti rispetto alla programmazione regionale. In assenza di un raccordo operativo tra le grandi scelte di sviluppo della programmazione regionale, le scelte e i programmi di sviluppo locali o di area vasta, la geografia e l'assetto dei poteri locali, il "nuovo rapporto tra regioni ed enti locali" sembra destinato a restare un riferimento di principio senza alcun effetto tangibile sull'azione amministrativa. Appare inoltre evidente che tale raccordo, per garantire le condizioni di efficacia e di efficenza che il legislatore richiama più volte, non dovrà svolgersi in un'unica direzione (dalla Regione verso le Province e da queste verso i Comuni) secondo una sequenza gerarchica lineare, ma avere piuttosto un andamento circolare. Con ciò intendiamo evidenziare che se è indubbio che un determinato programma di sviluppo regionale trova maggior sostegno in un certo assetto delle circoscrizioni amministrative e in una determinata ripartizione di funzioni, è altrettanto certo che il processo di riorganizzazione delle circoscrizioni amministrative, delle funzioni attribuite a Comuni e Province, delle strutture comunali e degli enti di ge-
stione dei servizi, non può che rispondere a logiche ed obiettivi locali che necessariamente interagiscono con quelli regionali. Esistono dunque una serie di obiettivi, programmi,, vincoli, assetti socioeconomici e territoriali locali che nel loro complesso condizionano oggettivamente sia le linee della programmazione regionale sia i contenuti e i modi dell'attuazione regionale della riforma dell'ordinamento locale. Ciò che sembra opportuno ed utile è che tale "condizionamento" venga reso esplicito e diventi materia di lavoro per l'azione regionale attraverso modalità e procedure opportune. L'azione di governo svolta dalla Regione deve dunque necessariamente porre a proprio fondamento anche una accurata analisi della geografia e dell'assetto funzionale e organizzativo degli Enti Locali e comporre obiettivi di sviluppo e trasformazione del territorio con obiettivi di riorganizzazione della geografia dei poteri locali. I luoghi specifici di questa azione di raccordo "circolare" tra Regione e Province e tra Regione e Comuni sono a nostro avviso da individuare da un lato nel collegamento tra Programma Regionale di Sviluppo e Piano Territoriale di Coordinamento (e nella correlata .determinazione della configurazione delle funzioni pròvinciali) e dall'altro nel collegamento tra Programma Regionale di Sviluppo e "Progetto di area" 94 rispetto al quale determinare sia il programma regionale di aggregazione dei comuni sia la definizione di quelle funzioni comunali non determinate dalla legge nazionale. Questi due momenti di raccordo presuppongono dunque uno scambio strutturato e continuativo di informazioni, valutazioni e scelte tra i livelli fondamentali di go-
verno del territorio. La legge, senza dichiararlo esplicitamente, individua un cardine su cui sviluppare il principio delle competenze integrate e tale cardine a nostro avviso è costituito proprio dall'azione della Regione che, in termini indiretti ma anche estremamente chiari, è chiamata a dare l'avvio concreto e gli indirizzi operativi del processo di attuazione della riforma. Ciò che più conta, la Regione, per svolgere in modo efficace il ruolo di direzione dell'attuazione della riforma, deve saldare in un disegno organico le valenze di programmazione e di legislazione con una capacità di "ingegneria organizzativa" senza la quale appare estremamente difficile definire un progetto di riorganizzazione delle circoscrizioni amministrative, delle funzioni attribuite a Provincie e Comuni, dei modi in cui questi determinano programmi di sviluppo e strumenti di pianificazione territoriale in modo coordinato e concorrono alla pro: grammazione di livello regionale. In definitiva dunque ci sembra di poter affermare che l'attuazione della riforma dell'ordinamento delle autonomie locali comporta da parte della Regione la definizione di un Programma Regionale di Sviluppo dalle caratteristiche fortemente innovative, tale da consentire la determinazione di un disegno di riorganizzazione della configurazione territoriale, organizzativa e funzionale degli Enti Locali organÌcamente articolato in relazione alle specificità di area vasta (livello provinciale) e locali (livello comunale). GLI STRUMENTI DELL'AZIONE REGIONALE
Il conseguimento dell'insieme di condizioni e di obiettivi indicati sopra richiede non solo adeguate capacità organizzative 105
e progettuali ma anche un insieme di strumenti in grado di fornire sia un sostegno operativo alle azioni da intraprendere sia un supporto alle scelte da effettuare. In particolare: - la individuazione delle caratteristiche specifiche di area e la definizione del ruolo territoriale, sia a livello di area vasta sia a livello locale, - il riassetto delle circoscrizioni territoriali comunali in relazione ad un progetto di sviluppo sociale, economico e territoriale da mettere a punto con il concorso degli Enti Locali, - l'individuazione di una gamma di alternative ottimali per la programmazione e gestione dei servizi e per la pianificazione e gestione del territorio, rispetto alle quali promuovere forme di coordinamento e raccordo tra gli Enti Locali, richiedono la definizione e l'uso di strumenti e procedure che agevolino lo sviluppo ditali azioni e che consentano un "raccordo circolare" tra valutazioni, scelte e interventi della Regione, delle Province e dei Comuni. Sull'importanza del raccordo tra gli Enti Locali, sia in linea di principio che in termini operativi, abbiamo avuto modo di soffermarci in diverse occasioni. In particolare, 'a proposito del ruolo di raccordo della "nuova" Provincia, abbiamo notato come il riferimento della legge di riforma alle competenze integrate, al coordinamento e alla concertaziorie delle scelte, a forme di collaborazione e/o decentramento per la programmazione e gestione dei servizi, determini anzitutto un incremento della complessità del processo decisionale (un maggior numero di soggetti decisori, un maggior numero di criteri di valutazione e di vincoli da tener presente, etc.) e, quindi, l'esigenza di mettere a punto stra106
tegie e strumenti per la gestione dei processi decisionali complessi. 95 Notavamo anche che l'integrazione dei processi decisionali indicata dalla legge di riforma non può svolgersi attraverso un semplice confronto delle decisioni assunte dai diversi soggetti (e quindi attraverso un "coordinamento a posteriori"). L'integrazione dell'azione amministrativa svolta dai vari Enti Locali o, sul piano operativo, la gestione concreta di processi decisionali complessi sviluppati da più soggetti, per avere adeguate prospettive di successo, deve fondarsi su uno scambio attivo del complesso di conoscenze, valutazioni, analisi, obiettivi sul quale si fondano i processi decisionali. Tutto ciò tende a ridefinire il ruolo, i contenuti e la stessa struttura degli strumenti ai quali tradizionalmente è affidato il ruolo di fornire elementi a supporto delle scelte: accanto alla raccolta ed elaborazione di dati questi tendono a svolgere funzioni di supporto alle valutazioni, di comunicazione e scambio di informazioni complesse. In sintesi gli strumenti che trattano le informazioni (i sistemi informativi, i modelli di supporto alle decisioni, etc.) in questa logica tendono a svolgere un ruolo più complesso di sostegno e organizzazione del processo di convergenza di più percorsi decisionali su una scelta determinata, di supporto, dunque, alla gestione dei processi decisionali complessi. Tutte queste considerazioni, svolte in riferimento all'azione di raccordo della Provincia, restano nella sostanza valide anche in riferimento all'azione di raccordo regionale e per tale regione evitiamo di riproporre argomenti e considerazioni già svolte nel Il capitolo. Esiste tuttavia in questa materia una specificità del livello regionale sulla quale riteniamo opportuno soffermarci.
La gestione dei processi decisionali complessi non si concentra in poche sedi ma tende a costituire una modalità ricorrente e sistematica dell'azione amministrativa degli Enti Locali e della Aziende che gestiscono i servizi. Parallelamente i problemi di progettazione e realizzazione degli strumenti a supporto della gestione dei processi decisionali complessi non riguardano pochi soggetti ma la grande maggioranza delle Amministrazioni. Si pone dunque un duplice problema: da un lato quello della capacità reale da parte di tutte le Amministrazioni Locali (e non solamente di quelle più attrezzate) di affrontare con mezzi adeguati la realizzazione e la messa a punto di strumenti di conoscenza, valutazione, comunicazione e dall'altro quello della opportunità di disporre di un insieme di mezzi e strumenti fortemente omogeneo, tale da agevolare, anche sul piano concretamente operativo, lo sviluppo dei collegamenti e dei raccordi tra Comuni, Province e Regione. Assodato che la riforma richiede un significativo sviluppo si strumenti,procedure, tecniche (e, conseguentemente , delle professionalità a questi collegate) si profila sia l'esigenza di un sostegno diretto da. parte degli Enti sovraordinati nei confronti delle strutture amministrative meno attrezzate sotto il profilo delle risorse tecniche e finanziarie, sia l'opportunità di una ottimizzazione del processo di definizione, realizzazione e uso di tecniche e strumenti e di formazione, delle necessarie professionalità al fine di evitare gli sprechi derivanti da duplicazioni, sia - infine - la necessità di ssicurare condizioni di omogeneità che agevolino lo svolgimento delle fasi tecnico-operative della concertazione delle scelte. Sotto questo profilo il livello regionale può svolgere una fondamentale funzione di deter minaziòne di standard e indirizzi omogenei
e di assistenza alla formazione delle nuove professionalità richieste dalla riforma, per diversi motivi. Anzitutto perché come soggetto di programmazione e legislazione dispone degli strumenti necessari per dare autorevolezza e concreto sostegno alle indicazioni di omogeneizzazione e standardizzazione degli strumenti tecnici. In secondo luogo perché la Regione è il solo soggetto a poter determinare standard e indirizzi omogenei a livello dell'intero territorio regionale e in diretta relazione alle scelte di ripartizione di funzioni tra Province e Comuni e in relazione ai programmi di rideterminazione delle circoscrizioni amministrative. NORME, STANDARD E REPERTORIO DI STRUMENTI
La Regione si trova dunque nelle condizioni di poter tradurre il principio dell'amministrazione integrata e della gestione dei processi decisionali complessi in indicazioni tecnico-operative, in procedure, in standard che da un lato assicurino condizioni di efficacia e ottimizzazione dei risultati a parità di impegno complessivo e dall'altro forniscano un supporto concreto alle Amministrazioni meno attrezzate. Questo raggruppamento di azioni può costituire la terza grande area di applicazione delle innovazioni determinate dalla legge di riforma. Il processo di attuazione della riforma comporta infatti non solo l'innovazione delle caratteristiche strutturali del Programma Regionale di Sviluppo (che tende ad acquisire valenze di strumento a sostegno del processo di riorganizzazione della geografia degli Enti Locali) e dei Sistemi Informativi (che tendono a diventare strumenti a supporto della gestione dei processi decisionali complessi che caratterizzano in modo sistematico l'interazione tra i livelli regionale, 107
provinciale e comunale), ma anche dell'attività normativa e amministrativa regionale mirata alla definizione di standard, di procedure e dei modi e procedimenti per assicurare coerenza e coordinamento alla programmazione e pianificazione comunale e provinciale. Naturalmente tutte le Regioni svolgono già un'azione di definizione di standard, procedure, indirizzi riferita agli enti locali, e in particolare alle amministrazioni comunali, ma non v'è dubbio che la L. 142 apra una stagione di sistematico impegno di innovazione, di riorganizzazione e ridefinizione di metodi, strumenti e procedure di fronte al quale l'azione di programmazione e produzione normativa ordinaria non può che rivelarsi insufficiente. Sotto questo profilo appare indicativo l'esplicito impegno che il Ministero dell'Interno ha dichiarato di volersi assumere in tema di definizione dei nuovi statuti comunali e provinciali. La legge prevede che dopo la pubblicazione dello statuto nel bollettino ufficiale regionale questo sia "affisso all'albo pretorio dell'ente per trenta giorni consecutivi ed inviato al Ministero dell'Interno per essere inserito nella raccolta ufficiale degli statuti". % Lo stesso Ministero tuttavia nel paragrafo conclusivo della circolare esplicativa alla legge 97 nota che oltre ai puntuali adempiopportumenti previsti dalla norma è no mettere a disposizione delle amministrazioni locali che intendessero avvalersene, ogni contributo di conoscenza e approfondimento, che potrà poi essere assunto dai singoli enti a supporto delle loro autonome determinazioni.". Senza illustrare in dettaglio i modi e i contenuti di questo contributo ci limitiamo a notare che nella circolare si arriva ad ipotizzare uno 'sportello delle autonomie" che non "...
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si limiti soni ad una assistenza giuridica e tecnico-amministrativa ma che abbracci tutte le materie la cui conoscenza possa essere utile per l'azione degli enti (e si cita l'esempio della normativa europea e delle possibilità e modalità di accesso a finanziamenti comunitari) facendo ricorso anche a "strumenti informatici e telematici, sì da poter mettere il patrimonio informativo a disposizione della periferia per i problemi risolvibili localmente". La circolare si sofferma su questo tema individuando la necessità della costituzione di una banca-dati centralizzata, la possibilità di accesso diretto a questa anche da parte dei cittadini e delle imprese operanti sul territòrio, l'attivazione di un numero telefonico unico nazionale, il ricorso al telefax, e via dicendo. Al di là dei dettagli tecnologici e dell'immagine vagamente futuribile che la lettura dell'ultimo paragrafo della circolare esplicativa offre dell'amministrazione pubblica, ci sembra doveroso segnalare la notevole sensibilità con la quale viene affrontata la questione del supporto agli enti locali da parte dell'amministrazione centrale: non una semplice risposta agli obblighi di legge ma il tentativo di avviare forme di sostegno e collaborazione attiva ad amministrazioni periferiche impegnate in un compito cer tamente complesso e difficile. Ora non si vuole certo proporre analogie troppo disinvolte tra ruolo della Regione e ruolo dell'Amministrazione Centrale a proposito dell'azione di sostegno alle amministrazioni locali ma indubbiamente appare lecito attendersi dalle Regioni almeno altrettanta sensibilità e attenzione di quella mostrata dal Ministero dell'Interno. Ovviamente i temi sono ben diversi, il ruolo della Regione nei confronti degli enti locali
è più ampio e diretto: è auspicabile che comprenda l'assistenza alla definizione di statuti e regolamenti ma è necessario che comprenda l'assistenza e l'indirizzo sull'elaborazione degli strumenti e delle tecniche da adottare per attuare la riforma sul lato del governo del territorio. Su questo piano le Regioni possono svolgere un ruolo prezioso di definizione di un repertorio di procedure, strumenti, indirizzi tecnici, coerenti con il processo di innovazione presupposto dall'attuazione della riforma. Un'azione avviata in questa direzione consentirebbe' sicuramente il raggiungimento di tre importanti obiettivi: l'eliminazione di duplicazioni e conseguentemente un migliore impiego delle risorse disponibili, la riduzione dei tempi di attuazione della riforma,una maggiore omogeneità di riferimenti tecnici, standard, linguaggi, a tutto vantaggio delle possibilità di coordinamento degli interventi e di concertazione delle scelte. Probabilmente il modo più efficace per realizzare questo repertorio di tecniche, procedure, strumenti da porre a disposizione degli enti che intendano giovarsene consiste nella definizione di un vasto programma di innovazione da attuare per progetti pilota, individuando come laboratori di applicazione e sperimentazione quelle amministrazioni locali che per vari motivi si trovano in condizioni favorevoli per avviare un processo di innovazione che successivamente darà luogo ad un insieme articolato di strumenti a disposizione di tutte le amministrazioni locali della regione. In questa direzione già si registrano iniziative di estremo interesse da parte di alcune Regioni ma l'occasione della riforma dell'ordinamento locale e in particolare le esigenze di sistematica riorganizzazione e innovazione che riguardano gran parte della
strumentazione per il governo dei processi di sviluppo e riassetto del territorio, consentirebbero di sviluppare queste stesse iniziative in termini più sistematici e più diffusi. 7. PER CONCLUDERE
Al momento di concludere queste note sul rapporto-tra riforma dell'ordinamento delle autonomie locali e governo del territorio ci sembra opportuno raccogliere la diversificata materia trattata nei precedenti capitoli in un quadro di sintesi. Abbiamo visto come l'attuazione della riforma comporti numerose e radicali innovazioni su diversi fronti; per quanto riguarda il governo del territorio l'innovazione, pur investendo campi molto ampi e diversificati, si concentra in modo particolare su cinque nodi fondamentali.
Pian/icazione territoriale Il primo nodo riguarda certamente gli strumenti della pianificazione territoriale. L'assetto del nostro territorio, i processi socioeconomici che lo investono, guidandone l'evoluzione, pongono l'esigenza di una pianificazione autorevole, certa, che non conceda molto spazio a formule centrate sulla contrattazione o sulla pratica del caso per caso. Non si tratta di scegliere tra due scuole, quella della pianificazione rigida e oppressiva delle tendenze e dei processi spontanei o quella che tende ad assecondare questi stessi processi affiancando a questi l'intervento pubblico. Si tratta invece di costruire una capacità di determinare riferimenti certi, indirizzi e programmi affidabili all'interno dei quali convogliare le risorse e le capacità del "sistema delle autonomie" e della collettività locale. 109
Il principio delle competenze integrate da un lato e la necessità di orientare i processi di riorganizzazione e riassetto che investono le nostre strutture insediative dall'altro comportano l'opportunità (la necessità) di ridurre drasticamente la frammentarietà e la sovrapposizione dei molti (e parziali) strumenti oggi disponibili a favore di una maggiore unitarietà e complessità in grado di raccogliere tutte le determinazioni rilevanti in materia di assetto del territorio e sua evoluzione. Che in una stessa struttura insediativa il governo del territorio sia affidato a diverse decine di strumenti di vario ordine e genere, definiti e gestiti da molti Comuni con un livello di coordinamento più ipotetico che reale, è una situazione che equivale ad una sostanziale assenza di governo. L'assenza di "regole" certe e di obiettivi a lungo termine non è un vantaggio per nessuno, o almeno non lo è in una prospettiva di medio-lungo periodo, e certamente una carenza di pianificazione in una struttura sociale, economica e territoriale complessa e matura come quella italiana alla lunga si risolve in un deciso deterioramento dello sviluppo sociale, economico, territoriale e della qualità della vita. Pianificazione territoriale dunque non solo e non tanto come rappresentazione di un assetto obiettivo ma come sistema strutturato di norme, vincoli, programmi, incentivi, interventi, che governano i processi evolutivi in atto dirigendoli verso obiettivi di utilità collettiva. Sotto questo profilo la pianificazione tende ad un incremento di complessità determinato sia dalla maggiore integrazione tra le diverse scale e i diversi obiettivi del governo del territorio (Programma Regionale di Sviluppo, Piano Territoriale di Coordinamento, pianificazione territoriale comunale distinta nei due livelli fondamentali) 110
sia dalla maggiore integrazione tra pianificazione e gestione (laddove la seconda tende a diventare una componente interna della prima e a determinare le stesse regole di evoluzione del Piano) sia, infine, dalla integrazione tra i processi decisionali delle diverse amministrazioni. Del tutto incidentalmente si nota che il più stretto intreccio tra pianificazione e gestione del piano e dei servizi tende a riportare la progettazione urbanistica sempre più all'interno delle strutture tecniche comunali.
Gestione dei processi decisionali complessi Una innovazione così ampia nella qualità, nei modi e negli strumenti di governo del territorio comporta necessariamente una parallela innovazione delle strutture amministrative sia a livello territoriale (ridefinizione delle circoscrizioni amministrative) sia a livello organizzativo (statuti e regolamenti di Province e Comuni, riorganizzazione degli uffici, etc.). La riforma consente di ricollegare in un disegno unitario i tre termini chiave della questione (riassetto delle circoscrizioni territoriali, ripartizione delle funzioni e riorganizzazione delle strutture delle autonomie locali, strumenti e modi del governo del territorio) e indica come qualità fondamentali di questo ampio processo il coordinamento tra i diversi settori e livelli del "sistema delle autonomie" e la integrazione delle competenze. Si tratta di una linea strategica assai chiaramente delineata che tuttavia presenta notevoli livelli di complessità. Questi, se non adeguatamente padroneggiati, rischiano di risolversi in una pesante indeterminatezza di compiti e responsabilità e in una paralizzante sovrapposizione e confusione di indirizzi. Per evitare tali rischi è necessario che siano
elaborati opportuni strumenti e procedure. La riforma indica lo strumento dell'accordo di programma (migliorandone le caratteristiche rispetto alla normativa precedente), che indubbiamente consente di affrontare in modo più organizzato che per il passato la definizione e la gestione di programmi e interventi complessi. Tuttavia l'accordo di programma trova il proprio limite strutturale nel fatto di essere uno strumento pensato per situazioni eccezionali: quando, per la numerosità dei soggetti decisori e la complessità del compito, si richiede una "forma di governo" particolare. La stessa riforma però indica il coordinamento e l'integrazione delle competenze non come modalità straordinarie ma come caratteristiche ordinarie della nuova azione amministrativa (e certamente sembra del tutto improbabile che la prassi amministrativa delle amministrazioni pubbliche debba sistematicamente passare attraverso accordi di programma, conferenze di servizio, nomine e convocazioni dei rappresentanti delle diverse Amministrazioni, etc.) Sembra dunque esservi la necessità di disporre di strumenti ordinari, di procedure e ausili integrati nelle attività correnti, per la gestione di processi decisionali complessi e condivisi tra diversi soggetti. Se "La legge regionale disciplina la cooperazione dei comuni e delle province tra loro e con la regione, al fine di realizzare un efficente sistema delle autonomie locali al servizio dello sviluppo economico,sociale e civile" 98 tutto ciò comporta la determinazione non solo dei modi, delle scadenze, delle norme che organizzano il coordinamento e consentono la realizzazione di un "efficace sistema delle autonomie" ma anche la creazione degli strumenti ordinari che consentono agli Enti Locali di agire in un quadro che non è definito dal-
le proprie competenze specifiche ma dall'interazione delle proprie funzioni e competenze con quelle di altri soggetti, di altre Amministrazioni Locali, della Regione e dell'Amministrazione Centrale. Se poi l'obiettivo è anche quello dell'efficienza di tutto il sistema, allora il complesso delle interazioni si estende ulteriormente fino a comprendere gli enti e le aziende che gestiscono i servizi, gli operatori economici pubblici e privati e più in generale tutti i principali attori delle trasformazioni territoriali. Il quadro schematicamente richiamato evidenzia, al di là di ogni dubbio, che il tipo di azione amministrativa prevista dalla legge di riforma non ha caratteristiche di integrazione tali da poter essere risolta nell'ambito di un fitto calendario di incontri e consultazioni aventi per obiettivo il raggiungimento delle auspicate condizioni di coordinamento e integrazione. Occorre, appunto, un sistema di strumenti che costituisca supporto diretto alla gestione di un processo decisionale complesso e condiviso.
I sistemi informativi Tradizionalmente questa azione di supporto all'azione di programmazione e pianificazione territoriale, quando è presente, è affidata a diversi strumenti, principalmente al sistema informativo territoriale e a modelli e procedure di "supporto alle scelte". Un supporto alla gestione dei processi decisionali complessi richiede qualche cosa di più e di diverso. Certamente è necessario disporre di una consistente informazione sulle caratteristiche del territorio e dei processi socioeconomici che lo investono. Certamente è necessario che siano disponibili schemi di valutazione, procedure, modelli per in111
dividuare possibili soluzioni, stimare gli effetti degli interventi sul territorio, valutare le diverse alternative. Certamente occorre che la base informativa sia sufficentemente disaggregata e riferita ad un sistema cartografico in modo tale da consentire una analisi della distribuzione territoriale dei fenomeni, degli interventi e degli effetti da questi determinati. Ciò che tuttavia caratterizza in modo specifico un sistema a supporto della gestione di processi decisionali complessi è la presenza di: - una base di informazioni elementari comune a più soggetti (tendenzialmente a tutti i soggetti chiamati a coordinare i propri interventi sul territorio); - un repertorio di schemi di valutazione, procedure automatiche di elaborazione e analisi, condiviso e disponibile ai vari soggetti; - un sistema di procedure di scambio di informazioni, valutazioni, obiettivi, scelte, programmi di intervento, etc.. Queste caratteristiche tracciano, a nostro avviso, le linee maestre dell'evoluzione dai sistemi informativi tradizionali verso sistemi a supporto dell'azione amministrativa indicata dalla legge di riforma. Se la legge impone il passaggio da una azione amministrativa settoriale (e parcellizzata) ad una azione integrata e coordinata, allora gli stessi strumenti di raccolta, organizzazione ed elaborazione delle informazioni dovranno perdere le caratteristiche di settorialità che attualmente hanno e diventare anzitutto strumenti per l'integrazione e il coordinamento. E se il punto focale di tali strumenti consiste nell'integrazione delle scelte e nel coordinamento delle azioni e degli interventi allora il fatto di condividere le informazioni di base e i modi per analizzarle e valutarle 112
costituisce non tanto una condizione di razionalizzazione auspicabile quanto un requisito necessario per poter avviare un confronto costruttivo tra soggetti diversi. Allo stesso modo la definizione delle procedure di scambio delle informazioni elementari, delle valutazioni, degli obiettivi, etc. non costituisce un semplice miglioramento delle relazioni e della collaborazione tra i vari enti ma il prerequisito per avviare un processo di integrazione delle scelte che non abbia le caratteristiche di una forzata ricomposizione a posteriori.
Pia nflcazione territoriale e calcolo econoinico Un ulteriore punto che vogliamo ricordare riguarda il rapporto tra pianificazione territoriale e calcolo economico. L'opportunità di saldare più strettamente pianificazione territoriale e calcolo economico, verifica delle risorse disponibili e degli effetti economici determinati dall'intervento pubblico, è argomento trattato con una certa ricorrenza da parte di chi si occupa di pianificazione territoriale. Ci sembra tuttavia che la riforma dell'ordinamento delle autonomie locali imponga di raggiungere a tempi brevi questa maggiore integrazione e ciò per almeno due motivi. Il più evidente riguarda l'autonomia finanziaria e impositiva di Province e Comuni e lo stretto rapporto che si viene ad instaurare tra pressione fiscale, quantità e qualità dei servizi erogabili, sostegno .ai processi di sviluppo sociali ed economici dell'area. Affrontare il nuovo quadro senza disporre dei necessari strumenti di analisi e di verifica economica sembra davvero azzardato. Il secondo motivo è più sottile e riguarda la possibilità di governare un contesto (quel-
lo della città costruita) e un insieme di processi (la riorganizzazione delle strutture inla rilocalizzazione delle attività economich; il riuso degli edifici esistenti, etc.) che sono caratterizzati da una complessità maggiore rispetto a quella che caratterizzava i processi di espansione delle strutture insediative. In questo quadro di maggiore complessità l'intervento pubblico determina spesso effetti scarsamente intuitivi che, in assoluto, non possono essere previsti, con certezza ma, sicuramente, in assenza degli opportuni strumenti, non possono essere valutati neanche con un accettabile grado di approssimazione. Sembra dunque siano ormai maturi i tempi per integrare nella programmazione e nella pianificazione territoriale strumenti di analisi e valutazione economica che consentano alle Amministrazioni Locali di misurare e verificare concretamente l'efficacia della propria azione e di poter scegliere tra varie alternative avendo ben chiaro 'il quadro dei costi e dei benefici (diretti e indiretti, di breve e lungo periodo) associati a ciascuna di queste.
Il ruolo della regione Questa diffusa esigenza di innovazione, di riorganizzazione profonda di alcune caratteristiche strutturali dell'azione amministrativa degli Enti Locali, degli strumenti e dei modi del governo del territorio, non può assòlutamente realizzarsi in modo spontaneo e. separato per gli oltre 8.000 Comuni e le quasi 100 Province. Occorre che le Regioni, in virtù del proprio ruolo di soggetti di legislazione e programmazione, assicurino da un lato condizioni di coerenza e compatibilità al processo e dall'altro forniscano indicazioni e sostegno agli Enti Locali: un ruolo da giocare certa-
mente sul piano della programmazione e della normativa ma anche su quello delle proposte tecniche e della assistenza alla sperimentazione che accompagna sempre ogni processo di reale innovazione. Infine vogliamo ricordare che la riforma ha una importanza e un impatto sulla vita del Paese che vanno molto oltre i temi che abbiamo affrontato. Noi ci siamo limitati a trattare del rapporto tra il governo del territorio e l'attuazione del nuovo ordinamento sulle autonomie locali ma la riforma esprime in termini organizzativo-istituzionali contenuti di portata molto più ampia, che riguardano direttamente la qualità dell'azione pubblica e il rapporto tra Stato e cittadini. La qualità e le dimensioni delle innovazioni indicate dalla riforma sono tali che la stessa riforma non può esaurirsi .. ...in un unico provvedimento ma necessita di più interventi legislativi. Essa va vista come un processo costituito da un susseguirsi di interventi finalizzati a trasformare l'ordinamento vigente per renderlo conforme al principio di autonomia. Sarà la coerenza di questi interventi rispetto a quel principio a consolidare l'efficacia della riforma". ii Sul piano tecnico (quello degli strumenti, dell'organizzazione delle strutture pubbliche, dalle norme che regolano i modi di governo del territorio) il processo non appare molto più semplice né più breve. Si tratta di avviare oggi un itinerario che si svolgerà per diversi anni, di costruire le premesse per una coerenza di interventi, di innovazioni, che dovrà riguardare non solo i dispositivi normativi ma anche le tecniche, le procedure, gli strumenti che consentiranno di applicare le norme alla viva realtà. Si tratta cioè di lavorare affinché non si verifichi, una volta di più, uno scarto incolmabile tra gli obiettivi indicati dalla riforma e i mezzi che risultano disponibili. 113
AREE METROPOLITANE Tabella i CIRCOSCRIZIONI AMMINISTRATIVE E SUPERFICIE Numero di comuni VA
TORI NÒ MILANO GENOVA ROMA NAPOLI VENEZIA BOLOGNA FIRENZE BARI
Percéntuale sul totale
15 1 23 i 33 52 63 10 5 6'0 61 27
1,87% 2,86% 0,41% 0,64% .0,78% 1,30% 0,74% 0,75% 0,33%
NEL COMPLESSO 783
9,68%
Superficie (Kmq) VA
Percentuale sul totale
Superfìcie inedia
0,89% 0,79% 0,32% 1,19% 0,30% 1,06% 1,08% 1,48% 0,58%
18 10 29 68 14 30 54 72 64
2. 682 2. 367 958 3. 543 902 3. 181 3. 263 4. 449 1. 744
23.089 7,69%
.
29
FonteZ Nostra elaborazione su dati censimento ISTAT del 1981
Tabella 2 POPOLAZIONE E DENSITA' AL 1951 E AL 1981 Popolazione (in migliaia) TORINO MILANO GENOVA ROMA NAPOLI VENEZIA BOLOGNA FIRENZE BARI
. .
NEL COMPLESSO
Popolazione sul totale
Densità demografica
Al 1951
Al 1981 (Pop/Kmq)
Al 1951
Al 1981
1.144 2.591 804 1.915 1.771 1.262 1.101 997 758
2.026 4.289 891 3.406 2.564 1330 1.550 1.285 987
2,41% 5,45% 1,69% 4 9 03% 3,73% 2,66% 2,32% 2,10% 1,59%
12.343 18.628
25,98%
Al 1981
.
3,58% 7,58% 1,58% 6,02% 4,53% 2 9 88% 2,74% 2,27% 1,75%
756 1.812 931 961 2.841 512 475 289 566
32,93%
806
Fonte: Nostra elaborazione su dati censimenti ISTAT del 1951 e del 1981 114
Fig. i
L'EVOLUZIONE DEL PROCESSO DECISIONALE
settore A livello i
HH
settore A livello 2
1
1
settore A livello 3 intervento li tipo "A'
settore B livello i
H]
settore B livello 2
settore B livello 3 intervento ii tipo
SETTORE AI , LIVELLO i 1
I
SETTORE B 1 LIVELLO i
SETTORE A LIVELLO 2
SETTORE B LIVELLO 2 SETTORE AI LIVELLO 3 1
I
SETTORE B 1 LIVELLO 3
115
Fig. 2
STRUTITURA INFORMATI VA DEL PROCESSO DECISIONALE
settore A
settore A
se ttore
A
di tipo "A'
settore B
2 -__B 1 ,
settore B
ttore B
~2
ISETTORE AI
di tipo
SETTORE
LJJygLOi
M
TEBs
A3:*> LIVELLO 3
116
SB 3 LIVELLO 1 3 —<
Note
i Trascureremo dunque del tutto molti temi della riforma che certamente rivestono una notevole importanza, come quelli relativi agli organi del Comune e della Provincia, il controllo sugli organi e sugli atti, etc. Cfr. "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno.", circolare n° 17102/127/1 del 7 giugno 1990, quinto paragrafo.
2
Nella stesura dei primi tre paragrafi del capitolo è stata utilizzata, quale materiale di base, una relazione dell'autore presentata a Cortona il 29-9-89, nel corso di un convegno promosso da "Queste Istituzioni" sul rapporto tra struttue insediative e ordinamento amministrativo in Italia.
3
Altri ritiene che in questo periodo il processo subisca una vera e propria inversione di segno, che cioè lo sviluppo si sposti dal centro verso la periferia; a nostro avviso tale valutazione - a meno di rarissimi casi - non è giustificata dai dati disponibili: quasi tutte le aree periferiche continuano a registrare dinamiche regressive o situazioni di stagnazione mentre alcune porzioni di territorio (principalmente i "sistemi diffusi" e i "sistemi urbani minori" del nord-est e della costa adriatica) registrano dinamiche allineate con quelle delle grandi aree urbane. Ovviamente il confronto non può essere svolto a livello comunale poiché porterebbe a risultati del tutto erronei ma a livello di sistemi territoriali. Facciamo qui riferimento ad una suddivisione in sistemi territoriali (sistemi metropolitani, aree urbane, sistemi periferici, etc.) elaborata dal CRESME, utilizzata dal Ministero dei Lavori Pubblici e progressivamente messa a punto nel corso del Progetto Finalizzato CNR "Economia", Sottoprogetto 4: "La diffusione territoriale dello sviluppo".
4
Sulla durata nel tempo di uno sviluppo decentrato in assenza di una congiuntura favorevole si possono nutrire ampi dubbi. Ciò naturalmente non comporta l'ipotesi di un ritorno al modello precedente (quello degli anni Cinquanta e Sessanta): i distretti industriali e terziari che si sono formati tra la seconda metà degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta costituiscono ormai una realtà consolidata che cambia le regole del gioco semplicemente in forza della sua presenza.
Del tutto significativo a questo proposito appare il "Rapporto 1987 sullo stato delle autonomie locali" dell'Istituto Guglielmo Tagliacarne, Franco Angeli 1987.
6
Non stiamo certo sostenendo che Io "sviluppo diffuso" sia stato dannoso per il Paese, affermiamo tuttavia che la carenza di governo di questo processo ha provocato costi elevatissimi e fenomeni di saturazione locale che hanno determinato un deciso rallentamento dei tassi di sviluppo o addirittura il loro completo esaurimento.
7
11 dato si riferisce all'ultimo censimento della popolazione e abitazioni e tiene conto solamente delle abitazioni occupate.
8
Ministero dei Lavori Pubblici, Comitato per l'edilizia residenziale, "Libro bianco sulla casa", Quaderni del Segretariato Generale, Roma 1986.
9.
10 Una esemplificazione del tutto indicativa di questo dualismo trasversale può essere trovata, a livello di grandi aree metropolitane, confrontando strutture insediative che hannb saputo trovare una precisa collocazione e ruolo nel quadro nazionale e internazionale come Milano o Roma con altre che stentano a trovare una propria fisionomia. Trattando di una gamma più minuta di insediamenti, possiamo confrontare le strutture insediative diffuse della costa adriatica che sono state in grado di esprimere nuovi distretti industriali altamente competitivi e capaci di confrontarsi con il mercato nazionale e internazionale con altre aree costiere che, partendo da condizioni analoghe, non sono riuscite ad esprimere molto più che la capacità di sfruttare la linea di costa per incamerare i dubbi vantaggi che derivano dall'incontrollato sviluppo edilizio a fini turistico-residenziali. 11 Siamo tuttavia convinti che questa maggiore attenzione sia ancora sottodimensionata rispetto alla qualità e alla dimensione dei problemi ma, soprattutto, che non sia ancora stata in grado di trasferirsi coerentemente sul piano degli interventi e delle opere.
5
12 In questa direzione la L. 142/90 non procede in modo isolato. Il DDL unificato sulla riforma del regime dei suoli approvato dal Senato consente, ad esempio, una autonomia ampia (ancorché indiretta, attraverso la determinazione degli indici fondiari di PRG), alle Amministrazioni Comunali nel determinare gli oneri concessori per l'edificazione. Questi in teoria possono essere compresi tra due posizioni
117
-
estreme: oneri concessori virtualmente nulli e conseguentemente scarsa capacità di finanziamento di infrastrutture e servizi, oneri concessori decisamente elevati (oltre 10 volte quelli attuali) con copseguente elevata pressione fiscale ma altrettanto elevata capacità di finanziamento di opere infrastrutturali e attrezzature di servizio. Anche in questo caso dunque il legislatore tende a stabilire un rapporto diretto tra pressione fiscale e possibilità di spesa dell'Amministrazione Locale. 13 "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomje locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno", circolare n° 17102/127/1 del 7 giugno 1990, paragrafo 1, capoverso 16°. 14 La circolare esplicativa "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomje locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno.", del 7 giugno 1990, indica che "Il ruolo della provincia è rilanciato quale livello intermedio fra comune e regione e ad esso vengono attribuite importanti funzioni per la cura degli interessi e lo sviluppo della comunità provinciale." 15
L.142/90, art 16, comma 2, lettera "a".
16 L.142/90 art. 16, comma 2 lettera "b", . Si veda anche la citata circolare del Ministero dell'Interno, dove si nota che: "Le profonde trasformazioni verificatesi in estese aree geografiche del Paese nel secondo dopoguerra e, quindi, evidenti ragioni di ordine socio-politico, dovrebbero indurre a seguire la strada di una adeguata revisione delle circoscrizioni provinciali", paragrafo 5,12 ° capoverso.
Cfr. L.142/90, art. 3 commi 3 e 6 ; art. 14 comma 1 lettera"1";art.15,cornmil,4,5e6;art.27;art.24e25; 17
' "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno.", circolare del 7 giugno 1990, in particolare si vedano il 13° e il 17° capoverso del primo paragrafo e il 2° capoverso del quinto paragrafo. 1
9Cfr. L.142/90, art. 15, comma 1°, lettere "a"; "b", "c"
20
Cfr. "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno.", circolare del 7 giugno 1990, quinto paragrafo, 2° capoverso. 118
' Cfr. il comma Il dell'art. 15 della L.142/90. Del tutto incidentalmente si nota che la riforma in questo articolo sembra ignorare un'altra legge dello Stato, la n. 183 che definisce le autorità di bacino e attribuisce a questi compiti e funzioni analoghi a quelli che, in materia idrogeologica, vengono attribuiti alla Provincia. Sarebbe forse stato opportuno un riferimento esplicito e una indicazione circa le possibili modalità di raccordo tra i due livelli di governo; in questo caso non sembra infatti che si possa ritrovare il principio delle competenze integrate quanto la prassi delle competenze sovrapposte che certo non giova alla efficacia dell'azione amministrativa nel suo complesso. 22
Cfr. L.142/90, art. 14, comma 2.
23
Con grande precisione, nella circolare esplicativa "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno.", deI 7 giugno 1990, a proposito delle funzioni provinciali si nota che "occorrerà sceverare gli ambiti di azione dell'amministrazione provinciale da quelli concorrenti di altri enti , segnalando non già una ripartizione di funzioni lacunosa o comunque imprecisa ma gli effetti di una nuova concezione della azione amministrativa sancita dalla riforma. .....
24
L.142/90, art. 3, comma Y.
La nostra sensazione è che in assenza della capacità di comunicare, documentare, informare e certificare, gli esiti della riforma, per quanto concerne il principio delle competenze integrate, potrebbero assumere la forma della pii) ampia confusione e incertezza. 25
26
Questa valenza assume una rilevanza particolare a livello comunale dove ci sembra che il rapporto tra Amministrazione e cittadini abbia caratteri di maggiore immediatezza e continuità e dove, conseguentemente, è più viva l'attesa di una informazione chiara e completa da parte dei cittadini, dei tecnici, degli operatori economici che sono chiamati a confrontarsi con un corpo di norme e procedure di crescente complessità. Su questa materia si veda, più avanti, "Gli strumenti conoscitivi, pag. 92 del capitolo "Il livello comunale". 27
Cfr. il Capo III, "Istituti di partecipazione", della legge di riforma. Nel mese di agosto è inoltre entrata in vigore la L. 241/90, "Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi'. 28
L.142/90, art. 7, comma 4°. Cfr. anche la L.241/90.
Qualche anno addietro, di fronte alla istituzione di una ulteriore articolazione dello strumentario della pianificazione territoriale, uno dei maggiori urbanisti italiani si è divertito a parafrasare Sraffa indicando la situazione della pianificazione territoriale nazionale in termini di "produzione di Piani a mezzo di Piani'.
29
30.
L.142/90, art. 3 comma 70
Ricordiamo che la legge individua nove aree metropolitane: Genova, Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Bari. Rispetto alle tradizionali undici aree metropolitane mancano quelle di Palermo e Catania, ma i motivi sono da ricer care nella autonomia regionale della Sicilia, mentre si fa esplicito riferimento alla possibilità da parte della Regione Autonoma Sardegna di definire l'area metropolitana di Cagliari. Cfr. art. 17 comma lo e comma 50 31
CRESME, "Indagine sulla struttura territoriale del Paese", studio svolto per conto del Ministero dei Lavori Pubblici - CER e successivamente sviluppato nell'ambito del progetto finalizzato CNR "Distribuzione territoriale dello sviluppo". 32
Una illustrazione sintetica delle principali caratteristiche delle aree metropolitane individuate nell'ambito dell'indagine indicata sopra è riportata in: Maurizio Coppo, Marco Cremaschi, Roberto Mostacci, "Le aree urbane in Italia", CRESME, 1988.
33
3°
I casi estremi possono essere considerati quelli di Torino, Milano e Napoli. Nella citata indagine svolta dal CRESME (vedi la nota precedente) l'area metropolitana di Torino comprende un raggruppamento di 150 comuni per oltre 2 milioni di abitanti su un territorio di 2.700 Kmq (la superficie media delle circoscrizioni comunali risulta pari a 18 Kmq), l'area di Milano raggruppa 230 comuni per un totale di oltre 4 milioni di abitanti su un territorio di 2.400 Kmq (superficie media dei comuni: 10 Kmq), quella di Napoli viene determinata in 60 comuni per un totale di 2,5 milioni di abitanti su un territorio di soli 900 Kmq (superficie media dei comuni: 15 Kmq). Per quanto riguarda il caso di Napoli si segnala anche che la SVIMEZ, adottando criteri diversi da quelli usati dal CRESME, amva ad identificare un'area metropolitana napoletana com-
posta da 150 comuni per un totale di circa 4 milioni di abitanti su un territorio di 2.000 Kmq. In particolare si veda il paragrafo 10, "Strutture insediative" a pag. 48 e il paragrafo 40, "Quattro problemi chiave" a pag. 55. 35
Cfr. "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno." Primo capoverso del 6° paragrafo.
36
Anche in questo caso per identificare le dimensioni dei sistemi urbani di Ferrara e Genova abbiamo fatto riferimento alla citata ricerca sulla struttura dei sistemi territoriali italiani svolta dal CRESME per il Ministero dei Lavori Pubblici e sviluppata successivamente nell'ambito del Progetto finalizzato "Economia" del CNR.
37
Cfr. sopra "Il ritardo urbanistico delle aree metropolitane", pag. 52.
38
Cfr. art. 19, comma 1° della L. 142/90. Per completezza ricordiamo che lo stesso articolo precisa che la Regione deve provvedere con propria legge alla ripartizione delle funzioni tra Comuni dell'area metropolitana e Città Metropolitana, nell'ambito delle indicazioni che abbiamo appena riportato nel testo.
39
Ricordiamo infatti che alla Città Metropolitana vengono attribuite funzioni proprie "oltre alle fune che tra le funzioni di competenza provinciale zioni della Provincia è compresa appunto quella della redazione e adozione del Piano Territorialé di Coordinamento. L.142, art. 19, comma 1°.
40
.....
Cfr. il paragrafo "Il Piano Territoriale di Coordinamento, pag. 67".
41
La differenza cioè non dovrebbe riguardare solo i contenuti del Piano Territoriale di Coordinamento, il che sarebbe del tutto ovvio, ma la stessa struttura logico-formale del Piano e cioè gli strumenti costitutivi, i rapporti tra questi, etc.
42
Si noti che la legge di riforma non riferisce mai il termine "pianificazione territoriale" alla Provincia, riservandolo esclusivamente al livello comunale e alla Città Metropolitana.
43
44
Cfr. i due successivi capitoli.
5 Cfr. in particolare il paragrafo "Fusione, Unione e 'dimensione ottimale' dei comuni" nel capitolo IV, "Il livello comunale", pag. 79.
119
46
L.142/90, art. 11 comma 1°.
47
L.142/90, art. 20, comma 1°.
48
L.142/90, art. 20, commi 2°, 3 ° e 4°
nerale della popolazione e abitazioni ISTAT del 1981. Cfr. il capitolo V sull'autonomia impositiva e i trasferimenti erariali a pag. 94.
60
49
Così nella circolare n° 17102/127/1 del 7 giugno 1990, "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concèrnente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno", paragrafo 4, 8 ° capoverso. Sul tema dei "comuni polvere" e delle dimensioni ottimali delle circoscrizioni comunali torneremo in termini più sistematici nel IV capitolo. 50
Cfr. il Il capitolo, "La 'nuova' Provincia" e in particolare il paragrafo "La gestione dei processi decisionali complessi" a pag. 63. Abbiamo già notato come la legge 142/90 si limiti ad accenni del tutto generali in materia di pianificazione territoriale e come ciò derivi sia dal fatto che si tratta di una legge quadro, una legge di principi che dovrà essere attuata tramite successivi provvedimenti legislativi da parte dello Stato e delle Regioni, sia dal fatto che tale materia è di pertinenza specifica delle Regioni e conseguentemente qualunque determinazione dettagliata da parte di una legge nazionale avrebbe corso il rischio di configurarsi come uno sconfinamento di competenze. 5'
52
Cfr. gli articoli 9 e 11 della legge.
53
L.142/90, comma 2 dell'an. 9.
54
L.142/90, art. 11
Cfr. l'istituto della Unione di Comuni definito nell'art. 26.
55
56
Cfr. L. 142/90, art. 28, comma 1°.
Cfr. "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del ministero dell'Interno." Circolare n° 17102/127/1 del 7 giugno 1990, paragrafo 4, 4° capoverso. 57
Cfr. "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno." Circolare n° 17102/127/1 del 7 giugno 1990, paragrafo 4, 8 ° capoverso. 58
59
Fonte: elaborazioni dell'autore sul Censimento ge-
120
61
L.142/90, art. 3, comma 3 ° .
62
Per un esame delle implicazioni operative del principio di autonomia finanziaria e impositiva si rimanda al successivo capitolo V, "Autonomiafinanziaria e impositiva degli Enti Locali", a pag. 94.
Vedi sopra il Il capitolo, "La nuova provincia", il paragrafo 3 ° , "L'azione di raccordo" e il paragrafo 4°, "Il Piano Territoriale di Coordinamento". 63
64
Si veda sopra il 4° paragrafo del Il capitolo, a pag.67.
Tali limiti sono stati all'origine di diversi tentativi di adeguamento dello strumento urbanistico alle mutate dondizioni territoriali; quelli che giudichiamo più significativi in termini di struttura logico formale dello strumento urbanistico sono a nostro avviso costituiti da Piani decisamente orientati al controllo delle destinazioni d'uso e ai processi di riuso e rilocalizzazione nella città costruita. 65
Cfr. capitolo V, "Autonomia finanziaria e impositiva degli Enti Locali", in particolare il paragrafo "Lequi1ibrio tra pressione fiscale e servizi erogati" a pag. 96 e il paragrafo "Pianificazione territoriale e gestione dei servizi" a pag. 99 66
Cfr. in questa stessa raccolta, C. Gasparrini: "Piano e Gestione del Piano".
67
Cfr. sopra il 11 capitolo, "La nuova provincia" e in particolare il paragrafo "Il Piano Territoriale di Coordinamento", pag. 67. 68
69
L.142/90, art. 9, comma i
70
L.142/90, art. 9, comma 2
Cfr. "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 concemente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno". Circolare del 7giugno 1990, paragrafo 4, 3 ° capoverso. 7'
72
73
Cfr. L.142/90, art. 14, comma 2°.
L.142/90, ari. 54, comma 2. Sull'argomento cfr. anche "Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n ° 142 concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istIJzioni del ministero dell'Interno". n° 17102/127/1 del 7giugno 1990, paragrafo W.
74
75
L.142/90, art. 54, commi 3 e 5. "La legge determina un fondo nazionale ordinario
per contribuire ad investimenti degli enti locali de-
Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno.", cir colare del 7giugno 1990, paragrafo 1, 14° capoverso. 85
Art. 11, comma 2 0
86
ArI. 26, comma 8°
87
Art. 16, comma 3 °
stinati alla realizzazione di opere pubbliche di preminente interesse sociale e economico", L. 142/90, art. 54, comma 100 . 76
L.142/90, art. 22, comma 30
88
Articolo 17 comma, 2° e articolo 20, commi 1° e 2°
77
L.142/90, art. 22, comma 30, lettera "a"
89
Ricordiamo che in Italia i comuni con meno di 500 a-
78
Più comunemente i servizi alla struttura produttiva
vengono indicati come servizi alle imprese, il riferimento alla struttura tuttavia a nostro avviso allude in modo più esplicito al ruolo di promozione e sostegno dello sviluppo complessivo delle attività economiche dell'area proprio dell'Ente Locale e per tali ragioni lo preferiamo a quello più comunemente usato.
bitanti risultano essere in numero di 761, il 9,5% del totale e che questo raggruppamento raccoglie circa 250.000 abitanti su un ten-itorio la cui superficie complessiva è pari a poco meno del 4% della superficie nazionale. La dimensione demografìca media di tali comuni è pari a 325 abitanti e la loro superficie media risulta pari a 28 chilometri quadrati. Fonte: ISTAT, Censimento generale della popolazione e abitazioni del 1981.
79
In particolare si vedano gli articoli 22, 23, 24 e 25
della legge di riforma.
90
Cfr. sopra, il paragrafo "Limiti del concetto di di-
mensione ottimale" nel capitolo IV, "Il livello comu80
La legge di riforma mentre evidenzia in più pas-
nale", a pag. 81.
saggi il rapporto tra servizi e forme di gestione, indicando come una attenta determinazione delle forme di gestione ottimali sia indispensabile al conseguimento di condizione di efficacia ed efficienza, tra-
9ì
E nel caso delle aree metropolitane, tra Città Me-
tropolitana e Comuni dell'area metropolitana. 92
L.142/90 art. 11 comma 1°.
93
Circolare del Ministero dell'Interno, cit. paragrafo
scura il rapporto - a nostro avviso altrettanto importante - tra pianificazione e servizi. Questa attenzione del tutto particolare per gli aspetti gestionali organizzativi e per contro una certa disattenzione per gli strumenti tecnici è una caratteristica strutturale della legge di riforma sulla quale abbiamo gi
1, 12° capoverso. 94
Cfr. sopra il paragrafo "Pianificazione comunale
Piano Territoriale di Coordinamento e Progetto di Area", nel capitolo IV, "Il livello comunale", a pag. 83.
avuto modo di soffermarci. 95 81
Art. 19, comma i
82
Art. 3 della legge di riforma
83
"Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142
concernente l'ordinamento delle autonomie locali. Commento e istruzioni del Ministero dell'Interno.",
Cfr. il paragrafo "La gestione dei processi decisio-
nali complessi" del Il capitolo, "La 'nuova' provincia", a pag. 63. 96
L.142/90, art. 4, 4° comma e sii. 59, 4° comma.
97
Cfr. Il paragrafo 16, "Spunti propositivi sui nuovi
compiti dell'amministrazione dell'interno".
circolare del 7 giugno 1990, paragrafo 1, 12° e 13° capoverso. 84
"Per l'attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142
concernente l'ordinamento delle autonomie locali.
98
L.142/90, art. 3, comma Y.
99
Circolare del Ministero dell'interno, cit. paragrafo
1, 16° capoverso.
121
Piano e gestione del piano di Carlo Gasparrini
che il momento della gestione è importante, quindi va progettato, e che il momento necessario per progettarla è quello della progettazione del piano. Tutto questo è verissiSembra ormai acquisito da parte della mo, e basterebbe. Ma è appunto, ovvio. "consorteria dei tecnici" - così come soMentre sembra meno ovvio, sembra una veno stati definiti i professionisti che hanno contribuito in maniera determinante a di- rità meno diffusa e forse meno condivisa, che c'è una corrispondenza quasi biunivoca rigere le scelte urbanistiche di questi detra progetto di piano e progetto di gestione, cenni - che uno dei nodi più rilevanti da nel senso che ogni piano ha bisogno di quei affrontare per il governo del territorio sia particolari strumenti di gestione che sono quello del rapporto tra il piano e le moproprio quelli che nascono dalla sua natura, dalità della sua gestione. dai suoi obiettivi, dai suoi metodi, dalla sua Il "fallimento" dell'urbanistica, o più cor "ambizione". Non esiste, in altri termini, una rettamente la sua "sconfitta" i, avrebbe macchina per la gestione urbanistica che si molte delle sue spiegazioni nei limiti culpossa proporre come modello, almeno nella turali e disciplinari dell'attuale modo di stessa misura in cui non esiste un piano che pianificare ed in particolare nella mansi possa proporre come modello 3. canza di una cultura della gestione/attuazione intesa come aspetto intrinseco al Questo intreccio tra piano e gestione, piano e al progetto stessi 2 spesso smarrito nella nostra esperienza In una incapacità dunque di chi fa piani pianificatoria, è invece aspetto ben più nell'immaginare concretamente anche le chiaro e codificato in altre culture urbanimodalità della loro attuabilità, il che apstiche, anche più "giovani". punto è come dire che quelle modalità Nell'esperienza spagnola degli ultimi diedebbono essere parte integrante degli ci anni ad esempio, l'incrocio tra i tre strumenti urbanistici, sopratutto in una fa"modelli", strutturanti della pianificazione se in cui più nitida è l'esigenza di passare alla scala locale, quello fisico, quello gedal piano come strumento previsioriale di stionale e quello di controllo, si esprime tipo totalizzante ed ultimativo ad un pronon solo attraverso l'esplicitazione di un cesso di pianificazione continuo e stabile sistema di obiettivi generali della politica della pubblica amministrazione. municipale ed urbanistica, come è ovvio, ma attraverso lo stretto intreccio tra la Questa convinzione e affermazione non na"struttura generale ed organica del territosce unicamente dalla considerazione, ovvia, 1. Cor'oizioi
ED ESIGENZE PER FARE URBANI-
STICA NEGLI ANNI
122
'90
rio" (gli usi globali per zone, il sistema delle comunicazioni e dei servizi, gli impianti di interesse pubblico), la "classificazione" del suolo (in urbano, urbanizzabile, non urbanizzabile, che stabilisce diritti e doveri dei proprietari per ciascuna classe) la "prograrnmazione finanziaria" e le "condizioni di gestione" (che collegano le disponibilità di risorse alla programmazione temporale), i caratteri di "validità" del piano (e quindi la sua aggiornabilità nel tempo in base a tempi e criteri precisi) 4. PIAÌ'io . E PIANIFIcAzIoNE, GESTIONE DEL PIANO, RIFORMA AMMINISTRATIVA
Eppure ci sono molti modi di affrontare il tema piano/gestione del piano. Quello che vorremmo evitare è di assecondare l'atteggiamento oramai diffuso di rispondere alle difficoltà che incontriamo, attraverso una pericolosa rimozione dei condizionamenti prodotti, sull 'affermarsi di una solida cultura del piano e della sua gestione, dalla sostanziale assenza di un quadro legislativo efficace e da una incapacità crescente di governo dello Stato e delle sue articolazioni. Rimozione che magari finisce per valutare l'inutilità di principio di un quadro legislativo e di ruoli-guida in materia prendendo spunto dalla registrazione della nuova "complessità" sociale ed economica, dalla conseguente crisi della ricerca di interessi generali o di priorità di interessi, dalla considerazione che il "privato" in fondo è più stimolante e dinamico del pubblico, e dalla presunta difficoltà o addirittura impossibilità a distinguere tra chi decide e chi attua. Per cui spesso il problema del rapporto tra piano e gestione del piano, piuttosto che divenire un fecondo stimolo per en-
trambi i termini attraverso un processo di implementazione continuo che arricchisca il piano di contenuti operativi mettendo alla prova previsioni, metodi e strumenti, assume al contrario i caratteri di una nebulosa in cui tutto e il contrario di tutto è possibile ed ammesso, utilizzando e combinando generici repertori di possibilità e trasformando l'urbanista in rappresentante e a volte anche venditore di tappeti. Proprio l'esperienza spagnola a cui abbiamo fatto cenno prima dimostra invece che una politica di piano efficace è possibile solo in presenza di un quadro di riferimento chiaro e di una pubblica amministrazione forte,in presenza quindi di un elevato "protagonismo pubblico" dello Stato e degli enti locali che esprimano la loro volontà di gestire i processi di trasformazione attraverso una presenza determinante che si concretizzi nel peso delle politiche fondiarie, nel rispetto delle priorità, nella rapidità delle decisioni, nella capacità di coordinare i diversi livelli dell'amministrazione pubblica per attuare grandi progetti strutturanti, nella capacità di dialogare con gli investitori utilizzando tutte le opportunità (e sono molte) offerte dalla riforma della Ley del Suelo: la determinazione dei rendimenti dei suoli, l'ottenimento gratuito delle aree, i sistemi di attuazione, il rapporto tra i valori determinanti dal piano e la politica fiscale e così via. 5 A noi sembra quindi che oggi sia utile, per una cultura della gestione del piano e quindi anche inevitabilmente per una cultura del piano stesso, coniugare gli sforzi per una esplorazione disciplinare ed organizzativa sui caratteri dello strumento di piano ad una riconsiderazione complessiva, dal profilo alto, delle nuove con123
dizioni tecnico-legislative, normative ed istituzionali necessarie per affrontare i nuovi problemi di governo del territorio. Riteniamo cioè che occorra saper guardare "a valle" ma anche all'interazione metodologica ed operativa tra i diversi livelli e i diversi aspetti della pianificazione e programmazione del territorio inteso come sistema complesso, oltreché alla comprensione dei condizionamenti espressi dai diversi contesti legislativi, amministrativi e territoriali entro cui ci si muove alla scala regionale e nazionale. In una fase di rimessa in discussione complessiva dello strumentario a disposizione, ci sembra opportuno in particolare affermare alcune cose semplici, e cioè che non può esistere una rifondazione dell'idea di piano né una cultura "europea" nella gestione dei processi urbanistici senza - una riforma profonda delle regole legislative e normative all'altezza dei problemi posti dalla nuova fase di riqualificazione territoriale e urbana; - una pianificazione ed una programmazione nazionale e regionale in grado di definire nuove coerenze orizzontali e verticali; - il riconoscimento della centralità del piano, seppure in chiave diversa dal passato, come strumento indispensabile di "democrazia"; - una pubblica amministrazione efficiente, in grado di essere non un compagno di gioco tra tanti altri, ma il soggetto istituzionalmente preposto a definire le regole del gioco, e a ricercare le forme e i modi per raggiungere un corretto e dinamico equilibrio tra interessi pubblici e privati. Riconoscere alcune condizioni preliminari necessarie per rifondare una cultura del 124
piano non è operazione retorica, che subordina l'operare concreto alla risoluzione di alcuni nodi strutturali e di principio; né sicuramente riesce a spostare montagne, operazione per la quale occorrerebbero ben altre forze, alleanze e comunità di intenti di quelle individuabili oggi. Ma può sicuramente contribuire ad una nuova consapevolezza dell'operatore pubblico e della cultura professionale relativamente ai limiti in cui si opera, alle potenzialità inespresse e alle trasformazioni necessari e da perseguire. L'occasione del nuovo ordinamento degli enti locali, proprio perché collegata ad una legge di" principi", ci offre questa possibilità di alzare gli occhi dai problemi quotidiani del fare urbanistica, e di alzare quindi il tiro alla ricerca di nuove prospettive di riforma. I
PROBLEMI DEL GOVERNO DEL TERRITORIO AL-
L'INTERNO DELLA NUOVA GEOGRAFIA FISICA, SOCIALE ED ECONOMICA DEL PAESE
Una riflessione sui problemi posti dalla gestione del piano non può prescindere innanzitutto da una valutazione dei condizionamenti espressi da alcuni fattori strutturali e da alcune tendenze rilevanti a scala nazionale, sia di tipo territoriale che specificamente insediativo. Un errore infatti che non può essere commesso è quello di generalizzare condizioni e potenzialità di ciascun luogo e di ciascun ente locale, facendo riferimento ad un generico repertorio di argomenti e di strumenti valido ovunque. Oggi più che mai una riflessione sulle mutazioni in atto nell'organizzazione dello Stato e delle sue articolazioni, e su quelle ulteriori ed auspicabili nel medio e lungo termine, in rapporto alle esigenze vecchie e nuove
per la redazione e gestione degli strumenti urbanistici e per l'attuazione delle relative scelte, deve essere in grado di distinguere, selezionare ed eventualmente classificare le condizioni in cui si opera, per poi verificare l'opportunità e la validità di solùzioni unificanti o piuttosto di più complesse ed articolate indicazioni propositive. Non ha senso insomma parlare astrattamente di ipotesi d'uso degli strumenti esistenti, di nuovi strumenti, di regole, soggetti e risorse, senza una preliminare ricognizione delle diverse dinamiche fisiche, sociale ed economiche che investono ciascun territorio e delle relative conseguenze in termini di bisogni indotti. Lo spazio di questo scritto non consentirà ovviamente di approfondire questi aspetti. Ci limiteremo pertanto ad enunciare alcune questioni, a suggerire un metodo di lavoro ed un taglio critico che contribuiscano ad affrontare con cognizione di causa i singoli problemi del piano e della sua gestione. La ricostruzione che a fatica si sta tentando in questi anni di un quadro attendibile della nuova geografia territoriale ed urbana - e certo il nuovo censimento del '91 dipanerà molte questioni - ci consente di aprire il discorso con alcune considerazioni.
I connotati tradizionali della "crisi urbana" e le tesi a confronto Non v'è dubbio che il fenomeno più rilevante a scala nazionale, che ha impegnato gran parte delle riflessioni negli anni '70 e nel successivo decennio, è stato il fenomeno della cosiddetta "crisi urbana ' con le note conseguenze demografiche, economiche e politico-amministrative che hanno fatto parlare di una perdita
progressiva del ruolo storico tradizionale che la "forma-città" ha avuto nella fase dello sviluppo e della industrializzazione. È altrettanto certo che la comprensione di questo fenomeno può restituirci elementi di valutazione utili per la conoscenza di tutta l'armatura urbana italiana, e vedremo più avanti perché. I fenomeni più rilevanti della crisi urbana che si sonò manifestati, già descritti peraltro da diversi autori, sono stati essenzialmente 3: il progressivo abbandono della città da parte delle attività produttive più dinamiche, il forte decremento della popolazione urbana ed il progressivo cambiamento della composizione sociale delle città. Queste dinamiche si sono incrociate, esasperandone le conseguenze negative, con una crescente incapacità delle amministrazioni locali a governare la crisi urbana, cumulando a questa quindi il fenomeno della "crisi del governo della crisi" 6. Da un lato infatti, l'avanzare dei fenomeni di diffusione metropolitana ha proiettato i problemi e le contraddizioni ad una scala sovracomunale, vanificando di fatto gran parte degli strumenti e delle capacità programmatorie e di intervento che si andavano configurando nel corso degli anni 70. Nello stesso tempo, le nuove domande e i bisogni espressi da una mutata composizione sociale, l'allargamento della dimensione urbana, la necessità di contrastare i fenomeni del congestionamento urbano, e quindi la rinnovata esigenza di servizi, anche di tipo nuovo e spesso non facilmente dimensionabili rispetto ad una molteplice e mutevole composizione sociale, è risultato incompatibile con le strozzature finanziarie degli enti locali: spinti ad una necessaria pianificazione di risorse scarse e ad una conseguente ge-
125
stione "aziendale" efficiente e di lotta agli sprechi, essi hanno dovuto ridimensionare o comunque limitare l'espansione proprio nei settori dei servizi più qualificanti. Ma quale è stata l'interpretazione che negli anni '70 è stata data a questi fenomeni? Due tesi prevalenti si sono confrontate. Da un lato chi ha visto nel fenomeno del-
la crisi urbana un fattore transitorio di disfunzionalità che interrompe il funzionamento armonioso del sistema per un arco di tempo limitato in vista di un necessario ristabilirsi dell'equilibrio, ancorché di tipo diverso dal precedente: in tal senso la crisi urbana viene intesa come crisi di sviluppo nel passaggio da una struttura monocentrica ad una metropolitana policentrica. Così come le aree urbane sono il prodotto di processi più o meno veloci di industrializzazione, con il connesso richiamo di manodopera per le nascenti esigenze dell'era industriale, così i nuovi rapporti di produzione e consumo hanno dato origine alla formazione di una nuova organizzazione urbana di tipo metropolitano, con un centro di massima "dominanza"7 per la specializzazione e la varietà dei servizi offerti, tale da influenzare le condizioni di vita e la struttura del le attività di un'ampia area circostante: quest'area è costituita da zone suburbane a carattere residenziale e fornitrici di manodopera, in rapida espansione per la presenza di fattori fondamentali di attrazione nella scelta localizzativa, e 'centri satelliti' produttori di beni, che tendono ad una specializzazione sempre maggiore quanto più ampia è la loro dimensione e la loro distanza dalla città centrale. E del resto i tentativi di interpretare i fenomeni di trasformazione territoriale in base a 126
precise leggi scientifiche avevano autorevoli precedenti nelle teorie sulla strutturazione dello spazio territoriale in base ad un razionale distribuirsi di" località centrali" collegate da un sistema di reti gerarchiche a maglie regolari 8. In questo quadro, di cui non si negano peraltro le contraddizioni causate dalla compresenza e dalla sovrapposizione di numerosi enti territoriali (di governo e non) nella attuazione di politiche sociali e industriali 9, viene riconosciuto dagli studiosi di matrice anglosassone un complesso di "manifestazioni" dèlla crisi urbana nel passaggio da una struttura monocentrica ad un'altra più complessa e policentrica di tipo metropolitano: in particolare il susseguirsi di un nuovo tipo di migrazioni urbane-urbane alle tradizionali migrazioni rurali-urbane, ed un massiccio decentramento delle attività industriali a causa dei costi crescenti delle aree urbane, dei processi tecnologici che tendono ad incentivare gli standards di superficie per addetto, del perfezionamento degli apparati di controllo e organizzazione del lavoro che consentono la separazione delle attività connesse alla produzione da quelle dirigenziali e infine dell'accresciuta accessibilità fra le parti dell'area metropolitana per effetto dell'incremento delle infrastrutture di trasporto io. A questa impostazione se ne è contrapposta nel corso degli anni '70 una diversa, peraltro estremamente variegata al suo interno, che prende le mosse da una valuta-
zione circa la 'permanenza" della crisi urbana come dato connaturato ai modi stessi della formazione della città contemporanea, dipendente cioè da fattori considerabili come costanti diffuse dei recenti processi di sviluppo urbano dal
dopoguerra ad oggi i'. conflitto sociale, la non integrazione quindi delle diverse componenti sociali all'interno di una struttura fisica ed economica sperequata, rende esplicita una contraddizione di fondo che consente di andare oltre una lettura "tradizionale" fondata sui tre elementi della crisi finanziaria degli enti locali, della crisi di funzionamento legata soprattutto alla carenza di servizi, e della crisi della gestione pdlitica. In questa crisi• " permanente " tuttavia si innesterebbero, secondo alcuni Autori 12, elementi di esasperazione ulteriore, una peculiare "condensazione delle contraddizioni" che troverebbe giustificazione ed origine in due fattori principali. In primo luogo, l'accentuarsi di quello che è stato definito conflitto "logico" tra rendita e profitto, tra esigenze cioè di un "blocco edilizio" che induce una costituzione distorta di capitale fisso sociale nella citt., penalizzando cioè i mezzi di consumo collettivo e privilegiando le opere pubbliche valorizzatrici del capitale fondiario, e quelle del settore industriale che richiede al contrario un maggior governo dei costi urbani legati al reddito delle classi lavoratori (i costi di "riproduzione della forza-lavoro"), in particolare la casa e i servizi. Il prevalere degli interessi del blocco edilizio, con le conseguenze negative quindi sul piano dell'innalzamento complessivo del costo della vita, metterebbe in crisi cioè l'opportunità sociale ed economica dell'esistenza stessa della città intesa come luogo privilegiato dall'accumulazione e dalla valorizzazione del capitale 13. Questo conflitto si sarebbe acuito con l'avanzare dei processi di terziarizzazione e di rinnovo rubano speculativo delle aree centrali; e potrebbe acuirsi ulteriormente
con la creazione di attrezzature ed infrastrutture urbane, o con l'incremento di investimenti in abitazioni che, in una situazione di crescente saturazione delle aree centrali e di relativa rarefazione delle aree edificabili, alimenterebbero un nuovo innalzamento del costo della vita per le classi sociali più disagiate 14 Un secondo fattore di esasperazione della crisi urbana sarebbe relativo all'accentuarsi congiunturale della crisi dello "stato assistenziale", peraltro già evidenziata come manifestazione rilevante di fase, ed individuabile in una incapaciti crescente a dare illimitatamente risposta alle diverse spinte dei gruppi di potere e ad erogare servizi per i ceti più deboli, senza mettere in discussione i criteri della distribuzione 15 La "torta" della spesa pubblica è risultata insomma, ben presto, nelle sue reali dimensioni limitate, e le drastiche ulteriori riduzioni delle possibilità di spesa assumerebbero un ruolo di straordinario moltiplicatore di crisi se viste nel loro effetto sinergico con il conflitto rendita-profitto prima descritto. La scarsità di servizi che ne consegue finirebbe così per cumularsi ad uno storico sottodimensionamento derivante dai meccanismi sperequati di formazione della città, peggiorando il funzionamento urbano e deteriorando ulteriormente i redditi reali. Il divario bisogni-risorse per la gestione delle politiche urbane diviene, in quest'ottica, incolmabile e la previsione di un "declino urbano" inarrestabile ne è la logica conseguenza.
Smentite e nuove tendenze: ritorno al centro, il territorio reticolare e i nuovi localismi, la divaricazione nord-sud Purtuttavia gli eventi degli anni '80 co127
stringono ad un ripensamento complessivo degli scenari prefigurati nel decennio precedente. Alcuni dati infatti sembrano correggere, se non addirittura smentire alcune previsioni. Innanzitutto l'idea stessa di "declino" del-
la funzione della città è contraddetta dalle nuove tumultuose dinamiche di "ritorno al centro" (o forse più correttamente di riuso del centro che meglio esprimono la sostanziale continuità storica del nuovo fenomeno rispetto al precedente) che confermano la parzialità interpretativa di quelle tesi volte ad individuare facili assimilazioni tra i fenomeni di crisi delle città italiane e le tendenze al declino di alcune città americane dall'economia monosettoriale (Detroit, New York) 16 Sia ben chiaro, il fenomeno di nuova centralizzazione non autorizza certo ad un incondizionato ottimismo nè può considerarsi come processo indolore: non è infatti un'asettica inversione di tendenza nei cambi di residenza, né un auspicabile risveglio di un mercato concorrenziale, o ancora e soltanto un rinnovato interesse per la qualità ed una riscoperta della complessità. È fenomeno strutturale invece ben più corposo in cui si coniugano diversi fattori: una ristrutturazione ed una fusione tra capitale industriale ed immobiliare in pochi e potenti gruppi economici, secondo tendenze oramai consolidate nel resto dell'Europa che ricompongono il conflitto tra le divergenti esigenze dei due settori all'interno di più ampi programmi di investimento; il rinnovato interesse per operazioni di valorizzazione della rendita fondiaria nelle aree centrali che si esprimono principalmente nella riconversione delle aree e degli immobili 128
lasciati liberi dall'attività industriale; l'avvio e la prospettiva di grandi operazioni infrastrutturali di ammodernamento urbano che si accompagnano alla richiesta pressante del capitale privato per il loro finanziamento e la loro gestione in una fase di crisi della spesa e dell'amministrazione pubblica; ed infine l'affermarsi di un nuovo filone trainante dell'economia urbana legata ad un mercato internazionale dei siti e della loro "immagine" (la città dell'arte, la città della scienza ... ), che si incrocia ovviamente ai processi precedenti e all'interno del quale si giocano partite decisive per la crescita e la localizzazione dei nuovi investimenti pubblici e privati. Dunque il terziario non è fuggito, o perlomeno non del tutto, con buona pace delle nuove occasioni telematiche, ed anzi dimostra in alcuni suoi comparti fondamentali di essere fortemente condizionato da una nuova "appetibilità" della città; alcune attività produttive ad elevato contenuto innovativo dal punto di vista tecnologico, nonostante i fenomeni di decentramento sul territorio, continuano a gradire localizzazioni metropolitane ed urbane centrali soprattutto per quanto riguarda le funzioni direzionali 17; aree dismesse e tessuti storici assumono e continuano ad assumere funzioni trainanti per la lievitazione dei valori immobiliari garantendo nuove occasioni residenziali alle fasce più alte dei ceti medi; mentre la popolazione marginale ed in particolare quella proveniente dai paesi extracomunitari, nonostante una costante inaccessibilità di alcuni costi della vita urbana più incidenti come l'abitazione appunto, si mantiene in costante crescita esprimendo un meccanismo attrattivo della città occidentale alla scala internazionale analogo a quello e-
spresso alla scala regionale dalle metropoli del sottosviluppo. Nel complesso comunque la città continua ad esprimere, nonostante limitate tendenze ed effimere affermazioni di immagini ed economie settoriali, una diversificazione economica storicamente complessa e radicata, nonché una vitalità ed una flessibilità strutturali alla riconversione che non consentono di immaginare esaurimenti repentini della propria funzione. Un secondo aspetto che va considerato nel nuovo panorama degli anni '80 è relativo ai caratteri peculiari che ha assunto l'altro fenomeno rilevante dal punto di vista territoriale, assieme alla nuova centralizzazione e alla concentrazione/intensificazione ad essa collegata, quello cioè del-
lo sviluppo estensivo della popolazione e delle attivitd sul territorio nazionale. Esso assume diversi aspetti: sicuramente quello tradizionale di una redistribuzione in un'area territoriale assimilabile ad un intorno metropolitano, entro cui si specializza un sistema di centri medi e piccoli in un'ottica che può essere assimilabile ai fenomeni di gerarchizzazione di cui abbiamo già parlato; ma sopratutto, ed è l'aspetto di novità più interessante anche per i riflessi sullo stesso sistema delle autonomie locali, assume rilevanza la nuova dimensione regionale e sovra-regionale dello sviluppo urbano che tende a superare i concetti di "espansione areale lenta e progressiva" del territorio sub-regionale e quindi di "distanza gerarchica" come fattore decisivo per la localizzazione dello sviluppo; a favore di un pir complesso si-
stema di interazioni che si viene a determinare tra "relazioni orizzontali" (le connessioni tra i luoghi attraverso la rete
dei rapporti sociali) e "relazioni verticali" (di tipo tecnico, ecologico e culturale specifiche di ciascun luogo) 18 In sostanza le nuove tendenze localizzative degli anni '70 e '80 hanno messo in evidenza l'esistenza di nuovi schemi "reticolari' del territorio, di nuove reti di relazioni economiche e funzionali ad alta connettività che configurano un'organizzazione territoriale basata "più su principi di complementarietà ed interdipendenza che di dipendenza gerarchico-funzionale" is'. Passando da un campo d'azione limitato al ristretto territorio metropolitano a quello di più ampie dimensioni sovraregionali, lo sviluppo periferico ha frequentemente seguito logiche non di mera dilatazione a macchia d'olio ma al contrario molto più discontinue, perché legate prevalentemente a caratteristiche di tipo non orizzontale ma verticale, sopratutto quelle ambientali in senso lato, e cioè socio-culturali, della struttura familiare, professionale ed imprenditoriale. .
la formazione, durante la prima fase di industrializzazione del Paese tra il 1895 e la seconda guerra Mondiale, di "aristocrazie operaie", caratterizzate da professionalitt poco tayloristiche e molto complesse e versatili; - la spinta a "mettersi in proprio" e a diventare "padroncini" individuata, negli anni successivi alla ricostruzione postbellica, da una parte di queste "aristocrazie" come concreto meccanismo di mobilit?t e promozione sociale ; - la tradizione diffusa del "lavoro a domiciho" e lo sviluppo di capacità professionali tipicamente combinatorie e di assemblaggio tra concezione, produzioni parcellizzate,funzioni organizzative, raccordo con la distribuzione dei beni; - le doti imprenditoriali (dell'organizzazione, del rischio, della speculazione) tradizional129
mente sviluppate in seno alla famiglia contadina allargata, sopratutto in certe zone dell'Italia Centrale (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche) che dopo la rivoluzione agricola degli anni '50 e '60 si rendevano disponibili per nuove intraprese di piccola dimensione, molta manualità e stretto controllo familiare" 20. Sono questi i fattori che maggiormente hanno inciso sullo sviluppo dei cosiddetti "localismi" manifestatosi attraverso un forte legame di imprese, imprenditori e lavoratori col rispettivo territorio, lo sviluppo di attivitt industriali direttamente connesse alle produzioni iniziali, la crescita di un sistema di servizi alla produzione sia come fattore di organizzazione interna al sistema locale che allo sviluppo di reti di collegamento sistemico con l'esterno 21 Sarebbe ingenuo tuttavia, e arriviamo così al terzo aspetto, non rendersi conto che sia i modelli interpretativi degli anni '70 sia le nuove tendenze degli anni '80 mal
si attagliano a descrivere e comprendere la città meridionale ed il territorio del Mezzogiorno nel suo complesso. Relativamente al problema-città, le tre manifestazioni più evidenti della crisi urbana storicamente utilizzate dal punto di vista descrittivo (fuoriuscita di attività produttive, decremento di popolazione e trasformazione della composizione sociale) sono palesemente inefficaci ad esprimere i fenomeni verificatisi in quest'area del Paese. E questo per 4 note ragioni: la diversa "funzione" storica e quindi la diversa struttura economico-produttiva della città meridionale, in cui è dominante l'assenza di un tessuto industriale autopropulsivo e di imprese artigiane proiettate verso mercati non solo locali, e la 130
prevalenza del settore edilizio e di un terziario marginale che esprimono un divario, spesso plurisecolare, tra crescita delle dimensioni urbane e possibilità reali di sussistenza economica; la diversa composizione sociale, conseguente al fenomeno di "sovrappopolazione relativa", che si esprime in una profonda disgregazione a livello sociale, in una debolezza dei ceti "produttivi" e in una molteplicità di figure sociali estremamente complesse e differenziate, quindi caratterizzate da interessi particolari e differenti e, in un'ottica immediata, anche contraddittori" 22, la diversa struttura urbana che, in ragione del modello accentuatamente polarizzante assunto da una centralità senza sviluppo ma pur sempre preponderante nella situazione di sfascio delle aree agricole, cresce sostanzialmente su se stessa secondo una "interisificazione degli insediamenti all'interno dei perimetri iniziali o quasi" 23; e infine la diversa organizzazione di governo del territorio, condizionata sopratutto dalla presenza di organismi straordinari esterni e di livello superiore rispetto all'Ente locale, che ne hanno fortemente condizionato la capacità di governo e di spesa. In questo contesto le nuove condizioni determinatesi negli ultimi 20 anni hanno
esasperato un modello di funzionamento piuttosto che prefigurarne uno nuovo: la chiusura della valvola migratoria verso le aree urbane settentrionali ha infatti prodotto una forzosa stagnazione di popolazione nel Mezzogiorno ed un aggravamento dello scarto tra peso demografico e potenzialità di un'economia urbana gi gracile accentuando i fenomeni di scomposizione e marginalizzazione sociale
preesistenti, in assenza di segnali significativi in termini di nuova imprenditorialità, di innovazione e di competizione nel settore secondario e terziario; inoltre la gran massa di finanziamenti pubblici che sono stati trasferiti a vario titolo nel Mezzogiorno, lungi dall'essere stati utilizzati per innescare meccanismi di sviluppo autopropulsivo e nuove occasione di organico "ammodernamento" urbano, hanno accentuato il carattere di dipendenza dell'economia locale dallo Stato centrale, hanno consolidato un peculiare blocco d'interessi tra ceto politico locale, gruppi immobiliari ed esponenti locali del ceto politico nazionale 24, e il più delle volte si sono risolti in interventi inutili o addirittura darmosi, settoriali e frammentari; infine il peggioramento delle condizioni urbanistiche, conseguente anche ad un sostanziale assecondamento di fenomeni insediativi spontanei ed abusivi che incrementano l'intensificazione attorno al polo centrale, sembra accentuare una incapacità crescente del "capitale fisso urbano" ad accogliere o ad incentivare la crescita diiniziative produttive diverse da quelle di tipo interstiziale della cosiddetta "economia sommersa", e comunque esprime una difficoltà strutturale della città meridionale a riconvertirsi in tempi medi 'ad uno sviluppo più equilibrato: una sorta di" rigidità delle forme spaziali esistenti" che produce "una sfasatura tra la permanenza delle forme spaziali e la novità degli usi sociali" 25 Ben diversa quindi dalla realtà centro-settentrionale è anche la situazione del territorio extrametropolitano. Il permanere di condizioni di forte attrazione dei poli urbani esprime una sostanziale rigidità del sistema economico, che non ha conosciuto decentramenti significativi di attività
produttive dalle aree urbane tali da andare oltre un limitatissimo numero di chilometri dal centro e cioè dal ristretto mercato locale di riferimento. A fronte di un diffuso ed articolato processo di sviluppo periferico nel centro-nord che ha visto negli ultimi 20 anni "congiunzioni per aree ed assi forti di molti localismi" (il forte subsistema padano, l'asse tirrenico che connette Liguria, Toscana, Umbria e Lazio, e l'asse Adriatico, che connette Emilia, Marche, Abruzzo e Puglia settentrionale), il Mezzogiorno presenta al contrario "elementi di crescita a macchie di leopardo di piccoli sistemi locali, soprattutto nelle fasce costiere e in alcune zone all'interno" 26.
Un nuovo ciclo duso del territorio Il quadro che emerge da questa rapida carrellata, se proiettato in una dimensione storica di più lunga durata, sembra cosf preludere a un possibile 50 ciclo dello sviluppo territoriale. 14 grandi cicli storici della strutturazione del territorio hanno alternato la fase "di impianto" a quella "di consolidamento", il "recupero dell'impianto" alla "ristrutturazione del consolidamento", in un'ottica di contrazione/estensione del territorio urbanizzato da monte a valle, che ha accompagnato l'alterno dispiegarsi delle condizioni di maggiore unificazione o frammentazione delle condizioni politiche, sociali ed economiche 27 . Il 40 ciclo in cui viviamo, quello del cosiddetto "Evo Moderno" sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva, che aveva raggiunto il suo massimo apice nella costruzione di un sistema urbano ed economico fortemente polarizzato in alcune aree, a scapito di vasti territori marginali e periferici. 131
Questo esaurimento tuttavia non produce nuovi "medioevi", un ritorno ineluttabile da alcuni preconizzato ad una strutturazione "di nuovo localizzata, di nuovo efficiente su piccola scala, di nuovo contratta a valori esistenziali minimi" 28. Esso apre la strada invece ad un nuovo ciclo in cui coesiste il binomio diffusione/centralizzazione, "un uso estensivo del territorio e un uso intensivo della città "29 : è tutto il territorio che tende ad esserne coinvolto, indipendentemente dalla posizione orografica e dalla collocazione di monte o di valle. E questa tendenza all'uso totale non passa più solo per il ruolo guida di alcune grandi infrastrutture territoriali ed urbane, come nel passato, ma per l'infittirsi ed il connettersi di "sistemi reticolari" in cui, dal punto di vista delle relazioni "orizzontali" a scala di grandi regioni, "le scelte localizzative tendono verso l'indifferenza, o almeno presentano alternative sempre più numerose e diffuse" e quindi " acquistano sempre maggior peso localizzativo le variabili ambientali, cioè le relazioni verticali" 30 Tuttavia le modalità e l'estensione di questo 50 ciclo accentuano la sperequazione tra un nord più "maturo", ancorché caratterizzato da limitate aree di marginalità, ed un sud ancora condizionato da una contrapposizione rilevante tra processi di polarizzazione urbana di tipo tradizionale ed abbandono o comunque perifericità economica di ampie zone interne; in cui cioè i limitati e circoscritti fenomeni emergenti appaiono come episodi isolati ed atipici non inseriti in un più vasto ed omogeneo riutilizzo del territorio e delle sue capacità produttive.
L'impatto di queste nuove condizioni e di questi nuovi squilibri con il variegato 132
mondo dell'amministrazione locale, con la struttura e la gestione dei piani urbanistici, con le domande sociali ed economiche di servizi indotte dalle dinamiche in atto, con l'accrescimento e il complicarsi progressivo dei compiti di fatto delegati a comuni, province e regioni (ma anche comunità montane ed "autorità di bacino") rende dunque indispensabile una nuova rJ1essione sulle regole e gli strumenti necessari per il governo del territorio nella nuova fase. Crusi
E RIc0NvERsI0NE DELLA CULTURA URBANI-
sTIcA, coNTRADDIzIoNI E FRANTUMAZIONI DELLA POLITICA STATALE IN MATERIA URBANISTICA
Se "medioevo" c'è stato di fronte alle nuove condizioni, esso è piuttosto rintracciabile nelle parabole della cultura urbanistica e nei comportamenti dello Stato in materia di governo del territorio.
La 'fuga dalla realtà" degli urbanisti. È difficile oggi valutare quanto diffusa nella cultura urbanistica sia la consapevolezza e addirittura l'interesse conoscitivo relativamente ai nuovi connotati assunti dalla trasformazione del territorio urbano e non. Ed è ancor più arduo rintracciare segnali significativi di una nuova cultura del piano adeguata alle nuove necessità della riqualificazione territoriale ed ambientale. Sia ben chiaro, non è che manchino riflessioni ed esperienze stimolanti, ma la sensazione che si prova a rileggere gli ultimi dieci anni delle posizioni espresse dall'urbanistica italiana, è quello di uno scarto notevole tra la intensità e la complessità delle dinamiche in atto, nelle città come in altre vaste aree del paese, ed il li-
vello culturale ed operativo della risposta degli urbanisti. Quelle dinamiche, che richiederebbero non solo nuove intenzionalità conoscitive (di cui fortunatamente siamo sin troppo dotati) ma soprattutto nuovi orientamenti e nuovi strumenti di governo del territorio in grado di ridiscutere complessivamente gli oramai inadeguati apparati preesistenti, hanno invece più frequentemente sortito l'effetto di as-
secondare la scomposizione e la frammentazione in atto, sia nelle valutazioni che nelle proposizioni. Alcuni segnali lo testimoniano, a partire dall'appannarsi progressivo di alcuni fondamenti essenziali dell'idea stessa di piano, qual'è quello ad esempio del concetto di "interesse generale" e comunque di sistemi gerarchici ed interrelati di interessi generali e particolari; concetto agevolmente rimosso sulla base della considerazione che la fine di una fase di semplificazione degli schieramenti sociali e delle relative esigenze ed il contemporaneo avvio di una disarticolazione in molteplici e disorganici gruppi e istanze, renderebbe vana e fallace l'individuazione di coordinate comuni, così come la precedente fase dello sviluppo urbano aveva consentito di fare. Di qui un vero e proprio "salto" di interesse, effettuato in alcuni settori culturali, verso un impegno pressocché esclusivo sui temi della morfologia urbana, che si accompagna infatti ad una sorta di "ripiegamento" su aspetti che sembrano sfuggire alle contingenze inafferrabili e cangianti della società e del territorio. Questo ripiegamento porta inevitabilmente ad una nuova attenzione per il progetto architettonico, la cui scala e la cui potenzialità di "permanenza" nel tempo, aldilà delle troppo mutevoli e divaricanti domande di
fase, garantirebbero l'unico spazio di lavoro possibile al riparo dai rischi dei "tempi brevi". È facile rendersi conto che questo atteggiamento - cresciuto ovviamente anche sull'onda di una incontestabile valutazione negativa e di una conseguente disillusione in merito alle possibilità concrete di riforma strutturale delle modalità di intervento dello Stato nel governo del territorio - tende a coniugarsi "oggettivamente" con le esigenze del "caso per caso" espresse dai nuovi operatori, economici e con la nuova "dimensione contrattualistica" che porta le amministrazioni "a concentrare la propria attenzione su specifici ed importanti progetti piuttosto che sul piano" 31 "Si sviluppa così quella sorta di ossimoro, di moda della stagione della deregulation, che è la privatizzazione dell'urbanistica, cioè l'urbanistica affidata ai privati (fra gli esempi più vistosi sono il sistema direzionale orientale di Roma, i progetti Fiat e Fondiaria per Firenze e Pirelli-Bicocca per Milano) 32, Con una duplice conseguenza: sul piano della gestione, in assenza di un più ampio sistema di coerenze e di efficaci strumenti di controllo, le singole operazioni (dal riuso di un'area dismessa alla realizzazione di un'infrasti-uttura urbana o di un centro direzionale) finiscono inevitabilmente per risolversi, nonostante gli sforzi e gli arricchimenti della progettazione architettonica, in ben più prosaiche operazioni di valorizzazione della rendita fondiaria con ridottissime contropartite per la pubblica amministrazione; e d'altro canto la casualità delle occasioni di trasformazione che la città e il territorio offrono, in assenza di orientamenti chiari dell'operatore pubbli133
co attraverso piani che ne esplicitino i contenuti e le priorità, anziché produrre le auspicate nuove qualità, il più delle volte esasperano la scomposizione, gli squilibri e i danni. L"urbanistica contrattata" insomma, oltre ad essere il veicolo di un'ulteriore sperequazione delle modalità d'uso della città e del territorio, è anche un fattore di ulteriore destabilizzazione dei già provati meccanismi del loro "funzionamento", innescando un circolo virtuoso secondo cui più si interviene nella città più si alimenta una domanda indotta di nuovi interventi per la "riparazione" dei precedenti. La rinuncia spesso operata ad individuare prestazioni e regole del territorio, di singoli luoghi e delle loro molteplici connessioni, di singoli gruppi sociali e singole attività economiche e delle loro possibili e compatibili interazioni, all'interno di un quadro di riferimento unitario seppur dinamico ed aggiornabile, la rinuncia alla necessità di strumenti di piano adeguati alla centralità del controllo pubblico, insomma la rinuncia di fatto al piano come strumento centrale di" democrazia" ha prodotto e produce quindi danni notevoli: la molteplicità degli attori presenti oggi nella città e nel territorio, le loro domande e la loro coesistenza non è infatti fenomeno che può essere lasciato al "libero mercato" ma richiede un governo pubblico in grado di dettare le regole del gioco, di definire le necessarie perequazioni e di ricondurre la gestione delle trasformazioni urbane entro canali controllabili e trasparenti, non discrezionali o perlomeno non tali solo in funzione delle diverse capacità contrattuali ed economiche dei partecipanti. "Che gli obiettivi siano divenuti più complessi 134
ed articolati non significa che non debbano essere individuati ; che la situazione specifica debba essere ascoltata con maggiore attenzione, come materiale di partenza di ogni modificazione (che ci si debba cioè mettere in relazione con le specificità contestuali) non significa appiattire ogni intervento ad un'empiria senza principi e senza dover essere. Che le nozioni di standard e di norma siano divenute talvolta numeri il cui significato originario è andato perso, che esse vadano riesaminate a partire proprio dalla condizione specifica e non da astratti sistemi tardo-neopositivi, non significa che tali nozioni non debbano ritrovare e potenziare, nell'elaborazione del piano, il loro originario ruolo civile e qualitativo"33. Ed in tal senso non si può che condividere quel senso di "fuga dalla realtà" di cui parla Indovina quando riflette sulle tendenze in atto in ampi settori della cultura urbanistica, sull'attenzione pressoché esclusiva ai problemi della forma, dell'organizzazione dello spazio, che ambirebbe risolvere tutte le questioni di sostanza, ma che si affida a meccanismi per la sua costruzione "tali da costituire un arretramento profondissimo rispetto a quella che è sempre stata una tradizione dell'ur banistica (in senso generale) del nostro paese"3l.
Le responsabi1iu del governo nazionale sulla "deregulation" Sarebbe ingiusto tuttavia attribuire tutte le responsabilità alla cultura urbanistica degli anni '80, o perlomeno a quella che si è espressa nella prassi professionale, e al comportamento delle amministrazioni locali che si sono maggiormente esposte sulla strada della "deregulation"; ampie responsabilità, lo abbiamo già detto, sono
sicuramente rintracciabili anche e soprattutto nell'azione dello Stato in materia di governo del territorio. Rimandando in proposito all'approfondita ricostruzione degli avvenimenti succedutisi negli ultimi decenni svolta da De Lucia35, è utile qui ricordaredue questioni in particolare. La prima è lo smantellamento progressivo delle competenze formali ed effettive che il Ministero tradizionalmente competente in materia, quello dei Lavori Pubblici, ha subito in questi anni. La riduzione di potere reale dell'organismo storicamente preposto, la Direzione Generale del Coordinamento Territoriale, è passata per un complesso susseguirsi di operazioni che hanno progressivamente trasferito competenze e potere decisionale altrove, senza tuttavia un disegno organico e finalizzato ad una nuova operatività; la costituzione del Ministero dell'Ambiente e quello delle Aree urbane; pur testimoniando un nuovo interesse per problematiche emergenti, hanno tuttavia creato una sostanziale confusione e sovrapposizione di competenze, che il più delle volte sono state risolte "all'italiana" nella gestione autonoma delle rispettive attività peraltro non univocamente separabili col coltello. Nello stesso tempo, la perdita di peso reale del ruolo dell'urbanistica negli anni '80 si è ulteriormente concretizzata attraverso una produzione disorganica di legge e decreti settoriali tra di loro incomunicanti, ma fortemente interferenti e spesso contraddittori: la lista è lunga, ma basta ricordare tra le principali la legge 94 del182, la L. 47 dell'85 sul condono edilizio, la L. 431 dèll'85 sulla tutela ambientale, la L. 183 dell'89 sulla difesa del suolo e la L.
142 del '90, assieme ad una miriade di provvedimenti minori, da quello sui parcheggi a quello sulle barriere architettoniche per citarne solo alcuni, che si sono disordinatamente affiancati e sovrapposti ad una oramai desueta e rimaneggiata legge urbanistica di mezzo secolo fa, lasciando ampi margini di incertezza interpretativa, ed una sostanziale confusione istituzionale relativamente ai ministeri competenti nelle diverse materie e ai nuovi enti territoriali chiamati alla pianificazione e gestione del territorio (basti citare i problemi posti dalla coesistenza di comunità montane, nuove province e nuove "autorità di bacino"). E tutto ciò senza peraltro riempire gli spazi vuoti determinatisi su alcuni problemi nodali della gestione del territorio, come il regime dei suoli e degli immobili. È l'Associazione Italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa (MCCRE), in un documento elaborato nell'88 nella prospettiva dell'imminente unità del mercato europeo del '92, a rilevare infatti, a proposito dei gravi problemi metropolitani, il nesso irrinunciabile tra la loro soluzione e il problema del governo dei suoli: la rendita fondiaria urbana, come ogni e qualsiasi rendita strettamente parassitaria, non può condizionare lo sviluppo razionale di una metropoli. L'arretratezza legislativa italiana in materia rende particolarmente precaria la situazione delle aree urbane nel nostro paese: ma più in generale rende irrazionale e con gravi conseguenze ambientali l'assetto di tutto il territorio regionale" 36.
Di fronte alle nuove e complesse domande che provengono dal territorio, lo Stato ha dunque scelto la strada della frammen135
tazione e disarticolazione delle politiche e delle modalità di impiego della spesa nei mille rivoli separati di una settorializzazione dannosa e fonte di sprechi. Piuttosto che lavorare per una riconversione complessiva degli strumenti legislativi e normativi all'interno di nuovi codici unitari e testi unici ed immaginare nuove for me di coordinamento intersettoriale delle risorse, ha imboccato la strada dello scrivere con la mano sinistra senza sapere cosa scrivesse contemporaneamente quella destra. Il risultato è stato quello di creare confusione e disorientamento negli operatori pubblici alla scala regionale e locale che hanno infatti diversamente legiferato e operato, chi meglio e chi peggio; ma anche quello di determinare allo stesso tempo le condizioni per una gestione "discrezionale" della spesa pubblica perfettamente aderente alla cristallizzazione in organismi e competenze separate dell'attuale organizzazione dello Stato centrale. È il caso di ricordare che, mentre tutto ciò
avveniva da noi, nella vicina Francia gli anni '80 hanno registrato una riorganizzazione sostanziale della struttura dello Stato per la promozione e la gestione delle politiche territoriali e urbane: - senza soffermarci sulle novità introdotte a scala regionale e locale dalla nuova legge di riforma del 1982, va innanzitutto rilevato che, a livello centrale, è stato confermato un ruolo cardine insostituibile dello Stato: il Commissariat Général au Plan preposto all'elaborazione di un Piano Nazionale Quinquennale al cui interno vengono definite le linee nazionali di pianificazione territoriale; i comitati e le commissioni di supporto come la Ciat Comité interministériel d'amanagemet du territoire) e la Cnat (commission natio136
nale d'aménagement du territoire); l'organismo incaricato della gestione del Plan, la Datar (Délégation à l'aménagement du territoire et à l'action régional) che coordina gli interventi di competenza dei diversi ministeri e gestisce il rapporto con le regioni; e infine il Civ (Comité interminisériel pour les villes) creato nel 1985 per il coordinamento di politiche organiche di intervento nelle città, oltre ad una altra serie di organismi, tra cui l'Anah (Agence national d'amélioration de l'habitat) e le Arim (Association de restauration immobiliére) nel campo del recupero urbano ed edilizio, definiscono un quadro organizzativo generale fortemente strutturato che esprime la centralità delle politiche territoriali ed urbane in quel Paese. - Inoltre, la creazione di un complesso di finanziamenti orientati al raggiungimento di obiettivi di diversa natura (fisici, sociale ed economici) tra loro interrelati fornisce una articolata tastiere di possibilità operative: i Fiat (Fonds d'intervention pour l'aménagement du teritorire, fondi a disposizione della Datar che rendono quest'organismo forte e incisivo; il Fau (Fond d'aménagement urbain) già introdotto nel '77 e poi ulteriormente valorizzato e potenziato nell'82 come "borsa unica" interministeriale che garantisce il coordinamento delle risorse necessarie per la riqualificazione complessiva di quartieri esistenti; infine il "contrat de plan" strumento finanziario introdotto nell'82 per rendere operativi gli impegni congiunti di regioni e stato nell'attuazione di programmi inseriti nella pianificazione regionale e negli obiettivi del Plan nazionale - A ciò si aggiunge una tradizione riformatrice nel settore, dai caratteri fortemente unitari che si esprimono in un "codice"
dell'urbanistica, più volte modificato con le legge dell'82 e dell'85. In particolare quest'ultima è "connotata dal carattere di riforma organica del sistema normativo dell'urbanistica rappresentato dal Code del l"Urbanisme, modificando altresì numerose leggi e codici attinenti le imposte, i comuni, le costruzioni, la casa, ecc." 37. È su questa base legislativa e con il concorso delle nuove disposizioni relative al decentramento e del collaudato regime dei suoli, che, si sono potute avviare nuove politiche urbane. "In particolare ciò è vero per la politica Projet de quartier... che più di altre sembra rappresentare la nuova direzione di marcia delle più recenti esperienze in Francia, ciò per il carattere integrato, intersettoriale, per i numerosi e diversi soggetti coinvolti e per il forte ruolo svolto dall'ente locale"
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Se paragoniamo questa situazione a quella nostrana, ed in particolare facciamo riferimento ai contenuti, al taglio settoriale, alle modalitt di elaborazione e alle vicissitudini della recente proposta di legge "in materia residenziale" ci si rende facilmente conto di quanto sia difficile irnrnaginare, in queste condizioni e con questa cultura riformatrice, prospettive di governo del territorio e modalità di gestione delle politiche urbanistiche adeguate alla fase. E soprattutto di quanto sia illusorio, in presenza di un territorio nazionale caratterizzato dai problemi che abbiamo sin qui descritto, pensare di poter fare affidamento solo sulla nuova impalcatura istituzionale disegnata dal nuovo ordinamento sulle autonomie locali, sulle poche risorse ordinarie disponibili e sulla distribuzione scarsamente e opinabilmente programmata delle risorse aggiuntive settoriali.
LE DIVERSITÀ DEGLI ENTI LOCALI: INNOVAZIONI E "SPAZI BIANCHI DEL NUOVO ORDINAMENTO IN RELAZIONE ALLE ESIGENZE DI GOVERNO DEL TERRITORIO
Assetto del territorio, dinamiche sociali ed economiche, cultura urbanistica e riforma dello Stato sono dunque aspetti fortemente condizionanti l'organizzazione ed il funzionamento delle autonomie locali. La consapevolezza di queste interazioni, e dei nodi ancora irrisolti al loro interno, è essenziale per affrontare con cognizione di causa i problemi posti dal nuovo "ordinamento" e dalla sua attuazione in relazione alle necessità poste dal governo del territorio e dalla gestione degli strumenti di piano. In questo senso una questione di particolare rilevanza che va affrontata è l'intrec-
cio tra eterogenerità dei processi di modficazione territoriale ed urbana ed eterogeneità degli enti e dei poteri locali. L'argomento non è nuovo, è stato git approfondito in modo esauriente negli anni '70 39, e purtuttavia le valutazioni allora espresse rimangono ancora attuali e meritano perciò di essere riprese. In tali valutazioni i connotati principali dell'eterogeneità degli enti locali, che rendono "or mai impossibile un discorso unitario" 40, sono riconducibili fondamentalmente a 3: le dimensioni, le funzioni svolte e l'organizzazione.
La questione dimensionale degli enti locali tra "comuni polvere" ed aree metropolitane In merito alla rilevanza dell'aspetto dimensionale, gli ultimi dati dimostrano infatti che i comuni italiani, pur essendo di numero non elevato in paragone con al137
tre nazioni europee, presentano un elevato livello di frantumazione che porta la dimensione media a circa 7.102 abitanti per comune nel 1988, ulteriormente ridotta a 5.216 se si escludono dal calcolo le città con più di 100 mila abitanti; un dato peraltro non omogeneo se si pensa che al sud e nelle isole questo dato sale a 6.447 mentre nell'Italia settentrionale scende a 4.157. A fronte di questa dispersione, che ha quindi caratteri molto differenziati tra le diverse aree geografiche del paese, si impone il dato notevole di un'alta percentuale di abitanti concentrati nelle 9 aree metropolitane dichiarate tali dalla L. 142/90, circa il 33% del totale della popolazione italiana. Ed è evidente che il fattore dimensionale, per gli effetti che produce sulla diversa articolazione, qualità e quantità dei problemi e delle forme organizzative possibili, rappresenta un elemento di forte differenziazione a scala nazionale, con enormi riflessi sul governo locale compreso quello territoriale. Da questo punto di vista il nuovo "ordinamento" degli enti locali, la L. 142 appunto, introduce finalmente alcune innovazioni: - da un lato sancisce l'avvio di una programmazione delle modifiche delle circoscrizioni comunali e delle fusioni tra comuni di piccola dimensione, che dovrebbero essere agevolate dalla erogazione di contributi straordinari dello Stato e dagli effetti restrittivi nell'erogazione dei servizi prodotti dalla parametrazione dei servizi locali indispensabili, con le conseguenti tendenze ad una ricerca di soglie dimensionali più convenienti attraverso "consorzi", "unioni" e quindi anche "'fusioni". A ciò si aggiunge la possibilità di individuare i cosiddetti "circondari" nell'ambito
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provinciale laddove si rendesse necessario prevedere aggregazioni di più comuni per meglio disciplinare l'organizzazione deglL uffici, dei servizi e della partecipazione dei cittadini, e che offre la possibilità di definire nuove aggregazioni di nequilibrio tra regioni rurali e grandi comuni sul modello dei Landkreise tedeschi; - dall'altro lato, la legge riconosce finalmente un nuovo ruolo istituzionale alle provincie, avvicinandoci con qualche anno di ritardo alla struttura per "dipartimenti" francese di napoleonica memoria; e soprattutto, dopo decenni di dibattito, definisce le aree mètropolitane, introducendo i due livelli istituzionali della "città metropolitana" e dei comuni appartenenti all'area, a cui si aggiunge la possibilità offerta di promuovere a comuni le principali circoscrizioni della città capoluogo. Si è scongiurato così il pericolo di un "affollamento" di enti di svariato livello e si sono redistribuite, in materia di governo del territorio e di servizi, le competenze tra città metropolitana, provincia e comuni, pur affidando alle regioni il compito della loro definizione con i possibili rischi di un'eccessiva variabilità di comportamenti in assenza di regole di comportamento chiare. Due dubbi restano, relativi tuttavia non ai principi ispiratori della legge quanto piuttosto alla sua concreta attuazione e gestione. In primo luogo sull'efficacia reale dei propositi espressi in merito all'auspicato processo di fusione tra i comuni piccoli, in particolare in alcune aree del paese in cui la frantumazione, oltre ad esprimere radicati sentimenti campanilistici, si associa a più concrete diversità di comportamento storico nella gestione della cosa pubblica e nella formazione dei relativi
"bilanci", che richiederebbero un nuovo ruolo da parte regionale con la predisposizione di strumenti e strutture di servizio ai comuni per la valutazione dei costi e dei benefici e la quantificazione delle esigenze economiche per le incentivazioni da parte statale. È in secondo luogo innegabile che il nuovo assetto istituzionale metropolitano è solo una premessa, tardiva ma indispensabile, per avviare politiche integrate di riqualificazione urbana, senza le quali assisteremmo soltanto ad un "trasferimento" dei problemi e delle inefficienze dalla scala comunale a quella provinciale; la strada da imboccare potrebbe forse essere qualcosa di molto simile a quella dei già citati "fondi Fau" francesi gestiti da un comitato interniinisteriale di concerto con i comuni, e, ad una scala superiore di programmazione, a quella dei "contrats de plan" tra Stato e Regioni per la realizzazione di politiche economiche, abitative e infrastrutturali: se ci si riducesse ai piani per i parcheggi, le piste ciclabili e le coperture degli stadi si vanificherebbe tutto il potenziale innovativo della legge.
La geografia delle funzioni ed i mjlessi sulla gestione dei servizi. Un secondo aspetto di differenziazione degli enti locali è quello delle funzioni svolte, che assumono caratteristiche estremamente diverse in rapporto ad alcuni fattori. Innanzitutto, e nuovamente, alle dimensioni: i poteri locali infatti, col crescere delle dimensiòni "non crescono, ma cambiano"41, rendendo quindi impossibili le tipizzazioni tra entità non omogenee e non comparabili. I dati relativi agli impe-
gni di spesa del 1987, che confermano sostanzialmente il quadro già delineato negli anni '70 42, lo dimostrano eloquentemente con una crescita del peso delle spese correnti direttamente proporzionale alla dimensione dei comuni (dal 43% di quelli sotto i 5.000 abitanti al 55,1% di quelli sopra i 60.000) ed una crescita quindi inversamente proporzionale delle spese in conto capitale, con un crollo in particolare degli investimenti in beni mobili e immobili dal 36,8% nei comuni sotto i 5.000 abitanti al 19,9% in quelli sopra i 60.000. È un quadro questo che è destinato a subire notevoli modificazioni, e probabilmente limitate perequazioni nel peso delle singole voci, sia per effetto dei processi di consorziamento, unione e fusione alla scala dimensionale inferiore, sia per la modificazione delle competenze nella gestione dei servizi alla scala provinciale, che dovrebbe tendere ad eliminare quindi le "punte" anomale relative ad alcune voci delle spese correnti (i trasporti per i grandi comuni, ad esempi, la sanità e l'istruzione per quelli medio-piccoli) nel quadro della ricerca di nuove economie di scala. Le funzioni svolte dai singoli comuni inoltre mutano in rapporto alla collocazione geografica, intesa come contesto economico e sociale all'interno del quale si inseriscono i comuni, e quindi alle differenziate domande e alle complesse configurazioni istituzionali e finanziarie che ne conseguono. Questo fattore, dipendente da quella geografia delle dinamiche territoriali di cui abbiamo già avuto modo di parlare, si traduce infatti sia nell'esplosione o comunque l'intensificarsi di processi economici e fisici di notevole rilevanza (nuove aree industriali "spontanee" e dif139
fusa dismissione di quelle esistenti, modificazioni della composizione sociale, crescita del settore turistico legato a fenomeni di valorizzazione ambientale, e così via) che inducono nuovi bisogni e nuove necessità di risposta dell'ente locale, scontrandosi con i vincoli di bilancio e l'eseguità delle risorse; sia in alcune importanti modificazioni istituzionali dell'apparato statale in quelle aree del paese, ed in particolare nel sud, nelle quali l'esigenza al contrario di promuovere sviluppo ha prodotto nel tempo nuovi soggetti pubblici paralleli, dai Consorzi di sviluppo alla Cassa: ed in tal modo "uno dei presupposti base dell'autonomia locale, la possibilità di decidere l'uso del territorio, è stato drasticamente ridotto se non addirittura annullato"43. La situazione determinatasi con la L. 64 dell'86 ha modificato in senso peggiorativo questo quadro: il nuovo legame tra Stato (Agenzia per il Mezzogiorno), Regioni e comuni infatti, in assenza di direttrici di sviluppo complessivo (concetto ben diverso da quello che ha generato i generici" contenitori" delle "azioni organiche") e di una programmazione regionale o sub-regionale, si è tradotto in una confusa corsa all'invenzione della "domanda" al fine di garantirsi l'offerta" in termini di finanziamenti, innescata dai comuni stessi ma sostanzialmente gestita a livello regionale e nazionale da quel "nuovo elemento di continuità del centro con la periferia" 44 rappresentato dai partiti e dalle loro articolazioni in diverse componenti. Gli esiti, oltre ad un deludente e a volte preoccupante risultato concreto rispetto agli obiettivi enunciati, sono stati generalmente quelli di un acuirsi degli squilibri finanziari e territoriali tra comuni politicamente "forti" e quelli 140
"deboli", tra comuni della fascia costiera e quelli delle zone interne, e di un'espansione della corruzione e della subordinazione, sia di tipo tradizionale che culturale, del ceto politico-amministrativo locale rispetto a quello nazionale. In sostanza una privazione di fatto dell'autonomia politica dei comuni, nonostante la maggiore seppur sperequata disponibilità di risorse, di cui non ha beneficiato un più equilibrato gioco di poteri e di responsabilità ai diversi livelli istituzionali di governo in rapporto a precisi obiettivi di programma, ma un sistema fortemente gerarchico centro-periferia alimentato dal puro cohtrollo della spesa pubblica. Queste considerazioni introducono un terzo fattore che ha enorme incidenza sull'eterogeneità delle funzioni svolte dagli enti locali, e cioè quello dei servizi offerti dall'ente locale. Sulla rilevanza di questo problema si sono spesi fiumi di parole in più settori della cultura. Esso ha costituito infatti argomento di riflessione per gli urbanisti sin dalla legge urbanistica del '42, ha trovato un momento di sintesi nella L.765 del '67 e nei decreti ministeriali sugli standard del '68, e si è poi evoluto in nuove riflessioni sulle modalità di organizzazione spaziale e gestionale negli anni '80, secondo un processo di progressiva consapevolezza che ha trasformato i servizi, nonostante le resistenze e le profonde sperequazioni ancora esistenti alla scala nazionale, "da elemento di pura concessione paternalistica da parte degli operatori immobiliari privati o da parte di amministrazioni pubbliche, ad elemento portante, riconoscibile e dovuto ad ogni cittadino" 45. E stato ovviamente argomento di riflessione anche per gli studiosi del-
l'amministrazione soprattutto sotto il punto di vista dell'organizzazione, delle "economie e diseconomie", della "produttività" e della conseguente ricerca di "soglie" ottimali dal punto di vista dimensionale 46; così come di molti economisti del territorio tesi ad evidenziare soprattutto le connessioni tra offerta di servizi e dinamiche economiche e sociali, sia dal punto di vista della cosiddetta "riproduzione della forza-lavoro" e quindi del ruolo di "salario sociale" di alcuni di essi, sia di"valorizzazione" del capitale fondiario e produttivo 47 . In tutti è esplicito il riconoscimento di una centralità di questo aspetto nella gestione del territorio, e quindi nelle politiche di piano e nella loro gestione: frequentemente sacrificati nei processi di crescita urbana; divenuti elementi di spesa crescente a livello statale, spesso sotto forma di veri e propri trasferimenti di reddito; privilegiati, negli anni '70, nei programmi delle amministrazioni locali più avvedute come aspetti qualificanti di quei programmi; sottoposti infine al taglio della spesa pubblica che li pone al centro del divario tra bisogni e risorse, i servizi assumono in questa fase, in relazione ai nuovi compiti delegati in questi anni ai comuni e all'articolarsi e al differenziarsi delle dinamiche urbane e territoriali che configurano una nuova geografia dei bisogni,una notevole rilevanza nella valutazione dell'etèrogeneità delle situazioni amministrative. Sicuramente un primo dato di cui tener conto è quello delle nuove competenze che i famosi DPR. 616 e 617 hanno deter minato, e che oggi ci si appresta a ridefinire. Gli enti locali si sono infatti trovati a gestire nuove responsabilità dalla polizia locale urbana al campo assistenziale (co-
me l'assistenza economica alle famiglie dei detenuti e ai minorenni, le nuove funzioni in materia di assistenza scolastica per le categorie disagiate) e a quello socio-sanitario (è il caso delle funzioni attribuite in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera): la tendenza è stata quella di decentrare, ai livelli più bassi del governo locale, una serie di servizi "personali" che hanno posto (e porranno ancora, in base agli orientamenti della nuova legge) il comune in "prima linea" nei confronti degli utenti pur in presenza di un livello insufficiente di risorse. Ma l'aspetto sicuramente più rilevante è
l'impatto di questi nuovi compiti con i nuovi assetti sociali, economici e fisici alla scala territoriale. Se tentassimo di definire da questo punto di vista alcuni problemi emergenti nella produzione e gestione dei sevizi, ci troveremmo infatti di fronte ad un repertorio molto articolato di situazioni, i cui tratti più importanti, in parte già rilevati, sono quelli relativi alle grandi città e ai piccoli comuni. Le grandi città si trovano sottoposte alla necessità di dar risposte a di.ie tipologie di domande profondamente diverse: da un lato quelle degli strati medio-alti e delle attività economiche di livello superiore nel settore terziario che, ove non producono la crescita di un'offerta privata, si traducono in richieste di più cultura e tempo libero in senso lato, più qualità degli spazi pubblici e dell'ambiente urbano in genere, più informatizzazione dei servizi e delle reti, più mobilità ed attrezzature ad essa connesse, più attrezzature per il commercio e lo scambio a livelli qualificati; dall'altro le domande della popolazione marginale in crescita, degli strati "storici" più disagiati e delle relative attività economiche connesse, che si tra141
ducono in più assistenza (a tutti i livelli, e soprattutto per le fasce più deboli, come gli anziani), ancora casa (soprattutto per gli extracomunitari ma in molti casi anche per irriducibili fasce di senzatetto) e anche qui attrezzature per il commercio e lo scambio rivolte però ai mercati minori; mentre i tradizionali servizi rivolti alle fasce sociali operaie e impiegatizie dei decenni precedenti (asili nido, scuole materne, servizi culturali di quartiere, tendono ad una rapida obsolescenza per progressiva mancanza di utenti e richiedono operazioni di riconversione funzionale. I piccoli centri, sia quelli delle aree metropolitane, sia quelli delle ex aree "periferiche", oggi interessate da nuovi processi locali di sviluppo economico, debbono a loro volta dar risposte a nuove esigenze commerciali, di cultura e tempo libero, scolastici e collettivi degli strati medi e medio-bassi che crescono in queste aree, precedentemente assenti o assorbite all'interno di una struttura sociale e familiare di tipo prevalentemente contadino, nonché alle consistenti domande di riorganizzazione e riqualificazione territoriale (centri fieristici, nuovi servizi volti alo sviluppo tecnologico delle industrie, ecc.) che le imprese sollecitano per un più razionale sviluppo economico. Sui problemi di queste due diverse realtà, grandi città e piccoli comuni, si incrociano tuttavia, anche in questo caso, i problemi posti dalle differenze nord-sud. Nelle grandi città del sud infatti la persistenza di un fenomeno tradizionale di "polarizzazione" economica e demografica accentua i problemi di pianificazione e gestione dei servizi, come i trasporti ad esempio, e produce un ulteriore scarto tra un centro relativamentne dotato ed una
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vasta periferia dequalificata; allo stesso tempo i diversi caratteri e la prevalenza quantitativa del precariato urbano meridionale rispetto a quello settentrionale (più lavoro "nero" e "illegale", più lavoro "a domicilio", improduttivo, assistito) ove non produce la semplice assenza e inconsapevolezza di bisogni "maturi", determina fenomeni di "internalizzazione" nella struttura sociale e familiare (lavoro minorile come alternativa alla selezione scolastica, economia domestica delle fasce femminili che coniuga integrazione di reddito e carenza di sevizi per le fasce d'età più giovani, centri assistenziali di tipo religioso come offerta alternativa, oppure spinte, sul piano dei servizi, rivolte all'integrazione diretta del reddito e quindi ad un rigonfiamento occupazionale degli stessi con conseguenze di improduttività e assistenzialità. D'altro canto, i piccoli centri del Mezzogiorno, a meno di limitate eccezioni (alcune aree costiere, alcune aree di sviluppo), soffrono di problemi di carenza ben diversi da quelli centro-settentrionali: qui i processi di desertificazione verificatisi negli ultimi decenni non sono mitigati da nuove dinamiche di decentramento, nè il rientro dei capitali dell'emigrazione è in grado di produrre nuovo sviluppo (a parte l'edilizia); la prevalenza di popolazione anziana o legata ad una economia agricola povera pone quindi l'esigenza, da un lato, di offrir loro servizi di assistenza, e dall'altro di immaginare nuovi incentivi allo sviluppo di settori nuovi (il turismo, ad esempio) in assenza tuttavia di adeguati livelli di imprenditorialità.
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Quanto si modificherà in futuro l'operatività e l'efficacia d'intervento delle istituzioni locali in materia di servizi è si-
curamente dipendente dalle nuove ripar tizioni di funzioni che verranno determinate tra regione, provincia e comune, ed in 'particolare nel progressivo passaggio di alcune di esse dai livelli inferiori a quelli superiori, "naturalmente" più competenti nella produzione e gestione di alcuni servizi di rilevanza sovracomunale. Non vanno sottovalutati in tal senso i problemi che sono stati incontrati in altre esperienze di riforma del governo locale, come quella inglese ad esempio della "Grande Londra" negli anni '60, in merito alla quale è stato rilevato da alcuni l'errore compiuto nell'aver affidato all'ente metropolitano (il Consiglio della Grande Londra) solo la pianificazione astratta e le funzioni ambientali, mentre i servizi personali e sociali sono rimasti più vicini alla popolazione e quindi al livello del Municipio. Il risultato è stato quello di una continua difficoltà dei due livelli di governo a dividersi funzioni in cui "personalità" ed "impersonalità" si confondono spesso, a dimostrare che "per essere ef ficace, l'ente di grande dimensione incontrerà molte difficoltà ad affermarsi se rimane ad un livello di governo che opera per sintesi, per piani, per strategie generali" . Ma è ugualmente incontestabile che un ruolo centrale nello sviluppo di questa riorganizzazione e nei suoi esiti oprativi in termini di efficacia è affidato alla fi-
nanza locale. È opportuno ricordare che l'esito della produzione legislativa in materia della fine degli anni '70 e stata la chiusura del ciclo dell'autonomia locale avviato nei primi anni '70 nonché, ed è l'aspetto più grave, l'instaurazione di criteri fortemente sperequati nel comportamento finanziario degli enti locali e quindi l'assunzione
di ruoli sul territorio di tipo eterogeneo: il. flusso di risorse che affluiva dalla Cassa Depositi e Prestiti ai singoli Enti non rispondeva infatti ad alcun criterio di razionalità o di giustizia distributiva tra enti. In generale si può dire che chi più chiedeva, più aveva" 49. L'attuale legge sul'ordinamento degli enti locali sembra indicare un nuovo orientamento in materia, soprattutto laddove apre la strada al recupero di una potestà impositiva autonoma da parte di comuni e province (con cui si intreccerebbe il disegno di legge del settembre 89 che istituisce la nuova imposta comunale sugli immobili assieme a quella sui servizi comunali) ed un superamento del criterio della "spesa storica" come principio distributivo. In•tal senso vengono accolte istanze più volte avanzate, soprattutto dall'ANCI, per la creazione di un "sistema misto" risultante dall'incrocio tra trasferimenti da parte dello Stato e recupero dell'autonomia impositiva sostenuta da adeguate forme di perequazione 50 che assicurino uguaglianza di possibilità e opportunità differenziate di spesa in rapporto alle diverse situazioni, sul modello di altri sistemi come quello tedesco e quello francese. Purtuttavia la nuova situazione che sembra configurarsi pone alcuni interrogativi, ed in particolare sui contenuti e sugli equilibri di questo nuovo sistema misto in relazione alle esigenze di governo del territorio. È necessario rilevare infatti che una spinta eccessiva in direzione dell'autonomia impositiva non necessariamente significherebbe più capacità di governo degli enti locali: in presenza di forti squilibri territoriali, di forti divaricazioni nei livelli di red143
dito e dei valori immobiliari, un forte peso della contribuzione diretta non farebbe che accentuare gli squilibri. In Francia dove "il prelievo locale è più cospicuo ed articolato", i comuni, "a parità di dimensione, possono avere risorse economiche superiori e molto differenziate" in rapporto alla diversa ricchezza locale, e quelli che non hanno forza economica "sono obbligati ad affidarsi ad una politica di solidarietà che li aiuti a verificare e raggiungere i propri obiettivi" 51. D'altro canto sarebbe difficile definire la praticabilità di criteri differenziati di tassazione a vantaggio dei comuni più bisognosi e/o più poveri: non solo per la impraticabilità "politica" che si determinerebbe (la recente vicenda degli aumenti ICIAP lo dimostra) ma anche perché l'avvio di una fase di differenziazione dei criteri impositivi secondo questa logica potrebbe produrre, ove si verificasse, esiti incontrollabili sugli stessi comportamenti localizzativi della popolazione e delle attività economiche; con effetti di fuga ad esempio dai centri urbani di alcune fasce e relative conseguenze negative sulla finanza locale e sul governo della "crisi urbana", aumentando lo "sfruttamento" del centro dalla periferia ed il divario tra bisogni e risorse secondo un copione già sperimentato nelle città americane 52• Dunque un ruolo centrale dovrà ancora essere riconosciuto ai trasferimenti dallo Stato agli Enti locali, visti però in un'ottica realmente perequativa e non distorsiva. Certo, in una fase di "leghismo" acuto, sarà difficile definire i criteri della perequazione; e d'altronde la genericità del nuovo ordinamento in proposito (con i cosiddetti "criteri obiettivi che tengano conto della popolazione, del territorio e delle condizioni socio-economiche" ol144
treché degli "squilibri di fiscalità locale") non sembra aiutare granché in tal senso. Si può qui discutere, ma è argomento degli studiosi della finanza, se questa perequazione debba o meno portare a finanziamenti differenziati degli enti locali in funzione ad esempio dei diversi costi di produzione dei servizi pubblici per abitante, e se si debba o meno far affluire maggiori risorse in relazione ai diversi fabbisogni di servizi stimando in maniera corretta e articolata il concetto di "essenzialità". Si potrà discutere inoltre se tale perequazione debba riguardare la spesa corrente e/o quella per investimenti (per i quali il nuovo ordinamento già prevede una articolazione tra un fondo nazionale speciale da attivare con "criteri perequativi", ulteriori fondi regionali per la realizzazione dei programmi regionali di sviluppo e dei programmi d'investimento, nonché spese d'investimento relative a leggi settoriali dello Stato distribuite sulla base di programmi regionali). Aldilà ditali discussioni resta la necessità di definire un sistema della finanza locale che, ancorandosi a criteri di rigore e di produttività, garantisca i princi-
pi dell'uguaglianza di trattamento dei cittadini e soprattutto sia in grado di offrire possibilità omogenee di governo di un territorio diseguale all'interno di regole certe e di una programmazione e pianificazione consolidate ai diversi livelli dello Stato. Quanto questo obiettivo sia compatibile con l'attuale crisi dei conti pubblici dello Stato e con la ventilata nuova "austerità" in tema di spesa pubblica, che rischia di aggravare il divario tra nuovi compiti e bisogni da un lato e risorse scarse dall'altro, è argomento di discussione dei prossimi anni.
Governo del territorio e riforma organizzativa degli enti locali Un terzo aspetto, infine, di differenziazione rispetto alle funzioni svolte è quello dell'organizzazione degli enti locali. Andrebbe qui affrontato innanzitutto lo sconfinato tema dell'eterogeneità organizzativa che ha sin qui caratterizzato le istituzioni al mutare delle dimensioni, e che ha determinato sostanziali differenze del processo decisionale tra i diversi soggetti che operano, sindaco, giunta, consiglio e segretario comunale in primo luogo. Queste differenze hanno nel passato indotto ad alcune considerazioni. La prima è relativa all'organizzazione interna dei comuni, in cui l'eterogeneità ha operato in due sensi: tra comuni piccoli e comuni medio-grandi nel senso più ovvio che i primi praticamente non hanno alcuna possibilità di diversificare la propria organizzazione stanti i vincoli esterni e la pochezza dei mezzi a disposizione. tra i comuni medio-grandi nel senso della diversificazione delle forme di erogazione dei servizi, di costruzione del rapporto con le popolazioni, di procedure decisionali. 53. Rispetto all'organizzazione esterna e quindi ai rapporti di collaborazione tra comuni, l'eterogeneità si è invece determinata a) tra comuni piccoli e comuni medio-grandi per l'oggetto della collaborazione medesima ; come è stato dimostrato, ad esempio, i consorzi più frequenti tra i piccoli comuni sono quelli per il segretario comunale, per il medico condotto e, talvolta, per le scuole; tra i comuni di maggiori dimensioni, invece, i consorzi ser-
vono sopratutto alla costruzione di opere pubbliche e, talvolta, alla gestione di servizi comuni: b) tra gli stessi comuni di minori dimensioni a seconda che siano o meno collocati in territorio montano, dove, come è noto esiste un ente necessario di secondo grado (la comunità montana) con funzioni e finanze proprie. 54. Il nuovo ordinamento introduce in tal senso parziali correttivi laddove ridefinisce competenze e responsabilità tra sindaco, giunta e consiglio, ma sopratutto laddove viene richiesto, su ogni proposta di deliberazione, il parere di regolarità tecnica e contabile dei responsabili del sei-vizio e della ragioneria, nonché il parere di legittimità del segretario comunale e provinciale. La separazione delle responsabilità di tipo gestionale-amministrativo degli uffici e dei dirigenti (che esprime la "continuità gestionale" dell'ente locale) e quella di tipo politico-amministrativa spettante agli organi elettivi dovrebbe così garantire una minore "discre.zionalità" e "deformabilità" dei comportamenti tra gli enti locali, anche in relazione alle differenze dimensionali, nonostante le nuove diversità che potranno determinarsi nello stesso apparato tecnico-amministrativo tra i comuni di minor dimensione laddove non esistono funzionari responsabili dei servizi e quelli in cui invece tali figure esistono. Difficilmente, al contrario, potrà essere modificato quel dato di eterogeneità tra i comuni piccoli e quelli medio-grandi nonché tra questi ultimi stessi in relazione alle diverse capacità ed esigenze di creazione di apparati pubblici paralleli, come le aziende speciali e le s.p.a. Questo tema riapre la spinosa questione dei sevizi, 145
della loro qualità ed estenzione e della loro gestione. I dati più recenti relativi alle aziende municipalizzate, ad esempio, confermano un andamento che si era già espresso negli anni '60 e '70 sicuramente un incremento di numero e di importanza del fenomeno, ma soprattutto una sostanziale marginalità economica del fenomeno stesso se consideriamo i settori maggiormente interessati (smaltimento dei rifiuti e trasporti, ad esempio). L'ipotesi che si può avanzare per spiegare una situazione altrimenti di difficile comprensione è che si sia verificato un progressivo mutamento 'della funzione stessa delle aziende; mentre cioè, in passato, queste avevano come fine anche quello di procurare al comune entrate supplementari, rispetto a quelle garantite dagli strumenti fiscali, oggi invece lo sviluppo si attua in servizi strettamente legati alla crescita urbana (trasporti e nettezza urbana) che certamente non portano alcun miglioramento ai bilanci comunali; per contro il regresso o la stagnazione riguarda i servizi più commerciali (gas, latte, ecc.) ai quali i comuni dedicano oggi minore attenzione. Cioè, l'incremento nel numero di aziende non comporterebbe l'allargamento della gamma di sevizi messi a disposizione, ma solo la scelta di modalità di gestione più agili, per una serie di attività che, in ogni caso, verrebbero svolte dalle amministrazioni locali" 56. C'è da chiedersi se la dotazione di personalità giuridica e di autonomia imprenditoriale e statuaria prevista dal nuovo "ordinamento", nonché l'obbligo del pareggio di bilancio "da perseguire attraverso l'equilibrio dei costi e dei ricavi", possa invertire questa tendenza in direzione di una riforma strutturale di alcuni servizi e 146
della loro efficienza anche attraverso politiche perequative dal punto di vista sociale; o piuttosto non spingano, in alcuni settori e soprattutto in quelli maggiormente condizionati dagli effetti della crisi urbana e dal cattivo funzionamento della città, ad un progressivo affidamento in concessione a privati anche di quei servizi che potrebbero e in alcuni casi dovrebbero essere gestiti dall'ente pubblico. E ciò anche in considerazione del non automatico incremento di efficienza e di produttività che tali affidamenti necessariamente producono, soprattutto in un contesto economico e ambientale come quello del Mezzogiorno, come è dimostrato da alcuni recenti casi emblematici 57. Non si può cioè che condividere la posizione espressa in proposito dall'ANCI 58 in cui, pur valutando positivamente i casi in cui l'affidamento in concessione può consentire di ottenere costi minori per la possibilità di utilizzare forme di economia di scala, vengono tuttavia formulate alcune osservazioni: il diffondersi di queste forme di gestione dei servizi in concessione richiede nuove forme di controllo da parte del Comune, per le quali spesso mancano le necessarie regole e le idonee competenze, nella burocrazia comunale. Né si può pensare che questi problemi, ampliandosi e crescendo di peso e di dimensione,possano essere risolti sempre caso per caso attraverso il solo strumento delle convenzioni; è necessario rivedere in modo organico la legislazione che disciplina l'attività contrattuale delle P.A. ( e comunque degli Enti Locai), assicurandone anche la coerenza con la normativa europea; nell'ambito di quanto osservato al punto b) va detto anche che non è opportuno procede-
re con singole leggi di settore che prevedono forme e procedure fortemente innovative ma non sempre chiare in tutte le loro implicazioni e applicazioni. L'esperienza compiuta da molti Comuni nel quadro dei mondiali 90 dimostra che la macchina comunale per sua natura per sua natura non ha un grado di elasticità sufficiente per far fronte a ripetute, e spesso contradditori, innovazioni legislative" 59.
Come è ovvio il discorso, anche in questo caso, è diverso da quello che siamo abituati ad ascoltare nella ricorrente "batracomiomachia" degli ultimi anni tutta centrata sulla contesa concessione - si/concessione-no, privati-si/privati-no, e va spostato invece sulla capacità di dettar regole da parte della Pubblica amministrazione, di saperle gestire ed articolare con criteri trasparenti nei diversi settori d'intervento, attraverso adeguate analisi del rapporto tra costi e benefici. Senza la conquista di queste nuove capacità di governo, su cui ripetiamo è determinante il ruolo di indirizzo dello Stato centrale attraverso leggi e regolamenti chiari ed esplicitamente interconnessi, qualsiasi discussione in merito alla bontà" di questo o quello strumento diventa retorica. Analogo discorso vale per le s.p.a. . La novità.è in questo senso notevole perché "il legislatore ha inteso colmare un vuoto normativo da tempo avvertito e segnalato dagli amministratori comunali che vedevano notevolmente ristretto il campo d'azione delle società per azioni comunali dai pareri e dalle decisioni assunte in materia dal giudice amministrativo in sede di interpretazione della precedente normativa"60. E purtuttavia, anche in questo caso, tale strumento può tradursi in innovazione positiva o negativa solo se si individuano precisi indirizzi e modalità della
compartecipazione pubblico-privata, aldilà quindi della maggioranza di capitale pubblico locale prevista dalla legge, e che siano in grado di evitare quelle condizioni che hanno portato gli stessi rappresentanti dei Comuni nelle s.p.a. ad operare "senza alcun raccordo con l'ente che rappresentano" 61 Costituisce inoltre una grave lacuna non aver impostato la questione delle s.p.a. anche relativamente ad operazioni diverse da quelle della sola gestione di servizi pubblici locali: la costituzione di società miste anche per la realizzazione ed eventualmente anche la gestione anche in concessione di interventi di riqualificazione (recupero di parti di centri storici, di aree dismesse, ecc.) è infatti questione all'ordine del giorno, non solo nelle altre nazioni dove costituisce prassi diffusa e regolamentata, ma anche in Italia dove le poche esperienze tentate o in corso si sono scontrate con le mille difficoltà procedurali e giuridiche connesse con la novità del meccanismo e con l'assenza di rifermenti certi ed univoci nella legislazione esistente. L'innovazione organizzativa e la sua diffusione omogenea a scala nazionale non passa solo dunque per la definizione di nuove figure giuridiche esterne o parallele all'ente locale, che ne dovrebbero garantire un livello di maggiore efficienza, ma anche e soprattutto per la precisazione degli strumenti contrattuali e delle loro modalità d'uso e per una contemporanea e profonda riorganizzazione della stessa
macchina organizzativa degli enti locali, senza la quale intraprese pubbliche come la partecipazione a società miste rischiano, anche in considerazione dell'assenza di canali finanziari agili ed adeguati, di es147
sere inesorabilmente risucchiate da logiche privatistiche e di vanificare gli obiettivi stessi di maggiore efficienza. Da questo punto di vista ben venga la nuova professionalità e responsabilità degli uffici e sopratutto dei dirigenti legata all'attuazione degli obiettivi fissati dagli organi elettivi dell'ente locale e all'efficienza della gestione. Ma ciò non basta se non si avvia contemporaneamente una riflessione organizzativa su una diversa strutturazione degli assessorati in rapporto agli obiettivi richiesti dalla riqualificazione territoriale e urbana. Se un ripensamento va effettuato a livello statale sul senso di alcuni ministeri e di alcune direzioni generali nella loro attuale organizzazione (si pensi ai già citati conflitti di competenza tra lavori pubblici, ambiente e aree metropolitane, e alla settorialità di direzioni legate ad esempio alla sola "edilizia residenziale"), non si comprende perché un'analogo ripensamento non debba riguardare anche la scala regionale, provinciale e comunale, con la creazione di nuove competenze e aggregazioni di quelle esistenti e di uffici specifici legati a programmi di intervento intersettoriali. Sappiamo bene tuttavia che, affianco ad alcune esperienze di notevole interesse (come avremo modo di approfondire), convivono tendenze di segno diverso che frantumano ulteriormente anziché ricomporre, e che a volte assegnano competenze non in funzione di settori organici di intervento ma addirittura di singoli oggetti e singole opere. E qui bisognerebbe aprire, ma non è compito di questo scritto, il doloroso capitolo delle profonde differenze di cultura amministrativa e gestionale esistenti tra le diverse aree del paese che non si risolvono, ovviamente, solo con decreti e circolari. 148
Da sole dunque le nuove misure previste dall'ordinamento degli enti locali non sembrano sufficienti, seppur animate da molti 'principi" condivisibili, a risanare uno dei mali più gravi della pubblica amministrazione di questi decenni, e cioè una "incapacità di realizzarsi della spesa pubblica, in particolare di•"quella destinata alle opere e ai servizi pubblici" 62; e che ha portato al superamento delle difficoltà, non attraverso l'avvio di un processo riformatore a vari livelli (riforma dello Stato, riforma elettorale, programmazione economica e territoriale di scala nazionale e riforma della finanza locale, da un lato; regime dei suoli, riforma urbanistica e nuovo regolamento delle opere pubbliche dall'altro), ma attraverso una disinvolta "rimozione" del problema ed una politica senza regole degli affidamenti esterni a società parapubbliche o private. In questo senso anche 1' "accordo di programma' possibilità prima prevista dalla sola L. 64/86 ed ora estesa all'intero territorio nazionale, assume contorni indefiniti e può trasformarsi, in assenza di alcune fondamentali precisazioni, da interessante potenzialità in strumento equivoco o addirittura eversivo. Anche qui, e non ce ne vogliano gli "autonomisti" ad oltranza, sarebbe necessario definire un qualche straccio di regolamento per l'adozione di "accordi" tra le diverse istituzioni ed amministrazioni interessate all'attuazione di opere, interventi o programmi di particolare complessità. E ciò anche in relazione alla eccezionale rilevanza procedurale che l'adozione di un "accordo" produce in termini urbanistici, determinando variazioni automatiche dei piani vigenti a livello locale e sostituendo le concessioni edilizie. Ha senso in particolare lasciare "carta
bianca" ai proponenti (presidente della regione, presidente della provincia, sindaco) senza definire coordinamenti e priorità in rapporto ad una pianificazione di scala regionale e interregionale? Senza insomma un sistema di coerenze e di tempistiche "a monte", una sorta di "contrat di plan" francese che associ i diversi livelli istituzionali "impegnandoli per progetti e programmi precisi individuati come prioritari dalla pianificazione regionale e coerenti con gli obiettivi e le strategie del Piano nazionale"? 63 Sulla base dell'attuale formulazione, è ragionevole pensare che l'accordo di programma, se non si arenerà nelle secche della litigiosità e dei conflitti di competenza insormontabili tra i diversi settori dello Stato e delle autonomie locali, aumenterà le differenze tra aree geografiche istituzionalmente solide e collaudate ed aree istituzionalmente fragili e disorganizzate;. e che eventuali esperienze attuative in queste ultime si realizzeranno sopratutto laddove si coniugheranno la forte presenza propositiva di soggetti privati interessati agli aspetti realizzativi, e l'intreccio-subordinazione degli enti locali e delle amministrazioni statali allettati dall"efficienza" dei proponenti più che dalla necessità, priorità o qualità dell'opera. Ed in tal senso lo strumento dell'accordo diventerebbe il titolo diverso di un romanzo già sentito.
2. RICOGNIZIONE CRITICA DELLE ESPERIENZE E DEI PROBLEMI: PER UNA NUOVA CULTURA DELLA GESTIONE NELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA
Le considerazioni sin qui svolte sulla nuo-
va complessità territoriale ed istituzionale, e sui riflessi che essa produce sul dibattito disciplinare in campo urbanistico, ripropongono con forza il problema di valutare senso e contenuti delle "regole" da inserire nei processi decisionali per una nuova cultura della gestione del piano; ed in particolare spingono alla esplicitazione di alcune "prestazioni" irrinunciabili della pianificazione territoriale ed urbanistica. Il modello di pianificazione spagnola che abbiamo citato nella prima parte di questo scritto ha molto da insegnarci in questo senso. Ed in particolare ci consente di riflettere, più a monte delle strategie di piano e di gestione specifiche di ciascun contesto locale, su un possibile e necessario sistema di condizioni e requisiti-guida dell'azione pianificatoria, partendo dalle esigenze dell'ente locale e valutandone l'incrocio con quelle relative agli operatori, agli utenti e ai tecnici.
La complessità Un primo requisito è relativo alla complessità, che si esprime a diversi livelli, sia quello delle componenti fisiche, sia quello degli interessi e degli strumenti. - È complessità quella che impone di riguardare il territorio come instabile interazione tra componenti antropiche e naturali, tra spinte economiche ed evoluzione dei comportamenti, delle istanze e delle culture delle diverse componenti sociali insediate. Di qui l'esigenza di concepire il territorio in senso globale come sistema fortemente interrelato nei suoi diversi aspetti, dei quali cioè non possono essere trascurati i molteplici condizionamenti reciproci. - È complessità dunque anche quella relativa alla coesistenza, spesso conflittuale 149
di interessi generali e particolari. Interessi generali dei quali è ancora possibile e necessario parlare, nonostante i frequenti tentativi di negarne l'opportunità: e ciò è valido per i caratteri ambientali ed insediativi del territorio, per le sue caratteristiche di organizzazione ed efficienza funzionale, così come per le condizioni di perequazione delle condizioni d'uso e per la necessità di un governo della spesa relazionabile ai benefici auspicati. Ma gli interessi generali non sono un dato statico e immanente, possono modificarsi nel tempo, in funzione delle culture locali, delle composizioni sociali ed economiche, delle disponibilitt di risorse: ed in tal senso la ricerca di interessi generali tende a confliggere con gli innumerevoli interessi particolari, rispetto ai quali è necessario una ricerca dinamica di possibili equilibri complessivi che non possono tuttavia essere affidati alle sole dinamiche di mercato, ma richiedono interventi redistributivi, necessarie penalizzazioni e priorità di obiettivi, in base a criteri trasparenti e comunicabili. - È infine complessità, conseguentemente a tutto ciò, quella degli strumenti di pianificazione e programmazione che hanno il compito di salvaguardare e portare a sintesi la complessità fisica e degli interessi, di garantire il rispetto delle diverse componenti ambientali e insediative e delle diverse istanze economiche e sociali, di definire le "regole del gioco" che consentano ai diversi gruppi e alle diverse funzioni di cdesistere nella stessa parte urbana e nello stesso edificio, pur se all'interno di un'accezione dinamica ed evolutiva ditale complessità. Con tutte le conseguenze immaginabili in termini di nuove procedure di decisione, attuazione e allocazione delle ri150
sorse che tendono a riversarsi nella riforma degli strumenti urbanistici per garantire un coordinamento plurisettoriale delle iniziative di governo degli aspetti fisici, sociali ed economici. La complessità fisica e sociale, la complessità degli interessi generali e particolari, la complessità degli strumenti ur banistici rendono ineludibile il raccordo tra piano e programma come aspetto centrale del processo di pianificazione. Di qui l'esigenza di riaffermare l'idea di una programmazione temporale del piano come uno degli strumenti indispensabili di un'attività stabile di piano e di controllo istituzionale della complessità degli obiettivi posti dal piano in rapporto alle risorse, agli operatori, alla necessaria sequenzialità degli interventi. Di qui anche la necessità di immaginare l'adeguamento del piano in relazione all'evoluzione della complessità stessa delle condizioni reali attraverso una programmazione anche della sua revisione nel tempo, come attività "ordinaria" della sua gestione, sia attraverso scadenze ben definite, sia attraverso l'individuazione di precisi indicatori che siano in grado di segnalare continuamente il rapporto obiettivi/previsioni/stato di fatto e dunque le esigenze reali di aggiornamento.
La flessibilità Un secondo requisito, strettamente connesso al primo, è quello della oramai abusata flessibilità decisionale del piano, della necessità cioè di superare un'idea di piano sincronico, deciso una volta e per sempre, e di immaginarne una struttura decisionale sintonizzata con le diverse velocità richieste dalla modificazione ed in-
terazione delle componenti antropiche e naturali, economiche e sociali in relazione ai comportamenti dinamici• " spontanei" e alle scelte da effettuare e già effettuate; in un'ottica incrementale quindi che sappia coniugare certezza e discrezionalità, controllate da precise regole del gioco. Un aspetto da chiarire in proposito è proprio il rapporto tra complessità e flessibilità. Estremizzando le posizioni, non è difficile immaginare quale possa essere il pericoloso approdo della riflessione su quest'argomento che si oppone a quello della rigidità previsionale. Se complessità è scomposizione in innumerevoli interessi nei quali è ormai impossibile o estremamente arduo, e comunque illegittimo, riconoscere i tratti di un possibile "interesse generale", la flessibilità diventa strumento assai pericoloso: confuso rinvio ad una progettualità diffusa demandata ai singoli casi e/o cornice consapevole di tensioni economiche e di interessi organizzati espressi attraverso comportamenti estranei all'interesse collettivo. Se la complessità è al contrario uno Stimolo a comprendere in profondità i caratteri permanenti e dinamici delle realtà territoriali ed urbane, senza scorciatoie riduttive, la flessibilità si traduce in un'utile
distinzione tra due grandi categorie di "oggetti ". Da un lato ciò che non può e non potrà essere indeterminato e negoziabile e che quindi richiede una specifica ed inderogabile capacità di previsione e di governo dei processi di salvaguardia e di trasformazione da parte dell'operatore pubblico: i caratteri strutturanti dell'ecosistema specifico di un territorio, i caratteri ambientali e paesaggistici fondamentali, la struttura antropica "consolidata" sia all'in-
temo dell'organismo urbano che in tutto il territorio, le regole storiche di formazione e crescita dei tessuti edilizi e le relative stratificazioni temporali nella suddivisione del suolo, i valori emergenti dal punto di vista storico-artistico e la loro correlazione con il sistema "minore" di valori, i connotati socio-culturali ed economici fondamentali che caratterizzano ciascun luogo, la struttura e la dotazione delle reti infrastrutturali, per citare gli aspetti più rilevanti.
E, dall'altro, ciò che può invece conservare un 'alea di parziale indeterminatezza dal punto di vista fisico e quantitativo, ed essere quindi oggetto di una possibile futura negoziazione in relazione alle specifiche modalità progettuali ed attuative. È il caso delle "densità" e di alcuni "standard", che possono essere regolamentati attraverso la definizione di intervalli di escursione prefissati, cui può essere collegata un'analoga escursione di prestazioni e di oneri, attraverso la definizione di norme di tipo comportamentale pubblico-private. Ed è il caso anche delle destinazioni d'uso. Per chiarire con un esempio, le destinazioni d'uso compatibili con l'esigenza della conservazione di un tessuto storico e delle sue parti (delle sue unità edilizie), e quindi coerenti con una scelta di lungo periodo, sono in generale numerose: possono ipotizzare correttamente che un ex convento sia adoperabile come scuola, o come residenza collettiva, o come ufficio, ecc.. Lascerò quindi aperto il "piano", indicando la gamma delle destinazioni d'uso ammissibili per ogni unità edilizia. Ma nel "programma" (o, meglio, nel momento delle scelte a breve periodo), sulla base della domanda sociale in quel momento determinata, sceglierò tra le destinazioni d'uso ammissibili 151
quelle che è necessario impedire, e specificherò (appunto, stringendo la maglia delle possibilità) il contenuto normativo del "piano" 64
La misurabilità e la controllabilità Ma la gestione di questo tipo di flessibilità del piano presuppone il raggiungimento
di condizioni di misurabilità e di controllabilità delle scelte, sia in sede di piano che di gestione del piano. Questa condizione può essere raggiunta solo se l'amministrazione pubblica è in grado di garantire un approfondimento sistematico, nelle diverse situazioni fisiche, sociali ed economiche, di un complesso articolato di norme prestazionali e di indicazioni oggettuali, ma anche di norme di comportamento ancorate a precise metodologie di valutazione dei costi da sostenere e dei benefici da perseguire, delle risorse attivabili e dei soggetti da coinvolgere con le relative propensioni, in sostanza delle possibili alternative compatibili con le coerenze richieste, per dare trasparenza alle decisioni da assumere subito e nel tempo. È innanzitutto l'amministrazione pubblica cioè che deve essere in grado di valutare ed organizzare la domanda e l'offerta all'interno di un quadro di regole certe, e non l'operatore privato ad inventarle e ad imporle. Questo vuoi dire ricondurre le scelte, per quanto possibile a criteri oggettivi e scientifici; questo vuoi dire anche il tecnico e la disciplina devono fare i conti con l'oggettività dei proprio contributo, vuoi dire cioè che la disciplina deve attrezzarsi per fornire un contributo che a sua volta, anzi prioritariamente, esca dalla discrezionalità e dall'arbitrio e sia fornito di rapporti scientifici e per quanto possibile oggettivi. Su questo terreno, per quanto si sia152
no fatti vari sforzi in questi ultimi anni, individuali o collettivi, bisogna dire che l'avanzamento è stato molto scarso, molto più scarso cioè di quanto sia stato per l'aspetto normativo e vincolistico. Questo terreno è quello che vorrebbe perfezionare le tecniche di esplicitazione dei rapporti tra gli obiettivi generali politici, gli obiettivi della pianificazione, e gli strumenti della pianificazione per realizzare gli obiettivi prefissi. Questa interrelazione sistematica, questa continua verifica di riferimento dello strumento ai suoi obiettivi, e degli obiettivi dello strumento agli obiettivi della società, è un esercizio che si fa troppo poco e che bisogna abituarsi ad articolare in tecniche precise di verifica. Bisogna attrezzarsi per avere tecniche di valutazione e di previsione degli effetti degli interventi pubblici e privati e delle alternative possibili, che consentano scelte più oggettive e che mettano sui tavolo dell'operatore che deve scegliere tutti gli elementi di giudizio 65
La conoscenza Da ciò consegue la necessità di più cono-
scenza. Più conoscenza presuppone una nuova cultura intersettoriale che connetta i tempi e le stratificazioni della storia e delle propensioni (dei luoghi, degli uomini e delle attività) in un'ottica unitaria ed interattiva. Ma ciò non basta. Così come è auspicabile una flessibilità del piano ed una processualità controllata delle scelte, così la conoscenza deve costituire una componente dinamica ed un'attività stabile nella gestione del piano, in grado di supportare con continuità i momenti valutativi e decisionali e le stesse previsioni progettuali via via elaborate. Di qui l'esigenza di un sistema informativo per la Pubblica Amministrazione, a tut-
ti i livelli, come fattore irrinunciabile della politica di piano e come condizione necessaria per un governo democratico del territorio. Ma la conoscenza non è solo uno strumento interno alla Pubblica Amministrazione e alle sue esigenze organizzative e pianificatorie. La conoscenza è anche uno strumento di dialogo fondamentale con gli utenti e gli operatori: il confronto, la presentazione e la divulgazione del piano nei diversi momenti della sua formazione ed attuazione sono strumenti centrali di gestione che coinvolgono la capacità di creare consenso attraverso una strategia capillare di pubblicizzazione; e nello stesso tempo forniscono un'ulteriore terreno di democrazia aldilà delle procedure amministrative tradizionali.
Infine l'esistenza di amministrazioni locali sintonizzate programmaticamente sui tempi medi e lunghi, condizione che non può prescindere da una profonda riforma del sistema elettorale che ridia centralità ai programmi, alla valorizzazione delle capacità tecnico-politiche del futuro per sonale politico, alla riscoperta di una reale autonomia politica dei governi locali. Solo in questo modo è possibile ridarè certezza e chiarezza al rapporto tra la sfera delle decisioni politiche e quella delle decisioni tecniche, sottoposto oggi ad una variabilità di comportamenti e di atteggiamenti e alla mutevolezza delle esigenze di un quadro politico-amministrativo perennemente instabile; solo così è possibile cioè creare le condizioni gestionali di una pianificazione stabile e continua.
L 'cfficacia e l'efficienza
IPOTESI DI cOMPORTAMENTO INNOVATIVO NEL
Ma tutto ciò non ha senso senza il raggiungimento di condizioni di efficacia e di efficienza della Pubblica Amministrazione, che richiedono più capacità di governo e quindi più stabilità e continuità politica, tecnica ed amministrativa. Presupposti indispensabili di questi requisiti sono tre condizioni fondamentali. In primo luogo la ridefinizione complessiva delle modalità e degli assortimenti a disposizione per l'erogazione della spesa pubblica in grado di traguardare obiettivi dai contenuti integrati e non settoriali con la massima mobilitazione delle risorse esterne. In secondo luogo la costituzione di strutture tecniche adeguate alle necessità complesse della riqualificazione, attraverso una profonda riforma delle attuali formule organizzative, ed adeguate alle nuove complessità del piano e della sua gestione.
MODALITÀ A1TUATIVE
RAPPORTO TRA PIANO GENERALE, STRUMENTI E
Un primo aspetto su cui è possibile oggi individuare alcuni punti fermi è quello relativo alle modalità attuative del piano generale, e dunque alle caratteristiche del processo di pianificazione che prende avvio con la sua formazione. Alcuni dei punti più qualificanti di una nuova impostazione in materia, così come sembrano prendere corpo da alcune esperienze concrete, sono riconducibii ai seguenti quattro aspetti: - la revisione critica dello "zoning" e delle categorie d'intervento; - il superamento dell"iter a cascata" della pianificazione; - l'introduzione del concetto di "programma integrato"; - la centralità della "fattibilità" all'interno di un diverso criterio di valutazione ed erogazione delle risorse. 153
I nuovi caratteri dello "zoning" e delle categorie d 'intervento La reinterpretazione degli strumenti dello "zoning" e delle categorie d'intervento come modalità previsionali ed attuative è da tempo al centro dell'attenzione dei nuovi piani. Scontata la fase del rifiuto aprioristico dello "zoning" come tecnica "tradizionale" dell'urbanistica da additare tra i responsabili principali non solo dell'inaridimento disciplinare ma anche dello stesso sfascio urbano degli ultimi 40 anni, sembra oggi possibile riparlare in termini diversi di questo problema. Oggi è forse più chiaro che porre attenzione ai fenomeni della rendita non era puro economicismo, perché questa ci aiuta a capire il riflusso delle operazioni immobiliari dalla crescita a macchia d'olio in estensione (rendite assolute), ai luoghi privilegiati di alto valore concentrato (rendite differenziali). Come dovrebbe essere più evidente che la selezione dei gruppi sociali e delle funzioni all'interno della città è determinata dalle contraddizioni della società e non dallo zoning, che al contrario può essere usato per opporsi a quelle contraddizioni e non solo per favorirle. Né sembra poi così difficile accettare lo standard per quel che significa la parola, cioè una bandiera capace di simboleggiare elementarmente il desiderio di qualificazione sociale urbana: in fondo c'è da scandalizzarsi assai più per la mancanza di servizi nelle nostre città, che non perché leggi e norme ne abbiano dovuto calcolare le dimensioni minime 66 •
Alcune delle esperienze urbanistiche degli anni '80 67 hanno approfondito e articolato l'idea di zoning, estendendo una metodologia di analisi e controllo concepita per i 154
tessuti edificati di antico impianto fin agli anni '60 e '70 a tutto il territorio edificato, fino ai quartieri popolari del dopoguerra, agli stessi interventi pubblici delle "167" e alla città abusiva e spontanea. Vengono
cose superati i tradizionali criteri di destinazione tra città storica e città moderna riferiti ad una desueta classificazione in termini di datazione, ancorandosi invece ad un più complesso concetto di "consolidamento" dei caratteri urbani. (Possiamo dunque) rinunciare all'equivoca nozione di "centro storico" contrapposto alle espansioni dell'ultimo secolo assurdamente dichiarate "non storiche", e assumere come determinante la nozione di ambiente differenziato scalarmente per ciascun luogo della città e del territorio. Caso mai potranno distinguersi i luoghi costituenti• " ambiente consolidato", nei quali l'organizzazione edilizia abbia raggiunto una relativa sistematicità di caratteri unitari, di completezza, sempre relativa, di assetto, da quei luoghi definibili come ambiente non consolidato o in via di consolidamento, nei quali vige un assetto provvisorio determinato da una serie di interventi ancora sporadici, ancora non correlati nel raggiungimento di una sistematica organizzazione 68
Questo approfondimento dell'analisi e della classificazione dei tessuti insediativi passa per una individuazione particolareggiata, già in sede di PRG, dei caratteri strutturanti e di quelli prevedibili ed ammissibili, fondata sull'incrocio tra fattori fisici e tipomorfologici, socio-economici e d'uso delle diverse aree "omogenee" individuabili, nel quadro quindi di un'analisi, salvaguardia o ricerca di quell'assortimento funzionale e sociale che costituisce un requisito centrale della complessità urbana e dell'azione pianificatoria stessa.
Si è allora elaborato un uso dello zoning che, lungi dal favorire separatezze funzionali, serva a garantire le integrazioni, all'interno delle diverse zone e perfino all'interno dei singoli edifici: con l'indicazione delle destinazioni prevista in termini percentuali massime e minime, magari suggerendo i piani terreni e quelli inferiori per le attività produttive e i superiori per quelle residenziali. Ciò vale tanto per le rare zone di nuovo impianto, dove sarà il piano particolareggiato a tradurre in pratica l'indicazione polifunzionale della normativa; ma vale anche per la maggior parte dei tessuti esistenti, stimolati dal mercato o dal piano a trasformazioni quantitative e specialmente qualitative, dove la norma garantisce che ogni singolo intervento contribuisca alla polifunzionalità dell'insieme 69
In tal senso questa metodologia di zonizzazione tende di fatto a superare l'impostazione della legge urbanistica del '42 tutta centrata sulla sola gestione dell'espansione urbana, e soprattutto quella del D.M. 2.4.68 che distingueva le zone omogenee o in base a criteri di tipo "qualitativo", come per le zone "A" ed i relativi valori storici, artistici e ambientali, o in base a criteri di tipo "quantitativo", come per le zone "B" e "C" con i relativi parametri di modificazione parziale o totale, o ancora in base a criteri di tipo rigidamente monofunzionale come per le zone "D", "E" ed "F". Ad essere coinvolti da questa diversa impostazione dell'idea di zoning sono conseguentemente anche le stesse "categorie d"intervento' Come è noto l'esigenza di una loro individuazione particolareggiata viene esplicitata con l'articolo 31 della L. 457 del '78, che definisce 5 diverse classi (manutenzione ordinaria e straordinaria, risanamento e restauro, ristrutturazione e-
dilizia ed urbanistica) da utilizzare nelle "zone di recupero" previste dall'art. 27 della stessa legge. È evidente tuttavia che il tendenziale abbandono diuna rigida delimitazione tra città storica e città moderna pone il problema di una estensione della perimetrazione ditali zone ad aree più vaste, e conseguentemente di valutare l'impatto di quella tastiera di possibilità anche ad altre tipologie di situazioni insediative ed edilizie. In questo senso le tradizionali critiche avanzate all'art. 31 negli anni '80 si coniugano a quelle relative ad una sostanziale inadeguatezza di quelle categone alle nuove condizioni d'intervento nelle altre parti urbanizzate. Va perciò valutata negativamente la confusione tra categorie urbanistiche ed edilizie, l'eccessiva escursione interpretativa della "ristrutturazione urbanistica" in rapporto alle esigenze di recupero urbano ed edilizio, l'assenza di una categoria puntuale della sostituzione, la prevalenza di un'idea del recupero come solo ripristino di condizioni originarie, il carattere vincolistico legato alla "pesantezza" dell'intervento e non ai caratteri tipomorfologici e costruttivi dei tessuti edificati esistenti, l'inesistenza di categorie d'intervento per gli spazi vuoti o dismessi e per quelli pubblici. Le ipotesi che sono state avanzate per una "riforma" dell'articolazione attuale sono state molteplici. In particolare ci sembra utile sottolineare le seguenti °: - la necessità di una suddivisione chiara tra categorie urbanistiche ed edilizie, e quindi tra le indicazioni relative al livello della "parte" urbana e quelle relative al singolo organismo edilizio e del singolo spazio; - l'articolazione delle indicazioni relative al primo livello in almeno 2 grandi categorie, quella relativa ai tessuti edilizi e quella rela155
tiva agli spazi pubblici, anche in considerazione dei due grandi campi di operatività gestionale privata e pubblica, con possibilità d'intervento oscifianti tra la "manutenzione" e la "ristrutturazione" urbanistica a seconda dei caratteri auspicati della modificazione urbana; - lo scorporo della manutenzione dalle "categorie d'intervento" ed il suo inserimento in una diversa accezione tecniconormativa che la configuri come un'attività continuativa di conservazione e di progressivo e compatibile adeguamento degli standard raggiunti con gli interventi di recupero o di nuova edificazione, attraverso programmi temporalizzati per la gestione del patrimonio ediizio. - una diverra articolazione delle categorie alla scala edilizia: di qui l'inserimento di categorie puntuali per il cosiddetto "recupero urbano di base" (dalla conservazione o trasformazione del sistema delle permanenze e delle gerarchie esistenti, a quella relativa al sistema dei percorsi e delle reti, dal consolidamento o la modificazione dell'abitato e delle sue caratteristiche oroidrografiche all'inserimento di nuovi connotati funzionali e simbolici) e nello stesso tempo l'accorpamento delle categorie edilizie alle sole tre possibilità della conservazione, della sostituzione e del completamento. In quest'ottica, l'accorpamento degli interventi di conservazione all'interno di una categoria unitaria esprime la necessità di valutare l'intervento di recupero attraverso un sistema di regole comportamentali, prestazionali e oggettuali, così come avremo modo di approfondire pii) avanti, e non attraverso rigide distinzioni d"intensità", potendosi individuare infinite combinazioni e sovrapposizioni tra aspetti manutentivi, ristrutturativi e restaurativi 156
nel processo progettuale di uno stesso intervento, con caratteri quindi di grande complessità che non possono essere rigidamente predeterminati in sede di piano. Conseguenza notevole di questa diversa impostazione, nel caso dei tessuti edilizi esistenti, è quella di una possibile sostanziale trasformazione delle procedure previste dalla L.457. Il piano potrebbe infatti determinare le modalità dell'intervento attraverso l'incrocio tra le categorie d'intervento (in base alla nuova accezione di tipo qualitativo e non quantitativo) e l'attribuzione, alla scala della "parte" urbana e del singolo edificio o spazio, di una specifica classe tipomorfologica di appartenenza con le relative specifiche in termini di requisiti connotanti e di trasformazioni fisiche consentite e/o prescritte, coerenti e compatibili con quei requisiti. È questa la strada che sembra indicare, ad esempio, la recente proposta di variante generale al PRG di Venezia per il centro storico 7, in cui lo straordinario livello di approfondimento analitico preliminare ha• consentito di definire l'appartenenza ad una precisa classe tipomorfologica per ciascuna delle cosiddette "unità di spazio" del C.S., e cioè sia per gli spazi inedificati che per i manufatti edilizi, in base ad un ricco e documentato "abaco" di casi. L'abaco viene costruito attraverso il riconoscimento e l'identificazione delle "regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento umano considerato, attraverso i segni della loro permanenza nelle caratteristiche dell'or ganizzazione territoriale, dell'assetto ur bano, dell'impianto fondiario, nonché delle caratteristiche strutturali, tipologiche e formali" 72 Per ciascuna tipologia di" unità" viene quindi fornita una scheda descrittiva dei
requisiti fondamentali con le indicazioni relative alle trasformazioni fisiche e alle utilizzazioni compatibili, a cui è correlato un "manuale del recupero" che definisce anche gli aspetti costruttivi e di dettaglio delle operazioni possibili.
In tal modo si apre la strada per uno slittamento 'a valle" dell 'identificazione dei livelli di 'pesantezza" dell'intervento, alla fase cioè della richiesta da parte del soggetto richiedente di un'autorizzazione o di una concessione a costruire, attraverso quindi un'autocertificazione legata ad una individuazione di precisi parametri progettuali di tipo prevalentemente quantitativo (ad esempio, la modifica delle superfici utili) in base ai quali valutare le caratteristiche del permesso sindacale, di tipo appunto autorizzativo o concessorio. Certo una procedura di questo tipo non risolve l'annoso problema della capacità di controllo delle trasformazioni.edilizie da parte degli Enti Locali, della sua efficacia e tempestività in relazione alle possibilità offerte dal silenzio-assenso per le opere soggette a sola autorizzazione. Purtuttavia il problema assume in tal caso contorni diversi da quelli verificatisi con l'attuale regime dell'articolo 31, con la scandalosa prassi cioè delle ristrutturazioni veicolate sotto la voce di "risanamenti" e "manutenzioni". Il controllo di tipo qualitativo esercitato da una normativa tipomorfologica e costruttiva collegata ad una precisa identificazione delle "classi" edificio per edificio, spazio per spazio, tende infatti a spostare il problema verso una più agevole capacità di identificazione di tipo prevalentemente quantitativo delle caratteristiche dell'intervento ai fini della determinazione del regime autorizzativo o concessorio, con o senza onerosità,
senza coinvolgere gli aspetti sostanziali e qualitativi dell'intervento stesso. Restano le questioni di carattere economico per l'amministrazione pubblica, la definizione cioè dell"onerosità" delle operazioni, che tuttavia hanno le loro origini non tanto nella scelta tra predeterminazione delle categorie o autocertificazione regolata, quanto nell'attuale quadro normativo che ha inopinatamente modificato gli obblighi concessori previsti dalla 457, estendendo il campo autorizzativo agli interventi di restauro e risanamento conservativo con la L. 94/82 è alla realizzazione di parcheggi con la L. 122/89, e che ha svincolato pressoché completamente il campo delle "opere interne" e degli adempimenti relativi alla L. 13/89 dalla richiesta di concessione e di autorizzazione. È su questo aspetto, confusamente regolamentato da successivi e disorganici provvedimenti legislativi, che occorrereb-
be intervenire per riportare ordine, equità e coordinamento di obiettivi e strumenti, nel rapporto tra gratuità/onerosità degli interventi di trasformazione fisica in relazione agli incrementi di valore e/o alle mod,fìcazioni di superficie e di destinazione d'uso, da un lato, e caratteristiche della fiscalità degli immobili anche in relazione alla nuova autonomia impositiva degli Enti Locali e alla parallela riforma del Catasto, dall'altro. In tal senso il dibattito sviluppatosi negli anni '80 in merito al riordino della fiscalità immobiliare, e le recenti proposte di legge da parte del Governo 73 sembrano far emergere una nuova consapevolezza circa la necessità di collegare il riordino del sistema impositivo con gli indirizzi di politica abitativa. Lo srumento fiscale, lungi dal risultare indif157
ferente e neutrale rispetto agli obiettivi della politica abitativa, influisce in misura non irrilevante nel determinare o meno il raggiungimento di questi ultimi. È convinzione generalmente'diffusa, oramai, che occorre armonizzare la leva fiscale con gli altri più tradizionali strumenti dei pubblici poteri, per evitare che essa venga ad esercitare - come è avvenuto nel passato — stimoli contraddittori rispetto alla logica dei provvedimenti via via adottati sul terreno della questione abitativa. .Un nuovo assetto del sistema impositivo armonizzato con gli altri strumenti della politica abitativa deve inoltre essere congegnato in meccanismi semplici e di facile manovrabilità,. se vuole conseguire risultati efficaci. Si deve puntare soprattutto a un elevato grado di operatività: il tentativo di utilizzare più razionalmente la leva fiscale non deve riprodurre quei fenomeni di scollamento tra obiettivi perseguibili in base alla normativa vigente e capacità di dare agli obiettivi stessi concreta attuazione che purtroppo risultano molto diffusi nel settore abitativo 74.
La "babele" dei piani di dettaglio e il superamento dell'"iter a cascata" Una conseguenza rilevante di questa maggiore e diversa attenzione ai caratteri dello zoning e delle categorie, d'intervento è la modificazione anche del rapporto tra piano generale e modalità attuative dello stesso, ed in particolare il superamento o comunque la profonda revisione dell"iter a cascata" che ha tradizionalmente previsto sino ad ora un rinvio generalizzato di qualunque decisione attuativa alla redazione di strumenti di dettaglio. Il nuovo PRG tende infatti a selezionare e distinguere con precisione le aree e gli immobili per i quali, in relazione ad una 158
serie di valutazioni sulle condizioni di degrado fisico, sociale e/o economico, sulle caratteristiche di "propensione all'investimento", sul ruolo strategico dell'intervento e la sua appetibilità, si rende necessario rinviare a "veri e propri piani attuativi, di natura strategica e progettuale, la specifica disciplina d'intervento" 75; e quegli altri per i quali, al contrario, una maggiore "ordinarietà" delle caratteristiche intrinseche ed una previsione di basso o nullo "rischio", consente di prevedere interventi edilizi diretti, pubblici e/o privati, governati da specifiche normative a diversi gradi di flessibilità o da piani di settore. Lungo questa strada si tende a ricondur-
re in seno al PRG quelle valenze urbanistiche impropriamente attribuite nel passato a piani di dettaglio inutilmente estesi e difficilmente gestibili, individuando per questi ultimi una più corretta e appropriata dimensione edilizia. È la strada seguita in molti PRG soprattutto di città medie e grandi, pur con notevoli sfumature da caso a caso. Come nel caso del Progetto Preliminare al PRG di Firenze del 1985, dove a questo comportamento attuativo si è associato soprattutto il riconoscimento di una valenza strategica delle cosiddette "aree-programma" sottoposte a piani di dettaglio. Ne vien fuori una strategia di piano che è un misto di "soft" e di "hard" per usare termini di moda, dolce o forte, estensiva o intensiva a preferenza: dove le aree ad azione estensiva sono la grande maggioranza ( ... ) e quelle ad azione intensiva la piccola minoranza. E dove risulta la logica della nuova urbanistica qualitativa: affidare a pochi interventi-chiave, che coinvolgono il grosso degli investimenti privati e pubblici disponibili, la strategia del cam-
biamento ; da sostenere e approfondire però nei tessuti omogenei con tante capillari trasformazioni, più private che pubbliche, sostenute più dal risparmio piccolo e medio che dal grande finanziamento, capaci comunque di produrre nell'insieme risultati qualitativi di altrettanto valore 76,
tempo non sempre la loro caratterizzazione configura una dimensione edilizia dello strumento di dettaglio che le governa: tali strumenti, anzi, anche in ragione talvolta della estensione dei perimetri delle aree e della titolarità dei suoli, tendono a riconfigurare un demando degli stessi contenuti urbanistici ad una contrattazioLe "aree-programma" non sono in fondo ne successiva dai contorni incerti. molto diverse dalle cosiddette "zòne integrate di settore" del coevo PRG di BoloIl 'brogramma integrato ", nuova parola gna, nelle quali sono compresi gli "interd'ordine venti insediativi interstiziali" che danno luogo alla "struttura urbana di riferimenL'insieme di queste riflessioni conduce ad to" 77; lo stesso vale per le "aree-progetto" un approfondimento sulla natura stessa del nuovo PRG di Ancona, in contrappodegli strumenti urbanistici attuativi. sizione alle "zone a tessuto omogeneo" L'esaurimento delle grandi espansioni ursede delle "trasformazioni urbanistiche bane ed il passaggio da una fase di recudiffuse" 78 pero edilizio ad una di riqualificazione urL'elencazione dei casi potrebbe continuabana mette in crisi infatti tutto lo strumenre, con la sensazione tuttavia che le indivitario predisposto dal dopoguerra ad oggi. duazione delle aree da svincolare ad interLa diversa caratterizzazione delle condiziovento diretto e di quelle da sottoporre ad ni d'intervento, centro e periferia, nuovo e una pianificazione di dettaglio non semrecupero, residenza e terziario, pubblico e pre faccia riferimento a quello sforzo di privato, tessuti ed emergenze, e la loro codistinzione tra luoghi della "regola" e luoesistenza spesso all'interno delle stesse aghi "eccezionali" auspicato da Secchi 79, e ree, rende desueti gli strumenti urbanistiad una pacata valutazione circa la necessici a disposizione che hanno sin qui teso, tt di articolare la tastiera degli strumenti e sia nell'aggettivazione stessa del tipo di delle modalità attuative in funzione delle piano sia nei meccanismi formativi ed atreali e differenziate necessità di controllo. tuativi, ad interessare solo uno dei due terNon sempre cioè gli "interstizi", i "vuoti" mini di ciascun binomio. e le "aree dismesse" assumono, o hanno Divengono quindi inefficaci, in situazioni diritto/capacità di assumere, nel contesto di complessità, i Piani di edilizia econourbano il ruolo di" eccezioni" ordinatrici: mica e popolare, senza commercio e sena sospingere tali aree verso ruoli non neza commistione sociale, o quantomeno cessariamente ad esse congeniali è a volquell'estensione del loro uso a cui eravate più la pressione degli operatori e dei mo abituati; analogo discorso vale per i relativi interessi in termini di rendita fonPiani degli insediamenti produttivi, che si diaria che una valutazione delle alternatidimostrano rigidi nel governare i processi ve in base ad una conoscenza e ad una di riconversione delle aree industriali esivisione progettuale complessiva da un stenti; lo stesso vale per i Piani di recupepunto di vista urbanistico. Allo stesso ro, che non sono stati in grado di prefigu159
rare modalità di controllo e di erogazione delle risorse efficaci per una pluralità di esigenze sociali ed economiche. La nuova parola d'ordine diviene allora il "programma organico" o "integrato" che
dir si voglia, uno strumento cioè allo stesso tempo di pian/icazione urbanistica
attuativa e di programmazione finanziaria, in grado di prefigurare un preciso coordinamento dei soggetti e delle risorse in "aree-obiettivo" per il raggiungimento di risultati predeterminati e controllabili, in cui cioè una pluralità di fattori (urbanistici, fisici, sociali, economici) rende necessario un impegno specifico dell'amministrazione pubblica ed un raccordo operativo e finanziario con gli operatori privati. A parlare oggi di programmi organici o integrati è tutto il mondo istituzionale, dal Parlamento ai Ministeri alle Regioni. L'VIlI Commissione Permanente del Parlamento (Ambiente, territorio e lavori pubblici) nel testo di disegno di legge FerrariniBotta, ne parla all'art. 23, laddove definisce il ruolo di promozione della "riqualificazione del tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale" di tale strumento ed una loro caratterizzazione in base alla "presenza alternativa o integrativa" di pluralità di funzioni e destinazioni d'uso; integrazione di diverse tipologie d'intervento: recupero, nuove costruzioni, acquisizione di patrimonio esistente, opere di urbanizzazione, interventi di tipo ambientale ; concorso di più operatori e di risorse finanziarie pubbliche e private per la realizzazione degli interventi previsti; valenza urbana ed ambientale del progetto.
Con toni e obiettivi diversi anche lo schema di disegno di legge elaborato recente160
mente dal ministro Prandini e recante "disposizioni in materia di edilizia residenziale" affronta il tema nell'art. 20 quando parla di "programmi integrati di riassetto urbano" intesi come "interventi di trasformazione urbanistica, con particolare riferimento alla ristrutturazione dei centri urbani ed al recupero edilizio", equiparandoli a PPE o PdR e prevedendo la possibilità che essi possono comprendere edifici singoli, pluralità di edifici, edifici ed aree libere da costruzione ; possono prevedere demolizione e ricostruzione degli edifici esistenti, nuove edificazioni, traslocazioni e concentrazioni volumetriche, trasferimento di funzioni e di destinazioni sia per le parti edificate, sia per le aree destinate a pertinenza degli edifici, standards, parcheggi, etc... Possono altresì comprendere pluralità di funzioni: residenziale, terziario, commerciale, artigianale, ecc., articolate in relazione all'ubicazione territoriale del programma, alla sua dimensione, alle finalità del recupero anche urbanistico da esso previste.
In quest'ultimo caso tuttavia il provvedimento sembra echeggiare più i toni della procedura straordinaria e della deroga agli strumenti urbanistici che quelli della individuazione di una riforma organica della procedura ordinaria di formazione, approvazione e gestione degli strumenti urbanistici particolareggiati; più quindi gli obiettivi di accelerazione di operazioni episodiche e territorialmente sperequate sostenute da forti interessi privati prima ancora che pubblici, che quelli di snellimento e miglioramento d'efficacia delle politiche urbanistiche dei Comuni in funzione dei reali livelli di necessità previsti dalla pianificazione vigente. È infatti e-
splicito il riferimento alla deroga sotto forma di variante automatica alle previsioni degli strumenti urbanistici esistenti in caso di difformità da questi, e al "silenzio-assenso" in caso di ritardata valutazione da parte degli Enti competenti per la gestione di eventuali vincoli relativi all'area interessata dal Programma integrato. Di conseguenza l'equiparazione fatta tra Programma integrato e PPE o PdR, sicuramente auspicabile all'interno di un'organica riforma urbanistica, assume in questo caso i connotati di un sostanziale rovesciamento delle procedure che legano i piani di dettaglio al PRG, in nome del superamento delle "gabbie" imposte da quest'ultimo. Sia nel testo ministeriale che in quello parlamentare, inoltre, non sono precisati i criteri di valutazione per la selezione dei programmi, con il rischio di determinare quindi un'incontrollabile escursione di comportamenti della Regione, deputata alla loro approvazione, a tutto danno della trasparenza delle decisioni di spesa in merito. La legislazione regionale, dalla cui esperienza del resto ha preso le mosse la recente attività legislativa nazionale, sembra offrire spunti più interessanti. Dopo il "testo unico" elaborato dalla Regione FriuliVenezia Giulia nel 1982 in materia di edilizia residenziale che prevedeva la formazione di "progetti finalizzati", non v'è dubbio che le indicazioni legislative più rilevanti siano venute dalle Regioni Lombardia e Liguria. La cosiddetta legge-verga 22/86 della Regione Lombardia e le recenti " norme per l'attuazione dei programmi di recupero edilizio ed urbanistico" del febbraio '90 hanno decisamente spinto in direzione di una ricomposizione e chiarificazione del
processo pianificatorio ed attuativo, attraverso una accelerazione delle procedure dei programmi stessi, "equiparati ad ogni effetto ai piani di recupero del patrimonio edilizio", ed una chiara individuazione degli elementi da valutare ai fini dell'approvazione dei programmi a scala regionale. La Regione Liguria va oltre, con la L. 25/87 e le successive deliberazioni 80, laddove definisce modalità innovative di erogazione delle risorse in conto interessi e in conto capitale assieme ad alcuni criteri per la loro ripartizione territoriale: criteri definiti, oltreché in funzione di una valutazione degli elementi suddetti, anche in rapporto ad un'analisi del degrado per "unità minime di territorio costituite da tessere di comuni omogenei", a più complessive indagini quindi a scala regionale e agli indirizzi della programmazione regionale di settore. Questi fermenti e questi primi risultati echeggiano, a volte anche in modo distorto, analoghi indirizzi presenti oramai da tempo nel quadro legislativo europeo in materia. È il caso di ricordare ancora l'esperienza francese, ed in particolare due strumenti, diversi tra loro per finalità e modalità attuative, ma riconducibili in fondo alla stessa esigenza di " programmazione integrata": la ZAC (Zone d'Aménagemenconcerté) e l'OPAH (Opérations Programmées d'Amélioration de l'Habitat), l'una più centrata sulle operazioni di riqualificazione urbana in senso trasformativo di parti nodali del tessuto urbano, l'altra su operazioni più "dolci" di prevalente conservazione. Si potrà discutere (e bisognerà tenerne in dovuto conto) delle recenti tendenze perverse che hanno fatto parlare di un "uso selvaggio" delle ZAC
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e di uno scivolamento progressivo, nell'uso di questo strumento, da una tipologia di" carattere pubblico" realizzata dai Comuni direttamente o da società miste pubblico-private, ad una di "carattere privato" affidata cioè ad operatori privati in base ad una concessione. Ma non v'è dubbio che sia la ZAC che l'OPA}l sono incardinate in un sistema di regole ben diverso da quello esistente o che si intende perseguire in Italia. Innanzitutto là promozione delle iniziative è di regola sempre dell'operatore pubblico, spesso in accordo con lo Stato o con altri organismi come 1'ANAH. Inoltre la individuazione ditali operazioni configura strumenti ordinari del processo pianificatorio, ed è perciò sempre coerente con gli strumenti urbanistici vigenti, in particolare con lo SDAU (Schéma Directeur d'Aménagement et d'Urbanisme). La loro realizzazione è peraltro governata da protocolli ben precisi, come ad esempio il "quaderno d'oneri" delle ZAC che definisce tra l'altro un persistente controllo pubblico delle operazioni affidato ad una pubblica amministrazione forte, sia dal punto di vista tecnico che manageriale. A ciò si associa un controllo relativo al regime dei suoli che fa riferimento ad una precisa legislazione e che, nel caso della maggior parte delle ZAC, consente il ricorso all'esproprio e la dichiarazione di "pubblica utilità" per poi governare la successiva gestione diretta delle operazioni o la cessione controllata dell'area. Inoltre, sempre più tali operazioni tendono ad uscire da un'ottica puramente edilizia per collegarsi ad un più ampio concerto di iniziative di tipo economico e sociale; nelle OPAH infatti le operazioni di rivitalizzazione dei quartieri degradati coniugano l'intervento sul patrimonio edili162
zio alla riqualificazione degli spazi pubblici, alla creazione di attrezzature, allo sviluppo delle attività commerciali ed artigianali. Una impostazione che ha trovato poi, in "Projet de Quartier", la sua espressione più matura attraverso il coordinamento di iniziative rivolte non solo alla migliore qualità fisica, ma anche allo sviluppo economico e sociale, mobilitando quindi investimenti integrati per il raggiungimento di obiettivi complessi. Infine va considerata la questione delle risorse pubbliche. Le punte più avanzate del dibattito e di alcune esperienze in corso hanno messo in luce, nel caso degli interventi di riqualificazione, la necessità di una maggiore articolazione e flessibilità nella loro erogazione che contemperi le esigenze innovative di sostegno pubblico "alla pietra" (senza considerare cioè i requisiti soggettivi della proprità), con quelle tradizionali di sostegno diretto "alla persona", in base ai reqùisiti di ammissibilità all'edilizia agevolata. In Francia, nelle OPAH, è già da tempo operante un sistema che prevede, accanto ai tradizionali canali lell'esproprio e del sovvenzionamento totale o dello speculare autofinanziamento privato, una vasta gamma di soluzioni intermedie che vanno dai prestiti convenzionati e agevolati, con o senza limitazioni di reddito, ai contributi, ai mutui agevolati, alle sovvenzioni a copertura parziale. È l'assenza di queste condizioni a rendere oscuri i destini dei nostri• " programmi integrati" prossimi venturi anche in relazione all'uso di eventuali "accordi di programma" che assumerebbero così il carattere di "procedure straordinarie" secondo un modello che tende a mantenere
una continuità dell'intervento ordinario per garantire il vasto coacervo di interessi che esso coagula (piccole e medie imprese, apparato pubblico, diffusione capillare dei finariziamenti, etc.) affiancandovi un intervento straordinario, cui sono interessate in primis le amministrazioni locali (a prescindere dal tipo di coalizione politica) 81
Fattibilità degli interventi e contabilità urbana Per chi redige piani e progetti il problema della valutazione economica degli interventi e della loro fattibiità è sempre stato generalmente un "buco nero". Un argomento da affidare agli specialisti o peggio un aspetto non rientrante nelle competenze dell'architetto e dell'urbanista. E questo sia nel mondo professionale che nella Pubblica Amministrazione. Gli esiti di questo atteggiamento culturale, o meglio di questa assenza di cultura, sono stati gravissimi nella cosiddetta fase dell'espansione: al punto da aver fatto parlare di un fenomeno di pubblicizzazione dei costi e di privatizzazione dei benefici dell'espansione urbana negli anni 60 e 70, quando cioè, in assenza di una moderna regolamentazione del regime dei suoli da parte dell'operatore pubblico, la collettività finiva per attribuirsi più o meno integralmente i costi delle nuove urbanizzazioni operando di fatto una valorizzazione della rendita fondiaria 82 Quanto di peggio cioè è possibile auspicare dal punto di vista del rapporto costibenefici per l'investimento pubblico. Le modifiche introdotte negli anni 60 e 70 hanno solo parzialmente corretto il tiro: da un lato le leggi "167" e "865" con le nuove ma quantitativamente e qualitativamente limitate possibilità di controllo
delle aree edificabili, dall'altro le politiche di recupero dei centri storici avviate in alcune città del centro-nord in opposizione allo "spreco" urbano e alla crescita incontrollata comunque e dovunque, hanno avviato una riflessione più ampia e diffusa sulle gravi conseguenze di un'assenza di governo anche "economico" dello sviluppo fisico delle città. Le ulteriore novità della legge "10", in merito al recupero alla collettività degli oneri di urbanizzazione e alla contestata separazione del diritto di proprietà da quello d'edificazione, avevano aperto un capitolo nuovo, rapidamente chiuso dalle successive sentenze di incostituzionalità del 1980, 1982, e 1983 che sembravano sancire così, assieme al rapido esaurimento della fase espansiva, anche il declino delle capacità di governo pubblico del regime dei suoli. Ma i problemi del controllo economico della costruzione della città non si esauriscono evidentemente con la fase della nuova urbanizzazione. Il "ritorno al centro" di una serie di investitori privati e parapubblici con le relative tensioni sul mercato immobiliare, la permanenza in molti centri storici del Paese (ad esempio di quelli meridionali) di ampie fasce di esasperato degrado, la coesistenza di una pluralità di utenti da salvaguardare e l'elevato livello qualitativo del patrimonio insediativo ed edilizio, pone oggi seri problemi all'Amministrazione Pubblica nella gestione delle risorse scarse ad essa attribuite anche relativamente alle necessità di riqualificazione della città costruita. Uno degli aspetti centrali in questo contesto, così come sta emergendo nelle esperienze legislative ed attuative nelle Regioni e nei Comuni più avanzati dopo l'in163
successo attuativo della 457, è appunto la
capacità di prefigurare e valutare le diverse condizioni di fattibilità" degli interventi da realizzare, e di far corrispondere ad essa un preciso e controlla bile rapporto tra costi, qualità ed esiti sociali, culturali ed ambientali. In un momento in cui il problema della gestione del piano pone seri problemi alla struttura e alla forma del piano stesso, la 'verifica di compatibiità dell'intervento" 83, e dunque la valutazione non solo monetaria degli effetti indotti dai processi di trasformazione, diventa aspetto ineludibile della strumentazione urbanistica. Il problema cioè travalica, inglobandolo, quello tradizionale dei costi d'intervento divenendo, più appropriatamente, quello della valutazione della "congruit economica" degli interventi di riqualificazione:
la capacità cioè (o l'incapacità) di un sistema di utenti e/o di operatori, in un determinato contesto di "regole" procedurali e di "disponibilità" finanziarie, a realizzare tali interventi rispettando allo stesso tempo un complesso di obiettivi prefissati dalla Pubblica Amministrazione sia sul piano urbanistico e fisico che squisitamente tecnico-qualitativo, sia sul piano della conservazione della complessità sociale necessaria alla vita della città sia su quello della salvaguardia della stratficazione storico-forma tiva dei tessuti esistenti. In tal senso l'analisi della congmit economica deve necessariamente essere assunta come strumento preventivo di valutazione complessa, ai diversi livelli decisionali della pianificazione e progettazione degli interventi, e divenire la sede en-
tro la quale definire i bilanci delle operazioni non solo dal punto di vista economico, e quindi delle risorse disponibili e 164
necessarie, ma anche del sistema di obiettivi e di regole che vengono assunti nei diversi contesti insediativi, e che fanno quindi riferimento ad un universo di variabili di natura molto diversa, ma tutte interagenti tra loro. La capacità delle amministrazioni pubbliche di costruire "bilanci di area" entro cui verificare la fattibilità di un intervento di riqualificazione in un contesto di risorse date si configura come un sistema indispensabile ed efficace per valutare le procedure e gli operatori più idonei, per verificare le strozzature di costo ai diversi livelli del processo, per innovare eventualmente tale processo attraverso la modificazione degli obiettivi e delle regole stesse, qualora ciò consenta di spostare la congruità economica verso equilibri più convenienti per i diversi soggetti coinvolti pur garantendo un più ampio e misurabile vantaggio collettivo e sociale. È quindi l'unico sistema per fornire certezze alla Pubblica Amministrazione ai suoi diversi livelli (dai Ministeri alle Regioni, ai Comuni), e per prefigurare nuove modalità di erogazione delle risorse pubbliche e di raccordo con quelle private. Ben sapendo che lo smantellamento sistematico di alcuni strumenti fondamentali della gestione urbanistica, come esito del clima di " deregulation" creatosi nell'ultimo decennio e solo adesso parzialmente messo in crisi, restituisce nella maggioranza dei casi una difficoltà reale a definire un bilancio tra impegno finanziario pubblico e quello privato che sia in grado di garantire un equilibrio tra interessi pubblici e privati senza rinunciare alle finalità sociali, urbanistiche e ambientali delle operazioni di riqualificazione. L'approfondimento di una ipotesi di "con-
tabilità urbana" degli interventi di riqualificazione richiederebbe dunque una modificazione sostanziale di alcune regole del gioco, in primo luogo quelle istituzionali e normative che governano il settore. Ma non va sottovalutata la necessità di una rifondazione anche disciplinare. In particolare un approccio sistemico alla questione della "congruità economica" pone innanzitutto il problema di una rivisitazione dell'idea stessa di "costo". Non si intende certo affrontare qui un dibattito che richiederebbe ben altro spazio e competenza; ma forse è utile offrire alcuni spunti di riflessione partendo dal senso e dall'utilitìt che occorre riconoscere ad una nuova riflessione estimativa per chi si accinge a fare urbanistica nelle attuali condizioni e con la consapevolezza oramai raggiunta in materia. È solo da pochi anni che il dibattito teorico ha introdotto e sviluppato alcuni princIpi fondanientali per una rifondazione dell'estimo urbano, che ruotano fondamentalmente attorno a due aspetti: una
accezione piz. ampia e completa dei costi d'intervento estesa cioè ad un concetto di "costo globale di insediamento "; ed una "contestualizzazione" ditali costi in rapporto ad una serie di variabili fisiche, tipomorfologiche, socio-economiche, logistiche e temporali cui ancorare anche una valutazione de "benefici" delle operazioni e della loro jattibilità ". Fino ad oggi invece la gran mole di dati e di metodi a disposizione ha fato riferimento, e in molti casi continua a far riferimento, ad unà impostazione metodologica per la raccolta e l'elaborazione rigidamente scomposto per singole categorie di opere (l'edificio, la strada, le reti tecnologiche, ... ) o addirittura per singola categoria di costo (di costruzione, di esproprio,
... ) che non consente di ricostruire un quadro globale e spesso neppure di operare efficaci confronti in presenza di differenti parametri di rilevamento a • Quasi mai d'altronde l'analisi dei costi è stata correlata ai prezzi di mercato e alle loro dinamiche, non consentendo quindi una efficace contestualizzazione dei dati economici; così come è generalmente assente un quadro di riferimento approfondito degli operatori e degli utenti ed un bilancio delle risorse, soprattutto laddove l'intervento non si configura come operazione tutta pubblica ma implica procedure e finanziamenti misti pubblico-privati o integralmente privati. A partire da alcuni lavori fondamentali 85, un nuovo dibattito si è invece sviluppato negli anni recenti producendo posizioni interessanti, anche se ben poche esperienze pratiche. Sul piano dei costi l'analisi economica sta così uscendo da una impostazione legata alla sola valutazione dei costi di produzione,, che non è in grado di offrire la complessità dei problemi in gioco, per affrontare il mare aperto dei costi "di processo", di tutti quegli ulteriori oneri che contribuiscono alla formazione del costo negli interventi di riqualificazione sia di tipo diretto (ad esempio le spese promozionali e tecniche, i costi di esproprio o di urbanizzazione, i costi di gestione del cantiere e di manutenzione dell'opra finita, i costi di promozione e commercializzazione ...) sia di tipo indiretto (ad esempio gli oneri di alloggiamento provvisorio o definitivo, gli oneri connessi all'andamento temporale delle operazioni in tutte le sue fasi, dal rilascio della concessione all'approvazione dei progetti e delle relative varianti, e così via) 86. È forse superfluo ricordare che questa estenzione del concetto di costo è l'unica 165
in gradc di restituire quella complessità dei fattori in gioco che consenta di operare confronti attendibili con le dinamiche di mercato, un dimensionamento corretto delle risorse, una valutazione degli operatori in campo e dei relativi interessi, ed una precisazione quindi anche delle procedure più idonee. Sempre più in sostanza la valutazione estimativa legata alla pianificazione tende ad abbandonare il ruolo di mera valutazione preventiva e consuntiva, e ad essere invece "incorporata nella stessa metodologia progettuale al fine di controllare durante tutto il suo svolgersi il processo di formazione dei costi" 87. Ma è l'incrocio con il sistema dei'benefici" e con la 'fattibilità" che definisce un panorama completamente nuovo. In particolare l'introduzione del "valore sociale complesso" , che esprimerebbe l'interrelazione tra aspetti economici, culturali e sociali nell'analisi delle risorse, indica una strada possibile per valutare l'insieme dei benefici che conseguono ad una comunità di utenti, all'interno di una prospettiva strategica e temporale di lunga durata 88. In un contesto che vede le procedure estimative affiancare il processo decisionale e la verifica delle alternative d'intervento, il panorama dei fattori in gioco non può infatti che essere molto più assortito, includendo anche caratteristiche ed obiettivi non tradizionali, da quelli sociali, relativi ad esempio ai problemi di conservazione/trasformazione della composizione dell'utenza insediata, a quelli fisico-qualitativi, relativi sia ai caratteri tipomorfologici dei tessuti edilizi e a quelli storico-artistici ed archeologici, sia ai caratteri morfologici e naturali peculiari del sito. È in questo contesto che si colloca la spinosa questione della "fattibilità", della 166
possibilità cioè di valutare l'incrocio tra disponibilità, convenienze e risorse in un determinato contesto di costi e di benefici. La centralità di questo aspetto risulta evidente se si intende mettere con i piedi per terra la valutazione delle possibilità e delle diverse alternative d'intervento, sia dal punto di vista dei soggetti che delle risorse. Innanzitutto occorre definire le scale alle quali attestare la necessità di strumenti di valutazione preventiva in grado di affiancare la progettazione e le scelte in essa contenute, e di fornire nella fase attuativa ulteriori indicazioni di controllo. Affianco a quella tradizionale del progetto esecutivo, finora maggiormente esploratà nell'esperienza. italiana e straniera, le scale relative alla progettazione urbanistica sono essenzialmente due, quella del P.R.G., e quella del piano di dettaglio. A livello di PRG non è possibile prescindere dal ripensamento in atto, in questa fase, circa l'idea stessa di piano e quindi dalle conseguenze che essa comporta sulla strumentazione di conoscenza e valutazione. Il progressivo abbandono di una struttura del piano che deleghi in maniera estensiva l'attuazione degli interventi ad un successivo livello di pianificazione di dettaglio, secondo un modello "a cascata" rigidamente conseguenziale, produce la conseguenza rilevante, già evidenziata in precedenza, di una tendenza a distinguere in maniera chiara tra parti che necessitano già in sede di piano di indicazioni progettuali chiare e definite e parti per le quali si rende necessario un successivo approfondimento progettuale e programmatorio; tra parti per le quali è possibile prevedere interventi " diretti" dei soggetti interessati, pubblici e privati, all'interno del solo sistema di "regole" prestazionali ed oggettuali definite dal piano, e parti
invece nelle quali solo un programma organico di intel-vento potrà definire le condizioni operative, in termini di soggetti e di risorse, per l'attuazione degli interventi necessari. Una selezione di questo tipo presuppone ad esempio, sia nella riqualificazione dei tessuti consolidati che di quelli non consolidati,livelli di conoscenza molto sofisticati da gestire in tempi brevi, in grado di restituire con chiarezza le capacità e le incapacità del tessuto sociale ed economico nelle diverse parti urbane di innescare un processo autopropulsivo e regolato di riqualificazione. A questa valutazione concorre in maniera determinante l'analisi della fattibiità ditale processo, e quindi della congruità economica delle operazioni di riqualificazione, all'interno di un determinato sistema di condizioni fisiche, sociali, economiche, normative e procedurali, di cui vengano esplicitati i gradi di modificabiità e flessibilità, e le relative alternative che ne conseguono. L'altro livello, quello dei Piani di detta,glio o se si preferisce dei Programmi organici d'intervento, è strettamente legato al primo. La valutazione; in sede di PRG, di una impossibilità di prevedere un processo autopropulsivo di riqualificazione in determinate parti urbane, pur se in presenza di nuove regole e protocolli, comporta di norma il rimando a strumenti particolareggiati, all'interno dei quali precisare le indicazioni progettuali e contemporaneamente creare quelle condizioni di diversa appetibilità e/o intensità di investimento privata e pubblica che rendano fattibili gli interventi di riqualificazione. Per la redazione ditali strumenti,ad un livello di maggior dettaglio del PRG, si rende quindi ugualmente necessaria una valutazione di congruità economica degli
interventi stessi, in grado di prefigurare bilanci economici e sociali particolareggiati e di prospettare, in presenza di un contesto esplicito di obiettivi e di regole indicate dall'Amministrazione Pubblica, le diverse alternative tra i possibili mix di risorse pubbliche e private necessarie ed attivabili con una programmazione organica. Anche in questo caso la messa a punto di strumenti di valutazione assume una prospettiva dinamica, in cui possano essere analizzati anche gli apporti decisivi che una escursione controllata del sistema delle prestazioni richieste e del repertorio di soluzioni progettuali prefigurabii possono produrre sulla ricerca di nuovi equilibri di convenienza e quindi sulla certezza operativa del processo decisionale ed attuativo. L'approccio indicato in proposito in uno studio "per il recupero della città antica di Bari" evidenzia la centralità di questo problema come "strumento di valutazione del piano urbanistico lungo il suo iter di formazione" 89. L'incrocio tra fattibilità tecnico-economica, tesa cioè a determinare i costi globali d'intervento, fattibiità sociale, relativa cioè alla disponibilità degli utenti al recupero, e fattibilità organizzativa e gestionale, fondata su una nuova ipotesi organizzativa dei soggetti e su un modello di programmazione finanziaria, consente di ricostruire un quadro territoriale differenziato per aree omogenee e di valutare e scegliere il percorso attuativo più idoneo. È analoga la metodologia adottata nel caso del piano di fattibilità del centro di Monticeffi go, inteso come strumento intermedio tra PRG e PPE, in cui l'incrocio tra alcuni fattori di conoscenza fisica e sociale (attività economiche, utenza, caratteri tipologici, degrado fisico, ) e le "pro...
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pensioni" all'intervento dei diversi soggetti presenti nell'area, restituisce anche in questo caso un sistema di aree omogenee che esprimono diversi livelli di difficoltà e di priorità degli interventi. L'approccio alla fattibilità attraverso l'uso dell"analisi multicriteria", e dunque di una valutazione complessa e simultanea di diversi fattori gerarchizzati e ponderati, è alla base dello studio di fattibilità per la riqualificazione di un quartiere IACP nella periferia di Torino. La metodologia adottata è basata su tre principi fondamentali: - la scomposizione in parti elementari del problema, il loro raggruppamento in serie omogenee e la loro gerarchizzazione a diversi livelli; - la comparazione dei giudizi finalizzata a stabilire le priorità degli elementi per ciascun livello delle gerarchie individuate; - la individuazione dei pesi degli elementi, e quindi delle loro priorità reciproche. Questo sistema di valutazione assume una rilevanza determinante quando l'obiettivo della riqualificazione richiede l'integrazione di diverse politiche edilizie, sociali ed economiche, e quindi la individuazione della scala d'importanza di ciascuna in rapporto alla disponibilità di risorse e alla programmazione temporale degli interventi. In particolare, nel caso di Torino, essa ha consentito di valutare il percorso necessario per il raggiungimento degli obiettivi prefissati attraverso diversi criteri d'intervento (su edifici, su infrastrutture pubbliche, su attività produttive e terziarie, sull'ambiente) ed in funzione delle diverse e possibili modalità d'intervento (misto pubblico/IACP/privati, misto IACP/privati, solo IACP, solo pubblico) ponderate in rapporto alle voci di spesa definite in sede progettuale "che 168
permettono di valutare l'importanza relativa della presenza di ciascuna categoria di operatori per la piena realizzabilità dell'intervento" 91 Ma ad un quadro disciplinare in evoluzione e ad alcune esperienze applicative di
tipo innovativo corrisponde una strumentazione ufficiale notevolmente arretrata. Il nuovo sistema di calcolo di tipo parametrico individuato dal CER a partire dal 1984 per la determinazione dei "massimali" di càsto, pur introducendo alcune importanti novità (come quella relativa alla articolazione dei costi del recupero in primario e secondario) è infatti ancora lon-
tano dalle esigenze di una più complessa e flessibile valutazione economica degli interventi di riqualificazione; e questo per una serie di motivi. Innanzitutto esso fa riferimento ad una concezione dei costi ancorata prevalentemente a quelli "di produzione" del singolo manufatto ediizio; e d'altronde più opportunamenté sarebbe il caso di parlare non tanto di costi quanto di "valori" determinati sulla base dei massimali previsti. Manca peraltro qualsiasi riferimento a quella componente fondamentale rappresentata dal costo di urbanizzazione o di "riurbanizzazione" 92, che costituisce uno degli strumenti più importanti per le amministrazioni per orientare le politiche di riqualificazione e che rappresenta una voce in bilancio particolarmente gravosa. È inoltre il caso di rilevare che, all'interno dei criteri di definizione degli stessi "massimali", è pressoché assente un criterio
di variabilità dei valori in funzione di un adeguato assortimento di parametri, sia pure solo fisici, che possa definire un sistema di valutazione per i diversi conte-
sti costruttivi e tecnologici regionali nonché per le diverse scelte di progetto. Ciò è particolarmente vero per gli interventi di recupero, in cui la enorme differenziazione esistente nelle condizioni tipomorfologiche, dimensionali, materiche e architettoniche si riverbera inevitabilmente sui costi e sulla loro disomogeneità. Non può in tal senso ritenersi sufficiente l'introduzione di alcuni coefficienti "correttivi" estremamente generali, presenti anche nell'ultimo decreto dell'aprile '90 (quali l'altezza virtuale, l'adeguamento alle norme sismiche, le difficoltà di cantiere, la necessità di demolizione di superfetazioni o gli oneri di risparmio energetico ad esempio); né d'altro canto la definizione di un generico parametro come le "altre condizioni particolari" può costituire una adeguata cornice di riferimento per consentire alle Regioni di esprimere le specifiche peculiarità. A completare il quadro è la completa as-
senza di un quadro di requisiti soggettivi ed oggettivi, e conseguentemente di benefici, cui ancorare l'esecuzione degli interventi ed il controllo della loro qualità, rendendo quindi impossibile un confronto con i costi previsti. In tal senso l'esperienza in corso con la citata "sperimentazione" avviatasi con la legge 94/82 potrebbe fornire alcune interessanti indicazioni innovative sia sul piano delle ricadute normative, e sulla necessità di una rifondazione complessiva dell'idea di "norma" nella prospettiva del '92, sia sul pano di un nuovo apparato di strumenti per il controllo del "processo", in primo luogo quelli relativi al rapporto costi-benefici all'interno di un preciso contesto prestazionale 93. L'esperienza fatta a Napoli con il Pro-
gramma Straordinario varato nel dopoterremoto e la strada imboccata relativamente al controllo dei costi del recupero urbano assumono, in questo contesto, una rilevanza particolare. Per almeno tre mOtivi. Innanzitutto per aver superato l'ottica dei
"massimali" e della computazione "a misura" degli interventi di riqua4ficazione, a favore di una determinazione "a forfait" che deve essere considerata un'innovazione assolutamente originale nel panorama italiano. L'opportunità di un superamento del sistema tradizionale di liquidazione "a misura" trova le sue giustificazioni in molteplici considerazioni. Nella necessità di ottenere stime rapide ed attendibili quando si interviene su estesi settori del patrimonio storico all'interno di "programmi integrati di intervento"; ma anche nella valutazione degli ef fetti distorcenti che la "misura" può introdurre in operazioni attuate attraverso lo strumento della concessione, con la creazione di elementi di incertezza di fatto incompatibili con la concessione stessa, ed i rischi di un progressivo scivolamento verso una sorta di appalto anomalo senza tuttavia le garanzia proprie di questo istituto contrattuale. Le macchinose procedure di valutazione e di approvazione dei progetti, con le relative prevedibili e defatiganti trattative che si sarebbero aperte tra concedente e concessionario per raggiungere livelli accettabili, siasul piano della scelta dei materiali che dei relativi prezzi, su un numero elevato di interventi; le conseguenze che questo avrebbe comportato dal punto di vista dei tempi di approvazione dei progetti e quindi della loro attuazione;i prevedibili rischi di una progressiva e continua correzione in corso d'opera delle previsioni progettuali 169
ed economiche, che tendono norma!mente a dilatare lo scarto tra valutazioni preventive e risultanze a consuntivo; l'eccessivo dettaglio di definizione delle caratteristiche tecniche dell'intervento, infine, senza una conoscenza adeguata delle condizioni reali degli edifici: sono tutti motivi che hanno reso imprescindibile l'esigenza di individuare un meccanismo forfettario per la determinazione dei costi del recupero ¶. Un secondo importante aspetto è relativo all'introduzione di un sistema di variabili, relative a molteplici e dfferenti aspetti, per il calcolo dei costi sia degli interventi di conservazione che di sostituzione. Nel caso dei primi si tratta di variabili sia implicite che esplicite. Implicite, laddove si assume, alla base della valutazione dei costi di un edificio "teorico" e dei "campioni" significativi di riferimento, una omogeneità dei caratteri tipomorfologici (case a corte con edifici prevalentemente a corpo "semplice", maglie strutturali regolari di 5-6 metri per alto, altezze di norma non superiori ai 3 piani fuoriterra, livello medio-basso dei caratteri decorativi) e costruttivi (uso prevalente della pietra di tufo, forte inerzia termica ma contemporanea alta aggressibilità ai fattori di degrado igrometrico, elevato degrado dei componenti strutturali e di finitura), nonché un effetto di "compattamento" delle possibili tecnologie d'intervento strutturale per effetto dell'aplicazione della nor mativa antisismica. Ma anche variabili esplicite, laddove vengono individuati indicatori di variazione di un costo-base facenti riferimento a fattori di tipo geometrico-dimensionale (la lunghezza delle fondazioni per unità di superficie, la massa muraria media per unità di superficie, 170
la dimensione media dei solai) e specialmente progettuali (la dimensione media dei locali e l'intensità degli impianti, valori enormemente variabili in funzione dell'assortimento relativo ai tagli degli alloggi ead un complesso di scelte distributive peculiari di ciascun progetto). Analogo discorso vale per gli interventi di sostituzione: la "complessità architettonica", e quindi i maggiori oneri derivanti da soluzioni tipologiche e morfologiche più complesse rispetto alla tradizionale nuova edilizia (vincoli geometrici delle aree d'intervento, organizzazione planimetrica e distributiva dei corpi di fabbrica, vincoli di allineamento, articolazione compositiva in altezza): la "difficoltà d'intervento", e quindi i problemi posti dall'accessibilità, dalle soluzioni di attacco tra nuovo e preesistente, dal ridotto spazio per l'organizzazione del cantiere; infine la "dimensione d'intervento", e quindi i problemi posti dall'impossibilità di raggiungere adeguate "economie di scala"; sono tutti fattori che definiscono la variabilità di un costo-base assunto come riferimento di partenza. Ultimo e ugualmente importante aspetto è quello relativo al sistema di"regole" tecniche adottate a fronte dei costi forfettari cosf determinati. A Napoli la strada percorsa in tal senso è stata quella di costruire un ricco capitolato tecnico che spazia dai probjemi tipomorfologici a quelli spaziali e distributivi interni, dalle questioni strutturali a quelle ambientali ed impiantistiche 95. La ricerca di un binomio accettabile costi-qualità, oltre a riportare il rapporto concessorio all'interno di binari corretti, consente di affrontare il tema del controllo di qualità delle opere non attraverso un approccio oggettuale statico ma attraverso un approccio di tipo
"esigenziale" cui si associa la definizione di soluzioni "progettuali" congruenti che restituiscono l'escursione qualitativa delle prestazioni richieste. Si lascia in tal senso al concessionario, all'interno dei costi dati ed univocamente determinati, la libertà di scegliere le soluzioni più idonee favorendo la sperimentazione e l'evoluzione della produzione, e valorizzando le capacità tecniche ed organizzative delle imprese. Se a ciò associamo quel complesso di indicatori di tipo fisico e socio-economico che hanno costituito "a monte" la struttura di un agile sistema informativo della Pubblica Amministrazione, alla fine degli anni '70 all'interno del "Piano delle periferie", per definire sia le aree da sottoporre ad esproprio e ad intervento pubblico di edilizia sovvenzionata (dunque quelle di massima "incongruità" economica) che quelle da rimandare ad intervento privato convenzionato, è possibile affermare che nel caso napoletano si è realizzata una importante esperienza metodologica sul problema costi-qualità all'interno di un processo progettuale ed attuativo durato 10 anni. Certo si potrà discutere sull'efficacia dei parametri utilizzati, sull'assenza di una valutazione preventiva approfondita dei costi del cosiddetto "recupero urbano di base", sull'approssimazione con cui si sono affrontati quelli relativi alla gestione e alla manutenzione, ma non v'è dubbio che da questa esperienza è possibile oggi trarre un complesso di indicazioni utili allo sviluppo di una riflessione su una nuova "contabilità urbana" dei programmi organici di intervento nella città costruita. L'EVOLUZIONE DEL RAPPORTO TRA PIANO, NORMA E PROGETrO. IDEA E DEL RUOLO DEL PROGETFO
La rifondazione dell'idea di piano, la cre-
scente attenzione al"processo" di pianificazione e quindi alla gestione del piano, così come la crescente sensibilità verso una distinzione e selezione tra le parti in relazione agli atteggiamenti e agli strumenti più idonei, rientrano all'interno di un ripensamento più complessivo, non privo di sussulti e di contraddizioni, dell'atteggiamento progettuale dell'urbanistica e dell'architettura nei confronti della città e della sua trasformazione. Caratteri essenziali di questo nuovo atteggiamento sono sinteticamente i seguenti. In primo luogo la perdita del carattere coercitivo e perentorio, e quindi ultimativo e statico, conseguente a quella schematica e deterministica convinzione di poter predeterminare tutto ed una volta per tutte. Ciò nulla toglie tuttavia alla necessità di dover prevedere, ma sposta il problema sulla necessità di distinguere tra decisioni "forti" e strutturanti e decisioni che ammettono, ed anzi per le quali è auspicabile, un grado di modificabilità nel tempo. Di qui la crescita di peso della variabile tempo, del bisogno di assumere una dimensione storico-processuale più ampia, in cui confrontare e rendere compatibili le diverse velocità di trasformazione e le diverse inerzie caratteristiche dei luoghi e dei soggetti all'interno del "progetto implicito" degli insediamenti umani 96 e di quelle scelte portanti che ne confermano o modificano i caratteri. Il progetto uindi oscilla tra conservazione e trasformazione, tra mille sfumature e possibili combinazioni, a seconda che l'analisi svolta abbia evidenziato la opportunità di una conferma degli attuali assetti gerarchici, delle vocazioni e dei caratteri fisici esistenti, o al contrario abbia suggerito modificazioni più o meno profonde per adeguare la struttura fisica alle nuove 171
domande all'interno delle regole imposte dai caratteri permanenti e connotanti. La conoscenza diviene quindi un'attività interna al progetto stesso, ne guida le scelte, dimensionandole ai contesti in cui esse vengono compiute, restituisce la densità delle qualità e delle reciproche relazioni tra le diverse parti e i diversi aspetti spingendo il progetto a non sovrapporsi traumaticamente alle stratificazioni e ai significati ad esse sottesi, ma ad inserirsi con consapevolezza alloro interno in un'ottica prevalente di leggere e progressive modificazioni che non impediscano interpretazioni future. Questo atteggiamento che ha fatto parlare di "progetto di conoscenza" di "alta manutenzione", di• "progetto debole" 97, non può certo dirsi tuttavia l'espressione di una cultura vincente. Non solo perché permane ancora ed esplicitamente, in vaste aree culturali e professionali, l'ideologia del grande "segno", del protagonismo che deliberatamente esprime il proprio antagonismo e la propria diversità con velleità di nuovi ordinamenti; ma anche perché, dietro un'apparente consapevolezza, riemerge spesso in altri settori, anche insospettabili, una cultura progettuale autoritaria: è il caso di certe esasperazioni indotte dalla cultura di certo restauro urbano, inteso come ultimo argine alla barbarie della città e dell'architettura moderne, che non disdegna il "com'era e dovera" ed una mimetica ed accattivante riproposizione di presunte configurazioni insediative ed edilizie oramai scomparse o mai esistite; è il caso di chi, partendo dallo scetticismo per una conoscenza in profondità dei contesti fisici e della possibilità di estrarne "regole", suggerisce uno spostamento di attenzione dalla tipologia alla "morfologia del modello", per usare 172
una frase di De Carlo 98, dall'ambito descrittivo a quello propositivo, progettuale, trasgressivo, dalla riproduzione di regole all'invenzione partendo da una comprensione puramente morfologica; ed è il caso di chi al fattore-tempo non attribuisce i caratteri processuali di cui abbiamo parlato, e quindi una consapevolezza delle scelte da compiere all'interno della diacronicità della città e del territorio,ma lo interpreta come esigenza di "permanenza" fisica aldilà degli usi presenti, e quindi finisce per riproporre di fatto il segno ordinatore come unica speranza praticabile.
Le trasformazioni possibili e necessarie della norma Lavorare all'interno di una cultura della consapevolezza del progetto richiede conseguentemente un rovesciamento di atteggiamento anche nei confronti della norma ed un mutamento, anche in questo caso, del suo tradizionale ruolo onnicomprensivo, statico e settoriale. Più infatti si approfondisce e si diversifica la conoscenza del territorio e delle sue parti ed appare chiara la varietà dei caratteri e delle loro possibili combinazioni, la diversità dei processi di stratificazione storica, delle propensioni e delle suscettività di trasformazione, più diventa forte la tendenza alla polverizzazione e al caso per caso. E d'altro canto il bisogno di calare in questa complessità un altrettanto molteplice repertorio di esigenze funzionali, simboliche, dimensionali, accentua l'impossibilità di predeterminare comportamenti normativi e progettuali univoci e omogenei. A queste nuove condizioni è possibile rispondere in due modi molto diversi: o riconoscendo l'impossibilità di dettare "re-
gole del gioco", suggerendo un ruolo taumaturgico del progetto, che compare come un coniglio dal cappello, ed avvalorando di fatto il processo di scomposizione urbana; oppure, ed è l'ambito di lavoro che ci interessa, lavorando per definire
lo spazio e i contenuti delle regole possibili, i limiti tra ciò che è normabile e ciò che non lo è, nonché i caratteri delle norme in funzione dei diversi casi. L'atteggiamento più maturo che sembra farsi strada in tal senso è caratterizzato da alcuni aspetti fondamentali che possono essere così riassunti. Innanzitutto la distinzione tra due diversi ambiti normativi. Da un lato quello legato ai caratteri fisici, insediativi ed edilizi, che individuano la struttura e lo spazio urbani e che in qualche modo rimandano
ad una rivisitazione in chiave contemporanea dello strumento del regolamento edilizio sotto forma di codice o manuale. Se forse non ha senso pensare a un "manuale generale di progettazione urbanistica", certo ogni singolo pianò deve darsi dei contenuti specifici di questo tipo per ridare alla città in evoluzione delle regole costruttive meno casuali di quelle oggi in vigore. Questi manuali locali dovrebbero essere distillati da parte dell'ambiente tecnico del posto e dovrebbero radicarsi nella stratificazione storica della progettazione urbana dalla quale la città ha tratto, trae e deve trarre la sua unica, inimitabile fisionomia 99.
Dall'altro lato, il livello relativo ad un complesso di indicazioni di tipo prevalentemente quantitativo e funzionale, periodicamente verificabili e aggiornabili, che esprimono la diversa declinazione e compatibilità dei caratteri fisici in ciascu-
na parte urbana in rapporto alle diverse e mutevoli esigenze dell'utenza, secondo diversi gradi di flessibilità cioè che vanno da quello relativo alle previsioni più rigide, necessarie e inderogabili, a quelle più "morbide", auspicabili o possibili, con uno spettro anche ampio di possibilità intermedie di combinazione reciproca. È esemplificativa, in questo senso, l'esperienza dei nuovi piani urbanistici spagnoli in cui, anche grazie all'utilizzo di strumenti innovativi di governo del regime dei suoli come il cosiddetto "Rendimento Medio", la flessibilità è divenuto un requisito concreto nella gestione urbanistica: invece di concepire le differenti soluzioni di edificabilità e composizione di usi come qualcosa di fisso ed immutabile, una volta stabilite le ipotesi da utilizzare per il calcolo del rendi: mento medio, si scelse la strada di rendere indipendente, da un lato, la inamovibilità di certi parametri che, in quanto determinati per alcuni diritti, non potevano mutare; e dall'altro, si permise la loro fluttuazione, all'interno di un ventaglio di possibilità, in quanto risolutive delle previsioni urbanistiche. Gli unici parametri fissi, dunque, dovevano riguardare ledificabilità nel suoinsime, in quanto variabile generale di controllo fisico, e il rendimento, riconosciuto come diritto di proprietà, in quanto dato determinante per procedere alla ripartizione equilibratrice di disuguaglianze. Il meccanismo ideato per assorbire gli eccessi di rendimento, risultanti dalle conseguenti oscillazioni reali dei parametri che lo determinano, consistette nel prevedere una "borsa" del suolo per sistemi generali, che potesse garantire la necessità stabilità del modello di ripartizione 100 .
Più specificamente il quadro delle indicazioni normative sembra potersi configura173
re più appropriatamente come un siste-
forte tra le diverse scale di controllo del
ma di "regole" strutturato secondo tre li- processo di trasformazione urbana (insevelli di definizione diversi: quello relativo diativa, edilizia, costruttiva), tra governo ai criteri metodologici, progettuali e prodegli spazi pubblici e privati, tra aspetti ticedurali, in un'ottica cioè di• "codice" pologici, tecnologici e procedurali. Basti comportamentale che definisce le coerenpensare, ad esempio, alle profonde interze complessive della progettazione urbaconnessioni che esistono tra le indicazionistica ed edilizia in ciascuna parte ur- ni sulla suddivisione del suolo dei tessuti bana in base ad alcune linee guida e edilizi, i caratteri della tipologia edilizia e correlazioni notevoli tra le prestazioni le scelte costruttive, come quelle struttuattese; un secondo livello relativo alle in- rali in zona sismica, con i relativi riflessi dicazioni di tipo 'restazionale ", di cui anche sulla individuazione delle unità mialcune irrinunciabih, connotanti e/o "is- nime di intervento; all'incrocio tra modifiniversali", con una validità dunque dai che della componentistica nel processo di tempi medio-lunghi (ad esempio quelle produzione edilizia, come quella relativa relative alla riconoscibilità dei caratteri alle pareti perimetrali, e modifica degli intipomorfologici di un tessuto o quelle redici urbanistici; tra possibile certificazione lative alla dotazione infrastrutturale e di del prodotto e più in generale "etichettaservizi con i relativi standard minimi); e tura" degli edifici e scambio pubblico-priinfine il livello relativo alle indicazioni vato all'interno di operazioni edilizie condi tipo "oggettuale", in un'ottica di"re- venzionate. E l'elenco potrebbe continuapertorio" di "soluzioni conformi" o di re, mettendo in evidenza la necessità di "suggerimenti" tecnici e progettuali, con un governo globale, a tutti i livelli e in valore prevalentemente esemplifica tivo, tutti i settori della pubblica amministrache definiscono, attraverso precise propo- zione, ai fini di una gestione efficace del ste grafiche, numeriche o descrittive, l'epiano e di un controllo misurabile della scursione qralitativa dei criteri e delle flessibilità delle norme. prestazioni, anch 'esso quindi di tipo 'perto" in funzione dell'avanzamento del È interessante notare tuttavia che la "coprocesso di piano. perta" della normativa e dei regolamenti Queste tre tipologie di indicazioni, che caratterizzano i 2 livelli prima descritti secondo diversi mix in funzione delle esigenze di ciascun luogo e comunità locale, pongono anche l'esigenza di eliminare fittizie separazioni, o quantomeno di esplicitare le connessioni notevoli, tra aspetti urbanistici, edilizio-architettonici e costruttivi. La definizione di criteri di progettazione, di prestazioni e soluzioni conformi assume infatti i caratteri di un "cor pus" organico, sia a livello orizzontale che verticale, attraverso una correlazione 174
viene tirata da un lato e dall'altro in funzione delle diverse impostazioni culturali che si esprimono sul rapporto piano-progetto. Così si oscilla tra chi ritiene necessario spostare tutta l'attenzione verso il terzo tipo di indicazioni, quelle "oggettuali", individuando in esse il nucleo centrale dei nuovi piani e della riconquista di un"arte" del costruire città; e chi al contrario spinge sulla prima e sulla seconda come aspetti centrali di un nuovo "piano delle prestazioni". Alcune delle più recenti ed aspre "querel-
le" sul "disegno" del piano possono essere in fondo ricondotte ai diversi accenti che vengono posti sul "giusto" assortimento di quei tre tipi di indicazioni bl È questo un'aspetto centrale della riflessione in atto su una nuova generazione di piani, che non può certo ridursi ad una sterile contrapposizione "disegni-si/disegni-no", e che richiede quindi una specifica riflessione. A noi pare, innanzitutto, che un diverso atteggiamento normativo e progettuale, e quindi un diverso assortimento tra i tre livelli che abbiamo precedentemente descritto, dovrebbe necessariamente essere previsto in sede di piano tra progetto
progettuale di tipo generale lasciando ai successivi approfondimenti, nei tempi reali in cui questi saranno possibili, il compito di specificarne i contenuti. Diverso è il caso dei tessuti edilizi " seriali", nei quali appare più congruo un comportamento di tipo "prestazionale": sia nella definizione del rapporto tra tracciati e suddivisione tecnica dei tessuti, e quindi nella individuazione di regole insediative in grado di restituire compattezza e continuità rispettando contemporaneamente l'articolazione in una pluralità di frammenti e la flessibilità ed elasticità dei tessuti nel tempo; sia nella definizione
urbanistico della "struttura urbana di base" e dei tessuti edilizi, non per sancire
del rapporto tra regole di progettazione dei singoli frammenti e regole di evoluzione ti,00morfologica dei tessuti preesistenti o di quelli di progetta, in grado cioè
una separazione tra due aspetti storicamente intrecciati e metodologicamente indissolubili, quanto per rimarcare il diverso ruolo e peso degli operatori che su di essi hanno la prevalente titolarità d'intervento, quello pubblico nel primo caso e quello privato nel secondo. In tal senso, e schematizzando, è forse possibile immaginare, relativamente alla "struttura urbana di base", una tipologia di regole prevalentemente centrata sui caratteri del terzo livello, quelli oggettuali, laddove è in gioco la necessità di definire
di restituire la processualità formativa e trasformativa dei tessuti stessi. Si eviterebbe in tal modo di definire modelli sincronici e statici di riferimento, magari ancorati ad una configurazione architettonica stereotipata ed inesorabilmente "datata" dallo stile di un momento storico preciso, e più precisamente di un determinato professionista. Qui più che altrove, l'urbanistica "deve creare le condizioni preliminari per l'architettura, non anticipare sommariamente i suoi risultati" 102. Un secondo punto è relativo ai diversi
o ridefinire il rapporto tra i tracciati, e comportamenti da avere nelle diverse più in generale gli spazi pubblici, e il si- parti del territorio. Sempre scontando i limiti di una schemastema di gerarchie funzionali e simbolitizzazione, non v'è dubbio che diverso è che dell'insediamento. Nella consapevolezza tuttavia che la riorganizzazione sia degli eventuali spazi ancora non disponibili alla proprietà pubblica, che di quelli già disponibili ma inevitabilmente condizionati dalla programmazione delle risorse a disposizione, è opportuno che si mantenga ad un livello di definizione
l'atteggiamento normativo e progettuale del piano da assumere in aree "consolidate", in particolare in quelle ad elevata densità di stratificazioni storiche e di permanenze come i "centri storici", da quelle invece scarsamente consolidate o addirittura da edificare. 175
Nelle prime il mix tra i tre livelli normativi (comportamentale, esigenziale, oggettuale) è quello più ricco: sono necessari criteri e prestazioni molto precisi, ma allo stesso tempo può essere a volte opportuno prefigurare "soluzioni conformi", tipologiche e costruttive, di conservazione e sostituzione, anche in relazione al diverso livello di "maturazione" della cultura progettuale locale pubblica e privata, in grado di impedire processi distruttivi ma anche di non escludere soluzioni alternative, ancorate ai criteri e alle prestazioni definite ed in base a questi valutabili dalle Commissioni Edilizie attraverso criteri trasparenti. Al contrario, nelle aree non consolidate, assume più legittimità un atteggiamento normativo e progettuale che definisca essenzialmente il disegno del suolo e della sua suddivisione, l'organizzazione dei percorsi e dello spazio pubblico, la struttura fondamentale delle nuove lottizzazioni e dei suoi criteri dispositivi e aggregativi, l"attacco a terra" dei progetti particolari 103, lasciando al tempo, alle diverse iniziative dei singoli i necessari gradi di libert all'interno di regole di tipo prestazionale. È certamente discutibile la sprezzante considerazione che sia "meglio un cattivo progettato di un architetto esterno di un buon progetto di un geometra locale" per costruire o riqualificare tessuti urbani e pezzi di città; è piuttosto vero che quando il piano urbanistico è ben fatto, quando gerarchie e regole sono chiaramente definite assieme ad un quadro trasparente di prestazioni e di indicazioni "strutturali", la preoccupazione che il singolo frammento non divenga poi, nella progettazione reale, un "pezzo" di architettura o non evochi lo "schizzo assonometrico" 176
fornito dal progettista del piano, passa in secondo piano rispetto alla qualità urbanistica e alla correttezza del processo storico di costruzione urbana. Per parafrasare Giura Longo 104, meglio le "regole morbide, flessibili, sottili" della "polis" di romana memoria, che sapeva coniugare regole architettoniche ed urbanistiche proiettate in una dimensione temporale di lunga durata dei principi in base ai quali si dispongono e si evolvono i volumi costruiti sul terreno; rispetto alle regole del "castum", "dure, perentorie, elementari", a cui si affianca l'importazione di modelli edilizi bloccati dalle esigenze militari e di accampamento, che non sopravvivono alla naturale evoluzione, sovrapposizione, trasformazione d'uso del tempo.
I limiti e le arretratezze del quadro normativo nazionale, le potenzialità di quello regionale, le esperienze locali. C'è da dire tuttavia che, anche in questo caso, il quadro normativò nazionale non offre sponde stimolanti per uno sviluppo orientato del dibattito e dell'esperienza attuativa in questa direzione. A 12 anni di distanza dalla L. 457 manca ad esempio una Normativa Tecnica Nazionale, così come oramai da molti anni si parla di una riforma urbanistica complessiva. È d'altro canto in crisi, qualora non venga addirittura messa in discussione l'opportunitt della definizione di specifiche normative, il confine stesso tra i campi dell'urbanistica e dell'edilizia, così come sono stati fino ad ora intesi. Le considerazioni sin qui svolte hanno teso a metterlo in evidenza, quantomeno per una serie di aspetti tecnici, progettuali e procedurali che esprimono una ineludibile
interferenza tra le due tradizionali scale di riferimento. In Francia, dove esistono due distinti testi relativi al campo urbanistico e a quello edilizio, il "codice dell'urbanistica" approvato nell'85 e quello "dell costruzione e dell'abitazione" definito nel'69, è difficile tracciare oggi confini netti tra i due livelli normativi, e d'altro canto la stessa attività sperimentale di quel Paese tende continuamente a connettere problematiche relative al livello insediativo con quelle specificamente ar chitettoniche e costruttive. Nel campo edilizio, l'unico strumento normativo di tipo tecnico, peraltro non cogente, è il cosiddetto quaderno n° 2 del CER del 1983, che ha tuttavia caratteri rigidamente prestazionali e settoriali, legati ai soli aspetti dimensionali/distributivi e fisico/ambientali degli edifici e degli alloggi, un ridotto e insufficiente livello di specificazione degli aspetti metodologici e comportamentali, nonché l'assenza di criteri oggettuali, di repertori, di soluzioni tecniche e di codici di pratica. Questo strumento, che ha conosciuto diversi approfondimenti e varianti nelle normative tecniche di alcune regioni 105 , è oggi sottoposto ad ùna verifica sulle migliaia di alloggi di nuova costruzione e di recupero che sono oggetto del primo programma di sperimentazione nazionale varato con la L. 94/82: è presumibile oltreché auspicabile che da esso possa scaturire un complesso di indicazioni innovative che consentano di contribuire ad una rifondazione complessiva dell'idea di norma e della strumentazione di controllo del processo urbanistico ed edilizio, sviluppando le linee indicate dal laconico decreto del188 in materia di Normativa Tecnica 1o6 . Nella produzione legislativa regionale,
oltre alle già citate normative tecniche, un posto particolare rivestono le nuove norme in materia di Regolamenti Edilizi comunali emanate recentemente dalla Regione Emilia Romagna 107 . Il merito indiscutibile di questa legge è quella di porre le basi per un "glossario" comune per gli "oggetti" e per i "requisiti" che ne definisconoi caratteri connotanti; e di aver imposto ai regolamenti edilizi una chiara esplicitazione di questi ultimi secondo 3 diversi livelli di validità della norma, quello dei requisiti cogenti generali, obbligatori su tutto il territorio regionale, quelli cogenti particolari, legati cioè alle diverse realtà locali, quelli raccomandati tesi cioè a garantire una più elevata qualità e comunque non obbligatori. Tuttavia questa legge si presta, anche alla luce delle riflessioni sin qui sviluppate, ad alcune considerazioni. In essa mancano innanzitutto regole di tipo comportamentale, o comunque l'obbligo di definirle, che definiscano cioè i livelli di coerenza tra i requisiti o tra gruppi di essi, in relazione a ciascun oggetto formato o a gruppi di essi. Un regolamento edilizio senza tali regole rischia di. alimentare una delle tendenze più pericolose di questa fase culturale, quella cioè della scomposizione in mille specialismi e relative norme settoriali, anziché favorire una nuova attitudine culturale alla definizione di sistemi di regole. di livello gerarchico superiore, dalle quali far discendere livelli più specifici e definiti che possano trovare nel livello superiore una collocazione ed un dimensionamento utili a controllare gli esiti globali dell'applicazione di determinati standard e prestazioni. In tal senso ci si allontana dalla ricerca di un "codice" dei caratteri insediativi ed edilizi strutturanti di ciascun luogo, a favore di 177
un più asettico e paradossalmente più eludibile repertorio di soglie quantitative. Non sembra peraltro condivisibile una netta separazione tra "prescrizioni non riconducibili a parametri oggettivi e misurabili, relative alla qualità formale e compositiva dell'opera e al suo inserimento nel contesto urbano ed ambientale", demandate alla Commissione Edilizia comunale in base a non meglio precisate dichiarazioni di "indirizzi" in merito; e "requisiti esprimibili secondo parametri oggettivi e misurabili", quelli appunto che costituiscono il campo normativo principale della legge, e facenti riferimento ad alcune classi esigenziali sostanzialmente aderenti a quelle previste dalla direttiva CEE del dicembre '88 in materia. Una distinzione di questo tipo avvalora l'idea di due campi nettamente distinti, quello tipomorfologico/architettonico e quello tecnologico/funzionale, non solo dal punto di vista dei contenuti ma, conseguentemente, anche dal punto di vista dei criteri di controllo: aleatori e soggettivi gli uni, scientifici e oggettivi gli altri, con tutte le conseguenze che è possibile immaginare in termini di differenziazione dei comportamenti a scala locale. Infine, il vincolo ad esprimere i requisiti contenuti nel regolamento edilizio comunale in termini univocamente prestazionali senza alcun tipo di indicazione oggettuale, pur configurandosi in linea di principio come un indirizzo metodologicamente corretto per rendere "più flessibile la progettazione e sostanziali i controlli" evitando così imposizioni tecniche e formali gratuite e non giustificabili, non sempre risulta essere in grado di garantire esiti qualitativi accettabili. Non è in sostanza da escludere a priori la possibilità/necessità di fornire repertori "aperti" di 178
soluzioni oggettuali raccomandate, di tipo semplice (legate a singoli oggetti) o complesso (legate cioè a sistemi di oggetti), che esemplifichino l'escursione qualitativa delle prestazioni richieste, pur ammettendone l'arricchimento progressivo sulla base dell'iniziativa e dell'esperienza dei singoli operatori.
Tra le esperienze a livello locale che rivestono un particolare interesse in merito alla sperimentazione di una idea di norma, ed in particolare dal punto di vista dell'incrocio tra regole comportamentali, norme esigenziali e soluzioni oggettuali, l'esperienza compiuta a Napoli con il programma di riqualificazione delle periferie, di cui abbiamo già parlato in precedenza, è sicuramente una delle più stimolanti. L'interesse per un'operazione come il Programma Straordinario di Napoli sta forse nell'aver affrontato, nel caldo di un'esperienza attuativa, i limiti della cultura professionale, tecnico-normativa, e amministrativa esistenti, nell'averne imposto una trasformazione e nell'averne verificato i contenuti lungo tutto il percorso che ha portato dalla progettazione urbanistica a quella esecutiva, fino alla gestione dei circa 70 cantieri aperti. Alcuni fattori sono stati decisivi nella maturazione di una impostazione metodologica originale nel controllo degli interventi di recupero. Le caratteristiche stesse del Programma ad esempio prefiguravano, per i diversi comparti attuativi, un meccanismo di finalizzazione delle risorse alla realizzazione delle diverse opere previste (residenza, urbanizzazioni primarie e secondarie) senza tuttavia che fossero predeterminati i rapporti tra costi e prestazioni richieste. Ciò ha richiesto, da un lato, uno sforzo di
ripensamento del sistema dei costi del recupero attraverso il superamento del sistema tradizionale "a misura" e l'adozione di un meccanismo originale di d&erminazione forfettaria ancorato a parametri dimensionali e progettuali; e dall'altro la definizione di un sistema di "regole" per il controllo della qualità corrispondente a quei costi. In entrambi i casi si è trattato di una vera e propria rifondazione metodologica che ha reinventato alle radici i pochi e desueti strumenti a disposizione; e che oggi peraltro consente di ragionare con cognizione di causa su futuri programmi organici di intervento attraverso lo studio di una "contabilità" urbana ed edilizia finalizzata alla fattibilità di operazioni complesse di riqualificazione cui far corrispondere precisi indicatori di qualità. La strada imboccata sul terreno della normativa di controllo della progettazione e dell'esecuzione degli interventi di recupero è sicuramente uno dei contributi più originali che verrà ereditato da questa esperienza. Il sostrato culturale che ha guidato tutto il lavoro svolto fa riferimento sia al superamento di un'idea di progetto coercitivo e perentorio, di cui è impregnata larga parte della cultura architettonica e che aveva fatto sentire la sua voce anche in tutta una prima fase del Programma, sia ad una domanda di conoscenza formulata ai progettisti non come una petizione ideologica o un fardello di oneri burocratici, ma come un'esigenza interna al progetto stesso e all'esplorazione che esso avrebbe dovuto innescare anche in fase esecutiva. Il ruolo e le caratteristiche della norma sono una conseguenza di questa impostazione. L'idea di progetto che prendeva piede e il ruolo attribuito alla conoscenza hanno infatti imposto anche un nuovo
spazio ed una nuova strutturazione delle regole tecniche. È risultata innanzitutto evidente l'esigenza di governare complessivamente il progetto, di lavorare per un superamento delle settorializzazioni invalse nella prassi professionale, e quindi per una ricomposizione dei diversi contenuti all'interno di una struttura metodologica unitaria in grado di restituire la com.plessità delle interrelazioni, dalla progettazione tipologica a quella architettonicodistributiva, dalla progettazione strutturale a quella termoigrometrica e impiantistica. Partendo da una impostazione di tipo "prestazionale" pura nell'esperienza napoletana si è pervenuti, con l'avanzamento delle diverse progettazioni e con i primi riscontri di cantiere, alla elaborazione di un modello normativo che incrocia un sistema di regole di comportamento espresse attraverso alcune classi esigenziali, con un approfondimento di alcuni requisiti conotanti e con le relative specifiche di prestazione, ed un repertorio di soluzioni "oggettuali"; una impostazione che ha trovato diversi e progressivi livelli formalizzati di definizione, si è avvalsa del contributo "orale" fatto di esperienza e di controllo diretto in opera da parte dei funzionari preposti all'alta sorveglianza dei cantieri, e si avvia oggi, a conclusione dell'operazione, a divenire uno strumento consuntivo più compiuto, corredato cioè dei repertori grafici descrittivi delle soluzioni conformi. La strada percorsa è forse l'unica in grado di evitare sia il rischio di una prestazionalità fine a se stessa e difficilmente traducibile, e in quanto tale vanificabile dalla prassi di cantiere, sia quello di una ogettualità non dimostrabile, impositiva e quindi incapace di liberare processi innovativi, o peggio ancora chiusa nella ripetizione meccanica di soluzioni precostituite. 179
La struttura normativa di tipo processuale sperimentata ha dimostrato peraltro l'enorme importanza, aldilà delle parole scritte, di avere a disposizione uomini e strutture adeguati al compito della loro gestione: esigenza questa che non sempre è stata soddisfatta, nonostante il rilevante ruolo e la professionalità acquisiti dalla struttura tecnica straordinaria costituita per la gestione dell'operazione. II'OTESI ED ESPERIENZE l'ER LA COSTRUZIONE DI SISTEMI INFORMATWI
Quanto sin qui detto a proposito delle caratteristiche del piano e del progetto, e le nuove esigenze di regolamentazione normativa, mettono in evidenza che, per rendere operative e non accademiche le indicazioni esplicitate, è assolutamente meludibile il problema della "conoscenza" da parte delle amministrazioni locali e dei sistemi informativi che ne sostanziano il processo di formazione, e dunque di un "vero e proprio monitoraggio delle condizioni urbane", un apparato conoscitivo/strumentale che serva a prendere non solo decisioni relative alla costruzione del piano, ma che serva a prendere le decisioni relative ai momenti attuativi singoli che si determinano nel tempo 108 Per costruire sistemi informativi efficaci occorre evidentemente rifuggire dalla duplice tentazione, da un lato di inseguire enciclopediche ed esaustive ricognizioni, farraginosi assemblaggi di indagini settoriali, frequentemente scollegate tra loro; e, dall'altro, di produrre tendenziose quanto parziali elaborazioni preliminari, premesse burocratiche di scelte progettuali precostituite, o peggio non verificate
e quindi inattuabili ed ingestibili. Come è ovvio la scelta di sistema informativi non è operazione "universale" per almeno due ordini di motivi, già ricordati da Gabrielli, forse già noti ma che giova sempre ricordare: il primo è che non può esistere scelta dei dati e dei sistemi informativi più idonei senza avere alle spalle, come "precondizione", un quadro chiaro dei caratteri della conoscenza, e quindi degli obiettivi e dei requisiti fondamentali che si intende perseguire; il secondo motivo è che occorre distinguere tra modello e metodo, sgomberando il campo dall'utopia pericolosa che sia possibile "conformare un modello valido per tutte le situazioni e per tutti i tempi", con caratteri peraltro di onnicomprensività e la pretesa quindi di voler fornire informazioni sull'intero universo del reale inseguendo l'impossibile riproduzione della "mappa dell'impero in scala 1:1" ricordata daU. Eco. Metterei in guardia su questo punto. Un sistema informativo deve essere costruito in modo mirato rispetto alle condizioni reali di tempo e di luogo. Deve corrispondere alla natura specifica dei problemi e dei processi di trasformazione che sono propri della realtà territoriale in cui si colloca. Deve essere tale per cui le tematiche contemplate al suo interno siano coerenti con gli obiettivi e le politiche 109 • Tentando di definire i contenuti essenziali di un sistema informativo, riteniamo utile sottolinearne 3 essenziali: la complessitd,
la continuità e la stabilità, e la capacità di sintesi dinamiche "o La complessità esprime il requisito irrinunciabile, più volte ribadito in questo scritto, di restituire l'incrocio tra informazioni di tipo diacronico e quelle di tipo
sincronico. Le prime, di tipo prevalentemente fisico e legate alla conoscenza delle stratificazioni storicamente sedimentate nell'ambiente e nei tessuti insediativi ed edilizi, rivestono una importanza centrale ed un ruolo per certi versi preliminare ed ordinatorie, per una serie di motivi:
E arriviamo così al secondo carattere che è appunto quello della necessaria continuità di funzionamento del sistema informativo nel tempo, se si accetta l'idea che esso non rappresenti un semplice strumento di giustificazione delle scelte del piano, ancorato ad una previsione statica data una volta per tutte, ma piutto-
- segnalano le configurazioni d'assetto come esito di permanenze e variazioni avvenute all'interno dei processi precedenti e consentono di decifrare i significati per la memoria remota e attuale del luogo;
sto uno strumento di supporto stabile alla decisione, lungo tutto il processo di
- consentono di evidenziare i processi lenti, quelli che richiedono tempi molto lunghi (e potrebbero sfuggire a osservazioni condotte per intervalli brevi); - consentono di accertare e misurare il contenuto e la qualità informativa che il sistema nel suo insieme e in ogni sua parte, possiede come reperto e documento i i 1 Le seconde invece sono legate ad un diverso tempo e ad una diversa velocità delle trasformazioni, perché relative agli aspetti d'uso, sociali ed economici che si sono succeduti nei tempi più lenti della trasformazione fisica e ne hanno tuttavia conformato i caratteri e le direzioni. Questa maggior velocità richiede quindi una diversa modalità e ripetitività nella raccolta delle informazioni rispetto a quelle del primo tipo. L'integrazione tra informazioni di natura così diversa è sicuramente l'elemento di maggior difficoltà nella strutturazione dei sistemi informativi. Essa richiede infatti il ricorso a diverse competenze specialistiche ed un serio approccio multidisciplinare che oggi è dato molto raramente iz, nonché uno sforzo di programmazione dei differenti tempi di rilevazione in funzione degli obiettivi.
pianficazione. Di qui discende la necessità di "osservazioni permanenti", dinamici e flessibili in funzione delle diverse e temporalmente scaglionate esigenze di scelta, e quindi ai relativi bisogni di una conoscenza aggiornata dei fenomeni più rilevanti e allo stesso tempo più rapidamente mutevoli. L'acquisizione progressiva di conoscenze secondo una scala di priorità temporali costruita in funzione delle diverse esigenze di approfondimento, consente di definie un sistema decisionale articolato e capace, senza pretese ingiustificate di esaustività preliminare , di avviare il processo attuativo graduando velocità e traguardi e demandando alle successive fasi l'arricchimento progressivo delle informazioni; il cui ritorno indietro, d'altronde, secondo uno schema circolare, consente di confermare o adeguare continuamente obiettivi, strategie, strumenti e procedure. L'acquisizione delle informazioni deve avvenire perciò attraverso la combinazione di indagini di tipo indiretto e diretto, intendendo con le prime le analisi storiche, catastali, cartografiche/iconografiche e documentarie ma anche quelle statistiche relative alle caratteristiche fisico-abitative e socioeconomiche; e per le seconde invece il rilevamento campionario o a tappeto delle caratteristiche geomorfologiche, fisiche e a socio-economiche necessarie ad integrare le indagini di tipo indiretto, e a costruire riferimenti analitici 181
certi per la realizzazione degli interventi
113 .
In tal senso l'acquisizione delle informazioni risulta essere un sapiente dosaggio tra indagini di tipo indiretto (di tipo prevalentemente statistico/campionario) e diretto (rilevate cioè direttamente "sul campo"), con un peso progressivamente decrescente delle prime rispetto alle seconde nel passaggio dal piano generale a quello di dettaglio, dal progetto esecutivo all'esecuzione vera e propria degli interventi, fino alla fase gestionale e alla auspicata "manutenzione programmatica". È evidente quindi che la capacità del siste-
ma informativo di restituire, in tempi reali, le sintesi necessarie delle informazioni di tipo sincronico e di produrre le opportune interazioni con quelle diacroniche, costituisce un terzo fondamentale requisito che richiede un ulteriore sforzo di selezione dei dati di orientamento delle elaborazioni da parte della pubblica amministrazione. Si tratterrebbe in pratica di possedere informazioni in tempo reale sulle mutazioni che agiscono sul sistema (e che sono prevedibili in modo probabilistico, come talvolta è possibile per processi più lenti e di lungo periodo) e utilizzarle per orientare i processi con fattori attivi e reattivi di vario tipo: incentivi, norme, divieti, politiche finanziarie, fiscali ecc. 114
Da questo punto di vista risulta determinante anche la individuazione di carte tematiche di sintesi nelle quali esplicitare la correlazione dinamica tra valori strutturanti e permanenti dei luoghi in senso storico, e dinamiche funzionali, sociali e d'uso, domande e propensioni del variegato universo delle utenze, e quindi la costruzione della base informativa e metodologica per una verifica di coerenza e 182
di fattibilità delle scelte, e per i necessari aggiustamenti di tiro, per simulare comportamenti ed impatti, e per specificare gli operatori e le procedure più idonee al raggiungimento degli obiettivi definiti.
Il ruolo guida delle analisi tipomorfologiche Non è superfluo ritornare qui sul già accennato ruolo-guida assunto dall'indagine storica all'interno del sistema informativo, e riaffermare quanto questa posizione, oltre ad esprimere un'esigenza di cor retto approccio ai problemi del rapporto tra trasformazioni auspicabili e "progetto implicito" della città e del territorio esistenti, definisca un comportamento che va aldilà di un giustificabile assunto ideologico e culturale, per assumere una specifica rilevanza dal punto di vista "operativo" nel processo di pianificazione. In tal senso è necessario chiarire subito che non sempre e non tutte le analisi storiche possono assumere questo tipo di ruolo: la storia dei piani è piena di ponderose analisi di taglio generale, scarsamente finalizzate perché di tipo prevalentemente descrittivo in relazione ad una cronologia della storia che ha scarsa attinenza con la storia dei processi di trasfor mazione fisica del territorio se non in maniera indiretta. Non si è qui ad insegnare le metodologie più "corrette" dell'approccio storico e ad indirizzare su binari precostituiti una disciplina che deve conservaré campi estesi di ricognizione e tagli interpretativi differenziati; ma piuttosto ad esprimere un orientamento per la pubblica amministrazione nel formulare precise domande ai professionisti incaricati
del piano, privilegiando in particolare un chiaro orientamento per la progressi-
va definizione di una storia "operante" in grado di restituire una conoscenza "scientfica" dei nessi fondamentali che hanno legato nel tempo i processi ditrasformazione sociale ed economica con quelli fisici, tipo- morfologici ed ambientali, sia della struttura "naturale" del territorio che di quella insediativa. Non sfugge l'importanza di un tale impostazione, ad esempio, alla scala del territorio antropizzato, laddove una rilettura della stratificazione del sistema dei percorsi generatori e degli spazi pubblici in genere, in grado di fornire indicazioni sui caratteri gerarchici, funzionali e simbolici succedutisi nel tempo, sul ruolo e sulle relative mutazioni in termini di nodalità e antinodalità, e quindi sulle caratteristiche del rapporto tra valori emergenti ed ordinatori e trama dei percorsi e degli spazi stessi, sui punti critici e/o eccezionali, sui vuoti e gli interstizi, consente di formulare valutazioni critiche sull'attualità storica e sui gradi di libertà, di individuare tendenze ed "aree di pericolo", di differenziare e gerarchizzare gli interventi necessari e compatibili, collocandoli nella giusta dimensione storico-temporale. Analogo discorso vale per i tessuti edilizi, per i quali la conoscenza delle regole tipomorfologiche che hanno presieduto alla loro formazione consente di operare classificazioni per ciascun edificio e di individuare eventuali "aree omogenee"; in cui è possibile individuare caratteristiche comuni non soltanto in relazione alle matrici genetiche ma anche al livello e alla qualità delle progressive trasformazioni fisiche/funzionali/d'uso conseguenti alla diversa collocazione dei tessuti nel contesto urbano (centralità/perifericità, marginalità/prcissimità a polarità) e del diverso tasso di complessità dei processi storici avvenuti nelle diverse realtà terri-
toriali. Aree tipomorfologiche omogenee quindi nelle quali è possibile esplicitare una lettura diacronica dei processi evolutivi anche attraverso una ricca casistica esemplificativa, e restituire attraverso la ricchezza delle informazioni un filtro interpretativo che garantisca un'appropriazione del processo tipologico e dei relativi esiti morfologici consentendo la individuazione di vincoli e gradi di libertà da sottoporre continuamente al vaglio dei casi reali. 115 La cultura storica italiana da tempo lavora, con accentuazioni anche molto diverse, in questo campo. E ancora oggi, a molti anni oramai dell'esperienza capofila di Bologna, è possibile rileggere in due dei più interessanti piani relativi a centri storici, quello di Palermo e quello di Venezia, due diverse modalità di approccio, sia pure all'interno di una comune e riconosciuta necessità dell'analisi tipomorfologica per definire uno strumento operativo di conoscenza e classificazione. Il nuovo piano particolareggiato di Palermo si muove nel solco fondamentale della tradizione bolognese, laddove assume al centro della sua azione una precisa idea di "restauro urbano". Restaurare Palermo e il suo territorio come un organismo unitario vuoI dire attenersi all'approccio che è proprio del restauro in tutte le scale: attenzione, discrezione, fedeltà. Le caratteristiche, le strutture, le forme sono già contenute nell'oggetto da restaurare e non devono essere introdotte dall'esterno: l'intervento deve mettersi al suo servizio, aggiungendo' solo quanto basta a chiarire, render durevole e far convivere l'oggetto - fisico e sociale con gli altri elementi della realtà contemporanea; in questa voluta limitazione sta la vera innovazione culturale 116 183
In questo senso, fattore centrale di una ipotesi di piano che tende a restituire al futuro, come dice Cervellati, "la città che si è consolidata e stratificata nel corso di due millenni e mezzo" m, è l'instaurazione di un processo di conoscenza che consente di definire, per ciascun edificio, l'appartenenza ad un elenco di "categorie tipologiche": categorie che non mirano tuttavia a restituire "modelli statici", alla ricerca cioè di presunte configurazioni "pure" del passato da ripristinare (anche se questa posizione sembra emergere talvolta nelle enunciazioni e nel rifiuto aprioristico di inserimenti contemporanei), ma piuttosto a definire le regole per una "ulteriore trasformazione che consenta un plausibile uso moderno" anche attraverso eventuali comportamenti "innovativi". La distinzione delle categorie tipologiche è dunque strettamente funzionale alla dinamica operativa,e ha lo scopo principale di spezzare le definizioni generali delle modalità d'intervento e delle destinazioni d'uso, rendendole calzanti alle principali varietà dei casi concreti. ( ... ) Così il piano diventa immediatamente esecutivo, e non richiede nessun nuovo strumento d'insieme, ma solo le concessioni per i progetti delle singole unità edilizie: l'amministrazione manifesta una volta per tutte le sue esigenze normative, e i cittadini sanno con precisione che cosa si può fare o non si può fare in ciascuno degli immobili di pertinenza. Una delle cause del degrado e dello spopolamento cioè la sospensione delle regole urbanistiche che si aspettano da qualche atto futuro, può essere rimossa subito, lasciando spazio ad una pluralità di progetti pubblici e privati in libera competizione entro i limiti legati i s •. Analogo discorso vale per il già citato caso della proposta di variante generale per il 184
centro storico di Venezia, in cui tuttavia l'abaco dei caratteri tipologici e morfologici rinuncia ad operare definizioni canoniche (schiera, corte, linea e relative varianti e gemmazioni) per un più articolato repertono di "unità di spazio" coperte e scoperte, di cui le prime definite in base a tre grandi discriminanti storiche (unità preottocentesche, ottocentesche, novecentesche) e ad una assortita casistica di livelli di "maturazione" diacronica o di variazione "sincronica". In questo caso tuttavia la classificazione predisposta costituisce la base operativa per definire, oltre che le destinazioni compatibili, anche le trasformazioni consentibili e/o prescritte non in relazione alle categorie dell'art. 31 della 457, come a Palermo, ma ad una specifica definizione formulata in funzione delle caratteristiche tipomorfologiche stesse di ciascuna classe. In tal senso lo strumento di pianificazione urbanistica elaborato a Venezia provvede a: - prescnvere la conservazione ditali caratteristiche, mediante la previsione della manutenzione, del restauro e del risanamento conservativo degli elementi fisici in cui, e per quanto, esse siano riconoscibili e significative; - prescrivere il ripristino ditali caratteristiche, o la riapplicazione delle predette regole conformative, mediante la previsione di trasformazioni degli elementi fisici, o dei loro insiemi, in cui, e per quanto esse siano state alterate o contraddette; - disciplinare le utilizzazioni funzionali dell'ambito territoriale interessato, nel suo insieme e nei suoi singoli elementi, garantendone la coerenza con le caratteristiche e con le regole conformative, di cui sia prescritta la conservazione, od i ripristino, o la napplicazione. 19 Emerge una cultura, dunque, della conoscenza "scientifica" dei tessuti e della riqua-
lificazione altrettanto rigorosa ed attenta anche alle necessità operative, che tuttavia non esclude un inserimento "consapevole" del nuovo, all'interno cioè di una conoscenza dei luoghi che sappia dettare regole chiare agli eventuali interventi di sostituzione e completamento. I recenti progetti di nuova edificazione di Valle alla Giudecca e di Gregotti a Cannaregio, stanno appunto a dimostrare che quando è chiara la domanda della pubblica amministrazione è possibile ottenere, in contesti "rischiosi" come quello veneziano, una edilizia seriale di qualità di cui si sente un diffuso bisogno nella nostra cultura architettonica e nelle nostre città. Questa cultura è oggi chiamata ad estendere il proprio raggio d'azione a tutto il territono urbano, aldilà dei limiti tra città storica e moderna imposti dai vecchi PRG o da oggettive e incontestabili separazioni, anche fisiche, tra luoghi storici straordinari e resto del territorio. È la strada indicata da Compos Venuti quando parla della "necessità di trattare tutti i tessuti urbani con la stessa metodologia finora utilizzata unicamente per il centro storico", estendendo a tutto il territorio t'interesse per le trasformazioni morfologicofunzionali che i diversi tessuti della città hanno subito nel tempo, e quello per la futura trasformazione morfologico-funzionale che il piano 'orrebbe proporre 120
I caratteri complessi dei sistemi informativi Solo l'incrocio tra i caratteri tipomorfologici dei tessuti e degli insediamenti e i caratteri economici, sociali, funzionali e d'uso consente tuttavia di restituire il quadro delle propensioni all'intervento, di defini-
re gli operatori e le procedure più idonei, di valutare costi e benefici nel quadro di un rapporto proficuo tra investimenti e interessi pubblici e privati. In tal senso la conoscenza dei caratteri fisici definisce una "tavola- base" dai tempi lunghi di trasformazione su cui innestare un sistema più o meno fitto di informazioni, dai tempi ben più rapidi di trasformazione, e quindi costruire livelli più sofisticati ed orientati di conoscenza. Due casi concreti, di scala diversa, quella comunale e quella regionale, possono aiutare a comprendere un possibile metodo di lavoro. A livello comunale il. caso di Taggia, un piccolo centro ligure dell'entroterra, e del sistema informativo messo a punto per elaborare e gestire la "variante generale al PRG", costituisce un riferimento stimolante. La "variante" infatti è costruita in modo da fornire alla P.A. non solo uno strumento di attuazione del PRG ma anche uno strumento di ,gestione costituisce infatti parte integrante della stessa l'Osservatorio Centro Storico (per la base del quale è stato attuato un Sistema Informativo gestionale) ed il Catalogo degli interventi connesso alle norme speciali per la zona storica 121
Lo schema procedurale prevede quindi diversi livelli: - quello della identificazione e selezione dei dati necessari, sulla base di criteri rispondenti ai presupposti metodologici e agli obiettivi generali del piano; in tal senso la selezione è stata effettuata attraverso una analisi per "disagi": i disagi relativi al funzionamento della struttura urbana nel suo complesso (accessibilità, carenza di servizi, degrado dell'ambiente urbano); 185
quelli abitativi (degrado delle abitazioni, squilibri d'uso del patrimonio edilizio, rapporto abitazione/ambiente); quelli relativi al tempo libero e alla qualità dell'ambiente; e infine i disagi relativi alla rete commerciale, al sistema terziario, alle attività artigianali; - un secondo livello è l'acquisizione dei dati attraverso un incrocio tra quelli ISTAT e dell'Ufficio Anagrafe e quelli desunti da un indagine diretta attraverso una schedatura per unità edilizie, alloggi e famiglie; - terzo livello è quello della elaborazione, analisi ed interpretazione dei dati, con la sistemazione in appositi arcvi• "facilmente consultabii ed aggiornabii", la predisposizione di una "carta-base" digitalizzata con la memorizzazione di alcune informazioni essenziali (unità minime d'intervento, unità edilizie, numeri civili, ... ) 122, e la elaborazione di tabelle, grafici e carte "tematiche" che incrociano le analisi storico-morfologiche con quelle relative alla consistenza edilizia, agli usi residenziali, allo stato degli edifici e alla struttura socio-demografica; - segue il livello della formazione di un sistema integrato di strumenti pianificatori ed operativi, con l'attuazione di norme e procedure d'attuazione e la redazione del piano per il Centro storico; - infine il livello della gestione, con l'incrocio continuo e dinamico tra aggiornamento/integrazione delle conoscenze, attuazione del piano e suo sviluppo con le successive modificazioni. Su questa base, quindi, il sistema informativo diventa uno strumento di conoscenza e di orientamento sia per la fase pianificatoria che per quella gestionale 123 Nel primo caso, il principale obiettivo è stato quello di strutturare, in un sistema informativo supportato da 186
calcolatore e continuamente aggiornabile, i dati necessari ed analizzare le diverse stratificazioni sociali ed economiche dell'area in esame, la quantità e la qualità del degrado, le condizioni abitative, le modalità d'uso del patrimonio edilizio esistente e di catalogare e definire le forme e i modi della trasformazione "spontanea" atti a cogliere i meccanismi economici interni e a guidare le scelte di piano. In questa fase si è ritenuto indispensabile utilizzare il calcolatore per poter gestire, non in termini esclusivamente numerici ma facendo rifermento ad una puntuale localizzazione topografica, una considerevole quantità di dati e poter effettuare incroci a vari livelli su carte tematiche e tabelle in restituzione automatica 124 Per la fase gestionale, invece, lo strumento messo a disposizione dell'Amministrazione non si configura con una funzione di controllo ma di guida della gestione degli strumenti urbanistici attuativi per il recupero del c.s. ed utilizzabile in altre importanti fasi decisionali (es.: controllo e gestione dello stock abitativo). Il sistema informativo attivato su calcolatore consente di aggiornare continuamente i dati, di gestirli in tempo reale, di integrare parzialmente gli archivi comunali. Superando così il dato statico dei piani tradizionali si creano i presupposti per un piano che modifichi nel tempo le proprie indicazioni a lungo termine e che permetta all'Amministrazione di attivare strategie d'intervento articolate e tempestive, coordinando adeguatamente gli interventi pubblici e privati 125 Ad una scala diversa, quella regionale, l'attività della Regione Liguria dimostra la stretta interdipendenza esistente tra conoscenza, normativa, pianificazione territoriale e programmazione delle risorse.
Aldilà del giudizio che è possibile trarre su alcuni di questi aspetti, così come si sono concretizzati nell'esperienza dei fatti, come ad esempio la Normativa Tecnica di cui abbiamo già avuto modo di parlare in altra parte di questo scritto, non v'è dubbio che la strada imboccata attribuisce alla conoscenza, e quindi al ruolo di . sistemi informativi orientati, il giusto peso e la giusta collocazione nel processo normativo e programmatorio. Partendo dalla considerazione che senza possibilità di controllare e misurare gli effetti complessivi sul sistema delle decisioni assunte, viene a mancare il significato concreto di qualsiasi programmazione, e che senza mezzi. tecnici di riscontro verrebbe vanificata la portata della stessa normativa tecnica prestazionale ed esigenziale predisposta dalla Regione, ne è scaturata la decisione di dotarsi di una serie di primi strumenti conoscitivi e di verifica dei risultati quali il "Laboratorio per la sperimentazione della qualità residenziale", l'Osservatorio del sistema abitativo", il "Servizio tecnologico per il risparmio energetico in edilizia" attivati insieme all'anagrafe dell'utenza con la legge regionale 35/84 126•
A ciò si aggiunge la formazione di una "carta tecnica regionale", a diverse scale di riferimento fino a quella specifica dei centri storici, con la creazione di carte tematiche unificate per i 677 comuni della regione 127; nonché la più recente costituzione di una "Agenzia regionale per il recupero edilizio" intesa come società mista a prevalente partecipazione pubblica con funzioni di servizio, promozione ed assistenza, sia dei comuni che dei soggetti privati 128 Tali strumenti si configurano come presupposti fondamentali per
la conoscenza della realtà territoriale e delle sue dinamiche, la flessibilità di fronte a fattori esterni non direttamente governabili quali la disponibilità di aree insediabili e di occasioni operative per il recupero edilizio ed urbano, l'avvio di strumenti di supporto alla programmazione, per la conoscenza e la gestione del processo edilizio 129
La creazione di sistemi informativi diviene quindi parte di un più complesso sistema di strumenti per la gestione attiva del patrimonio esistente che si arricchisce anche attraverso un flusso continuo di informazioni tra Regione, province, Comuni e operatori, governato da sistemi di schedatura per la conoscenza, la selezione e il controllo degli interventi realizzati con l'intervento pubblico. CONTROLLO E c0NcERTAzI0NE: PROBLEMI, RISCHI E POTENZIALITÀ
La nuova fase determinatasi con il rinnovato interesse per la riqualificazione della città esistente, con le conseguenti pressioni economiche di un complesso di operatori che si rivolgono al riuso del patrimonio immobiliare storico e/o dismesso, conseguentemente al progressivo esaurimento dell'espansione dello stock edilizio, ha coniugato difficoltà soggettive ed oggettive nel governo dei processi di trasformazione urbana da parte della pubblica amministrazione. Le difficoltà soggettive vanno ricondotte principalmente alle ben note vicende re-
lative alla progressiva perdita della capacitd di controllo del regime dei suoli e degli immobili da parte delle amministrazioni locali, che hanno notevolmente ridotto il proprio potere contrattuale nel corso degli anni '80, mettendo in discus187
sione i livelli più elementari del governo del territorio.
Esproprio e governo del territorio: alcune questioni irrisolte Va ricordato in proposito che sono passati oramai 10 anni dalla famosa sentenza n. 5 della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimi i criteri di determinazione dei valori espropriativi introdotti dalla L. 865/71, ritenendoli contrastanti con il principio sancito dall'art. 3 della Costituzione e con il diritto all'adeguato "ristoro" assicurato all'espropriato dall'art. 42 della stessa Costituzione. Ne sono passai 7 dalla successiva sentenza n. 223 del 1983 che dichiarava illegittimi anche i criteri di determinazione dell'indennità provvisoria da conguagliare in fase successiva, definiti dalla legge-tampone n. 385/80 che tentava di arginare le difficoltà giuridiche e finanziarie causate dalla sentenza dell'80 e di non bloccare i procedimenti espropriativi in corso. E si è oggi ancora alle prese con la discussione e l'approvazione di un testo unificato elaborato da un comitato ristretto costituito nell'ambito della XIII Commissione, che ha accolto e sintetizzato diverse istanze ed in particolare quelle che provenivano dalla cosiddetta proposta Cutrera ed ai principi ispirati alla legislazione francese in materia in essa contenuti. Ma l'abnorme allungamento dei tempi di approvazione dice molto sul livello di considerazione che la politica urbanistica ha nell'azione del Governo. Non si vuole con questo ignorare che, affianco ad alcune responsabilità dello Stato, esistono alcune difficoltà di tipo oggettivo che il governo pubblico del territorio incontra, con i relativi riflessi sul piano dei" principi" da adottare in mate-
ria di regime dei suoli e degli immobili: il passaggio dalla fase di urbanizzazione di aree periferiche vergini a quella di prevalente riqualificazione della città costruita, le "attese" indotte, l'alto livello di appetibilità logistica, i diversi livelli di costo degli interventi rispetto alla nuova edificazione degli ani 60/70, i vincoli posti da un tessuto sociale ed economico preesistente, e dunque l'impraticabilità di un regime tutto pubblico delle aree, sono fattori che impediscono di pensare al solo strumento dell'esproprio ai fini di una efficace politica dei suoli e degli immobili, o perlomeno di pensare a questo strumento nei termini a cui ci ha abituato la fase dell'espansione. La regolamentazione dell'esproprio è quindi condizione necessaria, ma non sufficiente per svolgere una politica territoriale efficace nei riguardi dei nuovi problemi di riconversione del patrimonio edilizio esistente e delle aree "dismesse". Accanto alla necessità di acquisire un consistente patrimonio pubblico che consenta di incidere sugli andamenti di mercato e di non subirli, non v'è dubbio che le nuove condizioni richiedono uno strumentario più articolato. Sembrava possibile concepire una strategia di regolamento del mercato che, senza limitarsi logicamente agli strumenti di pianificazione, mettesse in gioco un insieme articolato di strumenti: la classificazione del suolo, la sua qualificazione, la programmazione, la definizione dei "poligoni" e l'istituzione dei sistemi di attuazione", le cessioni gratuite di suolo, la fìscalità urbana, ecc., potevano essere potenzialmente utilizzati come strumenti per la politica del suolo, rendendo complesso, ma allo stesso tempo semplificando, la gestione urbanistica, nella misura in cui poteva cessare di essere un
obiettivo impossibile a causa della endemica scarsità di mezzi economici comunali uo • Sono proprio queste nuove condizioni d'altronde a riaffermare il bisogno di piano e a richiedere un livello più raffinato e complessivo delle strategie di gestione ur banistica. Benevolo in proposito suggerisce da tempo un ampliamento di scala ed un mutamento radicale nella mentalità delle amministrazioni pubbliche delle grandi e medie città. Questi nuovi compiti esigono la conferma delle scelte fondiarie già sperimentate, cioè l'esaurimento delle aree fabbricabili private e il temporaneo possesso pubblico dei terreni da trasformare in qualunque modo. Tuttavia, richiedono nuovi approcci amministrativi e progettuali: le aree vicine ai centri urbani ("interstiziali") non si possono acquistre a basso prezzo, mentre il pareggio complessivo dell'intervento è ugualmente raggiungibile, sicché occorre un fondo di rotazione più cospicuo, che comporta nuove soluzioni organizzative (per esempio una società fra l'ente pubblico e le bancbe); su questa base diventa possibile una progettazione più impegnativa, nella scala architettonica, non più costretta dalle formalità dell'impiego pubblico u' • È un invito alle amministrazioni (e agli
urbanisti) a non chiudersi nella valutazione caso per caso degli interventi proposti nelle aree più appetibili (con la previsione scontata di dover soccombere nella contrattazione al maggior peso economico degli operatori privati), ma ad
assumere un comportamento da grande azienda, capace di valutare "a tutto campo" le modalità di intervento, gli equilibri finanziari possibili e gli eventuali trasferimenti di risorse da un comparto
all'altro, all'interno di una politica sulle aree e sugli immobili che coniughi centro e periferia, nuovo e recupero, esproprio e acquisto, intervento pubblico e convenzionamento. Il nuovo ordinamento degli enti locali, la L. 142/90, con la costituzione delle provincie metropolitane, apre prospettive nuove rendendo possibili quelle soluzioni tecniche ed istituzionali necessarie per realizzare questo mutamento di ottica fino ad ora reso impossibile dal livello di frammentazione e di concorrenza tra comuni contermini. Forse è vero che finalmente molti piagnistei strumentali perderanno fondamento e molti alibi cadranno.
Convenzionamento e "convenzionamento speciale" Il processo di deregolamentazione legislativa, la crisi della finanza locale e l'inadeguatezza organizzativa delle autonomie locali, assieme alle oggettive difficoltà del controllo pubblico delle trasformazioni urbane nella città costruita, sono divenuti nel corso degli anni '80 la cornice di una nuova prassi amministrativa nell'attuazione delle operazioni urbanistiche ed edilizie, quella del convenzionamento. Le convenzioni urbanistiche nel quadro legislativo nazionale e regionale non sono certo una novità degli ultimi dieci anni. È una prassi antica che ha antecedenti illustri fin nella legge speciale per Napoli del 1885 ed una variegata e complessa evoluzione giuridica e normativa lungo tutto questo secolo 132 Ma non v'è dubbio che le nuove tendenze manifestatesi nella seconda metà degli anni '70 abbiano introdotto un quadro nuovo rispetto alla fase precedente. Tali novità si sono svilup189
pate a partire dall'esaurimento della fase espansiva delle città e dal tentativo, verificatosi sopratutto nelle città del centro-nord, di importare nella riqualificazione della città esistente gli stessi strumenti adottati per la fase espansiva: demanio delle aree, concessione in diritto di superficie o in proprietà, compresenza di una proprietà pubblica delle aree e di una capacità imprenditoriale non speculativa degli operatori privati, tutti fattori cioè che avevano indotto in molti casi profonde modificazioni anche nell'organizzazione del settore edilizio. L'impraticabilità di un esproprio generalizzato nei centri storici, sia per motivi oggettivi che soggettivi, ha dunque comportato un rapido ripiegamento verso un sistema di convenzionamento con la proprietà privata, nel quale venissero comunque salvaguardate le finalità sociali delle operazioni pur senza ricorrere allo strumento espropriativo 133. Questa fase si conclude con il varo della L. 10/77 ma sopratutto della L. 457/78 in cui lo strumento della convenzione viene articolato in diverse tipologie, supportate anche dall'introduzione dei mutui a tasso agevolato nel caso degli interventi di recupero, che avrebbero dovuto fornire uno strumento di contrattazione in mano agli enti locali nel rapporto con i privati e nella valutazione dello scambio di prestazioni. In tal senso la convenzione manteneva ancora, in linea di principio, il valore di uno strumento ordinario di controllo che avrebbe dovuto rafforzare la capacità di governo della pubblica amministrazione assieme alle possibilità comunque offerte dall'esproprio con i Piani di recupero di "rilevante e preminente interesse pubblico". Il fallimento dei mutui agevolati e il venir meno dello strumento espropriativo agli 190
inizi del decennio successivo hanno po-
sto le premesse per l'emergere prep otente
di uno solo dei moduli convenzionali previsti dalla legislazione del 77178, quello delle cosiddette "convenzioni speciali" previste dall'art. 32 della L. 457 per i comuni con popolazione superiore ai 50mila abitanti. Questo tipo di convenzioni si afferma quindi come ipotesi alternativa, svincolata dal mercato finanziario, come l'unica capace di garantire un congruo margine di redditività all'operatore privato scoraggiato dalle caratteristiche vincolanti degli altri moduli convenzionali, ed una qualche praticabilità delle politiche di riqualificazione all'amministrazione pubblica anche se a condizioni di accordo generalmente poco favorevoli all'interesse pubblico. Nonostante le interpretazioni che sono state date al convenzionamento "speciale" da parte dei comuni, soprattutto in materia di salvaguardia della popolazione esistente a basso reddito e di controllo sui prezzi d'affitto e di vendita, è infatti indiscutibile che la contropartita a questi benefici sociali ed economici, su parti peraltro generalmente assai ridotte del patrimonio edilizio interessato dall'intervento, è consistita nella rinuncia al controllo pubblico di altre parti assai più consistenti nelle quali, per garantire un equilibrio tra penalizzazione imposta da un lato e necessaria redditività compensativa dall'altra, sono state autorizzate profonde trasformazioni d'uso, sociali ed economiche. Le conseguenze sono facilmente immaginabili: - viene emarginata la strada di un accor do con gli operatori minori, la piccola proprietà e i proprietari-inquilini, mentre si riconosce un ruolo determinante e con-
dizionante della grossa proprietà e delle società finanziarie ed immobiiari che definiscono alla scala urbana le utilità economiche delle operazioni, mentre il comune resta inchiodato ad una contrattazione caso per caso necessariamente al ribasso; - si istituzionalizzano gli spazi di lievitazione della rendita urbana necessari per contenere la fattibilità delle operazioni; un meccanismo che ritroviamo con motivazioni analoghe anche in esperienze di tipo diverso, come quella torinese relativa al riutilizzo delle aree e degli immobili lasciati liberi dalle industrie che si delocalizzano dal centro urbano ": in tal modo il tentativo di depurare il settore edilizio dagli effetti perversi della rendita e di garantire il solo profitto imprenditoriale, operazione che aveva avuto successo con la gestione del patrimonio pubblico delle aree 865 negli anni 60/70, torna a riaffacciarsi con prepotenza nei centri urbani con l'avallo pubblico, in cambio di contentini di fatto transitori; - si rinuncia così sostanzialmente ad un controllo diffuso sul patrimonio immobiliare, consentendo invece che processi irreversibili e profondi di sostituzione-trasformazione sociale e economica si sviluppino ulteriormente consolidando le tendenze in atto. Si riconosce in sostanza che l'unico strumento rimasto in mano ai comuni per risolvere l"impasse" operativa e raggiugere alcuni transitori obiettivi "socialmente rilevanti" sia quello di far leva
su meccanismi di finanziamento indiretto, fondati sul consenso "pubblico" alla realizzazione di consistenti incrementi di valore in ampi settori del tessuto urbano. Le esperienze più rilevanti in questo senso sono quelle relative a Bologna, Torino e Milano.
L'esperienza di Bologna, come abbiamo già avuto modo di dire, è quella in cui l'esigenza di un convenzionamento di tipo "speciale" ha trovato i suoi primi momenti di definizione. È qui che emerge infatti la consapevolezza, per la prima volta, che il risanamento non poteva essere realizzato solo con interventi pubblici, ma doveva poter contare anche sul concorso del capitale privato. La convenzione speciale nasce perciò all'interno di una strategia d'intervento in cui convivono l'intervento pubblico finalizzato, quello diretto al mercato tradizionale e alla realizzazione di alloggi-parcheggio. Il convenzionamento spèciale, nell'interpretazione bolognese, ricopre appunto questo ruolo, attraverso cioè "la messa a disposizione di una quota di alloggi per proseguire nel risanamento convenzionato pubblico e privato" 135. Le convenzioni divengono in questo senso, uno "strumento di programmazione", contribuiscono a pianificare il recupero dell'esistente, consentendo di ottenere quegli alloggi necessari al programma complessivo di recupero del centro storico. Sulla base di una interpretazione originale dell'art. 9b della L. 10/77, che ritiene implicita una limitazione della convenzione ad una parte dell'immobile da risanare (gli "alloggi concordati"), e che suggerisce per questa stessa parte un regime di sola locazione a canone sociale ', veniva indicata al legislatore nazionale una nuova ipotesi d'intervento, tradotta poi concretamente nell'ultimo comma del citato articolo 32 della L. 457/78. A Bologna la convenzione speciale ha seguito due strade diverse, entrambe finalizzate al controllo dell'utenza e alla realizzazione di un mercato di alloggi da offrire in locazione, ma tuttavia differenziate a seconda degli operatori privati coinvolti; 191
Da un lato troviamo le convenzioni stipulate con proprietari di molti alloggi da risanare ma con scarse possibilità finanziarie, nelle quali il comune acquisisce una quota di alloggi, incentivando in questo modo l'operatore privato a risanare gli alloggi rimasti in suo possesso. Questo tipo di accordo è stato il primo ad essere sperimentato, così come si evince dall'esperienza compiuta su un intervento di 28 alloggi 137 Esso si presenta con caratteristiche sostanzialmente anomale rispetto al tradizionale modulo di convenzionamento speciale autofinanziato: viene praticamente vincolato ad affitto tutto l'intervento; viene garantito il rialloggiamento complessivo dei precedenti utenti, con una chiara accentuazione quindi dell'obiettivo di salvaguardia sociale; inoltre si rende possibile per l'ente locale "intervenire direttamente sul mercato immobiliare, limitando ad esempio le vendite frazionate" '38 Il comune oltretutto rende possibile l'attuazione dell'intervento attraverso l'impiego di proprie disponibilità finanziarie (nell'acquisto di alcuni immobili di proprietà della controparte), diversamente dalla prassi che prevede un sostanziale "autofinanziamento" dell'intervento da parte degli operatori privati. Questo tipo di convenzione sembrerebbe, quindi, in grado di proporsi come strumento non traumatico di intervento, pur richiedendo tuttavia, per una estensione del suo utilizzo, una disponibilità economica da parte degli enti locali che sembra invece lo scoglio più insormontabile. Il secondo tipo di convenzione speciale è quello stipulato con "imprese che intervengono in zone che comprendono numerosi complessi irnmobiliari di proprietà da risanare, abitati o meno" 139 Questa seconda strada è quella tradizionale in cui 192
solo una quota dell'intervento viene vincolata ad un canone JACP per 20 anni, a favore di un'utenza concordata del Comune e, anche in questo caso, con priorità ai precedenti locatari. È importante sottolineare che questa tipologia di accordo è quella che più risponde alla necessità originaria di ottenere alloggi-parcheggio per la prosecuzione delle operazioni di risanamento, soprattutto in considerazione del fatto che le unità edilizie su cui si interviene vengono scelte di preferenza tra quelle parzialmente o completamente disabitate; il che riduce o annulla i problemi di rialloggamento e consente di bloccare la quota convenzionata ad un canone sociale più basso dell'equo canone. In tal senso questo tipo di convenzione si configura come un'occasione puntuale e circoscritta, complementare ad altre possibilità d'intervento, delle quali diventa elemento di supporto indispensabile per garantire la necessaria rotazione di popolazione. Una sua diffusione d'uso, d'altronde, non si concilierebbe con l'esigenza di contenere l'innalzamento dei valori della rendita fondiaria (obiettivo più volte esplicitato dagli animatori dell'esperienza bolognese), che un controllo limitato a quote parziali del patrimonio edilizio non permette in considerazione dei prevedibili effetti, amplificati e concentrati, di valorizzazione indotta sulla quota svincolata e su un intorno più vasto. È difficile in tal senso accettare che la limitazione della rendita possa essere raggiunta anche "togliendo dal mercato della compravendita una quota parte dell'edificio destinandolo ad usi e canoni sociali" 140 . Tra le grandi città, l'esperienza di convenzionamento realizzata a Torino, su proposta del Collegio dei Costruttori
della Provincia, costituisce uno dei primi esperimenti di collaborazione tra comune e grossi operatori privati in materia di recupero urbano. L'accordo proposto, anche se non in modo esplicito, richiama le caratteristiche che saranno proprie delle convenzioni speciali, soprattutto per quanto riguarda la creazione di un parcoalloggi in affitto e il completo autofinanziamento privato dell'intervento. Nell'idea dei costruttori infatti il meccanismo operativo avrebbe dovuto garantire "di recuperare gli edifici degradati a cura e spese dei privati e di destinarli a tutti i ceti sociali, compresi quelli meno abbienti a cui verrebbe riservata una notevole pércentuale di alloggi con canoni simili a quelli dell'edilizia popolare" 141• Inquadrata in una proposta di rapporto di lunga durata tra imprenditoria ed ente locale che delineava, tra l'altro, la costituzione di una società ad economia mista per il finanziamento di un apposito "centro operativo" 142, l'intervento convenzionato prevedeva un impegno contrattuale in cui spiccano tre dati. - le residenze, in parte, vengono considerate "edilizia sociale" (65%) e di queste una quota viene acquistata dalla città ad un prezzo inferiore a quello di costo e l'altra quota viene ceduta ad un prezzo controllato (edilizia convenzionata) ; in parte vengono commercializzate dalla C.S.T. spa in libera vendita (35%); la quota parte acquisita dalla città si intende prioritariamente destinata alle famiglie già residenti nei quattro isolati ed aventi diritti ad usufruire di "edilizia sociale" ; - gli spazi a destinazione d'uso produttiva, commercio e terziario, vengono ceduti in parte a prezzo di libero mercato, in parte agli esercenti precedentemente insediati, o ai proprietari, ad un prezzo controllato. Ai proprie-
tari è offerta anche l'alternativa di acquisire azioni della società in cambio della proprietà ; - i servizi sociali vengono ceduti alla città a prezzo pari al costo 143. La proposta originaria, che presupponeva un processo di sostituzione sociale molto spinto, sull'onda di una serie di critiche 144 ha subìto una serie di ritocchi tesi a contenere il costo sociale dell'operazione che non modificano sostanzialmente la filosofia dell'intervento. Oltre alle già espresse perplessità di fondo sullo strumento del convenzionamento speciale così come è stato tradizionalmente inteso, si aggiunge anche in questo caso una valutazione circa la straordinarietà che di fatto esso viene ad assumere in relazione alla compresenza di numerosi fattori non facilmente ripetibili; e che configura questo esperimento, pur valido per la capacità dimostrata di coinvolgere i soggetti imprenditoriali e di condizionarne i comportamenti, come un tassello di una più articolata politica di piano che sappia utilizzare una tastiera articolata di strumenti per intervenire in modo adeguato nelle diverse situazioni: in tal senso si è parlato di questa convenzione come "una delle poche strade praticabili per operare su dimensioni superiori al lotto in zone a proprietà polverizzata" 145 Si distingue dagli altri casi l'esperienza in corso a Milano, nella quale è stata riconosciuta in modo ufficiale, ed attraverso una chiara sistematizzazione dei suoi modi d'uso, una esplicita centralità della "convenzione speciale" nell'ambito della strumentazione urbanistica attuativa. La variante al PRG della fine degli anni '70 aveva individuato due strumenti attuativi fondamentali: le "zone di recupero" (le ex 193
zone "B2" di ristrutturazione urbana edilizia) ed il P.I.O. (piano di inquadramento operativo) definito come "strumento di coordinamento e di definizione dei criteri e delle modalità di attuazione degli interventi previsti dal P.P.A.", ed obbligatorio per le zone 132. Nel gennaio '82 la Giunta Comunale milanese approva i "Criteri per la definizione delle convenzioni speciali nelle zone di recupero ai sensi dell'art. 32 della L. 457/78". È significativo che, nella relazione degli assessori competenti venga esplicitamente riconosciuta l'impraticabilità di altre forme di convenzionamento "stante la difficoltà, nell'attuale situazione economica, di reperire operatori che trovino convenienza ad interventi che postulano l'assoggettamento di tutta la residenza ottenuta a canoni di locazione concordati con l'Amministrazione comunale o a praticare prezzi di vendita vincùlati" 146 La convenzione speciale si configura quindi come unico strumento praticabile in questa congiuntura economica e finanziaria e conseguentemente, pur se disciplinata da criteri unici e parametri precisi, si caratterizza per i suoi notevoli margini di adattamento alla mutevolezza dei casi concreti e alla varietà di situazioni sociali esistenti. U no strumento, insomma che bene esemplifica quella che è stata definita"la nuova articolazione dei processi decisionali" dell'intervento pubblico 147 in cui prevale l'elemento dialettico della contrattazione delle parti, della mediazione tra interessi contrastanti, e dovrebbe tuttavia essere riconosciuto dall'ente locale il ruolo di attore principale: anche se, a ben guardare, è molto facile rileggere in queste tendenze il segno di un'impotenza reale della pubblica amministrazione frequentemente incapace di garantire gli interessi pubblici di fronte alla pressione di quelli privati. 194
I criteri generali individuati dal Comune per la stipula delle convenzioni sono 48: - determinazione in sede di convenzione della tipologia dei alloggi facenti parte della quota convenzionata; - tutela degli inquilini esistenti con regolare contratto per la ricollocazione negli edifici recuperati o nuovi, ad intervento effettuato; - sistemazione in alloggi a canone convenzionato inferiore all'equo canone solo per inquilini con reddito adeguato per l'ammissibilità all'edilizia residenziale pubblica; - scelta degli inquilini, da parte della proprietà, per gli alloggi eccedenti e convenzionati a canone ridotto, all'interno di una graduatoria predisposta dal Comune; - diritto di prelazione da parte del comune per eventuali nuovi edifici,ai prezzi dell'edilizia agevolata e convenzionata. La quota minima da convenzionare è pari al 20% ma questo valore può variare in funzione di altri parametri, ed in particolare della superficie da destinare ad un uso commerciale, artigianale o terziario per uffici: attraverso un meccanismo di calcolo proporzionale viene fissato il criterio per il quale, ad una più alta presenza di funzioni "ricche", deve corrispondere un più alto peso della residenza da convenzionare. Interferiscono con il calcolo l'eventuale cessione di aree per standard, l'esistenza di oneri accessori, o la presenza di un elevato numero di inquilini da rialloggiare. È certo facile criticare gli sforzi di quegli amministratori e di quei tecnici che, nel quadro delle difficoltà e delle carenze della strumentazione e delle disponibilità finanziarie, indicano possibili soluzioni operative che sperimentino concretamente alcuni criteri di "flessibilità" delle norme.
Sarebbe altrettanto miope ignorare che la ricerca di strade percorribili si rende necessaria, sopratutto in situazioni come quella milanese, per contrastare processi di ristrutturazione 'striscianti" che assumono connotati esclusivamente speculativi, e per dare risposte ad improrogabili domande sociali. È evidente insomma che quella ricerca è indispensabile per evitare compromissioni definitive ed irreversibili del patrimonio edilizio; ed è condivisibile inoltre l'ipotesi che punta a saldare queste esigenze con la prospettiva di coinvolgere gli operatori immobiliari sul terreno della "ragionevolezza imprenditoriale", del "giusto profitto", della depurazione dagli effetti della rendita. Ciononostante non è possibile nascondersi che questo sistema di accordo pubblico-privato presta il fianco a numerose critiche. Va innanzitutto rilevato che il proliferare del convenzionamento speciale a Milano ha marciato di pari passo con un processo di lento dissolvimento di fatto del piano a favore di alcuni " grandi progetti" e con un messa in discussione della sua stessa necessità nell'opinione diffusa e nei comportamenti di larga parte degli amministratori e dei tecnici: tendenza che è coincisa con l'esasperazione di una politica urbanistica "per parti" legata alle diverse occasioni via via offerte soprattutto dal processo di dismissione industriale e infrastrutturale e dalla creazione dei nuovi poli del terziario avanzato. Questa tendenza ha trovato la sua consacrazione nel repentino abbandono della variante generale al PRG appena approvata a favore di un "documento direttore" di natura assai incerta e di successivi "progetti d'area" specificamente legati alla realizzazione
dei "grandi progetti". In questo senso la politica del convenzionamento speciale sembra confermare un più generale atteggiamento culturale ed operativo, allontanando il modello milanese da quell'idea di piano e di capacità di controllo a tutto campo e a diverse scale di cui parla Benevolo; e allontanando conseguentemente un possibile recupero di capacità contrattuale della pubblica amministrazione nei confronti dei privati. In secondo luogo, entrando nello specifico meccanismo delle convenzioni, la diffusione di un sistema di intervento che consente lo svincolo di fette consistenti del patrimonio edilizio dal controllo pubblico (teoricamente fino all'80%), e che affida ai "meccanismi di mercato" la regolamentazione dei canoni di locazione e dei prezzi di vendita, comporta un costo economico e sociale sproporzionato rispetto alle contropartite offerte. La conseguenza più immediata, infatti, è la tendenza alla valorizzazione spinta del patrimonio edilizio svincolato, il cui inserimento prevalente sul mercato è facilmente prevedibile nel segmento dell'offerta in proprietà e ad un livello di costi unitario che, considerata l'appetibilità insediativa dovuta alla centralità ubicazionale, indirizza queste fette di patrimonio verso le fasce più elevate e privilegiate della domanda. In più, con l'attuale difficoltà dell'operatore pubblico a controllare le modifiche di destinazione d'uso, non è difficile immaginare che il processo di successiva valorizzazione non potrà che proseguire e consolidarsi esaltando quindi gli squilibri. Non sono marginali, inoltre, gli effetti 'al contorno' che producono simili processi 195
di trasformazione. L'innalzamento violento dei valori immobiliari, l'inserimento di un tessuto socio-economico radicalmente diverso, la localizzazione di servizi" rari", la creazione dunque di" economie esterne" di livello superiore, incentivano ulteriori iniziative nelle aree attigue dagli esiti difficilmente controllabili ed indirizzabili, come sarebbe invece utile e vantaggioso poter fare. È chiaro inoltre che affidare a libero mercato la maggior parte dell'intervento, comporta un sostituzione ed un innalzamento del livello dei costi e dei sevizi offerti, sia all'interno dell'intervento stesso che al contorno per gli effetti indotti suaccennati: se quindi un esodo dei precedenti inquilini non è già avvenuto per la esistenza di pregresse "irregolarità contrattuali", è facile prevederlo in un tempo non molto lontano, in seguito all'innalzamento inevitabile del tenore di vita che rende problematica la permanenza di fasce a reddito più basso. Infine la diffusione di questo sistema tende a modificare radicalmente i rapporti tra proprietà ed affitto, a scapito di quest'ultimo, proprio in un momento in cui si è da più parti messa in evidenza la necessità di conservare e non assottigliare questo segmento dell'offerta di alloggi, per evitare ulteriori. irrigidimenti del patrimonio immobiliare. In questo senso appare interessante l'alternativa proposta nello stesso documento della Giunta comunale che prefigura un diverso regime di convenzionamento in cui viene mantenuta in locazione tutta la superficie recuperata, o quantomeno la superficie residenziale; per 20 anni. Sulla base di un calcolo delle redditività delle 196
superfici a destinazione residenziale e di quelle commerciali e terziarie, i risultati economici che si ottengono sembrano indicare una accessibilità estremamente alta al tipo di offerta, con l'indubbio vantaggio di una estensione dell'affitto a tutti gli alloggi e la compressione delle possibili valorizzazioni al solo settore non residenziale. Se si intende rafforzare un ruolo di maggior controllo, limitando le possibili distorsioni del mercato, questa è sicuramente una delle direzioni in cui lavorare.
Nord e sud, ordinario e straordinario Eppure, nonostante le potenzialità che era possibile intravvedere, non sembra sia possibile affermare che le convenzioni "speciali" abbiano conosciuto una diffusa applicazione a livello italiano, a meno di poche embiematiche esperienze come quella milanese. E questo forse perché la loro utilizzazione presuppone la concomitanza di una serie di condizioni indispensabili. Primo requisito è che l'immobile o gli immobili da ristrutturare siano di dimensioni sufficienteniente grandi da consentire una certa mobilità interna utile, nel caso i residenti non vengano allontanati provvisoriamente, a consentire i lavori e comunque indispensabile per una ricollocazione degli stessi in maniera più funzionale rispetto ai bisogni. Secondo requisito è che una parte dell'immobile sia libero da abitanti o comunque liberabile. La necessità di questa quantità libera è inversamente proporzionale alla rendita di posizione; maggiore è quest'ultima e minore è il bisogno di vani liberi, e questo già ci dice che a mano a mano che ci si allontana dalle aree a forte rendita di posizione meno diventano praticabili questi tipi di convenzione.
Terzo requisito è che lo stato di degrado dell'immobile sia particolarmente elevato e questo perché solo così il prezzo di cessione dell'immobile o la sua valutazione, nel caso di apporto, consenta una massiccia depurazione della rendita di posizione e una sua altrettanto massiccia ricomparsa per la parte che si destina al libero mercato. Quarto requisito è che la convenzione consenta all'operatore ragionevoli margini di profitto. Pur essendo questa una variabile dipendente solo o quasi dalla volontà della pubblica amministrazione (per non parlare del rnercato) finisce con il costruire uno degli scogli più difficilmente sormontabili) 14 È evidente cioè che, nel caso degli interventi di riqualificazione, il sottile gioco di equilibri necessario alla buona riuscita delle operazioni non trova sempre la possibilità di avverarsi: non è un caso che questo tipo di operazioni, che con la già citata "legge-verga" della Regione Lombardia hanno trovato un'ulteriore legittimazione, trovino condizioni più agevoli di realizzazione nei casi in cui esista una disponibilità di aree libere edificabili dove consentire una più agevole ricerca dell'accordo pubblico-privato. Ciò non toglie tuttavia che lo strumento della convenzione abbia trovato occasioni di utilizzo anche per regolamentare altre tipologie d'intervento, così come iprocessi di riconversione delle "aree dismesse" e la realizzazione di grandi poli terziari nella stessa esperienza milanese dimostrano. Nel complesso tuttavia, aldilà della minore o maggiore estensione d'utilizzo, è possibile affermare che non a caso lo strumento del convenzionamento, e quello "speciale" in particolare, si sia sviluppato sopratutto nelle città medie e grandi dell'Italia settentrionale: forte pressione e-
conomico-imprenditoriale alla riconversione urbana, una proprietà con estesi fenomeni di concentrazione, un livello non esasperato di degrado edilizio, l'inesistenza di fenomeni abnormi di sovraffollamento e di "specializzazione" sociale di vaste aree sono tutte condizioni di partenza favorevoli all'estenzione di una politica di convenzionamento. Questa politica non ha invece trovato applicazione nelle realtà urbane meridionali: la pressione economica alla riconversione delle aree centrali è qui assai più contenuta, e presenta più i caratteri di un processo tradizionale e polverizzato di micro-speculazione senza contenuti funzionali (e quindi relative appetibilità), di tipo terziario pregiato; è pressoché assente un processo di dismissione industriale, se non limitatamente ai grandi poli pubblici; la struttura della proprietà appare generalmente più frantumata e con una capacità propulsiva ed un interesse al recupero molto più bassi; è diversa la struttura sociale e culturale, con un livello di reddito più basso ed una tradizione associazionistica pressoché inesistente; è generalmente più forte il livello del degrado per una storica assenza di manutenzione ed un livello di" consumo" edilizio esasperato; le stesse caratteristiche d'uso presentano, accanto a casi di desertificazione, anche fenomeni esasperati di sovraffollamento che impediscono di pensare a modelli di intervento a "saldo sociale zero" all'interno dei singoli comparti d'intervento. Lo ha dimostrato ad esempio l'esperienza attuativa di recupero urbano del Programma Straordinario di Napoli, in cui la necessaria decompressione dei vecchi nuclei storici periferici ha dovuto ricercare le necessarie quote di compensazione attraverso l'urbanizzazione di aree adiacenti. 197
Tutti questi aspetti rendono quindi radicalmente diverso lo scenario meridionale, per il quale da più parti è già stata rilevata la difficoltà, o addirittura l'impraticabiità del ricorso a regimi di edilizia convenzionata nei termini tradizionali. Ed è evidente che questa difficoltà diventa massima quando si fa riferimento a modelli di convenzionamento basati essenzialmente sull'autofinanziamento degli operatori privati.
Non è un caso che le politiche di riqualificazione nelle città meridionali stentino a prendere forma perfino nei progetti, con il risultato che gli ultimi dieci anni hanno accentuato il divario con i livelli raggiunti in altre parti del Paese. Da un lato quindi, nelle città meridionali, situazioni di palese incapacità, impossibilità e/o, immaturità da parte del tessuto sociale ed economico nell'operare una "manutenzione urbana" storicamente continua e consolidata; dall'altro, nelle città centrosettentrionali, un fenomeno opposto, una prassi di recupero pressoché ordinaria, anche se tutta privata e spesso speculativa, che denuncia un eccesso di appetibilità e quindi semmai un degrado da congestione ed incontrollabilità delle scelte e degli effetti. L'attivazione di politiche di riqualificazione è dunque un problema particolarmente acuto nelle città e nei centri meridionali in genere, nei quali le poche iniziative intraprese o sono frutto dileggi speciali (è il caso della legislazione speciale del dopo-terremoto, della legge speciale per Matera, di quella per Reggio Calabria, etc.) o di volontà politiche anomale (si pensi a Taranto, Siracusa, e soprattutto a Palermo): e nonostante la presenza di incentivi più o meno corposi, anche da parte dello Stato centrale, quelle politiche stentano spesso a partire, vengono frena198
te o trasformate per altri obiettivi, restando il più delle volte ipotesi sulla carta, e dimostrando l'esistenza di consistenti'vischiosità" che travalicano il problema della "buona legge di spesa". Vischiosità legate alle caratteristiche organizzative e politiche della macchina amministrativa che dovrebbe gestirle, al tessuto sociale ed economico che dovrebbe renderle concretizzabili, alla presenza di forti "contropoteri" malavitosi, alle stesse caratteristiche fisiche e d'uso del patrimonio edilizio ed insediativo che costituisce un ulteriore "impedimento" in tal senso. Una delle ipotesi più interessanti che è stata avanzata negli ultimi anni per affrontare i problemi della trasformazione delle città meridionali '5° si basava infatti su alcuni punti fermi che avrebbero dovuto fornire una risposta a quegli impedimenti: - la necessità di far riferimento ad una scala degli interventi che fosse quella metropolitana; - il superamento di un'ottica di intervento di tipo "straordinario", basato sul meccanismo esclusivo dell'edilizia sovvenzionata, che da sola non può consentire di risolvere i problemi abitativi e che produce fenomeni non graditi di squilibrio sociale; - la necessità di determinare una "corretta divisione di compiti fra l'aniministrazione pubblica e gli operatori privati" in base alla quale "le amministrazioni forniscono i terreni, gli operatori fanno le case" lii; - la previsione di un assortimento degli interventi tra centro e periferia, tra recupero e nuovo, tra diversi livelli dell'offerta, da quelli altamente appetibili dal mercato a quelli rivolti ai ceti disagiati; - l'opportunità di puntare sull"urbanizzazione pubblica" alla scala metropolita-
na, attraverso la creazione di un "fondo di rotazione" iniziale che consenta l'acquisto delle aree, la successiva cessione ai privati a prezzi controllati e per obiettivi fisici predeterminati, il conseguente pareggio finanziario che consentirebbe di avviare nuove iniziative e di essere presenti nelle stesse operazioni di recupero con una maggiore capacità contrattuale, in un'ottica quindi di "autonomia finanziaria e operativa, diversa da quella assistenziale a cui appartiene anche il. Programma Straordinario per Napoli, sebbene al miglior livello" 52 - la riorganizzazione dell'apparato pubblico, sia per affrontare la scala metropolitana dell'intervento, sia per gestire le operazioni in un'ottica di tipo aziendale; - la creazione di una società mista che sia in grado di gestire finanziariamente l'operazione, distinguendo chiaramente i ruoli pubblici e privati e riportando gli operatori privati ad un più corretto ruolo di imprenditori che "rischiano" per costruire case con i propri soldi sulle aree acquistate ed urbanizzate dall'Amministrazione Pubblica. Un'ipotesi che spezzerebbe tanto l'attuale meccanismo di erogazione della spesa pubblica, in cui gli imprenditori risultano beneficiari senza rischio dei flussi di investimenti che provengono, "pilotati", dallo Stato centrale e tanto l'altro tradizionale meccanismo di "speculazione" che connette l'investimento imprenditoriale alla compravendita delle aree. Un'ipotesi inoltre che, come già detto, troverebbe oggi ulteriori motivi di concretezza nel nuovo assetto previsto dal nuovo ordinamento degli enti locali con la creazione delle provincie metropolitane. Un dubbio resta, che tuttavia non inficia l'ipotesi generale, e cioè che una politica
di riqualificazione territoriale ed urbana
nel Mezzogiorno possa far leva sulla sola elaborazione di ipotesi di intervento alla scala edilizia, senza una più ampia mobilitazione di politiche sociali ed economiche sarà difficile pensare, in città fortemente concentrate nei valori immobiliari in ristrette aree centrali come conseguenza dei caratteri stessi di funzionamento economico da "sottosviluppo" del modello urbano, ad una reale appetibilità delle quote di alloggi realizzate in aree periferiche (tale cioè da garantire liveffi di mercato anche per i ceti medi e quindi corrispondenti livelli di convenienza per gli operatori privati), senza una politica per programmi-obiettivo che preveda oltre ai servizi anche una diversa e più equilibrata allocazione delle funzioni di livello superiore e degli insediamenti produttivi. Per fare questo, non ci stancheremo di ripeterlo, e per evitare che qualsiasi politica edilizia venga tisucchiata inesorabilmente nei meccanismi del modello economico e territoriale imperante, occorre lavorare in diverse direzioni: ed in tal senso il ritorno all'ordinarietà non
può che passare per una riforma radicale dei meccanismi di spesa nei diversi settori d'intervento (quello ediizio, quello economico e quello sociale), per la definizione di obiettivi e diprogrammifisicamente determinati ed integrati nella definizione della interazione dei diveii settori, eper la definizione di nuove modalità di funzionamento istituzionale sia degli enti locali che dei rapporti tra questi e gli altri comparti dello Stato, anche attraverso un'idea più chiara e trasparente degli "accordi di programma". Ed ovviamente il ritorno all'ordinarietà passa. anche per il perseguimento di una politica di piano, cornice indispensabile per raggiungere obiettivi di questa complessità. 199
Anche in questo caso, il nuovo ordinamento degli enti locali deve poter rappresentare la base di partenza per ulteriori riforme dei meccanismi finanziari ed organizzativi degli enti locali in grado di affrontare il livello alto di questa scommessa.
denziale e che ha di fatto esteso l'istituto concessorio a tutto il territorio nazionale, fino ad arrivare alla L. 771/86 relativa al recupero dei "Sassi" di Matera e alla L. 879/86 e per il completamento della ricostruzione nel Friuli Venezia-Giulia e delle aree terremotate delle Marche.
Lo spauracchio della concessione Le perpiessità suscitate dall'uso delle convenzioni all'interno degli interventi di riqualificazione urbana fanno parte di una più generale questione relativa all'uso dello strumento della 'concessione" nel rapporto tra pubblica amministrazione e privati. È un campo questo che ha prodotto nel corso degli anni '80 numerosi dibattiti e confronti, ed anche notevoli equivoci. È noto che quello della concessione è strumento di antica formazione e di sperimentato utilizzo, che muove i suoi primi passi nel 1865 nel campo delle strade fer rate n, e che trova una sua prima sistemazione organica nel 1929 quando veniva sancita la possibilità di concedere in esecuzione anche a privati l'esecuzione di "opere pubbliche di qualunque natura" 154 . Ma la vera "esplosione" nell'uso di questo strumento è avvenuto alla fine degli anni '70 e nei successivi anni '80 a seguito dell'emanazione di diversi provvedimenti legislativi. A partire dalla L. 584/77 e ad ar rivare alla L. 80/87, che rappresentano i due testi legislativi più importanti in materia di disciplina delle concessioni, una serie di provvedimenti intermedi ha progressivamente definito gli spazi dell'istituto: basta ricordare tra le altre la L. 25/80 per gli interventi urgenti in edilizia, . la L. 219/81 per la ricostruzione delle zone terremotate della Campania e della Basilicata, la L. 94/82 che conteneva ulteriori provvedimenti in materia di edilizia resi200
Un particolare interesse, in questo quadro, riveste il titolo VIII della L. 219181, ed in particolare l'art. 81, in cui si prevedeva il ricorso alla concessione a consorzi di imprese per la progettazione e la realizzazione di interventi per 20mila alloggi e relative urbanizzazioni nell'area napoletana: un interesse che risiede non tanto nella formulazione che ne imponeva l'uso obbligatorio, peraltro molto libera e informale in considerazione delle necessità dettate dall'urgenza e dalla straordinarietà della situazione; quanto piuttosto nei modi attraverso i quali la concessione è stata interpretata ed utilizzata nel lungo processo attuativo ancora in corso. La cosa più interessante che si sia potuta riscontrare è che, se affrontata con la giusta mentalità, con una accurata preselezione di concessionari e con la scelta di collaboratori, interni ed esterni, consapevoli del compito (direi anche del privilegio) loro affidato, il rapporto di concessione, anche dell'ampiezza di quello attuato a Napoli, non costituisce per la committenza pubblica una secca delega di poteri ai soggetti privati, ma piuttosto il modo e l'occasione per disporre di strutture integrate che le consentano di rispettare i tempi dell'emergenza conseguendo una qualità anche superiore alla produzione corrente 155 Il carattere "processuale" dell'esperienza napoletana ha in particolare evidenziato l'esigenza di una maggiore definizione, in via preventiva, dei rifermenti normativi, delle in-
dicazioni procedurali, delle eventuali limitazioni della libertà di scelta dei concessionari, specie in tema di materiali, impianti e attrezzature che comportano problemi di gradimento da parte dell'utenza e comunque di manutenzione e gestione 156 . Man mano che la struttura di vigilanza rafforzava le proprie capacità organizzative e di controllo, più chiare divenivano le "regole del gioco" sia dal punto di vista tecnico che procedurale; va in particolare segnalato sul piano tecnico la definizione di un capitolato unificato tipo, con schede tecniche normalizzate per la descrizione di materiali e componenti, per ognuno dei quali veniva operata una codifica normativa e specificate le prestazioni; e la successiva elaborazione di un capitolato prestazionale/oggettuale per gli interventi di recupero, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, che introduceva anche alcuni codici di comportamento progettuale. L'introduzione di queste indicazioni nel corso del processo progettuale ed attuativo ha sicuramente elevato la qualità della progettazione e dell'attuazione, ha chiarito i ruoli tra operatore pubblico e privato, rendendo più trasparenti i controlli e consentendo di definire un più chiaro rapporto tra costi e benefici 157 È questo uno degli aspetti centrali della efficacia del rapporto concessorio, l'ei-
stenza cioè di una precisa regolamentazione tecnica e procedurale a monte che definisca con chiarezza i livelli qualitativi da raggiungere in un'ottica comportamentale e prestazionale, garantendo così anche le condizioni per una evoluzione dell'industria edilizia. Tra le tante tipologie concessorie che è oggi possibile prefigurare - quelle di
sola progettazione, o esecuzione o gestione, quelle miste di progettazione/esecuzione/gestione, e quelle miste limitate alla progettazione/esecuzione, esecuzione/gestione o progettazione/gestione 158 - le convenzioni urbanistiche di cui abbiamo parlato nel precedente punto C, vincolate come sono ad un provvedimento autorizzativo del Comune e tali da configurare comunque l'accordo con uno o più soggetti privati, possono anch'esse farsi rientrare all'interno della grande famiglia della concessione. In particolare lo strumento della "convenzione speciale" rappresenta l'espressione più sofisticata di un sostanziale finanziamento indiretto dello Stato e delle collettività ad un soggetto privato (in genere una società, un costruttore, un proprietario unico), attraverso la concessione di margini di lievitazione della rendita teoricamente cospicui e di eventuali sgravi fiscali o di scomputi di oneri, in cambio di alcune contropartite di "interesse pubblico" come la realizzazione di servizi, infrastrutture e alloggi a prezzo controllato. Su questa scia, e ad un livello diverso, quello cioè delle grandi infrastrutture di scala sovracomunale, sovraregionale o addirittura sovranazionale, tende ad affacciarsi l'ipotesi di un superamento delle difficoltà tecniche ed economiche della pubblica amministrazione in materia attraverso la pratica del cosiddetto "project financing", e cioè l'utilizzo di strumenti di accordo concessorio che prevedano l'affidamento, a "società di progetto", dei compiti di progettazione, reperimento risorse attraverso sponsorizzazioni e prestiti, esecuzione delle opere direttamente o in appalto, e infine gestione delle stesse come elemento centrale del ritorno eco201
ca"/organizzazione del territorio, ma annomico per il 'capitale di rischio". Una che dal punto di vista della reale efficacia prassi che altrove, in Europa, trova un sua realizzativa delle opere. diffusa applicazione. Questo meccanismo suscita interesse sul Nel caso del "Docks" di Londra ad esempiano teorico, sopratutto in merito alla pio il modello di sviluppo che ha portato possibilità di spingere, attraverso questa alla realizzazione del gigantesco intervenipotesi, l'attenzione dello Stat9 sulla reato di riconversiorle di un"area dismessa", le e trasparente misurabilità degli effetti ha avuto notevoli conseguenze negative che le opere pubbliche possono assumesul piano urbanistico. re nel quadro della politica economica nazionale e della pianificazione territoriale; e contemporaneamente di stimola- Accanto a chi, dall'interno dei meccanismi economici,ha vissuto e vive una stagione da re lo Stato stesso a valutare i costi e i bedefinire sostanzialmente positiva, non sono nefici sulla base di una gestione compoche le voci di aspro dissenso con questo plessiva del bilancio, attraverso una vamodello di sviluppo. Il ventaglio delle accuse lutazione del rapporto tra minori entrate si articola su più piani: l'abbandono dell'angofiscali che conseguirebbero da queste olazione sociale porta ad aggavare le condizioperazioni ed una presunta e teoricamenni dei ceti meno abbienti e a trascurare i servite ben più corposa riduzione degli invezi sociali essenziali; le carenze nel sistema dei stimenti sia in termini assoluti che di trasporti stanno provocando guasti consistenti tempo. e in pratica strangolando la città; senza un piano urbanistico la crescita è diventata inconConseguentemente a questa impostazione il trollata e disordinata; la latitanza governativa tradizionale mercato degli appalti pubblici si produce gravi ritardi nella realizzazione delle trasforma in un mercato a tutto campo all'inpiù importanti iniziative nazionali 160 terno del quale il soggetto pubblico può svolgere un ruolo diverso, più avvicinabile a quelA ciò si aggiunge la tendenza al rapido elo del promotore e del broker di opportunità o saurimento della fase espansiva del settomeglio ancora del partner attivo 159 re edilizio che sta producendo una sostanziale "eccedenza" dell'offerta rispetto È un dato tuttavia che la diffusione di questo alla reale domanda nel settore terziario a sistema di concessione è marciato parallelacui si rivolgono prevalentemente le nuomente al processo di "deregulation" a scala ve cubature dell'operazione. europea nel govemo del territorio e all'abdicazione di fatto del ruolo dello Stato nel Il caso dell'Eurotunnel sotto la Manica non controllo delle scelte e della loro gestione. è meno grave, perché rientra all'interno Se mettiamo il naso nei casi dell"Eurodella logica dei "progetti-spot" elaborati da tunnel", in corso di realizzazione tra Franpromotori privati, in un'ottica di sostanziale cia ed Inghilterra, e in quello dei "Docks" ribaltamento tra Stato e realizzatori nella di Londra, tradizionalmente portati a moprogrammazione delle opere che tende a dello di questa nuova procedura, è possiprendere piede anche da noi. E anche in bile rilevare falle gravi, non solo dal punquesto caso le critiche non mancano. to di vista del rapporto opera "pubbli202
Né al governo francese né a quello britannico, che hanno firmato il trattato per il tunnel sotto la Manica, né alle compagnie private coinvolte nella costruzione è stato richiesto di provare il pubblico interesse, l'economicità, gli aspetti sociali e culturali del progetto del tunnel. La ragione è semplice, il tunnel è stato costruito interamente con capitale privato. L'analisi costi-benefici che ogni progetto nel settore pubblico deve superare per essere approvato non è stata mai resa nota. Tutto quello che i promotori del progetto Euro-tunnel hanno dovuto fare è stato di convincere le banche e gli azionisti privati che il tunnel sarebbe stata un'operazione remunerativa. Per questa ragione il tunnel non fa parte di nessun piano infrastrutturale o piano di sviluppo economico della Gran Bretagna. Non è stato costruito per incrementare le relazioni tra le regioni meno favorite della Gran Bretagna con i mercati europei in vista del '90, nemmeno per controbilanciare lo squilibrio tra l'affollato sud-est ed il resto del Paese, e non fa par te di una seconda rivoluzione ferroviaria. È stato semplicemente costruito per fare soldi. Avrebbe potuto servire per uno o più dei propositi sopra descritti, ma queste non sono le ragioni per le quali è stato fatto un buco di 50 chilometri sotto la Manica. Il regime privatistico porta necessariamente con sé la domanda di chi l'ha voluto e perché 161•
A ciò va aggiunto lo stato catastrofico dell'operazione dal punto di vista finanziario, con il raddoppio delle previsioni iniziali, l'indebitamento degli " sponsor" privati, il rifiuto delle banche coinvolte a coprire ulteriormente il "rischio" dell'operazione, e la richiesta agli Stati francese e britannico di colmare il "buco", che invaliderebbe di fatto tutta la procedura di autofinanziamento sperimentata. Vengono i brividi a pensare cosa potreb-
be succedere qui da noi se si dovesse intraprendere, con analoghi criteri, operazioni come il ponte di Messina. La sensazione è dunque che, lungi dal configurare una riforma strutturale della pubblica amministrazione in direzione di una diversa mentalità aziendale ancorata ad una capacità reale di governo dei processi territoriali ed economici, anche laddove lo Stato è tradizionalmente più forte questa prassi si alimenti proprio del perpetuarsi e dell'acuirsi del suo sfascio e della sua cristallizzazione in forme organizzative arcaiche; contemporaneamente il rapporto pubblico-privato scivola sempre più verso uno squilibrio di poteri in cui pochi e ben organizzati soggetti privati condizionano ed impongono le proprie scelte, il proprio "parco-progetti" e le proprie convenienze ad amministrazioni sempre più deboli e non in grado di giudicare, di decidere e di controllare. Qualcosa di molto simile non tanto all'idea di "partner attivo", ruolo peraltro già di per sé contestabile per la realizzazione di opere di rilevanza pubblica, ma a quello di passivo notaio di accordi stipulati altrove. La preoccupazione maggiore per gli effetti del noto art. 22 della direttiva CEE n. 440/89 in materia di concessioni, in particolare laddove si regolamenta la "procedura ristretta" di affidamento per opere di particolare rilevanza economica con l'introduzione di una "forcella" di invitati compresa tra 5 e 20, non è tanto in relazione agli effetti negativi prevedibili per le piccole e medie imprese 162: per le quali cioè verrebbero a mancare le condizioni di una "effettiva concorrenza" e quindi di un "mercato aperto, qualificato, nel quale vengano garantite a tutti gli operatori paritt di condizioni e possibilità di crescita proporzionate alle rispettive capacità". In 203
tal senso infatti è difficile non condividere la giusta tendenza a creare le condizioni per le quali concessionari dello Stato abbiano tutti i requisiti organizzativi e gestionali per affrontare affidanienti di particolare rilevanza, condizioni quindi che solo un numero ristretto di soèietà possiede e generalmente non le piccole e medie imprese. Il vero nodo della questione è invece altrove e risiede nel fatto che, a differenza degli altri paesi europei in cui le poche e grandissime imprese che governano il settore edilizio hanno oramai diversificato la loro attività sviluppando anche un settore specifico per la produzione di servizi sganciato dalla produzione edilizia vera e propria, in Italia tutto questo non esiste o è ad uno stadio ancora notevolmente arretrato. Ragion per cui la preselezione finirà per coinvolgere grandi imprese che non necessariamente posseggono quelle caratteristiche e quelle garanzie di "concessionarie di servizio" che invece sarebbe auspicabile ed anzi doveroso richiedere. L'assenza di un albo nazionale di queste concessionarie renderà quindi la procedura fortemente discrezionale con tutti i problemi gestionali che è facile prevedere, e che già hanno prodotto i loro effetti negativi in recenti esperienze (I "Mondiali" insegnano).
La creazione di strutture tecnico-amministrative efficienti nella pubblica amministrazione Anche in mento alla concessione il problema torna insomma ad essere sempre lo stes50: non è cioè quello di accanirsi su questo strumento ritenendolo sbagliato e pericoloso per principio, né quello di inventare nuovi strumenti miracolosi e nuove sigle. 204
Gli strumenti già esistono e possono essere utilizzabili con efficacia, a patto che si abbia il coraggio e la capacità di definire un sistema di "regole" a monte, sia a livello procedurale che tecnico-normativo. E a patto ovvidmente che si sappia puntare
su una riorganizzazione strutturale della Pubblica Amministrazione, sulla sua capacità di controllo a tutto campo, sulla creazione di nuove professionalità al suo interno ben pagate e motivate, su una diversa "mentalità" di governo dei processi. La strategia che è possibile individuare alla scala locale è quella di lavorare per una riorganizzazione radicale delle competenze e della loro articolazione, e di farlo sia alla scala dei piccoli e medi centri che a quella delle grandi città, nella consapevolezza che la scala provinciale, non solo nelle aree metropolitane, è quella da privilegiare. L'attuale stato delle cose è infatti caratterizzato dalla settorialità delle competenze, in un'ottica di suddivisione orizzontale che non garantisce il necessario coordinamento tra decisioni patrimoniali, gestione finanziaria, scelte edilizie ed urbanistiche, organizzazione dei lavori pubblici.
Quella che adombriamo è l'zpotesi di un'Agenzia pubblica del piano, che garantisca "verticalmente" tutto l'iter che va dalla progettazione urbanistica a quella edilizia, dall'acquisto o esproprio degli immobili e dagli accordi con i privati alla realizzazione degli interventi, dall'assegnazione del patrimonio alla gestione: e allo stesso tempo garantisca il raccordo "orizzontale" delle competenze e quindi l"accumulazione" delle esperienze e dei dati e quindi l'elaborazione continua di previsioni ed indirizzi, dal sistema informativo alle questioni proget-
tuali, dalla gestione delle risorse alle questioni tecnico-norma tive che supportano tutto l'iter "verticale" e realizzano i necessari processi di 'feedback.". Non abbiamo grandi esperienze in merito a cui far riferimento; alcuni tentativi sono stati fatti e con successo a Brescia, si sono avviati non senza problemi a Modena e a Matera per la gestione della "legge speciale" sui "Sassi". Ma forse il caso più rilevante, anche per l'estenzione dell'operazione, è proprio quello di Napoli sperimentato in occasione del Programma Straordinario. Qui infatti il modello organizzativo che incrocia competenze verticali e orizzontali è stato concretamente realizzato attraverso la creazione di una struttura in cui sono state previste tutte le competenze tecniche necessarie (dal controllo della progettazione all'alta sorveglianza, dagli aspetti relativi agli alloggi a quelli delle infrastrutture e dei servizi) e attorno alla quale sono state agganciate le ulteriori competenze di tipo amministrativo e finanziario. Un modello tuttavia che ha retto finché è stato politicamente sostenuto e che si sta progressivamente burocratizzando per la mancanza di un reale passaggio dalla straordinarietà all'ordinarietà, dal programma originario per il quale questa struttura è nata ad ulteriori programmi di intervento all'interno di una più generale strategia di piano: ne consegue il progressivo assottigliamento delle competenze "orizzontali" che inaridisce il funzionamento dello stesso processo verticale, e l'abnorme crescita di peso dell'apparato amministrativo e finanziario hon più subordinato alla centralità dell'iter attuativo ma tendenzialmente configurato come "corpo separato". La scala locale deve tuttavia trovare una
sponda efficace anche a livello regionale, nella creazione di Agenzie regionali in grado di garantire, con criteri analoghi a quelli previsti alla scala locale, il coordinamento delle operazioni tecniche e finanziarie necessarie per la pianificazione territoriale. Il taglio è ovviamente diverso tra le due scale: nel primo caso è infatti legato anche ad una attuazione concreta delle scelte e alla gestione successiva, nel secondo caso è prevalente la funzione programmatoria, l'erogazione selezionata delle risorse nei diversi contenti locali, l'attività di assistenza agli enti locali, di supporto tecnico, promozione e consulenza. L'esperienza avviata in Liguria attraverso la costituzione di un'Agenzia per il recupero, e di cui abbiamo già avuto modo di parlare, seppure limitata ad uno dei segmenti della politica urbanistica ed edilizia, bene esprime questa esigenza e può essere inquadrata in quel complesso di iniziative avviate dalla Regione per costruire gli strumenti necessari ad una più efficace pianificazione e programmazione del territorio. Ma è evidente che tutto ciò deve trovare un ascolto diverso anche a livello centrale, in una diversa organizzazione dei Ministeri, dei canali di spesa, degli strumenti tecnici e procedurali che governano il settore urbanistico ed edilizio. È un discorso che abbiamo già fatto nella prima parte di questo scritto, e che alla luce di quanto detto, assume i caratteri di estrema urgenza e necessità. In questo contesto la discussione sul ruolo delle "società miste" assume connotati diversi da quelli che a volte sembrano emer gere, e che affidano a questi soggetti un ruolo traumaurgico nella soluzione dei 205
problemi operativi della gestione dei piani. Se consideriamo infatti la madre-patria di questa formula societaria, la Francia, rileviamo alcune cose fondamentali: - essa è regolata da una legge nazionale 163 che ne definisce il ruolo,la forma giuridica, i compiti, i rapporti con lo Stato. Da noi invece, l'assenza di una regolamentazione consente svariate disquisizioni in materia, grandi oscillazioni interpretative e ben pochi casi concreti sui quali ragionare; - precisi sono in particolare i caratteri della partecipazione pubblica, con una previsione di peso degli enti locali promotori non inferiore alla metà del capitale e dei voti degli organi deliberanti; - ma quel che è più importante è la
configurazione di una pluralità di società nei diversi contesti locali in funzione delle diverse esigenze che si prospettano nelle aree di intervento; l'amministrazione pubblica cioè ha ben salde le redini della pianificazione e del controllo gestionale individuando di volta in volta la plu-
ralità di soggetti tra cui le società miste appunto, più idonea alla realizzazione degli interventi previsti. È un'ottica ben diversa quindi di quella che a volte fa capolino nel nostro panorama nazionale e nelle proposte che vengono da parte privata,in cui è frequente la tentazione ad immaginare la società mista come "interlocutore unico" per operazioni vaste e complesse, una sorta di intermediario istituzionalizzato tra l'amministrazione pubblica e la pluralità di soggetti privati che operano sul territorio. 1 64 Più corretta e dimensionata è invece la prima vera esperienza di società mista per la riqualificazione di un settore limitato di centro storico, in corso a Genova con l'attuazione degli interventi di" Porta Soprana - S. Donato". 206
La società ha infatti preso origine su un caso di recupero ben delimitato, in un'ottica di "programma organico" ai sensi della L.R. 25/87 "che comporta la dichiarazione di pubblica utilità delle opere e degli interventi previsti, nonché l'indifferibilità e l'urgenza dei relativi lavori" 165. A costituirla si sono candidati 4 soggetti, di cui due pubblici (lo IACP e la FILSE, cioè la finanziaria regionale) e due privati (facenti riferimento al mondo imprenditoriale delle imprese e delle cooperative). Il Comune si è riservata la valutazione in merito alla partecipazione diretta a tale società mista "mantenendo comunque compiti di regia e di controllo sul complesso e sulle singole iniziative programmate" 166, anche in relazione ad un parere negativo dal punto di vista giuridico in merito alla legittimità, nell'attuale lacunoso quadro legislativo, di prefigurare l'ente locale come concedente e concessionario allo stesso tempo. Aldilà dunque dell'approfondimento tecnico e legislativo in materia, pur necessario per regolamentare una modalità attuativa che ha enormi possibilità di sviluppo,
resta il problema della capacità contrattuale e dell'efficienza degli enti locali. Non esiste perciò "toccasana" che possa eludere tale problema. Se non si affrontano le questioni dell'organizzazione e delle regole entro cui muoversi, anche la strada delle società miste è destinata ad essere risucchiata verso logiche privatistiche e a contribuire ad una alterazione profonda dei rapporti tra pubblico e privato che allontanerebbe ulteriormente una riforma profonda della pubblica amministrazione. Peggiorando così, e al peggio pare non ci sia limite, le già precarie condizioni del fare urbanistica.
Note Cfr. F. Indovina La città possibile in: "la città di fine millennio', a cura di F. Indovina, ed F. Angeli 1990, pagg. 43-44 Cfr. B. Gabrielli, Per una cultura della gestione urbana in: RECUPERARE n. 14, nov.-dic. 1984, pagg. 526-529
12 Cfr. B. Secchi, "Fasi di sviluppo della città capitalistica e crisi urbana", in: AA.VV, "La città e la crisi del capitalismo", ed. Laterza 1978, pag. 93. 13
P. Ceccarelli, "La crisi della città. ... cit. pag. 13.
14
Cfr. B. Secchi, "Fasi di sviluppo....., cit.
15
Cfr. P. Ceccarelli, "La crisi della città.....cit<;
2
E.Salzano, "il nodo della gestione.Un piano senza un'ipotesi gestionale", in: C.Mazzoleni, "Giovanni Astengo e il piano di Bergamo: un caso paradigmatico", ed F.Angeli 1983, pagg.129-130 3
MOPU/IUAV, "Dieci anni di pianificazione urbanistica in Spagna 1979/1989" (catalogo della mostra tenutasi nell'aprile '90 a Venezia), pagg. 33-3 5
4
M. :Marcelloni, "Guardando alla Spagna", in MOPU/IUAV cit., pag. 13 5
P.Ceccarelli, "La crisi della città di Sodoma e il sindaco di Lot.Una storia esemplare usata a guisa di introduzione", in: "La crisi del governo urbano", ed.Marsilio 1978,pag.13.
6
Per dirla con D.S.Bogue, "The structure of the metropolitan community", Universiti, of Michigan, Ann Arbour 1950.
7
Si confrontino in proposito le teorie di Christaller degli anni '30, in: W.Christaller, "Le località centrali nella Germania meridionale", ed.F.Angeli 1980.
8
Cfr. in pioposito gli studi di H.G. Schaller, "Pubblic expenditure decisions in the urban community", the Johns Hopkins Press, Baltimora, 1976; e di T. Elman, "Fiscal impact studies in metropolitan context" in: P.R. Portney "Economic Jusses in metropolitan growth". the Johns Hopkins Press Baltimora 1976
16 Si confronti quanto rilevato in tal senso da M. Mar celloni, "Chi ha paura dell'Urbanistica?", in: CASABELLA n. 511, marzo 1985, pagg. 12-13 17 Cfr. in proposito le considerazioni sviluppate da E. Ciciotti in più occasioni nell'ultimo decennio, ed in particolare nel saggio "La diffusione delle innevazioni tecnologiche tra le imprese" in: Archivio di Studi Urbani e Regionali n. 29/1987; sull'argomento cfr. anche A. Tosi, "Politiche terziarie e politiche urbane in un'ottica regionale", in "Terziario, impresa, territorio", a cura di A. Tosi, ed. F. Angeli 1985
Cfr.in proposito gli studi di De Matteis ed in particolare il saggio "Controurbanizzazione e strutture urbane reticolari", in: G.Bianchi I.Magnani, "Sviluppo muttiregionale.Teorie, metodi, problemi", ed.EAngeli 1985. 18
19 G. De Matteis, "L'ambiente come contingenza e il mondo cme rete", in: U1BANISTICA n. 85, novembre 1986, pag. 116.
Censis Servii, "Il sistema Italia e le economie locali", istituto nazionale per il commercio Estero 1989, pagg.234-235. 20
9
21
Ivi, pag. 235.
E. Pugliese, "Evoluzione della struttura di classe nel Mezzogiorno", in "Investimenti e disoccupazione nel Mezzogiorno" a cura di A. Graziani e E. Pugliese, ed. IL MULINO 1979, pag. 95. 22
M. Marcelloni, "Modello di sviluppo, strutture urbane e conflitto", in: AA.VV., "Mezzogiorno e crisi", ed. F. Angeli 1976, pag. 34. 23
Cfr.F.Forte, La pianificazione nell'area metropolitana", in: Quaderni della Cassa per il Mezzogiorno, Roma 1980, che peraltro sottolinea l'accentuarsi, in questi fenomeni, degli squilibri territoriali. 10
'I Cfr. in proposito le posizioni di F. Indovina, "Elogio della crisi urbana", in: "La crisi del governo urbano", cit; e di M. Castells, "Crise de l'Etat, consommation collecrive et contradictions urbaines", in /AA/VV, "La crise del l'Etat", Presses Universitaires de France 1976, pag 206
Cfr. in proposito l'imbarazzante mosaico" descritto da A. Collidà per il caso di Napoli, nel saggio "Napoli contro Napoli. Città come economie e città come potere" in: MERIDIANA n. 5/1989.
24
M. Castells, "Stato, politica urbana e centro della città: un'analisi comparata", in: Problemi della Transizione n. 2 1979. 25
207
26
Censis servizi, "Il sistema Italia . cit. pag. 237.
27
Cfr. Caniggia, Composizione architettonica e tipologia edilizia. 1. Lettura dell'edilizia di base", ed Marsilio 1979, pagg. 203-249. 20
Ivi, pag. 249.
29
F. Indovina, "La città possibile", cit., pag 38.
43
Ivi, pag. 217.
44
S. Cassese, cit., pag 287.
V. Erba, "Il piano urbanistico comunale", ed. delle Autonomie 1979, pag. 117. 5
46
G.De Matteis, "L'ambiente come contingenza..... Cit. pag. 116. 30
B. Secchi, "La politica delle amministrazioni di sinistra", in: , "Partiti, amministratori e tecnici nella costruzione della politica urbanistica in Italia" a cura di B. Secchi, ed. F. Angeli 1984, pag 21. 31
32
V.E. De Lucia "Se questa è una città", Ed. Riuniti 1989, pag 202.
V. Gregotti, "In difesa della ragioneria urbanistica", in: CASABELLA n. 526 luglio-agosto 1986, pag. 3
Si ricordano, tra gli altri, oltre al già citato Dente, i saggi di S. Cassese, "I servizi pubblici nel Mezzogiorno", in: Ricerche e Studi FORMEZ n. 2/1969; quelli contenuti in: Quaderni Regionali del FORMEZ n. 19 "L'amministrazione locale: strutture, compiti e servizi", quello di G. Stefani, "Il finanzian'tento dei servizi pubblici nelle aree metropolitane: problemi ed esperienze" in: ECONOMIA PUBBLICA n. 1 gennaio 1975; e C. Forte B. De Rossi, "Estimo ed economia territoriale" in: C. Forte B. De Rossi, "Principi di economia ed estimo", ed Etas 1979, pagg. 285-324.
33
34
F. Indovina, "La città possibile", cit., pag. 43.
35
V.E. De Lucia, Cit.
"La riforma delle autonomie regionali e locali", presa di posizione dell'AICCRE, in Rivista ANCI n. 5 maggio 1989. 36
37
C.A. Barbieri, 'Decentramento istituzionale: poteri, risorse pianificazione territoriale ed urbanistica" nel "dossier: governo del territorio in Francia", in: URBANISTICA INFORMAZIONI n. 94 luglio-agosto 1987, pag. 44. Sull'esperienza urbanistica ed amministrativa francese si confronti anche F. Lucarelli, "Aree metropolitane e recupero nella legislazione francese" in: "Politiche territoriali ed area metropolitana", ed. Guida 1987; e "Il recupero del patrimonio edilizio in Francia" a cura di C. Mattogno, quaderni CRESME 1986. 3
° C.A. Barbieri, cit, pag. 45.
Si fa qui riferimento in particolare ai due saggi di S. Cassese, in: Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico n. 1/1983; e di B. Dente, "Il governo locale in Europa" in: R. Mayntz L.J. Sharpe B. Dente, "Il governo locale in Europa" ed. di Comunità 1977. 39
40
7 È un ampio filone di studi che fa capo, tra gli altri, a B. Secchi, cit., P. Ceccarelli, cit., A. Busca e G. Marsocci, ("Attrezzature sociali ed edilizia residenziale" in: ECONOMIA PUBBLICA n. 2-3/1975), e a M. Folin ("Opere pubbliche, lavori pubblici, capitale fisso sociale", ed F. Angeli 1978). 48
L.J. Sharpe, "Il decentramento in Gran Bretagna", in:, R. Maynitz L.J. Sharpe B. Dente, "Il governo locale in Europa", cit., pag. 166. P.Giarda, "Indicazioni per una riforma délla finanza locale", in: "Il finanziamento dell'attività degli enti locali", Quaderni Regionali del Formez n.25/1979, pagg.14-15. 49
50
Si confronti in proposito la già citata resa di posizione dell'AICCRE. 51
R.Bedrone, "Dal territorio alla città: alcune esperienze in atto", nel "dossier: governo del territorio in Francia", cit., pag.61. 52
Sul caso di New York si confrontino, tra gli altri, C.Cardia, "New York, il fallimento di una città", in: AA.\T\. "La città e la crisi del capitalismo", cit.; e R.Zevin, "New York: la baldoria inflazionistica e la mattina dopo", in: "La crisi del,governo urbano", cit 53
B. Dente, cit., pag. 232.
54
Ivi, pag. 232.
S. Cassese, cit., pag 288.
'' Ivi, pag. 291. 42
Cfr. quanto rilevato da B. Dente, cit., pagg. 210-214.
208
55 Si confronti in proposito 116° Rapporto sullo stato dei poteri e dei servizi locali" a cura della SPS 1989,
con i dati relativi alla situazione delle municipalizzate al 1986 (tab.2 pagg. 80-81), con quelli riportati da B.Dente (cit.) e relativi agli anni 1961 e 1974 (pag. 240). 56
B. Dente, cit., pag. 241.
In particolare va ricordato il caso emblematico dell'appalto dei servizi di nettezza urbana a Napoli che ha determinato un peggioramento della situazione ed un ulteriore inquinamento camorristico nella gestione della cosa pubblica.
Cfr. "Introduzione metodologica" alla ricerca CER/AGORÀ "Criteri progettuali per il recupero" 1988
70
Si tratta di una proposta elaborata dall'assessorato all'Urbanistica nel 1989-1990, sotto il coordinamento dell'ufficio di piano diretto dall'arch. E.Feletti, non ancora approvata dall'Amministrazione Comunale.
71
57
"Riflessioni sulla riforma dell'ordinamento degli enti locali", in: Rivista ANCI n.11/1989. 58
59
Ivi, pag. 88
Circolare del Ministro degli interni n. 17102/127/1 del 7/6/1990 che illustra la L.8/6/1990 sull'Ordinamento delle autonomie locali, punto 7.
60
Dalla proposta di "norme di attuazione" del nuovo piano regolatore per la città storica di Venezia. 72
Si fa qui riferimento alla legge Carli/Formica "norme di delega in materia di autonomia impositiva degli enti locali" del 1989 che introduce le due nuove imposte sugli immobili (1Cl) e sui servizi comunali (ISCO).
73
U.Girard, "Legge Formica e ddl. Nicolazzi sugli espropri: ancora lontano il riordino della fiscalità immobiliare" in: URBANISTICA INFORMAZIONI n.62., marzo-aprile 1982, pag. 64.
74
B.Gabrelli, "Gli strumenti operativi.Relazione introduttiva", in: "Riuso e riqualificazione edilizia negli anni"80" a cura di C.Di Biase L.Donato C.Fontana P.L.Paolillo, e F.Angeli 1981, pag. 166.
15 61
Ivi.
L.Bellicini, "La scomposizione e i residui", in: "L'Italia da recuperare" a cura del Credito Fondiario e del CRESME, 1988, pag. 36.
62
63
C.A. Barbieri, cit., pag. 41
E. Salzano, "Il nodo della gestione. Un piano senza un'ipotesi gestionale", in: Teoria del piano. Giovanni Astengo e il pano di Bergamo: un caso paradigmatico" a cura di C. Mazzoleni, ed. F. Angeli 1983 pag. 135. 64
A.Tutino, "Dal progetto alla gestine.Un rapporto insoddisfacente tra piano e attuazione", in: "teoria del piano cit., pag.125.
"Firenze, per un'urbanistica della qualità" cit., pag. 50-51.
76
77
"Bologna, una città per gli anni '90" cit., pag. 112.
F.Oliva, "Il PRG. di Ancona", in: URBANISTICA n.95, giugno 1989, pag. 25.
78
Cfr. B.Secchi, "L'eccezione e la regola", in: CASABELLA n. 509-510, gennaio-febbraio 1985. 79
65
.....
G.Campos Venuti, "Architetti, fatemi capire", in: CASABELLA n.508 dicembre 1984, pag. 16.
66
Si confrontino, tra le tante esperienze, quelle di Bologna e di Firenze in: "Bologna, una città per gli anni'90" a cura di G.Mattioli R.Matulli R.Scannavini P.Capponcelli, ed.Marsilio 1985; e "Firenze, per un'urbanistica della qualità" a cura di G.Campos Venuti P.Costa L.Piazza O.Reali, ed.Marsilio 1985
Deliberazione del Consiglio Regionale n. 14 del 14.2.88 e della Giunta Regionale n. 3851 deI 22.7.88.
80
M.Marcelloni, "Dal recupero edilizio alla riqualificazione urbana", in: URBANISTICA n. 93, novembre 1988, pag. 19.
81
67
G.Caniggia, "Composizione architettonica e tipologia edilizia.1.Lettura dell'edilizia di base", ed.Marsilio 1979, pag. 258. 68
"Firenze, per un'urbanistica della qualità" cit., pag. 37.
69
Cfr. in proposito quanto rilevato da G.Campos Venuti in: Amministratore l'urbanistica, ed.Einaudi 1967, da pag. 26 a 58.
82
Cfr. in proposito quanto rilevato da B.Gabrieli nel saggio "ilpotesi per nuove forme di pianificazione" in: Il piano regolatore generale; esperienze, metodi, problemi, a cura di G.Ernesti, ed.Franco Angeli, pag.124 e segg.
83
Si rimanda comunque ai confronti di costo più sigrìificativi tra esperienze urbane contenuti in:
84•
209
- AA.VV "Economia del recupero urbano", a cura di S.Potenza e S.Stanghellini, ed.CLUVA1987; - A.Realfonzo, "Elementi di analisi dei costi degli interventi di recupero", rapporto prelimù are per la Società Studi Centro Storico di Napoli, 1987; - S.Stanghellini, "Analisi e controllo dei costi", m'Recupero edilizio" a cura dell'OIKOS, ed.Ente Fiere di Bologna.Dello stesso Autore, "Il costo delle opere di urbanizzazione primaria nel recupero", in "Recuperare" nn.38 e 39 novembre-dicembre 1988 e gennaiofebbraio 1989; questa analisi è stata poi ripresa dall'Autore in: "I costi di riurbanizzazione", ed.F.Angeli 1990. 85 Si confronti in particolare il lavoro di C.Forte ed in particolare i testi: - Elementi di estimo urbanò, ed.Etas Kompass 1968 - I costi di urbanizzazione, ed.Giuffré 1971. 86 Si confrontino in particolare i contributi di: - G.Ferracuti, "Aspetti economici, produttivi e di costo del recupero edilizio"; in: AA.VV., I centri storici, a cura di F.Ciardini e P.Falini, ed.Mazzotta 1978; - F.Orioli, "La valutazione dei costi della riqualificazione urbana"; in AA.VV., "Recupero e riqualificazione urbana nel Programma straordinario di Napoli", a cura di F.Ciccone, ed Giuffré1984. Dello stesso Autore, "Il governo del costo della riqualificazione urbana", in "Recuperare" n.7 settembre-ottobre 1985; "Progettare anche i costi", in "Notiziario" del Programma Straordinario di Edilizia Residenziale per la città di Napoli nn. 13.14 settembre 1898; - S.Potenza, "I costi della produzione edilizia", ed.CLUVA 1982. Dello stesso Autore, "I costi globali di insediamento", ed.Marslio 1984; A.Realfonso, "Introduzioneall'analisi dei costi del recupero urbano", in: CNR/IRIS, "Il recupero del patrimonio edilizio esistente"; metodologie di analisi e di progettazione, 1987. Dello stesso Autore, 'Costi di produzione degli interventi", in: Società Studi Centro Storico di Napoli, "Proposta di rigenerazione del centro storico di Napoli", ed.Sole 24 ore 1988; - S.Stanghellini, cit. 87 S.Stanghellini, "L'aspetto estimativo: il recupero dell'edilizia degradata come occasione di riflessione disciplinare", in: AAJVV. "Economia del recupero urbano", a cura di S.Potenza e S.Stanghelllini, ed.CLUVAI987, pag. 23. 9 °L.Fusco
Girard, "Risorse architettoniche e culturali: valutazioni e strategie di conservazione", ed.F.Angeli 1989. 210
89 CERSET, "Per il recupero dela città antica di Bari", a cura di N.Savarese, 1987, pagg. 12-13. 90 G.Leoni P.Bertolotti, "Piano di fattibilità in Monticelli Terme", in: RECUPERARE n. 45, gennaio-febbraio 1990, pagg. 34-39. 91 R.Roscelli F.Zorzi, "La vlutazione dei progetti di riqualificazione urbana", in: QUASCO n.11, luglio 1989, pag. 19. 92 Il termine è di S.Stanghellini, cit. 93 Cfr. in proposito il rapporto di I. fase dell'IRSED al CER in merito al Programma di sperimentazione ex art. 4 L.94/82, dell'aprile 1990. Cfr. in proposito la relazione al CIPE del Commissario Straordinario per la città di Napoli in merito alla proposta di determinazione a forfait del costo degli interventi di recupero, dicembre 1983, pubblicata in: A.A.VV, Recupero e riqualifìcazione..., cit. 94
95 Cfr. il testo definitivo del Capitolato ("Criteri per il controllo della progettazione esecutiva e del capitolato speciale relativi all'esecuzione degli interventi di recupero nel Programma Straordinario di Edilizia Residenziale di Napoli") pubblicato in: "Notiziario" del Programma Straordinario di Edilizia Residenziale per la città di Napoli nn. 13-14, settembre 1989. 96 Cfr. G. Ciribini, "Il laboratorio dei virtuosi.Lo stato emotivo come nuove dimensione progettuale della città", in: RECUPERARE n. 22, marzo-aprile 1986. 97 Cfr. le posizioni espresse da V. Di Battista, "Progetto debole", in: RECUPERARE n. 22, marzo-aprile 1986,: e da V. Gregotti, "Alta manutenzione", in: CASABELLA n. 539, ottobre 1987. 9°
G.De Carlo, Introduzione al libro di L.Rossi, "Istituzioni di recupero ambientale", ed.Maggioli 1988, pag. 10.
99A.Mioni, "Per un nuovo empirismo in urbanistica" in: "Il piano reglatore generale: esperienze, metodi, problemi", a cura di G.Ernesti, ed.F.Angeli, pag. 139. °°J. Gago Dàvila, "Dieci anni di nuova gestione urbanistica: bilancio e prospettive", in: MOPU/IUAV, "Dieci anni di pianificazione urbanistica in Spagna, 199/1989", (catalogo ella mostra tenutasi nell'aprile '89 a Venezia), pag. 169.
101 Cfr. in proposito il dibattito sviluppatosi sulle pagine di CASABELLA tra L. Benevolo, "I progetti nel piano" nel n. 563 del dicembre 1989; B. Secchi, "I progetti nel piano" nello stesso numero; e B. Gabrielli, "I piani disegnati: un contributo al dibattito" nel n. 568 del maggio 1990.
102 L. Benevolo, cit., pag. 35. 103 ivi, pag. 35. 104 T. Giura Longo, "La progettazione contemporanea tra Castrum e Polis", in: URBANISTICA n. 83, maggio 1986, pag. 126. 105 È il caso, ad esempio delle Normative Tecniche delle Regioni Emilia Romagna, Liguria e Toscana. 106 D.M. 18.1.88 "tndirizzi per la formazione della Normativa tecnica Nazionale". 107
L.R. n. 33 del 26.4.90.
108 B. Gabrielli, "Ipotesi per nuove forme di pianificazione", in: "Il piano regolatore generale.....cit., pag. 125. 109 B. Gabrielli, "Note sulla costruzione di un sistema informativo", in: RECUPERARE n. 20, novembre-dicembre 1985, pag. 455 110 Cfr. in proposito quanto espresso nella "Introduzione metodologica" alla ricerca CER/AGORÀ cit. 'I' V. Di Battista, "Sistemi informativi e processi di recupero", in: RECUPERARE n. 19, settembre-ottobre 1985, pag. 368. 112
ivi, pag. 368.
1131ntroduzione metodologica" cit. 114
V. Di Battista, cit., pag. 368.
115 "Introduzione metodologica", cit. 116 "Relazione del Piano pai-ticolareggiato Esecutivo del Centro storico", progettisti L. Benevolo, P.L. Cer veìlati, I. Insolera con l'Ufficio Centro Storico della Ripartizione Urbanistica, pubblicata in: PARAMETRO n. 178, maggio-giugno 1990, pag. 16 117 P.L. Cervellati, "Palermo: Piano Particolareggiato Esecutivo del Centro Storico" in: DOMUS n. 716, maggio 1990, pag. 26
118 "Relazione Generale.....cit., pag. 24.
119 Dalla proposta di "norma di attuazione" del nuovo Piano Regolatore per la città storica di Venezia. 120 G. Campos Venuti, "Ancora sui piani della terza generazione", in: CASABELLA n. 518, novembre 1985, pag 23. 121 dalla "Relazione illustrativa" al variante al PRG zona "A" del comune di Taggia 1982-1987, progettista incaricato B. Gabrielli, pag. 14. 122 Procedura adottata anche in altre esperienze di piano, come ad esempio la stessa proposta di piano generale per la città storica di Venezia già citata, con la creazione di una "carta numerica" ottenuta per restituzione da -una aerofotogrammetria appositamente realizzata 123 Esperienze significative in merito alla definizione di nuovi sistemi informativi continui che affianchino il processo gestionale del piano sono state compiute in molte realtà locali, già da alcuni decenni. Ci sembra opportuno rilevare in particolare l'esperienza, seppur settoriale, della piànificazione e gestione dei servizi nelle città di Torino e Milano negli anni '70, attraverso i metodi dei "fabbisogni globali di area" e delle "carte del malessere" nel primo caso (cfr. 4110 Programma Pluriennale di Attuazione di Torino" a cura della sezione piemontese dell'INU, ed. F. Angeli 1980, pag. 269), e dei "bilanci sociali di area" nel secondo caso (cfr. A. Segre, "Metodologie diverse per la programmazione dei servizi - A proposito dei BSA", in: CITTÀ-CLASSE n. 21/1979, pag. 26) che esprimono anche un interessante indirizzo per una diversa impostazione sugli "standard" minimi di servizi. 124 Dalla "Relazione illustrativa" della variante al PRG - zona "A" del comune di Taggià, cit., pag. 16 125 ivi, pag. 16. 126 F.Lorenzani L.Tirelli, "Le azioni e i programmi regionali per il recupero", in:URBANISTICA 76/77 dicembre 1984, pag. 191. 127 Cfr.la L.R. n.40 del 29.11.74 e successivi aggiornamenti. 128 Cfr. la L. R. n. 33 del 14.7.88. 129 A.Pasetti R.Mollo, "Il piano-casa programmato per obiettivi", in: URBANISTICA 76-77 cit., pag. 198. 130 J.Cago Dàvila, "Dieci anni di nuova gestione urbanistica.....cit., pag. 167. 211
131 L. Benevolo, "La terza generazione: bruciata?", in: CASABELLA n. 522, marzo 1986, pag. 17. 132 Per un'analisi storico-giuridica si veda V. Mazzarelli, "Le convenzioni urbanistiche", ed. Il Mulino 1979; e, relativamente all'esperienza degli ultimi decenni, L. Scano, "L'istituto della convenzione", in: AA.VV. "Enciclopedia di urbanistica e pianificazione territoriale", volume quarto, "Competenze, vincoli/strumenti/2", ed. F. Angeli 1985 133
li caso bolognese è esemplificativo di questa evoluzione: si confrontino in proposito P.L. Cervellati, "La veritii svelata dal tempo" in: "Risanamento conservativo del C. S. di Bologna" a cura dell'Assessorato alla Programmazione e all'assetto urbano, 1979; F. Bottino A.M.Moggio Gattei, "Enti locali ed edilizia convenzionata", ed. Nuova Italia Scientifica 1980; e della stessa Gattei la relazione al convegno di bari del 1978 contenuta m'Convenzioni urbanistiche e tutela nel rapporto tra i privati", ed. Giuffré 1978 134 In proposito si confrontino, tra gli altri, CIUÀCLASSE n. 20, Luglio 1979; EDILIZIA POPOLARE n. 155, luglio-agosto 1980; "La rilocalizzazione dell'industria nell'area torinese" a cura di E. Luzzati, ed. F. Angeli 1982 135
36
P.L.Cervellati, "La ventI svelata dal tempo" cit. Ivi.
137
A.M. Moggio Gattei, cit.
138
Ivi
39
Ivi
140
P.L.Cervellati, cit.
141 Dalle "Proposte del Collegio Costruttori edili, imprenditori di opere e industriali affini della provincia di Torino" dell"85.5.1976, in: "Il riuso nella pratica degli enti locali" a cura di C.Fontana e P.L. Paoillo, ed.CLUP 1980. 142
Successivamente realizzatasi con la sola partecipazione, minoritaria (25%), della FinPiemonte, finanziaria della Regione Piemonte con maggioranza a capitale pubblico. 143 P.G.Bardelli S.Coppo, "intervento di recupero convenzionato a Torino.Critiche sulla prima fase di attuazione", in: RECUPERARE n.14 novembredicembre 1984, pag. 512.
212
144 Si confrontino in proposito le osservazioni di G.Torretta, "Torino: una proposta dei costruttori", in: URBANISTICA INFORMAZIONI n.39, maggiogiugno 1978.
G.Torretta, "Recupero a Torino.Deve articolarsi la gamma di interventi possibili", in: URBANISTICA INFORMAZIONI n. 57-58, maggio-agosto 1981. 145
146 Dalla Relazione della Giunta Municipale del comune di Milano sui"Criteri per la definizione delle convenzioni speciali nelle zone di recupero ai sensi dell'art.32 della L.457/78" del 20.1.1982. 147 P.Ceccarelli M.R.Vittadini, "Un piano per la crisi", in: URBANISTICA n. 68-69, dicembre 1978, pagg. 58-88. 148
dai "Criteri per la definizione.....cit.; Sull'argomento si veda anche M/.G.Curletti, "Procedure attuative nei centri edificati: le convenzioni", in URBANISTICA INFORMAZIONI n. 60, novembredicembre 1981, pagg. 26-27. 149• L. Beltrami Godola, "La convenzione: strumento inadeguato per il recupero", in: URBANISTICA n. 74, dicembre 1982, pag. 110 150 Ci riferiamo all'ipotesi elaborata dall'ACEN, dal Coordinamento dei concessionari per la ricostruzione di Napoli ed al CRESME, illustrata a Roma nel convegno "La riqualificazione urbana dopo il Programma Straordinario per Napoli, tenutosi nell'Aula dei Gruppi Parlamentari, il 13.12.84, con le relazioni di L. Benevolo, A. Becchi CollidI e R. Mostacci
L. Benevolo, "Obiettivi, metodi e contenuti di una pianificazione finalizzata alla riqualificazione urbana", relazione al convegno "La riqualificazione urbana dopo il Programma.....cit., pag. 9. 151
152
ivi, pag. 11.
153
cfr. La L. 2248/1865.
'5"
cfr.la L. 1137/1929.
155 L. Petrangeli Papini, "Programmi pubblici ed evoluzione dell'industria edilizia", relazione al convegno sulla casa nelle aree metropolitane, tenutosi a Torino il 17.7. 1982, pag. 23. 156
ivi, pag. 24.
157
Sui caratteri specifici dell'esperienza napoleta-
na dal punto di vista gestionale, cfr. R. Gianni, "il processo di riqualificazione urbana intrapreso con il programma straordinario", in "Politica territoriale ed area metropolitana", a cura di F. Lucarelli, ed. Guida 1987. 158 Per un quadro aggiornato dei problemi giuridici e amministrativi relativi all'istituto della concessione, cfr. dossier "L'istituto della concessione" a cura del Centro Nazionale di studi e ricerche sulle autonomie locali, in: URBANISTICA INFORMAZIONI fl. 93, maggio-giugno 1987 159 A. Franchini, relazione introduttiva al convegno "Il finanziamento delle infrastrutture", tenutosi a Roma 18.6.1990
C. Maranzana P. Mutti, "Come cambia Londra. Lontani dal piano", in: COSTRUIRE n. 87 settembre 1990, pag. 92 60
D. Black M. Harrison J. Warner, "Profit is tunnel project's prime ohjective", in: THE INDEPENDENT sabato 18 agosto 1990, pag. 6. 161
162 Associazione medie imprese "La forcella" nella nuova direttiva CEE. Proposta di regolamentazione della procedura ristretta", novembre 1989.
La più recente legge che regolamenta le società niiste francesi (SEM) dopo il primo decreto del 19.5.59, è la L. n. 83, 596 del 7.7.83. 163
164 È il caso, ad esempio, della societt mista proposta dalla Societ?t studi Centro Storico di Napoli nell'ambito dello studio "Rigenerazione dei centri storici. Il caso Napoli", cit. 165 Dalla proposta della Giunta Comunale di Genova al Cònsiglio Comunale del 31.5.89. 166
ivi.
213
Interventi nelle aree metropolitane di Marco Cremaschi
Questo intervento considera un aspetto soltanto della complessa materia compresa dal nuovo "Ordinamento delle autonomie locali", demandando volentieri agli altri contributi della presente rassegna l'illustrazione e l'analisi del provvedimento ; più precisamente, il saggio intende considerare le relazioni che si verranno a creare tra il nuovo assetto "procedurale" introdotto dalla legge e le caratteristiche peculiari delle trasformazioni territoriali del prossimo decennio (con particolare attenzione a quelle metropolitane). PARTIRE DAI PROBLEMI
La distinzione tra procedurale e sostantivo è una vecchia materia di contenzioso che lascia sempre dei margini di insoddisfazione perché sembra contrapporre con eccessiva nettezza la forma (in questo caso, l'assettto delle autonomie) e il contenuto (in queto caso, le traformazioni territoriali) del processo d'evoluzione del territorio, aspetti invece non facilmente distinguibili nella realtà. Nonostante questa difficoltà, dal punto di vista di chi scrive appare opportuno l'utilizzo della distinzione tra procedurale e sostantivo - a costo di una brevissima digressione - al fine di chiarire l'impostazione del saggio. Diamo dunque questa definizione: il modo procedurale di considerare un problema consiste nel ri214
flettere sulla razionalità complessiva del sistema decisionale e amministrativo, in questo caso relativo al sistema delle autonomie che governa le trasformazioni territoriali; il modo sostantivo di porre lo stesso problema consiste nel riformularne i termini in relazione alle aspettative e preferenze degli amministratori, dei tecnici, degli operatori economici e dei cittadini coinvolti nelle trasformazioni conseguenti 2 L'approccio adottato da questo saggio si giustifica allora con la convinzione che troppo spesso le riforme operano una contrapposizione artefatta tra problematiche sostantive e procedurali 3 definite come sopra. Nell'impossibilità personale di svolgere compiutamente l'approccio sostantivo, cerchiamo comunque un modo per approssimarsi all'obiettivo attraverso il filtro di un'analisi "tendenziale" delle trasformazioni incorso e delle tipologie di opere (e quindi di problemi decisionali). Cercheremo pertanto di partire da quelli che a nostro modo di vedere costituiscono dei problemi• " sostantivi" emblematici, se non esaustivi, per porre a verifica le innovazioni introdotte dal nuovo testo legislativo. In questo modo si rovescia deliberatamente quella costante del sistema politico-amministrativo italiano - derivante dall'esasperata caratteristica pluralista e multiparitica, rispettivamente, del nostro sistema istituzionale e politico - che pri-
vilegia l'accezione di politica come esecizio d'equilibrio nella attribuzione di poteri. Il particolare punto di vista che proponiamo si giustifica anche con la convinzione che la fenomenologia delle trasformazioni territoriali (la qualità, oltre che la quantità; ma anche aspetti solo apparentemente collaterali come le procedure, l'urgenza ) sia in corso di trasformazione, e che questo cambiamento sia da mettere al centro della prospettiva di analisi della capacità di governo degli enti locali 4 . In questa situazione non sembra improprio attendersi per il prossimo decennio una forte propositività 'nei confronti delle "grandi opere" di cui si lamenta la mancanza, infrastrutture, attrezzature, servizi ecc. I punti di diretto "impatto" del nuovo ordinamento sulla realizzazione delle grandi opere, quelle in corso e quelle prevedibili per il prossimo futuro, sono più di uno. È compito dei giuristi, dei costituzionalisti e degli studiosi della sempre più complessa materia amministrativa la verifica dell'impatto del nuovo ordinamento nel suo insieme, e di quelle parti in particolare che più hanno attinenza con l'autodeterminazione delle comunità locali (lo statuto, l'autonomia finanziaria e, in futuro forse non lontano, poiché il condizionale è sempre d'obbligo, l'autonomia impositiva). Per le finalità di queto lavoro, rimandando agli altri saggi per un'esposizione più esauriente, la prospettiva di analisi viene limitata alle attribuzioni e agli istituti introdotti con il nuovo testo legislativo che siano risultati tali da interferire direttamente con le trasformazioni territoriali nel medio periodo. Il contributo si articola pertanto secondo i seguenti passaggi: verranno introdotte due delle caratteristiche territoriali che maggiormente condizionano il nuovo assetto delle autonomie, e cioè il decentra...
mento urbano e la dispersione edilizia (par. 2); si cercherà poi di proporre, in base alle analisi più recenti, una tipologia indicativa delle principali trasformazioni territoriali (par. 3); verrà successivamente affrontato l'esame dei percorsi procedurali e attuativi dei progetti inerenti i grandi interventi in relazione al nuovo ordinamento delle atuonomie locali (par. 4); in conclusione, verranno proposte alcune considerazioni sulle conseguenze che il nuovo ordinamento presumibilmente produrrà su alcune classi di opere. UN'ORGANIZZAZIONE TERRITORIALE "OPACA"
L'eredità che gli anni ottanta lasciano all'organizzazione territoriale italiana è consistente ma, tutto sommato, "nebulosa". Non definisce cioè uno schema territoriale univoco per il futuro prossimo, ed evidenzia una generale carenza di attrezzature e infrastrutture. In quale profilo e in quale disegno territoriale debbano iscriversi le scelte relative alle attrezzature, è invece un problema ancora aperto. Assetti alternativi sono ancora possibili in un prossimo futuro e le tendenze "neutrali", che si individuano allo stato attuale, propugnano un'evoluzione ambigua: il rafforzamento dei centri più importanti e, contemporaneamente, una generale opacizzazione delle differenze e delle gerarchie territoriali per le aree rimanenti. Il mutato contesto può essere brevemente introdotto con riferimento al nuovo assetto delle città e della struttura insediativa in generale, da un lato; con il più specifico problema della diffusione dell'edificazione, dall'altro. DECLINO, RINAScIMENTO E GESTIONE URBANA
Uno degli aspetti principali della con215
giuntura attuale riguarda il ruolo che sono destinate a giocare le città nel prossimo futuro. Non sembra azzardato affermare che le aree urbane sono quelle che concentrano allo stato attuale la maggior parte di occasioni di investimento e di interessi. Anche annotando brevemente le maggiori trasformazioni emerge l'importanza della dimensione della "gestione" del patrimonio materiale e di idee esistente accanto e prima di ogni riforma e pianificazione. La "ricchezza" delle città è frutto principalmente del riuso delle aree industriali dismesse, delle iniziative di concentrazione terziaria e della speculazione immobiliare, più che dell'evoluzione dell'apparato produttivo, orientato ormai al decentramento su scala sempre più vasta. Le trasformazioni dell'assetto materiale si riflettono anche sulle rappresentazioni delle trasformazioni 5, che assumono un segno diverso rispetto al periodo precedente. Tra la seconda metà degli anni Settanta e il primo quinquennio degli anni Ottanta si è infatti consumata l'idea che il declino delle città fosse un fenomeno dato e inarrestabile; nel periodo successivo si registra invece un fervore generale intorno all'ipotesi del "rilancio" delle città 6 Questo cambiamento è abbastanza repentino e risente, sotto molti aspetti, dei cambiamenti culturali e ideologici che si sono consumati nel periodo. Anche da questo punto di vista, il ritorno di attenzione alla città di questi ultimi anni ha, per alcuni aspetti, un sentore liberatorio: la società occidentale, quella italiana in particolare, esce dal tunnel della crisi economica e politica degli anni Settantà e guarda con occhi nuovi i luoghi dove si era concentrato il potenziale umano e la ricchezza produttiva di tutto il quarantennio precedente. 216
Sarebbe facile dimostrare che, nel frattempo, sulle città italiane si è accumulato un forte debito di infrastrutture, cioè una carenza sistematica di quei servizi atti a qualificare la città come sede di servizi moderni, innovatori, efficienti 7. Questo debito si manifesta, per esempio, nella congestione, cioè nella presenza di "esternalità" negative che aumentano i costi di imprese e residenti. In questo senso, è un fattore che incide sia sulla concorrenzialità nella competizione per assicurarsi i servizi rari del terziatio avanzato, sia sulla qualità della vita dei residenti, dei pendolari e dei visitatori (una componente questa, uomini d'affari, turisti, studenti universitari ecc., in continua crescita benché inspiegabilmente negletta) 8 Le dinamiche principali che interessano le città sono però molto selettive; investono alcune aree, alcune funzioni e trascurano altre. La sostituzione delle attività produttive manifatturiere con quelle ter ziario-direzjonali nelle aree centrali delle metropoli e la trasformazione dei modi di produzione comporta il cambiamento del processo di valorizzazione fondiaria. Per esempio, l'espansione urbana - che era l'esito di una certa logica economica connessa principalmente alla speculazione sull'incremento di valore delle aree edificabili - cede il campo alla trasformazione per parti, sia centrali che periferiche, della città; la logica economica che guida i processi di trasformazione è più complessa della precedente, e comporta strategie più articolate e valutazioni sottili dell'orientamento della "domanda", dei fattori di "prestigio" ecc.9. Ne consegue tra l'altro la modifica delle geografie tradizionali delle città e, in particolare, la valorizzazione del "centro" cit-
tà come luogo simbolico di pregio elevato, in contrapposizione con l'ambiente fisico e i modi di vita della periferia. Il problema della qualità urbana risulta polarizzato su due estremi differenziati, che risultano ben differenti per i gruppi sociali che hanno accesso al nuovo sistema della centralità e per quelli che ne sono esclusi. Inoltre, gli scenari del mercato del lavoro mutano e cambiano, in particolare, le condizioni di competizioni tra le città nell'arena europea per la difesa del "rango" storico e l'acquisizione di ulteriori attività qualificate attraverso la messa a punto di nuovi qualificati servizi o infrastrutture collettive io Le trasformazioni nella demografia autorizzano forti interrogativi sui cambiamenti "sociografici", che si manifestano nella concentrazione della popolazione attiva nelle metropoli, benché i centri città perdano popolazione, e nella crescita dei flussi di persone, merci, informazioni. In particolare, però, le trasformazioni sociali e demografiche della popolazione urbana (l'incremento del numero degl anziani, per esempio) si incrociano con effetti negativi con l'obsolescenza degli edifici (il 40% delle abitazioni sarà da demolire o da rinnovare nel 2000). Cresce, infine, la complessità del processo decisionale, grazie anche alla pressione esercitata dal crescente numero di consorzi di imprese e di operatori che offrono progetti, soluzioni, suggerimenti al fine di promuovere investimenti, innovazione tecnologica e imprenditoriale ecc. In particolare, ne esce modificata la geografia istituzionale, attraverso innovazioni (che in parte sono il presupposto di questo saggio, in parte sono prefigurabili nel prossimo futuro) nel ruolo dell'ente pubblico. Ne fanno parte però anche fenome-
ni "regressivi" quale la crisi "fiscale" dello stato locale, in parte causa, in parte conseguenza, del profondo malessere dello Stato nazionale, che si rende manifesto con maggiòr evidenza al livello locale e sperimenta in questa sede sia i problemi più consistenti che le principali esperienze di rinnovo. Sembrerebbe di poter concludere, giunti a questo punto, che l'incremento della complessità urbana richiede una più attenta e sistematica attenzione alle trasformazioni in corso: un'attenzione che possieda però il requisito di essere progettuale, orientata alla ricerca di soluzioni e alla loro valutazione. Ma sarebbe un'annotazione insufficiente. La situazione descritta fin qui presenta un'altra caratteristica curiosa, forse più importante e certo un po' paradossale: le soluzioni disponibili sembrano essere più numerose dei problemi. Il titolo di un saggio recente 'i ricorda la deplorevole consuetudine di lasciar invecchiare i progetti delle grandi opere innovatrici, cattiva abitudine che il più delle volte porta a far perdere le tracce delle motivazioni originari e, spesso, di ogni coerenza tra presupposti e finalità. Più in generale, si può sostenere che ogniqualvolta si consenta lo slittamento indefinito nel tempo di un problema, si inferisce un colpo mortale al corretto svolgimento del processo decisionale, aggredendolo sul lato più debole, quello gestionale. È in questo contesto che gli enti locali rischiano doppiamente: da un lato, la subalternità rispetto alle soluzioni che la tecnostruttura imprenditoriale propone a raffica; dal lato opposto, il ritardo rispetto alle trasformazioni reali. Non c'è dubbio che l'autonomia degli enti locali rimarreb217
be sulla carta se non trovasse soluzioni a questi problemi. SI5TEÌvIA INSEDIATIVO E SVILUPPO "INTERSTIZIALE"
La seconda questione che riguarda in generale l'insieme del paese è l'assetto fisico degli, insediamenti. Nel secondo dopoguerra, in Italia, ad una crescita pur consistenete della popolazione e delle attività è corrisposta una crescita più che proporzionale dell'urbanizzazione, dell'edificazione, dell'occupazione (con strade, industrie, discariche ecc.) degli stessi ambienti naturali esterni alle città. Non è probabilmente esagerato prevedere, nel medio periodo, l'esaurirsi degli spazi liberi - destinati ai boschi o all'agricoltura - rimasti a separazione tra città e città, tra borgo e borgo. Inoltre, la qualità dell'abitare sta fortemente differenziandosi a seconda dei gruppi sociali e delle zone del paese. La migliore qualità della vita viene probabilmente garantita dalle aree caratterizzate da insediamenti diffusi (per esempio, le province minori del Nord o la "Terza" Italia), mentre risulta in declino costante nelle periferie urbane e soggette a continue oscillazioni (tra congestione e riqualificazione opulenta), nelle aree centrali delle metropoli e perfino nei luoghi turistici di pregio. Queste trasformazioni sono esito di dinamiche più che consistenti 12 che hanno profondamente variato il profilo del paese. Si è assistito infatti (e con ogni probabilità si continuerà ad assistere) alla crescita relativa del Centro italia e del Mezzogiorno rispetto al Nord; all'ulteriore crescita della quota di abitazioni in proprietà; allo spostamento dell'area del degrado fisico dall'edilizia storica alle parti 218
di minore pregio dell'edilizia di questo secolo (per intederci, i condomini degli anni Cinquanta, localizzati per lo più nella corona periferica). Semplificando un po' il quadro, la questione abitativa risulta in tendenza fortemente polarizzata tra l'area privilegiata che risulta "centrale" rispetto agli interessi finanziari (il riuso di prestigio, i sobborghi "affluenti", le località di pregio) e l'area marginale demandata all'eventuale interessamento pubblico (i poveri, gli immigrati, gli anziani, i quartieri o le parti urbane abbandonate). Logiche di mercato, pur fortemente "infiltrate" dalla presenza dello Stato, hanno riarticolato i valori fondiari e le gerarchie territoriali; hanno ripartito i ceti sociali secondo criteri di solvibilità e non di bisogno; hanno infine promosso una crescente diffusione residenziale su vasta scala. Questa situazione richiede che si rifletta attentamente sulla gestione della produzione edilizia e sugli effetti di questa sul problema abitativo, considerando in particolare le possibilità di intervento degli enti locali. Va riconsiderata, per esempio, l'opportunità di continuare una politica di espansione della produzione edilizia (e quindi, va posto il problema collaterale di contenere i consumi di spazio edificato, sia residenziale, sia per ufficio, sia infine turistico). Infatti, nonostante la già elevata disponibilità attuale di stanze procapite (circa 100 milioni di stanze per 56 milioni di abitanti in Italia), l"eccedenza" abitativa sembra destinata ad aumentare, contro ogni razionalità, sia in termini di valore assoluto delle abitazioni rispetto alle famiglie, sia in termini di disponibilità procapite. Di conseguenza, il consumo di suolo agricolo è destinato a aumentare,
non solo per effetto delle nuove urbanizzazioni ma anche per la richesta di tipologie suburbane con giardino privato 13. Va riconsiderato in secondo luogo i'opportunità che gli enti locali coordinino le proprie iniziative di sviluppo edilizio. Il tipo di diffusione residenziale che consegue alla concorrenza tra i comuni nell'offerta di aree edificabili contribuisce infatti ad indebolire il modello insediativo fondato sulle città, grandi o piccole, mentre ancora non è delineato il modello alternativo (che potrebbe variare tra quello multipolare, esteso però a tutta la rete urbana, e quello disperso, a carattere decisamente antiurbano). L'attuale configurazione fisica tende dunque alla "saturazione" dello spazio geografico, con conseguente stemperamento della forma dell'armatura urbana (in una direzione già parzialmente indicata dai processi di "deurbanizzazione"): tale crescita interstiziale non può mancare di influire sulle prestazioni della rete urbana nel suo complesso. Infine, va considerato che i prezzi e la fluidità degli scambi " risulteranno fortèmente influenzati dal sistema di trasporto che garantirà i collegamenti e la mobilità pendolare sulla scala per lo meno dell'attuale spazio regionale. Questo significa che le selte pubbliche di sostegno alla rete di trasporto automobilistico o, al contrario, di integrazione del sistema pubblico di mobilità su gomma o su rotaia influenzeranno in modo consistente le direttrici di sviluppo delle urbanizzazioni. Si tenga presente, per esempio, che gli attuali sistemi di trasporto centripeti (atti, cioè, a privilegiare l'area centrale delle metropoli, ma ininfluenti sugli spostamenti tangenziali) stimolano un'ulteriore pressione all'esodo (soprattutto dei ceti
medi) verso collocazioni ultra periferiche, consentendo cioè l'accesso a case di prezzo ragionevole senza comportare, nel frattempo, diminuzioni sensibili per i prezzi delle abitazioni delle aree centrali. UNA TIPOLOGIA DELLE OPERAZIONI IN CORSO
L'organizzazione territoriale lamenta a tutt'ggi delle gravi carenze, accentuate inoltre dal rallentamento nell'esecuzione dei grandi programmi a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, allorché si sono susseguiti la sospensione dei programmi autostradali, la pausa di riflessione sul programma energetico e, più in generale, l'accumulo di difficoltà nella gestione e nel coordinamento dei grandi progetti pubblici. Diversi segnali prospettano per gli anni Novanta una consistente accentuazione dell'impegno pubblico nel settore delle grandi opere. La parte del leone verrà fatta dagli interventi statali nei settori della mobilità e dell'energia 15, da interventi destinati cioè al recupero di ritardi nell'esecuzione (o dalla correzione di indirizzo) di programmi di spesa tradizionali. Altre opere si giustificano però per finalità che sono emerse in un periodo recente, peril manifestarsi di problemi relativamente nuovi (da qui l'esigenza di interventi di depurazione, bonifica e disinquinamento), per la disponibilità di nuove tecnologie (per esempio, per risolvere i problemi della mobilità l'orientamento prevalente è ora per le tramvie leggere o più futuribii " sistema pilota" automatici); oppure per il radicamento di nuovi bisogni e atteggiamenti da parte dei cittadini e degli utenti dei servizi pubblici (per esempio, la qualità della vita, il recupero dei centri storici, il rapporto con la natura). 219
Un censimento delle opere in progetto o in corso di realizzazione nei comuni d'Italia non è mai stato disponibile, sebbene numerosi studi hanno cercato di fare in più òccasioni il punto sullo stato dell'arte, almeno in relazione a singoli territori. Dall'insieme di quest analisi si ricava un quadro mevitabilmente limitato per molti aspetti ma che consente qualche annotaziorie. In relazione all'insieme dei progetti in corso o proposti per alcune delle maggiori città italiane, è stata notata di recente 16 la numerosità e la rilevanza (sia in termini di volume costruito che di dinanziamenti implicati) delle opere da realizzare. Seppure il prossimo decennio colmasse i ritardi accumulati nel periodo precedente, resterebbe ancora da verificare la coerenza delle opere in corso di realizzazione e dell"intenzionalità" pubblica che le giustifica; in altre parole, resterebbe da rispondere all'interrogativo della logica complessiva che guida la realizzazione delle opere. Allo stato attuale, infatti, se c'è una logica nella programmazione delle opere degli enti locali, questa sembra essere il risultato della sommatoria degli intervenuti posii, da varie parti, sul tappeto, più che una chiara risposta ai dilemmi conseguenti la necessità di modernizzare le città e la sceltra tra concorrenti modelli insediativi. Le analisi fin qui disponibili segnalano infatti che alla rilevanza complessiva dell'intervento sulla città esistente si accompagnano elementi contraddittori. Per esempio, la varietà dei canali finanziari, che sono legati a modalità così diverse e così sovrapposte da impedire una ricostruzione definitiva 17 Un'opera può ricevere finanziamenti attraverso una varietà di strade: da fondi attivati su richiesta, a seconda della capacità propositiva 220
dell'ente locale; attraverso l'indebitamento ordinario presso la Cassa depositi prestiti; con ricorso al sempre meno "straordinario" canale di spesa per le emergenze "i; grazie ai provvedimenti di spesa a carattere "speciale" allegati al piano finanziario dello Stato, fattispecie che sta diventando sempre più numerosa (nell'ultimo bilancio triennale dello Stato sono state tredici le città per le quali venivano previsti finanziamenti appositi). Stante questa articolazione, il censimento delle opere in corso di realizzazione nelle grandi città non è un'impresa semplice, perché assomma opere promosse da promotori diversi, a differente livello di "maturità". Considerando l'insieme dei provvedimenti più recenti, in sintesi, non pare dubbio che si avvicini una stagione di "modernizzazione" delle città e degli insediamenti esistenti. In particolare, si può sostenere che gli interventi più numerosi e di maggior rilievo riguardino le infrastrutture (sebbene raramente all'interno di un disegno unitario). Un'altra voce cospicua nella progranirnazione di opere pubbliche è costituita dalla sempre maggiormente avvertita esigenza di servizi collettivi (sia pubblci che privati), sebbene con gerarchie e fenomenologie un po' diverse dal passato prossimo. I comuni e gli enti locali, infine, appaiono intenzionati ad assolvere funzioni sempre più importanti, non solo come controllori delle realizzazioni, ma in misura sempre maggiore (come attuali realizzazioni stanno già mostrando) nel ruolo di promotori, progettisti e realizzatori, sperimentando inoltre una pluralità di forme di cooperazione con i privati realizzatori. I limiti di questa situazione non sono secondari 1 9 . Dal punto di vista delle relazioni tra parti di città e aree territoriali diver-
se, la maggior parte delle opere tende a privilegiare le aree centrali delle conurbazioni piuttosto che a rafforzare i collegamenti trasversali tra i centri, tra centro e periferia, tra periferie e periferie. Inoltre, la tentazione di molti " progetti di città" è di procedere rapidamente alla più remunerativa edificazione di nuovi edifici e strutture funzionali, o all'introduzione di sistemi tecnologici " pesanti" (tali cioè da richiedere forti investimenti di denaro pubblico), trascurando la necessità di una riorganizzazione complessiva e gli interventi "leggeri", anche quando sarebbero più opportuni. Per quanto riguarda l'intervento pubblico, infine, il limite maggiore è costituito dalla disorganicità dei programmi di realizzazione delle opere che, come è già stato fatto notare, risultano talvolta dalla sommatoria di programmi nazionali, iniziative locali, provvedimenti speciali e solo nel caso di amministrazioni particolarmente determinate e salde corrispondono a delle strategie pensate in modo coordinato. Si può sostenere che a livello locale non si esercita il dovuto monitoraggio sulla interconnessione dei problemi urbani; mentre a livello nazionale non esiste un piano strategico di coordinamento, sviluppo e specializzazione delle aree urbane. L'esempio del traffico fornisce qualche indicazione: sono esigue, per esempio, le proposte di riocalizzazione di uffici e "attrattori" di spostamenti dal centro alla periferia; manca quasi sempre, inoltre, un disegno coerentemente perseguito che favorisca l'integrazione tra le diverse reti di trasporto e il riequilibrio dell'accessibilità tra le diverse parti del territorio; non sono rari, infine, nonostante l'esempio positivo costituito dai protocolli d'intesa del Ministro dei
Trasporti, i casi di conflittualità e sovrapposizione tra decisori pubblici: Per quanto riguarda la tipologia delle opere pubbliche in corso di realizzazione, dall'esame dei progetti in corso possiamo ricavare una schematizzazione di alcuni progetti che caratterizzano l'attuale stagione di realizzazioni 20 I
CENTRI DIREZIOIALI E IL RIUSO DELLE AREE
co-
STRUITE
I centri direzionali dovrebbero assolvere, a seconda delle loro caratteristiche, una duplice funzione: operare come incubatrici, garantendo lo "scambio" di informazioni specialistiche, tecnologiche, commerciali ecc., e favorendo il sorgere di nuove imprenditorialità e attività produttive; proporsi inoltre come contrappeso alle localizzazioni attuali, favorendo il decongestionamento dei centri storici dalla presenza ingombrante del direzionale pubblico e privato. In realtà, la funzionalità del mercato immobiliare locale condiziona pesantemente questi obiettivi. Una delle principali difficoltà per l'investimento immobiliare privato è "il raccordo con le destinazioni urbanistiche esistenti" 21, che dipende anche dagli interessi speculativi, interessati al riuso di aree sottoutilizzate o allo spostamento di attività indipendentemente dalla funzionalità complessiva della città. Questa condizione si riflette da un lato sullo stravolgimento dei piani regolatori preliminari alla realizzazione di alcuni grandi progetti direzionali (cfr. la Fiat Fondiaria a Firenze), dall'altro nella "opacità" del disegno che ne risulta. Infine, una evidente ripercussione di un malessere generale è costituita dall'meguale distribuzione sul territorio nazionale dei centri direzionali proposti o in via 221
di ralizzazione (oltre il 50% dell'offerta presente nelle città di media dimensione si concentra in quattro regioni: Veneto, Emilia romagna, Toscana e Umbria); la densità dimensionale dei centri proposti rispecchia alla scala urbana la tendenza alla concentrazione (Si va dai 130/230 mila mc. dei centri urbani maggiori agli 800/1.200 mila Inc. delle aree metropolitane) 22 In definitva, la realizzazione di centri direzionali dovrebbe rispondere ad una strategia generale di trasformazione dell'area territoriale nella quale è inserito il singolo comune che sembra mancare nell'attuale fase di sviluppo; le singole iniziative, spesso ideate e talvolta neanche finanziate da privati ma sempre più spesso sostenute dall'ente locale, possono risultare non del tutto lungimiranti e manifestare a breve "effetti indesiderati": duplicazioni di una stessa struttura tra centri vicini, sottovalutazione delle realazioni " sistemiche" con altre parti di città, mancanza di chiarezza sul ruolo esercitato in prospettiva dal centro città. LE RETI PER IL TRASPORTO PUBBLIcO E IL TRAFFIco
La sottodotazione di infrastrutture di trasporto è evidente nel caso italiano rispetto a tutta l'Europa: i mezzi privati mobilitano circa 6 volte il volume di passeggeri rispetto al mezzo pubblico 23 Il recupero del ritardo in questo caso deve preliminarmente rispondere all'esigenza di inserire la rete urbana di trasporto pubblico nel contesto del sistema regionale della mobilità. Il decentramento residenziale e urbano ha infatti cambiato i connotati del problema della mobilità, e consente ora la proliferazione di esperienze differenziate. In questa prospettiva, l'integrazione della 222
rete del trasporto pubblico risulta probabilmente il problema principale. Infatti, l'efficienza dei sistemi di trasporto non dipende tanto dalla velocità e capienza delle singole linee, quanto dal numero delle destinazioni, dalla facilità di interscambio tra i mezzi (metro, autobus, treni, scale mobili ) nonché dall'organizzazione di servizi collaterali strategicamente collocati nei centri di interscambio (parcheggi, spazi commerciali, agenzie di servizio; ad una scala più ampia, scali, inteporti, magazzini merci ). A questa condizione, il sistema di trasproto pubblico diventa un insieme coordinato di opere che innervano una regione nel suo insieme, e una delle principali condizioni per la gestione equilibrata del territorio. Il percorso standard è costituito dalla realizzazione di una rete metropolitana urbana e dall'integrazione con quella ferroviaria nazionale 24 L'integrazione tra sotterranea e rete ferroviaria regionale, e quindi il ruolo e la posizione delle Fs nel trasporto urbano e metropolitano, è uno dei problemi maggiori per l'adeguamento infrastrutturale, perché consente le migliori prestazioni di servizio ma richiede accordi di difficile gestione. Un'altra strada è costituita dalla realizzazione di sistemi automatici sopraelevati, per ora fermi alla fase di studio (almeno in Italia), dove spesso la scelta è caduta, sulle tradizionali tramvie protette. Modesti sistemi di meccanizzazione di percorsi pedonali (attraverso scale mobili, funicolan, ascensori ecc.) sono invece all'opera, con maggior o minore casualità, in alcuni centri, dove consentono l'importante funzione della moltiplicazione degli accessi (si vedano esempi diversi quali Perugia, Roma, Napoli ecc.). ...
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Il limite di queste realizzazioni consiste nella frammentazione delle realizzazioni, ricomprese di volta in volta nei canali di spesa che periodicamente si aprono. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la viabilità è tuttora uno dei maggiori capitoli di spesa per le opere pubbliche, nonostante i forti investimenti nelle autostrade degli anni passati e il forte sostegno accordato tradizionalmente in Italia alle infrastrutture per il trasporto su gomma. Le opere stradali in progetto riguardano però opere più specifiche: assi urbani di scorrimento veloce, rinnovo di infrastrutture intasate (come il discusso progetto della camionabile Firenze-Bologna), bretella per lo smaltimento dei grandi flussi di traffico di attraversamento e, soprattutto, parcheggi. Quindi gli interventi riguardano tutti i nodi nevralgici della rete viaria: i collegamenti che massimizzano la funzionalità della rete esistente; l'offerta di sedi specializzate per tipi di traffico diversi (per esempio, traffico veloce e locale); la realizzazione di "scambiatori" tra reti differenti, cioè parcheggi siti in luoghi che consentano l'accesso ai posti di lavoro, alle reti di trasporto collettivo, ai centri di vita sociale e conimerciale ecc. LE OPERE DI VALORIZZAZIONE E SALVAGUARDIA DELLA NATURA
L'importanza della questione ambientale nel quadro degli interventi sul territorio difficilmetne può esser sottostimata. Si avverte nei progetti e nei programmi in corso di adozione un cambiamento di segno nel senso di una maggior organicità delle opere e degli interventi previsti. In altre parole, si passa da una concezione per così dire "puntuale" della funzione "verde pubblico" (il parco, il giardino)
vista non molto diversamente in fondo da qualsiasi altra funzione urbana, ad un intervento di salvaguardia di elementi naturali nella loro interezza e particolarità. È indicativa a questo proposito la previsione del recente Prg di Bologna di una zona boschiva ad uso ricreativo e sportivo ai lati del fiume, che recupera un ambiente precedentemente ignorato o inteso al più come margine urbano o schermo dell'autostrada. Un intervento più complesso ma egualmente indicativo dell'orientamento a favore della tutela dell'ambiente naturale è il progetto relativo al corso del Po, non solo nel territorio regionale. Progetti di analoga complessità e integrazione sono allo studio anche per il tratto urbano del Tevere, da Roma, dove vengono sollevati per l'appunto i problemi di raccordo con le altre regioni (Toscana e Umbria) per la corretta gestione dei bacini idrici. Infine,, il risanamento dell'ambiente naturale nel suo insieme è oggetto di interventi "speciali" a Venezia, Palermo, Napoli, aventi la finalità di ricostuire un assetto che renda compatibile lo sviluppo recente con il mantenimento dell'ambiente originario. La difesa della natura si accompagna in questi casi alla promozione di nuove aree di tutela e al disinquinamento delle fasce costiere. Un'inziativa simile è in corso di realizzazione anche a Cagliari: la salvaguardia del titolare e, in particolare, della "zona umida" del Molentargius dove si trovano degli stagni particolarmente importanti dal punto di vista faunistico e ambientale, è il pretesto (ci si augura) per la ricostruzione di un ampio sistema ambientale ricreativo a servizio di tutta la città. Napoli è infine oggetto di un numero elevatissimo di interventi di risanamento ambientale, dal monitoraggio dell'inquina223
mento marino e atmosferico, ai risanamenti di Camaldoli e di S. Rocco, alla progettazione di nuovi collettori per il centro direzionale. AuTONOMIE NOVANTA
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DUTTILI: SCENARI PER GLI ANNI
Dal punto di vista dei problemi tracciati nei paragrafi precedenti, il nuovo testo legislativo introduce, tra le altre novità, quattro elementi di rilievo. I primi due sono relativi ai compiti e alle funzioni attribuite al nuovo ente intermedio, la provincia, e al nuovo specifico istituto previsto per le aree metropolitane. Gli altri attengono invece alle forme di gestione dei servizi, principalmente comunali, e agli strumenti di governo degli interventi ordinari e straordinari. In sostanza,questo complesso di attribuzioni cun quadro di controllo degli interventi sul territorio al tempo stesso più duttile e più dinamico. Queste norme consentono di articolare il campo delle grandi opere e degli interventi secondo due criteri: uno geografico (e non banalmente "spaziale"), nel senso della definizione dei confini di aree significative per la gestione e la realizzazione delle opere e delle funzioni previste per ogni livello di governo; un secondo gestionale, relativo cioè ai livelli di efficienza e economicità significativi per l'esercizio di servizi o per la realizzazione di opere, per le quali è ammesso il ricorso ad un complesso di istituti (forme di gestione o accordi collaborativi) che possono essere utilmente differenziati a seconda del carattere "ordinario" o "speciale" degli interventi. Nel prospettare le conseguenze delle innovazioni introdotte con il nuovo testo legislativo sulle autonomie è inevitabile 224
far riferimento ad alcune ipotesi di evoluzione, ad uno scenario delle trasformazioni territoriali e dell'efficacia della riforma. In questa sede si farà astrazione dalle questioni relative ai processi concreti di attuazione, che sarebbero troppo minuti e diversificati per poter essere presi in esame; verrà quindi posto esclusivamente il problema della compatibilità tra il percorso attuativo prevedibile per ogni opera e le opportunità concesse dal nuovo testo. DIIzIoNA.LE E RIUSO DELLA AREE DISMESSE Non c'è dubbio che i grandi centri direzionali presentino rilevanza specifica per molti dei comuni maggiori (per esempio, la progettata Espansione Sud di Bergamo) e per le città metropolitane. e non c'è dubbio che proprio la programmazione del direzionale costituisca uno dei compiti principali delle nuove province e delle città metropolitane, nel quadro delle rispettive competenze sull'organizzazione territoriale e la localizzazione dei servizi di scala vasta. Ed è infine una facile previsione sostenere che la valutazione delle finalità dei centri direzionali programmati o soltanto proposti costituirà un banco di prova di tutte le innovazioni introdotte dal nuovo ordinamento delle autonomie. Rispetto a questo argomento va proposta una valutazione specifica. Il discusso progetto Fondiaria per Firenze, come pure il centro direzionale realizzato a Napoli e quello in progetto a Roma, sono tutti delle buone esemplificazioni della strategia finalizzata al decongestionamento del centro storico. L'orizzonte del progetto è determinato in questo caso dalla prospettiva del riequilibrio; il problema principale, come viene spiegato con particolare riferimento al caso romano, consiste nel
rapporto che il progetto instaura con le dinamiche "spontanee" di sviluppo del terziario, da un lato, nella relazione con la struttura delle centralità urbane, dall'altro. Allo stato attuale, però, mancavano strumenti atti a governare l'offerta privata di spazi per direzionale che, o si disperde in una miriade di centri localizzati nei comuni della cintura concorrenti con il capoluogo, come nel caso milanese; oppure si diffonde lunge le direttrici tradizionali sfruttando i varchi nei regolamenti o nelle aree centrali attraverso incontrollati cambiamenti di destinazione d'uso, come nel caso milanese; oppure si diffonde lungo le direttrici tradizionali sfruttando i varchi nei regolamenti o nelle aree centrali attraverso incotrollati cambiamenti di destinazione d'uso, come nel caso romano. In altre parole, la concentrazione non regolata del direzionale, soprattutto pubblico, nei centri storici , e la diffusione della nuova edificazione terziaria in periferia offrono, allo Stato attuale, uno sbocco consistente alla domanda esistente, e costituiscono al tempo stesso una duplicazione generica di spazi e funzioni e un'occasione sprecata per un ridisegno "forte" delle aree urbane. Fatta questa considerazione, sembra convincente sostenere che un approccio adeguato al problema dei centi direzionali non possa risultare se non all'interno della considerazione degli usi possibili di tutte le aree libere o liberabili presenti all'interno delle città. Il riferimento esemplificativo al caso del Sistema direzionale orientale di Roma consente di sviluppare delle considerazioni più generali. Sintetizzando un po' bruscamente, le caratteristiche più significative del progetto SDO risultano, ai nostri fini, le seguenti quattro: le finalità del riequilibrio, la questione della proprietà delle aree, il trasfe-
rimento delle attività e il riuso dei manufatti liberati. Più analiticamente: la considerevole estensione del progetto avrebbe dovuto, nelle intenzioni originarie, garantire un'efficace alternativa al centro storico (è questa valenza che potrebbe risultare ora compromessa dai progetti realizzati altrove e dalla potenziale immissione sul mercato di aree "dismesse" e manufatti da riutilizzare). Il problema della proprietà delle aree dipende dalla mancanza di una legge sugli espropri e dalla presenza di grandi proprietari che possono candidarsi alla gestione dell'intero progetto in alternativa all'ente locale (aspetto che solleva, quindi, il problema dell'autonomia nella predisposizione del progetto, nonché di distribuzione delle plusvalenze relative al plusvalore derivante dalla destinazione di piano). Inoltre, nel caso di Roma la variabile strategica del progetto è assolta dalla rilocalizzazione dei Ministeri, questione allo stato attuale ancora nebulosa. Infine, rimane il problema di quale utilizzo assegnare alle aree che si libererebbero nel centro storico, per lo più costituite dai manufatti ottocenteschi che ospitano per l'appunto i Ministeri da trasferire. Rispetto a questa situazione, la pianificazione territoriale di coordinamento, attribuita dal nuovo ordinamento alle province, dovrà esprimersi, nel merito, relativamente al futuro dei centro-città, per i quali va chiarito se si intende attuare il decongestionamento, il ripotenziamentO, la diffusione o che altro ancora. È difficile però che la propensidne dei promotori all'investimento immobiliare possa essere governata con maggiore efficacia da un piano di coordinamento di quanto non sia stata finora dai piani regolatori. Fintantoché i comuni o le province non saranno in grado di ricorrere a fondi propri per 225
attuare gli investimenti strategici (e non disporranno di altri strumenti impositivi) è improbabile che riescano a indirizzare i privati là dove apparirebbe opportuno. Nel nuovo contesto definito per le autonomie, si può però ipotizzare che venga fatto ricorso a: una società mista tra operatori pubblici e privati,i proprietari delle aree o altri operatori, per esempio le banche, per la realizzazione e gestine dell'operazione; e all'accordo di programma tra gli enti pubblici della capitale rispetto alla questione del trasferimento e del riutilizzo dei manufatti liberati. Questa seconda strada sembra tutto sommato opportuna e attuabile, anzi: nel quadro delle trasformazioni urbane, l'accordo di programma potrebbe risultare la cornice entro la quale vengono avanzate numerose iniziative. La prima e più importante in assoluto sembra quella relativa alla gestione del patrimonio pubblico, cioè ad un problema della stessa natura ma di maggior generalità del trasferimento di sedi al quale si accennava con l'esempio dello Sdo. La gestione del patrimonio è oggi minata da inefficienze e sprechi; senza considerare la patologia di questi casi, già soltanto la divisione per ambiti categoriali dei demani pubblici sembra allo stato dei fatti unelemento negativo da rimuovere. Un esempio di "ordinaria" follia nella gestione del patrimonio (a parte i casi, cioè, degli immobili non censiti, le proprietà abbandonate, le destinazioni superate, i canoni non percepiti ecc.) è costituito dalla appartenenza degli edifici scolastici di diverso ordine e grado a soggetti pubblici diversi (stato, province, comuni). La trasfor mazione della struttura demografica e ur bana ha reso spesso obsolete queste destinazioni e impropria la loro localiz226
zazione. Allorché si affronta il tema della privatizzazione del patrimonio pubblico accentuandone le valenze finanziarie, non sembra inopportuno ricordare per prima cosa la necessità di rivedere in termini strategici l'aspetto gestionale. Trasferimenti di uffici e sedi amministrative, riuso ottimale delle aree abbandonate o in disuso, revisione della funzionalità dei manufatti esistenti potrebbero costituire dunque il banco di prova delle conferenze dei servizi. Da queste iniziative potrebbe sortire un grande beneficio funzionale ed economico alle pubbliche amministrazioni, non soltanto locali. La condizione è di impostare l'argomento con la necessaria ampiezza di vedute; la validità di queste esperienze richiederebbe però la partecipazione, almeno sperimentale, anche degli enti pubblici economici e delle aziende delle partecipazioni statali. Questo è per l'appunto l'aspetto interessante e, insieme, il punto debole dello strumento societario per la gestione delle aree. La legge infatti vincola le costituende società alla maggioranza pubblica del capitale, in particolare alla maggioranza di capitale pubblico locale. Sembra in questo caso che per prudenza 25 il legislatore abbia limitato la possibilità di costituzione di società miste a maggior salvaguardia delle finalità di tutela delle comunità locali. Tale finalità deve essere comunque esercitata dagli enti locali nelle forme appropriate, anche nel caso di concessioni di servizio o di gestione a società miste. D'altra parte il rapporto con i privati è sempre problematico. A quali condizioni, infatti, dei proprietari di aree accetterebbero di entrare in società con il comune, sapendo di essere i veri garanti sia degli investimenti che della capacità imprendi-
toriali. Quali altri privati, invece, si dimostrerebbero interessati ad operazioni che li vedessero nello scomodo ruolo di prestatori di fondi per rilevare le aree di terzi 26 In altre parole, lo strumento società mista potrebbe consentire a molti comuni di gestire in modo coordinato il patrimonio immobiliare pubblico, soprattutto coinvolgendo altre amministrazioni pubbliche. Le finalità che potrebbero essere perseguite sono, in particolare, la rilocalizzazione di attività in una strategia complessiva di ridisegno dei pesi insediativi; e il riuso delle aree poco utilizzate, per esempio quelle militari o appartenenti agli enti di stato. Va da sé che questa eventualità sembra realizzabile più facilmente nel caso che i terreni siano tutti già di proprietà del Comune o degli enti pubblici, anche se nulla vieta in linea di principio l'accordo con i proprietari privati. È inutile dire che per far ciò manca ai Comuni quello che è sempre mancato in Italia, e cioè gli strumenti finanziari e giuridici per realizzare un forte controllo sulle destinazioni e i valori fondiari. In attesa della nuova legge sugli espropri, comunque, gli enti locali potrebbero riuscire a rinnovare la gestione del proprio patrimonio immobiliare. LA RISTRUTFURAZIONE REGIONALE DELLA RETE DI TRASPORTO E L'ASSETtO INSEDIATIVO
La spesa pubblica per la voce trasporti privilegia allo stato attuale la realizzazione di una rete di collegamènti veloce tra alcuni dei centri più importanti (per esempio, Roma e Milano); solo parzialmente e con molti ritardi l'intervento pubblico mira, come abbiamo accennato in precedenza, all'integrazione tra la rete dei trasporti pubblici nazionali e quella locale
alla scala regioinale. La realizzazione di quest'ultimo obiettivo sarebbe invece la condizione che permette un'organizzazione territoriale meno squilibrata, meno polarizzata cioè sul centro delle aree metropolitane, tale per esempio da consentire spostamenti giornalieri compatibili con l'attuale vasta diffusione delle principali attività funzionali (abitazione, lavoro, commercio ). Nel merito, dunque, l'organizzazione di una rete di trasporti regionale o d'area vasta consentirebbe il recupero di quelle componenti del sistema dell'abitare che costiuiscono la qualità esterna alla abitazione (accessibilità a servizi, ambiente naturale, presenza di una struttura professionale e commerciale di sostegno alla vita quotidiana ) Per la finalità dell'intervento sul sistema abitativo, però, sembrano necessari provvedimenti che vanno di gran lunga al di là del quadro di problemi toccato dal testo sulle autonomie, provvedimenti che rispecchiano la "trasversalità" delle politiche auspicabili per affrontare correttamente la gestione degli insediamenti. Non sono aggirabili, per esempio, appuntamenti legislativi con la normazione degli usi e delle locazioni nel settore residenziale e, non meno di rilievo, nel terziario; con la revisione del catasto e del regime impositivo degli immobili; la revisione progressiva dell'equo canone; un controllo più efficace sui mutamenti di destinazione d'uso ecc. Il punto centrale in questo contesto sembra però la possibilità di armonizzare politiche di livello nazionale e politiche locali e, soprattutto, gli enti attuatori delle politiche, in questo caso l'azienda autonoma della FS. La presenza di figure ibride tra pubblico e privato, (Partecipazioni statali, Aziende pubbliche di diritto ...
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privato, Enti autonomi ecc. ) non semplifica il processo decisionale e non è, peraltro, oggetto di specifiche attribuzioni del testo legislativo in esame. Il nuovo ordinamento delle autonomie non consente molto più di quanto era già possibile realizzare, o è stato realizzato, nell'ordinamento precedente, per esempio attraverso i protocolli di intesa tra Ministero dei Trasporti, regioni e comuni; mentre rimane apetto il cruciale problema della volontà politica, cioè dello stanziamento dei fondi necessan per la realizzazione delle opere previste. Pur nel chiarimento delle rispettive attribuzioni, in sostanza, province, comuni, enti e amministrazioni dello Stato non possono evitare di assumersi la responsabilità dell'attuazione delle politiche territoriali. D'altra parte il coordinamento delle politiche locali e nazionali è nell'ordine delle cose, e a favòre premono le esigenze di innovazione e trasformazione della struttura insediativa a fronte della sempre più forte concorrenza internazionale. Lo strumento che viene introdotto a questo riguardo è in particolare l'accordo di programma. Tra le forme di gestione l'accordo di programma riveste un carattere particolare: in primo luogo perché consente un canale privilegiato alla definizione di "opere", di interventi e di programmi" che richiedono il contributo di soggetti pubblici anche diversi dagli enti locali; in secondo luogo, perché una volta ottenuta l'unanimità dei consensi nelle forme previste, l'accordo consente la realizzazione immediata degli interventi, essendo stato omologato alle norme dell'art. 81 del DPR 616/1977 che regimenta progettazione, localizzazione e tracciato delle opere pubbliche di interesse statale. Da un lato, quindi, generalizza un istituto recentemente introdotto nella nostra legi228
slazione per la disciplina delle emergenze e dei progetti speciali, estendendone la validità ad ogni categoria di opere che richieda il coordinamento di soggeti pubblici; dall'altro, si propone di eliminare gli ostacoli procedurali al fine di sveltire l'iter di iniziative per le quali si registri il consenso degli interessati. La pluralità di interessi, dei quali sono legittimamente portatori le diverse amministrazioni dello Stato, non viene certo cortocircuitata dalle innovazioni procedurali; permane quindi un problema di chiarezza e coerenza degli orientamenti politici di fondo (del modo "sostantivo", si potrebbe dire, di affrontare i problemi). Il ruolo essenziale che, data la natura del problema, verrà svolto a questo riguardo dalle province e dalle regioni si risolverà in un beneficio per le autonomie se, soprattutto, si riuscirà a contemperare l'obiettivo della efficacia con quello del coordinamento. In questo senso appare importante non solo la garanzia di organicità della progranimazione degli interventi che viene garantita, per esempio, dalla coincidenza richiesta tra area socio-economica "vasta", confini provinciali o circondariali, e livello di pianificazione territoriale; ma soprattutto dalla possibilità della compartecipazione tra provincia e comuni nella gestione di servizi o nella promozione di interventi (anche su delega della regione o dello stato) e, della collaborazione tra province e regioni nella programmazione generale. TUTELA E PROMOZIONE DELL'AMBIENTE NON EDIFICATO
L'esigenza di tutelare l'ambiente e le risorse naturali è stata recepita nella coscienza di politici e amministratori e vie-
ne opportunamente collocata dal legislatore tra i compiti primari delle nuove province e città metropolitane. Eppure, l'ambiente naturale - si consenta il paradosso - è sempre più un prodotto consapevole dell'attività umana; è sempre più difficile, di conseguenza, risolvere questo obiettivo in un intervento "passivo", volto alla conservazione di ciò che esiste. La necessità di produrre con un'azione consapevole il nuovo volto dell'ambiente naturale pone due condizioni: il superamento della sporadicità delle iniziative, rispetto alla quale l'ordinamento delle autonomie fornisce qualche indicazione, e una maggior incisività dell'intervento pubblico, che esula in parte dai limiti della legge stessa. È semrpe più raro che le iniziative a carattere ambientale si esauriscano all'interno dei confini del comune. La dimensione sovralocale del risanamento ambientale emerge, tra l'altro, da altri provvedimenti, che hanno incaricato, per esempio, nuove autorità della gestione dei bacini fluviali. La finalità della gestione dei servizi ambientali, nell'accezione più larga, potrebbe essere in effetti uno dei criteri principali per la costituzione delle unioni e, p0tenzialmente, delle fusioni di comuni. Più di un servizio, dal trattamento dei rifiuti, ai depuratori, all'approvvigionamento delle acque richiede di fatto la collaborazione di più comunità locali. A questo scopo, conviene considerare congiuntamente le due vie dell'unione e della convenzione obbligatoria. La prima rispetta l'autonomia dei comuni, pur incentivandoli con contributi statali " commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli comuni che si fondono" (Art. 11), secondo un programma predisposto dalla Regione, e con contributi regionali nel caso di unione. A che
punto i contributi possano risultare decisivi è materia delicata, vista la tradizionale resistenza dei comuni stessi a procedere a questo tipo di atti, ma certamente costituiscono un punto di forza delle Regioni. Se quella di cui abbiamo trattato or ora costituisce la "carota" nel campo delle unioni, la convenzione obbligatoria costituisce il• "bastone". Nel caso delle opere ambientali, in definitiva, non si può escludere il ricorso né al bastone né alla carota, viste alcune delle emergenze accumulate (per esempio, nella localizzazione delle discariche controllate o dei depuratori). Sembra confermato anche in questo caso il ruolo "organizzativo" assegnato dalla legge alle Regioni, ruolo che indubbiamente costituirà un consistente problema costituzionale e applicativo. Il criterio di un'efficiente prestazione dei servizi ambientali sembra però atto a suggerire il programma per le fusioni, la calibrazione delle unioni e, in geneale, il raccordo tra pianificazione locale e dimensione sovralocale dei problemi territoriali e ambientali: in altre parole, proprio dalla finalità della corrispondenza territoriale tra istituzioni e quadri ambientali: (finalità che è iscritta nello spirito della legge) sarebbe consigliabile prendere le mosse per il ridisegno dei confini amministrativi o delle competenze gestionali. D'altra parte, è possibile un avviciniamento graduale al problema: infatti, si possono realisticamente preventivare numerose combinazioni z, che dovrebbero essere sufficienti a garantire la necessaria elasticità. UN ULTIMA ANNOTAZIONE
Al fine di garantire l'esito migliore agli obiettivi fin qui esposti, l'attuazione del nuovo ordinamento richiede una grande 229
capacità di tradizione delle possibilità che si aprono in atti concreti e attuabili. Ma anche questo sarebbe insufficiente se non si ponesse mano ad altre necessarie riforme dei modi specifici di intervento. In particolare, è necessaria la revisione del sistema di pianificazione che recuperi a livello generale una dimensione indicativa di ampio respiro; a livello particolare, una capacità di vincolo inderogabile là dove necessario. Questo vincolo può esprimersi nelle forme tradizionali previste dalla legislazione esistente sui piani regolatori. Diventerebbe però molto più efficace laddove si accompagnasse ad un'autonoma iniziativa economica delle comunità locali di promozione dell'ambiente nelle forme più opportune. In definitiva, rispetto agli elementi trattati sono apparse con tutta evidenza le nuove opportunità che il testo di legge consente agli enti locali per la gestione di alcuni interventi, a fronte dei limti complessivi connessi alla disponibilità di risorse e di strumenti di intervento diretto. In partico-
lare, è stato messo in rilievo il ruolo che può giocare la collaborazione tra privati e enti locali nella gestione delle aree destinate a nuovi interventi direzionali o a nel riuso di aree dismesse; l'importanza del coordinamento tra gli enti locali e gli enti pubblici economici nella predisposizione dei grandi interventi relativi ai trasporti e alla mobilità; l'opportunità infine di tener conto dei criteri relativi alla gestione dei servizi ambientali al momento di predisporre le associazioni temporanee o le fusioni dei comuni. In conclusione, va altresì segnalato che la realizzazione delle operazioni richeste dalla nuove condizioni territoriali e dagli scenari di infrastrutture degli anni Novanta richiederebbero di affrontare e risolvere alcuni nodi sostanziali (l'autonomia impositiva, la disponibilità di risorse, il regime degli espropri, la gestione del patrimonio pubblico, il sistema di vincoli e incentivi dei piani urbanistici) accanto ai pur importanti nodi procedurali affrontati dal nuovo ordinamento.
Note
si che il piano urbanistico dovesse uniformarsi ad u-
Borsista del dottorato di ricerca in Pianificazione territoriale e urbanistica presso lo Iuav, e colloaboratore alle ricerche del Cresme.
na metodologia procedurale, che prendeva l'aspetto di una tecnologia decisionale sotto l'evidente influenza del planning statunitense; e, successivamente, una ridefinizione del piano intorno a nodi di ca-
2
Per questa distinzione, cfr. F. Pardi, "Il contenuto e
rattere sostantivo, che hanno sottolineato gli aspetti
la procedura: forme di razionalità sociale", In E.M.
realistici e materiali del processo di piano (il conflit-
Forni, a cura di, Teoria dei sistemi e razionalità
to tra i poteri, la contrattazione tra i soggetti, il carat-
sociale, Cappelli, Bologna 1986.
tere cognitivo del piano).
3 Mi permetto di rimandare ad un mio lavoro nel
4
quale ho sottolineato questa contrapposizoine negli
complesso delle indagini svolte dall'autore nel corso
approcci teorici alla pianificazione urbanistica: cfr.
degli ultimi anni, anche in collaborazione con altri,
"Esperienza urbana e progetto di città", in particola-
sia per istituti universitari e Cnr che per istituti na-
re il cap. 1, Tesi di Dottorato, Daest, Venezia 1990.
zionali di ricerca quali il Cresme. In particolare si ri-
Nel corso del contributo verrà fatto riferimento al
Secondo questa interpretazione nel secondo dopo-
manda al complesso delle indagini, sviluppate con
guerra si è avuto in Italia un "movimento oscillato-
M. Coppo proprio per contro del Cresme, nell'ambi-
rio" che ha visto prevalere: negli anni Sessanta la te-
to del Progetto finalizzato Cnr "Struttura e evoluzio-
ne dell'Economia italiana", sottoprogetto 4 "La diffusione territoriale dello sviluppo", diretto dal prof. G. Fuà, pubblicate nel volume "Strutture insediative e qualità dell'abitare", Angeli, Milano, 1990, Cfr. di chi scrive: "L'organizzazione territoriale dell'area romana. Dinamiche e rappresentazioni degli anni Ottanta", in Le grandi aree metropolitane, a cura di A. Fubini e F. Corsico, F. Angeli, Milano 1990. 5.
Cfr. su questo argomento la ricostruzione critica di M. Semini, La città disfatta, Angeli, Milano 1988. 6
cfr. M. Coppo, Nota sul rapporto tra abitazioni e territorio, Seminario Cnr-Cresme (cfr. la nota n. 4), Roma, marzo 1987.
7.
Cfr. L. Bellicini, "La scomposizione e i residui. Note sul processo di trasformazione e sulle esigenze di recupero in 16 grandi città italiane", in L. Bellicini, a cura di, L'Italia da recuperare, 2 volI., Credito fondiario - Cresme., Roma, 1988.
vestimenti mobiliari ma anche a causa delle caratteristiche decentrate dell'offerta edilizia; solo nell'88 circa i prezzi hanno recuperato, sempre in termini reali, i livelli dei primi anni Ottanta, per avviare una nuova spirale di crescita che riguarda, però, in modo più che significativo soprattutto gli alloggi di pregio siti nei centri storici. IS Dalla contabilità nazionale risultano infatti 80.000 miliardi di investimento in infrastruture per la mobilità stradale e ferroviaria, su 96.000 miliardi posti in bilancio in totale per le infrastrutture in generale, comprese cioè le opere aereoportuali, marittime e idrauliche: e 43.000 miliardi di investimento nel programma energetico, per il 60% destinato alla realizzazione di nuovi impianti di produzione.
01
cfr. le proposizioni dell'economia "posizionale", per la quale conta l'esclusività del possesso più che il valor d'uso: F. Hirsch, I limiti sociali dello svilupp0, Bompiani, Milano.
9.
Su questo tema, in particolare si mostrano alcune riflessioni recenti. Cfr. per esempio: DATAR, Gip Reclus, L'Europe des villes, Paris, 1990; il convegno internazionale "Effetto città.Sistemi urbani e innovazione: prospettive per l'Europa degli anni'90", Fondazione G. Agnelli, Torino, 1989; l'iniziativa Censis sulla Rete urbana delle rappreentanze ecc. IO.
". P. Fareri, "SE il Passante è la soluzione, qualè il problema?", Urbanistica, n. 90, aprile 1988. Per questo paragrafo faccio riferiemento a M. Cremaschi e M. Coppo, "La distribuzione delle abitazioni e i cambiamenti recneti del sistema insediativo in Italia", in G. Fuà, a cura di, La distribuzione territoriale dello sviluppo, in corso di stampa presso il Mulino, Bologna; e a M. Cremaschi, La distribuzione territoriale delle abitazioni, Rapporto conclusivo, Cresme-Cnr, dicembre 1988. 12
13 Cfr. sull'argomento: M. Reho, P. Santacroce, I consumi di suolo, metodi ed esperienze di analisi, collana del Progetto finalizzato Ispra-Cnr, Angeli, Milano, 1990. 14 Che sono decresciuti in termini reali tra 182 e 186, per la maggior remunerativa dei concorrenti in-
6 cfr., tra i più recenti, F. Indovina, a cura di; La città di fine millennio, Angeli, Milano 1990; L. Bellicini, a cura di, Il mercato delle abitazioni negli anni '80, Indagine in 16 grandi aree urbane, Cresme, Credito fondiario, Roma, 1985 e l'indagine successiva cit. alla nota 8; altre informazioni in R. Innocenti, R. Paloscia, a cura di, La riqualificazione delle aree metropolitane, Angeli, Milano, 1990; S. Bardazzi, a cura di, Pianificazione delle aree metropolitane, Angeli, Milano, 1986. 17 Si veda a questo proposito l'interessante tabella in CresmeNotizie 16, novembre 1989, riportante il quadro riassuntivo degli stanziamenti previsti per la legge a favore delle maggiori aree urbane. 18 Emergenze che riguardano in misura estesa, come si rileva da un elenco sbrigativo, molte delle principali città: il terremoto a Napoli, l'inondazione a Venezia, i mondiali di calcio in numerosi capoluoghi, le Colombiadi a Genova, i programmi per Roma Capitale ecc. 19
cfr. ancora Indovina, cit.
Per la questa tipologia faccio riferimento alle analisi svolte nel corso del 1990 per l'Sps (al quale sono grato della disponibilità dimostrata nell'utilizzo deimateriali di sua proprietà). Cfr. Sps, 70 Rapporto sullo stato dei poteri e dei servizi locali, Roma 1990. 20
ANCE - Cresme, Una città da ricostruire, Bisogni opportunità e nuovi mercati per la città italiana degli anni '90, Roma, Febbraio 1990; M. Talia, "Le grandi trasformazioni edilizie e il volto nuovo della città", in CresmeNotizie 16, nov. 1989 21
22
ANCE - Cresme, Una città da ricostruire, cit. 231
Secondo il Conto Nazionale dei trasporti, nel 1985 in Italia sono stati trasportati 116 miliardi circa di passeggeri per km su vetture private e i taxi, contro i 19,6 mld. pass/km sui mezzi pubblici (Fs, metro e autobus).
23
Allo stato attuale solo poche città hanno in esercizio (Roma e a Milano) o allo studio reti di metropolitane sotterranee (Genova e Napoli hanno avviato i lavori: Torino e Palermo stanno studiando una rete propria). Linee metropolitane "leggere", costituite cioè da tramvie di superficie circolanti su corsie protette, sono state adottate da Bologna, Firenze e in parte anche Torino, con l'intenzione di favorire l'integrazione con gli altri sistemi di trasporto, la qualificazione dei poli di interscambio, la compatibilità con la struttura urbana preesistente. La ristrutturazione delle linee ferroviarie (in concessione o delle FS) per il servizio metropolitano è in stato avanzato di ralizzazione, o sta per essere affidata, a Milano, Torino e Catania.
24
Secondo il Procuratore generale sul bilancio dello Stato, per esémpio, i costi delle opere per i Mondiali di èalcio risultano lievitati fino a quasi il doppio del preventivato; la Pubblica Amministrazione, abusando del ricorso alla concessione, avrebbe abbandonato i sistemi di progettazione autonoma delle opere, mancando perciò alla verifica della fattibilità degli interventi. Questa valutazione non va però indi25,
232
scriminatamente applicata a tutto il meccanismo delle concessioni, quanto piuttosto alle distorsioni che ne minano il funzionamento. Si veda a questo proposito le proposte di L. Benevolo per il riuso delle delle fabbriche bresciane in via di smantellamento: " Il Comune costituisce con le banche una società, della quale avrà la maggioranza. Con questa società acquista le ar'ee come prescrive la legge, e cioè sulla base della loro atttiale destinazione d'uso. Poi redige il suo progetto urbanistico.., e le cede ai costruttori", cit. in "Interessi terreni", di M. Mucchetti, L'Espresso, 9 sett. 1990, n. 36, p. 147. Secondo l'articolista, questa proposta incontrerebbe molte difficoltà, proprio per l'intenzione dei proprietari di ottenre il massimo dalla rivalutazione delle aree, una volta cambiata la destinazione d'uso. 26.
per l'esercizio, o per acquisire finanziamenti supplementivi, i comuni possono decidere di associarsi e, in definitiva, pervenire ad una fusione; oppure possono corsorziarsi o creare un'azienda comune senza prospettare alcuna fusione; inoltre comuni e province possono prestare congiuntamente servizi attraverso enti strumentali comuni o compartecipare a società miste; viceversa, lo stato o la regione possono obbligare gli enti locai a una convenzione al fine di realizzare un'opera o al fine di affrontare una situazione emergenziale transitoria. 27
Le nuove classi 'dimensionali di Francesco Toso
Le tabelle e i grafici raccolti nelle pagine seguenti rispondono ad alcune domande elementari: quanti sono i comuni piccoli, medi, grandi; come si distribuiscono sul territorio nazionale; quanti abitanti vi risiedono; qual'è l'ammontare della spesa nelle diverse classi dei comuni e come si ripartisce. Il nuovo ordinamento delle autonomie locali attribuisce infatti notevole importanza alle dimensioni demografiche dèi comuni individuando uha dettagliata gamma di limiti per l'istituzione di nuovi comuni (art. 11), per le circoscrizioni di decentramento comunale (art. 13), per la costituzione di nuove province. Allo scopo pertanto di facilitare la lettura dei dati sulla base ditale criterio, le elaborazioni effettuate tendono ad articolare i risultati secondo le specificità dimensionali e territoriali degli enti in questione. BREvI SPUNTI l'ER UNA LE1TURA DEI DATI: L'UNIVERSO DEI "coMuNI POLVERE"
Sette comuni su dieci sono di piccole dimensioni demografiche (inferiori a 5000 abitanti), in essi vi risiedono quasi 11 milioni di persone; il 60% si trova nelle regioni settentrionali del Paese, 111% e il 29% sono localizzati rispettivamente nelle regioni centrali e nel Mezzogiorno. L'ampiezza demografica media è di 1.700 abitanti nel nord e di 2.080 abitanti nel centro-sud. La classe dei comuni non eccedenti i 5000
ìbitanti ha fatto registrare un calo di popolazione, fra il 1981, e il 1988, pari a -0,7%, assai inferiore quindi alla diminuzione subita dai comuni con oltre 100.000 abitanti (-2,4%). Sono queste le amministrazioni sollecitate dalla legge a fondersi (o a dar luogo ad unioni) fra loro o con comuni di maggiori dimensioni. Il processo di riduzione dei comuni minori è incentivato dalla erogazione di contributi straordinari e rafforzato dal divieto di istituire nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti. Si nota inoltre che la maggior parte del territorio montano è costituita da comuni di dimensioni ridotte (il 93% dei comuni montani registra meno di 5.000 abitanti) e che la riforma attribuisce alle Comunità Mòntane anche il compito di promuovere la fusione di tutti o parte dei comuni associati, di esercitare in forma associata le funzioni comunali e, infine, di trasformarsi in "unione di comuni" anche in deroga ai limiti di popolazione previsti in via ordinaria. IL BILANCIO
I dati sulle prospettive finanziarie dei comuni per l'anno 1988 Sono il frutto di un'indagine realizzata, mediante questionario, dall'ANCI in seguito all'introduzione dell'obbligatorietà dell'eserciziò provvisorio di bilancio. 233
Le risposte sono pervenute dal 52% dei comuni, tuttavia il campione appare ben distribuito anche se sono assenti cittĂ quali Roma, Venezia, Firenze e Bari. Il principale risultato emerso dall'indagine riguarda l'aumento del numero di bilanci deficitari in relazione all'aumentare delle dimensioni degli enti: si passa infatti, progressivamente, da un'incidenza dei bilanci "in rosso" pari al 47% nella classe inferiore di comuni, fino all'83% segnalato dai comuni che superano i 100.000 abitanti. Sempre rispetto alle classi demografiche cresce proporzionalmente l'importo del deficit per amministrazione: da 123 milioni di lire nei piccoli comuni, fino a 27,5 miliardi nei comuni di grandi dimensioni. La situazione debitoria risulta particolarmente grave nel Mezzogiorno dove, a fronte di un incidenza media nazionale dell'importo del deficit pari al 6,4% sul totale bilancio, si sono segnalate punte pari al 16% in Campania e Calabria e al 12% in Basilicata e Molise. LA SPESA
L'analisi della spesa dei Comuni assume un particolare rilievo qualora si consideri che essa rappresenta circa l'8,3% del Prodotto Interno Lordo e, al contempo, il 29% della spesa per investimenti pubblici del settore pubblico allargato.
234
Nelle tavole concernenti tali dati si può osservare una sensibile diversificazione dei comportamenti di spesa in relazione alle caratteristiche dimensionali e geografiche. Nel 1987 la spesa complessiva media dei Comuni è risultata essere di 1,5 milioni di lire per abitante; gli scostamenti rispetto alla media sono piuttosto ampi: da i milione di lire nei comuni settentrionali di media-piccola dimensione, a oltre 2,2 milioni nei comuni sempre del nord con oltre 60.000 abitanti. Le oscillazioni della spesa totale riflettono particolarmente le uscite di parte corrente, i cui valori presentano una stretta relazione con il crescere delle dimensioni dei comuni: piÚ vistosa nelle amministrazioni settentrionali (da 540 mila lire procapite nei piccoli comuni, a 1,2 milioni nei comuni maggiori) e meno evidente nel Mezzogiorno (da 580 a 942 mila lire). In altre parole si può notare che negli agglomerati maggiori la gestione del personale e l'acquisto di beni e servizi rappresentano l'impegno economico prioritario, peraltro difficilmente comprimibile nella eventuale ipotesi di riduzione del deficit (si pensi alla retribuzione degli addetti). Al contrario nelle amministrazioni di minore dimensione le risorse sono prevalentemente destinate a processi di capitalizzazione in infrastrutture, edilizia, mezzi di trasporto e attrezzature.
Tab. 1 NUMERO DEI COMUNI (31-12-1988) - secondo la classe d'ampiezza demografica
fino a 5.000 Nord-ovest Nord-est Centro
da
5.000 da 10.001 a 10.000 a 100.000
oltrĂŠ 100.000
TOTALE
Isole
2.530 1.009 660 1.225 499
295 288 157 271 132
230 168 174 281 127
8 16 9 11 6
3.064 1.481 1.000 1.788 764
ITALIA
5.923
1.144
980
50
8.097
Sud
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Tab. la DISTRIBUZIONE% DEI COMUNI (31-12-1988) - secondo la classe d'ampiezza demografica -
fino a : 5.000 Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole
82,6% 68,1% 66,0% 68,5% 65,3%
ITALIA
73,2%
da 5.000 da 10.001 a 10.000 a 100.000
.
oltre 100.000
TOTALE
9,7% 19,4% 15,7% 15,2% 17,3%
7,5% 11,3% 17,4% 15,7% 16,6%
0,3% 1,1% 0,9% 0,6% 0,8%
100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0%
14,1%
12,1%
0,6%
100,0%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
235
Tab. 2 NUMERO DEI COMUNI SITUATI OLTRE 1600 METRI S.L.M. - secondo la classe d'ampiezza demografica -
fino a da 5.001 da 10.001 oltre 5.000 a 10.000 a 100.000 100.000
Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole ITALIA
501 335 131 428 88 1.483
.
TOTALE
5 11 7 30 24
1 2 2 12 12
0 0 0 0 0
507 348 140 470 124
.77
29
0
1.589
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Tab. 2a INCIDENZA DEI COMUNI SITUATI OLTRE 1600 METRI S.L.M. SUL COMPLESSO DEI COMUNI - secondo la classe d'ampiezza demografca -.
fino a da 5.001 da 10.001 oltre 5.000 a 10.000 a 100.000 100.000 .
Nord-ovest Nord-ĂŠst Centro Sud Isole
19,7% 33,1% 19,6% 34,5% 17,7%
1,7% 3,8% 4,7% 11,0% 18,8%
0,5% 1,2% 1,1% 4,6% 9,8%
0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0%
16,5% 23,5% 14,0% 26,3% 16,4%
ITALIA
24,9%
6,8%
3,1%
0,0%
19,7%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
236
TOTALE
Tab. 3 NUMERO DEI COMUNI CON SALDO NATURALE NEGATIVO secondo la classe d'ampiezza demografica - 1988
fino a 6.000
da 5.001 da 10.001 a 10.000
a 30.000
oltre 30.000
TOTALE
Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole
1.230 616 338 612 300
98 89 47 82 40
68 47 41 21 21
41 24 21 14 6
1.437 676 447 729 367
ITALIA
2.996
356
198
106
3.656
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Tab. 3a INCIDENZA DEI COMUNI CON SALDO NATURALE NEGATIVO. SUL COMPLESSO DEI COMUNI - secondo la classe d'ampiezza demografca - 1988
fIno a 5.000
da 5.001 da 10.001 a 10.000
a 30.000
oltre 30.000
TOTALE
Nord-oVest
48,6%
Nord-est Centro Sud Isole
51,1% 51,2% 50,0% 60,1%
33,1% 30,9% 299% 30,3% 30,3%
38,9% 32,4% 32,8% 10,0% 22,3%
66,1% 61,5% 36,2% 16,9%
46.9% 46,6% 44,7% 40,8%
15,4%
48,0%
ITALIA
50,6%
311%
26,5%
37,8%
45,2%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
237
Tab. 4 POPOLAZIONE RESIDENTE - migliaia di abitanti secondo la classe d'ampiezza demografica - 1988
Nord-oeest Nord-est Centro Sud Isole ITALIA
fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
3.790 2.168 1.340 2.573 1.040
2.054 2.011 1.109 1.882 915
10.920
7.972
da 10.001 a 100.000
oltre 100.000
TOTALE
5,435 3.334 4.383 6.910 3.018
3.830 2.879 4.138 2.840 1.839
15.118 10.392 10.970 14.204 6.820
23.079
15.534
57.505
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Tab.4a DISTRIBUZIONE % DELLA POPOLAZIONE - secondo la classe d'ampiezza demografca - 1988
fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 100.000
oltre 100.000
TOTALE
Nosd-ovegt Nord-est Centro Sud Isole
25,1% 20,9% 12,2% 18,1% 15,4%
13,6% 19,3% 10,1% 13.3% 13,4%
36,0% 32,1% 40,0% 48,6% 44.2%
25,4% 27,7% 37,7% 20,0% 27,0%
100.0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0%
ITALIA
19,0%
13,9%
40,1%
27,0%
100,0%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Tab. 41)VARIAZIONE % DELLA POPOLAZIONE RISPETTO AL 1981 secondo la classe d'ampiezza demografica dei comuni
fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 100.000
oltre 100.000
Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole
0,4% -0,8% -1,7% -1,3% -2,1%
1,6% 2,5% 8,1% 1.4% 6,1%
3,8% 2,3% 1,4% 9,1% 9,6%
-9,6% -4,2% 1,2% 3,0% 1,4%
-1,1% -0,2% 1,5%
ITALIA
-0,7%
3,1%
5,4%
-2,4%
1,7%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
238
TOTALE
4,9%
Tab. 5 NUMERO DI ABITAZIONI IN COMPLESSO - migliaia - secondo la classe d'ampiezza demografica dei comuni -
fino a
da 6.001
5.000
a 10.000
da 10.001 a 100.000
Isole
1.950 947 652 1.092 451
789 720 431 718 367
2.001 1.209 1.626 2.114 1.146
ITALIA
5.092
3.025
8.097
Nord-ovest Nord-est Centro
Sud
oltre
.
100.000
TOTALE
1.690 1.167 1.458 806 603
6.429 4.043 4.167 4.730 2.667
5.724
21.937
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Tab.5a NUMERO DI ABITANTI OGNI 100 ALLOGGI - secondo la classe d'ampiezza demografica dei comuni -
fino a 5.000
da 5.00 a 10.00
da 10.001 a 100.000.
oltre
100.000
TOTALE
Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole
194 231 209 239 238
256 272 238 259 235
262 270 266 299 240
252 257 281 342 301
238 257 259 287 253
ITALIA
216
256
271
278
268
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Graf. i POPOLAZIONE RESIDENTE NEL 1988 distribuzione percentuale
100%
75%
50% ii >100.000 30.001-100.000
11
10.001-30.000
25%
5.001-10.000 - <5.000
0% Nord
Centro
Mezzogiorno
Graf. 2 POPOLAZIONE NEI COMUNI OLTRE 600 m. s.l.m. incidenza % sul totale popolazione 25%i
20%
15%
10% 6,4% 5%
3,3%
2,3% 0%
<5.000
5.001-10.000 10.001-30.00030.001-100.000 >100.000
classi d'ampiezza demografica 240
Graf. 3 1981 - 88 VARIAZ. % ABITANTI secondo la,classe d'ampiezza demografica 10% 8,1%
4,8% 5% 2jj 2%
3%
1,5%12%
0%
-5%
-7,5% 10% Mezzogiorno
Centro
Nord
5.001-10.000 M 10.001-100.000
<5.000
M
> 100.000
Tab. 6 PROSPETFIVE FINANZIARIE DEI COMUNI PER L'ANNO 1988 - secondo la classe d'ampiezza demografica
fino da 5.001 da 10.001 a 5.000 a 10.000 a 100.000
oltre 100.000TOTALE
PREVISIONI CIRCA IL RAGGIUNGIMENTO DEL PAREGGIO REALE DI BILANCIO 36
4.175
608
502
1.597 52,7%
197 32,4%
141 28,19
6 16,7%
1.641 46,5%
1.432 47,3%
411 67,6%
361 71,9%
30 83,3%
2.234 53,5%
3.029
comuni elaborati di cui: in pareggio % con deficit
BILANCI IN DEFICIT Importo bilanci per comune (mli.6.) per abitante (b.)
7.197 2.533 1.599.439 1.037.528
10.897 372.724 18,221 732.671 2.423.866 1.009.498
Importo deficit E oul biianclo per comune (Il.t.) per abitante ib.)
4,8% 123 62.335
4,7% 338 48.768
6,5% 1.160 47.472
7,8% 27.510 178:902
6,4% 701 64.930
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT 241
Graf. 4 PREWSIONI DI BILANCIO DEI COMUNI NEL 1988 incidenze percentuali secondo la classe d'ampiezza demografica
100%
75% Con deficit - In pareggio 50%
25%
0% <5.000
5.001-10.000 10.001-100.000> 100.000
Tab.7 IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNMI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica dei comuni -
Nord Centro MezzogIorno 1TALJA
fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60.000
TOTALE
6.528 1.656 5.058
4.044 1.146 3.195
8.412 4.416 9.534
16.961 8.206 10.516
35.935 15.423 28.302
13.241
8.385
22.362
35.672
79.661
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT NOTE: incluse: Spese correnti, in c/capitale, rimborso prestiti e partite di giro
242
Tab.7a IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica SPESA TOTALE - composizione percentuale -
fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
TOTALE
oltre 80.000
Nord Centro Mezzogiorno
18,2% 10,7% 17,9%
11,3% 7,4% 11,3%
23,4% 28,6% 33,7%
47,2% 53,2% 37,2%
100,0% 100,0% 100,0%
ITALIA
16,6%
10,5%
28,1%
44,6%
100,0%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati: 7.426)
Tab.7h IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica SPESA TOTALE - Spesa per abitante in migliaia di lire fino
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60.000
TOTALE
a 5.000
Nord Centro Mezzogiorno
1.194 1.346 1.521
1.084 1.125 1.244
1.254 1.261 1.216
2.258 1.900 1.890
1.535 1.532 1.467
ITALIA
1.321
1.146
1.239
2.051
,
1.509
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esanfinati: 7.427)
243
Tab.8 IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica SPESE CORRENTI Valori assoluti in miliardi di lire fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60.000
TOTALE
Nord Centro Mezzogiorno
2.961 806 1.928
2.078 599 1.267
4.712 2.416 4,136
9.057 5.350 5.239
18.807 9.170 12.570
ITALIA
5.695
3.943
11.264
19.646
40.548
UiN 1t: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati: 7.427) NOTE: le spese correnti comprendono: Personale, Beni e servizi, trasferimenti, Interessi pass., Ammortamenti, ecc.
Tab. 8a IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica SPESE CORRENTI - composizione percentuale fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60.000
TOTALE
Nord Centro Mezzogiorno
15,7% 8,8% 15,3%
11.0% 6,5% 10,1%,
25,1% 26,3% 32,9%
48,2% 58,3% 41,7%
100,0% 100,0% 100,0%
ITALIA
14.0%
9,7%
27,8%
48.5%
100,0%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati; 7.427)
'rab.8h IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 secondo la classe d'ampiezza demografica SPESE CORRENTI - Spesa per abitante in migliaia di lire tino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60.000
TOTALE
Nord Centro Mezzogiorno
541 656 580
557 588 493
702 690 527
1.206 1.239 942
803 911 651
ITALIA
568
539
624
1.130
768
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati: 7.427) NOTE: le spese in c/cap. comprendono/ Beni mobili ed immobili, Trasferimenti, Partecipazioni e conferimenti, ecc. 244
Tab. 9 IMPEGNI DI SPESA DELLE AMIVIINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 -secondo la classe d'ampiezza demografica CONTO CAPITALE - Valori assoluti in miliardi di lire fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60,000
TOTALE
Nord Centro Mezzogiorno
2.852 620 2.230
1.880 369 1.350
2.217 1.300 3.884
4.541 1.880 3.877
11.050 4.168 11.341
ITALIA
5.701
3.158
7.401
10.297
26.559
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati: 7.427) NOTE: le spese correnti comprendono: Beni mobili ed immobili, Trasferimenti, Partecipazioni e conferimenti, ecc.
Tab. 9a IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica SPESE CORRENTI - composizione percentuale fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60.000
TOTALE
Nord Centro Mezzogiorno
25,8% 14.9% 19,7%
13,0% 8,8% 11,9%
20,1% 31,2% 34,2%
41,1% 45,1% 34,2%
100,0% 100,0% 100,0%
ITALIA
21,5%
11,9%
27,9%
38,8%
100,0%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati: 7.427)
Tab.9b IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica SPESE CORRENTI - Spesa per abitante in migliaia di lire fino a 5.000
da 5.001 a 10.000
da 10.001 a 60.000
oltre 60.000
TOTALE
Nord Centro Mezzogiorno
521 504 671
386 362 526
331 371 495
605 435 697
872 414 568
ITALIA
569
432
410
592
503
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati: 7.427)
245
Tab.1O IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica -
Spese correnti
Personela
altro (1)
Totale
Conta capitale Beni mobili e iemob,
altro (2)
TOTALE GENERALE Totale (3)
miliardi di lire fino a 5.000 5.001-10.000 10.001 - e0.000 oltre 60.000 TOTALE
3.342
2.353 1.598 4.715 7.234
2.345 6.549 12.412
5.895 3.943 11.264 19.646
4.875 2.662 5.877 7.082
827 498 1.524 3.215
5.701 3.158 7.401 10.297
13.241 8.385 22.382 35,672
15.899
24.648
40.548
20.497
6.062
26.559
79.661
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (comuni esaminati: 7426) Beni e servizi, Trasferim., Interessi pass., Ammortamenti, etc. Trasferim. Partecipazioni e conferimenti, ecc. Inclusi rimborso prestiti e partite di giro
Tab.lOa IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica -
Spese correnti
Personate
altro (i)
Conto capitale Beni mobili
Totale
e immob.
TOTALE GENERALE
altro
(2)
Totale
(3)
composizione percentuale
fino a 5.000 5.001-10.000 10.001-63.000 oltre 60.000
17,8% 19,1% 21,1% 20,3%
25,2% 28,0% 29,3% 34,8%
43,0% 47,0% 50,4% 55,1%
36,8% 31,8% 26,3% 19.9%
6,2% 5,9% 6,8% 9,0%
43,1% 37,7% 33,1% 28,9%
100,0% 100,0% 100,0% 100,09
TOTALE
20,0%
30,9%
50,9%
25,7%
7,6%
33,39
100,0%
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (comuni esaminati: 7427)
246
Tab.lOb IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica -
Conto capitale
Spese correnti
Personale
altro (1)
Totale
Beni mobili e immob.
altro (2)
TOTALE GENERALE (3) Totale
milioni di 1ireer comune 1.048 615 433 fino a 5.000 3.755 2.233 1.522' 5.001-10.000 13.013 7.566 10.001-60.000 5.447 oltre 60.000 90.583 155.435 246.018
897 2.535 6.790 88.686
5.456
2.758
TOTALE
2.139
3.316
2.436 1.049 152 7.986 3.008 472 8.551 25.836 1.761 40.264 128.950 446.714 816
3.574
10.719
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (comuni esaminati: 7427)
Tab.lOc IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 - secondo la classe d'ampiezza demografica -
Conto capitale
Spese correnti
Personale
altro (1)
Totale
Beni mobili e immob.
TOTALE GENERALE (3) Totale '
altro (2)
jgjiaia di lire per abitante fino a 5.000 5.001-10.000' 10.001-60.000 oltre 60.000
235 215 261 416
333 320 363 714
568 539 624 1.130
486 364 326 407
82 68 84 185
569 432 410 592
1.321 1.146 1.239 2.051
TOTALE
301
467
768
388
115
503
1.509
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (comuni esaminati: 7427)
247
Tab.11 IMPEGNI DI SPESA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI NEL 1987 Andamento Storico
fino
da 5.001
da 10.001
a 5.000
a 10.000
a 60.000
migliaia di 1983 1984 1985 1986 1967 1982
330,256 368.565 423.786 515.840 659.334
599.852
oltre 60.000
TOTALE
lire per abitante
322.589 373.339 427.649 525.422 543.593 582,448
388.361 432.879 504.936 587.788 622.336 666.870
662.325 837.229 937.165 1.016.350 1.129.085 1.163.619
458.468 545.627 621.207 706671 768.406 806.098
FONTE: elaborazione CRESME su dati ISTAT (Comuni esaminati: 7.426) situazione economica del Paese
Tab.i la SPESE CORRENTI DEI COMUNI - per classi demografiche Andamento storico
tino
da 6.001
da 10.001
a 5.000
a 10,000
a 60.000
numeri
indice
1983
72,0
70,4
1984 1985 1986 1987 1988
67,5 68.2 7310. 73,0 74,4
68,4 68,8 74,4 70,9 72,3
altre 60.000
media nazionaierloO 84,7 79,3 81,3 83,2 81,2 82,7
FONTE: elaborazione CRRSME su dati Relazione generale sulla situazione economica del Paese
248
TOTALE
1445 163,4 150,9 143,8 147,3 144,4
100,0 100,0 100,0 1000 100,0 100,0
Graf. 5 DISTRIBUZIONE % DELLE SPESE E DELLA POPOLAZIONE SUL TOTALE NAZIONALE 50%
40%
30%
20%
10%
0% <5.000 Popolazione
5.001 -1 0.000
LI
10.001-60.000
Spese correnti
>60.000
= Spese C/capitaie
Graf. 6 SPESE CORRENTI DEI COMUNI - andamento storico scostamento rispetto alla media nazionale
140
120
100 xâ&#x20AC;&#x201D; media
*
(3- >60.000 *- 10.001-60.000 +
130
*
5.001-10.000 <5.000 .
60 1983- . 1984
1985
1986
1987
1988
249
nfl\ !aTA 'fHL. \ aOF1LI'A ll'\lTANA PF
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RITTO C l ana diretta da Ettore Giannantonio e Pietro Rescigno
hLL.E
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Lt RENZO RISTUCCIA
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
1t
IL SOFTWARE NELLA DOTTRINA E NELLA GIURISPRUDENZA
7B-A-ILAMME" rivista di spiritualità e politica
NUMERO SETTE GIUGNO 1990
Bruno Dente
Politiche pubbliche e pubblica amministrazione
democra#a e bimestrale del Centro di studi e di iniziative per la riforma dello stato
3-4 La societĂ multimediale =1
1= 1= =
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1=1
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XR
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i