Queste istituzioni 83 84

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Anno XVIII - n. 83-84 - Semestrale (luglio-dicembre) - spedizione in abb. postale gr. IV/70%

queste ìstìtuziooì Varietà dei capitalismi e privatizzazioni: ripensare lo Stato Quali regole per privatizzare? Renzo Ristuccia, Giovanni G. Moglia, Pietro Spirito, Gianluca Tre quattrini, Alberto Pera, Pier Giuseppe Merlo, Maria Teresa Salvemini, Filippo Cavazzuti, Giulio Lamanda, Vincenzo Spaziante, Guglielmo Ragozzino Metropoli e città difficili Giulio Lamanda, Valeria Giannella, John H. Mollenkopf Ragionare di democrazia Francesco Sidoti

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Taccuino del Gruppo di Studio

n. 83-84 1990


queste islltuziooi rivista del Gruppo di Studio SocietĂ e Istituzioni Anno XVIII, n. 83-84 (luglio-dicembre 1990) Direttore: SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore: VINENZO SPAZIANTE Comitato di Redazione: ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, DANIELA FELISINI, ELISA LAMANDA, GIULIA MARIANI, GIORGIO PAGANO; MARCELLO ROMEI, CRISTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE, FRANCESCO Ssoon. Responsabile redazione: GIULIA MARIANI Responsabile organizzazione: GIORGIO PAGANO Direzione: Corso Trieste, 62 - 00198 Roma - Tel. 39/6/8419608 - Fax 8417102 Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8 - Scala Belli mt. 7 - 00193 Roma Tel. 39/6/3220880 - Fax 3220881 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: Q.I.R. SRL QUESTE ISTITUZION5 RICERCHE Stampa: Soc. Interstampa arI - Via Barbana, .33 - 00144 Roma - Tel. 0615403349-5405972 Firkito di stampare nel mese di luglio 1991

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


Gruppo di Studio Società e Istituzioni Comitato Italiano della Fondazione Europea della Cultura Nel 1990 il Gruppo di Studio hà promosso ed ospitato il nuovo Comitato Italiano della Fondazione Europea della Cultura. Creata negli anni Cinquanta nel clima del primo europeismo, la Fondazione è divenuta un organismo di diritto olandese con sede in Amsterdam. La sua attività è volta a promuovere la cooperazione culturale in Europa, e da sempre il suo campo d'azione ha interessato tanto l'Europa occidentale quanto quella centrale ed orientale. L'espressione "cultura" non si riferisce soltanto al patrimonio artistico europeo, ma si estende all'ambito dell'educazione, dell'ambiente, degli affari sociali e della comunicazione. La Fondazione coordina una rete europea di istituti e di centri di ricerca, contribuisce attivamente a stabilire relazioni e ad avviare progetti comuni tra organismi privati e pubblici.


N. 83-84 1990

Indice

3

VarietĂ dei capitalismi e privatizzazioni: ripensare lo Stato

ii

Quali regole per privatizzare?

13

Le procedure di privatizzazione Giovanni G. Moglia e Renzo Ristuccia

34

Aziende pubbliche: un patrimonio da valutare Criteri contabili per privatizzazioni trasparenti Pietro Spirito

45

Privatizzare: esperienze negli enti locali Sull'adozione del modulo societario per pubblici servizi locali Gianni Orsini e Giulio Vesperini

51

Privatizzare: i significati, le tecniche, le proposte Un dibattito in redazione. Interventi di: Renzo Ristuccia, Giovanni G. Moglia, Pietro Spirito, Filippo Cavazzuti, Pier Giuseppe Merlo, Maria Teresa Salvemini, Alberto Pera, Gianiuca Tre quattrini, Giulio Lamanda, Giancarlo Salvemini, Vincenzo Spaziante, Guglielmo Ragozzino

Senato: i disegni di legge 103 105

Metropoli e cittĂ difficili Una capitale per la Repubblica Benefici e mezzi di un programma di sviluppo urbano a Roma dopo la legge n. 396/1990 Giulio Lamanda


125

Venezia: di eccezionalità si muore Riconquistare una qualificata gestione ordinaria Valeria Giannella

136

New York città laboratorio John H. Mollenkopf

143

Ragionare di democrazia

145

Democratizzazione e democratibilità Francesco Sia!oti

165

Taccuino del Gruppo di Studio Notizie sulle attività 1990-1991

Questo numero è stato chiuso in tipografia il 28 giugno 1991


Varietà dèi capitalismi e privatizzazioni: ripensare lo Stato

Lo stato come soggetto dell'economia, lo stato imprenditore, lo stato guardiano delle regole: sono questioni e dilemmi che tornano in discussione. Naturalmente le semplijìcazioni sono all'ordine del giorno, come sempre quando le ragioni di ripensamento si affollano. Ci si chiede, di questi tempi, se basti rifondare le regole del proprio «mercato» nazionale allineando quelle interne a quelle dell'economia internazionale. Ovvero se occorra tornare a teorizzare ex novo tutte le funzioni pubbliche in economia (per esempio: è, può essere ancora, lo Stato il propulsore attivo e diretto dello sviluppo operando come «imprenditore»?) o, infine, se occorra essere sì avvertiti che gli eventi ripropongono importanti questioni e suggeriscono nuove teorizzazioni ma se convenga rimanere, per ora, a guardare perché intanto c'è da continuare a valorizzare le componenti positive del patrimonio acquisito (laddove esistono). Gli eventi intanto incalzano. Bruno Visentini, di ritorno da un via ggio nella Germania dell'Est dove è in corso un gigantesco e doloroso processo di trasformazione dell'organizzazione produttiva, ha scritto: «La provvidenza ci ha fatto vivere in un 'epoca affascinante, di grandi rivolgimenti e di grandi rinnovamenti. Anche l'attuale esperienza della Germania è affascinante» (v. «La Repubblica» del 27-28 gennaio 1991). Dove il termine affascinante riguarda l'imponenza dei problemi e il grado di capacità creativa e gestionale che essi comportano, ma certo non ancora l'efficacia e l'equità delle soluzioni. Gli eventi che incalzano si chiamano soprattutto: passaggio delle economie dei paesi dell'Europa Orientale al mercato o meglio passaggio di questi sistemi economici da una command economy centralizzata a qualcosa di ancor difficile definizione. L'evento, riguardando non solo l'ex-impero esterno dell'URSS ma lo stesso impero URSS (ed è ormai molto incerto che si possa chiamare ancora così), ha dimensioni tali da toccare l'economia internazionale in profondità e da condizionare fortemente l'evoluzione della Comunità economica europea.


Un condizionamento forte non solo in termini di gestione giorno per giorno e di governo, quindi, dell'andamento macroeconomico ma anche in termini di modelli istituzionali e operativi dei soggetti economici. Temi di fondo, come quelli appena segnalati, sono emersi in due occasioni di dibattito organizzato da «Queste Istituzioni»: il seminario sulle privatizzazioni di Cortona 1990 e il primo colloquio internazionale di Firenze sulla democrazia occidentale di fronte alla caduta delle barriere con l'Est. I dossiers di questo numero danno ampia documentazione di queste iniziative. «Oggi siamo arrivati a un punto - osserva Filippo Cavazzuti nel dibattito in redazione pubblicato in questo numero - dove non ci sono più spiegazioni del perché lo Stato gestisca tutta una serie di attività». Ed aggiunge di non credere piz alla funzione di uno Stato gestore. Nel saggio di Giovanni Sartori Rethinking Democracy che ha fatto da introduzione e da sfondo al colloquio di Firenze, il tema del ruolo dello stato nell'economia è stato posto ugualmente in termini drastici. Alain Touraine ha ricordato che nel concetto di democrazia è oggi recuperata in pieno l'idea liberale. Oggi, di conseguenza, democrazia significa anche ridimensionare il ruolo del pubblico nella società. D'altra parte, poiché la democrazia non può essere considerata l'aspetto politico della modernizzazione (questa, anzi, la si può ottenere anche per via autoritaria), un ruolo attivo dello stato nell'economia come soggetto di politica industriak e come imprenditore non è d'ostacolo alla democrazia ma ad una condizione: che esso si realizzi in un quadro istituzionale di forti differenziazioni funzionali. In altre parole: non ha senso una politica industriale ispirata da un contesto ideologico. Ed ancora: è d'ostacolo alla democrazia una sudditanza dello stato imprenditore ad un sempre pii indeterminato «primato della politica», interpretato e gestito - come in Italia - dai partiti. Nell'attuak situazione una considerazione comparativa delle esperienze storiche contemporanee in materia di ruolo dello Statò nell'economia non è una curiosità da studiosi, è una necessità politica soprattutto in ambiente europeo.


È utile, in questa linea di ragionamento, prendere atto che nella transizione ormai sempre pii accidentata dei paesi europei orientali verso una economia decentralizzata si ripropongono i due ruoli cardine dello stato: come soggetto che dà le regole, come gestore diretto dell'economia o di parte dell'economia. In ragione dell'importanza di questo problema nei suoi aspetti concreti - importanza segnalata dalla convinzione diffusa ma discutibile, come ha sottolineato Touraine, che la trasformazione possa avvenire solo per via esogena (il mercato come attore di trasformazione sociale) - la riflessione che si sta facendo, e che si deve fare, sulle realtà occidentali ha una portata generale. Merita di essere al centro di serie analisi di tipo comparativo. A questo riguardo occorre ricordare alcune considerazioni di Sartori nel saggio «Rethinking democracy». Sono quattro le affermazioni cardine. La prima: così come è strutturato attualmente, lo stato democratico è in generale male organizzato per governare in maniera economica una economia pubblica. E difficile non essere d'accordo. La seconda: si devono trovare i modi per disciplinare e contenere lo stato burocratico e lo stato industriale e addirittura la funzione di «battere moneta» (the money printing state), tradizionalmente effetto e segno della sovranità. Tema suggestivo che richiama i dibattiti monetari degli ultimi decenni e certo di grande attualità nell'ambito del dibattito che c'è attualmente in sede europea sull'unione monetaria (laddove si confrontano proprio la linea classica della sovranità monetaria da spostare da livelli nazionali al livello dell'unione europea e la linea, come quella del Tesoro inglese, del ruolo degli agenti privati anche in campo monetario ai fini di una competizione effettiva fra le monete). La terza: tutto ciò premesso, non è però sempre vero che il privato funzioni meglio del pubblico. La quarta: non sempre e non necessariamente privatizzare signijìca derego lamentare. Anzi, in molti casi, si tratta di sostituire alle vecchie regole delle nuove e migliori regole. Forse ha minor senso andare oltre e cercare, per esempio, un discorso su elementi fondamentali, originari e in qualche modo antropologici, così come sembra suggerire il richiamo di Sartori all'homo oeconomicus. Non solo perché ad esso si può anche contrapporre nella realtà sociale dell'ex socialismo reale un tipo di comportamento e di


mentalità, fondato su un egualitarismo populistico forte quanto naif (l'homo sovieticus), ma anche perché nella realtà sociale occidentale di massa l'idealtipo non è pii l'homo oeconomicus ma l'homo del welfare. Senza dire che se l'essenza dell'atteggiamento dell'homo oeconomicus si deve riassumere nell'idea che «quello che è mio è mio, quello che è degli altri è res nullis» l'argomento da trarne contro l'economia pubblica è di quelli che provano troppo e vanno comunque oltre l'orizzonte storico dei problemi oggi in agenda. Il tema dello Stato nell'economia è da mantenere proprio entro quella prospettiva della «differenziazione funzionale» che Touraine ha richiamato. Per questo si tratta di un grande problema di riorganizzazione, di nuove regole o pii semplicemente di creazione delle regole che mancano. Dovrebbe ormai essere chiaro che il senso vero della privatizzazione del settore pubblico è nella necessità di far acquisire al sistema dei servizi pubblici e della produzione pubblica un 'efficienza che oggi non ha, anche a causa di una crescita del settore ormai da ritenere giunta a dismisura e senza piz ragioni. Il settore pubblico deve essere ridimensionato e da ciò si attende l'efficienza o, secondo i casi, la maggiore efficienza, del sistema economico complessivo. Se il cuore del tema privatizzazione è qui, altri obiettivi sono invece degli obiettivi minori e poco convincenti. Prendiamo il problema italiano della riduzione del disavanzo. Che una privatizzazione, necessariamente una tantum (anche se prolungata per tre-quattro anni), possa produrre effetti significativi è da vedere. Che possa arginare la spesa pubblica è da escludere se, nel frattempo, non vengono corretti i grandi meccanismi di spesa (pubblico impiego, previdenza, sanità). Su questo fronte le privatizzazioni sembrano piuttosto un atto simbolico e rischiano facilmente di ridursi ad atto disperato. Per quanto riguarda il rapporto fra privatizzazioni e gestione del debito pubblico le possibilità sembrano invece pit consistenti. Una trasformazione di parte del debito pubblico realizzata attraverso un legame con smobilizzi immobiliari e mobiliari è un 'idea che è stata affacciata tempo addientro e poi troppo rapidamente è stata abbandonata. Ma su questi due punti si dovrà ritornare.


È nella prospettiva delineata che vale mettere a confronto temi, problemi e realtà della privatizzazione sia all'Est come all'Ovest malgrado le profonde - quanto ovvie - diversità in termini di sistemi istituzionali e legali, di sviluppo economico e, forse, di antropologia culturale. Sapendo, in ogni caso, che il problema è la ridefinizione delle modalità operative dell'economia mista, prodotto caratteristico del mondo industrializzato. Dire economia mista significa innanzitutto dire ruolo forte, e decisivo (nel bene come nel male), anche se non esteso, dello Stato nell'economia contemporanea. Il fallimento della command economy nei paesi del socialismo reale e del suo delirio panburocratico fa liimento che significa anche, come innanzi ricordato, vittoria implicita del modello istituzionale liberai-democratico - non consente alcuna generalizzazione circa il fallimento dello Stato o, come dire, il non ruolo dello stesso nell'economia. Sarebbe come negare l'evidenza. Di recente «National Journal» - il singolare settimanale che consente una visione aggiornata della vita parlamentare e governativa degli Stati Uniti (non solo a livello federale) e degli issues intorno ai quali essa si svolge - ha dedicato l'inchiesta d'apertura di uno degli ultimi numeri (6 aprile 1991) all'esplosione negli ultimi due decenni delle garanzie finanziarie governative che ha creato una vera e propria «indemnified society». Secondo Jonathan Rauch, «le indennità federali, implicite o esplicite, permeano ogni settore dell'economia americana», «il federal government assicura oggi l'economia ben più di quanto usasse un tempo e molte più cose fra quelle assicurate dal governo sono andate male». Se il trend degli ultimi vent'anni continua, il valore delle indennità federali si raddoppierà entro il 1999. Il problema è, per molti osservatori, più serio dei disavanzi ed anzi è tradizionale preoccupazione di quanti fanno politica di bilancio negli Stati Uniti valutare l'andamento delle guaranties e delle loan guaranties cercando confronti con gli altri paesi che magari invece non conoscono forme così ampie di prestabilite garanzie e indennità, preferendo le sovvenzioni o l'intervento diretto dello Stato quando il caso si presenti (l'Italia è uno degli esempi maggiori). Naturalmente non è escluso che, all'insegna del criterio «too-big-to-fail», si vengano a combinare indennità e interventi diretti (il caso Chrysler Corp. insegna). You lose, we all pay, conclude Rauch. -


Nel momento in cui l'attenzione di commentatori e studiosi (non ancora quella dei politici) va oggi alla varietà dei capitalismi, non pit mentalmente unificati dal fattore «socialismo reale» che in qualche modo gli si contrapponeva, l'articolo di «National Journal» riporta sostanzialmente ad un aspetto tipico del capitalismo americano: quello delle sue accentuate caratteristiche finanziarie, che certamente servono ad aumentare le risorse ma ancor pii i rischi. A queste caratteristiche ben si atta glia la logica dell'assicurazione di ultima istanza ottenuta per via dei meccanismi predisposti dal governo federale. Il modello «anglosassone» di capitalismo viene ormai nettamente contrapposto a quello «germanico». Le loro diversità sono emerse «in modo quasi esplosivo», come ha notato recentemente Romano Prodi, nella progressiva compenetrazione dei sistemi economici' avvenuta negli ultimi due decenni. I tratti dell'uno sono nel primato degli azianisti come possessori di titoli liberamente commerciabili sul mercato - titoli il cui valore va ottimizzato e remunerato - rimanendo tuttavia gli azionisti ampiamente indifferenti alla gestione e alla politica produttiva delle aziende lasciate ai managers. Ed è a questi che in definitiva viene affidata la stessa identità aziendale. I tratti dell'altro sono nel primato della proprietà come governo delle imprese, essendo tale proprietà un complesso intreccio di ruoli e interessi (banche, azionisti istituzionali e non, rappresentanza dei lavoratori, managers). Punters or proprietors?, speculatori o proprietari, si chiedeval'«Economist» in un Survey del maggio 1990. Il modello vincente è stato negli anni Ottanta quello anglosassone. Ma come lo stesso «Economist» ha osservato già da qualche tempo c'è nello stesso mondo anglosassone un backlash, una presa di distanze verso questo modello (spunto che abbiamo già ripreso in un precedente editoriale). Nella situazione difine secolo, di fronte ad incertezze che aumentano fortemente, l'.xefficienza ed equità» di risultati finora conseguiti rilanciano il modello «germanico». E l'opinione di Prodi nella scia di una linea di pensiero che ha avuto un 'importante espressione nel libro di Ronald Dore Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi, recentemente proposto al pubblico italiano dal Mulino.


In ogni caso, quali che siano gli, sviluppi di questo confronto fra i vari capitalismi, non si può prescindere dal fatto che nell'uno e nell'altro modello sono presenti i tratti dell'economia mista in quanto lo Stato gioca sempre, in quakhe modo, un suo ruolo forte. Notava Andrew Shonjìeld nel suo ultimo libro In defense of the Mixed Economy che malgrado le apparenze, gli stessi governi Thatcher e Reagan mai sono riusciti a ritirarsi dal business of intervention.

Il confronto fra capitalismi comporta in ogni caso un processo di ridefinizione e un aggiustamento anche radicàle delle varie.formule storiche di economia mista. Questo sostanzialmente signzjìcano ilfenomeno delle privatizzazioni e la necessità di un ridimensionamento del settore pubblico di produzione o di servizi. Per questo sono profondamente.sbagliati il tendenziale rzjìuto del problema e la speranza della mera sopravvivenza del sistema così com 'è che costituiscono l'atteggiamento prevalente nel nostro paese.



queste istRuzi noi

Quali regole per privatizzare? E torniamo a parlare ancora una volta di privatizzazioni. Viene da dire che Queste Istituzioni rin grazia sentitamente il "sistema Italia" che le permette di occuparsi di questo tema senza aver mai la paura di arrivare in libreria in ritardo, a cose già fatte. (Il che non è poco per una rivista come la nostra, lo sanno i lettori, con lunghi tempi di gestazione). Dopo i tre dossier appàrsi su queste pagine negli ultimi cinque anni (Fra deregolazioni e privatizzazioni «Queste Istituzioni» n. 71, 1986-1987; I meccanismi del grande mercato «Queste Istituzioni» n. 72-73, 1987; Economia, istituzioni: un terreno per nuove esplorazioni «Queste Istituzioni» n. 77-78, 1989) e l'articolo di Maria Teresa Salvemini su Debito pubblico, patrimonio, privatizzazioni stampato nel numero 79-80 del 1989 che hanno affrontato il problema da vari punti di vista, ci occupiamo nuovamente dell'argomentò in questo numero. Qui lo spunto è stato fornito dalla presentazione in Senato di due proposte di legge (riportate a fine dossier) e dal dibattito che ne è seguito fra gli "addetti ai lavori". In particolare la discussione si èfocalizzata sulla critica delle recenti esperienze italiane e sulla necessità di regole certe. A presto la nuova puntata della "novela" con le cronache dell'imminente dibattito parlamentare. 11



Le procedure di privatizzazione di Giovanni G. Moglia e Renzo Ristuccia

In varie occasioni precedenti Queste istituzioni si è occupata della privatizzazione delle imprese pubbliche offrendo in particolare un quadro del fenomeno come realizzato nell'esperienza inglese e francese. La materia peraltro continua ad interessare la vita politica del nostro paese come testimoniano numerosissimi interventi sulla stampa e talune iniziative parlamentari I Il tempo che separa le politiche di privatizzazione transalpine e d'oltremanica dal dibattito in corso consente tuttavia ad un eventuale legislatore o policymaker italiano non solo di prendere in considerazione le leggi e la prassi amministrativa che ha caratterizzato quelle esperienze ma anche di analizzarne i difetti. Infatti al di là delle roventi polemiche che hanno caratterizzato sul momento le decisioni della signora Thatcher e Monsieur Chirac, oggi esistono documenti ufficiali che consentono un bilancio delle privatizazioni basato più su elementi concreti e valutazioni sostanziali che non su meri preconcetti ideologici. .

RASSEGNA CRITICA DI ALCUNE ESPERIENZE

Office sulla vendita della Rover alla British Aerospace I Scopo del presente lavoro è di riferire su tali documenti per quanto in particolare concerne gli aspetti giuridici delle operazioni e le concrete modalità di vendita delle imprese. Si prescinde invece da una valutazione complessiva dei risultati economici della politica di privatizzazione non solo perché mancano a chi scrive le competenze specifiche per effettuarla ma soprattutto perché si ha l'impressione che una simile analisi richieda una professione di fede nell"ineguagliabile efficienza del mercato" o, al contrario, nell' "insostituibile ruolo del pubblico" sulla quale è preferibile manifestare agnosticismo. Preferiamo piuttosto attenerci ad una verifica della congruità delle concrete realizzazioni delle privatizzazioni con gli obiettivi che i governi francese e britannico si erano proposti. In un secondo momento cercheremo di trarre dai pregi e dai difetti delle esperienze straniere spunti e suggerimenti per un intervento legislativo in materia nel nostro paese. Verificheremo se sia leggibile nelle più recenti esperienze italiane un disegno preciso quanto a tecniche e procedure di privatizzazione. .

EUROPEE

Ci riferiamo in particolare per la Francia al "Rapporto della Commissione d'inchiesta dell'Assemblea nazionale sulle condizioni alle quali sono state effettuate le operazioni di privatizzazione di imprese e banche appartenenti al settore pubblico" 1 e per la Gran Bretagna al rapporto del National Audit

CRITICA DELLA PRJVATIZZAZIONE IN FRANCIA

Come è noto ' al termine di una serie di conflitti dovuti alla coabitazione fra Franois Mitterand e il governo gaullista di Jacques Chirac, veniva approvata il 6 agosto 1986 la

Loi rektive aux modalités d'application des 13


privatisations. In forza di questa legge tra il 1986 e il 1988 sono state vendute a privati 30 imprese industriali, banche e società finanziarie appartenenti al settore pubblico. In genere tali vendite sono avvenute ripartendo le azioni in due tranches da collocare da un lato tra piccoli risparmiatori e dall'altro nelle mani di investitori di riferimento. Questi ultimi, destinati a formare "il nucleo duro" degli azionisti dell'impresa privatizzata, venivano scelti a giudizio insindacabile del Ministro delle Finanze, nella normalità dei casi su designazione degli stessi managers della società. Il prezzo pagato dagli azionisti di riferimento è stato in genere di un 15%-20% superiore a quello dell'offerta pubblica di vendita, sempre comunque inferiore ai corsi di borsa precedenti alla privatizzazione 6 Ritornati al governo, i socialisti hanno interrotto il programma delle privatizzazioni ma hanno rinunciato a "rinazionalizzare" le imprese privatizzate. Non hanno però rinunciato a costituire una commissione parlamentare per l'esame del programma di privatizzazione le cui conclusioni appaiono fortemente critiche dell'operato del governo Chirac. In sintesi nel rapporto conclusivo si sostiene:

a) non vi era ragione di privatizzare imprese pubbliche efficienti e competitive sui mercati internazionali; b)con le privatizzazioni si è semplicemente restaurato un capitalismo tradizionale alla francese con il potere concentrato nelle mani di pochi gruppi privati; c)il programma è stato realizzato attraverso una poco democratica centralizzazione delle decisioni nelle mani del Ministro delle Finanze (Balladur);

non solo contro qualsiasi regola di trasparenza, ma anche - avvenendo fuori mercato contro i principi dello stesso liberismo cui si ispirava l'intero programma; j9gli investitori appartenenti ai nuclei duri si trovavano costantemente ad ottenere pacchetti di riferimento senza pagare alcun premio di maggioranza o di controllo; l'istituzione di una "commissione per le privatizzazioni" non ha garantito la congruità delle operazioni; h)dipendenti e piccoli risparmiatori non sono stati sufficientemente tutelati a dispetto delle promesse. I punti a), b) e c) hanno una forte connotazione politica che in ossequio alle premesse della presente analisi ci limitiamo a segnalare senza approfondimento. Vediamo invece più nel dettaglio i rimanenti punti. Il rapporto parte dalla constatazione 7 che i prezzi dell'offerta pubblica di vendita (opv) sono stati in quasi tutte le privatizzazioni notevolmente inferiori al corso della prima giornata di quotazione successiva all'offerta. Ma a parte la prima quotazione - che potrebbe non rappresentare ancora il prezzo di equilibrio del mercato - durante il primo trimestre successivo all'offerta i prezzi sono sempre stati superiori al prezzo dell'opv di almeno il 5% e con massimi del 29,8% (salvo il caso della Suez privatizzata in pieno crack di borsa). Quanto al comportamento borsistico di lungo periodo le più importanti imprese privatizzate hanno mostrato un andamento positivo rispetto all'indice generale della borsa di Parigi e, a due anni dal crollo, molte di loro sono quotate a prezzi superiori ai massimi del 1987.

d)il valore delle imprese privatizzate è stato sistematicamente sottovalutato;

In sostanza il rapporto ritiene eccessivamente basso il prezzo stabilito dal Ministero delle Finanze per le offerte pubbliche di vendita.

e)la scelta dei nuclei duri si è svolta

È pur vero - riconosce il rapporto - che il

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successo di un'offerta pubblica di vendita esige prudenza nella fissazione del prezzo, impone cioè che i risparmiatori vengano incentivati rispetto ai corsi di borsa affinchè il collocamento si realizzi in misura completa I . Tuttavia il principio dello sconto rispetto alla quotazione di borsa in società di notevole importanza e ben conosciute come quelle privatizzate non imponeva, come di fatto è avvenuto, sconti così consistenti da far somigliare l'operazione di vendita di grandi gruppi industriali a un collocamento di emittenti debuttanti al mercato ristretto. La legge del 6 agosto 1986 prevedeva peraltro il potere della commissione per la privatizzazione (su cui cfr. infra) di fissare il prezzo minimo della vendita. La commissione costituiva cioè l'organo incaricato della difesa degli interessi patrimoniali dello Stato. Nella realtà operativa accanto alla tutela di tali interessi, che imponevano la determinazione del valore oggettivo dell'impresa privatizzanda, la commissione si è assunta il compito di valutare le possibilità di successo dell'operazione. In altri termini invece di limitarsi a stabilire il prezzo al di sotto del quale la privatizzazione risultava non conveniente per lo Stato, la cpmmissione ha ritenuto di poter derogare a tale principio per permettere ad ogni costo la privatizzazione stessa. Da tale interpretazione dei compiti istituzionali è derivato il costante orientamento della commissione a scegliere il prezzo più basso tra quelli proposti dal Ministro, prezzo sempre peraltro inferiore a quello suggerito dalle banche d'investimento consulenti di quest'ultimo (e le banche consulenti davvero dovevano tenere conto della situazione di mercato e non semplicemente degli interessi dello Stato venditore come la commissione per la privatizzazione) I. I prezzi minimi fissati dalla commissione sono risultati tanto bassi che nella gran parte

dei casi il Ministro se ne è discostato in misura anche notevole nella fissazione definitiva del prezzo. Il rapporto tenta pure una quantificazione del mancato guadagno dello Stato in termini di insufficienti ricavi dalle operazioni di privatizzazione 10 A tal fine il rapporto propone di assumere quale prezzo corretto quello equidis tante tra il prezzo dell'OPV e il valore medio del primo trimestre di quotazione posteriore all'offerta. In tal modo, si sostiene, lo Stato avrebbe realizzato un maggiore introito senza scoraggiare i risparmiatori all'acquisto, visto il mantenimento di un margine di guadagno per gli acquirenti. D'altronde - nota il rapporto - la domanda ha sempre superato di gran lunga il numero dei titoli offerti e ciò prova la reale possibilità che lo Stato aveva di vendere ad un prezzo più alto. Tra le cause della scarsa valorizzazione dei patrimoni imprenditoriali venduti, il rapporto pone in primo luogo la fretta di privatizzare a qualunque còsto che non ha consenti- to ai consulenti di procedere a stime delle imprese meditate e corrette Se per un verso vi è stato un patrimonio mal valorizzato, per altro verso la privatizzazione non ha neppure contribuito alla creazione di public companies nel senso anglosassone con un azionariato diffuso e un reale mercato per il controllo della società. Sostiene infatti il rapporto che con la scelta dei nuclei duri non si è fatto altro che restaurare i vecchi potentatieconomici legati agli ambienti conservatori. In sostanza il rapporto rimprovera al governo Chirac di avere effettuato una privatizzazione dirigista contraria agli stessi principi liberali cui in apparenza il programma si ispirava. In tal senso l'uso sistematico della procedura (che la legge ammetteva a titolo eccezionale) della trattativa privata non 15


permetteva la verifica oggettiva che nel mercato è garantita dall'incontro tra domanda e offerta 12 Nota peraltro il rapporto che i prezzi pagati dagli azionisti di riferimento in maggiorazione del prezzo dell'offerta pubblica non può essere considerato contropartita sufficiente rispetto alla cessazione di pacchetti di controllo. Nè sufficiente contropartita poteva essere costituita dagli impegni assunti dagli azionisti di riferimento (in genere obbligazioni di non alienare i titoli per due anni seguita da clausole di gradimento valide per i successivi tre anni) in quanto impegni coerenti con gli interessi degli stessi componenti i nuclei duri e pertanto assolutamente poco onerosi. Va peraltro osservato che in ragione di tali impegni, la commissione per le privatizzazioni (il cui compito, è bene ricordare, consisteva nella tutela degli interessi patrimoniali dello Stato) riteneva addirittura inopportuno imporre una maggiorazione di prezzo ai membri dei nuclei duri, in quanto costoro - a detta di un componente (come si vedrà infra persona non certo esente da sospetti di interesse privato) - rendevano allo Stato un servizio che meritava ricompensa 13• Il rapporto rende comunque merito al Ministro Balladur di non aver seguito l'avviso della commissione e di avere imposto il premio, pur criticandone l'entità minima (generalmente tra il 2,5% e il 5%, salvo pochi casi in cui raggiunge il 10%). Quanto alla giustificazione dei nuclei duri addotta dal governo Chirac, vale a dire alla necessità di formare difese contro i raider stranieri è stata secondo il rapporto ampiamente sopravvalutata 14 Tra le privatizzazioni più criticate vi è quella della Matra. Lì - secondo il rapporto attraverso una oculata scelta dei componenti il nucleo duro tra persone segnalate dal 16

presidente stesso della società, si realizza una sorta di management buy-out finanziato dallo Stato. Non a caso il capitolo del rapporto dedicato al caso Matra si intitola la "lagarderisation" dal nome di Messier Lagard presidente della casa automobilistica Anche in relazione alle vendite fuori mercato ai nuclei duri, il rapporto tenta un calcolo del mancato guadagno per lo Stato dovuto alle cessioni del controllo a prezzi ridotti. A tal fine il rapporto giudica congruo un premio del 10% sul prezzo dell'opv per gli azionisti destinati ad avere rappresentanti nel consiglio di amministrazione ed un premio del 5% per gli altri azionisti di riferimento 16 Da quanto già esposto risulta la pesante censura del rapporto parlamentare sull'operato della commissione per la privatizzazione. Tale organo, composto da "sette saggi" scelti in ragione delle loro competenze e delle loro esperienze in materia economica, finanziaria e giuridica, aveva il fine di garantire la trasparenza e la congruità delle operazioni di privatizzazione. In realtà, nonostante l'autorevolezza dei suoi componenti, il rapporto 17 non esita a definire il suo intervento come la realizzazione di una procedura en trompe l'oeil, finalizzata a mascherare il programma governativo con una parvenza di garantismo. Già la legge - secondo il rapporto - non attribuiva alla commissione poteri effettivi. A questa circostanza si aggiunga la mancanza di autonomi supporti tecnici della commissione, la quale si avvaleva delle informazioni fornite dalle banche, utilizzate come consulenti del Ministro e prendeva le decisioni nel corso di riunioni conviviali senza mai la necessità di addivenire a un voto. Ma il punto sul quale si sono concentrate le maggiori critiche alla commissione è quello


della violazione delle norme in tema di incompatibilità della posizione di membro con cariche di amministratore, sindaco o prestatore di servizio presso una società potenziale acquirente delle imprese statali. La stessa commissione ha dato un'interpretazione restrittiva della norma dettandosi delle direttive di comportamento in base alle quali i posti di amministratore e simili potevano essere conservati fintantochè la società presso la quale prestavano servizio non si dichiarava candidata all' acquisizione di partecipazioni significative nelle imprese privatizzabili. Peraltro uno dei sette saggi (Ms. Martin) non ha ritenuto di ottemperare neppure a tali blande direttive mantenendo la carica di consigliere di amministrazione di una controllata della società Saint Gobain, la quale non solo è stata la prima impresa pubblica privatizzata dal governo Chirac ma si è anche, in un momento successivo, resa acquirente di una percentuale significativa della Compagnie de Suez, altra impresa oggetto di dismissione da parte dello Stato.

CRITICA DELLA PRIVATIZZAZIONE IN GRAN BRETAGNA A differenza della Francia, in Gran Bretagna il governo conservatore ha proceduto alle privatizzazioni senza il bisogno di definire le procedure in una legge quadro. In ciò naturalmente è stato avvantaggiato dalle tradizioni finanziarie e dall'efficienza del mercato borsistico londinese che hanno consentito una vendita delle azioni caratterizzata da un sufficiente grado di trasparenza 18• In particolare agli investitori sono state fornite adeguate informazioni attraverso prospetti illustrativi delle società privatizzande. È stata anche utilizzata la figura del pro-

spetto preliminare (senza indicazione del prezzo) che ha consentito di diffondere con anticipo le notizie tra il pubblico e di sondare i potenziali acquirenti circa le concrete determinazioni delle modalità di vendita. Numerosi i consulenti legali e finanziari, gli stockbrockers e le società di revisione intervenuti nelle operazioni di collocamento. Quanto alle procedure di vendita in senso stretto, la caratteristica che differenzia in misura notevole il caso inglese da quello francese riguarda l'eccezionalità del ricorso a trattative private e l'assenza di figure analoghe ai noyaus durs cari a Chirac e a Balladur. Nella grande maggioranza dei casi 19 infatti la vendita è avvenuta attraverso offerta pubblica a prezzo fisso ovvero mediante offerte di incanto. Nonostante la maggiore correttezza di procedure che contraddistingue le privatizzazioni inglesi, una circostanza le accomuna alle analoghe operazioni francesi: la determinazione di prezzi di vendita eccessivamente bassi e la conseguente riduzione dell'introito finanziario per le casse dello Stato. L'argomento della "svendita" dei gioielli di famiglia riguarda in Gran Bretagna sia le vendite fuori mercato a trattativa privata, sia le offerte pubbliche. Per le prime tuttavia esiste un documento ufficiale in cui il National Audit OfJìce (la Corte dei conti del Regno Unito) critica il Ministero del Commercio e dell'Industria in relazione alla vendita della Rover alla British Aerospace (la vendita a trattativa privata di maggiore entità tra quelle avvenute in Gran Bretagna) 20• 11 rapporto in questione destinato alla Camera dei Comuni ha ritenuto criticabile l'operato del governo sia per la scelta della trattativa privata con un solo soggetto, sia per i termini della vendita e il prezzo pagato, sia, infine, per l'incongruenza delle modalità dell'operazione con i dichiarati obiettivi della 17


vendita. Quanto al primo aspetto il governo aveva giustificato la propria scelta di concedere alla British Aerospace diritti esclusivi di negoziazione per l'acquisto della Rover in ragione del fatto che i benefici di una competizione tra acquirenti venivano bilanciati dalle problematiche condizioni economiche della Rover, tali da rendere incerto l'esito della vendita. In altri termini il governo riteneva opportuna la privatizzazione per evitare ulteriori dispersioni dei fondi pubblici utilizzati per ricapitalizzare la Rover, i quali non avevano in passato dato risultati in termini di aumento della produttività dell'impresa, tenuto anche conto dell'impegno del governo inglese a garanzia dei debiti contratti dal gruppo. La privatizzazione, proprio in considerazione delle precarie condizioni della Rover, doveva inoltre avvenire nel termine più breve possibile e in circostanze tali da evitare, in ragione dell'incertezza dell'operazione di vendita, ulteriori conseguenze dannose per le prospettive economiche della società. Pertanto il governo, nonostante il contrario avviso dei propri consulenti finanziari e seguendo invece il parere del management della società privatizzanda, decideva di concedere un diritto esclusivo di negoziazione alla British Aerospace limitato a un periodo di due mesi. Eventuali offerte alternative sarebbero state prese in considerazione solo ad una eventuale scadenza infruttuosa ditale termine 21 Quanto al secondo aspetto, nel corso delle trattative appariva evidente che la British Aerospace sarebbe stata disposta a concludere l'affare solo a condizione di un ripianamento dei debiti da parte dello Stato. Al termine della trattativa ed acquisita non senza difficoltà l'approvazione della commissione CEE (tesa a verificare che non vi fossero aiuti di Stato distorsivi dalla concorrenza a livello 18

comunitario) venivano ripianati debiti per 572 milioni di sterline. Avendo peraltro il governo inglese interesse a che la British Aerospace non rivendesse la Rover per i cinque anni successivi alla privatizzazione, veniva inserita una clausola di restituzione ditali benefici a sanzione di un'eventuale rivendita 22 Il prezzo convenuto per l'impresa liberata dalle obbligazioni era di 150 milioni di sterline. Il National Audit OfJìce ha proceduto ad una valutazione della Rover per verificare la congruenza di tale prezzo. A tal fine ha tenuto conto che i consulenti finanziari del governo avevano proposto quale base iniziale (sotto la quale eventualmente scendere nel corso delle trattative facendo presente l'alto grado di rischio connesso all'esercizio di un'impresa in difficoltà come la Rover) un prezzo di 950 milioni di sterline. Tale stima basata essenzialmente su metodi patrimoniali era stata condivisa dalla commissione CEE. Di contro il Ministero dell'industria ha ritenuto più appropriata una stima reddituale la quale, dati gli scarsi profitti della Rover ha portato alla determinazione di un prezzo (150 milioni di sterline) così macroscopicamente distante da quello inzialmente proposto. Secondo il National Audit Office 23, anche a voler condividere l'impostazione del Ministero, si dovevano innanzitutto prendere in considerazione i benefici fiscali accumulati in ragione delle perdite di esercizi precedenti detraibii dai profitti futuri. In secondo luogo doveva essere compiuta una migliore valutazione dei beni immobili di proprietà della Rover, così come delle partecipazioni azionarie a questa facenti capo (che da sole erano iscritte in bilancio per un valore di 100 milioni di sterline). Infine andava considerato che il positivo andamento dei profitti


della Rover nell'ultimo anno, era tale da suggerire miglioramenti futuri. Nota il NAO concludendo sul punto del prezzo pagato: "si riconosce l'impossibilità, nell'assenza di una concorrenza tra potenziali acquirenti basata sulla piena conoscenza di tutti i fatti rilevati, di determinare il prezzo accurato della Rover... Verosimilmente 150 milioni di sterline era il prezzo massimo che la British Aerospace fosse disposta a pagare.... Tuttavia la vendita per 150 milioni di sterline è significativamente lontana dal reale valore della società... Il NAO ritiene che il Ministero avrebbe dovuto almeno inserire nell'accordo una clausola per recuperare dalla British Aerospace qualsiasi imprevisto beneficio finanziario che quest'ultima avrebbe ritratto in un periodo determinato dalla vendita di partecipazioni, di beni immobili ovvero dall'uso di detrazioni fiscali (clawback

provisions)" 24 Per quanto infine concerne il raggiungimento degli obiettivi della privatizzazione, il NAO rileva quanto le clausole contrattuali non liberassero completamente lo Stato da obbligazioni precedentemente contratte seppure nella sostanza il rischio veniva assunto in massima parte dall'acquirente. Sussiste tuttavia il dubbio che il contribuente britannico potesse ottenere dalla vendita qualcosa di plu. In buona sostanza il NAO invita il governo ad effettuare migliori valutazioni aziendali e nell'incertezza ad inserire clausole per ottenere, in aggiunta al prezzo fisso della vendita, parte degli imprevisti incrementi di valore, seppure tenendo nel debito conto l'eventualità che siffatte clausole possano influenzare verso il basso il prezzo base di vendita 25 Se l'appunto principale che si può muovere ad una vendita conclusa mediante trattativa privata riguarda l'insufficiente misura del prezzo che viene determinato, a siffatta

critica non sfuggono neppure le offerte pubbliche di vendita, perlomeno quando effettuate a prezzo fisso. Notano due autorevoli studiosi della materia 26 che nonostante le forti commissioni per il collocamento e le notevoli spese pubblicitarie, lo Stato - e quindi in ultima istanza la collettività - ha realizzato molto meno di quanto avrebbe potuto. Come già evidenziato nelle pagine precedenti in relaziòne al caso francese, la determinazione del prezzo in una osv è particolarmente delicata 27 e ciò porta in genere a tendere verso la sottovalutazione per assicurare il successo del collocamento. Quanto detto vale anche per le vendite effettuate da privati, tanto da potersi stimare un ribasso medio tra il 5% e il 12% rispetto alla prima quotazione dei titoli successivi all'offerta. A fronte di questi dati normali le operazioni di privatizzazione hanno "regalato" agli investitori inglesi un premio medio del 21% nelle offerte a prezzo fisso. Risultati molto migliori per il bilancio dello Stato sono venuti invece nel caso di operazioni di vendita all'asta. E infatti normale che una gara di offerte di acquisto in competizione tra loro sposti in alto il prezzo di equilibrio ed eviti collusioni tra venditore e potenziali acquirenti 28• Notano sempre Yarrow e Vickers 29 che l'underpricing è stato meno sensibile in società già quotate o conosciute dal mercato, per le quali era possibile individuare riferimenti nei valori di listino. Buoni correttivi sono poi derivati dall'accorgimento di frazionare l'offerta in maniera da poter determinare prezzi più corretti per le tranches poste in vendita successivamente. Per meglio quantificare il lucro cessante per lo Stato britannico, ai prezzi eccessivamente bassi va aggiunto l'ammontare delle spese di collocamento a loro volta eccessivamente 19


alte. Il governo britannico si è infatti avvalso della consulenza di esperti finanziari, legali e contabili secondo le migliori tradizioni della City. Notevoli investimenti in campagne promozionali hanno inoltre contraddistinto la gran parte delle operazioni di privatizzazione. Nel caso di British Telecom le spese complessive per il collocamento hanno raggiunto il 6,8% del ricavo della vendita. Negli altri casi le spese di collocamento non si sono discostate di molto da quelle sostenute da privati in emissioni di notevole entità. Tuttavia secondo Vickers e Yarrow il governo avrebbe potuto vendere con commissioni più basse di quelle praticate ad emittenti privati. Ciò in quanto lo Stato non ha quell'urgente bisogno di liquidità che costringe le imprese private a pagare forti commissioni di intermediazione per disporre immediatamente degli apporti monetari. Inoltre 1 Stato può sopportare, più di qualunque emittente privato, e anche più di qualunque banca di investimento partecipante al consorzio di collocamento, il rischio di quote invendute 30 Se le critiche per le spese eccessive di collocamento non mancano di fondamento, va nondimeno attribuito al governo britannico il merito di aver cercato, man mano che progrediva l'esperienza in materia di privatizzazione, strade diverse per abbassare le tariffe di intermediazione ed in particolare le commissioni di collocamento. Il sistema più efficace 31 sembra essere stato quello di un' asta preliminare tra intermediari. Gli interessati a partecipare ai consorzi di collocamento proponevano offerte competitive indicando prezzo e quantità, venivano soddisfatte le offerte più alte per prezzo e la quantità acquistabile da ogni singolo intermediario aggiudicatario dell'asta poteva 20

essere ridotta in caso di forte domanda da parte dei piccoli risparmiatori. A prescindere dalle diverse tecniche idonee a ridurre i costi di intermediazione e ad aumentare i ricavi finanziari per lo Stato, va peraltro notato che l'underpricing risponde ad una precisa scelta politica: distribuire tra il pubblico di risparmiatori premi per la sottoscrizione delle azioni, idonei a creare consenso sui programma di privatizzazione del governo. Che tale obiettivo sia stato mascherato dalla signora Thatcher come realizzazione di una redistribuzione della ricchezza dello Stato direttamente ai membri della collettività, non deve ingannare, posto che solo i fortunati sottoscrittori - presumibilmente appartenenti a classi sociali medio-alte e non ogni cittadino - se ne sono giovati. E comunque assodato che la vendita di imprese sottostimate impedisce ogni possibilità di rinazionalizzazione delle stesse 32 . E pertanto probabile che un eventuale ritorno dei laburisti al governo imponga loro un atteggiamento simile a quello di Mitterand: non proseguiranno cioè il programma di privatizzazione" ma non potranno ritornare allo status quo ante.

SPUNTI DI RIFLESSIONE PER UNA POLITICA DI PRIVATIZZAZIONE IN ITALIA

In Italia non esiste alcuna chiara procedura di privatizzazione, ma si verifica nei fatti una sovrapposizione di ruoli e di interventi di soggetti istituzionali diversi. La normativa secondaria, le direttive ministeriali e gli statuti degli enti a partecipazione statale sono le fonti giuridiche attraverso la quale sono realizzate le operazioni di vendita delle imprese pubbliche o di riorganizzazione societaria e proprietaria delle aziende presenti nella costellazione del settore


pubblico dell'economia . Questo assetto è fonte di mancata trasparenza, dal momento che determina decisioni disegnate sulla singola vicenda industriale, che è condizionata dagli interessi in gioco, mentre più opportuna sarebbe una struttura legislativa in grado di definire i criteri generali in base ai quali vengono effettuate le singole operazioni di privatizzazione. In buona sostanza,, ad avviso di chi scrive, un principio da seguire in materia di privatizzazioni dovrebbe essere il seguente: se è compito del governo l'individuazione caso per caso della scelta dei settori o delle imprese da privatizzare e dei momenti nei quali attuare tali scelte è invece compito del legislatore definire il quadro delle regole all'interno delle quali tali operazioni vengono compiute. In questa ottica un primo problema da porre al legislatore - prima ancora della disciplina delle modalità di vendita - consiste nella creazione, da un punto di vista giuridico, dei prodotti che si intendono formare oggetto di alienazione. In altri termini si tratta di razionalizzare i titoli proprietari dell'impresa pubblica per renderli omogenei con i titoli (in buona sostanza le azioni di società) che sono potenzialmente scambiabili e negoziabii sui mercati mobiiari. Sono molte infatti le imprese pubbliche in Italia gestite con forme organizzative pubblicistiche (enti pubblici economici, aziende autonome, ecc.), la cui privatizzazione deve correttamente essere preceduta da una "privatizzazione" delle forme organizzative dell'impresa stessa. In questo quadro non si tratterebbe tanto di imporre filosofie "private" di organizzazione dell'impresa pubblica, quanto di assicurare anche ad essa la forma organizzativa propria dell'impresa economica; vale a dire il

modello di società per azioni. Solo così infatti possono essere realizzati alcuni scopi di una possibile politica di privatizzazione (la creazione di public companies, la diffusione di un azionariato popolare, l'aumento dello spessore del mercato finanziario, la vendita di pacchetti di minoranza ecc.) e nel contempo si rende più efficace e trasparente una regolamentazione delle procedure di vendita. Inoltre la trasformazione nella forma societana dell'impresa pubblica può garantire una maggiore efficienza della stessa, posto che la forma della società per azioni rappresenta lo schema giuridico a livello internazionale più avanzato per la gestione delle attività economiche e nel contempo si avvale di un grado adeguato di intermediazione della disciplina giuridica Si ricordi a quest'ultimo riguardo il forte arricchimento della disciplina societaria ed il continuo processo di armonizzazione che proviene dalle direttive comunitarie in materia. Più in particolare l'adesione al modello societario assicura alle imprese pubbliche una posizione più favorevole con riferimento alla possibilità di: - individuare con esattezza doveri e responsabilità dei componenti gli organi di gestione; - assicurare maggiore trasparenza nella gestione dell'impresa; - poter fare appello per il proprio capitale di rischio al risparmio diffuso; - operare con i terzi avvalendosi di una maggiore snellezza operativa 36 In particolare, sotto il primo profilo, si segnala come la responsabilità degli amministratori di SPA presenti aspetti di maggiore chiarezza e più possibilità d'intervento da parte dell'ordinamento, secondo un'ottica che appare più consona a fenomeni economici. Basti pensare alle norme sulla possibile invalidità degli atti e sul risarcimento del danno patrimoniale. 21


In secondo luogo in una società per azioni è assicurata una trasparenza ed un diritto all'informazione relativo agli atti di contabilità e gestione dell'impresa, incomparabilmente superiore rispetto a quanto avviene per un ente pubblico. E questo profilo ha come ovvio una rilevanza non trascurabile in una procedura di vendita, ove l'esigenza di una diffusione delle informazioni rilevanti al pubblico costituisce condizione indispensabile, da un lato, per garantire una pluralità di possibili compratori, dall'altro, per assicurare un controllo da parte dell'opinione pubblica sulla limpidezza dell'operazione. Si noti incidentalmente che sia nella trasformazione in società per azioni, sia nella procedura di vendita, riveste una importanza non secondaria l'adozione di adeguate procedure per la determinazione del valore delle imprese pubbliche. Una valutazione sovrastimata o sottostimata delle entità patrimoniali può determinare significative distorsioni gestionali nella vita successiva di queste aziende, dal momento che si traduce poi in una sottocapitalizzazione o in una sovracapitalizzazione che incide sulle politiche finanziarie, sull'esposizione debitoria, sulla credibiità nella emissione di prestiti obbligazionari. Se quanto sopra esposto riguarda la creazione del "prodotto" da alienare, occorre ora soffermarsi sulle regole di vendita che sappiano garantire la massimizzazione degli scopi pubblici e di conseguenza scongiurino trattative addomesticate finalizzate a favorire gli acquirenti legati a quelle forze politiche che hanno deciso la vendita stessa. Come è stato ricordato, in Italia una regolamentazione delle procedure è del tutto assente e i casi concreti - si pensi alla SME, all'Alfa Romeo e alla Lanerossi - hanno dimostrato che la privatizzazione avviene al di fuori di qualsiasi schema: è necessario e 22

sufficiente ottenere l'approvazione dell'autorità politica sulla scelta dell'acquirente. Peraltro anche le esperienze di Francia e Gran Bretagna, dove il fenomeno della privatizzazione ha assunto dimensioni rilevanti negli ultimi anni, non offrono, come si è visto, soluzioni definitive in relazione alla trasparenza delle operazioni: di fatto in Francia come in Gran Bretagna, nonostante le minuziose regole procedurali sulle privatizzazioni, il controllo della imprese privatizzate è andato inevitabilmente in mano a gruppi economici legati ai governi in carica. Probabilmente ciò è dovuto alla scelta da parte di quegli ordinamenti di un sistema basato sulla combinazione di trattative private con grandi gruppi economici e offerte pubbliche di vendita ai piccoli risparmiatori. Occorre allora pensare ad una correzione radicale ditali procedure, indirizzandosi verso meccanismi che garantiscano il massimo della trasparenza e delle imparzialità possibile, qualepotrebbe essere un sistema di vendita ad asta. La concorrenza tra potenziali acquirenti consente infatti da un lato, la parità di trattamento e di conseguenza l'imparzialità dell'amministrazione nella scelta dell'acquirente, dall'altro, la correttezza del prezzo conclusivo la cui determinazione è lasciata al gioco del mercato. Del resto anche i privati, quando devono collocare sul mercato nuove emissioni di titoli, nel contattare preventivamente gli intermediario attuano una sorta di asta, seppur informale, per stabilire quale singolo intermediario o consorzio di banche, è in grado di offrìre il maggìor prezzo e le migliori condizioni per la riuscita dell'offerta 1• Un procedimento di incanto per la vendita di imprese pubbliche o di quote di partecipazione delle stesse è peraltro in armonia con i principi generali in materia di contratti


della Pubblica Amministrazione da cui derivino entrate per lo Stato (cfr. articolo 3, primo comma, della legge sulla contabilità di Stato - regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440) e una sua estensione a privatizzazioni effettuate dagli enti di gestione non appare peregrina. Potrebbe tuttavia obiettarsi che l'asta (a differenza della trattativa privata o di procedure simili all'appalto-concorso con una comtnissione che valuta le offerte) mal si adatti ad accordi complessi quali sono quelli di disniissione di una partecipazione pubblica in un'impresa. In effetti nel privatizzare va attribuita la massima attenzione ai progetti dell'acquirente per il futuro dell'impresa, tenuto conto soprattutto della salvaguardia dei livelli occupazionali e delle relative garanzie offerte dai potenziali acquirenti. Tali obiezioni potrebbero essere superate attraverso una dettagliata previsione dei termini contrattuali nel bando d'asta. Le condizioni potrebbero essere stabilite sentendo preventivamente i potenziali acquirenti. Ciò che importa è che una volta stabilite e pubblicate le condizioni contrattuali, la gara avvenga esclusivamente sul prezzo, in maniera che risalti impossibile favorire determinati concorrenti adducendo giustificazioni che non potessero essere valutate ex ante da tutti i partecipanti all'asta. Si muove all'asta l'ulteriore obiezione che essa non consente, a differenza della trattativa privata, di far acquisire ai potenziali acquirenti tutte le informazioni sull'impresa che consentono di determinare il prezzo di offerta. Si tratta di un'obiezione che muove dall'attuale stato di scarsa trasparenza sulle condizioni dell'impresa pubblica, uno stato che potrebbe venire rimosso con una riforma dell'organizzazione come quella indicata più sopra. Ad ogni modo allo stesso bando di gara potrebbero essere allegate le infor-

mazioni necessarie (stime valutative del patrimonio, dati reddituali, dati contabili di ogni genere ecc.) perchè tutti i concorrenti - su un piano di uguaglianza e non a discrezione dell 'Amministrazione come avviene nella trattativa privata - siano in grado di formulare un prezzo corretto 38 L'asta sembra dunque il sistema più trasparente per l'assegnazione ai privati di imprese pubbliche o di partecipazione nelle stesse. Una volta fissato il prezzo minimo, l'asta è inoltre il meccanismo che garantisce allo Stato o all'ente pubblico il più alto introito finanziario possibile, date le condizioni fissate nel bando. Ma la massimizzazione del prezzo di vendita non esaurisce tuttavia la gamma di obiettivi pubblici che si vuole realizzare con le privatizzazioni. Si privatizza infatti anche per promuovere una proprietà azionaria diffusa, per incentivare la partecipazione dei dipendenti alla gestione dell'impresa, ovvero per garantire mezzi finanziari privati a un'impresa pubblica sottocapitalizzata, o infine perchè si ritiene opportuno ridurre l'intervento pubblico diretto in un determinato settore economico. Ebbene, è di tutta evidenza che l'intento di distribuire le azioni tra un vasto pubblico o di favorire l'azionariato dei dipendenti, potrebbe suggerire prezzi di collocamento più bassi di quelli ricavabii in un'asta. Oppure urgenti necessità di ricapitalizzazione potrebbero imporre di sacrificare la ricerca di acquirenti disposti a pagare prezzi maggiorati. Agli obiettivi di privatizzazione poi si affiancano spesso esigenze di politica antitrust che intendono ridimensionare i processi di concentrazione e che potrebbero dunque imporre di non vendere a soggetti che pure sarebbero in grado di garantire allo Stato il maggior introito. 23


Le osservazioni che precedono sembrano delegittimare l'asta come sistema di privatizzazione da privilegiare. In realtà sono possibili aggiustamenti al sistema d'asta pura, tali da consentire la realizzazione degli obiettivi esposti senza sacrificare la trasparenza che l'asta stessa consente. Se ad esempio si vuole evitare che un solo gruppo acquisti il controllo di un'impresa privatizzata,si potrebbero offrire all'asta quote percentuali dell'impresa con limiti all'acquisto di più di una quota (la privatizzazione di Mediobanca non poteva avvenire così, invece che attraverso trattative private con i singoli ospiti del "salotto buono"?). Se invece vi è l'obiettivo di rendere diffusa la proprietà dell'impresa si potrebbe utilizzare il metodo dell'asta marginale con quote riservate. Potrebbe ad esempio porsi in vendita, con prezzo minimo unitario dell'azione predeterminato, il 20% delle azioni. Una volta ricevute le offerte (contenenti prezzo, naturalmente uguale o superiore al prezzo minimo, e quantità) si procederà a un elenco di queste partendo dalla più alta per prezzo e ponendo accanto la quantità che l'offerente si dichiara disposto ad acquistare. Al prezzo dell'ultima offerta accettabile viene offerto al pubblico il rimanente 80% delle azioni, precisandosi il numero massimo di azioni acquistabii da una singola persona. Tale meccanismo eviterebbe i pericoli della fissazione di un prezzo eccessivamente basso come avviene solitamente nelle offerte pubbliche di vendita, ma permetterebbe.a un vasto pubblico di accedere alla proprietà dell'impresa. Occorre al riguardo segnalare come di recente il Ministero del tesoro si sia orientato ad introdurre il sistema d'asta per il collocamento dei CCT, per evitare di vendere titoli del debito pubblico a condizioni fion convenienti per lo Stato. Quanto infine alle critiche circa la "fa24

ticosità" delle procedure d'asta o facilità di elusione della stessa 40 attraverso collusioni e manipolazioni, esse non paiono meritevoli di accoglimento. La prima per ragioni di principio: non si può pretendere trasparenza e congruità del prezzo senza sacrificare (non poi così tanto come si vorrebbe far credere da parte degli oppositori del mercato d'asta) l'agilità della vendite. D'altro canto la vendita di un bene che in ultima istanza appartiene alla collettività non può essere trattata alla stregua di una qualsiasi compravendita tra privati. La seconda per ragioni logiche: le situazioni patologiche non possono portare ad un rigetto di un sistema che fisiologicamente può operare in maniera corretta. Ad ogni modo esistono norme contro le pratiche collusive e manipolative e, qualora le stesse si dimostrassero insufficienti, ulteriori disposizioni potrebbero essere introdotte 4. Una volta assegnate le azioni attraverso un sistema di asta, con eventualmente le varianti del caso, resta il problema delle vicende successive della proprietà azionaria determinata dall'asta stessa. Si tratta in altri termini di evitare che le azioni vengano alienate in maniera da frustrare gli intenti della privatizzazione (realizzando ad esempio la concentrazione del controllo che la vendita parcellizzata si era prefissa di impedire). A tal fine le esperienze di Francia e Gran Bretagna possono risultare utili. In diversi casi lo Stato si è riservato in quei Paesi una "azione d'oro", vale a dire un diritto di non ammettere al voto acquirenti successivi non graditi (si dovrà peraltro aver cura di utilizzare questo strumento non per scegliere i soggetti ma per determinare le massime partecipazioni detenibii da un singolo azionista). Esigenze di trasparenza impongono che i limiti di tale diritto siano stabiliti ex ante nel bando di gara in maniera da evitare quella discrezio-


nalità incontrollata in capo all'ente pubblico alienante che si è voluta emarginare in sede di vendita. A parte l"azione d'oro" è comunque possibile rintracciare all'interno del nostro ordinamento norme idonee a salvaguardare, se ritenuto necessario, il controllo pubblico sull'impresa privatizzata. Si pensi soprattutto all'articolo 2459 del codice civile che permette l'attribuzione allo Stato o ad ente pubblico del potere di nominare uno o più amministratori. In Francia e in Gran Bretagna sono stati anche utilizzati i "premi di fedeltà" consistenti nello sconto sul prezzo di acquisto delle azioni per chi si impegnasse a non rivenderle per un certo numero di anni. Lo strumento idoneo anche ad incentivare investimenti di lungo periodo rischia tuttavia di sacrificare la necessaria liquidità del mercato di quel titolo 42 La sua adozione dovrà pertanto limitarsi a casi in cui vi sia effettivo pericolo di rastrellamenti in borsa successivi al collocamento diffuso delle aziende privatizzate.

RECENTI SVILUPPI IN MATERIA DI PRIVATIZZAZIONE IN ITALIA

Le procedure di vendita qui proposte, ed in particolare l'impiego dell'asta, sembrano relegate, per quanto riguarda il nostro paese, al mondo dell'utopia. Si deve constatare infatti che in Italia si è in presenza di una privatizzazione strisciante che in assenza di regolamentazione alcuna, sembra strumentale più ad interessi di parte che non finalizzata alla realizzazione di fini pubblici '. In sostanza il dibattito politico si è esaurito in scontri per decidere quale gruppo industriale privato favorire, tralasciando riflessioni sistematiche sui settori da privatizzare e sulle finalità meritevoli di essere perseguire.

Se questo quadro non troppo brillante riguarda le esperienze passate di privatizzazione, occorre chiedersi quale sia il quadro attuale e quali siano al riguardo le prospettive per il futuro. Per rispondere a queste domande può essere utile analizzare, dapprima, il documento contenente le risultanze proposte dalla commissione di studio per lo smobiizzo e le acquisizioni di imprese a partecipazione statale, secondariamente, la recente legge sulla trasformazione delle banche pubbliche, ed infine, la ancora non conclusa vicenda EniMont. Queste tre vicende ci permetteranno di definire il panorama tecnico, giuridico e pratico entro cui potranno essere comprese le prossime vicende di alienazione del patrimonio pubblico. Quanto al primo aspetto, ci sembra che la relazione finale (febbraio 1986) della commissione di studio per gli smobiizzi e le acquisizioni di imprese a partecipazione statale, nominata nel settembre 1985 dal Ministro delle partecipazioni statali 'I, fornisca non pochi spunti di interesse per comprendere il supporto teorico delle operazioni di privatizzazione sinora attuate. Per ciò che riguarda le tecniche di vendita, la commissione diffida del metodo ad asta in quanto, se "apparentemente" tale procedura consente la partecipazione di un numero vasto di soggetti posti in concorrenza tra loro, essa si presta a non meglio precisate "possibilità di manipolazione e di turbative da parte di partecipanti poco scrupolosi". E si aggiunge che: "Più la posta in gioco è alta per l'importanza e la qualità intrinseca del complesso dei beni da cedere, più è possibile che vengano posti in essere dei particolari tentativi di alterazione delle regole del gioco, in modo da indebolire il potere contrattuale dell'Ente pubblico attraverso la 25


presentazione di offerte anomale volte a togliere credibilità a quelle apparentemente meno vantaggiose presentate da imprenditori seriamente intenzionati a rilevare il complesso produttivo oggetto della cessione" (relazione finale pag. 46). Inoltre si rileva che, anche se tale metodo permettesse di ottenere la congruità del prezzo, l'elemento "qualificante per la valutazione preferenziale di un determinato acquirente rispetto ad altri è costituito dall'esame dei programmi produttivi e dei futuri investimenti presentati a corredo dell'offerta presentata" (relazione finale pag. 47). Giudizio non meno negativo viene riservato alla possibilità che "da parte degli organi di vigilanza si faccia ricorso all'ausilio di consulenti esterni che, attraverso perizie o meccanismi valutativi similari, stabiiscano la congruità o meno del prezzo pattuito per la cessione del bene produttivo, in quanto in tal modo si altererebbe la competenza istituzionale dell'Autorità ministeriale consentendo ad essa di svolgere una vera e propria attività di gestione che, indebitamente, si sovrapporrebbe.a quella posta in essere nella sede sua propria. La natura squisitamente pubblicistica dell'attività di vigilanza comporta, quindi, che essa si estrinsechi secondo i moduli che sono suoi propri e che si identificano, appunto, con l'adozione di provvedimenti di natura amministrativa tipizzati sia per quanto attiene alle forme che al relativo contenuto" (relazione finale pag. 47). Più in generale "il problema della dismissione e della acquisizione delle aziende a partecipazione statale, ad avviso di larga parte della Commissione, va affrontato non già in un'ottica di tipo aziendalistico volta a determinare criteri valutativi di ordine generale, bensì privilegiando i profili di carattere istituzionale relativi al precipuo ruolo che a tal fine la normativa vigente assegna agli Enti 26

di gestione da un lato, ed alle autorità ministeriali ed intergovernative dall'altro. Ciò in quanto, sul piano più propriamente economico, le operazioni vanno effettuate secondo le regole proprie delle negoziazioni di aziende" (relazione finale pag. 60-61). In conclusione la commissione ha escluso "che sia suo compito individuare specifiche regole di contrattazione che gli Enti saranno poi tenuti a seguire in ogni ipotesi di che trattasi, in quanto in tale modo resterebbe alterato lo stesso rapporto istituzionale Ministero-Enti o creando illegittime interferenze sull'attività imprenditoriale di questi ultimi ovvero demandando ad essi scelte di politica economica che spettano invece al polo politico e non a quello imprenditoriale. Più aderente alla ratio complessiva dell'intero ordinamento di settore delle partecipazioni statali è quindi l'individuazione delle modalità mediante le quali si ritiene debba affiorare a livello pubblicistico il merito di tali operazioni, consentendo così al Ministero di valutare se le scelte risultino rispettose dei fondamentali valori-guida dell'efficienza e della trasparenza. Di talchè, ad es., la scelta del contraente o dei contraenti con cui iniziare la trattativa, come il regolamento contrattuale posto in essere, rientrano nell'autonomia gestionale dell'Ente. Ciò che ad esso si richiede è di determinarsi secondo regole procedimentali interne che consentano all'Autorità di vigilanza di poter verificare la correttezza ditali scelte sotto il profilo economico-finanziario e del rispetto di regole idonee a realizzare la concorrenza tra i privati interessati" (relazione finale pag. 62-68). Lo scenario teorico prefigurato è quindi tutto interno al sistema amministrativo delle partecipazioni statali senza la determinazione di regole o metodologie generali di alienazione.


La ricerca di un bilanciamento tra responsabilità manageriali e responsabilità politiche, nonchè di una demarcarzione chiara del confine tra le competenze degli enti e quelle ministeriali sembra consentire una deresponsabiizzazione ed una minore trasparenza sia in ordine a chi compie la scelta, sia in ordine al contraente, sia infine in ordine al prezzo di vendita. Mentre è facile prevedere che la competenza manageriale affidata agli enti risulti sempre subordinata alle "esigenze politiche" affidate al controllo ministeriale. Altre indicazioni importanti riguardo al futuro delle privatizzazioni nel nostro paese si ricavano dalla recente legge recante disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico (legge n. 218/1990). Con tale atto normativo si era esplicitamente posto l'obiettivo di attuare la trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni, sulla scorta di quanto proposto dalla Banca d'Italia nel già citato quaderno bianco sull'ordinamento degli enti pubblici creditizi del febbraio 1988. La trasformazione in società per azioni è stata presentata, almeno all'inizio, come la necessaria cura all'inefficienza del sistema bancario italiano, in cui il ruolo recitato dallo Stato si è ridotto, come recentemente ricordato da Merusi 'u, nel dover aumentare periodicamente il capitale di alcune e nei poteri, nei confronti di tutte, di infeudazione, cioè di nominare periodicamente gli amministratori. Si voleva in sostanza fornire alle banche una struttura organizzativa più consona con la gestione di una impresa, prospettando inoltre il ritorno dell'impresa bancaria nell'ambito delle imprese private o a capitale misto pure con le dovute cautele in considerazione dei problemi che possono nascere nel rapporto tra impresa bancaria ed

impresa industriale 46 Per attuare tali finalità era sufficiente imporre la trasformazione degli enti pubblici bancari in società per azioni ', consentendo una rivalutazione dei beni di impresa in esenzione fiscale al fine di facilitare successive operazioni di fusione, e nel contempo dettare una procedura per la vendita di pacchetti azionari delle neoesistenti società ove il Ministro del tesoro od altri enti pubblici decidessero di ridurre od azzerare la propria partecipazione. La trasformazione delle aziende ed istituti di credito pubblici in società per azioni avrebbe così costituito il presupposto per facilitare maggiori concentrazioni creditizie, necessarie per sostenere una politica concorrenziale a livello comunitario, ed il collocamento sul mercato di quote di capitale di tali imprese. Inoltre, essendo il Ministero del tesoro nella generalità dei casi l'azionista di maggioranza, sarebbe stata ricondotta alla sfera governativa la scelta politica di cosa dismettere e di cosa, viceversa, mantenere in mano pubblica. La legge approvata quasi all'unanimità 48 da Camera e Senato ha compiuto invece scelte assai diverse, tanto da portare alcuni autorevoli osservatori ad affermare che: "la privatizzazione delle banche pubbliche si sta rilevando un autentico raggiro gattopardesco: sintomo e traccia di un'irreversibile crisi istituzionale" 41. Infatti la legge non sancisce la trasformazione degli enti pubblici in società per azioni, ma al contrario permette (con notevoli sconti fiscali) che gli enti pubblici creditizi 111 possano scorporare la propria attività d'impresa, o parte di essa, in società per azioni, pur restando in vita l'ente stesso con la funzione di holding. Lo scopo di tale complicazione, come è stato segnalato, sembra essere la duplicazione delle cariche e quindi

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delle nomine pubbliche, con buona pace della ricorrente polemica sulla lottizzazione (anche se l'articolo 12, primo comma, del decreto legislativo del 20 novembre 1990 n. 356, impone alla lettera c) ma solo in via transitoria, una continuità operativa tra ente conferente e società conferitaria). Non del tutto messi in evidenza sono tuttavia gli effetti che da tale impostazione derivano. Innanzitutto, posto che proprietario della banca SPA è l'ente pubblico, a questo è demandata la scelta circa la vendita di pacchetti azionari, senza alcun intervento da parte del governo. A tale conseguenza si è posto rimedio introducendo una norma che impone il principio della proprietà pubblica del 5 1 % delle azioni ordinarie delle banche SPA (la cosiddetta "demanializzazione del credito"), salvo il potere del Consiglio dei Ministri di "consentire deroghe a tale principio". Ma vi è di più! Sia nel caso di dismissione parziale che totale del capitale della banca SPA, l'introito sarà incassato dall'ente pubblico e non dal Tesoro o da altro ente pubblico territoriale, come sarebbè stato logico laddove obiettivo della privatizzazione sia il risanamento delle pubbliche finanze. L'ente pubblico holding si troverà quindi a gestire immensi capitali, frutto della vendita anche parziale del capitale della banca SPA. Si potrà anche avere il caso estremo di un ente creditizio che ha dismesso del tutto la propria partecipazione in attività d'impresa e che tuttavia si trovi ad amministrare migliaia di miliardi ". In tale quadro non deve quindi meravigliare che il nostro legislatore non si sia occupato più di tanto delle tecniche con cui alienare i pacchetti azionari, limitandosi a dettare una delega al governo alquanto sommaria ed imprecisa. L'articolo 2, comma 1, lettera e) della legge infatti demanda al governo di "disci-

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plinare le procedure per la vendita delle azioni al fine di assicurare trasparenza e congruità applicando a essa le norme sulle offerte pubbliche". La lettera della norma prevede quindi, come unica modalità di alienazione, l'offerta pubblica di vendita e sembra non lasciare spazio a procedure ad asta. Invero la Commissione Finanze e Tesoro del Senato ha approvato, unitametne alla legge, anche un ordine del giorno "ad interpretazione" del testo normativo il quale chiarisce che la norma "non esclude" (sic!) che il collocamento possa avvenire anche attraverso l'uso dell'asta competitiva 52 In ogni caso è facile prevedere che di fronte a tale disinteresse da parte del legisltore delegante, il governo non vorrà (e forse, visto il contenuto della delega, non potrà) dimostrare maggiore sensibilità a tale tema. In conclusione non si può non rilevare che la prima legge a cui era demandato il compito di trasformare un settore di imprenditoria pubblica, ponendo anche le basi di una possibile politica di privatizzazioni, non fornisce particolari spunti positivi, avendo il legislatore preferito non compiere scelte mequivoche nei confronti dell'adozione del modello società per azioni, né dimostrandosi particolarmente interessato a predisporre regole trasparenti ed efficaci di privatizzazione. Qualche considerazione merita anche la recente vicenda EniMont che, solo di recente conclusa, sembra fornire più di un elemento di riflessione sugli attuali rapporti tra pubblico e privato. L'operazione, infatti, presentata all'inizio come esempio di collaborazione tra imprenditoria pubblica e privata, si è dimostrata in seguito qualcosa di diverso rispetto alla propagandata joint-venture tra ENI e Montedison. Al riguardo occorre infatti ricordare che già col patto di sindacato " tra ENI e Montedison per la gestione paritaria di EniMont


veniva data rilevanza particolare alla evenienza che, dopo solo due anni dall'entrata in vigore del patto stesso, si avesse il passaggio dell'intera proprietà o della maggioranza assoluta del capitale ad uno dei due partners. Tale evenienza era poi disciplinata dal medesimo patto di sindacato in modo da consentire la possibilità di iniziativa e le modalità più favorevoli al socio privato, il quale con un semplice nuovo conferimento di aziende aveva la possibilità di acquisire la maggioranza assoluta delle azioni

EniMont

54.

Alla luce delle previsioni formulate nel patto di sindacato era lecito il dubbio che l'operazione EniMont fosse stata pensata per ottenere una privatizzazione a tempo ritardato della chimica italiana. Si è forse pensato di evitare così lo scontro politico e sindacale che facilmente si sarebbe verificato riguardo la vendita ai privati della industria chimica italiana, già precedentemente acquisita al pubblico a prezzi rilevanti. È evidente che un tale progetto non permetteva alla pubblica opinione di poter conoscere le scelte inerenti il passaggio ai privati di un così rilevante comparto produttivo, nè di poter determinare correttamente prezzo ed acquirente. I successivi inconvenienti, ed in particolare l'acquisizione da parte dell'azionista privato del 20% delle azioni collocate in borsa, hanno comunque disegnato un nuovo scenario dei rapporti tra ENI e Montedison. Quest'ultima infatti, avendo acquisito la maggioranza delle azioni, poteva gestire di fatto la società senza dover aspettare il 1992. Di contro l'ENI aveva chiesto, in sede arbitrale, il rispetto del patto di sindacato o, in alternativa, il risarcimento del danno quantificato in relazione al maggior valore acquisito dal pacchetto di maggioranza.

È interessante infine notare come per risolvere la crisi prodottasi siano state all'inizio individuate due strade alternative. La prima, prospettata dal Ministro delle partecipazioni statali, prof. Franco Piga, recentemente scomparso, consisteva nel cercare di rimettere in piedi un patto di sindacato o, in alternativa, nell'acquisizione della maggioranza da parte di uno dei due contendenti in cambio del pagamento, in denaro o conferimenti, di un prezzo pattuito in sede politica. La seconda soluzione, prospettata dal prof. Capaldo, consisteva nel decidere a quale dei due soci spettasse la guida della società attraverso l'effettuazione di un'asta. In sostanza l'Eni da un lato e Montedison dall'altro potevano essere chiamati ad offrire una cifra per il 40% del capitale ufficialmente posseduto dal proprio avversario, con il reciproco impegno a cedere a chi dei due contendenti avrebbe offerto la cifra più alta. E evidente che questa seconda proposta, a nostro avviso, era l'unica in grado di offrire una soluzione concordata, chiara e trasparente, permettendo al socio che si fosse ritirato di acquisire un controvalore determinato correttamente. Come, invece, si è conclusa la vicenda dimostra ancora una volta l'impossibilità di perseguire una efficace politica di privatizzazione in assenza di chiare procedure delineate in via generale. Infatti, alla sequela di errori iniziali si è alla fine posto rimedio con una rinazionalizzazione di tutto il complesso EniMont a un prezzo discutibile. Nel susseguirsi di delibere dni, sequestri d'azioni e convocazioni assembleari si è addivenuti a una procedura in cui ENI determinava un prezzo e Montedison poteva decidere se vendere o acquistare il 40% del capitale di EniMont. Montedison ha deciso di vendere ad ENI. Quest'ultimo con atto forse

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ha proposto ai eccessivamente generoso detentori del rimanente 20% un'offerta pubblica di scambio. L'Italia risulta così, nonostante il suo deficit

pubblico, l'unico paese al mondo dove agli esordi degli anni novanta si effettuano ancora nazionalizzazioni di imprese.

NOTE

società acquirente. Sulle ripercussioni della vicenda presso l'opinione pubblica britannica cfr. «The Guardian», 10 maggio 1990. La vicenda sembra essersi conclusa con la condanna da parte della Commissione CEE della Bntish Aerospace alla restituzione di 44,4 milioni di sterline, cfr. «Il Sole 24 ore», 28 giugno 1990. Cfr. F. Rampini, Privatizzare .... . cit., p. 47. 6 Sulle procedure di privatizzazione in Francia cfr. M Durupty, Le privatizzazioni in Francia, in «Rivista tnmestrale di diritto pubblico», 1988, p. 44, in particolare pp. 59-85; G. Baudeu, Les privatisationsReglementation et premieres operations, La Reveu Banque Editeur, 1987; P. Balzarini, Pri vatizzazione delle im-

Cfr. G. Yarrow, La privatizzazione in teoria e in pratica, in «Queste Istituzioni» n. 71, 1987, p. 110 e n. 72-73, 1987, p. 29; F. Rampini, Privatizzare in Francia,. «Q.I» n. 77-78, 1989, p. 42; E. Del Casale, Privatizzare in Italia, «Q.I.» n. 77-78, 1989, p. 59. 2

Cfr. il disegno di legge presentato al Senato da Cavazzuti ed altri recante ''Norme per la trasformazione in società per azioni di enti pubblici economici e per la tutela del patrimonio pubblico e dell'investitore privato in caso di alienazione di partecipazioni azionarie". Con tale proposta si vogliono individuare regole certe da applicarsi in caso di alienazione ed in particolare si propone la trasformazione in società per azioni di alcuni enti pubblici, la creazione di una commissione di controllo sulle procedure di vendita e la predisposizione di metedologie, tra le quali è privilegiata l'asta, per l'assegnazione corretta e trasparente di pacchetti azionari pubblici. Recentemente è inoltre apparso il Rapporto al Ministro del Tesoro redatto da una commissione per il riassetto del patrimonio mobiliare pubblico e per la privatizzazione (commissione Scognamiglio) in cui si propone la trasformazione di enti in società per azioni e l'offerta in borsa dei titoli di queste. La commissione privilegia, tra gli obiettivi di una politica di privatizzazione, il risanamento del debito pubblico e la rivitalizzazione del mercato borsistico. A tal fine dovrebbero essere collocate attraverso offerte pubbliche di vendita, quote di minoranza delle imprese pubbliche più efficienti e quindi maggiormente appetibili. Il Rapporto non esamina in maniera particolare le procedure di vendita salvo per quanto attiene ai collocamenti all'estero. Rapporto consegnato al Presidente dell'Assemblea Nazionale il 28 ottobre 1989. Citato da ora in poi co-

me Rapport sur les operations de privatisation. NAO, Department o! Trade and Industry: Sale ofRover Group plc to British Aerospace plc, stampato su ordine della House of Commons il 21 novembre 1989. Citato da ora come NAO, Sale of Rover Group. Il caso è peraltro all'attenzione anche della Commissione CEE per la presunta esistenza di pagamenti "al nero" effettuati dalla

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prese pubbliche francesi: modalità e pmcedure di attuazione, in «Rivista delle società» 1987, p. 941. Rapport sur les operations de pnivatisation, pp. 160 e ss. 8

Sui problemi della valutazione del prezzo d'offerta

cfr. M. Durupty, Le privatizzazioni ... , cit., p. 64; Rapport sur les operations de pr-ivatisation,, p. 173. Rapport sur les operations de pnivatisation, p. 173 10 Rapport sur les operations de privatisation, p. 222. Sul punto si vedano pure i rilievi della Corte dei Conti fran-

cese (Rapport au President de la Republique, 1990, III, p. 45) che sottolinea soprattutto le procedure contabili frettolose adottate per le operazioni di pnivatizzazione, ed inoltre redige un "bilancio finanziario" per lo Stato comparando i costi della nazionalizzazione con i prezzi di cessione e tenendo presente i profitti intermedi. Da tale bilancio sono risultate vantaggiose le pnivatizzazioni di società finanziarie mentre, sostanzialmente in perdita quelle di società industriali. Complessivamente si è trattato per lo Stato di un risultato equilibrato, senza profitti né perdite.

' Rapport sur les operations de pnivatisation, p. 55. Rapport sur les operations de privatisation, pp. 95 e sa. e pp. 203 e ss. Sui noveaux dan cfr. F. Rampini, Privatizzare..... cit., pp. 51-53; M. Durupty, Le pnivatizzazioni... , cit., pp. 76-83. 13 Rapport sur les operations de pnivatisation, p. 205. 14 Rapport sur les operations de pnivatisation, p. 127. 15 Rapport sur les operations de pnivatisation, pp. 136 e ss. 16 Rapport sur les operations de pnivatisation, pp. 225 e ss. 12


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Rapport sur les operations de privatisation, pp. 65 e ss. Sulle privatizzazioni in Gran Bretagna oltre al già citato lavoro di Yarrow apparso in «Queste Istituzioni», cfr. V. Wright, Le privatizzazioni in Gran Bretagna, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1988, p. 86; J. Vickers - G. Yarrow, Privatisation. An Economic Analysis, The MIT Press, Cambridge-London 1988. Si vedano inoltre le due pubblicazioni di taglio in qualche misura promozionale della società di revisione e consulenza Price-Waterhouse intitolati Privatisation: the Facts, e Privatisation: Learning the Lessons From the UK Experience entrambi pubblicati nel 1989. 19 Cfr. Price-Waterhouse, Privatisation: the Facts, cit. per una descrizione nel dettaglio di ogni singola operazione di privatizzazione. 20 Cfr. nota 4. 25 NAO Sale o! Rover Group, p. 7 una vicenda analoga si è ripetuta in occasione della vendita della Powergen (cfr. «Milano - Finanza» 4 agosto 1990, p. 25 e «Il Sole 24 ore» 24 luglio 1990, p. 16), che la signora Thatcher avrebbe volentieri venduto a trattativa privata se ciò non avesse provocato le polemiche che hanno obbligato il governo a porre in essere un'asta. 22 NAO Sale of Rover Group, pp. 8-9. 23 NAO Sale of Rover Group, pp. 10-12. 24 NAO Sale of Rover Group, p. 12. 25 NAO Sale of Rover Group, pp. 3-4. Sulle claw back provisions nel collocamento pubblico cfr. PriceWaterhouse, Privatisation: Learning the Lessons..., cit., 18

p. 28. 26 - V. Vickers G. Yarrow, Privatisatiois..., cit., p. 171. 27 Sulle difficoltà di determinazione del prezzo di offerta, oltre al testo citato alla nota 8 si vedano: P. Brealey & S. Myers, Principles of Corporate Finance, 1984,

p. 306; L. Stout, The unimportance o! being eftìcient: an economic analysis of stock market princing and securities regulation, in «87 Michigan Low Review» 614, pp. 656-665; G. Zadra, Strutture e regolamentazione del mercato mobiliare, Milano 1988, p. 98. Sull'underprincing delle privatizzazioni inglesi cfr. pure R. Seth, Distributional Issues in Privatisation, in «Federal Reserv Board of New York Quarterly Review», Summer 1989, pp. 37-39. 28 J. Vickers - G. Yarrow , Privatisation..., cit., p. 178 e p. 184. Non può tuttavia tacersi che numerosi investitori istituzionali hano interesse all'insuccesso dell'asta per poter acquistare dal consorzio di collocamento a prezzi inferiori, cfr. Rapporto al Ministro del Tesoro (Commissione Scognamiglio) pp. 3-4. 29 J. Vickers - G. Yarrow, Privatisation..., cit., p. 179. 30 j Vickers - G. Yarrow, Privatisation..., cit.,

pp. 182-183. 31 Cfr. Price-Waterhouse, Privatisation: Learning... cit., p. 28. 32 j Vickers - G. Yarrow, Privatisation..., cit., p. 181; della circostanza sono consapevoli gli stessi laburisti come testimonianza il testo della Fabian Series O. Mac Donald, Own your own - Social Ownership Examined, «Unwin Paperback» 1989, pp. 1-11. 33 Nonostante le affermazioni promozionali della Price.Waterhouse secondo cui la privatizzazione si adatta a qualunque gusto politico. Privatisation: Learning..., cit., p. 12. 34 Cfr. S. Cassese, Le privatizzazioni in Italia, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico» 1988, p. 32; E. Del Casale, Privatizzare ... , cit., p. 59. 35 Occorre infatti ricordare che mentre il diritto pubblico, per la sua natura autoritativa, ha un ambito di validità limitato al territorio dello Stato e i suoi istituti non conoscono molti punti di uniformità sul piano internazionale, il diritto delle società ha al contrario un carattere di universalità che deriva dalla presenza di un sostrato comune a tutte le esperienze nazionali. La sf era di applicazione del modello giuridico della società per azioni tende così a coincidere con il mercato e a seguirne via via l'evoluzione. 36 In tal senso vedi le considerazioni svolte in Banca

d'Italia, Ordinamento degli enti pubblici creditizi, l'adozione del modello della società per azioni, memoria del febbraio 1988. Per possibili procedure di trasformazione di enti pubblici in SPA, cfr. Rapporto al Ministro del Tesoro (commissione Scognamiglio), cap. IV. 37 Per una descrizione di un meccanismo di asta nel mercato primario dei titoli cfr. G. Zadra, Strutture..., cit., pp. 100-102. Per un esame dei suoi vantaggi anche in operazioni tra privati (in un contesto diverso da quello delle privatizzazioni di cui si discute nel testo) D. Preite, Sovrapprezzo, aste competitive e mercato mobiliare, in «Giurisprudenza commerciale», 1987, I, pp. 913 e so. L'asta è inoltre una tecnica suggerita dalla Kleinwort Benson per ridurre il fenomeno del flawback, cioè del ritorno sul mercato domestico di titoli collocati all'estero, cfr. Rapporto al Ministro del Tesoro (commissione Scognamiglio), appendice 2. 38 Per i problemi di informazione degli investitori in vendite all'asta di valori mobiliari da parte di privati cfr. D. Preite, Sovrapprezzo..., cit, pp. 884 e 909. 39

Cfr. R. Seth, Distributional..., cit., pp. 34 e 37. Cfr. M. Nieri, La privatizzazione riesce in trasparenza, in «Il Sole 24 ore» 6 giugno 1989. 40

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Per la descrizione di talune pratiche manipolative cfr.

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D. Preite, Sovrapprezzo..., cit., p. 915. Cfr. R. Seth, DistributionaL.., cit., p. 33. ' Per una analisi delle procedure utilizzate e delle risultanze ottenute si veda Del Casale Privatizzare , cit., passim; Cassese Le privatizzazioni..., cit., passim. ' Presieduta dal Prof. Claudio Varrone. '' Cfr. F. Merusi, Dalla banca pubblica alla società per 42

...

azioni (fantasia medievale semiseria ad uso di un viaggiatore persiano), in «Banca Borsa e titoli di credito», 1990, I, pag. 2. 46 Problemi per altro risolti in sede comunitaria dall'articolo 12 della seconda direttiva in tema di enti creditizi il quale demanda all'organo di vigilanza un controllo sugli azionisti della banca che consente di fatto la separatezza tra banche ed industria. ' Le azioni delle nuove società potevano essere affidate, per quanto riguarda gli enti a struttura associativa, agli attuali possessori delle quote rappresentative del capitale dell'ente e, per quanto riguarda gli enti a struttura corporativa, al Ministero del Tesoro e ad altri enti pubblici territoriali in proporzione del proprio potere di nomina dei vertici dell'attuale struttura. 48 Per l'approvazione della legge si è schierato nella Còmmissione Finanze e tesoro del Senato il solo Filippo Cavazzuti. ' Così G. Rossi, Valzer in banca in «La Repubblica», 11luglio 1990, pag. 13. Critici rispetto alla stesura della legge si sono dichirati Oltre il citato F. Cavazzuti, che oltre alle dichiarazioni in Senato ha espresso la propria opinione su «Il Sole 24 ore», 3 luglio 1990, pag. 27, F. Merusi, Dalla banca..., cit., ed in parte B. Andreatta in un'intervista su «La Repubblica», 11 giugno 1990, pag. 45. Per una regolamentazione a favore della normativa così concepita si veda R. Costi, Banca SPA solo per libera scelta, in «Il Sole 24 Ore», 30 maggio 1990, pag. 23. 50 Anzi, solo una parte di essi stando alla lettera della norma. 51 Per risolvere tale incongruenza ci si è affidati alla considerazione secondo cui molti enti creditizi sono fondazioni con obblighi di devolvere parte degli utili in beneficienza. Infatti, l'art. 12 del decreto legislativo n. 35611990 prevede che: "gli enti perseguono fini di interesse pubblico e di utilità sociale preminentemente nei settori della ricerca scientifica, della istruzione, dell'arte e della sanità. Potranno essere, inoltre, mantenute le originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli. Gli enti possono compiere le operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari, salvo quanto disposto alla lettera successiva, necessarie od opportune per il conseguimento di tali scopi.

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I proventi di natura straordinaria non destinati allariserva ovvero a finalità gestionali dell'ente possono essere utilizzati esclusivamente per la realizzazione di strutture stabili attinenti alla ricerca scientifica, alla istruzione, all'arte ed alla sanità. 52 Peraltro, il medesimo ordine del giorno precisa che le facilitazioni fiscali previste dalla medesima legge si applicano anche a quelle operazioni a cui partecipino, accanto ad enti creditizi pubblici, enti creditizi privati. Posto che tra le operazioni descritte dall'art. 1 vi è anche la fusione e lo scorporo del ramo d'azienda è facile sospettare che molte operazioni di privatizzazione avverranno attraverso fusioni e costituzioni di società miste senza nessuna garanzia di trasparenza e di congruità economica. 53 Le parti salienti del patto sono pubblicate sul prospetto informativo di ammissione a quotazione in borsa dei titoli EniMont. 54 Non è qui il caso di soffermarsi analiticamente sul contenuto del patto di sindacato, essendo sufficiente, ai nostri fii, riportare parte del contenuto del patto stesso: "Nel trimestre 1 gennaio - 31 marzo 1992 Montedison potrà dichiarare di voler conferire a EniMont, a titolo di aumento di capitale, altre attività chimiche, o pacchetti di controllo di Società esercenti attività chimiche, appartenenti ai settori: petrolchimica, materie plastiche, chimica farmaceutica, fine e di sviluppo e esercitate prevalentemente in una o più delle seguenti areee: Europa, USA, Canada e Giappone. Il valore indicato per tali apporti dovrà essere tale da consentire a Montedison di acquisire - a seguito del relativo aumento di capitale - una partecipazione in EniMont superiore al 50% del capitale sociale oppure, ove EniMont sia quotata in Borsa, non dovrà essere inferiore a Lire 1.000 miliardi. Il valore di cui sopra, come pure la determinazione del valore netto globale di EniMont, saranno assoggettati a verifica peritale il cui risultato sarà vincolante per le Parti. ENI avrà, in relazione a ciò, alternativamente la facoltà di: accettare il conferimento proposto da Montedison; rifiutarlo e acquistare tutte le azioni EniMont di pro-

prietà di Montedison; rifiutarlo e vendere a Montedison parte delle proprie azioni almeno in numero tale da farle conseguire il controllo di EniMont ex art. 2359, n. 1 del codice civile. Ove ENi non esprima una scelta si darà per accettato il conferimento. Se in relazione a quanto sopra una Parte acquisterà il Controllo di EniMont pagherà all'altra un premio di maggioranza".


55 L'ops più che i piccoli risparmiatori (il flottante di EniMont era ormai ridotto a circa il 3% del capitale), sembra avvantaggiare gli azionisti alleati di Montedison. L'OPAS è stata motivata con la necessità per la parte pubblica di porre in essere quelle regole in favore degli azionisti di minoranza che da più parti si vorrebbero introdurre nella legislazione del nostro paese. Al riguardo, si nutrono non poche perplessità sulla necessità che leimprese pubbliche si debbano muovere sul mercato non

solo nel rispetto delle leggi attuali, ma anche adeguandosi a comportamenti previsti in proposte di legge, con ovvie disparità concorrenziali. Va comunque chiarito che, né il progetto di legge SUII'OPA, approvato dal Senato ed attualmente in discussione alla Camera, né la proposta di direttiva su tale tema, prevedono l'obbligarorietà di una offerta pubblica d'acquisto in casi di struttura proprietaria simile ad EniMont.

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Aziende pubbliche: un patrimonio da valutare Criteri contabili per privatizzazioni trasparenti di Pietro Spirito

Sono ormai diversi anni che in Italia aleggia il fantasma delle privatizzazioni. Mentre nei principali paesi industriali si sono varati significativi, e più o meno discutibii 1 programmi di sneffimento della presenza pubblica nell'economia, fiumi di inchiostro sono stati consumati nel nostro paese per rivendicare o demonizzare questa eventualità. Convegni, tavole rotonde, animate discussioni di economisti percorrono con frequenza periodica le pagine dei giornali e delle riviste scientifiche. Ne parlano con insistenza gli industriali, interessati ad una svendita dei «gioielli di f amiglia» che sia coerente con la silenziosa cessione di attività ai privati che caratterizza la storia recente dell'arcipelago delle partecipazioni statali I . Anche una consistente parte della classe politica di governo, almeno a parole,sembra essere intenzionata a proporre piani per la riduzione del peso pubblico nel governo diretto di alcune realtà industriali. Le periodiche proposte, sia pur generiche, del Ministro del Tesoro Guido Carli, cadono però nel vuoto di una azione governativa tutta tesa a conservare quelle rendite di posizione all'interno dell'arcipelago pubblico che sono l'alimento ed il sostegno dell'attuale maggioranza parlamentare. All'interno delle forze politiche di sinistra, tranne eccezioni alquanto rare, si resta ancora in larga parte prigionieri di un vecchio modello di interpretazione della realtà economica, per il quale l'espansione del controllo ,

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pubblico sulle attività produttive corrispondeautomaticamente ad una maggiore tutela dell'interesse pubblico e ad una espansione della democrazia economica.

SERVIZI O PANETTONI?

All'ombra della galassia statale si annidano tuttavia fenomeni di cattiva gestione, se non, in alcuni casi, vere e proprie distorsioni rispetto alle finalità di impresa che devono essere preservate, nel caso in cui si voglia evitare una misallocazione delle risorse ed un effetto di rallentamento del tasso di accumulazione industriale. Appare quindi necessario affrontare, con rigore scientifico e con serietà di impegno politico, la questione delle privatizzazioni quale essa si presenta nell'attuale contesto della finanza pubblica e con l'obiettivo di snellire la presenza pubblica in settori nei quali non se ne vede la necessità economica e politica. Questa scelta non significa peraltro una riduzione del ruolo dello Stato nel governo dell'economia. Può invece trasformarsi in una occasione per liberare risorse economiche che possono essere utilizzate per il potenziamento di quei servizi essenziali e di quei nuovi bisogni economici pubblici che si vanno manifestando in una moderna società industriale. Il progressivo ed esponenziale ruolo dello Stato nell'industria manifatturiera, nei ser-


vizi privati e pubblici, nella chimica e nella siderurgia inducono a ritenere necessaria una razionalizzazione ed una revisione della presenza pubblica nella gestione e nel controllo diretto delle attività economiche. Uno Stato che produce panettoni, anche di buona qualità, e che offre servizi pubblici, troppo spesso scadenti, presenta, senza ombra di dubbio, anomalie nella allocazione delle risorse e nella definizione delle priorità strategiche. Un programma di privatizzazioni può, da un lato, restituire economicità alla gestione di attività produttive finora amministrate secondo procedure burocratiche inadeguate alla competizione industriale e dall'altro può f avorire una nuova politica della spesa pubblica per il miglioramento della qualità e dell'efficienza nei settori strategici per la presenza pubblica nell'economia (sanità, istruzione e più in generale servizi alla collettività). Certamente non si tratta di fare regali a nessuno. La storia economica recente (la cessione dell'Alfa Romeo alla FIAT è un buon esempio), ed anche le polemiche di questi mesi (basti pensare al caso EniMont) segnalano troppi casi nei quali il rapporto tra pubblico e privato è stato caratterizzato dalla assenza di una adeguata considerazione dell' interesse economico del partner pubblico nella trattiva di cessione o di cooperazione industriale. Sono queste le privatizzazioni rispetto alle quali è assolutamente necessario esprimere tutto il proprio dissenso, dal momento che si trasformano in una perdita di valore del capitale pubblico a vantaggio di pochi abili imprenditori privati. Assenza di procedure per la valutazione dei beni pubblici, normativa contrastante sui poteri decisionali, collusione tra interessi privati di alcuni potentati pubblici ed interessi dei grandi gruppi industriali hanno reso in questi anni sempre più debole il ruolo

contrattuale dello Stato nei confronti dei privati. Nella struttura della nostra economia è presente una estesa area grigia all'interno della quale le regole non sono fissate con la dovuta rigidità. Nelle maglie di una regolamentazione ambigua si insinuano gli interessi dei privati, che fanno il loro mestiere conducendo a termine trattative vantaggiose per il lro tornaconto. Un programma di privatizzazioni porrebbe termine al mercato sotterraneo e silenzioso dei grandi affari tra pubblico e privato, affidando all'autorità di governo il compito di definire in modo flessibile, con il consenso del parlamento, il confine tra settore pubblico e privato, con l'indicazione di regole per le procedure di dismissione che salvaguardino la correttezza nella determinazione del prezzo di vendita e la concorrenza tra gli operatori privati interessati all' acquisto. Per le imprese pubbliche che possono essere interessate, su decisione delle autorità di governo ed a seguito del consenso parlamentare, ad un programma di privatizzazioni debbono però valere, in linea di principio, i criteri adottati per le imprese private che sono oggetto di compravendita. Ciò significa che occorre determinare, in via astratta e generale, procedimenti per la definizione del valore di mercato di queste aziende. Come sostiene Richard Miles, «fondamentale nel concetto di valore di mèrcato è l'ipotesi che esista per la proprietà un mercato aperto, nel quale agiscano una quantità di potenziali compratori per una proprietà determinata» I. .11 mercato delle privatizzazioni è stato invece caratterizzato finora nel nostro paese da processi di collusione tra il potere politico ed i grandi gruppi industriali, che hanno raggiunto accordi sui prezzi di cessione delle attività pubbliche sulla base di intese che spesso prescindevano dal valore di mercato delle 35


imprese. Partendo da questa constatazione, si rivela la necessità e l'urgenza di cominciare a riflettere sulle forme tecniche ed istituzionali per assicurare procedure trasparenti e concorrenziali nel caso di vendita di attività pubbliche ai privati, se si vuole davvero modificare la struttura di potere economico-finanziaria che agisce troppo spesso in stretta sintonia con il sistema politico. In questa direzione si inserisce la proposta di legge sulle privatizzazioni recentemente presentata dal Senatore Filippo Cavazzuti, che opportunamente distingue il processo di trasformazione degli enti pubblici in società per azioni, regolate dalla disciplina del codice civile pur se ancora in proprietà pubblica, dalle procedure di garanzia necessarie per avviare un trasparente programma di dismissioni e di passaggi di proprietà dal settore pubblico a quello privato, valorizzando anche il ruolo, finora depresso, del mercato finanziario. In queste note si tratta solo il secondo ordine di questioni (vale a dire la cessione di imprese dallo Stato ai privati), mentre si intende comunque sottolineare la necessità di ricondurre tutte le attività economiche, a prescindere dal controllo proprietario, ad un regime uniforme di regole. Spingono in questa direzione anche gli orientamenti normativi della commissione CEE, evocata troppo spesso soltanto a supporto di tesi parziali. Condizione preliminare per avviare un trasparente programma di privatizzazioni, necessario per restituire coerenza all'azione pubblica nel governo dell'economia, consiste nella definizione di criteri per la valutazione delle imprese pubbliche che rappresentino un parametro di riferimento adeguato ad evitare distorsioni nelle trattative di cessione ai privati. La teoria aziendalistica, così ricca di produzione scientifica quando si tratta di analiz36

zare gli aspetti, anche i più specialistici, nel caso di compravendita di imprese tra privati, tace invece sulla questione delle transazioni commerciali che avvengono nella cessione di imprese dallo Stato ai privati, che presentano elementi di ambiguità e di incertezza sulla definizione del valore di vendita meritevoli di approfondimento anche teorico. Non si tratta di una questione risolvibile nell'ambito di queste note, dal momento che la teoria economica industriale e quella aziendalistica continuano a trovare grandi ostacoli già nella definizione del valore di una attività economica, prescindendo dall'aspetto delle procedure per la valutazione di beni pubblici di natura esclusivamente immobiliare, per i quali esistono le difficoltà di catalogazione e di individuazione connesse allo stato del catasto. Quello che si cercherà di fare, nelle pagine che seguono, consiste nella messa a fuoco delle questioni teoriche che si pongono per la valutazione delle imprese, con l'obiettivo di centrare la discussione finale sulle specificità tipiche del caso delle imprese pubbliche collocabii sul mercato. Nel prossimo paragrafo saranno riassunti i criteri di valutazione che vengono adottati dalla teoria aziendalistica, con un riferimento anche ai nessi che esistono con la teoria economica, allo scopo di riepiogare gli ostacoli principali sulla strada delle misurazioni di valore per una attività economica. Nell'ultimo paragrafo si cercherà di utilizzare gli strumenti propri della teoria aziendalistica per applicarli al caso delle imprese pubbliche, con un riferimento al caso specifico dell'Ente Ferrovie dello Stato per esemplificare gli ostacoli che spesso si frappongono alla valutazione di mercato delle imprese pubbliche. Saranno infine proposte alcune soluzioni embrionali, che devono essere intese come suggestioni per il dibattito, finalizzate ad assicurare la massimizzazione dell'utilità


pubblica nelle procedure di vendita delle imprese pubbliche.

Sui

CRITERI DI VALUTAZIONE

Prima di affrontare le specificità che sono proprie di un procedimento di valutazione delle imprese di proprietà pubblica finalizzato ad un serio programma di privatizzazioni, appare necessario sintetizzare gli strumenti utilizzati dalla teoria aziendalistica nei procedimenti di valutazione dei beni e delle imprese private. La determinazione del valore di un' azienda è soggetta ad una pluralità di metri di misurazione e risponde a differenti finalità, che devono essere preliminarmente specificate per chiarire i diversi obiettivi con i quali si guarda alla questione della quantificazione di un valore economico. Su tale questione si confrontano modelli e scuole aziendalistiche diverse; in modo schematico si può sostenere che «nei confronti della valutazione di una azienda si osservano due atteggiamenti in aperto contrasto: da un lato quello di coloro che affrontano questo problema in modo esasperatamente empirico, affidandosi esclusivamente al proprio intuito ed alla propria esperienza; dall'altro quello dei cosiddetti «esperti», che talvolta rischiano di ridurre le proprie perizie a sterili esercitazioni di matematica finanziaria» '. Preliminarmente occorre distinguere tra valore soggettivo, valore generale e prezzo di una impresa I. Per valore soggettivo si intende il valore di una azienda nella prospettiva della sua acquisizione per intero o per una sua specifica parte: con questa espressione si intende misurare l'interesse del compratore ad acquisire una attività economica per le diverse finalità possibili (rafforzamento della propria

posizione di mercato, sinergia con altre attività già presenti nell'impresa, integrazione verticale, etc.). Si tratta in questo caso di stabilire il «valore d'uso» di un'attività economica acquisibile che viene ad aggiungersi alla composizione esistente del capitale. Il valore generale definisce il valore che, in condizioni normali di mercato, può essere considerato congruo per il capitale di una azienda, trascurando la natura delle parti, la loro forza contrattuale e gli specifici interessi che entrano in gioco in una trattativa per la cessione e l'acquisizione di una impresa. Si può sostenere, come afferma Luigi Guatri 6 che la stima del valore generale è la definizione, in un dato momento o periodo, dei «diritti spettanti ai titolari di una azienda comunque organizzata». In tal caso si parla anche di stima del «capitale economico». Il prezzo, infine, riflette fenomeni di carattere contingente, in relazione alla domanda e all'offerta ed alle motivazioni che spingono verso la cessione e l'acquisto di una attività economica. Per l'acquisizione di una attività economica, un imprenditore può essere disposto, sulla base di valutazioni circa lo stato attuale del mercato, a pagare un prezzo che non corrisponde alla valutazione condotta secondo il criterio del valore generale. Una competizione tra più compratori tutti interessati ad acquisire una medesima attività economica disponibile sul mercato può condurre ad un prezzo di cessione sensibilmente più elevato rispetto al valore contabile del capitale dell'impresa. Il dibattito interno alla scuola aziendalistica sulle tecniche per la determinazione del valore di una impresa è affiancato anche dal contributo che a questa discussione è stato fornito dalla teoria microeconomica. Secondo la teoria finanziaria del valore, elaborata dal I. Fischer 1 , il valore di una attività finanziaria è pari al totale delle somme liquide 37


ottenibili da chi la possiede. La scuola aziendalistica ha integrato questa asserzione con la necessità di considerare accanto al valore finanziario di una attività, anche la previsione relativa alla distribuzione delle somme nel tempo, nel senso che da un lato le somme in oggetto vanno ricondotte al valore attuale e dall'altro deve esistere una relazione inversa tra grado di incertezza associato alle somme attese e valore economico del bene. Per la scuola aziendalistica, quindi, il valore di un'azienda è generalmente rappresentato come funzione del reddito atteso, che è inteso come il risultato economico normalizzato (vale a dire realizzato in media, senza punte, sull'orizzonte della valutazione) o come il reddito prelevabile senza pregiudicare l'equilibrio economico-finanziario della gestione I Si tratta di contemperare, secondo questo approccio, la valutazione patrimoniale dell'azienda con il valore globale dell'impresa e con la capacità di questa unità economica di produrre nel futuro un reddito. Per valutazione patrimoniale dell'azienda si intende la somma algebrica dei valori dei suoi componenti patrimoniali, all'interno dei quali sono considerati i componenti patrimoniali attivi (immobilizzazioni, scorte, crediti, liquidità) ed i componenti patrimoniali passivi (debiti) . In linea generale si può sostenere che il metodo patrimoniale può essere altamente significativo, ai fini della stima finale, nel caso di aziende ad elevato contenuto patrimoniale (società immobiiari, finanziarie), nelle quali il profilo complessivo di redditività/rischio rappresenta sostanzialmente la sintesi dei profili implicitamente o esplicitamente considerati nella valutazione dei singoli cespiti patrimoniali Per la definizione del valore globale di una azienda appare generalmente opportuno .

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sommare al valore patrimoniale il valore di avviamento, vale a dire la quantificazione dei beni immateriali che sono presenti all'interno dell'azienda (mezzi strumentali, competenze professionali, rete di relazioni commerciali, autorizzazioni, etc.). Tale valore di avviamento può essere positivo, nel caso in cui l'azienda possegga valori immateriali che conferiscono maggiore capacità di produrre reddito (goodwill), ma anche negativo (badwill), nel caso in cui i risultati di redditività stiano ad indicare che l'attuale struttura aziendale presenta eredità negative che devono essere sanate dalla nuova gestione. Schematicamente si possono catalogare i metodi più diffusi per la stima del valore di una impresa nel modo seguente: - metodo patrimoniale semplice, che consiste nella stima degli elementi contenuti nel bilancio civiistico; - metodo patrimoniale complesso, integrato dalla stima degli elementi immateriali dell'azienda; - metodo misto patrimoniale-reddituale, con una valutazione autonoma del valore di avviamento; - metodo reddituale puro; - mètodo cosiddetto «finanziario», basato sulla attualizzazione dei flussi monetari disponibili per gli investitori. La scelta tra le diverse metodologie di valutazione finora esposte deve essere compiuta in base alle specificità settoriali dell'impresa che viene analizzata, ma deve comunque rispondere, come opportunamente sottolinea Luigi Guatri a tre principi: razionalità, obiettività, generalità. Per la misurazione del valore di una impresa secondo criteri che tendano a definire un valore di mercato, e che quindi si approssimano all'individuazione del valore generale, risulta generalmente opportuno adottare criteri misti, che tengano conto simultanea-


mente della valutazione patrimoniale e della capacità reddituale di una impresa. Questo procedimento è efficace in quanto, mentre il valore patrimoniale ricostruisce la consistenza del capitale investito al netto di debiti, il valore reddituale cerca di misurare la capacità di produrre reddito dall'investimento effettuato nell'arco di un tempo futuro per il quale risulta possibile effettuare previsioni di medio periodo. La valutazione con il metodo reddituale può rendersi particolarmente opportuna quando l'azienda presenti un trend di redditività sufficientemente definito, giudicato affidabile ai fini delle proiezioni economiche. Occorre a questo punto precisare che storicamente nella teoria aziendalistica il metodo della stima patrimoniale aveva una larga diffusione nel corso dei decenni passati, mentre oggi l'interesse degli operatori è attratto soprattutto dalla capacità di una impresa di produrre reddito. Anche la tendenza a prestare attenzione talvolta ai flussi monetari prodotti, e non solo ai redditi, è un fenomeno recente, giustificato dalla maggiore sensibilità degli operatori per le variabili finanziarie 12 Nella determinazione del valore di una impresa da parte di esperti spesso si verificano fenomeni di collusione tra gli affidatari dell'incarico professionale (le imprese) ed i compilatori della stima di valutazione. Questo vale soprattutto per i procedimenti di fusione all'interno dei gruppi, laddove gli interessi degli azionisti di minoranza sono spesso sacrificati sull'altare dell'aggiustamento finanziario della conglomerata industrialfinanziaria. Tali questioni di deontologia professionale, che ritroveremo più avanti quando si parlerà della stima del valore delle imprese pubbliche, non possono essere risolte soltanto attraverso 1' autoregolamentazione degli operatori. Può risultare opportuno che l'incarico

della perizia venga affidato da una autorità che non ha interessi diretti in gioco, se non quelli della tutela di tutti gli investitori interessati alle operazioni di compravendita aziendale. A questo proposito si potrebbe proporre di rendere obbligatoria la stima professionale nel caso delle funzioni intragruppo con l'affidamento dell'incarico di valutazione da parte della CONSOB. Dopo questa parentesi necessaria sulla deontologia professionale degli esperti in valutazioni aziendali, torniamo invece a ragionare sui metodi in uso per la stima dei valori di impresa. Una formula generalmente usata come espressione di sintesi dei metodi misti di valutazione correntemente in uso da parte degli aziendalisti può essere sintetizzata come segue: V = PN + .(R - iPN) ai dove: V = valore dell'azienda PN = patrimonio netto, opportunamente rettificato R = reddito medio normale atteso i = saggio desiderato di reddito (redditività minima che giustifica l'investimento) ai = coefficiente di attualizzazione (valore attuale, all'interesse composto, di una rendita temporanea a rate costanti posticipate di una lira). Generalmente, come già in precedenza si è detto, è invalsa l'abitudine di ricorrere a metodi misti del tipo patrimoniale-reddituale, che contemperino la capacità di misurare il valore del capitale dell'impresa con la misurazione della possibilità di remunerare nel tempo tale investimento, definendo un «premio per il rischio» che riduca i margini di incertezza derivanti dalla previsione reddituale. Dal punto di vista metodologico la valutazione di una impresa deve essere condotta con riferimento alle condizioni di gestione in essere e trascurare l'effetto di eventuali inter39


venti attuabili da specifici acquirenti 13. La misurazione del valore di una azienda, oltre a considerare il flusso dei redditi futuri producibii sulla base della consistenza patrimoniale attuale, è funzione: - della dimensione dei flussi di risultato attesi, espressi monetariamente; - della distribuzione nel tempo dei risultati attesi; - del valore d'uso dei mezzi finanziari, espresso dal rendimento offerto da impieghi alternativi. Nella determinazione dei risultati gestionali attesi a struttura data, risulta necessario stimare la componente di incertezza che è legata all'aspetto previsivo della valutazione. Stimare il valore di una azienda significa individuare l'<cequivalente certo» di una corrente futura di risultati incerti. Per ricondurre i flussi prospettici di risultati incerti al loro valore immediato equivalente, possono essere seguiti in linea di principio due procedimenti alternativi: - operare direttamente sui flussi, rettificandone il valore in misura proporzionale al grado di incertezza loro attribuito; - aumentare il tasso di attualizzazione, al fine di includervi un congruo «premio per il rischio».

IL CASO DELLE IMPRESE PUBBUCHE

di liquidare l'investimento cedendolo a terzi 14 . Alla base della decisione di procedere ad una quantificazione del valore di mercato di una impresa possono esservi motivazioni diverse, come, ad esempio, la necessità di stimare gli effetti di una ristrutturazione aziendale sulla struttura patrimoniale e reddituale stabilendo un riferimento di partenza, rispetto al quale definire gli effetti possibili delle azioni che possono essere poste in essere. Anche prescindendo dalla finalità di collocare sul mercato alcune imprese pubbliche, un procedimento di valutazione può risultare un elemento efficace per stabilire parametri aziendali rispetto ai quali misurare l'efficienza gestionale delle proprietà industriali appartenenti allo Stato. Se invece ci riferiamo alla valutazione nel caso di vendita, appare opportuno sostenere che la cessione di proprietà di alcune imprese dal settore pubblico a quello privato deve essere considerata, salvo le distinzioni che di seguito saranno svolte, alla stregua di una trattativa tra privati, dal momento che per l'operatore pubblico si tratta di collocare sui mercato attività che non vengono più considerate strategiche rispetto alle finalità di questo soggetto. Appare quindi necessario adottare quei criteri di valorizzazione economica e finanziaria delle attività in mano pubblica tipiche e comuni rispetto a quelle di un operatore privato che si appresta a cedere la propria azienda ad un altro imprenditore. Finora queste condizioni non si sono verificate e la cessione di aziende dallo Stato ai privati si è svolta sulla base di trattative private che non hanno considerato il valore generale dell'attività economica oggetto di collocamento sul mercato.

Questa sintetica ricostruzione dei criteri prevalenti nella valutazione delle imprese, secondo i canoni della scuola aziendalistica, serve ad aprire la discussione sui metodi che possono essere utilizzati per stimare il valore delle imprese pubbliche passibili di cessione da parte dello Stato ai privati. Preliminarmente occorre precisare che le finalità di una valutazione aziendale sono molteplici e non solo riconducibili alla scelta Il criterio prevalentemente adottato è stato 40


quello del valore soggettivo del compratore privato, così come esso è stato definito nel precedente paragrafo, vale a dire il valore d'uso da parte dell'acquirente, che ha fissato le condizioni di acquisto sulla base della propria convenienza ad incorporare le imprese pubbliche nella propria struttura aziendale. L'autorità pubblica si è limitata a riservarsi il diritto di fissare alcune condizioni generali che salvaguardassero interessi ritenuti meritevoli di tutela (generalmente si è trattato di condizioni che imponevano all'acquirente di preservare il livello occupazionale dell'impresa). In altri ordinamenti esistono invece procedure e regole che stabiliscono criteri in base ai quali fissare il valore di mercato delle imprese pubbliche. Ci riferiamo in particolare al caso degli Stati Uniti, paese nel quale esiste un organismo governativo - lo us International Revenue Service - che adotta una propria definizione di valore ragionevole di mercato. I procedimenti di valutazione delle imprese pubbliche e di cessione di queste atività ai privati, avvengono quindi secondo regole che sono stabilite dai pubblici poteri: come scrive R. Miles, «se la funzione di valutazione può comportare che essa debba essere destinata ad un ente governativo, o ad altra simile autorità, il valutatore dovrebbe conoscere se l'autorità di controllo ha una propria definizione di valore» L'esistenza di un codice di comportamento e di una procedura per la definizione del valore delle imprese pubbliche rende maggiormente trasparente il collocamento di queste imprese sul mercato e frena eventuali fenomeni di collusione tra il sistema politico ed i potentati economici. La fissazione di queste regole non elimina la specificità del caso di passaggio della proprietà dal pubblico al privato. In questo caso si

ritiene comunque necessaria, almeno alcune volte, la determinazione di condizioni generali di acquisto nelle quali vengano indicate le caratteristiche aziendali che si valuta debbano essere mantenute anche nella fase successiva alla cessione dallo Stato ai privati. Tuttavia occorre aggiungere a queste condizioni generali di acquisto una procedura di vendita nella quale siano previsti, da un lato, criteri trasparenti per la determinazione del valore generale dell'impresa pubblica destinata alla cessione e dall'altro, procedure per il collocamento di queste imprese sul mercato nel rispetto delle regole di concorrenza, senza privilegiare alcuni interlocutori privati rispetto ad altri. A monte di queste considerazioni occorre in via preliminare sottolineare che deve esservi una valutazione di tipo politico sulla struttura dell'intervento pubblico nell'economia, per definire quelle attività che possono essere cedute ai privati, e quei settori di attività economica nei quali si ritiene che la presenza pubblica tuteli l'interesse della collettività. Innanzitutto occorre specificare quali sono le peculiarità che rendono diversi i casi di cessione di imprese dallo Stato ai privati, rispetto alle transazioni commerciali di attività economiche tra privati. Schematicamente si può sostenere che, nel caso qui preso in considerazione, aumentano da un lato le difficoltà nel reperire quelle informazioni che sono necessarie per il lavoro di valutazione, mentre dall'altro crescono i rischi di una distorsione contabile che può risultare dannosa per la parte pubblica nella fase della cessione. Per quanto riguarda il primo punto, vale a dire la scarsità delle informazioni disponibili, il discorso vale soprattutto per quelle imprese pubbliche che non sono strutturate nella forma di società per azioni, vale a dire per quelle imprese che tengono la propria conta41


bilità secondo le regole della pubblica amministrazione e che quindi non posseggono forme di controllo di gestione interne in grado di elaborare stime attendibili sulla dotazione di capitale e sui flussi di reddito prodotti. Il ripianamento delle perdite a fine esercizio conduce ad una sottovalutazione delle variabili economiche interne all'impresa pubblica non organizzata nella forma di società per azioni, rendendo in questo modo difficile la ricostruzione di dati coerenti per una valutazione del valore dell'impresa. Accanto a questo dato strutturale, dipendente dall'informazione contabile attualmente presente nelle imprese pubbliche non organizzate nella forma di SPA, si aggiungono altre difficoltà che derivano spesso dalla natura ibrida dell'ente pobblico chiamato a gestire una attività imprenditoriale. È il caso dell'Ente Ferrovie dello Stato, ad esempio, per il quale la legge di riforma n. 210 del 1985 ha fissato in via di principio il passaggio dalla contabilità pubblica a quella civilistica. Nella formazione dello stato patrimoniale, tuttavia, l'attuale modello di bilancio risulta difficilmente valorizzabile a prezzi di mercato, dal momento che la stessa legge di riforma prevedeva il passaggio dei beni immobili dallo stato e dalla ex azienda autonoma al costituito Ente Ferrovie dello Stato. Questa procedura di trasferimento si è arenata nella vischiosità di un procedimento amministrativo macchinoso ed a distanza di cinque anni dalla legge di riforma soltanto circa la metà dei beni (tra l'altro quelli di minore valore) risultano definitivamente trasferiti alla competenza patrimoniale dell'ente, che si trova, dunque, a dover formare l'attivo del proprio stato patrimoniale contabilizzando soltanto in parte i valori dei beni di cui è per legge proprietario e ponendo nei conti d'ordine un valore a costi storici per quei beni la cui titolarità non risulta ancora 42

di proprietà dell'ente. Quando, nei mesi scorsi, si è svolta una serrata polemica sulla privatizzazione della forma giuridica dell'Ente FS, da parte di alcuni si sosteneva l'impossibilità di trasformare l'ente pubblico in una società per azioni, vista la situazione economico-finanziaria dell'azienda che non avrebbe consentito la formazione di una struttura societaria solida senza ulteriori apporti patrimoniali e di capitale fresco da parte dello Stato. Si trattava in realtà di una posizione pretestuosa, dal momento che il completamento della procedura amministrativa di passaggio dei beni dallo Stato e dall'ex azienda autonoma avrebbe consentito alle ferrovie di poter contare su un attivo patrimoniale di grande consistenza, che, opportunatamente valorizzato, avrebbe consentito nel tempo un processo di aggiustamento strutturale dell'impresa, fornendo alla gestione corrente quelle risorse necessarie per la ristrutturazione del conto economico. Esistono quindi, nella determinazione dei valori patrimoriiali delle imprese pubbliche una serie di questioni preliminari riconducibili ad ostacoli di tipo amministrativo che, come per il caso delle ferrovie, devono essere avviati a soluzione se si vuole stabilire un valore generale di mercato di queste attività economiche, non solo nel caso della cessione ma anche per la trasformazione degli enti pubblici in società per azioni in mano pubblica. Per quanto riguarda invece le distorsioni contabili che si possono verificare e che possono alterare il risultato della perizia di valutazione, in linea generale si può sostenere 16 che sono tre i casi possibili, anche per le imprese private: - si sottovalutano i componenti patrimoniali attivi; - si sottovalutano i componenti patrimoniali passivi; - si sopravvalutano i componenti patrimo-


niali attivi e si sottovalutano quelli passivi per far risultare un utile superiore o una perdita inferiore. Mentre nel caso delle imprese private gli esperti devono guardarsi soprattutto dalla terza eventualità, che può essere posta in essere da un venditore interessato a disfarsi della propria impresa, il caso più probabile che può verificarsi per una impresa pubblica è il primo, vale a dire la sottovalutazione dei componenti patrimoniali attivi. Questo comportamento non risponde ad una logica di tipo economico, ma rappresenta una conseguenza operativa della struttura delle imprese pubbliche, le quali tendono a tenere basso il volume delle componenti patrimoniali attive per ottenere dallo Stato risorse aggiuntive da destinare ad investimenti finalizzati ad ampliare la dotazione di capitale. Una rivalutazione del patrimonio netto delle imprese pubbliche ai prezzi di mercato risulta con ogni probabilità una operazione preliminare necessaria per determinare una successiva stima del valore aziendale che corrisponda all'effettiva dotazione di patrimonio netto. Passando invece in rassegna le diverse metodologie di stima del valore dell'impresa ed applicandole al caso delle aziende pubbliche cedibili ai privati, si ritiene, come già è stato detto in precedenza, che il metodo del valore generale possa rappresentare il punto di partenza per stabilire un parametro di riferimento rispetto al quale sarà poi la legge della domanda e dell'offerta a stabilire il prezzo di cessione dell'impresa. In altri termini si sostiene che, per le imprese pubbliche interessate ad un programma di privatizzazioni, sia necessario adottare in

prima approssimazione il criterio della stima del valore generale, inteso quale stima astratta, assunto successivamente come base per un'asta concorrenziale aperta ai privati, all'interno della quale il prezzo di cessione deriverebbe dalla competizione a partire da un prezzo minimo di offerta, stabilito da un gruppo di esperti ai quali una istituzione governativa (potrebbe essere la presidenza del Consiglio dei Ministri o un organismo del tipo authority per le privatizzazioni) affiderebbe l'incarico della stima del valore generale dell'impresa. La procedura di vendita di una impresa pubblica ai privati sarebbe, secondo le linee tracciate in queste note, possibile attraverso i seguenti passaggi istituzionali: - determinazione, da parte del governo, di una lista di aziende pubbliche da collocare sul mercato perché non ritenute strategiche rispetto alle finalità di interesse pubblico; - individuazione, da parte dell'autorità di governo, di un protocollo generale di privatizzazione, nel quale siano indicati quei criteri gestionali e strutturali posti a salvaguardia dell'interesse pubblico che devono essere preservati dalle aziende privatizzate anche nella fase successiva al collocamento; - fissazione, per queste imprese, di una valutazione generale condotta secondo criteri aziendalistici, che tengano conto anche del valore di avviamento e dei vincoli gestionali imposti dal protocollo generale di privatizzazione sotto il profilo della capacità reddituale futura dell'impresa; - stabilito il valore di mercato dell'azienda si può avviare una procedura d'asta tra i privati che stabilisca il prezzo di cessione.

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Note Per una analisi sulle principali operazioni di privatizzazione nei paesi industrializzati cfr. G. Yarrow, La privatizzazione in teoria e in pratica, in <(Queste Istituzioni» n. 72-73, ottobre-dicembre 1987, pp. 29-52. 2 Sulle «privatizzazioni silenziose» cfr. S. Cassese, Le privatizzazioni in Italia, in «Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico», 1988. R . C. Miles, Guida alla valutazione delle imprese, F. Angeli, Milano 1989, p. 43. ' E. Fumagalli, in M. Massari, Il valore di mercato delle aziende, Giuffrè, Milano 1984. Istituto di economia delle aziende industriali e commerciali dell'Università Bocconi. Principi e metodi nella valutazione delle aziende e di partecipazioni societarie, EGEA, Milano 1989, p. 3. 6 L. Guatri, La valutazione delle aziende, Giuffrè, Milano 1987, p. 5.

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I. Fischer, The theory of interest, Macmillan, New York 1930. 8 M. Massari, Il valore cit., p. 2. G. Lo Martire, Valutazione dell'azienda, Buffetti, Roma 1990, p. 37 e ss. lo Istituto di economia delle aziende industriali e commerciali dell'Università Bocconi, Principi cit., p. 22. .....

.....

11

L Guatri, La valutazione..., cit., p. 16.

12

Istituto di economia delle aziende indùstriali e commerciali dell'Università Bocconi, Principi cit., p. 20. .....

13

Istituto di economia delle aziende industriali e commerciali dell'Università Bocconi, Principi cit., p. 7 e ss. .....

14

Per una analisi delle differenti motivazioni che determinano la necessità di una valutazione aziendale cfr. R.C. Miles, Guida cit., p. 13 e si. 15 R.C. Miles, Guida..., cit., p. 41. .....

16

G. Lo Martire, Valutazione

.....

cit., p. 239.


Privatizzare: esperienze negli enti locali Sull'adozione del modulo societario per pubblici servizi locali di Gianni Orsini e Giulio Vesperini

In un recentissimo intervento dedicato all'esame dei rapporti tra lo Stato ed il mercato dopo l"ondata privatizzatrice" degli anni '80, uno tra i maggiori studiosi della materia ha affermato che il vero problema da porsi non è quello di definire quale ruolo sia rimasto all'impresa pubblica dopo le "privatizzazioni", quanto, invece, quello di verificare come, in seguito ad esse, "siano complessivamente cambiati i rapporti tra Stato ed economia" Quello delle "privatizzazioni", infatti, non è un fenomeno unitario, come dimostra la constatazione che ad esse sono comunemente ricondotte, perlomeno, tre diverse fattispecie: il trasferimento dell'impresa in pubblico comando ai privati; il mutamento "qualitativo" dell'ingerenza pubblica, per effetto del quale, cioè, il potere pubblico, spogliatosi a favore dei privati del controllo sull'impresa, riserva a se stesso il compito di impatire le regole alle quali l'attività dovrà essere uniformata; la trasformazione dell'impresa pubblica secondo modelli organizzativi analoghi a quelli propri delle imprese private. Nella materia affidata alla nostra riflessione, quella dei servizi pubblici locali, di privatizzazione si può parlare soprattutto nell'ultimo dei significati indicati. Da un lato, infatti, sono state rare le ipotesi di "soppressione" del servizio pubblico, nelle quali, cioè, l'ente locale, in esito ad una rinnovata valutazione dell'interesse all'attività, abbia dismesso la stessa, trasferendo il

comando delle imprese a soggetti privati. Né, malgrado le esemplificazioni giornalistiche possano aver suscitato un'impressione contraria, la privatizzazione in tal senso costituisce un elemento qualificante della strategia di riorganizzazione delle forme di gestione dei servizi pubblici, messa a punto recentemente da alcune amministrazioni locali 2 D'altro canto, per quanto consta, in questi ultimi anni non si è manifestata una tendenza significativa degli enti locali ad attribuire in concessione a privati la gestione di servizi pubblici per l'innanzi esercitati in via diretta. Il fenomeno di maggiore importanza nel corso di questo ultimo decennio è, invece, quello che porta l'ente locale ad abbandonare la gestione diretta tramite impresa-organo (azienda municipalizzata), per provvedere ai medesimi compiti con strutture in grado di garantire, per il regime al quale sono sottoposte, una condotta efficiente in quanto uniformata a criteri di imprenditorialità. Da un lato, così, le vecchie aziende municipalizzate, rese residuali con la legge 27 febbraio 1978 n. 43, vengono trasformate, attraverso passaggi successivi, in enti strumentali dell'ente locale, dotati di personalità giuridica e di autonomia imprenditoriale e strutturale 3 . Dall'altro, si va progressivamente accentuando il ricorso al modulo societario capace di offrire congiuntamente una maggiore opportunità di accesso al mercato creditizio e finanziario, la possibilità di

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un'azione più flessibile e l'occasione di cooperare con soggetti pubblici e privati nella gestione del servizio. Le brevi riflessioni di queste pagine saranno dedicate all'impresa costituita in forma societaria da parte degli enti locali. La ragione di questa scelta va cercata nella convinzione che un utile misuratore dell'entità delle trasformazioni dell'impresa pubblica, nel senso della "privatizzazione" delle forme di gestione, possa scaturire proprio dall'indagine sulle caratteristiche principali di quel modello organizzativo che più è in grado di avvicinare l'azione del potere pubblico a quella del: l'imprenditòre privato. Al fine di saggiare l'effettivo significato delle tendenze privatizzatrici, le nostre osservazioni si concentreranno sulla ricostruzione delle motivazioni che hanno determinato il manifestarsi del fenomeno e sul ruolo assolto dall'evoluzione della disciplina normativa nella conformazione delle stesse.

IL RICORSO AL MODULO SOCIETARIO DA PARTE DEGLI ENTI LOCALI

alla fase di avvio di processi concernenti determinati ambiti territoriali, e quella di "aggregazione della domanda proveniente dai soggetti privati operanti nel medesimo ambito" 6 Anche nel settore dell'approntamento delle infrastrutture e delle opere pubbliche, è possibile distiguere due fattispecie con caratteri fortemente differenziati e che si muovono su due diversi piani: uno, nel quale la società per azioni funge da strumento per garantire alle previsioni della pianificazione urbanistica e territoriale "il controllo delle ricadute sul terreno più strettamente economico e produttivo"; l'altro, invece, più specifico, in chiave "di scelta di modalità operative più snelle e flessibili delle ordinarie procedure in materia di costruzione di opere pubbliche" I. Il settore di maggiore sviluppo del modulo societario è, però, quello dei servizi pubblici locali. La costituzione di società per azioni ha interessato qui, originariamente, il campo dei trasporti, per poi estendersi progressivamente a coprire l'intero arco dei servizi locali: dalla gestione degli aereoporti (Torino, Reggio Emilia, Firenze), ai servizi fieristici (Bologna), alle centrali del latte (Varese, Firenze, Genova), all'erogazione del gas (Trento), alle terme (Bormio), ai mercati all'ingrosso (Milano, Reggio Emilia), agli acquedotti (Trento), fino alle politiche generate da esigenze di tutela ambientale, come è nel caso dello smaltimento dei rifiuti urbani e solidi (Perugia, Bologna, Brescia, Bassano del Grappa).

Pur in assenza di una normativa quadro generale che ne regolasse la costituzione ed il funzionamento, gli enti locali hanno fatto un ricorso significativo al modulo della società per azioni ', per perseguire di volta in volta finalità di promozione dello sviluppo economico, di approntamento di infrastrutture e opere pubbliche e di gestione dei servizi pubblici locali I . Per quanto concerne l'area della promozione dello sviluppo economico, secondo una recente dottrina, le società per azioni hanno LE MOTIVAZIONI DELL'ADOZIONE DEL MODUsvolto fondamentalmente due funzioni, en- LO SOCIETARIO NELLA GESTIONE DEI SERVIZI trambe di importanza decisiva: quella di "vo- PUBBLICI LOCALI lano iniziale per il reperimento delle risorse, non necessariamente finanziarie", legate Le poche ricerche empiriche fin qui effet46


tuate in materia 8, hanno dimostrato che la scelta, da parte degli enti locali, della gestione di un servizio tramite società per azioni, è riconducibile ad un insieme eterogeneo di cause, aventi quale denominatore comune, quello della necessità di superare le limitazioni connesse alla principale forma di gestione del pubblico servizio consentita agli enti locali dal Testo unico n. 2578 del 1925, quella tramite azienda municipalizzata. Il ricorso alle società per azioni, infatti, consentiva una maggiore flessibilità di azione, una più ampia opportunità di ricorrere al mercato dei capitali, la possibilità di adeguare l'attività degli enti locali alle nuove esigenze espresse dalle comunità rappresentate, nonché quella di superare i ristretti limiti di una circoscrizione territoriale predeterminata, ed infine di cooperare con altri soggetti, talvolta privati, più spesso pubblici, cointeressati alla gestione 9 . La legislazione degli ultimi anni, e in particolare la recente legge n. 142 del 1990, nella parte in cui ha innovato la regolamentazione delle forme di gestione dei servizi pubblici, ha modificato, tuttavia, in modo radicale il quadro dei prevedibili moventi del ricorso allo strumento societario. In primo luogo, infatti, come si è già osservato, alcune norme, contenute principalmente in leggi di finanza pubblica, hanno notevolmente ampliato la capacità giuridicoimprenditoriale delle aziende municipalizzate ', da un lato sottraendone l'azione ai rigidi moduli pubblicistici e, dall'altro, ampliandone notevolmente la possibilità di ricorso al mercato finanziario. I vantaggi correlati all'adozione del modulo societario, in quanto capace di offrire una maggiore flessibilità di azione ed un più ampio ricorso al mercato finanziario rispetto all'azienda speciale, si sono andati quindi

progressivamente attenuando. D'altro canto, andavano emergendo una serie di limitazioni che riducevano le possibilità di azione della società a partecipazione locale. Nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, infatti, si andava consolidando l'orientamento in base al quale l'attività sociale dovesse essere "ristretta al territorio dell'ente locale che detiene la quota del pacchetto azionano" e "corrispondente agli scopi istituzionali" dell'ente stesso j. La legge n. 142/1990, poi, regolando le forme associative e di cooperazione tra enti locali (art. 24 e 25), e, in particolare, consentendo la costituzione di consorzi per la gestione di servizi secondo le nuove regole delle aziende speciali, ha reso non necessaria l'utilizzazione delle SPA per i casi in cui più enti locali vogliano collaborare nella gestione di un servizio, finendo così con il ridurre in modo rilevante anche la portata di questa specifica motivazione. Questo nuovo assetto normativo sembrerebbe, quindi, far emergere per esclusione quella motivazione che finora aveva occupato un posto marginale nella storia delle società a partecipazione locale esercenti servizi pubblici: quella della cooperazione tra ente pubblico territoriale e soggetti privati o pubblici non territoriali. Sul piano effettuale, solo la prassi attuativa della nuova disciplina sarà in grado di fornire una verifica di questa previsione. Ciò che, invece, ci si può sin da ora domandare è se l'assetto normativo crei condizioni favorevoli all'emergere di questo tipo di utilizzazione delle società per azioni. Per poter dare una risposta a questo quesito conviene partire dalla considerazione che la legge n. 142/1990 detta per le società per azioni a partecipazione pubblica finalizzate alla gestione di servizi pubblici, due sole norme: quella, in "positivo", della necessaria 47


partecipazione maggioritaria in essa dell'ente locale, quella, in "negativo", della sottrazione della società medesima ad ogni intervento dell'ente locale, diverso da quello susseguente all'esercizio, iure privatorum, dei diritti di socio. Stando alla prima disposizione, dovrebbe prevedersi che al privato sarà consentito intervenire nella società solo in posizione minoritaria, precludendosi quindi, tendenzialmente, ad esso di concorrere, paritariamente, alla gestione dell'impresa. Tale previsione, il cui avveramento restringerebbe le possibilità di coinvolgimento operativo dell'imprenditore privato, tuttavia, potrà essere smentita se nella esperienza attuativa della legge si venisse a ripetere una situazione già nota nella prassi precedente alla approvazione della legge n. 142/1990. Infatti, spesso è accaduto che gli enti locali, titolari del pacchetto di maggioranza, abbiano in tali situazioni attribuito una sovrappresentazione ai privati all'interno degli organi societari 12 Questo possibile, e per certi versi auspicabile, scostamento della realtà effettuale dalla norma induce a domandarsi se sia stato opportuno introdurre una clausola così rigida in ordine all'assetto della partecipazione pubblica, o se, per converso, al fine di consentire una maggiore flessibilità nell'assetto dei rapporti tra privato e pubblico nella società, e al tempo stesso tenere fede ad un principio di tendenziale corrispondenza tra il capitale investito e l'influenza esercitata dal soggetto conferente nella gestione sociale, non dovesse ritenersi preferibile riservare alla valutazione discrezionale dell'ente locale la possibilità di graduare la propria presenza in ragione del grado di coinvolgimento desiderato dal soggetto privato Per quanto concerne il secondo elemento di 48

disciplina, quello della sottrazione del rapporto tra società ed istanza politicoamministrativa a qualunque regolamentazione previamente definita o definibile attraverso procedimenti pubblicistici, parrebbe che da esso possano in astratto scaturire due conseguenze di segno diametralmente opposto: quella di un'autonomia effettiva della società nella determinazione dei criteri della gestione del servizio, e quella di una compenetrazione tra istanza imprenditoriale ed istanza politico-amministrativa così intensa, da porre in discussione le aspettative di una condotta efficiente nella gestione del servizio. L'assenza di un'ingerenza pubblicistica potrebbe quindi tradursi in uno stimolo alla partecipazione del privato alla determinazione negoziale della condotta imprenditoriale; o, invece, significare la permeabilità della società ai condizionamenti provenienti dalla sede politica e, quindi, inevitabilmente, far prevalere criteri erogatori su criteri imprenditoriali di gestione, costituendo un deterrente per l'impresa privata a prendere parte ad un progetto privo di prospettive serie di remunerazione del capitale investito. E difficile prevedere quale delle due strade sarà imboccata: presumibilmente sull'esito finale incideranno variabili molteplici legate alla natura del servizio da erogare, alle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale del territorio, alle politiche delle forze di maggioranza del dato ente locale ecc. La doverosa cautela nell'esprimere ogni giudizio al riguardo, tuttavia, non deve far dimenticare che nel trentennale dibattito dedicato alle imprese a partecipazione statale, e al problema cruciale del contemperamento tra obiettivi pubblici e regole di gestione imprenditoriale, è ormai consolidata la convinzione che una gestione efficiente esige ditenere separate tra loro l'istanza politica e quella imprenditoriale, attraverso una rigorosa


definizione delle rispettive sfere di competenza 14 . D'altro canto, nei periodi nei quali la linea di confine tra questi due momenti si è attenuata, quasi inevitabilmente l'istanza politica

NOTE Cfr. S. CASSESE, Le imprese pubbliche dopo le privatizzazioni, Relazione al convegno The State and the Market in Economic Development, Sao Paulo, 25-26 Ottobre 1990, dattioscritto. 2 Ci si riferisce in particolare al progetto sulle cosiddette privatizzazioni presentato recentemente dal comune di Bologna. Come si legge nella relazione presentata in consiglio comunale il 19 febbraio 1990 dall'assessore alla pianificazione, bilancio e controllo di gestione, esso muove da un intento politico più generale: "potenziare fortemente il ruolo di governo del comune e restringere l'area della gestione diretta ai servizi di carattere strategico con modalità meno burocratiche di quelle attuali e più aperte alla collaborazione degli utenti e del volontariato". L'obiettivo è quello di sottoporre ad un riesame complessivo tutte le attività svolte dall'amministrazione comunale per verificare, in una logica di pianificazione, l'opportunità di mantenerle in ambito pubblico. Si prende, anzi, esplicitamente atto dei limiti finanziari e organizzativi cui è sottoposto l'ente comune e della conseguente necessità di compiere delle scelte rigorose che consentano il dispiegamento delle risorse verso nuovi settori di intervento meritevoli di attenzione. La privatizzazione viene presa qui in considerazione nel duplice senso del mutamento dell'assetto proprietario delle imprese e del modello organizzativo di gestione. La privatizzazione nel primo senso concerne due sole ipotesi: quella delle farmacie comunali e quella del macelo bestiame. Per il resto si manifesta l'opportunità di superare le forme di gestione pubblicistiche per affermare l'applicazione delle norme del diritto comune. Si parte, infatti, dalla constatazione che il sistema dei controffi previsti dal diritto pubblico e i vincoli stabiliti dalle leggi per i procedimenti e la gestione del personale non consentono il perseguimento di risultati aziendali ottimali. Per raggiungere tale obiettivo viene proposta una strategia flessibile basata sulla ricerca di una linea di demarcazione tra funzioni di pianificazione (proprie dell'ente comune) e

ha preso il sopravvento e l"economicità di gestione", pur indicata quale regola di condotta dal legislatore del 1956, ha fatto posto alla logica degli "oneri impropri" e ai condizionamenti puntuali da parte dell' "azionista occulio".

funzioni digestione (da attribuire, sulla base di una valutazione da compiersi caso per caso, alla gestione diretta, ad aziende speciali, a società per azioni da costituire). Secondo tale orientamento sono stati individuati alcuni settori strategici (servizi educativi, socio-ambientali e sanitari) per i quali deve prevalere, in linea di massima, la gestione diretta; altri settori (gestione del patrimonio immobiliare, del centro di calcolo, dei servizi pubblici relativi ai trasporti e all'ambiente) per i quali si manifesta l'intenzione di passare dalla gestione diretta o tramite aziende, alla costituzione di società per azioni a totale o prevalente capitale pubblico; ulteriori settori (specie quelli di carattere strumentale dell'attività comunale) per cui pure si prevede la costituzione di SPA, con partecipazione del comune condizionata all'esistenza presso l'amministrazione di capacità professionali o di impianti da utilizzare. Per una puntuale descrizione del processo normativo

indicato, cfr. G. Minieri, La trasformazione dell'azienda municipalizzata in SPA: problemi giuridici e pro spettive alla luce della Legge 8giugno 1990, n. 142, Relazione al Convegno La trasformazione delle aziende municipalizzate in imprese autonome, organizzato dall'sTA, Torino, 22 e 23 novembre 1990, dattioscritto; M.A. Venchi, I servizi pubblici e le forme associative di cooperazione, Relazione al Corso di Aggiornamento su Nuovo ordinamento delle autonomie locali, Roma 29-31 ottobre 1990, dattioscritto; F. Merusi, I modelli digestione dei servizi pubblici locali, in «Amministrare», 1988, p. 131; in generale sulle trasformazioni dell'impresa pubblica, si rinvia al famoso Scritto di MS. Giannini, Le imprese pubbliche in Italia, in «Rivista delle società», 1958, p. 227;

e ancora S. Cassese, L'impresa pubblica: storia di tn concetto, in L 'Impresa (Quaderni romani di diritto commerciale), Giuffrè, Milano 1985, p. 169 e ora in S. CasseSe, È ancora attuale la legge bancaria del 1936?,La Nuova Italia scientifica, Roma 1987, p. 199.

Cfr. M. Mazzarelli, Le società per azioni con partecipazione comunale in «Quaderni di giurisprudenza commerciale» n. 89, Giuffrè, Milano 1987; M. Cammeffi,

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Le società a partecipazione pubblica nel sistema locale, in Pubblico e privato, Rapporto Cer-Censis sull'economia italiana, voi. I, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano 1987,

p. 433; idem, Le società a partecipazione pubblica. Comuni, province e regioni, Maggioli, Rimini 1989. Cfr. M. Cammeffi, Le società, cit., p. 28. 6 Cfr. M. Cammeffi, Le società..., cit., p. 29. Cfr. M. Cammeffi, Le società..., cit., p. 31. 8

Ricerche meno recenti - l'una richiamata da A. Bar-

dusco, Le diverse forme di gestione dei servizi pubblici, in La gestione intercomunale dei servizi, Quaderni ASM, Milano 1985, p. 27, l'altra in B. Bosco, Partecipazioni comunali in società azionarie, in Studi in onore di Cesare Grassetti, Giuffrè, Milano 1980, voi. I, p. 151 - avevano quantificato, con riferimento agli anni '60 e '70 nel numero rispettivamente di 150 e 72 i casi di partecipazione comunale a società azionarie. Indagini più recenti hanno riguardato singole aree, come quella condotta

da G. Endrici, L 'azionariato lòcale tra pubblico e privato, in «Il diritto della regione», 1988, p. 205, con riferimento alla regione Emilia Romagna, da cui risulta l'esistenza nella regione di 39 società. Cfr. C. Lorenzetti, Le società per azioni con partecipazione degli enti locali in AA.VV., Atti della ricerca sugli interventi pubblici nell'economia a livello locale, diretta da G.Vignocchi, Modena 1976, p. 71. Per quanto concerne, in particolare, le ipotesi di partecipazione privata rilevante, tra le meno recenti, va segnalata quella della società per azioni concessionaria consortile dell'autostazione di Bologna, cui partecipano, oltre a comune e provincia anche, per il 25%, i concessionari privati di autolinee; la società azionaria gestioneaereoporto di Torino (SAGAT SPA) cui partecipa la FIAT

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con il 25% del capitale. Tra gli esempi più significativi di società per azioni alle quali partecipino più enti pubblici territoriali o non (anche consorzi pubblici, camere di commercio, etc.), sisegnalano queffi delle società che gestiscono le metropolitane di Milano e Torino, cui partecipano con quote di minoranza, rispettivamente, la società per l'aereoporto della Malpensa, e la provincia di Torino, l'Ad, la Camera di Commercio ecc. lo Cfr. G. Minieri, La trasformazione... cit. 11 "Questi orientamenti giurisprudenziali sono ora riassunti nella recente sentenza della Sez. V del Consiglio di Stato, 14 dicembre 1988, pubblicata in <,Foro amministrativo», 1988, p. 3632. 12

Un caso significativo è quello della società. SOGECO, nella quale ad una partecipazione azionaria del comune di Bologna pari al 92% del capitale corrisponde la nomina in Consiglio di amministrazione di 8 rappresentanti del comune, e di 7 rappresentanti degli altri soci. 13 Una previsione in tal senso, peraltro, è contenuta nel

disegno di legge, Ordinamento dei servizi pubblici degli enti locali, X Legislatura, Atti Senato n. 750; l'art. 25, infatti, nel prevedere che il servizio sia gestito da una società a prevalente partecipazione pubblica, riserva una espressa possibilità di deroga tramite programmi nazionali, regionali o locali. 14 La letteratura sul punto è molto estesa. Tra gli altri si può ricordare, P. Armani F. Roversi Monaco, Le partecipazioni statali. Un'analisi critica, Giuffrè, Milano

1977; A. Massera, Partecipazioni statali e servizi di interesse pubblico, Il Mulino, Bologna 1978; P. Saraceno, Partecipazioni statali, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXII, Giuffrè, Milano 1982.


Privatizzare: i significati, le tecniche, le proposte

Un dibattito in redazione

- Il tema della "privatizzazione" è stato più volte ripreso da «Queste Istituzioni» con una sistematicità che altrove non si è vista. Abbiamo infatti già pubblicato rassegne delle esperienze fatte in altri paesi europei e abbiamo esaminato il fenomeno, chiamiamolo, più che di privatizzazione, di dismissione nell'area delle partecipazioni statali negli ultimi anni. Il tema "privatizzazione" è di quelli che hanno colorato le politiche pubbliche negli anni '80 nei paesi occidentali, ed è stato un po' un tema bandiera e quindi molto spesso anche un discorso ideologico. Ideologici sono stati spesso i "sì", tipica al riguardo soprattutto l'esperienza thatcheriana, ma anche quella degli Stati Uniti nell'area degli enti locali. Altrettanto ideologici i "no", e mi pare che Filippo Cavazzuti abbia contestato il riflesso condizionato che molto spesso ha la sinistra storica, ma non solo questa, nei confronti ditale tema: un "no", spesso non esplicito, un po' viscerale e certo molto radicato. «Privatizzazione» naturalmente si presta a queste valenze ideologiche anche come espressione, essendo un'espressione di quelle tipicamente polisense, esposte a semplificazioni facili, per esempio alle semplificazioni, diciamo così, "viste da destra", in cui privatizzazione dei ruoli si riduce a una generica preferenza per il privato (idea abbastanza indistinta) che non si accompagna ad una preferenza per il mercato e le sue regole. Comunque non è di questo, per stile e per IL

DIRErFORE

lunga professione metodologica della rivista, che vogliamo occuparci. Preferiamo occuparci di politica delle privatizzazioni nel senso più contenutistico e metodologico, cioè di privatizzazioni comé un campo di public policy, come un'area in cui bisogna specificare obiettivi, tecniche, metodi complessivi. Ci interessa, dunque, non discutere sui sì e sui no, ma su quali metodi e in quale aree. In dottrina sono stati attribuiti almeno quattro significati al termine "privatizzazione". Il significato più generico è quello di privatizzazione come snellimento del pubblico, cioè tutto ciò che sia trasferimento di un servizio, di un bene, di un'operazione, di attività da un soggetto pubblico incardinato nelle pubbliche amministrazioni (in senso ampio o in senso stretto) a soggetti o organizzazioni private. E questo, certamente il significato più generale e generico. C'è un secondo significato che riguarda specificamente il campo delle imprese, cioè il passaggio ai privati di tutta o parte della proprietà di imprese pubbliche. Questa, per esempio, è una problematica tipicamente europea molto più che americana, data la consistente presenza nella storia di questo secolo, soprattutto nel dopo guerra anche in aree differenti come il Regno Unito, l'Italia o la Francia, di grossi settori di imprese pubbliche. Molto meno tale significato tiene conto di esperienze americane, dove questo settore delle imprese pubbliche è più limitato 51


da sempre. C'è poi il terzo significato che riguarda la vendita di beni e di patrimoni dello Stato, del pubblico, ma soprattutto di patrimoni immobiiari. C'è, infine, il significato della privatizzazione per contratto, quello che gli americani chiamano contracting out cioè quello che per noi è tutto il settore e l'uso di concessioni, appalti e quant'altro. Forse c'è da aggiungere un quinto significato, molto specifico per l'Europa a diritto napoleonico, cioè il passaggio da diritto amministrativo a diritto privato di organizzazioni di beni e servizi. Come parentesi, ma come parentesi che oggi assume particolare rilievo, vorrei ricordare come il tema della privatizzazione, abbia abbastanza poco, o forse addirittura non abbia, riguardato la Germania, e questa è una circostanza di notevole momento data l'evoluzione e dato il ruolo dell'ordinamento e del sistema economico tedesco in Europa. Ciò è dovuto anche alle stesse particolarità delle istituzioni e dell'economia tedesca, nonchè a originali istituti lì presenti, che poi sono al centro della controversia sulla possibilità o meno di armonizzare il diritto delle società in Europa su base comunitaria. Non è questo il momento per approfondire il tema, però a me sembra che la cosa debba pur essere oggetto di riflessione, insomma per la Germania il tema «privatizzazione» si è aperto solo da sei mesi, da quando c'è il problema di come privatizzare il sistema nell'Est. Detto tutto ciò, mi pare che oggetto specifico di una riflessione dovrebbe essere la questione delle regole. Privatizzare, infatti, è già un'operazione, per quel che si è accennato, di grosse difficoltà; in ogni caso ha bisogno per essere tale, in senso proprio, di particolari regole e credo, che questa debba essere un'opzione da fissare in

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anticipo. Porre la questione delle regole significa anche porre un'opzione forte, perchè la politica di privatizzazione sia anche una politica di costruzione reale del mercato; quindi i due aspetti devono essere tenuti assolutamente presenti. Ovviamente ogni area e ogni privatizzazione, nei vari significati sopra definiti, ha le sue caratteristiche e non può che avere in qualche misura le sue regole, non ultime quelle imposte dall'ordinamento comunitario. Si pensi al campo della privatizzazione per contratto cioè dell'assetto giusto, pubblico o privato, nella produzione di servizi pubblici, campo questo che ha avuto un suo ciclo di prove e di tentativi fatti proprio nell'esperienza americana, dove privatizzazione è stata in gran parte quella fatta in area locale. Si pensi poi, sempre per la privatizzazione in area locale, al problema del quinto significato su accennato, cioè il passaggio da diritto amministrativo a diritto privato di una organizzazione economica. C'è una legge molto discutibile come la n. 142/1990 sulle autonomie locali, legge dello scorso anno, legge di principi nel campo dell'organizzazione dei servizi. La legge dà pieno riconoscimento alla legittimazione della forma e del modello societario della società per azioni nell'organizzazione dei servizi pubblici. Naturalmente poi si può discutere nel merito dei limiti di questa costruzione, che rimane costruzione a prevalenza pubblica. È da ricordare anche il riconoscimento attraverso questa legge delle aziende speciali come aziende con propria personalità giuridica, personalità che prima non avevano essendo aziende che gestivano per conto dei comuni senza propria personalità. Finora abbiamo dedicato meno attenzione al tema della politica delle privatizzazioni come possibile strumento di gestione del debito pubblico. Sull'argomento mi è parso che


in questi anni ci siano state più asserzioni, più affermazioni, più indicazioni di larghissima massima che passi concreti. Inviterei oggi ad accentrare l'attenzione sul tema della privatizzazione delle imprese pubbliche, secondo la tecnica molto colloquiale dei nostri incontri in redazione, con l'apporto di conoscenze, di novità, di riflessione e di informazione. - Come base per la discussione vorrei presentare l'articolo scritto in collaborazione con Moglia e pubblicato in questo dossier. Esso si compone di due parti. La prima è una rassegna aggiornata, rispetto agli articoli pubblicati sulla rivista negli anni precedenti, delle esperienze di privatizzazione in Gran Bretagna e in Francia con attenzione, a distanza di tre anni, non tanto alle leggi e ai programmi governativi, quanto alle critiche e alle valutazioni che dell'attuazione di tali programmi sono state fatte. Una seconda parte dell'intervento ha invece scopi propositivi, nel senso che illustra possibili regole di privatizzazione anche tenendo presenti taluni errori o comunque punti critici delle esperienze straniere. Si tenta in sostanza di disegnare delle procedure che si spera rispondano, per quanto possibile, ai due interessi pubblici - la congruità e la trasparenza - che ogni privatizzazione deve realizzare a prescindere dagli obiettivi di politica economica che la stessa si propone. Per quanto riguarda la prima parte, l'articolo sintetizza i risultati, per quel che concerne la Francia, di un rapporto predisposto da una commissione della nuova assemblea legislativa per esaminare il modo in cui era stata portata avanti la politica di privatizzazione (commissione naturalmente istituita dopo la rielezione di Mitterand), e per la Gran Bretagna, di un documento di carattere assolutamente tecnico predisposto per conto RENZO RISTUCCIA

della House of Commons, dal NationalAudit

OfJìce. Del rapporto dell'assemblea nazionale francese, tra l'altro, abbiamo preferito non esaminare i profili più squisitamente politici e quindi tutti i presupposti ideologici, che pure vi sono in questo documento, sono stati soltanto menzionati. Ci siamo più che altro soffermati su due punti: il primo è che il programma di privatizzazione non ha soddisfatto alcun interesse di politica del debito pubblico in quanto non ha dato allo Stato quegli introiti che dal valore delle aziende privatizzate ci si poteva aspettare. Ciò, secondo il rapporto, è dovuto essenzialmente alle procedure di vendita che sono state utilizzate. Come molti di voi ricorderanno le nazionalizzazioni in Francia sono avvenute vendendo le imprese in due tranches: da una parte si vendeva il pacchetto di maggioranza ai cosiddetti nuclei duri e cioè a una serie di imprenditori legati tra loro da una sorta di patto di sindacato che assicuravano allo Stato una gestione coerente e costante negli anni successivi alla privatizzazione. La rimanente franche veniva offerta al pubblico ad un prezzo fisso e il pubblico non aveva la possibilità di acquistare più di un certo numero di azioni. Fra l'altro in molte di queste operazioni di privatizzazione la domanda è stata talmente forte che si è dovuto procedere ad un riparto delle azioni assegnate al pubblico tale che alla fine ogni azionista aveva veramente un quantitativo irrisorio. Dunque come venivano pagati i nuclei duri e cioè le partecipazioni di controllo, le partecipazioni sostanziali? Venivano pagati con una maggiorazione decisa dal Ministero del Tesoro di un 10-15% sul prezzo dell'opv cioè dell'Offerta Pubblica di Vendita. L'offerta pubblica di vendita avveniva però ad un prezzo piuttosto basso: questo non tanto per il noto fatto che nelle offerte pubbliche il 53


prezzo è tendenzialmente basso, perché si vuole assicurare la riuscita dell'operazione e quindi si vuole che tutte le azioni siano comprate, quanto per la connotazione politica dell'operazione voluta dal governo Chirac per acquisire consenso attraverso la distribuzione di beni pubblici che poi potevano essere rivenduti in borsa, immediatamente dopo, con ampio profitto per i sottoscrittori. Tutto sommato lo sconto fatto nel prezzo di offerta pubblica compensava il premio pagato dai nuclei duri, per cui la vendita è avvenuta a valori inferiori a quelli stimati da banche di investimento e confermati ex post dai corsi di borsa degli anni successivi. Su questo punto non solo è intervenuto il rapporto dell'assemblea nazionale ma è anche intervenuto un rapporto tecnico della Corte dei Conti francese. Un'analoga critica sull'underpricing, quindi sulla possibilità che il patrimonio dello Stato non sia stato venduto ai valori che si potevano realizzare, si è registrata in Inghilterra in misura decisamente inferiore, forse proprio perché le tradizioni finanziarie di stima delle imprese, in quel paese, assicuravano in qualche modo all'operazione dei criteri più rispondenti al valore reale dell'impresa. Diciamo che in Inghilterra l'underpricing è dovuto essenzialmente a scelta politica, ovvero si poteva evitarlo, ma il governo conservatore si riprometteva di ottenere il consenso dei possibili sottoscrittori, quindi dei piccoli risparmiatori che poi lucravano un capital gain rivendendo nei mesi successivi azioni in regime di prezzi in rialzo. La cosa interessante che emerge dall'analisi inglese è che questo tipo di sottovalutazione dell'impresa pubblica nel corso del procedimento di vendita non risulta nei pochi casi in cui invece dell'opv, cioè di una vendita a prezzo fisso predeterminata da consulenti, iritermediari ecc., si è invece utilizzato il sistema dell'a54

sta. L'asta ha consentito di alzare il prezzo di vendita e quindi, in qualche misura, di permettere allo Stato di ricavare maggiori introiti dall'operazione di privatizzazione. Direi che un altro fatto positivo dell'esperienza inglese, rispetto all'esperienza francese, è stato che in Inghilterra non si è verificata una negoziazione con gruppi di privati, con dei nuclei duri e quindi la privatizzazione è stata più trasparente. Chi ha acquistato lo ha fatto perché ha pagato e non perché era amico del Ministro del tesoro. Quindi, mentre in Francia si rimprovera all'operazione di privatizzazione di aver ricreato un capitalismo alla francese, che poi è un capitalismo all'italiana, cioè di poche famiglie che controllano le imprese, tutto sommato in Inghilterra questo tipo di critica non sussiste (però è anche vero che l'Inghilterra è il paese delle public companies e quindi non si vede perché questa non dovesse essere la sorte delle ex imprese pubbliche). Vorrei solamente aggiungere, per quanto riguarda l'esperienza inglese, che in vari casi, ma in uno in particolare cioè nel caso della vendita della Rover alla British Aerospace ( vendita peraltro eccezionalmente avvenuta non sul mercato bensì a trattativa privata), è intervenuta, similmente a quanto accaduto in Italia per la vendita dell'Alfa Romeo o in Francia per talune operazioni sul capitale Renault, una indagine della Commissione CEE per vedere se nel prezzo di vendita svalutato o comunque nel ripianamento dei debiti e delle perdite contabili della società privatizzanda, non fosse intervenuto surrettizziamente un aiuto di Stato espressamente vietato dal trattato CEE. Questa è una tematica che non abbiamo trattato diffusamente nel paper, ma che è particolarmente interessante, anche alla luce delle intenzioni del Commissario della concorrenza Leon Brittan, che vorrebbe imporre alla Commissione la trasmissione di tutti i bilanci


delle imprese pubbliche, in modo da verificare che non sia violato l'art. 92 del trattato che appunto vieta gli aiuti di Stato. È interessante che a tale intenzione venga obiettato che gli aiuti di Stato in realtà possono transitare attraverso i bilanci anche per imprese di proprietà privata e non solo per. imprese pubbliche e che quindi se comunicazione dei bilanci alla commissione CEE vi deve essere per tutte le imprese senza distinzione. Questo aspetto dei profili di contatto tra ordinamento comunitario e politica di privatizzazione è un altro tema che mi sembra interessante. - La seconda parte del nostro lavoro introduce invece degli spunti di riflessione per una politica di privatizzazione in Italia, che riassumerò qui analizzando più gli aspetti di tipo tecnico, che non quelli, altrettanto interessanti, sulle complicazioni giuridiche e tecniche per dare attuazione a tali principi. Abbiamo tra le altre cose due testi di legge presentati in Parlamento: uno del Sen. Cavazzuti e l'altro della maggioranza (Sen. Forte ed altri) quindi nella discussione penso si potrà ampiamente individuare quali siano le difficoltà di tipo tecnico-giuridico e quali scelte politiche siano state fatte nei due disegni di legge. Il primo problema che ci siamo posti, pensando ad una politica di privatizzazione in Italia, riguardava la forma societaria dell'impresa da privatizzare. Sappiamo che l'Italia ha una lunga tradizione di industrie pubbliche gestite attraverso enti pubblici economici, aziende autonome ecc., ci si poneva quindi il problema se si dovesse vendere il bene così com'è, o se fosse necessaria prima una trasformazione da ente pubblico in società per azioni e poi una collocazione nel mercato delle azioni della società stessa. La nostra

GIOvANNI MOGLIA

preferenza è evidentemente per questa seconda soluzione, anche perchè sicuramente alcuni scopi della privatizzazione possono essere raggiunti solo attraverso la vendita di azioni: per esempio l'ispessimento di un mercato finanziario in Italia, o la possibile ricapitalizzazione di società che rimangono in mano pubblica, o, ancora, la vendita di minoranze di azioni. La seconda ragione che ci fa preferire la trasformazione in società per azioni è la possibilità che una politica di privatizzazione possa rendere più efficiente il pubblico, consentèndo una gestione migliore di quelle imprese che rimangono in mano pubblica. Qui potrei solo sottolineare, volendo lasciare l'approfondimento del problema in sede di discussione più avanti, che questa trasformazione degli enti in SPA è avvenuta con forme discutibili. Ne abbiamo accennato nel nostro lavoro, ma credo che quando si parlerà delle prossime esperienze italiane, soprattutto delle trasformazioni delle banche in SPA e della vicenda Enimont, si potrà analizzare meglio l'argomento. Trasformare un ente pubblico in SPA potrà permettere anche la rivalutazione del patrimonio dell'ente pubblico e quindi un'iscrizione nel bilancio di apertura di cespiti rivalutati in esenzione di imposta. L'altro punto su cui ci siamo soffermati riguarda le modalità con cui, una volta trasformati gli enti pubblici in SPA, si debbano vendere pacchetti azionari. Qui bisogna accennare ad una possibile divisione dei compiti tra azione di governo e azione legislativa, mentre è ovvio che al governo spetta il compito di decidere cosa vendere e quanto vendere, spetta probabilmente alla legge disciplinare le modalità di vendita, tenendo conto della difficoltà di accertamento del prezzo di vendita. L'esperienza, ad esempio delle fusioni che in Italia vengono svolte con 55


una cadenza abbastanza frequente soprattutto tra società quotate in borsa, ci mostra come sia assolutamente arbitraria o difficilmente giustificabile, in senso assoluto, la scelta del criterio con cui si soppesano i patrimoni delle due società e come di fatto prevalgano le scelte di politica del gruppo di controllo a danno degli azionisti di minoranza. Quanto alla vendita occorre creare un sistema che garantisca la trasparenza degli scopi della privatizzazione, l'imparzialità con cui si scelgono gli acquirenti e l'equità del prezzo. C'è sembrato che la metodologia che garantisce maggiormente questi tre scopi sia l'asta o il procedimento per vendita a incanto, questo anche in armonia con i principi generali in materia di contratti nella pubblica amministrazione da cui derivano entrate per lo Stato. Se in astratto l'asta è sicuramente, quanto a imparzialità e quanto a prezzo, la tecnica migliore, non si può però nascondere la presenza di forti obiezioni: vendere un'impresa non è come vendere un bene qualsiasi, la trattativa è complessa, si pongono problemi di occupazione, di destino dell'attività imprenditoriale ecc.. Queste difficoltà però ci sembra possano essere superate attraverso una dettagliata previsione contrattuale del bando d'asta, dove, anche attraverso i primi contatti con i possibili acquirenti, si può determinare e specificare quali siano gli oneri che l'acquirente si deve sobbarcare, per esempio in materia occupazionale o in materia di stabilimenti produttivi nel mezzogiorno. In questo modo l'asta avviene solo sul prezzo, quindi con assoluta imparzialità da parte dell'amministrazione pubblica sia sull'acquirente che sul prezzo finale. Una seconda critica che viene rivolta all'asta è quella connessa che l'acquirente non disporrebbe delle necessarie informazioni specifiche; cioè, si dice, in una trattativa pri-

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vata l'acquirente può man mano conoscere i bilanci, parlare con il management per sapere quali sono i difetti e i pregi delle imprese. Questo è vero solo se si pensa a un'asta senza informazioni, ma non si riesce a capire perché la procedura debba necessariamente essere questa. In altri termini prima e contemporaneamente all'uscita del bando d'asta potrebbero essere date tutte le informazioni necessarie. Ad esempio attraverso un prospetto, reso pubblico, che le contenga, anche qui sentendo magari i possibili acquirenti ed orientando le informazioni a seconda dei desideri da questi espressi. C'è poi un'obiezione più consistente che afferma che l'asta consente di ottenere per il pubblico un prezzo più alto, consente una trasparenza della procedura, ma che mal si possono attuare gli scopi della privatizzazione, per esempio quello della diffusione tra il pubblico di azioni, oppure quello della creazione di una public-company. Infatti non è possibile impedire l'acquisto di un pacchetto di maggioranza o della totalità delle azioni da parte di un solo soggetto. Anche queste obiezioni pensiamo possano essere aggirate giocando su diversi possibili meccanismi d'asta. Si possono ad esempio fare aste di pacchetti azionari di minoranza (pacchetti del 2 o 5%) con un divieto espresso di acquisto di più pacchetti (Mediobanca poteva essere privatizzata attraverso questo sistema). Per la diffusione dei titoli tra il pubblico può essere attuato un sistema di asta marginale, cioè la vendita prima di un 20% delle azioni in pacchetti del 2-3% a prezzi scalari e all'ultimo prezzo soddisfatto vendere l'80% in offerta pubblica dando, quindi, all'offerta pubblica un prezzo di riferimento che è minore del prezzo medio di quanto hanno acquistato gli azionisti di riferimento, ma è sicuramente più attendibile di un prezzo di offerta pubblica deciso a tavolino. Un'ultima


obiezione viene mossa all'asta: essa rappresenterebbe un sistema macchinoso e soggetto a possibili manipolazioni. Ora, questa sembra un'ulteriore obiezione fatta solo per difendere a spada tratta il sistema di trattativa privata, più che un'obiezione reale; la f aticosità e la macchinosità di un sistema ad asta è evidente, ma è anche evidente che vendere cose che sono di proprietà pubblica richiede delle garanzie di tipo diverso rispetto a quando un privato aliena una sua proprietà. Sulle possibilità di manipolazione queste sono evidenti, ci possono essere, ma non sembrano certo maggiori delle possibili collusioni che possono instaurarsi tra l'amministrazione e l'acquirente in un sistema a trattativa privata. PIETRO SPIRITO - Partirei dalla constatazione di un'anomalia: nel nostro paese da decenni si parla tantissimo del tema delle privatizzazioni e poi, invece, c'è una letteratura molto lacunosa sui criteri di valutazione delle imprese pubbliche. Che sia una questione latitante è piuttosto strano, alla luce del fatto che la nostra scuola aziendalistica ha una tradizione molto forte nel panorama internazionale. E singolare vedere che, se da un lato c'è tanto materiale, tanta letteratura sulla valutazione d'impresa in generale, intendendosi per impresa quella in mano ad un privato, dall'altro non c'è invece riflessione su quali siano le specificità di valutazione di un'impresa pubblica. Questo intervento è strutturato in due parti, prima una sintesi sullo stato dei criteri, dei metodi che sono utilizzati per la valutazione delle imprese dalla scuola aziendalistica e, successivamente, un tentativo di estenderli al caso delle imprese pubbliche. Dal punto di vista della finalità una valutazione d'impresa può partire da tre criteri differenti: innanzitutto dalla determinazione

del valore soggettivo di una impresa. Per valore soggettivo si intende il valore di un'azienda nella prospettiva della sua acquisizione per intero o per una sua specifica parte. Dunque con questa espressione si intende la misura dell'interesse del compratore ad acquistare una attività economica per integrarla con la propria. Altro punto di partenza può essere la determinazione del valore generale di una impresa. Per valore generale si intende il valore del capitale di un'azienda che, in condizioni normali di mercato, può essere considerato congruo trascurando questa volta la natura delle parti, la loro forza contrattuale, gli specifici interessi che entrano in gioco in una trattativa per la cessione o per l'acquisizione di una impresa. In questo caso si parla di stima del capitale economico di una azienda. Infine, l'altro punto di partenza può essere la determinazione del prezzo. Quest'ultimo invece, riflette fenomeni di carattere contingente e cioè è dato dall'incontro tra la domanda e l'offerta e dalle motivazioni diverse che spingono verso la cessione o l'acquisto di una attività economica. Nel caso delle imprese pubbliche, l'impressione che ho avuto è che in realtà, nella determinazione del valore dell'impresa pubblica che viene privatizzata, finora si è adottato soltanto il criterio del valore soggettivo del compratore privato, cioè del valore d'uso, vale a dire il valore che fissa condizioni d'acquisto sulla base della convenienza del privato a incorporare le imprese pubbliche nella struttura aziendale. L'autorità pubblica si è limitata fino ad oggi a riservarsi il diritto di fissare alcune condizioni generali a salvaguardia di interessi ritenuti meritevoli di tutela. In linea di massima si è trattato di condizioni che ponevano l'acquirente in grado di perseverare il livello occupazionale dell'impresa. 57


In altri ordinamenti non è così, in particolare negli Stati Uniti esiste un organismo governativo che adotta una propria definizione di valore ragionevole di mercato. A questa definizione devono adattarsi le stime che vengono fatte sul valore di mercato di una impresa pubblica passibile di privatizzazione. Vi è dunque un'individuazione di criteri contabili che servono alla fissazione del prezzo di cessione di una impresa dallo Stato ai privati. Ora la mancanza di questo criterio generale, nella determinazione del valore di mercato dell'impresa pubblica, è complicata ulteriormente da specificità che sono proprie dell'impresa pubblica italiana. Ad esempio nel caso dell'Ente Ferrovie dello Stato, la determinazione del valore di mercato, necessaria anche per costruire uno stato patrimoniale che risponda alle normative del codice civile, è praticamente molto complessa. Infatti la legge di riforma n. 210 del 1985 che ha teoricamente trasportato l'ente dalla contabilità pubblicistica della ex azienda autonoma alla contabilità di una impresa privata, lo ha fatto dando in proprietà all'ente i beni che erano prima proprietà dello Stato e dell'ex azienda autonoma. Tuttavia tale trasferimento è stato attuato attraverso procedure di passaggio estremamente macchinose, al punto che, a cinque anni dall'approvazione della riforma dell'Ente risultano di proprietà dell'Ente ferrovie, dello Stato soltanto la metà dei questi beni, mentre la proprietà degli altri beni è ancora in capo allo Stato. Ne segue che, se si va ad esaminare lo stato patrimoniale dell'ente Ferrovie, si vede che attualmente nei conti d'ordine, e quindi non nella parte valorizzata dei beni d'impresa, sono contabilizzati circa 23.000 miliardi di beni che risultano ancora di proprietà dell'ente Ferrovie dello Stato, ma per i quali l'ente deve sostenere i costi. C'è quindi una situazione patrimoniale per la quale, da un lato, 58

non si può formare un'attività dello stato patrimoniale che abbia un senso economico perché l'Ente Ferrovie è proprietario di alcuni beni di valore economico anche molto rilevante, come sono i piazzali delle stazioni delle grandi città italiane, che sono contabiizzati a valore zero nello stato patrimoniale, perché non sono né passati sotto la competenza dell'ente, né valorizzati secondo i propri valori di mercato; d'altro canto, paradossalmente, nel conto economico le Ferrovie devono sopportare i costi per mantenere beni dei quali non risultano ancora proprietari. Quindi, la gestione economica di questa impresa risulta molto difficile perché non è possibile formare un capitale sociale che, nella prospettiva di una trasformazione dell'ente in società per azioni, abbia un senso. Sempre nella complessa e variegata realtà ferroviaria, merita menzione un altro caso di anomalo tentativo di privatizzazione, quello della CIT. La CIT è una compagnia di turismo, l'unica compagnia italiana che riesca a registrare corposissime perdite di conto economico in un settore in cui tutti guadagnano. Ma l'anomalia singolare è la procedura fissata nel 1985 dal vecchio consiglio di amministrazione (costretto poi alle dimissioni) in base alla quale l'azionista di assoluta minoranza, cioè quel Patrucco che possiede con la sua ATF lo 0,16% del capitale della CIT (il resto è nelle mani delle Ferrovie) godeva di un diritto di prelazione all'acquisto del capitale della CIT nel caso di privatizzazione della società. Ora è evidente che si trattava semplicemente di un favore che veniva fatto ad un signore che aveva influenza politica e legami singolari con Orazio Bagnasco. Il caso viene citato solo per dire che forse il convegno della Conf industria, dove Patrucco tanto tuonava per sostenere che la Confindustria è particolarmente attenta a fissare regole di privatizzazione che siano effi-


caci per garantire concorrenzialità ed efficienza al mercato, quando poi deve praticare le privatizzazioni preferisce seguire la vecchia regola italica per cui si predica bene ma quando si fanno gli affari è meglio farli con la trattativa privata e con le influenze di palazzo. Un ultimo punto riguarda le possibili distorsioni contabili che si possono verificare nel caso di valutazioni di una impresa pubblica. In generale, sia per le imprese private che per quelle pubbliche, si possono verificare tre casi che conducono ad una distorsione nella determinazione del valore di una impresa. Nel primo si possono sottovalutare i componenti patrimoniali attivi per far figurare un utile inferiore rispetto a quello conseguito; nel secondo caso si possono sottovalutare i componenti patrimoniali passivi e nel terzo caso si possono sopravvalutare i componenti patrimoniali attivi e sottovalutare i componenti patrimoniali passivi per far risultare un utile superiore o una perdita inferiore. Mentre nel caso delle imprese private gli esperti devono guardarsi soprattutto dalla terza eventualità che può essere posta in essere da un venditore interessato a disfarsi della propria impresa massimizzando il prezzo di cessione, paradossalmente il caso più probabile che può verificarsi per una impresa pubblica è il primo, vale a dire la sottovalutazione dei componenti patrimoniali attivi. Questo comportamento non corrisponde èvidentemente ad una logica di tipo economico ma rappresenta una conseguenza operativa della struttura, almeno a mio avviso, delle imprese pubbliche, le quali tendono a tenere basso il volume dei componenti patrimoniali attivi per ottenere dallo Stato risorse aggiuntive da destinare ad investimenti finalizzati e ad ampliare la dotazione di capitale. In altri termini un'operazione preliminare necessaria perché per le imprese pub-

bliche si possa giungere a una valutazione di mercato che sia congrua rispetto al valore effettivo dell'impresa, è probabilmente quella di una rivalutazione del patrimonio netto che serva a depurare questa distorsione contabile. E un po' un gioco inverso rispetto a quello che fa la Ragioneria generale dello Stato quando, nel trasferire alle imprese i fondi per la gestione corrente, preferisce inserirli come fondi in conto capitale per far figurare un maggior volume di investimenti quando invece si finanzia la spesa corrente. Per sintetizzare c'è stata una grande mistificazione ideologica, nel corso di questi anni, sulle privatizzazioni, che ha condotto a sottovalutare i problemi operativi e teorici che permangono in tema di dismissioni di attività economiche da parte del pubblico e che bisogna risolvere, ove non si voglia che privatizzare rimanga soltanto un atto di debolezza dello Stato nei confronti di privati. Non ci si deve meravigliare più di tanto, qui faccio una riflessione, se poi la FIAT non vende la Telectra all'rai e la vende ai francesi mentre, soltanto alcuni ani fa, l'rai preferì cedere l'Alfa Romeo alla FIAT per meri motivi di convenienza nazionale. È evidente che in questi anni si è manifestata una debolezza contrattuale dello Stato nei confronti dei privati, debolezza che deriva dall'assenza di regole e dall'utilizzazione dei metodi della trattativa privata. È necessaria una normalizzazione dei rapporti tra pubblico e privato che parta da un lato da chiare norme giuridiche per le dismissioni, dall'altro dall'individuazione di regole contabili capaci di determinare il valore di mercato di una impresa pubblica. FILIPPO CAVAZZUTI - Per il nostro incontro porterò l'esperienza parlamentare e di un esercizio teso a cercare di tradurre, in un provvedimento di legge, riflessioni fatte

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sull'esperienza di altri paesi. La cosa più curiosa è che non da oggi si parla di politiche di privatizzazione in Italia, tuttavia questo non si è mai tradotto, se non nei tempi più recenti, in proposte di tipo legislativo quasiché si potesse procedere a privatizzazioni a situazione legislativa invariata. Non mi risulta che in nessun paese si sia proceduto a forme di privatizzazione, siano esse diffuse o meno, senza un intervento legislativo. La Francia è il caso principe da questo punto di vista: vi è una legge sulle privatizzazioni con l'indicazione puntuale delle società che devono essere privatizzate, con una commissione per la privatizzazione e via di questo passo; ma la stessa esperienza inglese non ne è priva. Pur in quel contesto legislativo non di diritto napoleonico, un intervento in materia legislativa l'Inghilterra, nel suo processo di privatizzazione, lo ha dovuto inventare. Ad esempio con l'istituzione di un'azione del tutto speciale detta Golden Sbare. Allo stesso modo in Francia con l'Action Speciale si mutano le norme del codice del diritto comune riconoscendo ad un'azione che è l'l%, o una quota assolutamente minoritaria dell'assetto proprietario, poteri che esulano dal potere di comando associato a una quota minoritaria. La Golden Share ha sostanzialmente poteri di veto su alcune azioni che il management o gli amministratori volessero prendere su investimenti strategici. Quindi, neppure nel paese dove vige il massimo di non legificazione ci sono interventi che mutano il quadro giuridico. L'Italia, dicevo, è un caso molto singolare, nel senso che fino a qualche mese fa non esisteva nessuna proposta su questo pur vetusto tema. C'era una proposta Malagodi di un anno fa che prefigurava semplicemente la trasformazione in SPA di alcuni enti delle partecipazioni statali. C'era una proposta, anch'essa molto ridotta, mi pare di parte

social-democratica che diceva: "nel caso si voglia dismettere istituiamo una commissione presso la Presidenza del Consiglio". Inoltre, in maniera altrettanto singolare, pochissimi atti parlamentari, sia di fonte governativa che di fonte parlamentare, sono negli archivi. 11 governo da questo punto di vista non ha ancora immaginato un proprio disegno di legge in materia di privatizzazione, se si esclude una materia, di cui oggi non trattiamo, che è l'alienazione dei beni immobili. Allo stato dell'arte esiste semplicemente al Senato un disegno di legge di cui io sono il primo firmatario e un disegno di legge della maggioranza di cui primo firmatario è il Sen. Forte (quest'ultimo delega al governo sulla trasformazione di enti pubblici in società per azioni e sulle procedure da adottare, vi è inoltre qualche cenno sull'alienazione). In realtà, i due disegni di legge, il mio e questo della maggioranza, sono molti simili nella prima parte e hanno aspetti abbastanza in comune per cui posso illustrarli anche per conto della maggioranza pur stando all'opposizione. Io direi che muoversi in Italia nel processo di privatizzazione vuoi dire affrontare tutti i temi che Sergio Ristuccia ci ha indicato all'inizio. Il primo è quello della politica delle informazioni simmetriche o non, ogni problema di trasformazione richiede che alcune informazioni si diffondano sul mercato in modo simmetrico, altrimenti, qualunque processo determina la situazione in cui colui che gode di informazioni privilegiate rispetto ad altri impedisce a priori che si formi un mercato del bene da privatizzare. Il primo punto da affrontare è quello di una legge di principi. Abbiamo bisogno di una legge di principi che fissi le regole anche nell'ipotesi che si voglia alienare una sola azione e dunque a maggior ragione se si vuole alienare un intero comparto. La differenza evidente-


mente è solo di tipo quantitativo, ma le regole devono essere qualitativamente uguali. Il primo punto allora è questo: se riconosciamo che oggetto dell'alienazione non sono impianti in termini fisici, ma titoli di credito sotto forma di azioni, oltre al processo di trasformazione degli enti di gestione in società per azioni si richiede di mettere mano a molte altre norme. Infatti se noi immaginiamo di alienare delle azioni, queste andranno alienate sul mercato, dove esistono altre azioni prodotte da altri soggetti dichiaratamente privati. La prima cosa da stabilire è che le norme che governano quell'impresa, la cui azione è potenzialmente alienabile su1 mercato dal pubblico al privato, siano le stesse che regolano le imprese private. Se così non fosse, avremmo sul mercato delle azioni istituzionalmente governate da un sistema di norme diverse da quelle che governano le azioni private. Cosa che porterebbe il ripetersi di episodi come il collocamento delle quote BNL sul mercato di Londra, che fu un totale fallimento perché gli investigatori non capivano cosa erano le quote BNL, non capivano cosa era questa banca; insomma mancavano tutta una serie di informazioni importanti sui mercati come queffi mobiliari dove proprio le informazioni guidano la formazione dei valori. Quindi, non è solo un problema di trasformazione di IRI, ENI, EFIM, Ferrovie dello Stato in società per azioni, ma si tratta di eliminare anche tutte quelle norme che permettono ad un'impresa ancorché sotto la veste della società per azioni, di essere in realtà una società per azioni di diritto speciale. Si osservi la trasformazione delle banche pubbliche: si tratta, a parer mio, di un tentativo solo in parte riuscito, perché è vero che abbiamo la trasformazione in società per azioni delle banche, ma questa SPA non è una SPA di diritto comune ma una SPA di diritto

speciale. Per esempio nelle banche vi è il problema della riserva in mano al pubblico del 51%, quindi viene meno al mercato una informazione della possibilità del take-over, il che è assolutamente importante nella formazione di un valore di un prezzo di mercato. Sapere che per legge il 51% è in mano ad un settore pubblico vuol dire che nel mercato non si diffondono certe informazioni. Nel caso specifico degli enti a partecipazione statale, a parer mio, vuoi dire eliminare gli articoli del codice civile che riguardano i poteri di nomina degli amministratori e dei sindaci, da parte dello Stato, in società pubbliche anche non partecipate dallo Stato stesso. Inoltre non è pensabile che ci possano essere degli statuti che in qualche modo consentano, a differenza degli statuti delle società totalmente a diritto privato, di dare poteri agli amministratori normalmente non riconosciuti in termini di codice civile, quindi, poteri agli amministratori con connesse le sanzioni penali sull'azione di responsabilità o di irresponsabiità degli stessi. Non è dunque solo il problema della trasformazione in SPA degli enti, ma è anche il problema di ridurre il grado di "specialità" dell'azione della società per azioni e riportarla il più possibile vicino alle norme del diritto comune. Per esempio, in materia di SPA, diventa assolutamente importante l'adozione della direttiva CEE che impone la completa trasparenza delle relazioni finanziarie fra lo Stato in quanto potere e lo Stato in quanto proprietario. Voi sapete che, per la mancata attuazione di questa direttiva sulla trasparenza delle relazioni, il governo italiano è già stato denunciato alla Corte di Giustizia un certo numero di volte. I bilanci che circolano fra i sottoscritti di quelle azioni, ancorché di minoranza, hanno delle informazioni assolu61


tamente devianti rispetto all'immagine o al valore che si possono assegnare a quei bilanci stessi, laddove le relazioni sono tenute accuratamente nascoste. Non è, quindi, solo un problema di andare a togliere tutto ciò che, ripeto, farebbe una SPA di diritto speciale o una SPA di scarsa trasparenza. Qui occorre dare delega al governo, queste cose non si fanno a legislazione vigente, la legislazione va assolutamente modificata. Ciò vale anche per gli obiettivi della privatizzazione, tra i quali vi è quello di inspessire il mercato mobiliare. Sappiamo di avere un mercato mobiliare piccolo , asf ittico, che vive dentro una trappola dimensionale in cui è facile la speculazione e dove i prezzi non sono significativi. L'esperienza inglese, l'esperienza francese e quella spagnola insegnano che il mercato mobiliare si può in qualche modo inspessire se ad esso vengono cedute quote di azioni di imprese, banche, società, oggi nelle mani pubbliche. L'obiettivo è quello della creazione di un mercato mobiliare, dunque che le azioni rimangano nel mercato, che il flottante venga mantenuto (non come nel caso Enimont che a fronte di una norma di legge secondo lui ci deve essere il 25% del flottante, prima viene costituita una società dove solo il 20% è flottante, poi viene ridotto all'8% e la CONSOB non sospende il titolo). Dovremmo immaginarci una autorità la quale, a fronte di azioni raccolte sul mercato in violazione degli obiettivi della privatizzazione, sia in grado prima di impugnare le delibere prese e poi di imporre l'alineazione del pacchetto stesso. Una norma di questo genere, per esempio, c'è nel disegno di legge in materia di OPA. Non è che sia particolarmente fiero di aver proposto una commissione per la privatizzazione sull'esempio francese. E che non riuscivo a capire a chi assegnare questi poteri, 62

i poteri di cui vi ho accennato ed altri; mi è sembrato allora opportuno inventare un'alta autorità. (tipo alta autorità anti-trust su cui adesso abbiamo la legge definitiva) che avesse il compito di sorvegliare la trasparenza di tutte le procedure e dunque di interrompere procedure di dismissione laddove non venissero rispettate alcune norme. Non sono affezionato alla commissione, anzi queste cose tendono a non piacermi, però non ho avuto nessuno scatto di fantasia per riuscire ad immaginare a chi altro assegnare questi poteri. Ad esempio a chi affidare la congruità di valutazione del patrimonio iniziale? Dove infatti le valutazioni non siano congrue rispetto al patrimonio, si rischia di ripetere ciò che avvenne nell'altro secolo quando, a fronte della dismissione dell'asse ecclesiastico, il bilancio Minghetti si aspettava alcune centinaia di milioni di lire di allora. Mi pare di ricordare che nel 1873 erano 10 milioni tutto ciò che il bilancio aveva registrato. Valutare congruamente il patrimonio significa evitare che i furbacchioni si arricchiscano dalla dismissione di questo patrimonio. Anche per le tecniche di dismissione è necessario un intervento legislativo. Si possono comunque copiare delle norme, per esempio la norma del codice di procedura civile che, in materia di trattativa privata sull'alienazione degli immobili, consente il rilancio; quindi si faccia pure la trattatativa privata però, al termine di questa, tutte le condizioni devono essere rese esplicite e ci sono dieci/venti giorni di tempo per un terzo, se mai interessato, a rilanciare solo sul prezzo e non sulle altre condizioni. Credo che un'ipotetica legge, che volesse governare in questo settore, dovrebbe muoversi proprio fra le esperienze francese ed inglese prendendo il meglio delle due, rifiutando probabilmente dall'esperienza francese l'eccesso di dirigismo (evitando di ripetere l'espe-


rienza della commissione per le privatizzazioni francese che, lavorando su input politico, restituiva alle famiglie degli antichi proprietari le imprese nazionalizzate e le restituiva anche ad un prezzo di favore, quasi a chiedere scusa del periodo in cui avevano perso il potere di comando all'interno di quelle aziende). Probabilmente dobbiamo prendere il meglio dell'esperienza inglese, dove però esiste una bisecolare tradizione di trasparenza e funzionamento dei mercati mobiliari che noi neanche sognamo. C'è un punto del dibattito pubblico-privato su cui vorrei concludere. Come economista non ho nessun elemento per sostenere, in via astratta, se è meglio la proprietà privata o quella pubblica, però so anche che c'è una premessa di tipo politico su cui gli economisti si fermano: qualunque processo di privatizzazione implica lo spostamento del potere da qualcuno a qualcun'altro, o la riduzione del potre di qualcuno. Privatizzare le aziende pubbliche vuoi dire che l'azionista occulto delle partecipazioni statali perde potere. Io credo che sia un buon fine da perseguire. Non si può in sostanza far finta che dietro le politiche della privatizzazione non vi sia in realtà un dato squisitamente politico, ma politico in senso legittimo, in senso buono, un dato che risponde fondamentalmente al seguente quesito: "dove sta l'asse del potere in settori molto importanti?". PIER GIUSEPPE MERLO - Vi è un rischio nella discussione sul passaggio di settori importanti dell'economia da mano pubblica a mano privata. Il rischio risiede nella possibilità che la discussione avvenga prima che il settore pubblico abbia maturato la convinzione di avere un patrimonio vendibile. Il pubblico infatti è nato nel diciannovesimo secolo per uno specifico bisogno: controllare le prime attività produttive industriali,

attività che, essendo in regime di monopolio, avrebbero potuto creare delle rendite di posizione. Il primo dato su cui riflettere oggi è se nel patrimonio pubblico sia utile avere o non avere certe attività. In secondo luogo bisogna domandarsi se il problema sia legato solo alla composizione del capitale e non invece anche ad un fattore culturale. Privatizzare è innanzitutto un problema culturale. Io credo, ad esempio, che oggi registriamo nel settore pubblico un tipo di regolamentazione del lavoro che è diversa da quella del settore privato. Non a caso, e cito un'esperienza diretta, quando a Milano si è parlato di privatizzare quindi di trasf ormare in SPA la EMME, l'unica preoccupazione dell'organizzazione sindacale è stata quella di sapere sotto quale regime si finiva, perché evidentemente c'era il timore di perdere tutta la serie di privilegi presenti nel settore elettrico. Che privatizzazione sia soprattutto un fatto culturale, lo dimostra anche che in Italia non c'è una cultura della public company; l'unica public company (che tra l'altro è stata poco apprezzata dalla sinistra che in generale si è accorta della sua essenza troppo tardi) era quella di Schimberni che nasceva da un oltraggio fatto alle regole del gioco delle famiglie della finanza italiana ed è finita come voi tutti sapete. Le uniche esperienze reali che ci sono in Italia sostanzialmente sono quelle delle multinazionali straniere, da qualunque parte la si voglia vedere, e sono proprio le meno significative. Non è public company la FIAT con il suo patrimonio azionario anzi è l'opposto di una public company. Non è public company il gruppo De Benedetti, tanto meno lo sono Berlusconi o Gardini. Al di là del frazionamento, non lo sono nemmeno le Generali anche se il maggior azionista ha il 3,5%-4%. Vi ricordo che nella storia l'unico che tentò di inserire questo 63


concetto fu Massimo De Carolis quando raccolse gli azionisti Montedison tentando di fare un sindacato dei soci. Si trattò soio di una strumentalizzazione politica non di un'azione a tutela del piccolo azionariato; lo scopo difatti era quello di costituire un archivio elettorale. Non c'è questa cultura e credo che questo sia un grosso handicap per un paese che non conosce Cartesio e tende sempre ad estremizzare. C'è la difficoltà di costruire una trasversalità ideologica rispetto alle forti pressioni lobbistiche che oggi ci sono su certe parti della proprietà pubblica. Questo è il dato di un sistema in cui c'è dirigismo politico anche se c'è mercato. Credo che anche qui ci sia una grande necessità che chi governa ponga una grande attenzione alla salvaguardia del patrimonio che è chiamato a governare, perché si tratta di un patrimonio dell'intera comunità. - Mi sono interrogata sulla questione asta o non asta, in particolare delle banche pubbliche, perché ho avuto l'esperienza di una delle prime privatizzazioni, per così dire, di banche pubbliche che è stata la vendita di una quota del CREDIOP da parte della Cassa Depositi e PreMARIA TERESA SALVEMINI

stiti al San Paolo di Torino. Ora da un punto di vista dei concetti, quello di settore pubblico è un concetto sfuggente, io sono abituata ad usare un concetto restrittivo di settore pubblico per cui una vendita dalla Cassa al San Paolo è una privatizzazione. Forse voi avete un'idea più generale per cui il San Paolo è ancora una impresa pubblica e allora si riaffaccia la questione terminologica della "privatizzazione". Comunque, siccome la vendita delle banche pubbliche sarà, io credo, in una certa misura una vendita ad altre banche pubbliche, ma non del settore pubblico cioè non in mano 64

del Tesoro, per lo Stato potrebbe esservi un'entrata effettivamente patrimoniale, io credo che questa esperienza potrebbe esservi utile. Ora, in questa esperienza, non avrei visto la possibilità difare un'asta seria, perché li c'era un interesse ulteriore oltre a quello di massimizzare il valore della quota della Cassa Depositi e Prestiti e quindi l'introito del• Tesoro, cioè l'interesse ulteriore a creare un gruppo polifunzionale con garanzia di vitalità dell'impresa che in parte veniva venduta. Credo infatti che in questo campo il rischio che i management non vadano d'accordo, che le imprese non abbiano sinergie, che non abbiano un progetto comune potrebbe essere molto grosso. Fare un'asta in questo caso, cioè mettere sul mercato la quota CREDIOP dicendo "chi la vuole", direi che non sarebbe stata una buona idea. Secondo me si doveva prima cercare il partner e poi a questo partner vendere ad un prezzo messo bene in chiaro, un prezzo trasparente, ma non necessariamente un prezzo che prescindesse, per così dire, dall'iniziativa che si voleva portare avanti. Le circostanze concrete rischiano quindi di dare all'asta un connotato di astrattezza. Ritengo inoltre che l'esperienza francese, quella dei nuclei duri, sia stata gestita in maniera politicamente del tutto anomala e il rischio che anche in Italia si gestisca un'operazione in questi termini esiste. Però è anche vero che un'impresa ha un management, la parte di management dell'impresa (cioè chi si prende in carico la gestione dell'impresa) deve essere assunta da un patto di sindacato, da un azionista di maggioranza, da un qualche cosa. Insòmma questa idea che si possa prescindere da una qualche forma di accordo industriale, all'interno del processo di privatizzazione, che si possa fare semplicemente un meccanismo di asta, un pochino mi preoccupa.


Penso di avere un maggiore interesse, invece, per l'aspetto procedurale di come si stabilisce un valore di partenza e per quale potrebbe essere il ruolo di una commissione delle privatizzazioni. Credo che esistano due diversi momenti in cui si valuta un'impresa, uno è un momento patrimoniale puro e uno è il momento della vendita; sono due concetti del tutto diversi. Occorre avere delle valutazioni patrimoniali (e qui mi sembrava giusta l'idea che, comunque, si dovesse, per prima cosa, fare la rivalutazione del patrimonio, netto, cioè valutare effettivamente quali sono i valori delle imprese pubbliche) indipendentemente, però, dal fatto della privatizzazione, perché poi, nel momento della privatizzazione, il prezzo di vendita non è lo stesso valore del prezzo di patrimonio, perché conta chi vende e come si vende. Avere alla base una valutazione generalizzata, indipendente dal processo di privatizzazione, presuppone che ci sia una specie di autorità che abbia soltanto un potere di accertamento e nessuna responsabifità di vendita, e che separi dunque il momento dell'accertamento del valore dal momento della dismissione. Credo che questo (proprio su «Queste Istituzioni» avevo scritto una nota per un volume in onore della Ragioneria generale dello Stato) vale per tutto il settore pubblico, c'è un'esigenza di contabilità patrimoniale in cui siamo praticamente all'anno zero soprattutto nel caso dei beni immobili dello Stato, ma certamente anche nel caso delle imprese pubbliche in cui la sottovalutazione dell'attivo per far vedere che si aveva bisogno di risorse dallo Stato è certamente stata un fatto dominante. Ripeto, la commissione delle privatizzazioni mi sembra meno importante della commissione di valutazione del valore di queste società, indipendentemente dal fatto che poi siano privatizzate e anzi quasi come

un criterio di controllo sulla economicità e della gestione delle imprese stesse. Il Ministero delle partecipazioni statali secondo me non esercita i suoi poteri, da questo punto di vista, come dovrebbe. Pni - Lavorando all'Ufficio Studi dell'xitr, conosco alcuni problemi di trattativa e di negoziazione che si associano ai problemi della privatizzazione. Innanzitutto sono per 1198% d'accordo con quanto detto dal professor Cavazzuti. Per quanto riguarda quel 2% su cui non sono d'accordo è che io credo, e lo credo da economista, che diverse circostanze provino che le imprese private sono in genere più efficaci delle imprese pubbliche; siccome, d'altra parte, il concetto di efficienza che usiamo è lo stesso, questo significa semplicemente che gli economisti non sono mai dello stesso parere. A me sembra che il problema sia se si voglia o meno trasferire buona parte di ciò che è il potere di decisione in campo produttivo dal settore pubblico al settore privato. Se questo è l'obiettivo, e questo era senza dubbio l'obiettivo in Gran Bretagna e in Francia, allora si pongono una serie di problemi relativi alla tutela di alcuni aspetti pubblici, una volta che questo patrimonio sia gestito dai privati. Per esempio la nazionalità o l'impegno in certi settori. Ora i meccanismi del Golden Share, il meccanismo del nocciolo duro, non sono nient'altro che metodi con cui risolvere tali problemi e potrebbero essere sostituiti da clausole parasociali, o altre clausole di salvaguardia. Un altro problema è capire se il sistema di incentivi che c'è dentro il sistema delle partecipazioni statali, è un sistema di incentivi che conduce ad ottenere risultati più o meno in linea con l'idea della valorizzazione del patrimonio, con l'idea di creazione di ricchezza. Ora, immagino, che se in tutti i

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paesi si parla di privatizzazione è perché, negli anni, c'è stata una sostanziale insoddisfazione sul funzionamento dell'impresa pubblica. I risultati che l'impresa pubblica generava non erano cioè in linea con i risultati che ci si aspettava. Tenuto conto che nello sviluppo del paese negli ultimi venti anni, i settori gestiti dalle partecipazioni statali erano stati settori trainanti, dobbiamo trovare la ragione di questa insoddisfazione. E dovuta al fatto che c'è incapacità manageriale all'interno delle imprese? Può essere anche per questo. O, invece, perché le risorse disponibili sono state utilizzate per fini diversi, fini anche legittimi, ma che, a posteriori, risultano costosi in termini di altri obiettivi che si potevano perseguire. A me sembra che nell'impostazione del disegno di legge sulla privatizzazione delle banche pubbliche, ma anche in generale in tutto il problema delle privatizzazioni, persista ancora il problema della separazione tra livello di decisione politica e livello di decisione manageriale. Bisogna limitare il potere politico nel settore produttivo ad alcune occasioni e possibilità di veto o di intervento in casi molto specifici e predefiniti a priori. Si parlava prima della privatizzazione dell'Alfa, io credo che se ne sia data un'interpretazione non corretta. Difatti quando l'iju privatizzò, quando decise di vendere l'Alfa Romeo, ricevette due offerte, quella della Ford e quella della FIAT, anche se inizialmente pervenne solo quella della FORD. Dal punto di vista dell'mi quale delle due offerte era la più vantaggiosa? Dal punto di vista dell'iiu l'offerta più vantaggiosa era certamente quella della FIAT, perché quest'ultima acquistava una società in perdita immediatamente ad un prezzo prefissato, mentre la Ford acquistava una quota di questa impresa riservandosi di perfezionare l'accordo dopo tre anni. Quindi, dal punto di vista della società dismet66

tente, era molto più conveniente liberarsi di una società, che negli ultimi tempi aveva perso 250 miliardi l'anno, piuttosto che rischiare di riprendersela dopo tre anni quando la Ford si fosse trovata nelle condizioni di non poter coprire la perdita. Il problema però è che, da un punto di vista di politica pubblica, è da chiedersi se fosse meglio avere una sola o più industrie automobilistiche in Italia. Volevo poi entrare nel merito di un paio di punti emersi nel dibattito. Ogni volta che sento parlare di underpricing mi sento solleticato, così come quando sento parlare di asta, perché quando ci si avvicina al mercato si pensa che la cosa più importante sia il prezzo. Ma il mercato funziona anche in base a criteri diversi. Faccio un esempio: si è parlato dell'opportunità di affidare a un organismo pubblico il compito di designare i valutatori delle imprese. C'è un mercato per i valutatori. Esso funziona garantendo al valutatore migliore la fiducia di molte imprese, per mezzo della quale riuscirà ad assicurarsi un giro d'affari e un reddito maggiori. Sarebbe cosa abbastanza inefficiente introdurre una designazione obbligatoria che, mevitabilmente, impedirebbe il corretto funzionamento di tale meccanismo senza, d'altro canto, dare maggiori garanzie di imparzialità. Questo lo dico perché la preferenza dell'asta, rispetto al collocamento a prezzo fisso, nasconde l'idea che non ci si possa fidare del valutatore che fissa il prezzo e questo è giusto, perché, tutto ciò su cui abbiamo discusso finora, dimostra quanto sia difficile valutare l'impresa, quanti aspetti si debbano considerare, reddituali, patrimoniali, ecc. Però è mia impressione che proprio perché è una questione difficile, l'asta non possa risolvere tutti i problemi. Si possono immaginare meccanismi per mezzo dei quali ottenere una diffusione quanto più vasta delle informazioni; penso, per esempio, nel caso della Laneros-


ha fatto circolare le inf ormazioni necessarie. Numerose compagnie che hanno presentato richieste d'informazione, hanno esaminato un primo materiale, poi il numero si è ristretto fino a quando non si è arrivati alla decisione (tuttavia quando è stato deciso, quelli che hanno perso sono andati a lamentarsi da un partito di governo). L'idea dell'asta per qualcosa che non sia realmente molto omogeneo mi sembra molto difficile. Ritengo anche che l'idea di vendere le azioni all'asta sia un'idea il cui principio è buono, ma in pratica non è mai applicato. Mi spiego, se noi andiamo a vedere quello che succede tra le imprese private che immagino abbiano un incentivo a massimizzare il ricavato delle loro operazioni di collocamento di azioni sul mercato, vediamo che in generale preferiscono fare un'offerta a prezzo fisso. Il risultato è che, in genere, si verifica il fe-

si in cui

l'ENI

nomeno dell' underpricing. Ma parlare di underpricing richiede parecchia cautela. L'underprice in Italia si aggira, secondo i periodi di mercato, dal 15 al 30%. Ciò vuol dire che le imprese in Italia vendono le azioni a 70 e, tre settimane dopo, sui mercato il prezzo può essere o 85 o 100 e questo trattandosi per lo più di imprese private. Ora, lo stesso succede negli Stati Uniti, lo stesso succede in Gran Bretagna; negli Stati Uniti l'underprice in media, secondo i metodi d'azienda, può essere tra il 10 e il 20%, in Gran Bretagna il 12%, in Francia è il 5% nelle prime tre settimane e il 10% dopo. Nel valutare l'underprice di una privatizzazione bisogna sempre considerare che deve essere al netto di questo, e noi vediamo che in realtà l'underprice è sempre un po' meno del numero assoluto, a questo corrispondono probabilmente altre esigenze, tipo l'idea di garantire un'ampia diffusione del titolo fra il pubblico. Io credo, per esempio, che nel

caso francese la gran parte del costo, la gran parte della perdita di guadagno della privatizzazione sia derivata non tanto dall'underpricing, quanto dal fatto che queste operazioni di frazionamento della proprietà azionaria sono operazioni estremamente costose. Ci sono una serie di spese che possono essere anche più sostanziali della perdita di valore dovuta all'underpricing. Tuttavia anche qui entra il fatto che si sta operando una privatizzazione. Da un lato si vuole il miglior prezzo possibile e dall'altra parte che chiunque possa avere accesso al bene da privatizzare. Ancora una volta l'esigenza di ampliare i propri mercati azionari è un obiettivo politico incide nel momento in cui si opera la transazione. - Lavoro alla Banca d'Italia e, in modo particolare da qualche anno, ci stiamo occupando di un problema che è emerso questa mattina in più diun intervento e cioè quello della trasformazione degli enti creditizi pubblici in SPA. La mia posizione istituzionale mi obbliga ad una doverosa premessa e cioè che le riflessioni che intendo svolgere in questo momento sono soltanto frutto di mie specifiche idee e non impegnano in alcun modo l'Istituto. Ho ascoltato con vivo interesse le considerazioni che sono state svolte su questo tema, molto delicato, della "privatizzazione delle banche pubbliche" e vorrei, dalla posizione di chi questi testi di legge se li è letti tante volte, suggerirvi una interpretazione di questo complesso di provvedimenti, che non è esattamente quello che mi è parso emergere, fino ad ora, nel dibattito che si è svolto questa mattina. Ho sentito parlare di privatizzazione delle banche pubbliche tout court, come di un disegno volto a rendere la struttura delle banche pubbliche conforme a quella degli organismi che operano nel settore privato anGIANLUCA TREQUATTRINI

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che attraverso un ingresso di soggetti privati nel capitale delle banche pubbliche. Questo è sicuramente uno degli effetti della manovra prefigurata nei provvedimenti, ma mi sembra più che altro un effetto strumentale, direi quasi che si potrebbe riprendere quella differenza che, nella politica monetaria, c'è tra obiettivi e strumenti. La privatizzazione intesa come assunzione da parte dell'ente creditizio pubblico di una struttura societaria, in questa manovra è vista come il veicolo attraverso cui si giunge alla ristrutturazione del sistema creditizio, questo è l'obiettivo principale dei provvedimenti. Si tratta cioè di consentire al sistema di liberare al proprio interno delle risorse produttive, di cui dispone in termini umani e anche patrimoniali, perché siano meglio riallocate in vista di una concorrenza che tutti temiamo più intensa in un mercato non più limitato ai confini nazionali. Quindi la privatizzazione, in questo complesso di provvedimenti, credo che non sia vista come un bene in sè ma come uno strumento attraverso cui si raggiunge un altro obiettivo che è quello di favorire una riallocazione delle risorse. A questo punto non stupisce il fatto che, per la cosiddetta privatizzazione degli enti creditizi pubblici, siano la legge delegata e il complesso dei decreti delegati a stabilire delle regole che ne presiedano le modalità di effettuazione, rimet tendo alle autorità del settore, al Ministro del Tesoro, al Comitato Interministeriale, alla Banca d'Italia e, a monte, anche al Consiglio dei Ministri alcune decisioni importanti, su come questi processi di alienazione di una parte del capitale sociale delle nuove SPA bancarie verranno effettuati nei confronti di soggetti privati. Nonostante le regole particolari, prima criticate dal senatore Cavazzuti, la manovra è stata congegnata in modo tale che le nuove società bancarie che nascono da questi processi, ripeto di ristrutturazione 68

più che di privatizzazione, non sfuggono alle regole generali del diritto privato. C'è dunque stata l'esigenza di stabilire delle regole certe, di livellare il campo da gioco per tutti gli operatori indipendentemente dalla loro natura giuridica. La SPA, infatti, permette una maggiore dialettica degli organi sociali, ha un meccanismo più trasparente nel porsi nei confronti del mercato e soprattutto consente l'appello al risparmio di massa, cosa che rientra tra gli obiettivi di una manovra di ristrutturazione e di liberazione di energie concorrenziali. IL DIRETTORE - Vorrei, da una parte, tirare le fila delle cose che ho sentito e, dall'altra, fare io stesso ulteriori osservazioni e farlo utilizzando prevalentemente il principio di realismo nel valutare le cose proposte e i fenomeni su cui si è ragionato. In base a tale principio la richiesta fondamentale che viene suggerita e si riconosce dietro l'iniziativa legislativa di Cavazzuti è quella del bisogno di regole. In questo campo l'inesistenza di regole è d'impedimento a che l'obiettivo si realizzi anche in misura modesta. Nulla da dire come obiettivo e apprezzerei una certa relativa astrattezza delle norme che vengono richieste, in ragione proprio di questo principio di realismo per cui in una situazione di regole zero è bene chiedere regole 100 per poi ottenere non so quanto, probabilmente, speriamo, 60. Valutiamo, allora, alcuni fenomeni sul piano realistico per identificare quelli più e meno importanti. Primo tema: collocamento diffuso, caso francese. Il collocamento diffuso è stato criticato come una ricerca di consenso generalizzato, quindi anche con animus politico. Ma è difficile immaginare un collocamento diffuso in operazioni di questo genere che non appaiono al pubblico sempre ed esatta-


mente come un'opportunità politica da sfruttare. Secondo spunto sulla realtà. Concordo con quello che diceva Merlo sul dato culturale, problema questo che ci portiamo dietro in maniera massiccia e in tutti i campi del pubblico che devono aprirsi ad un tema di privatizzazione. C'è anche, prima di tutto, una mancanza di cultura della gestione; è un dato, un vincolo, un ritardo che pesa moltissimo in tutte le occasioni e che non è l'ultimo degli elementi che porta.al prevalere della logica attuale, dominante in tutti quei casi di parziali o tentate privatizzazioni, delle valutazioni in termini soggettivi, in termini, come dice Spirito, di valore d'uso. Gli esempi sono molti, però sarebbe necessario dare giudizi di valore su questa attitudine. Tuttavia c'è il dato, sicuramente oggi più evidente a tutti, di una degenerazione patologica delle intenzioni particolari, delle logiche lobbistiche, della prevalenza dei partiti, insomma tutto ciò che sappiamo. Vorrei poi vedere, alla luce di queste varie considerazioni, quanto sia realistico eliminare i caratteri di specialità nel regime delle SPA (concorderei totalmente se le specialità fossero esclusivamente quelle che attengono al privilegio o alla reintroduzione surrettizia, attraverso la SPA, di soggetti pubblicistici). Il diritto comune presenta anch'esso dei problemi, per esempio il significato e la valenza dei patti parasociali nel mondo e nella vita delle SPA. I migliori studiosi recenti hanno teorizzato che in fondo il patto parasociale altro non è che uno strumento per adeguare, per rendere flessibile, per riportare alla concretezza delle volontà degli obiettivi specifici, una formula generale che di per sè rischia di essere non solo generale ma generalissima. Se questo è vero nella realtà effettuale delle società, in che misura è credibile far entrare tra le regole da perseguire subito

questo abbattimento degli aspetti speciali del regime delle SPA? E quanto questo non rischia di essere un elemento, che impedisce un passaggio inevitabile da regime pubblicistico a regime di diritto comune? Su questo bisognerebbe un po' ragionare perché non vorrei che la richiesta eccessiva blocchi il processo. Voglio, infine, dire che ritengo importante che, nel mondo dell'ordinamento locale, sia stato dato finalmente riconoscimento pieno alla figura delle SPA come modello gestorio di servizi. Vero è che è rimasto del tutto limitato, ma, a confronto con una situazione di partenza quale è quella che conosciamo, non lo riterrei del tutto inutile. LAMANDA - Con il mio intervento vorrei portare l'attenzione sul processo di privatizzazione delle economie locali. Un affare gigantesco consistente nell'aggiudicazione ai privati di alcuni servizi fondamentali, come la produzione di servizi legati all'igiene ambientale, e nella realizzazione e gestione di alcune reti tra cui gli acquedotti. Mi riesce un poco difficile collocare le questioni, legate a questo processo, dentro lo schema di discussione che questa mattina si è venuto a configurare, perché in realtà il termine privatizzazione è un termine che non si adatta a questa fattispecie. In realtà il processo è stato desiderato, voluto ed è iniziato presso le amministrazioni locali come un processo di modernizzazione a cui, oggi, si sta tentando di dare la forma della privatizzazione, sebbene all'inizio l'idea è stata quella di introdurre degli elementi che permettessero la produzione di servizi pubblici da parte degli enti locali, con caratteristiche di maggior efficienza, ma non necessariamente come risultato di un processo di privatizzazione nella gestione. Direi che questa è una valenza che si sta recentemente rafforzando,

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ma che potrebbe anche non essere funzionale allo scopo previsto. La descrizione del fenomeno è anche molto complessa, perché il sistema statistico nazionale non ci consente di fare rapidamente un aggiornamento del panorama di ciò che sta succedendo in Italia. C'è un certo accordo sul fatto che le questioni fondamentali siano due. Una prima è che la gigantesca area della gestione diretta da parte degli enti locali della gran parte dei servizi di base non sta affatto restringendosi. Specialmente nel mezzogiorno e nel centro dell'Italia, le amministrazioni locali restano depositarie della gestione di questi servizi e non stanno dando nessun segnale né di ammodernamento né tanto meno di privatizzazione. Nel nord dell'Italia stanno accadendo fenomeni sicuramente più complicati e più compositi, però non sembra che il risultato finale sia la privatizzazione. Quello che sembra è che ci sia un rafforzamento del potere da parte delle principali aziende municipalizzate. Per esempio, nell'Emilia Romagna, c'è un fenomeno di interconnessione in orizzontale, tra tutte le aziende che gestiscono il ciclo dell'acqua, per cui si stanno configurando delle aziende di rango provinciale e subregionale. Lo stesso sta accadendo in Lombardia in altri settori, nel Veneto sta succedendo qualcosa di diverso, perché si stanno inventando delle società di carattere misto, ma prevalentemente pubbliche come composizione del capitale, che hanno responsabilità su reti di grande dimensione territoriale, lasciando però l'autonomia degli enti locali, dei comuni, nella distribuzione dei servizi stessi. Quindi, c'è un panorama molto composito. Sicuramente, anche queste forme societarie, che soprattutto le regioni adottano per la gestione di taluni servizi, per esempio l'informatica oppure l'intervento su vaste aree territoriali come si sta facendo in Lombardia per il piano Lambro, si caratteriz70

zano per il fatto che la componente pubblica è largamente maggioritaria nel controllo dei pacchetti azionari, quindi non si può parlare in senso stretto di un processo di privatizzazione. Anche qui c'è la stessa preoccupazione di delimitare e chiarire meglio quando si parla di privatizzazione in senso stretto o quando si parla di altri aspetti della modernizzazione. Il tema delle reti gestite dagli enti locali è importante, nel discorso complessivo della privatizzazione, anche per un altro fatto: se alle partecipazioni statali, ai grandi enti di Stato si sta chiedendo di cedere parti della loro proprietà, questo forse è accompagnato da un tentativo di scambio, che consiste nella creazione, per queste stesse strutture, di spazi in settori nei quali non erano mai intervenute le partecipazioni statali, per esempio nella gestione del ciclo dell'acqua. Avete tutti quanti sentito, recentemente, di questo interesse molto consistente dell'ENI e dell'riti per la gestione delle grandi reti idriche nel mezzogiorno. Questa, che si presenta come una privatizzazione (se la si guarda dal punto di vista della gestione tradizionale) è in realtà ancora un processo di trasformazione, da una forma antica in una più moderna, di un servizio gestito dalla mano pubblica. Chissà che questa creazione di un monopolio nuovo o di una nuova posizione di potere nella gestione del servizio dell'acqua, non possa essere pensata come controparte in un processo di cessione di altre produzioni. Però la riflessione su quello che accade a livello locale deve essere utilizzata anche per vedere quali sono i rischi, impliciti in un fenomeno di privatizzazione, che non sia regolamentato anche dal punto di vista del funzionamento del mercato in cui ci si vuole collocare. Infatti, in tutti questi esperimenti di privatizzazione dei servizi o comunque di affidamento a società miste della gestione di


servizi tradizionali, l'acquirente del servizio stesso resta comunque l'ente locale. Non c'è in sostanza quel rapporto che invece è tipico del mercato, liberisticamente inteso, del rapporto diretto tra chi produce un servizio e il consumatore finale, rapporto che deve essere mediato da un prezzo e che crea questa relazione del tutto economica, del tutto materiale, in base alla quale sussistono le condizioni di efficienza. Quello che si rischia è che ci sia un fenomeno di contrattazione, assolutamente poco controllabile da parte dell'ente locale con un gruppo di produttori molto forti in quel contesto territoriale e che poi l'ente locale sia costretto a pagare questo servizio più di quanto valga, o comunque senza risolvere tutti quei problemi di inefficienza che sono legati alla difficoltà che si ha in Italia di esigere il pagamento effettivo dei servizi di base. Voi sapete che, per esempio, il tema della privatizzazione del ciclo dell'acqua è molto legato alla circostanza che effettivamente si possa riscuotere il prezzo dell'acqua, il che provoca un'enorme complicazione sia tecnica che politica. Per superare questa difficoltà sostanziale, l'escamotage che si va trovando è l'instaurazione di un rapporto contrattuale tra società di adduzione dell'acqua e comune distributore, restando però accollate al comune tutte le difficoltà di esazione e di commercializzazione. Io credo che questo sia un altro problema che deve essere ben considerato, se di privatizzazione si deve parlare è bene farlo in maniera profonda ed integrale, creando effettivamente le condizioni del mercato e non semplicemente introducendo una figura privata in un mercato che resta sostanzialmente di carattere tradizionale e regolamentato. L'ultimissima cosa che volevo dire è quella di portare, ancora una volta, l'attenzione sugli aspetti di carattere ideologico del processo di privatizzazione. Vi sono alcune compo-

nenti dello schieramento politico, sicuramente molto forti in questo governo, che assumono la privatizzazione come un obiettivo in sè, non come un obiettivo strumentale per produrre maggiore efficienza od efficacia nella gestione dei servizi, ma come un obiettivo rispetto al quale si possano anche pagare dei costi, purché i servizi siano nella mano di privati. Può sembrare strano, può sembrare un po' una posizione estrema la mia, ma trovo traccia di questo modo di affrontare il problema nel dibattito che si sta facendo sulla privatizzazione di alcuni servizi, che sono detenuti da aziende municipalizzate in attivo e che producono surplus (surplus che sono utilizzati poi dagli enti locali per il finanziamento della loro politica di investimento o più semplicemente per il loro funzionamento di gestione). Bisogna capire che c'è questo strano fenomeno per cui, da una parte, ci sono gli enti ed i gruppi politici locali interessati a conservare una loro zona di influenza, che si manifesta prevalentemente mediante l'allargamento economico delle municipalizzate o comunque delle società a prevalente partecipazione degli enti locali e, dall'altra, c'è una forte tendenza a rompere questo blocco nonostante esso sia produttore di surplas utile alla pubblica amministrazione. Questa chiave è anche utile per capire i disegni di legge, i decreti di legge che si stanno presentando in tema di finanza locale, perché sono disegni di legge di grande importanza che se guardati dal punto di vista dell'efficienza, dell'efficacia, possono far mettere le mani nei capeffi. Mi riferisco tanto alle ipotesi di introduzione di una fiscalità su base locale, quanto al finanziamento degli investimenti attraverso lo smobiizzo delle proprietà del patrimonio disponibile degli enti locali. Tuttavia osservando questi aspetti dal punto di vista della strategia della privatizzazione, cioè quella di togliere agli enti 71


locali il potere di finanziare l'allargamento infrastrutturale e quindi obbligarli a convergere verso un'apertura al capitale privato o verso una cessione di responsabilità al settore privato, allora essi acquistano una nuova veste e appaiono efficienti in questo senso. Un fatto molto importante al riguardo, e che forse anche gli altri che si occupano di finanza locale avranno notato, è che i tagli dei finanziamenti dello Stato ai governi locali agiscono dal lato dei capitali e non dal lato dei trasferimenti correnti. Secondo me, è abbastanza chiara la strategia di togliere risorse ed energie dal lato dell'organizzazione del sistema infrastrutturale e quindi della sua gestione, lasciando però le risorse finanziarie per acquistare i servizi dall'esterno e quindi per riprodurre quelle organizzazioni di mercato abbastanza rischiose di cui parlavo prima. GIANCARLO SAIvEMINI - Mi sembra che il problema delle privatizzazioni sia un problema che viene posto principalmente per cercare di dare maggior efficienza al sistema produttivo pubblico. Invece, sulla diffusione dell'azionariato avrei dei dubbi, come li avrei anche sull'effetto positivo sul debito pubblico. In questo campo molti lavori, tra l'altro anche uno recentissimo fatto per l'ocsE, mettono l'accento sulle forme di mercato, sulla concorrenzialità che esiste nei mercati e sulle forme di regolamentazione delle imprese, siano esse pubbliche o private, dicendo che si possono raggiungere gli stessi obiettivi della privatizzazione forse anche meglio con questi strumenti. Dallo stesso punto di vista, cioè quello della trasparenza, sono stati citati gli interventi della commissione CEE per la concorrenza. Sono interventi particolarmente importanti, nel senso che imporre trasparenza, chiarezza, sul come e il quando vengono dati aiuti da parte dello Stato,

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siano essi all'impresa pubblica o a quella privata, è particolarmente essenziale al momento della privatizzazione. In questo senso l'aiuto che ci può venire dalle istituzioni internazionali dovrebbe essere accettato e richiesto, mentre invece, sostanzialmente le autorità italiane tendono ancora a vedere la politica della CEE come una intromissione sperando di poter ancora agire da free-rider. - Ritengo che il processo di privatizzazione sia in qualche misura influenzato anche dalla situazione di finanza pubblica. Una forte motivazione è quella del tentativo di creare delle economie di spesa o addirittura di recuperare delle entrate non previste, per risanare i conti, particolarmente dissestati, della finanza pubblica. Tuttavia ritengo che se la motivazione principale è quella di ottenere dal processo di privatizzazione un risanamento della finanza pubblica, in termini così diretti e così immediati, probabilmente si tratterebbe di un pura illusione, perché in realtà queste risorse rientrerebbero in un circolo di spesa abbastanza facile. Queste maggiori entrate o minori spese si tradurrebbero in un beneficio di breve respiro e di risultato incerto. Mi sembrerebbe, invece, importante che questo obiettivo del minor onere per lo Stato fosse il risultato di un altro risultato intermedio e cioè quello di recuperare una efficienza complessiva del sistema produttivo e di recuperare, in particolare, una efficienza di alcuni settori abbastanza rilevanti quali, per esempio, quelli della produzione di servizi. Mi sembra che oggi ci sia una forte tendenza per la privatizzazione di alcuni sistemi, per esempio, il nuovo disegno di legge per le Ferrovie Metropolitane punta sull' affidamento in concessione, non solo di costruzione ma anche di gestione, delle reti di trasporto VINCENZO SPAZIANTE


rapido di massa. Questa tendenza trova un limite nelle politiche del tariffario, nelle politiche dei prezzi che toccano indistintamente gli operatori-gestori di servizi che siano pubblici o privati. È recente il caso del rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri, che prevedevano un concorso statale in favore sia delle società pubbliche di gestione dei servizi di trasporto pubblico locale, così come anche nei confronti di servizi gestiti da società private per tratti, per sistemi di trasporto di rilevanza locale. Questo significa che pubblico e privato incontrano uno stesso problema, uno stesso limite che è quello di un sistema tariffario che sicuramente è molto rigido, non dico punitivo, ma sicuramente è rigido nei confronti dei gestori. Tutto il settòre dell'Ente Ferrovie dello Stato, privato o pubblico che sia, incontra un limite di fattibiità, di operatività, di efficienza nel fatto che i consensi intorno ad una revisione delle tariffe sono centellinati. Il sistema di gestione della nostra rete autostradale è un altro caso emblematico. Il sistema di tariffazione dell'energia elettrica distribuita è un terzo settore nel quale la politica tariff aria non consente, pubblico o privato che sia il gestore, di immaginare una soluzione di efficienza. Qui il limite è sostanziale, perché la rigidità del sistema della politica tariffaria, è stato funzionale, invece, alla lotta all'inflazione. Dunque il problema è quello di trovare punti di equilibrio nel sistema di tariffazione che consentano una riorganizzazione complessi-. va delle strutture, tale da rendere certo il risultato di un minor peso sul bilancio dello Stato e di renderlo non solo certo, ma anche durevole, stabile, strutturale. GUGLIELMO RAGOZZINO - Ho trovato di grande interesse le riflessioni che venivano fatte

questa mattina da Cavazzuti e dai relatori in tema di regole, in tema di trasparenza, in tema, per esempio, di necessità, dell'utilità di avere un'asta per stabilire dei prezzi ai quali scambiare dei pacchetti azionari. Tuttavia voglio qui sostenere una tesi, magari poco popolare: trovo che sia più meritevole essere portaborse, piuttosto che essere figlio di qualcuno. Mi sembra che partire da portaborse e fare una carriera di questo tipo sia più complicato che non nascere in una casa giusta. In Italia il sistema privato è fatto di tante persone che nascono nelle case giuste e non c'è proprio altro, forse un 5% dell'industria italiana è fatta in altro modo, tutto il resto: società quotate in borsa, società non quotate in borsa, sono comandate da gruppi familiari. Il sistema pubblico, di contro, che, soprattutto nell'organizzazione delle partecipazioni statali, era l'alternativa, si è trasformato in un sistema di portaborse. Però, passare a un sistema privato siffatto, non mi sembra una grande modernizzazione, anzi è un sistema di omologazione e non di alternativa. Trovo che un sistema industriale, in cui tutto è di proprietà familiare o proprietà unica, toglie qualsiasi dialettica ed elimina quello che è il principio maggiore della SPA cioè il controllo da parte dei piccoli azionisti. Voglio dire una cosa paradossale: che nelle società pubbliche, per lo meno, c'è questo controllo, c'è una dialettica tra un partito e l'altro. Non voglio rivendicare i meriti dell'EFIIvI, però penso che nel sistema della lottizzazione quello che manca sono delle regole, esattamente come nell'altro sistema, quello privato. Voglio spendere una parola per il sistema pubblico, mi sembra che sia tutta una serie di beni pubblici; si pensi per esempio ai beni ambientali, che forse vengono sostenuti, curati meglio dall'ENI piuttosto che dalla EXXON come stile di lavoro. Oppure si pensi alla legge Mammì che ripar73


tisce tra il pubblico e il privato il sistema televisivo e il sistema dell'informazione in Italia.., non è che il privato faccia una gran figura nei confronti del pubblico, non è che i rapporti tra i partiti ed il privato siano diversi da quelli tra i partiti ed il pubblico... e su questo si dovrebbe riflettere. Vengo all'ultimo punto dei due che volevo trattare. Sono stati citati casi industriali importanti, nel corso di questa discussione, l'Alfa, la Lanerossi, e l'ENIMONT, vorrei aggiungere l'ILVA. Sono tutti casi in cui nell'accordo tra pubblico e privato, il pubblico ha portato, uscendo dall'industria e comunque trattando con il privato, ad aumentare la concentrazione; un pubblico che era nato per contrastare i monopoli ha proprio avuto il risultato opposto, l'ms e l'ENI lavorano per aumentare, per rendere fortissima la concentrazione industriale in un paese che non aveva bisogno di ulteriori concentrazioni industriali, semmai aveva bisogno di una diffusione dell'industria ad altri livelli. - Se posso aggiungere un commento, mi pare che, all'intervento di Ragozzino emerga un elemento importante che dovrebbe essere tenuto presente. E il tema privatizzazione ed internazionalizzazione, perché certamente quello che dice Ragozzino: «che cos'è il privato in questo paese o che cos'è il pubblico» è vero, ma mi chiedo se si possa oggi ragionare a favore o contro le privatizzazioni tenendo solo presente la realtà del sistema privato italiano e senza riguardo ad interlocutori di altro tipo. In questa prospettiva mi sembra che non sia più tollerabile che il discorso con il privato sia solo il discorso con le famiglie italiane e con la logica dello pseudo mercato finanziario italiano. O il discorso è quanto meno a dimensione europea reale, o certamente, parliamo di realtà molto provinciali. IL DIRErFORE

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-Volevo fare un'osservazione su due punti. Uno è il problema della vendita della quota CREDIOP di spettanza della Cassa Depositi e Prestiti. Non vorrei sembrare utopista, però il fatto che sia difficile immaginare, per quel caso, una procedura d'asta è un problema essenzialmente culturale. In un paese dove chi effettua una scalata in borsa è considerato un ladro, perché ha seguito le procedure d'asta, (perché la borsa è un asta, infatti il compratore offre più di quanto possa offrire chiunque altro) è naturale che ci si fidi di più della trattativa privata. Ciò dipende da consuetudine culturale e non da una ragione tecnica. Per quanto riguarda il "perché i privati non usano l'asta", questa debbo dire rimane l'obiezione più forte al sistema dell'incanto. Non rispondo con delle osservazioni empiriche, rammentando i pochi casi in cui l'asta in effetti si è fatta. Vorrei piuttosto sottolineare che l'asta non si usa negli Stati Uniti ed in Inghilterra per la stessa ragione che ho detto prima, cioè che il mercato di per sè fornisce un'asta per quanto possibile perfetta che produce in qualche modo il valore del collocamento. È sufficiente fare un prezzo vicino a quello di borsa, naturalmente più basso perché si tratta di effettuare una grossa offerta in un ristretto periodo di tempo, e, avendo l'intenzione di collocarla, è necessario fare dell'underpricing, ma qui è il caso di un underpricing direi naturale dovuto all'aumento dell'offerta in quei giorni. RENZO RISTUCCIA

GIOVANNI MOGLIA - Questo dell'asta è un punto centrale che ci preme, non tanto perché si vuole chiedere regole per 100 in modo da ottenerne per 60, ma perché preoccupa che si introduca l'eccezione per poi trasformarla in regola. La trattativa privata, è sempre stata pensata in tutti gli ordinamen-


ti come l'eccezione dovuta a speciali situazioni. Da noi si è sempre dimostrata la regola. Si contratta preferibilmente a trattativa privata per il semplice fatto che, se si lascia ad un gruppo di persone la possibilità di scegliere se condurre loro in prima persona una trattativa o lasciarla condurre ad un sistema in qualche modo meccanico, è ovvio che questo gruppo di persone preferirà condurre la trattativa in modo personale. Dal loro punto di vista ciò rappresenta una giusta difesa delle proprie competenze e capacità. Però è anche vero che ciò mette in serio pericolo il principio dell'imparzialità nella vendita. È vero che capitalisti non si diventa per concorso pubblico, però, è anche vero che se si rimane all'interno di questa dicotomia tra portaborse e figli di papà dobbiamo veramente accontentarci di scegliere il meno peggio. In realtà una politica di privatizzazione dovrebbe avere come scopo quello di incentivare un reale mercato finanziario italiano e di poter fare entrare all'interno del sistema economico italiano altri operatori. Il richiamo alla scala europea ha una forte valenza. Non bisogna pensare nel momento in cui si vuole privatizzare una azienda, che l'offerta sia necessariamente indirizzata a uno dei quattro imprenditori italiani. Qui credo che bisogna cambiare ottica, se non altro domandarsi quale operatore europeo, o probabilmente quale operatore mondiale, bisogna chiamare a fare l'offerta di acquisto. Si fornisce così riposta all'altra obiezione che faceva Ragozzino che era un'obiezione sui trust, sui monopoli. Per finire, un'ultima nota sull'asta. Credo che bisogna tener presente quali sono state le esperienze italiane nelle privatizzazioni. Non sempre si è cercato il compratore per motivi reali di sinergie aziendali, quando si è privatizzata Mediobanca la vendita di quote minoritarie non è stata attuata per creare sinergie, ma solo perché gli

acquirenti erano signori che sedevano nel cosiddetto salotto buono della finanza italiana. Un altro punto che si è toccato questa mattina è quello della specialità della SPA pubblica. Su questo punto ho qualche dubbio, credo che il problema non sia tanto quello di bandire i fattori di specialità della SPA che verrà o viene dismessa dal pubblico, ma quello di scegliere la migliore specialità, quella più consona con gli obiettivi pubblici. Filippo Cavazzuti se la prendeva con gli articoli del codice civile che, in qualche modo; creano un privilegio per lo Stato, io credo che ci sono altri strumenti molto più efficienti ed efficaci. Come ricordava sempre Cavazzuti questa mattina, la Golden Share è uno strumento che l'esperienza straniera ci fornisce e che è molto efficace anche per evitare i rischi del mercato, per evitare i rischi di vendere a chi fa solo il prezzo maggiore. Due ultime cose, invece, sulla terza parte del lavoro mio e di Renzo Ristuccia di cui oggi non abbiamo parlato: gli ultimi due casi quello Enimont e quello delle banche pubbliche. Su Enimont la cosa che mi viene voglia di dire è che non si capisce perché Gardini si sia comportato così, perché francamente a leggere il patto parasociale tra ENI e MONTEDISON ci si domanda perché questo non se ne sia stato buono e tranquillo e non abbia aspettato il primo trimestre 1992, quando avrebbe potuto conferire poche altre aziende, prendersi la maggioranza di Enimont e gestirsi tranquillamente il colosso senza colpo ferire e senza, soprattutto, spendere soldi. Vorrei infine soffermarmi sulla vicenda delle banche pubbliche. C'è una anomalia abbastanza evidente che è quella della trasformazione non diretta dell'ente pubblico in SPA, cioè attraverso il passaggio per la fondazione con lo scorporo dell'attività creditizia nella SPA, mantenendo la fondazione senza più scopi diretti se non quello di investire 75


gli utili che riceverà dalle società operative in ricerca, università e in sanità. Rimane abbastanza incomprensibile perché si sia scelta questa soluzione che crea non pochi problemi, per esempio, rispetto alla vendita di pacchetti azionari consistenti. Se si vendono quote di SPA da parte delle fondazioni l'introito va alla fondazione, non va al Tesoro. E la fondazione che cosa se ne farà? Comunque rimane il problema del perché non si è scelta subito la trasformazione direttamente in SPA. È vero, infatti, che le fondazioni non hanno un capitale come può averlo la BNL, però è anche vero che si poteva facilmente pervenire a una suddivisione della proprietà della SPA in base al potere di nomina dei dirigenti all'interno della fondazione. Noi sappiamo, infatti, che per la massima parte le dirigenze di queste banche sono nominate dal Tesoro e in minor numero da enti territoriali. Si potevano dunque suddividere le quote delle SPA tra il Tesoro e gli enti territoriali. PIETRO SPHUT0 - Non credo che la questione delle privatizzazioni si risolva soltanto nella questione della proprietà. Il problema del contracting out è infatti un problema molto più ampio e molto più esteso di quanto in genere non si immagini. Lo ricordava per esempio il Ministro Formica al recente convegno a Capri, quando si chiedeva se I'ITALSTAT Si dovesse considerare un'impresa pubblica oppure un'impresa privata, essendo un'azienda che ogni anno ha nel conto economico circa 3000 miliardi di lavori affidati ai privati. È un'impresa diventata un intermediario che, sostanzialmente, divide commesse per imprese private. Per quanto riguarda le Ferrovie, meglio ancora: ogni anno danno commesse ai privati per centinaia di miliardi per i lavori più diversi. Come tutelare, come controllare questo processo di privatizzazione "di 76

fatto"? È emblematico che si pensi di affidare in concessione la realizzazione di infrastrutture, e poi la gestione dell'esercizio ferroviario, a società private che diventano in tal modo, per le nuove tratte ferroviarie, le assegnatarie di fondi pubblici per la costruzione delle infrastrutture e infine gestrici dell'esercizio. Con quali regole, quali controlli, con quale rapporto con le imprese pubbliche gestrici della parte centrale del servizio? Questo non si capisce. Andiamo verso una ulteriore complicazione del modello del rapporto tra pubblico e privato e questo vale per tutto il sistema dei lavori pubblici. Insomma c'è una nuova cordata forte di potere democristiano che si porta dietro una filiera di interessi produttivi privati e che li nasconde sotto l'ombrello dell'impresa pubblica. Questo è un problema che la sinistra non si pone in genere, perché ha i suoi piccoli interessi da tutelare e quindi preferisce tacere. Per questo motivo è importante dettare, anche in questo campo, regole che riguardano la realizzazione di investimenti pubblici gestiti dalle imprese pubbliche ma poi affidati in concessione a privati. Per questo è importante la proposta di realizzare un contratto di programma, contratto nel quale vengono fissate con chiarezza l'ammontare delle risorse pubbliche, destinate a investimenti con un quadro di certezze finanziarie per un arco di tempo pluriennale, contratto in cui vengono fissati i criteri con i quali si assegnano in concessione, eventualmente a terzi, le realizzazioni di queste opere, evitando i soliti pasticci per i quali fioriscono imprese inefficienti, parassitarie, che non hanno nessuna ragione di vivere sul mercato se non quella di essere accompagnate per mano da compiacenti amicizie politiche. PIER GIUSEPPE MERLO - Bisogna intendersi,


parliamo di dismissioni o parliamo di razionalizzazioni? Perché se parliamo di dismissioni, credo che il nostro sistema giuridico sbagli molte volte e molto spesso nel sistema di legiferare perché vuole trovare il vestito che si adatti a tutte le taglie; probabilmente è meglio disporre di tante taglie e dare la potestà al governo di scegliere fra esse. Può essere usata l'asta, può essere usata la vendita attraverso la trattativa privata o altre forme di dismissioni. Credo però che questa sia una responsabilità che spetta al rappresentante del capitale, che può essere l'ente centrale o locale. Questo sceglie l'opportunità e dovrà poi rendere trasparenti le procedure. Forse per legge si potrebbe stabilire quale è l'ente che va a fare i controlli. Ci sono delle società di controllo che svolgono queste attività, c'è la Corte dei Conti. Secondo me, sul piano legislativo, la formula più corretta è una mediazione tra posizioni che dia la facoltà a qualcuno di scegliere, ma nell'ambito di un certo quadro. L'opinione per cui la massima trasparenza è realizzata con l'asta, è fondata su un concetto corretto che è quello di prendere come base e prerequisito il fatto che ci sia un sistema legislativo fortemente tutelante dell'azionista singolo. Ciò però è ben lontano dal sistema culturale, giuridico, politico del nostro paese. Mi sembra allora molto più corretto oggi, invece di fermarci in dispute senza possibilità di conclusione, individuare, anche in materia di privatizzazione delle aziende pubbliche locali, delle regole generali che distinguano i diversi comportamenti e le diverse possibili autonomie in sede locale attraverso una griglia di possibili soluzioni. Credo che questo sia anche un modo per introdurre un sistema di competitività nell'ambito del sistema pubblico. Anche qui vi è un altro discorso che se un ente locale, un comune, una regione sceglie una strada, un altro ne

sceglie probabilmente una diversa, e dato che molte volte parliamo di servizi simili, possiamo confrontarne la competitività e, misurando il costo prestazione/servizio, possiamo individuare dove si è scelto un criterio più logico. GIANLUCA TREQUArrRIM - Torno sul problema della riforma delle banche pubbliche ed in particolare sull'aspetto delle fondazioni. Ritengo che di nuovo si debba chiamare in causa 11 fatto che la legge e i decreti, che danno attuazione alla legge stessa, non sono in realtà un vero e proprio complesso di provvedimenti di privatizzazione del sistema bancario italiano, ma piuttosto di riorgariizzazione del sistema stesso. A monte del progetto ci eravamo posti il problema dell'ente pubblico creditizio; oggi, in un mercato tendenzialmente più concorrenziale e ancora più nella prospettiva del mercato comune, possiamo attribuire delle finalità imprenditoriali diverse da quelle delle banche private e siamo arrivati alla conclusione che l'ente pubblico creditizio sta sul mercato perché persegue fondamentalmente obiettivi di reddito così come li persegue l'impresa bancaria privata. A questo punto, mantenere negli statuti degli enti pubblici creditizi alcune previsioni che richiamassero antiche finalità di carattere assistenziale e comunque di forte vicinanza all'economia locale, anche sotto il profilo dell'istruzione, della ricerca artistica e di tutte le contribuzioni che potevano venire dagli utili dell'impresa bancaria, era come lasciare in vita un residuo storico che non aveva più un senso reale nella dinamica concorrenziale del mercato bancario. Si-è allora pensato che la logica della separazione della finalità istituzionale dell'ente e da quella dell'impresa bancaria doveva passare attraverso la trasformazione anche nella forma giuridica della SPA. Ora la ricerca giuridica 77


che è stata compiuta a monte del decreto, non ha consentito di pervenire alla conclusione che l'ente pubblico creditizio, sotto forma di fondazione, potesse trasformarsi direttamente. Ciò dipende dal fatto che non sussistendo un capitale, che anche astrattamente possa essere suddiviso in quote, così come esiste negli enti pubblici creditizi che hanno un fondo a composizione associativa, non si poteva prevedere una trasformazione diretta, ma bisognava passare attraverso uno schermo intermedio che era quello del conferimento ad una SPA di nuova costituzione (tanto è vero che la legge prevede una novità nell'ordinamento che è quella della costituzione di una SPA con un atto ad opera di un unico azionista nel caso appunto dello scorporo dall'ente pubblico fondazione ad una nuova SPA che l'ente pubblico stesso ha costituito). In questi termini la "scelta politica" che si è fatta è che la fondazione non sia detentrice di partecipazioni di controllo in società bancarie diverse dalla SPA conferitana. Per il resto, è stata consentita una politica di portafoglio attraverso partecipazioni di minoranza al capitale di altre imprese bancarie o finanziarie, che la fondazione ritenesse opportuno di acquisire. Inoltre è stata consentita la costituzione di una riserva apposita, alimentata dagli utili derivanti dalle partecipazioni bancarie per sottoscrivere aumenti di capitale della SPA conferitaria e si sono mantenute quelle caratteristiche originarie dell'ente pubblico fondazione, di forte assistenza alle attività con finalità di interesse generale che si svolgevano nel tessuto economico locale. MARIA TERESA SALVEMINI - In realtà, dietro il doppio meccanismo fondazione e azienda bancaria, c'è una vicenda che ha alle spalle un lungo dibattito. Un'idea addirittura di doppia privatizzazione, cioè di privatizza-

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zione dell'azienda bancaria che diventa una SPA e di cui possono essere collocate su1 mercato tutte le quote che non tiene la fondazione, e di privatizzazione di certe attività, che farebbe lo Stato in certi campi, la cultura in particolare, e che invece verrebbero demandate alla fondazione che è più radicata nel territorio e che ha una visione meno centralista. Questo rispecchia, per esempio, le tradizioni delle democrazie nordiche, in cui moltissime imprese sono gestite da fondazioni che hanno proprio il compito di tenere delle attività culturali. Questo non è un modello banale, è un modello importante, soltanto che non sappiamo cosa significhi in un sistema creditizio statale come il nostro, perché tradizionalmente non ha dato utili, ma (in quanto in mano allo Stato) ha solo cumulato risorse nella forma di fondi di riserva. Se l'azienda bancaria fosse veramente collocata sul mercato con azioni che devono distribuire un dividendo, allora dovrebbe essere pure efficiente. E dunque bisognerebbe vedere il rapporto con queste fondazioni, di che cosa si tratta e se queste fondazioni avrebbero le risorse per essere poi veramente attive nei costosi campi della cultura dell'assistenza e quant'altro. Il problema non è da poco. E stato costruito un castello, però dentro ci può stare tutto ed il contrario di tutto. - Stiamo discutendo i limiti e il senso dello Stato imprenditore, non abbiamo mai discusso dello Stato erogatore di servizi, non abbiamo parlato né di sanità, né di previdenza, né di scuola o di giustizia, però stiamo ruotando, senza dircelo, attorno a questo tema oggi: "1990, Italia, paese che dovrebbe essere fortemente integrato nella economia europea, qual'è il ruolo dello Stato imprenditore?" Io faccio un sogno, mi piacerebbe telefonare coi telefoni francesi, FILIPPO CAVAZZUTI


avere la chimica tedesca, avere il mercato finanziario inglese, quindi mi piacerebbe avere un imprenditore che rompa la vocazione campestre e campaniistica dell'industria italiana. Scusate, torno ai problemi di quando facevo il professore di scienze delle finanze che, giunto durante il corso al capitolo dello Stato imprenditore, per non essere troppo ideologico, trovava una via d'uscita nella domanda seguente: in una situazione storica lo Stato deve spiegare ciò che ha o che dismette? Il discorso è molto diverso perché se deve spiegare ciò che ha, probabilmente si deve confinare l'intervento dello Stato ai monopoli naturali. In tal caso si è molto liberi nelle dismissioni perché le dismissioni a questo punto semplicemente non vanno spiegate. Se invece lo Stato deve spiegare ciò che dismette, essendo le procedure diverse, i contrasti saranno maggiori. Credo che lo Stato debba, tutto sommato, cercare di attestarsi sui monopoli naturali non tendere verso altre attività che i privati possono gestire. Questa mi pare debba essere la situazione normale. Tuttavia senza temere ciò che la storia per varie ragioni ci ha portato. L'uu nasce da un'esigenza di salvataggio e non a caso l'rai nel proprio statuto non ha nessuna clausola che prevede il nullaosta dell'imprenditore occulto, il mondo dei partiti, alle dismissioni. Nello statuto dell'iai non c'è l'autorizzazione ministeriale alle dismissioni. Al contrario in quello dell'ENI

c'è; il salto di filosofia è notevole. Nell'mi non si deve dare spiegazioni di ciò che si dismette, proprio perché l'istituto è nato sull'onda di un processo non strategico. Il mio disegno di legge è un disegno di legge di procedure, non obbliga a fare assolutamente nulla. Si potrebbe non vendere nulla una volta che fosse approvato. Si può non fare nulla, però se si va in quella direzione (cioè quella di dismettere) ci devono essere certe garanzie. Oggi siamo arrivati a un punto, dove non ci sono più spiegazioni del perché lo Stato gestisca tutta una serie di attività. Lo Stato imprenditore è dominato da burocrazie che spiegano la necessità di un certo intervento, non ai fini di un interesse collettivo ma semplicemente al mantenimento di se stesse. Non credo più alla funzione di uno Stato gestore, ma semmai a una funzione dello Stato fortemente regolatore perché oggi in Italia abbiamo tutti i guasti di un capitalismo mai regolato (la legge anti-trust l'abbiamo avuta da poco e anche in ritardo rispetto al regolamento CEE). Allora, la politica delle privatizzazioni è un modo per ridiscutere il ruolo dello Stato imprenditore in questo paese e per fissare delle regole comuni, molto forti, molto stringenti sia per l'imprenditore privato che per l'imprenditore pubblico perché alla contrapposizione del capitalismo di stato contro il capitalismo privato io ci credevo poco da giovane, ma non ci credo proprio più adesso.

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Senato: i disegni di legge 1. disegno di legge n. 2320 d'iniziativa di Cavazzuti, Riva, Visentini, Foa e Pasquino, presentato il 19 giugno 1990

1. Il dibattito che da qualche tempo si è in- l'abdicazione dell'autorità pubblica rispetto al raggiungimento di fini sociali, soprattutdirizzato verso il futuro delle imprese e delle banche pubbliche italiane non pare anco- to nell'area dei servizi essenziali per la collettività, ma sottolinea piuttosto la necessira sufficientemente ancorato ad alcuni «printà di ripensare in forme nuove il modello isticipi» da fissare in via legislativa. Da parte di alcuni partecipanti al dibattito si giunge ad tuzionale attraverso il quale deve esplicarsi una vera e propria «mitizzazione» del mer- l'azione pubblica per il governo dell'ecato e delle sùe capacità di autoregolamen[.1IS1W! tazione e si propone dunque il puro e sem- In questo quadro, le proposte contenute in plice trasferimento ai privati di ciò che oggi questo disegno di legge riguardano sia alcuni interventi da effettuare sulla normativa è pubblico. In questa retorica del mercato e che regola gli enti e le società delle partecidella concorrenza tutto è affidato allo spontaneismo individuale o d'impresa, ma, così pazioni statali e le banche pubbliche, sia la tutela del patrimonio mobiliare pubblico, sia, facendo, non si riesce a cogliere ed a rimediare a tutto ciò che «concorrenza» proprio infine, quella dell'investitore privato nel caso in cui si proceda alla alienazione di partenon è. Si rinuncia anche ad individuare quelcipazioni azionarie (minoritarie o di controlle forme più corrette di controllo pubblico del complesso modo di operare degli odierni lo) detenute dal Tesoro dello Stato, oppure da enti pubblici (come queffi creditizi), opsistemi economici caratterizzati - e non popure da imprese oggi appartenenti al sistetrebbe essere altrimenti - da un forte inma delle partecipazioni statali. Si tratta duntreccio di «pubblico» e «privato». L'attuale complessità dei sistemi produttivi que di norme che attengono sia alla trasforrende necessario il ripensamento delle momazione istituzionale, sia alle procedure ed dalità attraverso le quali lo Stato indirizza ai principi che devono essere rispettati in caso di alienazione di quella porzione del pale forze economiche verso il perseguimento di obiettivi non solo connessi al raggiungi- trimonio del settore pubblico italiano che pomenio del profitto aziendale. trebbe essere negoziato sul mercato mobiliare. Escludiamo dunque dalle nostre propoMa ciò deve avvenire regolando il mercato ed agendo sulle convenienze relative degli ste sia il patrimonio immobiliare, sia la semoperatori economici e non tramite la piani- plice alienazione di impianti industriali per ficazione od una legislazione troppo vincoi quali dovrebbero valere considerazioni e normative in parte diverse, ed in parte già listica. Questa impostazione non implica affatto all'esame del Parlamento. 80


2. In primo luogo, come è già stato detto, per uscire da un certo equivoco che incombe su questi temi, occorre intendersi sul significato da attribuire al termine «privatizzazione». In questa proposta di legge ne vengono assunti due: quello del modello organizzativoistituzionale da scegliere per la gestione delle imprese pubbliche, generalmente intese, e quello dell'assetto proprietario da dare alle stesse imprese. E ovvio che la soluzione del primo problema condiziona la soluzione da dare al secondo problema, anche se ne è distinto sia in termini concettuali che operativi. Per meglio valutare le proposte che seguono, tuttavia, va preliminarmente chiarito che la eventuale decisione di «dismettere» parti del patrimonio pubblico, così come quella di «acquisire», deve vivere nel campo della opportunità economica (comprendendo in questa anche ogni calcolo di strategia industriale) e dell'analisi costi-benefici; che, dunque, tale valutazione deve essere condotta caso per caso e che, pertanto, essa rientra nella tipica attività discrezionale del governo. Quest'ultimo dovrebbe, allora, definire prima di tutto le motivazioni generali e specifiche di ogni singola alienazione ed anche le priorità che intende rispettare su di un arco pluriennale. In particolare dovrebbero essere chiarite le motivazioni di strategia e di politica industriale che sottendono le eventuali alienazioni, ma anche le eventuali acquisizioni. La definizione invece delle «regole» che devono essere applicate in tali occasioni riguarda prevalentemente il campo della democrazia economica. Si tratta, infatti, di fissare quelle regole generali che consentano di sgombrare il campo da una insidiosa e poco trasparente «normativa speciale», di evitare la spoliazione dello Stato, di tutelare l'investitore privato, di garantire sia la necessaria

trasparenza delle procedure, sia il raggiungimento degli àbiettivi prefissati. Si richiede dunque un intervento del legislatore, di una «mano pubblica forte» che consenta e garantisca il successo dell'intera operazione: non, dunque, una «legge per privatizzare», bensì un complesso di norme che riportino al diritto comune ciò che la legislazione speciale gli ha sottratto e che tutelino il patrimonio pubblico e l'investitore privato in caso di alienazione di partecipazioni azionarie pubbliche. Concentrare l'attenzione su tali aspetti è poi anche la via maestra per uscire dal dibattito sulla teologia delle privatizzazioni che oggi ingabbia ancora molti e per poter definire, più laicamente, alcune «regole» con cui le parti pubbliche e private si devono muovere. 3. Si riconosce da molti esperti di diritto amministrativo e societario (opinioni che vengono condivise in questa sede) che l'attività d'impresa (anche quella dell'impresa pubblica) deve essere governata dalle norme del diritto privato e non da quelle del diritto pubblico e che le norme del diritto privato (in particolare quelle che governano le società per azioni) non devono patire deroghe in misura tale da creare un vero e proprio diritto speciale. E questo il suggerimento dato anche dalla Banca d'Italia, quando propone la trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni o, ad esempio, quello avanzato da altri quando propongono di trasformare in società per azioni le ferrovie dello Stato predisponendo al tempo stesso un adeguato «contratto di programma» che fissi gli oneri a carico del bilancio pubblico ed i più opportuni indicatori economici per la guida di una impresa posseduta dallo Stato, ma anche totalmente autonoma nelle sue scelte gestionali. Assunta nel significato di «privatizzazione 81


delle forme di gestione» (meglio sarebbe dire «di adozione del diritto comune») tale proposta ambisce principalmente a raggiungere la finalità del miglioramento della gestione e dell'efficienza interna ed a separare il potere pubblico dalla gestione dell'impresa. Nel caso dell'Italia, se si vuole opportunamente aderire a tali suggerimenti, si tratta allora, di abbandonare l'incerta nozione di ente pubblico economico di diritto pubblico e di eliminare le frontiere giuridiche tra le diverse categorie di imprese ed aziende non solo bancarie. Si tratta dunque di estendere all'intero mondo degli enti pubblici economici, delle imprese bancarie e non bancarie partecipate dal pubblico le norme del diritto comune societario. E bensì vero che anche il modello della società per azioni può essere piegato al soddisfacimento di fini che nulla hanno a che fare con la sua vocazione privatistica: è però altrettanto vero che, «senza entrare nella fabula mistica societaria» (cfr. F.

limita ad assegnare la «facoltà» della trasformazione. Nel caso degli enti di gestione italiani, una indicazione, da adattare tuttavia alla presente proposta, è già venuta nel 1981 da parte della Commissione Amato (Commissione di studio per la riforma delle partecipazioni statali) a proposito della opportunità di procedere alla «delegificazione» delle norme statutane degli enti di gestione delle partecipazioni statali. E ciò, nella proposta della Commissione Amato, al fine di meglio corrispondere all'esigenza di fare degli statuti strumenti di agevole adattamento agli obiettivi dell'impresa. Tale suggerimento è stato ripreso, nel 1989, anche dalla Commissione Cassese-Rossi, anch'essa istituita per lo studio della riforma del sistema di governo e di gestione delle partecipazioni statali. Ma questa Commissione si spinge un poco oltre quando propone che ai Consigli degli enti di gestione vengano affidate esclusivamente le Merusi, Dalla banca pubblica alla società per funzioni tipiche delle assemblee delle socieazioni, in «Banca, Borsa e titoli di credito», tà per azioni. Ciò perché consentirebbe di 1990) esso è quello che offre le maggiori rerisolvere anche il problema di chi è legittisistenze a tali svolgimenti. Esperienza anamato a promuovere l'azione di responsabililoga, con risultati positivi, ha fatto la Frantà contro gli amministratori. In questa procia (a partire dal 1984) per le diverse categoposta, in analogia all'assemblea delle società rie di enti creditizi. Qualcosa di analogo ha per azioni, il Consiglio è l'organo più assifatto la Spagna quando, sul finire degli anni milabile a tale assemblea e dunque quello che '80, ha sostanzialmente adottato le norme del potrebbe deliberare sull'azione di responsadiritto privato per ridisegnare Io statuto delbilità ai sensi dell'articolo 2393 del codice l'INI (Instituto Nacional de Industria), l'equicivile. valente spagnolo dell'mi. Qualcosa di analoRispetto a queste proposte, si tratta di comgo sta tentando il legislatore italiano con la piere un ulteriore passo in avanti ed assumere nota proposta di trasformazione in società in toto la normativa dettata per le società per per azioni delle banche pubbliche, già appro- azioni, abrogando anche le norme del codivata dalla Camera dei Deputati ed oggi alce civile che agli articoli 2458 (facoltà di nol'esame del Senato della Repubblica (atto Semina di uno o più amministratori o sindaci nato n. 2217). Con quanto successo ancora da parte dello Stato o di enti pubblici nel caso non si sa. Infatti, tale proposta di legge non di loro partecipazioni azionarie), 2459 (noopera d'imperio la trasformazione in società mina di uno o più amministratori o sindaci per azioni delle banche pubbliche, ma si anche in mancanza di partecipazione aziona82


ria da parte dello Stato o di enti pubblici), 2460 (scelta del presidente del collegio sindacale tra i sindaci nominati dallo Stato) e 2461 (estensione delle norme alle società per azioni d'interesse nazionale, compatibilmente con le disposizioni delle leggi speciali) introducono gravi elementi di specialità nella disciplina delle imprese pubbliche. Si tratta, infatti, di evitare che, negli anni '90, si possa ancora affermare che l'impresa a partecipazione pubblica è impresa di diritto speciale in cui l'azionista pubblico palese è sostituito da un «azionista politico occulto». Non dovrebbero più sussistere le condizioni per cui G. Minervini nel 1982 poteva chiedersi: «che scopo ha invero modellare l'intervento pubblico sulle forme del diritto privato, se poi la disciplina da applicare è quella del diritto pubblico?» (cfr. G. Minervini, Società a partecipazione pubblica, in «Giurisprudenza

commerciale» 1982). Invero, il sistema pubblicistico, basato su una struttura giuridica molto vincolante per l'operatività e la flessibilità aziendale, si è progressivamente dimostrato incapace tanto di svolgere l'attività imprenditoriale connessa alla gestione di un servizio quanto di esercitare gli stessi controlli sulla correttezza e sulla trasparenza della gestione. Si inserisce in questo scenario l'anomalia genetica delle imprese pubbliche, nate nella forma duplice di holding plurisettoriale o dell'azienda autonoma, nel quadro complessivo dell'economia nazionale. Nel primo caso si tratta di conglomerati dei quali è difficile definire la funzione industriale, dal momento che non è confrontabile con quella delle holdings sviluppatasi nel settore privato. Mentre infatti nell'area privata la holding svolge specifiche funzioni (esercizio della direzione unitaria, risparmio fiscale per le società del gruppo, governo di più società con il possesso di minoranze di capitale sociale, gestione

centralizzata di alcune funzioni del gruppo) nell'area pubblica la holding, nella forma dell'ente pubblico di gestione, nasce spesso prima delle singole società che dovrebbero formare il gruppo, secondo la nota prassi di creare prima l'organo e poi la funzione. Inoltre, gli enti di gestione costituiscono un filtro alla necessaria trasparenza sulla gestione delle imprese pubbliche: si pensi ai fondi di dotazione assegnati per gli investimenti e per il ripianamento dei deficit, all'ombra dei quali si sono verificati casi emblematici di distorsione nella allocazione delle risorse pubbliche. Per gli aspetti che qui ci interessano, la «privatizzazione» intesa in questo senso è dunque un provvedimento che, tra l'altro, consente di «creare» i prodotti («le azioni») che, in quanto omogenei ad altri prodotti, sono potenzialmente scambiabii e negoziabii sui mercati mobiiari, anche a fini di ristrutturazioni e ricapitalizzazioni da compiere per finalità di politica industriale e di strategia complessiva d'impresa. Potenzialmente, si è appena detto. Nei fatti sarà compito della «proprietà pubblica» (come si usa dire tra privati) dover delineare le strategie complessive e, tra queste, decidere se alienare o non alienare, per quali scopi, in quale quantità e con quali procedure tra quelle ammesse, le azioni rappresentative il valore dell'impresa. Considerazioni e preoccupazioni analoghe a quelle epresse dalla ricordate Commissioni conducono a proporre (articolo 1) la definitiva trasformazione in società per azioni degli enti di gestione delle partecipazioni statali, dell'Ente i-iazionale per l'energia elettrica (ENEL) e dell'Istituto nazionale per le assicurazioni (INA). Assegnare poi inizialmente al Tesoro dello Stato (che assume così la responsabilità illimitata dell'azionista unico) le corrispondenti azioni, consentirebbe finalmente anche al nostro Paese di iniziare a 83


superare l'anomalia dell'assenza di un Ministero dell'economia che indirizzi le scelte di fondo dell'autorità pubblica in materia di politica economica e di politica industriale. Ciò rende possibile la razionalizzazione della gestione, separando chiaramente da un lato l'indirizzo strategico dell'azionista e dall'altro le scelte aziendali di conduzione imprenditoriale, che devono essere orientate secondo lo sviluppo del mercato. In questo modo si renderebbe anche più semplice, ove necessario, la stipula di contratti di programma su base poliennale fra lo Stato proprietario (ma non gestore) e le imprese esercenti servizi pubblici (articolo 4). L'obiettivo da realizzare con tali contratti di programma è infatti quello di assicurare da un lato la trasparenza delle scelte di politica sociale evidenziando anche nei documenti contabili ogni forma di «onere improprio o indiretto» finanziato con fondi pubblici e, dall'altro, di porre l'impresa nelle condizioni di poter perseguire i profitti e di programmare la propria attività con un grado attendibile di certezza sugli scopi da raggiungere e sulle risorse finanziarie disponibili. In questa direzione si deve perseguire l'adozione della Direttiva CEE del 25 giugno del 1980, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie fra poteri pubblici e imprese pubbliche (80/723/CEE). Tale direttiva, considerando che deve essere assicurata la parità di trattamento tra le imprese pubbliche e le imprese private, che la trasparenza delle relazioni finanziarie tra poteri pubblici nazionali e imprese pubbliche deve permettere di distinguere chiaramente fra il ruolo dello Stato in quanto potere pubblico ed in quanto proprietario, che i poteri pubblici possono esercitare una influenza dominante sul comportamento delle imprese pubbliche, richiede che gli Stati membri assicurino la trasparenza delle relazioni finanziarie tra i 84

poteri pubblici e le imprese pubbliche. A tal fine, la direttiva richiede (articolo 1) che si facciano risultare: a) le assegnazioni di risorse pubbliche operate dai poteri pubblici direttamente alle imprese pubbliche interessate; b) le assegnazioni di risorse pubbliche effettuate da parte dei poteri pubblici tramite imprese pubbliche o enti finanziari; c) l'utilizzazione effettiva di tali risorse pubbliche. Più in particolare, la direttiva richiede (articolo 3) che le relazioni finanziarie fra i poteri pubblici e le imprese pubbliche, la cui trasparenza è da assicurare, siano: a) il ripiano di perdite di esercizio; b) i conferimenti in capitale sociale o dotazione; c) i conferimenti a fondo perduto od i prestiti a condizioni privilegiate; d) la concessione di vantaggi finanziari sotto forma di non percezione dei benefici o di non restituzione dei crediti; e) la rinuncia ad una remunerazione normale delle risorse pubbliche impiegate; 39 la compensazione di oneri imposti dai poteri pubblici. Assai forti sono le resistenze in Italia alla adozione di tale direttiva. Tanto forti da fare escludere inopinatamente tale direttiva dall'elenco previsto dall'importante disegno di legge (atto Senato n. 2148, «Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria per il 1990»), presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri in data 8 marzo 1990. Con tale provvedimento infatti, così come si legge nella relazione di accompagnamento, «viene data per la prima volta attuazione alla legge 9 marzo 1989, n. 86 («Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari»), nella parte in cui prevede una <degge comunitaria» annuale come strumento istituzionalmente preordinato ad assicurare, con la sua cadenza periodica, il continuo e fisiologico adeguamento


della legislazione nazionale agli obblighi che ci derivano dalla appartenenza alla Comunità europea». Tale esclusione, come detto, non può che sorprendere e il presente disegno di legge rimedia a tale omissione (articolo 1, comma 1, n. 5). Infine, nel valutare questa proposta non si sottovaluti il fatto che nella società per azioni sono assicurati una trasparenza ed un dirittodovere all'informazione sugli atti di contabilità e di gestione che è incomparabile rispetto a quanto avviene per un ente pubblico.

4. La seconda questione su cui fare più chiarezza riguarda le finalità delle privatizzazione intese, questa volta, nel senso della modifica degli assetti proprietari. A tal riguardo va preliminarmente ricordato che la buona letteratura finanziaria suggerisce che anche lo Stato dovrebbe tenere un conto del proprio patrimonio, oltre a quello delle entrate e delle uscite correnti. Tale letteratura insieme alle considerazioni svolte in chiusura del paragrafo precedente consentono allora di poter sostenere che le «privatizzazioni» (intese nei significati indicati) non possono essere funzionali al risanamento della finanza pubblica: almeno nel significato che abitualmente si assegna a questa espressione e come, purtroppo, si propone nella legge finanziaria per il 1990 (ove si destinano, in tabella B, le entrate per alienazione di beni patrimoniali alla copertura, tra l'altro, del Fondo di solidarietà nazionale per la Sicilia). Infatti, se per risanamento della finanza pubblica s'intende l'azzeramento del fabbisogno primario ed anche del disavanzo di parte corrente, si deve anche riconoscere che tali obiettivi si raggiungono operando sulle leggi che governano permanentemente le entrate e le spese pubbliche e non trovando copertura alle stesse leggi di spesa mediante l'alienazione di porzioni del patrimonio pub-

buco. Questa, come detto, può esercitare i suoi effetti sulla formazione del nuovo fabbisogno solo contribuendo a ridurre in futuro la spesa pubblica per interessi passivi, nel caso in cui il ricavato dell'alienazione sia destinato alla riduzione dello stock del debito pubblico e non semplicemente alla modifica della composizione dell'attivo. E ovvio, invece, che se il ricavato dell'alienazione fosse destinato al finanziamento di una spesa che si protrae nel tempo (come, appunto, quella indicata nella legge finanziaria per il 1990) si avrebbero gli stessi deprecabii effetti una tantum dei condoni fiscali.

5. Altri obiettivi, diversi da quelli del risanamento della finanza pubblica, devono dunque essere assegnati alle potenziali privatizzazioni intese nei due sensi indicati. Il primo obiettivo viene suggerito dalla nostra Costituzione all'articolò 47. Questa, all'articolo citato, dispone infatti che «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio» e «favorisce l'accesso del risparmio popolare... al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese». Così come è già avvenuto in altri contesti si può allora riconoscere alla «privatizzazione» degli assetti proprietari la funzione di accrescere l'azionariato popolare concorrendo a colmare il vuoto tra «lavoratore» e «proprietario». Ad esempio, tra il 1978 ed il 1988 il numero degli azionisti in Gran Bretagna, Francia e Giappone è aumentato del 55 per cento, in ragione della quotazione sul mercato di imprese pubbliche privatizzate. Ciò va sottolineato in quanto preoccupazioni di questo genere sono, ad esempio, del tutto assenti nel noto disegno di legge sulla trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni. In tale proposta ci si preoccupa a dismisura di mantenere il controllo di tali società nelle mani pubbliche ma non si

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dedica una battuta di ciglio al «come» si aliena il 49 per cento delle azioni ed a chi esso possa essere offerto. Il tutto deve avvenire nei soliti «salotti buoni» della finanza italiana? Se si rammenta che nelle esperienze francese ed inglese è stata fortemente raccomandata e praticata l'ampia pubblicità da dare a tali operazioni, si scorge quanto assente sia in tale disegno ogni briciola di quella cultura della trasparenza che dovrebbe invece permeare di sè ogni atto in questo settore. Nel testo licenziato dalla Commissione finanze della Camera dei deputati, tutto era rinviato (lettera e), comma 2 dell'articolo 2) ad una misera delega al governo che deve «disciplinare le procedure per la vendita delle azioni alfine di assicurare trasparenza e congruità», in assenza di ogni indicazione parlamentare sui criteri ed i principi direttivi. Neppure si scorge la volontà, così come è avvenuto anche in questo caso nell'esperienza francese ed inglese, di riservare ad un vasto pubblico una quota delle azioni potenzialmente alienabii. Bene ha dunque fatto l'Assemblea dei deputati a dare una prima indicazione sul «come» (l'offerta pubblica di vendita) procedere all'alienazione del 49 per cento. Come ha ricordato da tempo il senatore Visentini, l'acquiiizione da parte dello Stato di importanti partecipazioni azionarie non derivò per nulla da una politica di interventi statali nella economia e di gestione statale delle imprese, ma derivò bensì dai salvataggi delle tre grandi banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) che i privati avevano portato al dissesto. Con ingenti quantità di denaro pubblico banche e imprese vennero risanate. Si può ora compiere un atto di equità favorendo la formazione di un vasto azionariato pubblico che possa detenere nei propri portafogli parte di ciò che la collettività ha già comprato, in 86

alcuni casi più volte, come in quello che riguarda la chimica. 6. Il secondo obiettivo della potenziale «privatizzazione» può essere quello di accrescere l'efficienza del mercato mobiliare italiano, al fine di dispiegarne gli effetti sull'economia reale ed in particolare sull'efficienza della condizione delle imprese da parte dei loro amministratori. Nella letteratura che affronta il tema della opportunità del mantenimento di un mercato dei valori mobiiari e della connessa borsa valori si trova anche chi riconosce che tale mercato è efficiente ed anche un potente veicolo di informazioni se vi è sempre presente la possibilità del take-over, per la disciplina che questo impone agli amministratori

(cfr. Scharfstein, The Disciplinaiy Rok of Takeovers, in «Review of Economic Studies», 1988; AA.Vv., Symposium on Takeovers, in «Economic Perspectives», 1988). Questa possibilità del take-over, si sostiene, costituisce un forte incentivo per il management delle imprese a massimizzare il valore di mercato delle loro imprese (tale incentivo dovrebbe valere anche per gli amministratori delle imprese pubbliche che, svolgendo attività d'impresa, sono deputate a conseguire profitti). Se ciò non avviene, il valore delle azioni scende sotto quei limiti che rendano vantaggiosa la scalata da parte di altri e la sostituzione dell'intero management. Senza troppo enfatizzare, si può riconoscere che in tali analisi qualcosa di vero c'è. Ma allora, ci si deve chiedere che senso ha mantenere un mercato mobiliare ove, per la legislazione sugli assetti proprietari di molte imprese pubbliche (bancarie e non bancarie), è resa impossibile la scalata? Protetti dalla legge che garantisce loro il comando in eterno, gli amministratori possono destinare il loro tempo ad attività diverse da quella tesa ad


accrescere l'efficienza (tecnica, allocativa ed economica) della loro impresa. I valori di mercato assunti dalle azioni di tali imprese non si sa cosa possano esattamente riflettere. Questi valori, tuttavia, potrebbero pervadere l'intero mercato mobiliare e nessuno saprebbe più quali set di informazioni tale mercato sia in grado di fornire agli investitori. Sarebbe dunque opportuno, anche per questi aspetti, un forte intervento della mano pubblica che abroghi le norme che riservano a enti pubblici o a società dagli stessi controllati la titolarità della partecipazione di controllo nelle società partecipate, con l'obbligo di eliminazione delle relative clausole statutarie (articolo 1). Tali norme vanno poi applicate alle società bancarie nelle quali enti pubblici (è il caso delle tre banche di interesse nazionale) detengano partecipazioni di controllo o che risultino (per effetto della «legge Amato» sulle banche pubbliche) costituite per effetto di trasformazione o di conferimento da parte di enti creditizi pubblici. Tale intervento della «mano pubblica» che, si noti, non attiene al campo delle norme per la tutela della concorrenza o quelle della separatezza tra banca ed industria, deve rinviare a decisioni politico-programmatiche e di «governo» dell'impresa e, dunque, non legislative, l'onere di individuare i casi in cui anche il «padrone pubblico», senza la rete di sicurezza offerta dalla legge, non intendendo mettere in discussione il proprio potere di controllo, rifiuta l'alienazione del pacchetto azionario di controllo (articolo 2). A ciò si aggiunga che, in previsione del mercato unico europeo, tra gli obiettivi della potenziale «privatizzazione» (intesa nel senso di modifica degli assetti proprietari) può essere posto anche quello della creazione di un vero e proprio mercato mobiliare italiano

(superando dunque la sua odierna versione «farsesca»). Ciò richiede, tra l'altro, che si operi per inspessire tale mercato, per farlo uscire dalla nota «trappola dimensionale». Ma, allora, anche in questa prospettiva non ha molto senso la norma che generalizza il mantenimento di vincoli legislativi sugli assetti proprietari, al di fuori dei casi di monopolio naturale a cui assegnare particolari finalità pubbliche, garantendo, tuttavia, salvaguardia della concorrenza, la contendibilità di tali mercati. Ma non è questo il caso delle banche pubbliche («a che pro mantenere immobiizzati capitali pubblici, se questi non hanno alcuna implicazione pubblicistica?», si chiede Merusi), né quello di molte imprese delle partecipazioni statali. Qui il «pubblico» non si identifica con «collettivo»; qui la proprietà collettiva dei mezzi di produzione non porta al soddisfacimento di «interessi collettivi»; qui è difficile scorgere le caratteristiche del «monopolio naturale» mentre sono evidenti quelle del «monopolio politico» a fronte del quale i cittadini italiani non sono né pIù liberi, né più uguali. Più che di imporre generalizzati ed indiscriminati vincoli legislativi si tratta allora di esplicitare con grande chiarezza programmatica, da non irrigidire in una legge, i pochi casi limitati ed eccezionali in cui è ritenuto opportuno non dover consentire modifiche degli assetti proprietari che possano condurre ad una gestione dell'impresa non rispettosa del soddisfacimento di interessi che il mercato non è in grado di soddisfare. E però vero che le norme di legge tese a mantenere nelle mani pubbliche la partecipazione di controllo altro non sono che l'immagine riflessa di un capitalismo nostrano che va riscoprendo le società in accomandita per mettersi al sicuro riparo dalle scalate che possono (e che devono) avvenire sui mercati mobiliari. 87


Per evitare dunque che in caso di alienazione di partecipazioni pubbliche fatte per f inalità di azionariato popolare tali azioni vengano poi raccolte da poche altre mani e quindi sottratte al mercato, ci si domanda se non si debba prevedere che negli statuti delle società siano chiaramente indicati i limiti agli acquisti da parte di un singolo soggetto. In ogni caso il conflitto di interessi che può determinarsi tra industria partecipante e banca partecipata deve trovare soluzione più nei vincoli di comportamento e nei limiti alla presenza di soggetti non bancari nel capitale sociale delle banche che non nella indiscriminata riserva alla mano pubblica delle quote di controllo. 7. L'apertura del mercato mobiliare italiano al contesto internazionale impone ovviamente che anche i «prodotti» finanziari rappresentativi delle imprese italiane partecipate dal pubblico e negoziate sui mercati nazionali ed esteri (sempre più interconnessi) possano differenziarsi, al pari degli altri titoli, per rischio: redditività, durata, eccetera. Ma ciò che, invece, dovrebbe essere accuratamente evitato è che il valore di tali titoli possa anche dipendere da un contesto istituzionale (ad esempio l'autonomia dell'impresa che dipende dai poteri e dalle responsabilità degli amministratori, dalla loro natura ed estensione) che non trova riscontro in altri ordinamenti o presso altre imprese nazionali o straniere. Vi è da apprendere una qualche lezione del faffito collocamento all'estero dei titoli emessi dalla Banca nazionale del lavoro ben prima dei noti avvenimenti di Atlanta e da riflettere se a tale insuccesso non abbia contribuito la natura «incerta» di tali titoli, forse incomprensibili da parte degli investitori internazionali. Il disegno di legge proposto, nel suo Titolo I, rinvia, con delega, al Governo la solu-

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zione di molti di questi problemi con il convincimento che sono anche le istituzioni, quanto più omogenee tra di loro, quelle che meglio concorrono a far veicolare dal mercato informazioni corrette sui titoli negoziati o potenzialmente negoziabili, non distorte da fatti istituzionali a loro volta piegati al soddisfacimento degli interessi dell'«azionista politico occulto». Se sul mercato mobiliare la «comparazione» tra i titoli è fatto importante ed ineliminabile nel processo di ottimizzazione dei portafogli, le informazioni da raccogliere e diffondere per tale comparazione non devono dunque risultare distorte da fatti istituzionali che differenziano i poteri e le responsabilità degli amministratori, l'autonomia dell'impresa e quant'altro differenzi (sul piano istituzionale) le imprese a partecipazione pubblica da quelle private. 8. Si è già detto che l'obiettivo di un intervento legislativo in materia di privatizzazioni non può riguardare la scelta ed i contenuti ditali operazioni. Spetta, infatti, ad un programma del Governo - che ne assumerà la responsabilità politica - la decisione circa l'eventuale dismissione di una intera impresa o della partecipazione pubblica in un'impresa (articolo 2). Tale programma, inoltre, non potrà sorvolare sui «tempi» delle eventuali alienazioni e sulle piazze «estere» su cui collocare parte delle azioni pubbliche. Si è già detto della ristrettezza del mercato mobiliare italiano che porta alla non significatività dei prezzi che ivi si formano. Non si dimentichino anche gli effetti non positivi dovuti alla repentina concentrazione degli aumenti di capitali di qualche anno or sono. Per evitare che il mercato «si ingolfi» come allora e che, come allora, produca prezzi scarsamente significativi, l'autorità di governo deve dunque


programmare sull'arco di molti anni e su di una mòlteplicità di piazze il susseguirsi delle eventuali alienazioni avendo l'avvertenza, nel caso persegua l'azionariato popolare, di of frire una molteplicità di opzioni e non solo una «sequenza temporale» di titoli da alienare. La congruità dei prezzi e la trasparenza delle procedure sono, infine, due requisiti il cui soddisfacimento non può essere lasciato ad un mercato che si autoregolamenta (o che neppure si autoregolamenta, come nel caso italiano), ma che deve essere perseguito da un ulteriore intervento di una forte mano pubblica. Ciò che infatti si può e si deve fare tramite la «mano pubblica» è la predisposizione di una legge che detti le regole generali e astratte idonee a «livellare il campo» delle privatizzazioni ed a scongiurare le trattative addomesticate finalizzate a favorire gli acquirenti legati a quelle medesime forze politiche che hanno deciso la stessa alienazione. In Italia, è noto ed è anche sorprendente, una regolamentazione delle procedure è del tutto assente e i casi concreti - si pensi alla SME, all'Alf a Romeo e alla Lanerossi - hanno dimostrato con dovizia di particolari che la privatizzazione avviene al di fuori di qualsiasi schema: è sufficiente ottenere l'approvazione dell'autorità politica sulla scelta dell'acquirente. Ancora, in Italia, non esistendo alcuna chiara procedura di privatizzazione, si verifica nei fatti una sovrapposizione di ruoli e di interventi di soggetti istituzionalmente diversi. Gli statuti degli enti di gestione dettano ambiti di applicazione diversi alle regole di dismissione: nel caso dell'riti non vi è bisogno di autorizzazione; per l'ENI l'autorizzazione è necessaria nell'ipotesi di perdita di controllo sulla società partecipata; per EFIM e per l'Ente di gestione cinema è necessaria in ogni caso l'autorizzazione.

La normativa secondaria, le direttive ministeriali e gli statuti degli enti sono dunque la fonte giuridica attraverso la quale sono realizzate in Italia le operazioni di vendita delle imprese pubbliche o di riorganizzazione societaria e proprietaria delle aziende presenti nella costellazione del settore pubblico dell'economia. Questo assetto normativo è dunque fonte di mancata trasparenza, dal momento che determina decisioni disegnate sulla singola vicenda industriale, che è condizionata dagli interessi in gioco. Più opportuna è dunque una struttura legislativa (come qui si propone) in grado di definire i criteri generali in base ai quali vengono effettuate le singole operazioni di privatizzazione (Titolo III). Peraltro anche le esperienze di Francia e Gran Bretagna, dove il fenomeno della privatizzazione ha assunto dimensioni rilevanti negli ultimi anni, non dettano certo norme risolutive in relazione alla trasparenza delle operazioni. Di fatto, in Francia come in Gran Bretagna, nonostante le minuziose regole procedurali sulle privatizzazioni, il controllo delle imprese privatizzate è andato in mano a gruppi economici legati ai governi in carica. Probabilmente cio è dovuto sia alla mancanza di un'attenta definizione degli scopi delle dismissioni, sia alla scelta da parte di quelle autorità di governo di un sistema basato sulla combinazione di trattative private con grandi gruppi economici e offerte pubbliche di vendita ai piccoli risparmiatori. Da questa esperienza si deve apprendere molto per evitarne gli errori. 9. Quanto detto necessita di adeguate procedure per la determinazione dei corretti valori di mercato; ciò per evitare sia la «svendita» da parte dello Stato, sia la «tutela» dell'investitore. In ogni caso si manifesta la necessità di individuare procedure e regole 89


comuni in grado di determinare, con un grado sufficiente di approssimazione e soprattutto con la necessaria astrattezza di un metodo che non risenta di condizionamenti politici, il valore patrimoniale dei beni. Anche sulla base dell'esperienza francese di privatizzazione, per alcuni aspetti assai criticata e criticabile, risulta necessario individuare una sede di valutazione tecnica che non sia espressione dell'esecutivo (che si deve assumere soltanto la responsabilità politica della proposta di privatizzazione) e che debba riferire i, risultati della propria ricognizione tecnica nelle sedi parlamentari. Si propone pertanto la costituzione di una Commissione per la valorizzazione del patrimonio pubblico (Titolo TI) (e non, come nel caso francese, di una «Commissione per la privatizzazione») il cui presidente è nominato con determinazione adottata d'intesa dai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Funzioni e poteri di tale Commissione dovrebbero essere quelli di vigilanza sull'applicazione delle procedure tese a garantire la trasparenza e la simmetria informativa e di verifica della congruità dei prezzi di vendita. 10. Da molte parti si suggerisce che per evitare svendite «ad amici» del patrimonio pubblico, le alienazioni si svolgano attraverso il meccanismo di un'asta competitiva e trasparente. Il disegno di legge in esame accoglie, nella sostanza, tale suggerimento (Titolo III). Si prevede, infatti, che anche nel caso di alienazione di beni mobiliari si adottino le modalità dell'incanto disciplinate dall'articolo 3, primo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 (legge di contabilità dello Stato) e dal regolamento di contabilità dello Stato. Anche nei casi disciplinati dalla presente proposta di legge si deve dunque prevedere che - oltre alle altre modalità 90

previste nel citato articolo 3 - le offerte non sono efficaci se non superano il prezzo base o l'offerta precedente nella misura indicata nelle condizioni di vendita. Da parte di altri si obietta che l'asta (a dif ferenza della trattativa privata) mal si adatta ad accordi complessi quali sono quelli di dismissione di una partecipazione pubblica di un'impresa. In effetti nel «privatizzare» va attribuita la massima attenzione ai progetti dell'acquirente per il futuro dell'impresa, tenuto conto soprattutto della salvaguardia dei livelli occupazionali e delle relative garanzie offerte dai potenziali acquirenti. A siffatte obiezioni può rispondersi con una dettagliata previsione dei termini contrattuali nel prospetto informativo (articolo 9) e nel bando di vendita a cui deve essere data rilevante pubblicità (articolo 10). La determinazione del bando di vendita rappresenta il momento culminante della procedura di alienazione. In tale documento il soggetto alienante rende espliciti gli obiettivi che la vendita intende realizzare e stabilisce le condizioni con-. trattuali dell'operazione. Ciò che importa infatti è che una volta stabilite ed adeguatamente pubblicate le condizioni contrattuali, la gara avvenga esclusivamente sul prezzo in maniera che risulti impossibile favorire determinati concorrenti adducendo giustificazioni che non potessero essere valutate ex ante da tutti i partecipanti all'asta. Come si è detto i contenuti del bando sono in funzione degli obiettivi della alienazione. Così, ad esempio, se l'intento è quello di promuovere l'azionario diffuso, dovranno essere imposti limiti massimi di partecipazione al capitale particolarmente bassi. Diversamente, laddove si intenda vendere una intera impresa che si reputa né strategica, né meritevole di essere trasformata in società con larga base azionaria, ma si voglia esclusivamente realizzare il massimo introito pos-


sibile, sarà il caso di non fissare limiti percentuali massimi. Si muove all'asta l'ulteriore obiezione che essa non consente, a differenza della trattativa privata, di fare acquisire ai potenziali acquirenti tutte le informazioni sull'impresa che consentono di determinare il prezzo d'offerta. Si tratta di una obiezione che muove dall'attuale stato di scarsa trasparenza sulle condizioni delle imprese pubbliche (bancarie e non), uno stato che deve essere rimosso allegando allo stesso bando di gara tutte le informazioni necessarie (stime valutative del patrimonio, perizia sulle previsioni di reddito, dati contabili, eccetera) perchè tutti i concorrenti siano in grado di formulare un prezzo corretto. Se l'asta sembra dunque il sistema più trasparente per l'assegnazione ai privati delle partecipazioni pubbliche, si possono adottare correttivi al principio dell'asta stessa per accrescerne la flessibilità e l'adattabiità alle diverse motivazioni che spingono alla alienazione (articolo 11). Così, se il fine è anche quello di diffondere la proprietà dell'impresa si può utilizzare il metodo dell'asta marginale con quote riservate e con offerte in busta chiusa da parte degli intermediari che poi procedono al successivo collocamento tra il pubblico, così come avviene per i titoli di Stato. Oppure, potrebbe porsi in vendita con il sistema dell'asta soltanto una quota delle azioni, mentre la quota rimanente viene offerta al pubblico tramite una offerta pubblica di vendita. Tale meccanismo eviterebbe i pericoli della fissazione di un prezzo eccessivamente basso come avviene solitamente nelle offerte pubbliche di vendita, ma permetterebbe ugualmente ad un vasto pubblico di accedere alla proprietà dell'impresa. Ma anche sulla trattativa privata può essere innestato il principio dell'asta (articolo 11).

Si tratta di prevedere (così come prevede l'articolo 584 del codice di procedura civile nel caso di alienazione di immobili) che una volta completato l'accordo questo venga reso di dominio pubblico in tutte le sue condizioni (così come non è innaturale predisporre, nel caso della vendita di un patrimonio mobiliare che appartiene alla collettività) e che sia data facoltà a chi è interessato di «rilanciare», entro un numero prefissato di giorni, sul prezzo di vendita così stabilito, ma non sulle condizioni dell'accordo. Tale proposta, come appena detto, adatta ai casi previsti in questa proposta di legge la disciplina dell'articolo 584 del codice di procedura civile che prevede che «avvenuto l'incanto, possono ancora essere fatte offerte di acquisto entro il termine di dieci giorni, ma non sono efficaci se il prezzo offerto non supera di un sesto quello raggiunto nell'incanto». In questo modo, la flessibilità della trattativa privata deve essere messa alla prova della trasparenza e della concorrenza onde evitare che nella discrezione della trattativa l'accordo avvenga anche su di un prezzo che altri concorrenti, alle stesse condizioni, reputano troppo basso. Infine si segnala che (articolo 12) si è ritenuto di dover evitare che, qualora si voglia favorire l'acquisto delle azioni da parte dei dipendenti della società, tali azioni siano sprovviste del diritto di voto. La distribuzione di azioni ad un prezzo di favore non può infatti essere assimilata ad una forma di retribuzione del lavoro dipendente, ma piuttosto deve costituire un incentivo alla partecipazione dei prestatori d'opera alla gestione dell'impresa. 11. In conclusione va ribadito che anche l'Italia, per mantenere il controllo su processi di privatizzazione che oggi appaiono più «striscianti» che «programmati» e per affrontare dunqùe con sufficiente dignità ogni 91


processo di potenziale «privatizzazione», deve procedere lungo la strada dell'ammodernamento dei propri mercati finanziari e della legislazione a tutela del mercato. Ma la legge antitrust tesa a combattere l'abuso di posizione dominante; quella sulla trasformazione delle banche pubbliche che dovrebbe fornire i prodotti finanziari da scambiare e negoziare sui mercati; quella sul riordino dei mercati mobiliari, che potrebbe assumere la stessa importanza che la legge bancaria del 1936 ha assunto per il mercato creditizio; quella sulle offerte pubbliche di acquisto e di vendita che potrebbe far partecipare i piccoli azionisti al premio di maggioranza; quella sull'insider trading; quella che dovrebbe recepire la direttiva comunitaria 79/279/CEE del 5 marzo 1979, in materia di produzione e disseminazione delle informazioni; quella che dovrebbe recepire l'altra direttiva comunitaria 80/273/CEE, del 25 giugno 1980, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie fra poteri pubblici e imprese pubbliche; quella che dovrebbe emendare la norma introdotta in sede di conversione del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 94, che introdusse surrettiziamente un assai singolare segreto di ufficio imposto alla CONSOB... e così via, sono tutti progetti di legge che una qualche «mano forte» vuole rimangano allo stato di progetto. Se a questa «mano forte» non si contrapporrà una «mano forte pubblica» anche le future privatizzazioni saranno ricordate al pari della liquidazione dell'asse ecclesiastico, impostata da Marco Minghetti nel 1863. Come si legge nei libri di storia, tale liquidazione, a fronte di aspettative nell'ordine delle centinaia di milioni di lire (di allora!), fece registrare nel 1877 nel bilancio dello Stato un introito complessivo di appena 30.200.000 lire, corrisposto dalla nuova proprietà borghese, anche da quella che (ironia della storia!) per paura del nuovo non 92

aveva partecipato ai moti della unificazione. -

TITOLO I DELEGA AL GOVERNO Art. 1. 1. Il Governo della Repubblica è delegato ad emanare uno o più decreti legislativi, al fine di: rendere più efficiente la gestione delle imprese pubbliche attualmente esercitate da enti pubblici imprenditori e da società a prevalente partecipazione pubblica; promuovere, in conformità dell'articolo 47 della Costituzione, un'ampia e duratura diffusione fra il pubblic'o delle azioni delle società oggi a prevalente partecipazione pubblica e del capitale di rischio degli attuali enti pubblici imprenditori, previa trasformazione o conferimento di questi ultimi in società per azioni, anche attraverso forme di azionariato dei dipendenti; potenziare ed allargare il mercato mobiliare italiano e più in generale quello dei capitali, anche in previsione del mercato unico europeo; garantire la tutela dell'investitore privato e la trasparenza delle procedure in caso di alienazione di azioni possedute dallo Stato o da altri enti pubblici. 2. I decreti legislativi di cui al comma 1 si conformano ai seguenti principi e criteri direttivi: a) trasformare gli enti autonomi di gestione

delle partecipazioni statali, l'Ente nazionale per l'energia elettrica (ENEL) e l'Istituto nazionale per le assicurazioni (INA) in società per azioni. Le corrispondenti azioni sono inizialmente intestate al Tesoro dello Stato;


prevedere che le società costituite ai sensi della lettera a) siano integralmente sottoposte alle norme generalmente adottate per le società per azioni, con esclusione di qualsiasi deroga, comprese quelle previste dagli articoli 2458, 2459, 2460 e 2461 del codice civile. È fatta salva la disposizione dell'articolo 14dellalegge 12 agosto 1977, n. 675, in materia di revisione dei bilanci di esercizio; prevedere l'abrogazione delle norme che riservano a enti pubblici o a società dagli stessi controllate la titolarità della partecipazione di controllo nelle società partecipate, nonché delle norme che subordinano ad autorizzazione amministrativa il trasferimento delle azioni, con l'obbligo di eliminazione delle relative clausole statutarie; prevedere l'applicazione degli stessi principi e delle stesse regole di cui alle lettere b) e c) alle società bancarie nelle quali gli enti pubblici detengano partecipazioni di controllo o che risultino costituite per effetto di trasformazione o di conferimento da parte di enti creditizi pubblici; dare attuazione alla Direttiva della Commissione della Comunità europea del 25 giugno 1980 (80/723/cEE), relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie fra poteri pubblici e imprese pubbliche rispettando puntualmente i principi ed i criteri direttivi ivi contenuti; 39 predisporre adeguati protocolli di autonomia gestionale a favore delle società direttamente o indirettamente partecipate dalle società di cui alla lettera a); g) prevedere la possibilità che, in caso di alienazione di partecipazioni azionarie nelle società di cui alle lettere a) e d) nonché nelle società da-queste direttamente o indirettamente controllate, effettuate al fine di un'ampia e duratura diffusione delle azioni fra il pubblico, nello statuto della società siano preventivamente fissati i limiti quanti-

tativi all'acquisto diretto o indiretto di azioni da parte di un singolo soggetto nonché il periodo di tempo di validità di tali limiti; h) subordinare la cessione del controllo delle società di cui alla lettera d) alla presenza, negli statuti degli enti creditizi interessati, di disposizioni volte a impedire che soggetti individuali o gruppi non bancari acquisiscano posizioni dominanti o comunque pregiudizievoli per l'indipendenza dell'ente creditizio. (sic) Le delibere relative alle trasformazioni di cui alla lettera a) del comma 2 sono adottate, per ciascun ente, dagli organi interni competenti in materia di modifiche statutane, ed approvate con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri. Ai dipendenti delle società per azioni di cui al comma 2 continueranno ad applicarsi le disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge, fino al rinnovo del contratto collettivo nazionale di categoria o fino alla stipula di un nuovo contratto integrativo aziendale. Le società per azioni di cui al comma 2 succedono di diritto agli enti pubblici nei rapporti giuridici dei quali sono parte tali enti, anche in deroga alle vigenti norme legislative, amministrative e statutarie.

Art. 2. 1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1 della presente legge il Governo della Repubblica, al fine di realizzare le operazioni di cui all'articolo 1, emana disposizioni dirette a: a) disciplinare il trattamento previdenziale dei dipendenti delle società di cui all'articolo 1, attraverso l'iscrizione all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità e la 93


vecchiaia; stabilire le relative procedure e modalità nonché prevedere trattamenti integrativi a salvaguardia dei diritti quesiti; fissare le procedure per la valutazione deipatrimoni degli enti di cui alla lettera a) del comma 2 dell'articolo i della presente legge, riservando alla Commissione di cui al successivo Titolo TI il potere di verificare la congruità delle valutazioni; consentire agli acquirenti di azioni delle società di cui alla lettera a) del comma 2 dell'articolo i della presente legge il pagamento del prezzo in titoli di Stato. Art. 3. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge il Presidente del Consiglio dei ministri comunica al Parlamento una relazione scritta contenente l'elenco nominativo delle società per azioni di cui alle lettere a) e d) del comma 2 dell'articolo i della presente legge nonché delle società da queste direttamente o indirettamente partecipate con l'indicazione dell'attività imprenditoriale svolta da ciascuna società o ente. Entro il 31 marzo di ogni anno il Presidente del Consiglio dei ministri presenta al Parlamento una relazione scritta sullo stato di attuazione della presente legge e dei decreti legislativi da essa previsti, aggiorna i dati di cui al comma i ed espone le linee programmatiche pluriennali relative all' alienazione, anche su mercati mobiiari non italiani, di pacchetti azionari di società per azioni di cui al comma i, con specifico riferimento al grado di soddisfacimento degli obiettivi di cui alla lettere a), b), c) e d) del comma i dell'articolo i. Art. 4. i. Alfine di definire gli obiettivi quantita

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tivi e qualitativi dei servizi pubblici gestiti in concessione dalle società per azioni di cui alla lettera a) del comma 2 dell'articolo 1, nonché dalle società da queste direttamente oindirettamente controllate, sono stipulati contratti di programma, anche pluriennali, tra il concedente ed i soggetti esercenti il servizio in concessione. 2. I contratti di cui al comma i individuano, in particolare: gli obiettivi del servizio pubblico e le azioni necessarie per garantirne la realizzazione, nonché i tempi relativi; i parametri di qualità ed economicità dei servizi; le modalità di adempimento degli obblighi di servizio, con gli eventuali oneri a carico dello Stato o di altro ente pubblico territoriale; i criterf di determinazione delle tariffe; le procedure per la revisione del contratto in caso di mancata attuazione di singole fasi del programma, le conseguenze della mancata attuazione ditali fasi, previo esame congiunto tra le parti delle cause e della rilevanza degli inadempienti.

TITOLO

Il

ISTITUZIONE DELLA COMMISSIONE PER LA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO PUBBLICO

Art. 5. i. È istituita una Commissione per la valorizzazione del patrimonio pubblico che, a fini di difesa del patrimonio pubblico e per la salvaguardia degli investitori, vigila sullo



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ovvero atti di indirizzo generale. Il presidenstato di attuazione della presente legge e gate sovraintende all'attività istruttoria e delirantisce l'osservanza delle procedure in essa bera nelle materie non espressamente riserpreviste. Tale Commisione, con sede in Rovate alla competenza collegiale della Comma, ha personalità giuridica di diritto pubmissione. blico, è istituita per dieci anni e può essere 5. Con decreto del Presidente del Consiglio prorogata con cadenza decennale. La Commissione opera, nei limiti stabiliti dei ministri, su proposta del Ministro del tesoro, sono determinate le indennità spettanti dalla legge, in piena autonomia e indial presidente ed ai membri. pendenza. La Commissione è composta da un presidente e da altri quattro membri. Il presidente Art. 6. è nominato con determinazione adottata d'intesa dai Presidenti della Camera dei de1. Nell'espletamento delle proprie funzioni putati e del Senato della Repubblica, scelto tra persone di indiscussa moralità eindipen- la Commissione può: avvalersi della consulenza di esperti denza che abbiano specifica e comprovata esterni; competenza nelle materie giuridiche ed ecorichiedere alle pubbliche amministrazioni nomiche. I rimanenti quattro membri, scele agli enti di diritto pubblico notizie ed inti tra i magistrati o i dirigenti appartenenti formazioni, l'accesso ai documenti, nonché alle rispettive amministrazioni, sono nominati rispettivamente: uno dal presidente della ogni altra forma di collaborazione per l'adempimento delle proprie funzioni. Corte di cassazione; uno dal presidente del 2. La Commisione: Consiglio di Stato; uno dal presidente della provvede all'autonoma gestione dei fondi Corte dei conti; uno dal presidente dell'Ististanziati a carico del bilancio dello Stato, antuto nazionale di statistica. I membri della che in deroga alle disposizioni della contabiCommissione durano in carica cinque anni lità generale dello Stato; e non possono essere riconfermati, ad escluemana, entro novanta giorni dalla propria sione del Presidente che può essere riconferistituzione, un regolamento sulla propria ormato per una sola volta. Essi non possono ganizzazione nonché sul trattamento giuriesercitare, a pena di decadenza dall'ufficio, dico ed economico del personale; alcuna attività professionale o di consulenza assume il personale dipendente con conné ricoprire altro incarico che ne leda l'inditratto a tempo determinato di durata non supendenza di giudizio. Non possono essere periore a cinque anni, disciplinato dalle noramministratori, ovvero soci a responsabilità me del diritto privato. illimitata, di società commerciali, sindaci revisori o dipendenti di imprese commerciali 3. Il regolamento di cui alla lettera b) del comma 2 è deliberato a maggioranza qualifio di enti pubblici o privati, né ricoprire altri cata di quattro voti su cinque ed è approvauffici di qualsiasi natura, né essere imprento con decreto del Presidente del Consiglio ditori commerciali. Il presidente, se dipendente pubblico, è collocato fuori ruolo per dei ministri entro il termine di venti giorni dal ricevimento. E pubblicato nella Gazzetl'intera durata del mandato. La Commissione adotta collegialmente le ta TifJìciak della Repubblica italiana. 4. Il personale in servizio presso la Commisdeliberazioni con cui approva i regolamenti

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sione non può assumere altri impieghi o incarichi o esercitare attività professionali commerciali o industriali. 5. I decreti di nomina dei componenti la Commissione sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

Art. 7. 1. La Commissione esercita la vigilanza necessaria per assicurare il rispetto delle norme previste dalla presente legge. Essa inoltre: disciplina con proprio regolamento, da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, i sistemi di vendita di cui al comma i dell'articolo li, ivi comprese le modalità di riparto dell'offerta pubblica di vendita qualora le domande di acquisto superino le quantità offerte, anche al fine di garantire la massima pubblicità e trasparenza della vendita; propone impugnativa avverso le deliberazioni assembleari prese con il voto determinante di azioni detenute in violazione delle norme della presente legge e dei decreti da essa delegati e sospende, nel caso di riscontrare gravi irregolarità procedurali, le procedure di acquisto e di vendita previste dalla presente legge e dai decreti da essa delegati; verifica la congruità delle valutazioni dei patrimoni degli enti di cui alla lettera a) del comma 2 dell'articolo 1; verifica la congruità delle disposizioni del bando di vendita previsto dall'articolo 10 rispetto agli obiettivi dell'alienazione, alla completezza e chiarezza dell'informazione, alla parità di trattamento dei potenziali acquirenti e dispone le modalità della sua applicazione; richiede la modifica del bando di vendita 96

e fissa autonomamente un prezzo minimo d'incanto superiore a quello fissato dall'alienante qualora ne ravveda l'esigenza in base a stime da essa effettuate; J.l svolge, su richiesta di terzi oppure d'ufficio, indagini per verificare se sussistano violazioni della presente legge o delle normative derivate; predispone una relazione annuale sulla propria attività da presentarsi ai Parlamento entro il 30 aprile di ciascun anno; dispone indagini tecniche e perizie, avvalendosi anche dell'opera di esperti estranei alla pubblica amministrazione; richiede a ogni soggetto privato o pubblico dati ed informazioni su circostanze rilevanti ai fini dell'attuazione della presente legge; i) procede ad audizioni e partecipa con propri rappresentanti alle audizioni di cui al comma 3 dell'articolo 9; m) pubblica su apposito bollettino mensile ogni propria decisione.

TITOLO III MODALITÀ DI CESSIONE DELLE PARTECIPAZIONI AZIONARIE DELLO STATO E DEGLI ENTI PUBBLICI

Art. 8. i. Le azioni delle società di cui alle lettere

a) e d) del comma 2 dell'articolo 1, nonché quelle delle società partecipate da queste o dai preesistenti enti pubblici, possedute direttamente o indirettamente dallo Stato o da altro ente pubblico, sono alienate, al fine di assicurare la trasparenza e la congruità dell'alienazione, secondo le procedure disciplinate nel presente Titolo. 2. Le procedure di cui agli articoli seguenti


non si applicano: alle alienazioni di valore complessivo inferiore a 100 miliardi di lire o che non abbiano ad oggetto azioni rappresentanti una quota superiore al 10 per cento del capitale sociale. Il suddetto valore è calcolato tenendo conto del saldo delle operazioni compiute dall'alienante nel corso dell'ultimo anno ed aventi ad oggetto azioni o quote della medesima società; alle alienazioni delle azioni di cui al comma i effettuate anche per conto proprio in un mercato regolamentato da parte di intermediari mobiliari, da parte di aziende ed istituti di credito e da parte di società di partecipazione finanziaria di cui all'articolo 5 della direttiva 83/349 CEE controllate direttamente o indirettamente dallo Stato o da altri enti pubblici, nell'ordinaria attività di negoziazione di titoli; ai trasferimenti di azioni di cui al precedente comma i conseguenti a operazioni di fusione, incorporazione, conferimento e aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione, salvo parere negativo espresso dalla Commissione di cui al Titolo TI entro trenta giorni dalla richiesta. 3. La negoziazione delle azioni di cui al comma 1, quotate in borsa o sul mercato ristretto, può avvenire esclusivamente sui mercati regolamentati e con le modalità di negoziazione in essi previste. Questa disposizione non si applica a quanto previsto dall'articolo. il.

Art. 9. 1. L'alienante predispone e pubblica almeno trenta giorni prima della pubblicazione del bando di vendita di cui all'articolo 10, un prospetto contenente dati relativi alla situazione economico-finanziaria, all'organizza-

zione e all'evoluzione dell'attività dell'impresa le cui azioni sono oggetto di alienazione. Nel prospetto informativo l'alienante specifica altresì gli obiettivi dell'alienazione ed in particolare in che misura essa intenda promuovere l'azionariato diffuso, la partecipazione dei dipendenti o degli utenti alla proprietà dell'impresa, l'incentivazione di un mercato concorrenziale, la massimizzazione dell'entrata finanziaria, la ricapitalizzazione o la ristrutturazione dell'impresa, ovvero altri obiettivi di interesse collettivo. Nel caso in cui l'obiettivo dell'alienazione sia quello di promuovere l'azionariato diffuso e la partecipazione dei dipendenti o degli utenti alla proprietà dell'impresa, nel prospetto informativo devono essere riportate per intero le norme statutarie che fissano i limiti quantitativi al possesso di azioni da parte di un singolo soggetto. L'alienante, nel caso intenda sentire prima della elaborazione del bando di cui al successivo articolo i potenziali acquirenti od altri soggetti interessati, deve informare la Commissione di cui al Titolo TI, che partecipa agli incontri con propri delegati. Nel caso previsto alla lettera d) del comma i dell'articolo il il prospetto informativo è pubblicato contestualmente alla richiesta del parere della Commissione di cui al Titolo Il.

Art. 10. 1. In ragione degli obiettivi indicati nel prospetto di cui al'articolo 9, l'alienante predispone un bando di vendita che deve contenere almeno: a) la quantità massima di azioni acquistabii da un singolo soggetto direttamente o indirettamente o tramite società controllate, soggette a comune controllo o controllate 97


tramite accordi parasociali; le condizioni di acquisto, con particolare riguardo ai livelli occupazionali, e le sanzioni per il mancato rispetto di quanto convenuto in tali condizioni; le quote percentuali eventualmente riservate ai dipendenti ed agli utenti a norma dei successivi articoli; le modalità di vendita tra quelle indicate all'articolo 11 e la quantità minima di azioni costituente ogni lotto posto all'incanto o offerto mediante offerta pubblica di vendita; il prezzo o i prezzi minimi d'incanto; 39 le eventuali quote percentuali delle azioni da collocare sul mercato interno e su quelli esteri; g) le eventuali clausole che riservino all'alienante una quota degli utili maturati successivamente alla vendita e non evidenziati dalle stime di cui al comma successivo. (sic) Al bando di vendita sono allegati il prospetto di cui all'articolo 9, le stime in base alle quali è stato fissato il prezzo minimo d'incanto ed ogni altro elemento che possa garantire la parità informativa tra i potenziali acquirenti. Il bando di vefidita è redatto e pubblicato secondo le modalità fissate dalla Commissione di cui al Titolo 11. Non vi è obbligo di predisposizione del bando di vendita nel caso previsto alla lettera d) del comma i dell'articolo 11.

asta pubblica con indicazione in busta chiusa della quantità di titoli che si intende acquistare e del relativo prezzo. Le assegnazioni avvengono, una volta aperte le buste e trascritte le offerte pervenute in ordine decrescente di prezzo, o per il prezzo effettivamente offerto da ciascun partecipante all'asta o per il prezzo meno elevato tra quelli offerti dai concorrenti aggiudicatari; asta pubblica ai sensi della lettera b) con successiva offerta pubblica di vendita di quantità determinate di azioni al prezzo meno elevato tra quelli offerti dai concorrenti aggiudicatari; trattativa privata, salvo parere negativo espresso dalla Commissione di cui al Titolo 11 entro trenta giorni dalla richiesta. In questo caso il prezzo finale di vendita accettato dall'alienante, comprensivo di ogni pagamento presente e futuro, deve essere comunicato al pubblico entro ventiquattro ore dal raggiungimento dell'accordo tra alienante ed acquirente. Nei dieci giorni successivi tale prezzo costituisce il prezzo base d'asta pubblica con busta chiusa da consegnare alla Commissione di cui al Titolo TI. La partecipazione all'asta può avvenire solo sul prezzo finale di vendita accettato e reso pubblico dall'alienante e non sulle condizioni generali e specifiche dell'accordo tra alienante ed acquirente e per importi superiori almeno di un sesto di tale prezzo finale.

Art. 11.

Art. 12.

1. L'alienazione di cui all'articolo 10 avviene nei seguenti modi: a) asta pubblica ai sensi dell'articolo 3, primo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, e degli articoli 73, lettera a) e 74 del regolamento approvato con regio decreto 23 maggio 1924, n. 827;

1. Ai dipendenti ed agli utenti delle società per azioni di cui alle lettere a) e d) del comma 2 dell'articolo 1, nonché delle società per azioni da queste direttamente o indirettamente controllate, le cui azioni sono oggetto di vendita, può essere riservata una quota di partecipazione acquistabile in offerta

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pubblica di vendita o al prezzo minimo di cui alla lettera e) del comma i dell'articolo 10, o al prezzo meno elevato tra quelli offerti dai concorrenti aggiudicatari di un'asta effettuata ai sensi della lettera b) del comma 1 dell'articolo 11, ovvero a tale prezzo ulteriormente scontato del 5 per cento. Le azioni alienate ai dipendenti sono fornite di diritto di voto nelle assemblee ordinarie. 2. Qualora i dipendenti e gli utenti di cui al comma i non acquistino l'intera quota loro riservata, le rimanenti azioni sono alienate al pubblico mediante offerta pubblica di vendita.

Art. 13. I decreti legislativi di cui agli articoli 1 e 2 sono emanati dal Governo entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministero del tesoro di concerto con il Ministro per le partecipazioni statali e con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Gli schemi dei decreti legislativi di cui al comma i sono trasmessi ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, perchè su di essi sia espresso, entro trenta giorni dalla data di trasmissione, il parere delle Commissioni permanenti competenti per materia.

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2. disegno di legge n. 2381 d'iniziativa di Forte, Berlanda, Andreatta ed altri, presentato il 25 luglio 1990 Il presente disegno di legge mira a delegare il Governo ad emanare i decreti occorrenti per trasformare gli enti pubblici economici in società per azioni. Tale obiettivo si richiama direttamente alla risoluzione approvata dal Senato il 19 giugno 1990 in occasione dell'esame del Documento di programmazione economicofinanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 1991-1993 (Doc. LXXXIV, n. 3). Con tale risoluzione, firmata dai capigruppo della maggioranza, il Senato impegnava il Governo, tra l'altro, «alla dismissione ed allo smobilizzo dei beni patrimoniali dello Stato». Al riguardo, soggiungeva quel documento, «partendo dal disegno di legge già in esame presso il Senato (S. 1897-bis) occorrerà allargarne l'ambito normativo allo smobiizzo di proprietà mobiliari, attribuendo al Governo una delega intesa a trasformare enti ed aziende pubbliche in società per azioni ed a definire i principi per una corretta alienazione di quote anche di maggioranza o totalitarie dei predetti beni pubblici attraverso le tecniche più efficaci, allo scopo di diffondere ampiamente tra i risparmiatori la proprietà delle relative azioni». In occasione del recente esame dei provvedimenti recanti disposizioni sulla gestione produttiva dei beni immobili dello Stato (atti Senato nn. 1016, 1340 e 1897-bis), alcuni senatori hanno inteso richiamarsi al menzionato aspetto di quella risoluzione presentando un emendamento che è confluito poi nel testo del presente disegno di legge. Questo, ispirandosi all' obiettivo ricordato, fissa i principi direttivi che dovranno guidare il Governo nell'emanazione dei decreti in 100

questione. In breve, il Consiglio dei ministri dovrà individuare, su proposta del Ministro del tesoro, gli enti pubblici economici - fatti salvi gli enti di gestione delle Partecipazioni statali - tenuti a trasformarsi in società per azioni, disciplinando altresì gli aspetti pubblicistici pertinenti agli ordinamenti degli enti trasformati. Le azioni provenienti dalle trasformazioni saranno attribuite in proprietà allo Stato. In seguito alle trasformazioni di cui si è detto, si provvederà a collocare sul mercato finanziario e presso investitori istituzionali le partecipazioni derivanti dalle citate trasformazioni in società per azioni: tali collocamenti, definiti con decreto del Ministro del tesoro, sono, in ogni caso, subordinati alla determinazione delle condizioni, dei prezzi, delle entità e modalità delle cessioni, delle forme di tutela dei diritti dell'azionista pubblico, nonché dell'attribuzione delle partecipazioni di controllo. In ogni caso, le cessioni di partecipazioni dovranno essere eseguite in modo da garantire la diffusione fra il pubblico dei titoli e da prevenire forme, anche indirette, di concentrazione e di influenza determinante. Quanto verrà ricavato dai collocamenti e dalle cessioni sarà devoluto al tesoro dello Stato a riscatto o a conversione del debito pubblico. In questo modo, risulta chiarito il nesso per cui le dismissioni di partecipazioni che non vengano ritenute strategiche per il controllo pubblico, e che possono costituire un'offerta interessante per il mercato mobiliare, sono collegate al reperimento di mezzi finanziari per rendere meno gravoso l'onere del


debito pubblico. Chiarito brevemente il contenuto del provvedimento, resta da notare che esso si inquadra in un processo tendente a razionalizzare la presenza pubblica nel sistema produttivo - nella convinzione che oggi la funzione di governo si attua più efficacemente, ad esempio, nella regolamentazione dei mercati e nell'individuazione di modelli organizzativi entro i quali condurre l'attività economica che non nella presenza diretta in qualità di imprenditore su singoli segmenti del mercato stesso - ed a ridefinire la mappa degli ambiti entro i quali la presenza del pubblico presenta comunque il carattere di irrinunciabilità, come accade, ad evidenza, in determinati servizi per la collettività. Testimoniano di questo processo di revisione recenti ed importanti provvedimenti, come ad esempio la legge relativa alla ristrutturazione degli istituti di credito di diritto pubblico (legge 30 luglio 1990, n. 218) la quale, pur tra alcune oscillazioni ed incertezze, fissa nuovi modelli organizzativi e non esclude la possibilità di cessioni di banche pubbliche. E doveroso poi fare riferimento, nella stessa linea, ad altri provvedimenti, presentati al Senato nella corrente legislatura, e provenienti da linee di ispirazione politica e culturale anche assai diverse tra loro. In particolare, vanno ricordati il disegno di legge n. 1340, presentato il 30 settembre 1988 dal senatore Malagodi, reltivo ad un «Programma straordinario di alienazione dei beni dello Stato, di privatizzazione di enti e banche pubbliche e di alienazione di società a partecipazione statale, al fine di ridurre il debito complessivo dello Stato», ed il disegno di legge n. 2320, presentato il 19 giugno 1990 dal senatore Cavazzuti, recante «Norme per la trasformazione in società per azioni di enti pubblici economici e per la

tutela del patrimonio pubblico e dell'investitore privato in caso di alienazione di partecipazioni azionarie da parte del Tesoro dello Stato, di enti pubblici e di imprese a partecipazione pubblica. Istituzione della Commissione per la valorizzazione del patrimonio pubblico». In conclusione, quindi, la vastità del processo di ripensamento cui si è fatto cenno, consente di ritenere che anche il presente contributo possa accelerarne la tradizione in legge dello Stato.

Art. 1. Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, i decreti legislativi occorrenti per la trasformazione di enti pubblici economici - fatti salvi gli enti di gestione delle Partecipazioni statali - anche in deroga alle norme istitutive, determinandone i criteri, le procedure e le modalità. Alle aziende di credito pubbliche si applicano le disposizioni di cui alla legge 30 luglio 1990, n. 218.

Art. 2. 1. I decreti legislativi di cui al comma 1 saranno emanati nel rispetto dei seguenti principi direttivi: saranno individuati dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del tesoro, gli enti pubblici economici tenuti a trasformarsi in società per azioni, che succederanno nella totalità dei rapporti giuridici, anche in deroga alle vigenti norme legislative, amministrative e statutarie; saranno disciplinati gli aspetti pubblicistici pertinenti agli ordinamenti degli enti 101


trasformati; e) le azioni provenienti dalla trasformazione degli enti pubblici economici saranno attribuite in proprietà allo Stato e potranno essere in tutto o parte, alienate su delibera del Consiglio dei ministri, su proposta del Consiglio del tesoro, sentito il parere del Ministro competente alla gestione; in nessun caso potrà essere deliberata la cessione della maggioranza dell'ENEL e dell'ente Ferrovie dello Stato ove trasformati in società per azioni nonchè della Banca d'haha, dell'AGIp e della RAI e delle altre società aventi un ruolo strategico di economia pubblica; saranno individuate dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del tesoro, le società controllate dagli enti di cui all'articolo 1, comma 1, cedibili, anche in deroga alle vigenti norme legislative, amministrative e statutarie; J) le deliberazioni, adottate da parte degli organi interni competenti in materia di modifiche statutarie ai fini dell'attuazione delle disposizioni contenute nelle lettere da a) a c), saranno approvate con decreto del Ministro del tesoro, di concerto con i Ministri competenti per la vigilanza sugli enti, restando soggette alla stessa approvazione, anche successivamente, le deliberazioni comunque concernenti il diritto di voto; con decreto del Ministro del tesoro, si provvederà alle operazioni di collocamento, anche parziale, sul mercato finanziario e presso investitori istituzionali delle partecipazioni di cui alle lettere e) ed e), previa determinazione delle condizioni, dei prezzi, delle entità e modalità delle cessioni, delle forme di tutela dei diritti dell'azionista pubblico, nonchè dell'attribuzione delle partecipazioni di controllo; le operazioni di costituzione delle società di cui all'articolo 1, comma 1, di alienazione 102

di cui alla lettera g) e relative valutazioni potranno essere effettuate con l'assistenza di banche d'affari di comprovata e specifica esperienza, anche in deroga all'articolo 2343 del codice civile; il collocamento e le cessioni delle partecipazioni dovranno essere eseguite in modo da assicurare la diffusione fra il pubblico e da prevenire forme, anche indirette, di concentrazione o di influenza determinante; i) con decreti del Ministro del tesoro, saranno stabiliti i criteri generali di trasparenza da osservare nelle procedure di collocamento e di cessione delle partecipazioni previste dalla presente legge, anche in deroga alle norme di contabilità generale dello Stato; il ricavato dei collocmenti e delle cessioni sarà devoluto al tesoro dello Stato a riscatto o a conversione del debito pubblico; ai dipendenti delle società per azioni di cui all'articolo i continueranno ad applicarsi le disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge, fino al rinnovo del contratto collettivo nazionale di categoria o fino alla stipula di un nuovo contratto integrativo aziendale; per i medesimi dipendenti, fino alla emanazione delle norme delegate previste dalla presente legge, sono fatti salvi i diritti quesiti, gli effetti dileggi speciali e quelli derivanti dalla originaria natura pubblica dell'ente di appartenenza. Art. 3. i. I decreti legislativi di cui al comma i saranno emanati, ai sensi della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro del tesoro, di concerto con i Ministri competenti ai sensi delle norme vigenti, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari reso entro quarantacinque giorni dalla comunicazione. Si prescinde dal parere se esso non è adottato nel predetto termine.


questo istRuzioni

Metropoli e città difficili Il dibattito sulle aree urbane metropolitane continua a svilupparsi in convegni ed incontri ed oggi, dopo la legge 142 del 1990, nelle sedi istituzionali dove dovrebbero concretamente prendere corpo autorità e poteri locali nuovi o rinnovati. Contenitori istituzionali e strumenti operativi sono i temi delle riflessioni degli addotrinati e dei professionisti con un taglio, qualche volta, interdisciplinare, così come la nostra rivista ha proposto nell'ultimo numero (Governo del territorio e riforma degli enti locali, n. 81-82). Nelle sedi istituzionali un occhio particolare è per gli aspetti di distribuzione del potere e delle risorse politiche. Nessuno scandalo, naturalmente. Chi ha già vissuto, in andata e in ritorno, le vicende delle autorità metropolitane, per esempio a Londra, sa bene che l'attenzione per la mappa del potere è spesso decisiva (si veda, su questa rivista, l'articolo di Ken Young Ascesa, declino e scomparsa del Greater London Council, n. 69 del 1986). Città e metropoli sono realtà sociali che si potrebbero dire straripanti e in quanto tali, almeno tendenzialmente, ingovernabili. Gli amministratori lo sanno e spesso se ne fanno alibi, mentre occorrerebbe invece moltiplicare e concentrare gli sforzi. A proposito della recente legge su Roma capitale uno dei saggi pubblicati nelle pagine seguenti suggerisce una interpretazione che utilizza strumenti del tipo «policy analysis» e pone interrogativi sui binari 103


che potranno essere seguiti per dar corso concreto ad una pro gettualità urbana che in ogni caso non può non avere orizzonti temporali lontani per gli attuali attori dell'arena politica-decisionale. Una lettura da dibattere. Il dilemma veneziano fra intervento straordinario e gestione ordinaria (che abbia una sua tenuta strategica) viene ripreso in altro articolo del dossier con l'idea di sottolineare la necessità per Venezia del secondo corno del dilemma. Su New York, che in questi giorni è di nuovo dentro una crisi Jìnanziaria e gestionale pari a quella degli anni Settanta, pubblichiamo, infine, il saggio che apre il libro di. analisi storica e sociologica (Power, Culture and Piace, Russeil Sage Foundation editòre) pubblicato per iniziativa del comitato di studio ad hoc del Social Science Research Council. New York, cioè l'emblema di area metropolitana come fenomeno sociale straripante dove non sai i confini fra regole ed eccezione.

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Una capitale per la Repubblica Benefici e mezzi di un programma di sviluppo urbano a Roma dopo la legge n,. 396/1990

di Giulio Lamanda

ciarono a susseguirsi le grandi operazioni immobiliari. Ma effettivamente ci sono voluti rebbe per viverci? trent'anni perchè potesse dirsi, con la inauDeloge si agitò come un animale spaventato. gurazione della Grande Arche quadrangolaLa cosa parve stimolare, Favre, che disse: re, che il progetto è effettivamente conclu- Me ne andrei su un'isola deserta. Fino al suo arrivo alle isole, anche Nevers ave- so, nella sua funzionalità e nella sua confiva sognato l'isola deserta. Lo indignò che quel gurazione simbolica (nonostante altro spazio sogno potesse ancora ingannare un forzato del- edificabile sia ancora disponibile, altri immobili di enormi proporzioni siano ancora in l'isola del Diavolo. - Ma non preferirebbe tornare in Francia, a cantiere, altre due linee di metropolitana urbano debbano ancora congiungersi alla giganParigi? O magari in America? - No, replicò. - Nelle grandi città è impos- tesca stazione sotterranea della metropolitana regionale ... ). sibile trovare la felicità. "- Se ki ptesse andarsene, che posto sceglie-

Nevers pensò: questa è una frase che ha letto o che ha sentito". IL TEMPO DELLO SVILUPPO URBANO

A. Bioy Casares, Piano di Evasione

Trent'anni. Questo fu il lasso di tempo che, nel lontano 1958, lo Stato francese concesse alla speciale agenzia di missione incaricata del progetto di un nuovo grande centro direzionale per la città di Parigi, al quadrivio della

Dèfense. Per dieci, quindici anni la Dèfense fu poco più di una landa di fango disseminata da materiali di costruzione. Poi venne la crisi pe trolifera e tutto sembrò addirittura fermarsi. Solo in seguito, dopo un ventennio, con l'arrivo della metropolitana regionale, comin-

Se comincio questa discussione intorno alla legge n. 396 del 1990 per Roma capitale con un richiamo alla esemplare vicenda della Dèfense di Parigi, non è certo per tediare il lettore con un altro degli ormai innumerevoli (e pur tuttavia sempre preziosi) studi comparativi di sviluppo urbano. Ma è, più semplicemente,per richiamare l'attenzione sulla "variabile tempo", sulla dimensione normalmente assai estesa del periodo necessario ad una trasformazione urbana di grande scala. Trent'anni, nell'accezione comune delle cose, costituiscono il volgere di una generazione: l'arco di tempo in cui il signifi105


cato stesso di utilità e convenienza per gli individui perde di significato, non foss'altro perchè, al termine del periodo, gli individui non sono più gli stessi. Potrà forse Roma essere più celere di Parigi nel realizzare il suo SDO (le cui dimensioni sono però complessivamente maggiori della Dèfense: 840 ettari contro 760), ed è anche possibile credere, per quanto forte debba essere il ricorso alla fede in proposito, che possa occupare meno di una generazione l'ambizioso programma di riorganizzazione funzionale del centro storico della città, collegandolo al tessuto di un grande parco archeologico regionale. Ma un lustro in più od in meno non cambia la sostanza della questione: primo, cominceremo ad avvertire i benefici del programma tra molto tempo, e forse non gradualmente, ma solo quando sarà stata raggiunta una certa massa delle infrastrutture installate; secondo, per conseguenza, il sistema dei benefici che avremo al termine del processo è quasi ininfluente sulle persone ed i gruppi che sono chiamati ad operare oggi intorno al programma); terzo, poichè il sistema delle preferenze e dei desideri si sarà probabilmente trasformato, è oggi difficile fare esercizi di misurazione dei risultati che avremo in quella fase finale. E potremmo avere delle sorprese in ordine a quale sia il segno degli effetti per le diverse coorti di consumatori che si saranno succedute nel corso del programma. Questo insieme di difficoltà concettuali può essere sperimentalmente percepito da ciascuno di noi, solo che si faccia un piccolo esercizio di immaginazione. Se provo ad immaginare il beneficio che potrei personalmente trarre, fra trent'anni, dalla realizzazione dei grandi progetti urbani previsti dalla legge, immagino certo una città più efficiente, in cui sia più facile incontrarsi, produrre e consumare. Certo tutta la 106

vivacità del contesto non potrebbe che darmi piacere. Ma quanto a me, all'età che avrei raggiunto, non sarebbero risparmiate le disillusioni che ogni città efficiente non manca di riservare a quanti sono ormai fuori dalla produzione, e non hanno potuto adeguare le proprie idee ai nuovi sistemi di valori I . A conclusioni non dissimili si giunge se consideriamo la questione anche da punti di vista meno soggettivi: è chiaro che lo spostamento allo SDO delle attività pubbliche potrebbe spiazzare le scelte residenziali sino ad oggi compiute da una grande quantità di cittadini, e ridurre il mercato per tutte quelle imprese che si sono organizzate intorno alla attuale geografia della città. Potranno tutte queste perdite essere compensate? E dubbio che i benefici futuri possano compensare chi nel frattempo fosse uscito dal mercato e che la contropartita possa avere alcun senso economico. La difficoltà di valutazione di programmi pubblici molto estesi nel tempo è un tema ben noto alla economia del benessere 2 Recentemente, l'attenzione è stata anche autorevolmente concentrata sulla "delusione" che si produce presso i consumatori nei confronti dei beni e servizi prodotti dalle economie sviluppate I. La durata temporale del programma aumenta sia l'incertezza che il rischio di delusione, a causa del "superamento" dei punti di vista e dei desideri di una o più coorti di consumatori.

BENESSERE FINALE E BENESSERE DA PARTECIPAZIONE

Dunque, non è certo l'aspettativa di un lontano e forse ingradevole futuro, ciò che spinge a guardare con favore ed interesse alla nuova legge per un programma straordi-


nano di progetti in Roma capitale, ma la speranza di una più complessa ed interessante partita urbana che si possa giocare oggi e nel prossimo futuro. È dunque necessario guardare non tanto (o se preferite non solo) al sistema dei benefici finali del programma, ma al flusso dei benefici sociali che sono generati nel corso della realizzazione del programma stesso. L'analisi economica si limita, per tradizione, a considerare solo una parte di questi effetti transitori: le variazioni di attività necessarie per produrre i beni direttamente ed indirettamente legati alle realizzazioni fisiche del programma. Un altro sistema di effetti è però altrettanto importante, e riguarda questa volta non la predisposizione di beni fisici, ma la tessitura di relazioni sociali (tra persone e tra gruppi più o meno formalmente rappresentati attraverso le istituzioni) necessarie per immaginare i progetti che comporranno il programma (idee nuove, soluzioni gestionali appropriate, etc.) e poi per determinare l'attitudine della collettività intorno ad essi. Questo insieme di fenomeni sociali, non dissimilmente da quanto accade per la produzione degli inputs fisici necessari a realizzare le infrastrutture, costituisce un requisito ed anche un risultato della realizzazione del programma. L'insufficienza o l'assenza di progettualità sociale e di consenso collettivo possono ledere lo svolgimento del programma, ritardandone materialmente l'esecuzione (attraverso le mille forme della opposizione politica ed amministrativa). Ove il programma venisse comunque, realizzato, la popolazione ne trarrebbe un senso di frustrazione, allontanandosi ulteriormente dalla cosa pubblica e dai suoi rappresentanti. Al contrario, la larghezza delle idee e delle proposte, unitamente al consenso da parte

della popolazione, non solo permetterà una più rapida ed efficace installazione dei manufatti, ma migliorerà anche la condizione di benessere complessivo della popolazione, per effetto del più stretto legame tra persone ed istituzioni, e dell'appagato sentimento di realizzazione collettiva. Come si sarà notato, questi effetti positivi possono essere con buona approssimazione espressi dal concetto di "partecipazione", che per molto tempo ha polarizzato l'attenzione dei sociologi che oggi appare lievemente in declino. Qui ne proponiamo una riedizione più consona al trattamento economico della questione, e suggeriamo l'adozione del concetto di "benessere partecipativo". Il "benessere partecipativo" può essere massimizzato nel corso della realizzazione del programma. Ma possiamo anche avere una perdita di questo tipo di benessere, a seconda di come il programma venga concepito e gestito. La recente legislazione degli investimenti pubblici (si pensi alle procedure approvative "autoritarie", oppure alla tendenza a "ricentralizzane" la programmazione degli investimenti) tende a trascurare se non a ledere il "benessere partecipativo". Ciò sottointende l'ipotesi che l'efficacia e la rapidità di raggiungimento dei risultati finali di un programma (e quindi il "benessere finale" che ne proverrà alla collettività) possano sempre e comunque compensare la perdita di partecipazione che si è resa necessaria per procedere più in fretta. Questo scambio tra efficacia e "benessere partecipativo" può forse ancora essere tollerato con riferimento ad interventi di modeste dimensioni. Non dovrebbe però essere accettato con riferimento a programmi di grande respiro temporale, se non altro perché i connotati del "benessere finale", come si è detto in apertura, sono di incerta riconoscibiità (almeno per la generazione che 107


è fatta oggetto dello scambio). Certamente tra il "benessere finale" ed il "benessere partecipativo" esiste, anche nei grandi programmi di lungo tragitto temporale, un inevitabile legame. E evidente infatti che quanto maggiore è la desiderabilità del risultato atteso, tanto maggiore è la possibilità che, per raggiungerlo, si sviluppino quei legami sociali che producono il "benessere partecipativo". È tuttavia preferibile mantenere separati i due concetti di benessere, perchè essi riguardano generazioni diverse di individui, e sono fatti concretamente di contenuti diversi. Una città che fosse stata chiamata a realizzare il proprio futuro sarebbe assai più felice di una città a cui quel medesimo futuro fosse stato imposto o regalato. In questo schema il "benessere finale" non ci interessa soltanto nella sua "oggettività", ma anche come supporto strumentale al "benessere partecipativo". Infine, è bene tenere conto che la domanda di partecipazione non è costante nel tempo. Sebbene vi sia una certa sicurezza che nel lungo periodo il suo trend sia crescente, in intervalli più o meno ampli possono esservi oscillazioni significative, tra momenti in cui la popolazione è sostanzialmente disinteressata alla vita sociale urbana, e fasi in cui la domanda di azione collettiva, di interferenza nei confronti dell'azione delle rappresentanze, etc., sono molto forti. La partecipazione alla vita urbana costituisce una parte del più generale moto oscillatorio tra "ripiegamento nel privato" e "dedizione alla vita pubblica". Per tenere conto del trend crescente della domanda sociale di partecipazione, vi sono requisiti minimi di ripartizione delle responsabilità e di democrazia economica che dovrebbero essere rispettati da ogni programma di sviluppo urbano (ad esempio quelli 108

impliciti nelle norme della legge n. 142 del 1990, che intendono stabilizzare le aspirazioni e gli strumenti del decentramento amministrativo). Ma vi è una differenza, quando questi strumenti sono semplicemente delegati ai funzionari (dei partiti politici, delle amministrazioni periferiche, etc.) rispetto a quando sono direttamente riconosciuti e condivisi dalla popolazione che ne fa uso per la propria iniziativa nella città. Questo mutamento di significato nell'impiego degli strumenti per la partecipazione, non dipenderà esclusivamente dalla gestione della legge per Roma capitale, in quanto costituisce il risultato di un più complessivo rapporto tra la popolazione e la sfera pubblica. Ma la domanda cui possiamo cercare di rispondere è se questa legge contenga o meno, esplicitamente o potenzialmente, gli elementi per favorire questo allargamento dell'azione sociale, e consentire una maggiore e più diretta partecipazione allo sviluppo urbano.

DALL'EQUILIBRIO NON COOPERATIVO AL PATTO D'AZIONE PER IL PROGRAMMA URBANO

Ad avviso di chi scrive, vi è almeno una buona ragione per impostare in chiave positiva la risposta a questa domanda. Da dove nasce questo ottimismo? Dal fatto che la legge per Roma capitale pone fine (almeno temporaneamente) ad una lunga circostanza di stallo che aveva escluso ogni partecipazione attiva alla programmazione dello sviluppo urbano. Nonostante numerose proposte per lo sviluppo fossero state avanzate, ripetutamente ma separatamente l'una dall'altra, nessuna di esse guadagnava il consenso necessario per diventare credibile ed incamminarsi verso la realizzazione. Questa situazione, che speriamo di esserci


lasciata alle spalle, avrebbe potuto essere definita di "equilibrio non cooperativo" i diversi soggetti leaders della vita urbana (kader in proprio o leader rappresentativi) si opponevano l'un l'altro una sorta di veto preliminare, tale da impedire l'avanzata anche di uno solo dei giocatori. Ciò non perché la mossa che questi avesse proposto fosse direttamente lesiva degli interessi degli altri. Ma perché il rafforzamento di quel giocatore, rafforzamento inizialmente neutrale, avrebbe potuto successivamente fare imboccare alla città una piega in cui tutti gli altri avrebbero giocato il ruolo dei gregari, e, quindi, alla lunga, restare effettivamente danneggiati nella ripartizione del prodotto complessivo dello sviluppo I. Si potrebbe obiettare che questi timori erano sostanzialmente infondati, perché l'esperienza delle grandi città europee mostra che l'avvio asimmetrico dello sviluppo ben presto pone le condizioni per l'affermazione e la soddisfazione anche degli altri bisogni (e dei leaders che li rappresentano). Se ne concluderebbe quindi che molto tempo è stato inutilmente perduto. In realtà, un esame più attento dei contesti metropolitani europei, esame che qui ci porterebbe troppo lontano, non sempre conferma questa fiducia nello sviluppo asimmetrico. Ma quand'anche fosse, resta il fatto che dobbiamo tenerci la nostra società urbana (ed i suoi leaders) per quella che essa è. Ed essa ha mostrato, sino ad oggi, di essere indisponibile alla cooperazione sulla semplice base della fiducia nei meccanismi spontanei di moltiplicazione e ripartizione delle opportunità. Dall'identificazione e dalla accettazione cosciente di questa circostanza storica, nasce la nuova legge per Roma capitale: essa altro non è che la sanzione preliminare di un patto di ripartizione degli utili dello sviluppo

urbano, corredato da un impegno di reciproca consultazione nell'impiego delle risorse. Patto allargato all'insieme, oggi più rappresentativo, degli "interessi urbani" esplicitati. In sostanza essa intende porre le basi affinché lo sviluppo sia sufficientemente complessivo, e tutti i giocatori coinvolti se ne avvantaggino con ragionevok simultaneità. Il gioco dovrebbe così traformarsi ed assumere carattere "cooperativo". Ciò che non esclude, anzi implica, lotte terribili tra i soggetti interessati per il controllo del gioco, nel suo insieme, o nelle particolari articolazioni di ciascun settore. Ma, a differenza che nel passato, queste lotte non dovrebbero più assumere la forma della opposizione reciproca e preliminare. I temi della condivisione e della partecipazione allo sviluppo sono quindi alla base stessa della filosofia della legge. Ma, affinché possano effettivamente diffondersi nella città i benefici potenziali di questa filosofia, è necessario si mantenga stabile nel tempo il quadro di accordo cooperativo tra gli attori dello sviluppo. La conservazione del "patto di mutuo interesse nella crescita" è dunque la questione fondamentale dello sviluppo urbano, oggi, e certamente lo sarà per un lungo arco di tempo. Vediamo dunque meglio di che cosa il patto si compone. Quali ne siano le sue caratteristiche interne, i punti di forza ma anche gli elementi di debolezza, il cui riflesso può comportare l'adozione di particolari contromisure, o comunque particolari accorgimenti nella gestione della legge. Il punto di vista dovrà essere duplice. Da un lato si dovrà prendere come riferimento la probabilità di conservazione del carattere cooperativo del processo. Dall'altro si tratterà di verificare le condizioni che massimizzano la diffusione dei benefici del pro109


gramma (benefici finali e benefici da parte- e di soddisfare tutte le attese mobilitate dal cipazione). programma. Una terza condizione di sussistenza del patto riguarda l'efficacia della "soluzione urbaSTRUTrURA INTERNA DEL PATTO na" implicita nei programmi-obiettivo. Per quanto non chiarito esplicitamente dalla legGli elementi che definiscono la struttura del ge, vi è alla base dell'accordo un impegno di patto urbano possono essere così sintetizzati: reciprocità tra lo sviluppo di una nuova citil contenuto - si tratta della piattaforma protà direzionale (lo SDO) ed il recupero ambiengrammatica, esplicitamente contenuta nella tale del centro storico. Questa condizione legge. Si compone di 7 programmi-obiettivo non è necessariamente risolta dalla soddisf aindicati nell'art. 1, più altri progetti strate- zione delle clausole precedenti, in quanto rigici più o meno chiaramente indicati nell'art. chiede (oltre al denaro ed al rispetto delle 9. Programmi legati tra loro da relazioni di procedure) la verifica di un assunto tecnicointerdipendenza e nei quali si trova riflessa economico niente affatto pacifico: che riemla struttura dei benefici sociali che la colletpiendosi la città da una parte, possa essa tività urbana (e quella nazionale per quanto svuotarsi proporzionalmente dall'altra. interessata) dovrebbe poter percepire come E chiaro che se questo assunto dovesse riveeffetto finale della esecuzione del prolarsi infondato, potrebbe cadere il sostegno gramma; ideologico di cui la legge ha goduto al suo nale clausole di veridicità del patto - si tratta del- scere, e di cui ogni grande programma urbal'insieme di circostanze, non esplicitamente no ha assoluto bisogno. indicate in nessun luogo della legge ma che, Ora, com'è ovvio, la discussione di quest'ulnei fatti, ne costituiscono la sostanza e la ratimo aspetto richiederebbe l'esistenza di sigione d'essere. Quando una o più di queste mulazioni quantitative, che, a quanto concircostanze venissero a decadere, il patto sta, non sono state ancora messe a punto da stesso potrebbe cessare di esistere, e la città nessuno dei soggetti partecipanti all'accordo. tornerebbe alla situazione di stallo. Queste Vi sono stati in passato, è vero, studi conclausole implicite del patto, alla cui discuscernenti le caratteristiche quantitative dello sione dovremo in seguito tornare con magSDO. Ma si trattava di studi di massima e cogiore dettaglio, possono essere così formunque svolti al di fuori del quadro complesmulate: sivo di impegni intersettoriali assunti dalla condizione procedurale - è necessario che le nuova legge. Si dice questo a malincuore, perprocedure di gestione della legge siano con- chè dovremo qui rinunciare a trattare un sapevoli della loro funzionalità rispetto al pataspetto fondamentale della questione urbato urbano, e, quindi, permettono la pariteti- na, ma anche con la speranza di stimolare cità dei soggetti in gioco e degli interessi da l'impiego (e la divulgazione) di studi adeguati questi rappresentati; alla complessità dei problemi. condizione finanziaria - è implicito che deb- Per quanto ciò possa sembrare paradossale, bano sussistere risorse finanziarie adeguate la sussistenza di un accordo sui contenuti delallo svolgimento del programma, in misura lo sviluppo urbano non implica immediatasufficiente a consentire le mosse (in ragionemente la identificazione dei suoi contraenti. vole lasso di simultaneità) di tutti i giocatori La questione dei soggetti interessati si può 110


svolgere almeno a tre livelli di profondità. Vi è un primo livello che riguarda l'identificazione delle istituzioni chiamate ad amministrare il programma. Il compito è presto risolto, perchè si tratta delle istituzioni esplicitamente richiamate nel testo della legge (Conferenza per Roma capitale, Presidenza del Consiglio, Presidenza dei due rami del Parlamento, enti locali, nelle relazioni e compiti specificati). Il secondo livello riguarda poi l'identificazione dei contraenti sostanziali dell'accordo. Qui l'analisi deve tener conto dell'ingegneria politico-istituzionale che ha consentito di introdurre nel programma di sviluppo urbano il punto di vista non solo dei partiti di maggioranza, ma anche di quelli di opposizione. Come vedremo, questo allargamento degli interessi è stato contrassegnato, rispetto alla fase iniziale della trattativa (quando le proposte programmatiche nascevano prevalentemente dai governi locali) da un allargamento del ruolo sostanziale del Parlamento nella definizione e nella gestione del programma. Vi è stata quindi la comparsa di un giocatore "molteplice", i cui interessi e le cui attitudini nel tempo dovranno ancora essere decifrate (e possono essere in parte guidate). Infine vi è il tema dei soggetti interessati in quanto portatori e percettori diretti dei benefici economici e sociali, e che come tali, possono scegliere se farsi o meno rappresentare dai sistemi di attori indicati nei due liveffi precedenti. Entriamo così nel campo della "partecipazione sociale" al programma. Qui l'analisi diventa davvero impervia. Proveremo a definire alcuni di questi soggetti almeno per grandi linee, in quanto implicitamente evocati dalle tipologie di spesa previste dalla legge. Ma è chiaro che la compiuta delineazione delle collettività, che potranno effettivamente partecipare al programma,

può essere allo stato attuale definita solo come potenzialità. Tutto dipenderà poi da come la legge sarà gestita.

PARTECIPAZIONE DEI CITTADINI-PRODUTTORI

Come abbiamo già accennato, presupposto essenziale del patto è la vastità, l'estensione stessa del suo contenuto, in quanto necessaria a permettere la partecipazione di più opzioni di sviluppo urbano e quindi la partecipazione dei soggetti che di queste opzioni sono rappresentativi. Questa prima determinazione quantitativa del patto ha, ovviamente, innanzitutto una manifestazione finanziaria: le somme impiegate per realizzare i progetti-obiettivo, indicati dalla legge, dovranno essere ingenti. Esse non sono ancora state attendibilmente stimate, né potranno esserlo con grande facilità e velocità. È però certo che esse impiegheranno, ai prezzi attuali, grandezze finanziarie dell'ordine delle decine di migliaia di miliardi. Inoltre le spese saranno diversificate settorialmente, investendo una molteplicità di settori di produzione e la corrispondente matrice di settori fornitori di inputs. Si va dalla realizzazione di grandi immobili per uffici, alla produzione di reti in tutti i settori infrastrutturali (strade, ferrovie, ma anche acquedotti, fognature, telecomunicazioni ... ), sino, ed è qui il fatto nuovo recepito dalla legge, alla "produzione dell'ambiente urbano". In Italia, ed a Roma, si sta osservando una innovativa esperienza di produzione su vasta scala di servizi culturali e di reimpiego dei beni monumentali. Ma la legge (con il Parco Archeologico dell'Appia e con il recupero di altri grandi parchi urbani) va ben oltre: si tratta di ridisegnare il paesaggio, riformularé quinte verdi, ricomporre monu111


menti in situ, produrre monumenti nuovi, inventare mille forme per la loro fruizione, integrando musei e spazi aperti in una sola gigantesca infrastruttura culturale. Si tratta di un progetto del tutto nuovo, al cui cospetto le prime esperienze fatte a Roma di gestione innovativa di gallerie e spazi espositivi, fanno sorridere, ma al cui cospetto impallidiscono anche le esperienze dei grandi poli di cultura su scala internazionale. Un intero settore di produzione andrà inventato e tirato su quasi dal nulla, e vien fatto di pensare che le generazioni di architetti, disegnatori e pittori, storici, letterati ed archeologi, attori, registi, ballerini e musicisti, che sono fino ad oggi usciti inutilmente dalle università e dalle scuole romane, dopo tanto spingere la porta, siano finalmente riusciti a sfondarla. Ammesso, naturalmente, che tutto proceda. Questa considerazione ci permette di chiarire che una parte rilevante del consenso sociale nei confronti del patto urbano è legata, non tanto alla estensione quantitativa delle ricadute dirette ed indirette, quanto alla loro estensione qualitativa. All'ampiezza cioè del ventaglio merceologico dei beni e dei servizi che dovranno essere acquistati, cui è indissolubilmente legata l'aspettativa di ricadute disseminate su vasta scala, capaci di coinvolgere soggetti economici tradizionalmente egemoni nella produzione di beni pubblici, ma anche soggetti nuovi, probabilmente esterni (almeno sino ad ora) ai tradizionali canali di dipendenza politica con l'area della coalizione di governo. Tutto questo ci consente di concludere che la legge per Roma capitale sembra avere effettivamente in sè la potenziale risposta alla domanda di allargamento e coinvolgimento sociale e poter quindi produrre quel "benessere partecipativo" di cui si parlava all'inizio. Ciò almeno nel senso che questa domanda assume, in larga parte oggi nella città, 112

la forma di "partecipazione alla produzione" da parte di tipi sociali che ne sono stati a lungo esclusi, o mantenuti in posizione marginale. Se dalle potenzialità si passa ad osservare le prime manifestazioni di gestione del programma, possiamo ricordare che la definizione legislativa del patto di sviluppo urbano è stata resa materialmente possibile da alcuni accordi collaterali. Ci si riferisce, ovviamente, alla decisione di procedere all'esproprio delle aree come fatto preliminare alla pianificazione SDO. E ci si riferisce poi alla inclusione entro il grande pool delle imprese preselezionate per la realizzazione dello SDO e di altre grandi infrastrutture, della "industria del partito di opposizione", accanto alla industria "dei partiti della coalizione di governo". Questi accordi hanno una duplice valenza. Per un verso hanno avuto il significato di assicurare una partenza su basi di "pariteticità" nel processo di ripartizione dei benefici economici diretti del programma. Per l'altro verso hanno il significato di circoscrivere questa pariteticità ai sottoscrittori di un cartello. I riflessi negativi di questa seconda valenza sono già sotto gli occhi di tutti se pensiamo al riserbo, e quindi alla esclusione di partecipazione sociale, che circonda la gestazione delle specifiche proposte progettuali. Non solo l'opinione pubblica è all'oscuro, ma la stessa corporazione dei progettisti si sente esclusa per la gestione monopolistica e niet'affatto concorsuale della produzione di idee. La formazione di analoghi patti subordinati per la ripartizione dei vantaggi finanziari costituiranno probabilmente una costante nel procedere del programma. Ci si può chiedere se essi ne costituiscono veramente una condizione vitale, ed, in tal caso a quali


difficoltà il programma potrà risultare esposto, quando entrassero in vigore con maggior forza le normative di garanzia della concorrenza, e, più in generale, che cosa potrà accadere quando, dall'area della ripartizione del mercato infrastrutturale, tutto sommato consueta nell'esperienza italiana, bisognasse passare alla ripartizione dei mercati nei servizi ambientali e culturali, la cui geografia imprenditoriale e politica è ancora tutti da disegnare.

PARTECI:PAZIONE DEI CITFADrNI-CONSUMATORI

Il passo successivo che dobbiamo compiere riguarda l'analisi delle potenzialità che ha la legge nei confronti dei cittadini "in quanto consumatori" dei beni pubblici. Per far questo non è più sufficiente considerare gli aspetti legati alla ripartizione delle grandezze finanziarie. La questione riguarda, questa volta, le ipotesi che la legge per Roma capitale assume con riferimento alla ripartizione dei benefici "finali" del programma, alla visione di collettività urbana che essa assume come referente e beneficiaria del programma. Ed anche a questo proposito valgono due domande: è questa visione in sè condivisibile? Ma, soprattutto, è tale da allargare e motivare la partecipazione al suo raggiungimento? Ancora una volta la risposta può partire in chiave positiva, considerando l'avanzato equilibrio distributivo che la legge ipotizza con estrema chiarezza attraverso la tipologia e la natura dei programmi-obiettivo che compongono l'articolo 1. Questa definizione non è certo perfezionata in forma quantitativa sotto la forma di ripartizione delle risorse finanziarie, cosa che sarebbe allo stato attuale impossibile, ma il suo rispetto costituisce "mandato sostanziale" nei confronti delle

amministrazioni cui è affidata la responsabilità di attuare la legge. Vediamo dunque quali sono i termini della funzione di utilità sociale implicita nel testo della legge. La prima grande variabile di questa funzione, potremmo dire quella che storicamente ha originato il movimento complessivo degli attori, risiede nel rafforzamento del sistema produttivo della città, che riceve un poderoso incentivo mediante la realizzazione dello SDO, posto non a caso in testa dei programmiobiettivo (lettera a) dell'art. 1). Ma l'obiettivo di rafforzare, diversificandolo e riqualificandolo, il sistema produttivo urbano è anche esplicito negli altri grandi progetti di terziario direzionale, indicati alle letterej9 e g). Infine, non sfuggirà che la medesima intenzione riguarda il rafforzamento dei poli tecnologici ed universitari (lettera e)) nonché lo stesso programma archeologico-monumentale della lettera b), che nell'impiego della parola "valorizzare" sembra alludere all'inevitabile riflesso sul sistema economico urbano prodotto dai flussi turistico-culturali. La seconda grande variabile della funzione possiamo sinteticamente definirla "variabile ambientale". Essa ha una definizione esplicita nelle lettere b) e c), dove si indicano i pezzi fondamentali del nuovo grande mosaico paesistico-monumentale della città, insieme ai progetti necessari per il risanamento ambientale di base delle periferie urbane. Vi è poi una componente che, sorprendentemente, rimane solo implicita del testo della legge, pur costituendo il requisito fondamentale dell'intera variabile "ambientale". Si tratta del recupero del centro storico che, come è noto, dovrebbe costituire il rovescio della medaglia del progetto SDO. La terza grande variabile nella produzione del benessere collettivo, può essere definita convenzionalmente "di funzionalità urba113


na" ed è rappresentata nella lettera d), dove la legge si preoccupa di rassicurare sul fatto che il nuovo modello di sviluppo urbano dovrà prevedere il superamento dell'emergenza mobilità. Meno ovvia è l'accentuazione del mezzo pubblico su ferro come modalità prevalente o strategica per il superamento di questa emergenza. In tal modo, anche la variabile "funzionale" rafforza i contenuti ambientali e sociali già prima menzionati. In conclusione, la filosofia distributiva del programma urbano prevede l'equilibrio tra molteplici forze che sovrintendono alla generazione del benessere sociale: tra produzione e consumo improduttivo, tra profitto e salario sociale, tra inevitabile consumo del territorio e recupero dell'ambiente urbano. Se riconosciamo al progetto di sistema direzionale il ruolo di primogenitura nella recente storia del dibattito urbano a Roma, dobbiamo considerare la legge come il risultato di uno sforzo per introdurre, nella concezione dello sviluppo il principio dell'equità, mediante il condizionamento reciproco tra mosse che oggettivamente rafforzano i settori egemoni dell'economia, e quindi le imprese e gli individui ad alto pubblico, con mosse destinate ai consumatori, alla generalità della popolazione ed in alcuni casi (il risanamento delle periferie, il trasporto pubblico) alla popolazione con minor reddito. Se si condivide questa interpretazione, possiamo sinteticamente definire l'accordo sottoscritto in occasione della legge, come un patto per lo sviluppo economico urbano, condizionato ad una sostanziale distribuzione sociale dei benefici. Una volta riconosciuta alla legge la sua fondamentale aspirazione distributiva, c'è però da chiedersi se veramente il programma urbano tratteggiato nell'articolo 1, abbia i caratteri di universalità necessari per conglobare intorno al patto di sviluppo, tutte le 114

opzioni e tutti i soggetti fondamentali della crescita urbana. La risposta non è semplice. Indubbiamente l'aspirazione sociale della legge è assai forte, poichè essa intende dare assicurazioni concrete di benessere alla collettività dei cittadini che sono consunatori di beni pubblici. Ma proprio qui sta il punto. La legge considera nello sviluppo la collettività oggi riconosciuta dei cittadini-consumatori. E bisogna darle atto di riuscire a farlo in modo amplio. Ma che dire di quanti, pur abitando nella città, non hanno oggi né riconoscimento di cittadinanza, né accesso alla struttura sociale del consumo? E immediato pensare agli extra-comunitari, ai rom, che proprio nei giorni di avvio operativo della legge sono fatti oggetto di misure vessatorie, un po' per pochezzà dei principi, un po' per indegnità professionale. Ciò a dimostrazione del carattere repressivo che può assumere la città se il suo programma di sviluppo non introduce in maniera esplicita il tema della giustizia sociale, e, quindi, dell'ampliamento della collettività rappresentata. L'importanza di questi aspetti può essere forse meglio compresa se ricordiamo la prospettiva di lungo periodo in cui dobbiamo metterci per valutare il programma urbano: esso deve soddisfare la popolazione nel volgere di una generazione. Ora, la vicenda storica di tutte le capitali dei paesi industrializzati, e le previsioni di scenario tendenziale che pure a qualcosa dovrebbero servire, concordano inevitabilmente nell'indicare come, nel lungo periodo, il problema fondamentale del benessere sociale nelle grandi metropoli sia proprio quello della integrazione interetnica. Ma la questione delle minoranze etniche costituisce solo la punta dell'iceberg. Preoccupa infatti molto l'assenza di un riferimento


esplicito nella legge alla questione delle abitazioni, circoscrivendo anche i senza casa, nel recinto dei non rappresentati nel programma di sviluppo urbano. Nè sfuggirà come la questione delle periferie appaia in qualche modo ridotta alla sola "questione igienica". Dobbiamo chiederci allora se il patto di cooperazione, appena sottoscritto, sia sufficiente a sostenere Roma nel suo passaggio dalla scala di grande città alla scala di metropoli internazionale. O se non sia, piuttosto, destinato ad essere rapidamente superato da strumenti più efficienti di ripartizione delle risorse, quando soggetti che oggi sono esclusi dalla trattativa acquisissero, per altra via, migliori strumenti di rappresentanza. In conclusione, la proposta di benessere collettivo contenuta nella legge sembra affetta da caratteri di irrealistica fissità: essa prende a riferimento una collettività astratta di cittadini consumatori, perfettamente rappresentati dalle istituzioni, ma trascura i bisogni di quanti soffrono per non avere accesso né ai meccanismi di consumo sociale né ai meccanismi di rappresentanza istituzionale. Nonostante i suoi sforzi in senso distributivo, la legge svela così una matrice egoistica dei soggetti che l'hanno definita e che parteciperanno all'attuazione del patto. Questo getta una luce di incertezza sulla stessa capacità di perseguire i propositi distributivi affermati. Ma soprattutto rivela una concezione banale del benessere sociale, proiettata, forse arbitrariamente, sulla collettività dei cittadini rappresentati: potranno mai costoro essere realmente soddisfatti, godere dei loro giardini, apprezzare musei e monumenti, mentre parti crescenti della città sono escluse dal consumo sociale e dal processo di sviluppo? Ed in caso affermativo, quale collettività terribilmente lacerata si sta immaginando per

Roma capitale? Potrà mai la città impegnarsi realmente, "partecipare" attivamente ad un programma che trascura le questioni vitali ed i conflitti più appassionati della trasformazione in collettivià ideale? La lettura, per quanto inevitabilmente preliminare, dei caratteri sociali del programma, ci ha portato, come si vede, assai lontano dalle preoccupazioni legate alla pura ripartizione dei mezzi finanziari tra i diversi produttori interessati alla realizzazione di opere e servizi. La legge si muove indubbiamente su un piano più alto e più strategico di questioni. Eppure, proprio se si accetta il confronto su questo piano, non mancano motivi di insoddisfazione e di preoccupazione sulla natura del patto di sviluppo urbano. Non è allora un male, tener fin dall'inizio conto del carattere limitato del programma, della sua necessità di essere considerato non la base per la crescita urbana, ma il risultato della crescita urbana. Uno strumento che si adegui cioè, nel tempo, a recepire l'allargamento degli attori, e non a sancirne l'esclusione.

LA CONSULENZA TECNICA ALL'AMMINISTRAZIONE DEL PROGRAMMA: UMITI E POSSIBILI AMBIZIONI

Forse un ruolo attivo per introdurre nella gestione del programma il principio del cambiamento e della maturazione può essere giocato nell'ambito degli spazi di organizzazione tecnica e procedurale della legge, nonostante essi possano apparire a prima vista assai esigui. Chi guardasse alla legge per Roma capitale tenendo presente l'evoluzione legislativa degli ultimi decenni in materia di investimenti 115


pubblici, non potrebbe infatti non rilevare, con un certo rammarico, che in essa non esiste alcun riferimento a procedure analitiche di programmazione degli investimenti. L'enfasi è tutta concentrata sugli equilibri politico-istituzionali che portano alla decisione sulle piattaforme progettuali proposte dalle amministrazioni, ma non viene indicato alcuno strumento tecnico che faciliti l'arbitrato tra le parti. Ad una lettura più attenta della legge, non sfugge però il riferimento al comma 5 dell'art. 2, che prescrive alla commissione per Roma capitale, come tappa immediatamente preliminare al riparto delle risorse finanziarie, lo svolgimento di una procedura di "armonizzazione" delle proposte acquisite, procedura che sarebbe alquanto misteriosa se non dovessimo intenderla in qualche modo come "procedura tecnica". Né deve sfuggire il carattere indefinito (e quindi tuttofare) dell'Ufficio di programma (art.5), che potrebbe assumere tra gli altri, i compiti di supporto tecnico-economico a questa procedura. Si tratta allora di fare qualche approfondimento sul contenuto e lo scopo di questa eventuale missione tecnica, ed insieme di interrogarci sul motivo per cui, interrompendo la tradizione legislativa di questi anni, essa sià stata mantenuta all'interno di contorni impliciti, e comunque di basso profilo. Bisogna dire, innanzitutto, che questa semplificazione rispetto al bagaglio strumentale tipico delle leggi di spesa, ha almeno una importante giustificazione. Essa risiede nella circostanza, già discussa nel paragrafo precedente, che la legge risolve mediante la diretta identificazione dei "programmiobiettivo", una parte sostanziale del problema distributivo ed allocativo che normalmente spetta risolvere alle procedure tecnicoeconomiche di selezione dei progetti. Il 116

contenuto settoriale dei programmiobiettivo, la loro qualità tipologica implica direttamente le grandi famiglie di soggetti economici il cui benessere si intende migliorare, indipendentemente e più in là del livello delle preferenze dei consumatori che le tecniche potrebbero permettere di rivelare 5 E chiaro, tuttavia, che l'identificazione della "qualità' 'del programma non è sufficiente a risolvere il problema quantitativo di ripartizione delle risorse finanziarie, da cui dipendono le condizioni di "simultaneità" e "consistenza" della soddisfazione dei grandi bisogni sociali, condizioni necessarie a mantenere un quadro cooperativo intorno allo sviluppo urbano. E dubbio che queste condizioni di equilibrio nell'efficacia del programma possano essere identificate attraverso procedimenti semplificati di ripartizione delle risorse finanziarie, perché è ovvio che nei differenti progranmiiobiettivo il miglioramento sociale ottenuto per unità di costo può essere assai dissimile. Da ciò il principale quesito analitico posto dal carattere multiobiettivo del programma; qual'è il livello di utilità che permette di considerare soddisfatte le aspettative di benessere sociale dei differenti soggetti economici che partecipano all'accordo? Di questo livello dovrebbe essere definita una misura di lungo periodo (o configurazione finale degli obiettivi), in grado di esplicitare le complesse implicazioni intergenerazionali del programma, accanto alla delineazione di un cammino accettabile di approssimazione, che permetta di non perdere di vista la funzione finale (e l'accordo collettivo) nel processo delle decisioni annuali di finanziamento, quando i vincoli di bilancio e le mevitabili imperfezioni progettuali obbligheranno ad identificare trade-off fra i differenti obiettivi. In altre parole, se gli argomenti della .


funzione possono essere abbastanza linearmente definiti a pàrtire dalla legge, resta comunque da definirne i parametri. Sarebbe poi interessante tentare l'applicazione di scale di misurazione per quel "benessere partecipativo" di cui s'è detto in apertura. La gestione del programma implica dunque una rilevante domanda tecnica di quantificazione dei benefici economici. Ma questa domanda concerne prevalentemente quegli aspetti di valutazione (i parametri appunto della funzione obiettivo) che, per accordo oramai quasi comune tra gli stessi teorici dell'economia, non possono essere risolti completamente in sede tecnica, e richiedono lo scambio di informazioni e giudizi con i rappresentanti del potere politico 6•

Se le cose stanno effettivamente così, la scarsa enfasi assegnata nel testo di legge sia agli strumenti che alla procedura tecnica, potrebbe rivelarsi dimostrazione di saggezza: data la natura del compito analitico e data anche l'irresolubilità della sua missione nel quadro dello specifico contesto tecnico, esso non potrà pervenire a conclusioni che abbiano autonoma rilevanza formale. L'Ufficio di Programma opererà dunque come organo di pura consulenza, senza esercitare un vincolo diretto sulle decisioni di finanziamento. Ma non per questo dobbiamo porre in secondo piano la rilevanza sostanziale della sua missione: all'Ufficio spetterà "... stimare l'impatto atteso dai progetti su ciascun obiettivo e consegnare la matrice obiettivi-impatti al decisore politico che stabilirà a posteriori implicitamente o esplicitamente la ponderazione..." 1 in maniera, che essa sia il più possibile corrispondente alle intese politiche ed agli equilibri sociali desiderati dalla legge. Se si accetta questo punto di vista, e se

possiamo definire la missione principale dell'organo servente come quella di "far da vestale" all'equilibrio tra gli obiettivi della legge per ogni importante occasione di riparto dei mezzi finanziari, qualche discordanza di vedute può discenderne, rispetto al testo della legge, su quale effettivamente sia il soggetto politico che debba essere servito. La funzione di consulenza più importante potrebbe non essere quella da prestare alla commissione interinstituzionale per Roma capitale, bensì quella (ahimè non direttamente prevista dalla legge, ma da conquistarsi risolutamente nei fatti) da prestarsi al Parlamento. Al Parlamento spetta infatti ogni anno procedere al rifinanziamento del programnia attraverso la legge finanziaria (come previsto dai dispositivi finanziari di cui all'art. 10). E non sappiamo se in queste occasioni adotterà la tecnica del finanziamento generico alla legge, o quella, assai più selettiva e precisa del rifinanziamento mirato a ciascuno dei capitoli di bilancio aperti dalla legge (e quindi specificatamente a ciascuno dei programmiobiettivo previsti all'art. 2). Se così fosse, il vero riparto dei fondi e la vera responsabilità di gestione della funzione obiettivo del programma sarebbero solidamente nelle mani del legislatore, mentre alla commissione interinstituzionale non resterebbe che il compito di amministrare risorse socialmente allocate. Questa possibilità assume rilevanti implicazioni sul ruolo dell'Ufficio di Programma: a differenza della commissione (nella quale siedono solo i rappresentanti degli esecutivi), il Parlamento è un consiglio ove siedono tutte le parti interessate al programma, ivi comprese le opposizioni di governo e le aree della maggioranza non perfettamente rappresentate dagli esecutivi. Per questo, se rivolta al Parlamento, l'azione di consulenza fini117


rebbe col perdere inevitabilmente il suo caQuesta idea si basa sulla osservazione del fatrattere interno, per guadagnare in termini di to che nella evoluzione delle proposte di legge generalità ed indipendenza della funzione. per Roma capitale, si è notato un netto salto Potrebbe essere più consono, in questo quadi qualità tra i primi testi elaborati in sede dro, l'impiego di tecniche formalizzate di co"locale" (prevalentemente incentrati sulla rimunicazione delle proprie analisi, dovendo soluzione del tema sDo) ed i testi maturati queste guadagnare in dimostrazione di indi- in sede di commissioni parlamentari, (quelli pendenza, proprio per non perdere il loro siche hanno registrato progressivamente l'ingnificato di puro supporto strumentale in un troduzione delle caratteristiche intersettoriali contesto decisionale più allargato. e redistributive, sino al testo finale). Il "canale di comunicazione' tra Ufficio SpeQuesto può essere dipeso dal fatto che, in ciale e Parlamento potrebbe essere trovato sede localè, non siano maturate le condiziosenza eccessive difficoltà, utilizzando la peni politiche per recepire le opzioni che mariodica relazione al Parlamento prevista alturavano all'esterno dell'area di governo, inl'art. 6 della legge. sieme al fatto che nel Parlamento le tematiQuesto modo di procedere potrebbe anche che di natura ambientale (cui sono legate in suggerire l'adozione di metodologie che ingran parte le opzioni redistributive della legducano tutte le amministrazioni e gli enti inge) trovano oggi una accoglienza senza preteressati alla presentazione di singoli proget- cedenti, trasversalmente a tutti gli schieti, a rappresentarne costi e benefici in for- ramenti. ma standardizzata, più facilmente verificaQuale che sia la ragione, si può concludere bile e comparabile, senza per questo genera- che il Parlamento costituisce oggi una sede lizzare procedure di valutazione concorsuapiù recettiva delle proposte volte a diversile tra i progetti (procedure che forse rafforficare ed innovare gli obiettivi dello svilupzerebbero il ruolo dell'organo tecnico oltre po, inclinando la funzione di benessere soil mandato di legge). ciale così da aumentarne il significato rediQuale che sia la soluzione, diventa in sostanstributivo, più di quanto forse non possano za necessario ricorrere ad uno schema di leesserlo le rappresentanze di esecutivo. game organizzativo tra gli attori che rappreEcco perchè un ampliamento della commitsentano gli interessi sociali all'interno del tenza (dalla sola commissione per Roma caprogramma, in modo tale che ciascuno di essi pitale, al Parlamento) permetterebbe forse possa riconoscere il livello di soddisfazione con maggiore facilità all'organo tecnico di raggiunto da tutti gli altri e valutare il rispetproporre ulteriori arricchimenti del sistema to, nel corso dello svolgimento del programdi obiettivi. ma, di quelle condizioni di equilibrio che per- Anche questa ipotesi di lavoro spinge a conmettono il mantenimento di un quadro coo- siderare la funzione dell'organo tecnico siperativo intorno allo sviluppo urbano. mile non tanto a quella degli uffici di valuIl rapporto di funzionalità rispetto all'aziotazione dei progetti (benchè questa funzione legislativa pone tuttavia alla missione tecne non debba essere trascurata) quanto, piutnica una seconda frontiera di analisi, colletosto, a quella di interprete complessivo dello gata alle possibilità di una evoluzione e masviluppo urbano, verificando la congruenza turazione della stessa funzione obiettivo del delle opzioni finanziate nel quadro della legge programma 8 rispetto al panorama complessivo delle 118


istanze sociali, in modo tale da ampliare i programmi obiettivo e tenerli al passo con i problemi della città. Va da sè che questo lavoro implica la costruzione di un modello di riferimento dello sviluppo urbano, di capacità interpretativa più ampia rispetto ai programmi-obiettivo del testo attuale. Ma non essendo tale modello esplicitamente previsto dalla legge, esso va in qualche modo mantenuto "segreto", come una sorta di carta nautica utile per navigare in questa attività di consulenza a più committenti che sembra configurarsi, senza mai diventarne tuttavia un esplicito prodotto. Infine, nella discussione del supporto tecnico necessario a garantire l'equilibrio e l'evoluzione della funzione di benessere sociale, un cenno merita quella tappa procedurale che viene solitamente definita come "verifica di eseguibiità" dei progetti. Nell'esperienza delle altre leggi di spesa collegate ad istruttorie tecnico-economiche, questa fase riguarda prevalentemente la verifica dei requisiti tecnico-amministrativi che assicurano la realizzabilità degli interventi. Questi aspetti nella legge per Roma capitale sono prevalentemente risolti nel quadro della conferenza dei servizi e delle procedure connesse. Resta però una questione, di carattere più generale e preliminare, che riguarda l'eseguibiità dei programmi: sono essi tutti convenientemente dotati di "soggetti promotori"? Consorzi agguerriti ed organizzati sono da tempo candidati a promuovere il programma sno. Altri sono in corso di assemblaggio per quel che riguarda il programma trasporti. Possiamo dire altrettanto per i programmi di recupero ambientale? E chiaro che gli squilibri tra i soggetti promoventi (tra le loro capacità di organizzazione ed iniziativa) finirà per avere un ruolo rilevante nella conservazione degli equilibri tra gli obiettivi

del programma. Le tecniche di valutazione manageriale ed organizzativa potrebbero quindi fare il loro ingreso nella gestione dei programmi di investimento pubblico. Anche su questi temi bisognerà trovare un organismo di vigilanza (l'Ufficio di Programma ?) e di promozione (la Conferenza per Roma capitale).

STRUMENTI TECNICI E PARTECIPAZIONE ALLARGATA

Non abbiamo ancora parlato del ruolo che, nella produzione tecnica richiesta dalla legge, potrebbe essere ricoperto dall'amministrazione comunale. Ma è chiaro che un qualche strumento di riferimento per la crescita urbana potrebbe e dovrebbe essere predisposto in prima istanza dalla amministrazione comunale, una volta che si fosse munita di una struttura di lavoro al passo con l'ampiezza dei problemi metodologici indicati. Questa esigenza si è incanalata sino ad oggi lungo i binari consueti, e si parla della produzione di un più aggiornato strumento di pianificazione urbanistica. Ma non di questo si tratta. Ciò che serve è piuttosto un modello dinamico delle grandezze e degli obiettivi, in grado di intercettare per tempo i desideri della collettività, interpretarli ed integrarli nel sistema degli obiettivi. L'importanza di una entrata di alto profilo dell'amministrazione comunale nella strumentazione tecnica del programma, si spiega non solamente per la titolarità di principio sulla crescita urbana, ma anche perché la legge, di fatto, conferisce alla amministrazione comunale la gestione dei dispositivi cui sono affidati in maniera sostanziale i caratteri di democraticità nella partecipazione sociale al programma. 119


Il primo tra questi riguarda l'interrogazione delle collettività infraurbane per la costruzione della piattaforma di progetti da inserire nelle proposte di finanziamento. Sarà gestito, questo processo, solo dal centro, assegnando tutta l'iniziativa agli assessorati ed ai loro dispositivi tradizionali di rifornimento progettuale, o costituirà l'occasione per attivare presso le circoscrizioni amministrative un potere propositivo e realizzativo concreto, nella direzione richiesta dalla recente Riforma delle autonomie locali? fl secondo tema riguarda la "metabolizzazione" delle proposte progettuali che emergono dalle amministrazioni centrali. La legge stabilisce un solo momento di verifica rispetto agli strumenti della pianificazione comunale, che coincide con la conferenza dei servizi (art. 4). Una sede tecnica è quindi chiamata ad assorbire i processi normalmente assai faticosi di discussione consiliare e di contrattazione interinstituzionale altrimenti previsti dalle norme ordinarie. Non è qui il caso di ripercorrere la discussione, che è ormai vasta, sul significato delle conferenze di servizi nel nostro ordinamento. Sembra solo necessario sottolineare che i rischi di indebolimento del ruolo consiiare, che sono impliciti nel nuovo istituto, possono essere minimizzati se, prima delle conferenze, possono essere adottati strumenti tecnici sufficientemente precisi e disaggregati che impegnano in maniera specifica i delegati alla trattativa. Tutti gli accorgimenti che sono volti alla tutela delle minoranze urbane oppure al loro coinvolgimento nella attuazione di singoli progetti, sono condizioni di sopravvivenza dell'accordo urbano, e di quel "benessere da partecipazione" che costituisce il risultato più importante della fase realizzativa del programma.

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IL FINANZIAMENTO STATALE DEL PROGRAMMA, LE POSSIBILI PATOLOGIE

Non si può fare una riflessione seria su quale possa essere il ruolo dell'amministrazione comunale nella gestione della legge, senza porsi il problema del suo "peso" finanziario, della sua capacità di condizionare concretamente la direzione che assumeranno le scelte. Per quanto ciò possa sembrare ingrato, conviene iniziare la discussione introducendo qualche elemento di cautela su alcuni temi trattati sin qui con eccessivo ottimismo. Il fatto è che tutti sembrano dare per scontato l'avvento di una stagione florida di investimenti, senza porsi con chiarezza il problema della fonte da cui le risorse finanziarie dovrebbero provenire. La legge per Roma capitale sembra infatti dare per sottinteso che le risorse finanziarie, che a partire dal 1993 saranno disponibili per decisione di bilancio dello Stato, si sommeranno alle risorse per così dire "ordinarie" che l'amministrazione urbana comunque destinerebbe agli investimenti, e che sono disponibili in virtù della legislazione generale in favore degli enti locali. Ora, l'esperienza ci offre già alcuni esempi di città, assistite da leggi speciali, nelle quali le cose non sono poi filate così liscie, ed il rapporto tra finanziamenti speciali e finanziamenti straordinari ha mostrato degli sviluppi a dir poco sorprendenti. Certo si tratta di casi complessi che non si possono liquidare con poche righe, come qui siamo costretti a fare, ma che vale la pena di indicare alla riflessione degli addetti ai lavori, magari solo per ulteriori approfondimenti. Cominciamo con il caso di Venezia. Qui l'amministrazione urbana registra storicamente gli indici più bassi di indebitamento


ordinario. In modo tale che gli stanziamenti ad essa riservati dallo Stato, nel quadro della legge speciale di salvaguardia lagunare, servono a malapena a compensare ciò che viene perduto dal lato degli strumenti ordinari di finanziamento. All'estremo opposto sta il caso di Genova. L'amministrazione di questa città ha piuttosto una tradizione di forte impiego delle risorse ordinarie: essa accede a tutti gli sporteffi disponibili, e l'indebitamento è stato nel tempo allineato ai valori massimi che sono consentiti dalla legislazione nazionale in materia di garanzia dei mutui degli enti locali. In questo contesto, per molti versi esemplare, l'impatto della legge speciale per il finanziamento del programma di Colombo 1992 ha finito con l'agire in maniera distorsiva: posta oramai al limite della propria capacità di impegno, l'amministrazione comunale non ha potuto far fronte ai nuovi progetti necessari per concorrere al programma colombiano (sottopassi, parcheggi, fognature, etc.). Finendo con il ritrovarsi in una difficile posizione di incertezza politica per la crisi di bilancio, e di vera e propria condizione di sudditanza nei confronti delle decisioni assunte dallo Stato. Ciò con repentaglio non solo delle manifestazioni e delle infrastruture colombiane, ma dello stesso "orgoglio urbano" che pure dovrebbe essere al centro di ogni legge speciale di intervento. Questi due esempi dovrebbero essere stimolo sufficiente ad approfondire la complessa natura del rapporto che si stabilisce nel processo di sviluppo urbano tra risorse finanziarie "speciali", e risorse, per così dire, ordinarie del bilancio dell'amministrazione urbana. Difficilmente la questione può essere ridotta all'attesa di una semplice sommatoria tra le diverse fonti di finanziamento: possono esservi fenomeni importanti di spiazzamento, tali per cui il risultato positivo non sempre

è assicurato, o, all'inverso, casi di moltiplicazione ed interconnessioni delle responsabilità di spesa tali, per cui, nonostante la somma complessiva degli investimenti sia crescente, essa può esserlo in misura tale, da rivelarsi fonte di squilibrio nella gestione del programma. Tornando alla questione di Roma capitale, le patologie da cui l'amministrazione comunale dovrà guardarsi sono dunque due: una prima è l"impigrimento di bilancio" tale per cui le risorse finanziarie straordinarie acquisite dallo Stato non fanno che "rimpiazzare" le ordinarie operazioni di investimento. La seconda è la "febbre del bilancio", il surriscaldamento delle esigenze di spesa, generate dal programma straordinario finanziato centralmente, cui l'amministrazione urbana non riesce a tener dietro per realizzare le opere che sarebbero, in quanto "ordinarie", di sua competenza. La prima patologia dipende, forse, da difficoltà tecniche, di organizzazione progettuale del programma. Per quanto ciò possa sembrare strano, non è poi così semplice immaginare, confezionare e gestire "simultaneamente" grandi progetti e progetti ordinari, in un contesto complesso com'è quello di una grande città. Se vi sono ritardi nella progettazione dei grandi interventi, o, al contrario, se dovesse accadere che gli uffici tecnici dell' amministrazione siano talmente assorbiti dalle grandi opere, da trascurare quelle ordinarie, potremmo facilmente assistere alla sottoutiizzazione delle risorse finanziarie teoricamente disponibili. Quand'anche lo Stato si rivelasse generoso, non assisteremmo ad una crescita complessiva degli investimenti ma solo ad un mutamento di denominazione, e pagheremmo sotto l'egida altisonante di "Roma capitale" le normali infrastrutture della fisiologia urbana. Basterà lanciare un'occhiata al programma degli 121


interventi indicati in apertura della legge, per rendersi conto di quanto essi siano vasti, al punto da ingiobare interventi che dovrebbero comunque essere fatti dall'amministrazione municipale, con o senza "Roma capitale". Una maggiore chiarezza, una maggiore distinzione di cosa si intende fare con le diverse fonti delle risorse finanziarie, permetterebbe una maggiore efficacia del controllo di gestione. Tuttavia, il grande sforzo tecnico ed amministrativo che lo Stato, il Comune ed importanti società di ingegneria si accingono a f are, può forse metterci al riparo dalla patologia (che pure altrove si è verificata) della insufficienza progettuale. Rischiosa e temibile è però anche la questione opposta, quella che sorge quando le risorse "ordinarie" non tengono il passo di quelle straordinarie. Per una parte, anche in questo caso i problemi nascono da insufficienze tecniche e progettuali: vi è in genere una scarsa riflessione sulle implicazioni di costo indiretto degli interventi straordinari, per cui si tende a sottovalutare l'onere che spetta al bilancio ordinario per riadeguare la città (le strade, le fogne, gli autobus, etc.) alla presenza di nuovi grandi progetti. Le tecnologie, il costo, la dimensione e la stessa natura di questi ultimi viene spesso disegnata senza considerare le alternative che permetterebbero alla città di adeguarsi più facilmente alle nuove funzioni. E lo SDO sotto questo profilo non promette nulla di buono (la sua distanza dal centro attuale, la sua eccentricità rispetto al percorso attuale della metropolitana, la sua "indipendenza" rispetto ai grandi sistemi di approvvigionamento idrico ed energetico attuali, la sua stessa forma geometrica "allungata", promettono costi altissimi di servizio urbano). Ma, se per un momento supponiamo di poter prescindere dai problemi strettamente tecnici, arriviamo comunque ad un osso 122

duro del problema, che è quello della concatenazione dei vincoli di bilancio tra Stato e città. Il fatto è che difficilmente si potrà chiedere al bilancio dello Stato di essere generoso simultaneamente da due versanti. Se vi sarà importante crescita delle risorse "straordinarie", certamente andremo incontro ad una stagione di stagnazione delle risorse ordinarie degli enti locali (che peraltro stiamo già attraversando), di cui Roma non potrà non soffrire al pari di tutte le altre città italiane. Da qui il rischio strutturale del surriscaldamento del bilancio comunale, della sua inadeguatezza a reggere le spinte moltiplicative prodotte dal programma straordinario.

PER UNA AUTENTICA AUTONOMIA FINANZIARIA DELLA CITTÀ

Il problema dell'equilibrio finanziario dei programmi di sviluppo urbano si pone in Italia più acutamente che altrove. Ciò non solamente per la circostanza rilevante che il processo di riaggiustamento finanziario potrebbe impedire al bilancio dello Stato di essere particolarmente generoso nei prossimi anni. Ma anche per il fatto che, contrariamente a quanto accade nei principali paesi industrializzati, le città italiane non dispongono, se non in misura irrilevante, di entrate proprie. Quando si mette in moto un grande programma di interventi sulla base di una legge speciale, il governo urbano finisce automaticamente, per trovarsi in condizioni di minoranza e/o dipendenza finanziaria, impossibilitato a programmare autonomamente le risorse per influenzare adeguatamente il programma straordinario, e perfino per integrarlo con tutte le iniziative "minori", che ne assicurano la funzionalità ed il raccordo con il tessuto complessivo della città.


L'assenza di strumenti di prelievo fiscale su base locale è una questione che si discute da tempo in Italia, senza trovare soluzione per motivi che qui sarebbe troppo lungo analizzare, ma che, in generale, dipendono dal sistema complessivo delle autonomie locali, dalla difficoltà di trovare una formulazione accettabile in tutti i contesti del paese, e di trovarla indipendentemente da un cambiamento significativo dei rapporti di rappresentatività politica a livello locale. Nulla esclude che, in un futuro non lontano, la questione trovi una soluzione generale, ma perché intanto non mettere Roma ed il suo programma di sviluppo al riparo da tutti i rischi della dipendenza finanziaria, dotandola, in deroga di quanto accade nel resto del paese, di una sua propria capacità di autogoverno finanziario? Questo non sarebbe affatto in contrasto con l'idea di uno sforzo ed una corresponsabiizzazione nazionale nello sviluppo del programma straordinario. E nemmeno sarebbe in contrasto con l'idea che i grandi progetti di carattere straordinario legati al funzionamento del governo e del Parlamento debbano comunque essere affidati al finanziamento dello Stato. Al contrario, servirebbe a rafforzare

gli strumenti del governo urbano, e a renderlo veramente all'altezza delle responsabilità proprie di una città capitale. Garantendo nello stesso tempo ai residenti della città che le loro esigenze quotidiane non siano messe, per pura e semplice mancanza di fondi, in secondo piano rispetto ai programmi straordinari. Ci si può chiedere se i cittadini non sarebbero in realtà tutt'altro che soddisfatti di questa soluzione, se dovessero vedere accrescere i loro oneri fiscali oltre misura. Certamente sì, se il prelievo su base locale non fosse almeno in parte sostitutivo di quello statale 9 .

Ma sarebbe un errore mettere nel calcolo solamente grandezze di natura finanziaria. È inf atti necessario considerare che esiste una certa disponibilità a sostenere i costi della democrazia economica se ad essa effettivamente si desse luogo. Anche in questo caso, trascurare la domanda sociale di "partecipazione" al programma, la volontà della città di essere responsabile e partecipe del proprio sviluppo, potrebbe semplicemente condurci su di una strada in cui non ci sono nè programma né sviluppo.

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Nom Mi immagino nella valle della Caffarella, nella nebbia del mattino (in un ecosistema perfettamente conservato la fredda nebbia non scomparirà) sorretto da un imprecisato silenzioso mini-veicolo elettrico (messo gratuitamente a disposizione dei visitatori che abbiano superato i 65 anni) scivolare tra cespugli di fiori e rare essenze (sofisticato prodotto dell'archeologia botanica), guidato da segnali luminescenti alla 'scoperta", l'una dopo l'altra, delle meraviglie della valle della Caffarella. E con nostalgia ripenserò a quando condotto dalla sola intuizione dei luoghi, tornavo ad intervalli di anni al sacro anfratto della Ninfa Egeria, misteriosa divinità delle fonti e dei pantani, ritrovata ogni volta da me solo e per me solo tra le ortiche e le discariche di rifiuti. Chiamerei questo "effetto Bomarzo": chi ha visto il Parco dei Mostri prima e dopo il restauro, sa quanta bellezza è stata perduta nel nome dell'allargamento del consumo. Ma questa perdita vale solo per chi aveva visto "prima". Mentre i visitatori successivi non potranno che gioire di un parco ben tenuto, debitamente illustrato e guidato, etc... La questione è che l'allargamento dell'impiego di un bene pubblico monumentale finisce col cambiare la natura stessa del bene, non rendendolo né peggiore né migliore di prima, ma semplicemente eterogeneo rispetto al sistema di valori che in precedenza veniva su di esso proiettato. 2 P. Nijkamp e J. Rouwendal, "Intergenerational discount rates in long-term plan evaluation", in Public Finances, 2/1988. A. Hirschman, Shifting Involvements. Private Interest and Public Action, 1982: (trad. it.: Felicità Privata e Felicità Pubblica, 1983 Milano). ' S. Sen, Scelta, Benessere, Equità, Milano, 1989. La legge si muove nella tradizione dei "bisogni meritevoli": il decisore non si limita ad indicare gli obiettivi sotto forma di variabili aggregate da massimizzare (il consumo, il reddito totale della città e/o cli gruppiobiettivo, etc.) ma si spinge sino ad indicare i settori e le tipologie di intervento. È questa una impostazione molto discussa sotto il profilo teorico, ma forse qui più giustificata che in altri casi in virtù dell'orizzonte temporale assai vasto in cui si esercita la legge, tale dagiustificare l'approccio "divinatorio" dell'operatorepolitico. fl carattere predeterminato dei progetti-obiettivo ponegeneralmente in secondo piano il problema di

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verificare la "rilevanza economica" dei singoli progetti immaginati dalle amministrazioni: essa sarà soddisfatta dalla "semplice" appartenenza ai settori di riferimento, riducendosi semmai per unità di risultato. Una impostazione analoga del rapporto obiettivi-programmiprogetti è stata adottata su vasta scala dalla legge per l'Intervento Straordinario nel Mezzogiorno. I risultati in termini di qualità progettuale per la verità non sembrano essere lusinghieri: gli analisti si attengono ad una funzione classificatoria, rinunciando al faticoso esercizio di verifica delle tecnologie e dei contesti in cui gli obiettivi vengono ricercati. 6 G. Muraro, Il Problema degli obiettivi nella valutazione degli investimenti pubblici. G. Muraro, op.cit. 8 Nella formulazione attuale del testo della legge, come si è cercato di mostrare nel capitolo precedente, la funzione di benessere sociale ipotizzata può essere definita nella sua forma generale mediante uno schema di miglioramento paretiano caratterizzato da forti relazioni di interdipendenza tra le utilità di gruppi ed individui diversi, e da forti opzioni in senso redistributivo (interpretabili mediante significativi trade-off tra le opzioni di equità e quelle di efficienza). Ma, se vi è nella legge in qualche modo l'idea che il benessere di un gruppo è anche in funzione dei beni posseduti da altri gruppi, manca però una chiara accettazione del postulato di derivazione rawlsiana, secondo cui non può esserci benessere senza una crescita delle utilità possedute dai punti più svantaggiati del sistema sociale. Mancanza che, come si è già detto, è assai grave perchè pregiudica la stessa concezione di benessere interdipendente cui si è ispirata la legge, e perchè rischia di volgere in senso autoritario la gestione dello sviluppo urbano. Nello stesso tempo è una mancanza colmabile, perchè in realtà costituisce un approfondimento, e non un cambiamento di direzione, rispetto alla impostazione già implicita nell'attuale testo della legge. Nella considerazione degli aspetti quantitativi va poi rilevato che le metropoli godono di fondamentali guadagni di scala in materia fiscale, riuscendo ad ottenere gettiti di grande proporzione sulla base di aliquote relativamente ridotte, e ciò in virtù della concentrazione della base imponibile. Si consideri, per esempio che la città di Parigi adotta (per l'esazione della taxe professionelle) aliquote di livello pari alla metà di quello medio nazionale.


Venezia: di eccezionalità si muore Riconquistare una qualificata gestione ordinaria di Valeria Giannella

L'idea che Venezia sia una città caduta in trappola ed ormai vittima assai probabile della propria eccezionalità è solo apparentemente un'idea stravagante. Anzi comincia ad entrare con una certa chiarezza nella percezione diffusa di quanti vivono la vita un po' estraniata di questa città. L'eccezionalità, è ben noto, è quella data da un pregevole ecosistema lagunare, parzialmente artificializzato nel corso dei secoli per salvaguardarne i caratteri peculiari dal lento ma sicuro interramento. I grandi interventi di diversione dei fiumi all'esterno del bacino lagunare e l'opera di modellamento delle bocche di porto (i varchi che collegano la laguna al mare), ma - in modo ancora più significativo - l'opera costante ed attenta di governo e gestione del proprio ambiente, hanno alimentato il mito della "Serenissima" come repubblica del buon governo. Sembra che in questo luogo si fosse riusciti a scoprire la cifra segreta del difficile equilibrio tra un ambiente naturale "di transizione" - dai caratteri di grande instabilità e delicatezza - ed una presenza antropica importante e sviluppata in forme economiche, politiche ed artistiche di grande valore. Si potrebbe pensare che, rispetto all'oggi, la differenza fosse data dalla minore complessità sociale e dall'esistenza di una forte autorità centrale legittimata alla decisione ed all'azione. Ma una tale lettura non sarebbe corretta. Gli interventi di trasformazione a

tutela della laguna sono stati sempre oggetto di grandi e prolungate contese tra soggetti portatori di visioni ed interessi rivali. Così già nel '500 è documentato un famoso dibattito che vedeva opporsi le ragioni "marine" del commercio e della navigabilità a quelle "terrestri" della proprietà fondiaria e della bonifica. E si potrebbe continuare (cfr. G. Ferraro, Vedute della laguna «Urbanistica», n. 98). Tornando al presente possiamo dire dunque che non sono le estenuanti diatribe o i tempi di decisione estremamente dilatati a segnare il distacco rispetto al passato. È invece la perdita dell'antica consapevolezza del legame indissolubile tra città e laguna, della percezione di esso come vincolo ineludibile che, in quanto scelto e voluto, diventa forza, unicità e cultura, e fa la differenza. Tutto questo oggi è assai prossimo a scomparire.

INTERVENTO STRAORDINARIO O GESTIONE PERMANENTE?

Dunque un atteggiamento profondo è mutato, ma questo non basta. In un certo senso non desta alcuna meraviglia il fatto che "l'eccezionale" tenda ad essere riassorbito da una civiltà il cui carattere emergente ed apparentemente inoppugnabile è la crescente omologazione delle culture, dei valori e degli stili di vita e di consumo. Al tempo stesso i segnali che riceviamo sono

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incongruenti: da un lato la volontà pubblica di salvaguardare Venezia sembra costante e fermamente riaffermata, dall'altro essa risulta in qualche modo poco credibile a fronte dell'impasse in cui versa ogni politica d'intervento concretamente orientata allo scopo. Evidentemente c'è qualcosa che sfugge ed inficia alle basi la possibile efficienza del cospicuo flusso di risorse economiche ed umane investire sul "problema Venezia" ormai da quasi due decenni. Per fare qualche passo avanti converrà cambiare punto di osservazione e cercare di mettere a fuoco lo scenario complesso e parzialmente inedito risultante dall'incrocio della legislazione speciale per Venezia con il nuovo sistema normativo che, a livello nazionale, sta progressivamente ridefinendo i criteri di approccio al governo territoriale ed ambientale. L'obiettivo di una simile ricostruzione non vuol'essere quello di fornire un'informazione esaustiva sul sistema normativo che bisogna conoscere per seguire e comprendere la vicenda veneziana. Diversamente il tentativo di queste note è quello di mostrare il peso che la "cultura dell'intervento straordinario" o - con definizione ancora più eloquente - la "cultura delle grandi opere" ha avuto ed ha nella storia dell'intervento per la salvaguardia di Venezia. In questo, del resto, sta l'interesse non locale del caso veneziano ed il suo risultare quasi paradigmatico di un costume nazionale diffuso. Ma fin qui niente di nuovo. Sul tema sono state già spese molte parole e molte pagine; non mancano le analisi, le conferme e gli esempi offerti da eventi molteplici e disparati (si pensi agli interventi straordinari di ricostruzione successivi ai vari terremoti o a quelli per lo sviluppo del mezzogiorno). Eppure nel momento attuale c'è qualcosa di interessante e relativamente anomalo ed è il 126

delinearsi, a fronte della legislazione speciale, di un quadro normativo di carattere ordinario dotato di qualche organicità. Questo consentirebbe - forse per la prima volta nella storia del paese - un approccio comprensivo ed integrato al problema del governo ambientale. Questa novità, come vedremo, non è di poco conto; essa introduce un elemento di dinamicità nel sistema ed imprime una maggiore velocità - oltre a ridefinirle significativamente - alle strategie degli attori coinvolti nei vari ambiti d'azione. A livello generale possiamo dire che si sta assistendo al tentativo di riempire i nuovi contenitori (le leggi) con vecchie logiche d'intervento e vecchi progetti; un tentativo abbastanza concitato ed evidente ma non per questo più facile da contrastare. Ciò a causa di unà convergenza di vedute, non esplicitamente ammessa ma rilevabile nei fatti, tra ampi ed importanti settori del mondo imprenditoriale (sia privato che pubblico) e segmenti altrettanto importanti delle forze politiche impegnate nel governo e nell'amministrazione a scala regionale. (E quasi superfluo dire che non tutte le regioni sono uguali specie per quanto riguarda l'ambito del governo ambientale. Ciò nonostante visto il livello frammentato dell'informazione disponibile credo si possa dire che le rare eccezioni confermano la regola). Nell'ambito veneziano il quadro generale tracciato si articola e si confonde e ciò per l'intreccio tra la legge speciale e la nuova normativa ordinaria, intreccio che avrà esiti ancora incerti e non del tutto scontati.

Quao

NORMATIVO, ArFORI E STRUMENTI

Sarà bene a questo punto precisare l'insieme degli elementi messi in campo e l'ambito


d'azione che si intende cogliere e valutare escludendo ogni pretesa. di esaustività o di oggettività nella descrizione di un sistema d'interazione che è per eccellenza "aperto". (Devo dire che nell'evidenziare il carattere aperto del sistema non intendo usare una terminologia strettamente sistemica; voglio solo richiamare il fatto che convergono, in un ambito dato, gli esiti di indeterminatezza indotti da più campi d'azione dall'evoluzione incerta). Partiamo innanzi tutto dai due campi strutturati dalla normativa speciale ed ordinaria in ognuno dei quali esiste un "testo cardine" che definisce il sistema delle autorità dei poteri e delle competenze in maniera più o meno articolata. Riguardo al primo ambito la legge di riferimento è la 798 del 1984 meglio nota come legge speciale bis mentre, per il secondo, il testo fondamentale è la legge 183 del 1989 (nòrme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo), ormai molto discussa e piuttosto nota. Date le intenzioni di queste note dovrò presupporre una conoscenza del senso e delle finalità di queste leggi, cosa che mi consentirà di soffermarmi su un'illustrazione di quello che ho definito "il sistema delle autorità e delle competenze". Ciò fatto bisognerà introdurre nello scenario una nuova componente e cioè la Regione Veneto con le sue strategie d'azione più o meno palesi, le sue iniziative e le relazioni che stabilisce con gli attori in gioco. Passando dalla descrizione degli indirizzi normativi a quella delle strategie ci si imbatte nuovamente in due testi chiave. Tali sono a mio avviso - i due documenti dedicati al problema del disinquinamento e risanamento della laguna e del suo bacino scolante, rispettivamente dovuti al Comitato Tecnico Permanente (un organismo di consulenza

tecnico-scientifica nato nell'ambito della normativa speciale, d'ora in poi cri) ed alla regione (quest'ultima ha commissionato all'esterno la redazione del suo Piano Direttore). L'importanza che attribuisco ai due documenti non è dovuta ad un eccesso di fiducia nella reale efficacia dell'attività di pianificazione. Piuttosto si tratta di riconoscere che i piani, ed in particolare l'uso che viene fatto dei loro contenuti, costituiscono un elemento forte di costruzione, da parte dei soggetti, della propria azione strategica oltre che di una propria riconoscibile identità. Infine conviene chiarire il motivo che mi spinge a privilegiare - nel vasto campo delle politiche per la salvaguardia di Venezia la dimensione disinquinamento e risanamento. Va detto prima di tutto quali sono le dimensioni escluse, vale a dire gli altri capitoli rilevanti dell'insieme, a partire dalle quali si sarebbe potuto proporre descrizioni simili a quella qui tentata.

LE PROSPETTIvE ESCLUSE

Intimamente connessa all'immagine di Venezia vi è l'idea che essa sia minacciata, e da cos'altro se non dall'acqua che è sempre stata al tempo stesso l'origine delle sue fortune? La stessa legislazione speciale è nata sulla scia dello shock provocato, nella città e nell'òpinione pubblica internazionale, dalla grande acqua alta del 1966. Una descrizione che ripercorra, sia pure per sommi capi, l'intera storia dell'intervento speciale e la sua non sempre chiara evoluzione, non è certo nelle possibilità di queste note. Ciò che bisogna ricordare è che, dal momento della sua prima comparsa, l'idea di risolvere il problema dell'acqua alta tramite la chiusura temporanea delle bocche di porto 127


apparve come soluzione equilibrata e neutrale, offerta dal "riduzionismo scientifico" e dal "determinismo tecnologico" per congelare lo stato di fatto esistente. Questo avrebbe permesso di conciliare gli opposti interessi politico-economici legati rispettivamente agli slogan della salvaguardia piuttosto che dello sviluppo, P. Cacciari (Appunti per una storia del Progettone, in «Oltre il ponte», n. 17, 1987) traccia un'efficace descrizione degli umori politico-culturali che produssero la decisione in favore della chiusura delle bocche di porto e la sua gestione successiva. Con l'affermarsi di questo approccio di tipo "chirurgico" si assiste ad un vero e proprio declassamento a problemi complementari di tutte le questioni legate all'impatto dell'intervento antropico sull'ecosistema. Il miglioramento della qualità delle acque, il riequiibrio dell'idrodinamica lagunare, la vivificazione delle velme e delle barene 1, diventano oggetto di interventi secondari, subordinati a quello idraulico, ritenuto capace, da solo, di garantire l'obiettivo. Ma questi interventi secondari sono stati anche l'appiglio dato ai molti critici del "progettone" per rallentare e condizionare il meccanismo, a volte fulmineo e sfuggente, dell'appalto di opere pubbliche. E difficile infatti ignorare coloro che sottolineano il pericolo potenziale che una chiusura protratta delle dighe potrebbe avere sia sulle condizioni di igiene e di salubrità dell'abitato, che su quelle della vita acquatica lagunae, in condizioni di pessima qualità delle acque. La scelta di concentrare l'attenzione sugli interventi "secondari" significa riaffermare la priorità di un approccio "comprensivo", capace di cogliere l'unitarietà ed integrità dell'ecosistema ed il nesso tra i suoi problemi di degrado fisico ed un complesso modello d'insediamento antropico. Concentrarsi sul problema del disinqui128

namento e risanamento dell'ecosistema lagunare, significa in realtà mettere in discussione il modello di sviluppo economicoterritoriale di un ben vasto bacino idrografico 2 e pensare alla salvaguardia della laguna (e dell'ambiente), nei termini di una ridefinizione di quel modello. Il collasso ambientale che oggi si sperimenta (alghe, chironomidi etc.), rende manifestamente insufficiente ogni riduzione delle questioni ad una visione settoriale; come se l'equilibrio dinamico di un ecosistema complesso si possa ripristinare appaltando per lotti la realizzazione di sbarramenti contro le inondazioni, di qualche depuratore in più per i nostriscarichi e magari la ricostruzione di velme e barene "autentiche" in base al rilievo di qualche carta storica (quale secolo preferire sarebbe materia di competenza dei critici). Il problema dell'oggi è che si sta tentando di allargare un concetto già inservibile di salvaguardia, dal solo intervento idraulico a quello più complesso del risanamento (di cui tra l'altro la fase "disinquinamento" è solo una parte). L'estensione della logica del grande intervento va dalle chiusure mobili alle bocche di porto (di cui il famoso MOSE modulo sperimentale elettromeccanico - è prototipo), al piano di disinquinamento, che è in realtà un piano di depuratori. Se proprio è necessario migliorare la qualità delle acque - anche per poter procedere alla realizzazione del MOSE - che almeno sia possibile far diventare il disinquinamento un business. E ciò che sta succedendo a Venezia ma, come ho già detto, questa rappresenta solo un caso paradigmatico di uno stile emergente. Per completare il quadro vale la pena di segnalare una terza prospettiva a partire dalla quale si sarebbe potuto guardare il pro-


blema delle politiche per la salvaguardia di Venezia, ed è quello della tutela della città in quanto unità socio-economica complessa. Detto in altri termini il problema è quello di contrastare la morte e lo svuotamento urbano, per monocultura turistica. La questione è assunta - seppure in modo non proprio centrale - anche dalla legislazione speciale, che si è comunque rivelata soltanto come la possibile fonte di finanziamenti - più o meno vincolati - per il restauro e risanamento fisico del patrimonio artistico ed architettonico. Del resto sarebbe del tutto legittimo attendersi che un simile problema costituisca lo specifico proprio delle forze del governo urbano, il cui compito prioritario e a tutt'oggi non assolto, sarebbe quello di ridefinire, in un progetto globale, il rapporto possibile tra l'incontestabile eccezionalità e la "normalità" necessaria per evitare che la città sparisca sotto l'ondata incontrollata del turismo 3.

GOVERNARE CON LA LEGGE SPECIALE

È preferibile, per questioni di brevità e di chiarezza, saltare a piè pari tutta la ricostruzione dell'esperienza legge speciale nella sua prima parte (legata alla legge n. 171, del 1973) visto che in essa la questione disinquinamento e risanamento dell'ecosistema è si presente, ma non centrale, sempre messa in ombra dal problema delle opere di tutela idraulica. Va ricordato soltanto che i vizi di concezione rilevati e sperimentati in quella prima fase (soprattutto la presenza di procedure poi giudicate paralizzanti), influenzano in negativo la fase attuale. Questa nasce improntata all'estrema semplificazione procedurale nel tentativo - che oggi appare quasi ingenuo - di eludere i pro-

blemi di scelta posti a livello politico, con un rapporto diretto ed esclusivo tra la massima autorità di indirizzo ed il concessionario unico dello stato per la realizzazione degli interventi. Ma vediamo qual'è l'architettura delle autorità e delle competenze delineate dalla legge n. 798/84, detta legge speciale bis, e dall'emanazione di norme e decreti successivi. L'articolo 4 della legge istituisce il Comitato Misto Interministeriale di Indirizzo, Controllo e Coordinamento (chiamato per lunga consuetudine Comitatone), competente allo svolgimento di quelle funzioni sull'attività del concessionario 4. Quest'ultimo è il ben noto Consorzio Venezia Nuova costituitosi all'uopo nel 1982. Il Comitato Misto ha provveduto successivamente ad istituire e regolamentare con proprio documento il Comitato Tecnico Permanente (cn), che gli fornisce consulenza scientifica ed è composto da 12 esperti '. Al di là dell'istintivo fastidio che coglie l'osservatore di fronte al moltiplicarsi dei comitati quest'ultimo sta svolgendo un ruolo conoscitivo di rilievo proprio nell'approfondimento della questione "risanamento dell'ecosistema". L'attività del CTP comincia il 7 marzo del 1989 e fino ad oggi ha prodotto due rapporti sull'attività svolta; essi forniscono "linee guida per l'elaborazione del piano di disinquinamento e risanamento dell'ecosistema lagunare". Lo strumento prefigurato, detto anche Master Plan, dovrebbe essere il documento principale emanato dal Comitatone e secondo le convinzioni espresse dal CTP nel suo primo rapporto - dovrebbe prefigurare in un quadro unitario e congruente "le azioni sinergiche ed inscindibii di prevenzione, depurazione e gestione". Le condizioni alle quali è perseguibile l'obiet129


tivo disinquinamento (sempre secondo il CTP), sono così espresse in modo chiaro ed

inequivocabile. Tra le attività del CTP c'è da aggiungere l'esame compiuto del Piano Direttore per il disinquinamento della laguna di Venezia e del bacino in essa scolante, piano redatto per conto della Regione da un gruppo di lavoro ad essa esterno. Il parere (critico) espresso dal crp sullo strumento adempie a quanto richiesto dalla legge regionale n. 17 del 1990, promulgata al fine di estendere i poteri straordinari, concessi dalla legge speciale alla Regione sugli Otto Comuni della gronda lagunare, a tutti i 98 costituenti il bacino scolante.

GOVERNARE CON LA LEGGE 183

Spostiamoci ora brevemente dalla normativa speciale a quella ordinaria, per richiamare alcuni capisaldi del sistema di pianificazione ed intervento per la difesa del suolo e delle acque messo a punto dalla legge n. 183/89.

Tra le molte innovazioni introdotte da questa legge, la meglio nota è senz'altro quella inerente la suddivisione del territorio nazionale in bacini idrografici. Questi diventano il riferimento territoriale unitario entro il quale programmare ed attuare la politica di governo ambientale. Conseguentemente alla suddivisione in bacini vi è l'individuazione dell'Autorità di bacino come istituzione preposta alla realizzazione degli obiettivi di legge: dunque la difesa e valorizzazione del territorio di ogni bacino inteso come ecosistema unitario. La legge definisce bacini di tre tipi ed in modo corrispondente tre tipi di Autorità di bacino: rispettivamente di rilevanza nazionale, interregionale e regionale. 130

Istituite ex lege sono le Autorità dei bacini di rilevanza nazionale mentre, demandata alle Regioni, vi è la competenza di delimitare i bacini del corrispondente livello e di istituire le rispettive Autorità di governo. Conviene ricordare molto brevemente le finalità ed i contenuti del Piano di Bacino (PdB), vale a dire del principale adempimento dovuto dall'Autorità di bacino ai fini di governo ambientale. Secondo l'articolo 17 della legge il PdB "ha valore di piano territoriale di settore ed è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnicooperativo mediante il quale sono programmate le azioni e le norme d'uso finalizzate alla conservazione e valorizzazione del suolo ed al corretto uso delle acque sulla base dei caratteri fisici ed ambientali del territorio interessato". Inoltre il piano è coordinato con i programmi nazionali, regionali e subregionali di sviluppo economico e di uso del suolo. Le autorità competenti (Regioni, Province etc.), sono quindi tenute ad adeguare alle disposizioni del PdB i piani territoriali, i piani per il risanamento delle acque, i piani per lo smaltimento dei rifiuti, etc. L'importanza intrinseca di queste disposizioni è evidente. Esse hanno inoltre un risvolto specifico nel contesto veneziano per l'opportunità che offrono di individuare l'intero bacino scolante in laguna come bacino idrografico di rilevanza regionale e di gestirne il risanamento attraverso il relativo Piano di Bacino.

LA STRATEGIA DI GOVERNO DELLA REGIONE VENETO

Com'è evidente dagli elementi riportati fin qui, il quadro di riferimento normativo al quale, in modo diretto o indiretto, fa capo la politica di salvaguardia della laguna di


Venezia è, al momento, un quadro assai dinamico che offre possibilità inedite di approccio ai problemi e che, con grande probabilità, subirà ulteriori e rapide evoluzioni. Si tratta fin qui di uno scenario totalmente definito da testi normativi di livello nazionale, nel quale ancora non emergono le strategie degli attori, specie di quelli ancorati alla realtà locale. Un approccio centrato sulla ricostruzione dell'azione dei principali attori in gioco sembra infatti tanto più interessante nel momento in cui una situazione marcatamente dinamica sembra imporre altrettanta dinamicità ai diversi soggetti, pena l'esclusione o almeno la sostanziale ininfluenza sull'evoluzione della vicenda in corso. Si può aggiungere che non a caso stiamo assistendo oggi al tentativo di lanciare, il più velocemente possibile, alcuni grandi "programmi di risanamento ambientale". Questi infatti presentano, confusi in un mare di allusioni ad un ipotetico "nuovo approccio" al governo ambientale, nient'altro che i soliti mega-progetti infrastrutturali (che siano depuratori, fogne o acquedotti fa poca differenza), spacciati per interventi risolutivi dell'attuale crisi ambientale. Il problema sta nel fatto che il nuovo regime di governo territoriale ed ambientale definito dalla legge n. 183/89 prefigura - seppure tra molte ambiguità e rischi di stravolgimento del senso della legge - un approccio radicalmente innovativo al problema. Solo così si può definire, mi pare, il tentativo di evitare la parzialità, la frammentarietà e l'incapacità di incidere sulle cause, che caratterizza la maggior parte dei "progetti ambientali" oggi sulla scena. Bisogna far presto quindi; prima che malauguratamente possa affermarsi un approccio al governo ambientale più oculato e corretto e prima che si restringano gli spazi per mettere a frutto una delle grandi occasioni del

nostro tempo: l'affare del risanamento ambientale 6 Il riferimento specifico è in questo caso ad avvenimenti in corso nel Veneto, peraltro ben pubblicizzati anche a livello nazionale, come esperimenti esemplari, da estendere al più presto ad altri contesti!

IL PIANO DIRErrORE: CRITICHE SOSTANZIALI E PROCEDURALI Sul palcoscenico veneziano, così fortemente segnato dalla struttura d'azione delineata dalla legislazione speciale, gli enti locali (dalla Regione al Comune), sono in qualche modo costretti ad un "gioco di rimando", cioè ad un'iniziativa che occupa e cerca di rendere strategici i vuoti e gli spazi lasciati liberi dall'azione altrui in un sistema che è comunque regolato dall' esterno. Ciò non significa che non riescano a costruirsi una propria "autonomia". Sul tema disinquinamento questo schema di lettura è abbastanza chiaro. Il "Piano Direttore per il disinquinamento ed il risanamento della laguna di Venezia e del bacino in essa scolante" è stato commissionato dalla regione ad un gruppo di studi di engeneering (Società Generak di Ingegneria, Studio Altieri, Zoliet Ingegneria) che frequentemente ritroviamo nel ruolo di consulenti regionali. Il documento appare nel dicembre '89 su una scena che aveva registrato, solo pochi mesi prima, la pubblicazione di un documento dal titolo quasi identico redatto dal CTP. Il tema disinquinamento è stato sottoposto a disamina (almeno a partire dal 1987) in un numero notevole di piani e rapporti, stilati, di volta in volta, dal Magistrato alle acque, dalla Regione e dal Ministero dell'ambiente. A coronamento di questo processo il Comitato Misto dovrà 131


emanare il piano generale degli interventi anche detto Master Plan. Ma è chiaro che la procedura di elaborazione necessaria per metter capo al risultato sta registrando dei ritardi poichè, il primo e poi il secondo rapporto del CTP (datati rispettivamente settembre '89 e dicembre '90), forniscono appunto linee guida per l'elaborazione del Master Plan e sono dunque contributi fondamentali dovuti al Comitato Misto dal proprio organo di consulenza scientifica, ai fini di quell'importante adempimento. Ad ogni modo l'iniziativa della regione si inserisce e "gioca" su questo ritardo con una mossa che punta a rilanciare il proprio peso come attore potenzialmente centrale nella gestione della politica di salvaguardia. Pur senza volersi soffermare su una descrizione puntuale dello strumento si deve notare una certa, non casuale, ambiguità nella strategia di comunicazione in esso adottata, ambiguità data dallo scarto tra i contenuti concreti del progetto proposto ed il tentativo di farlo apparire altro (di più) da ciò che realmente è.

11 Piano Direttore è, a tutti gli effetti, un piano di adeguamento tecnologico e di completamento degli impianti di depurazione facenti capo, direttamente o indirettamente, alla laguna di Venezia. Da questo punto di vista si configurerebbe come un adempimento che giunge però in clamoroso ritardo - dovuto dalla regione agli obblighi della legge Merli (n. 319 del 1976 e successive modifiche) I .

L'iniziativa della Regione comunque non è caduta nel vuoto, anzi è stata oggetto di critiche articolate sia di carattere sostanziale che procedurale. Riguardo alle prime la traccia è quella fornita dal CTP nel parere espresso sul documento, come richiesto dalla legge regionale n. 17 del febbraio 1990. 132

Nella sostanza tale parere prende atto di alcune novità positive presenti nel piano, come l'assunzione di un metodo di programmazione dinamica e l'estensione della politica di disinquinamento all'area già indicata dal Comitato stesso (il bacino scolante). Segnala al tempo stesso con grande chiarezza e concisione i principali limiti dello strumento. Questi sono sintetizzabili: - nel non prevedere interventi di tipo diverso da quelli di depurazione; - nella vaghezza sia analitica che propositiva in merito a problematiche non tradizionali ma recentemente reputate determinanti per affrontare una politica complessiva di disinquinamento; questioni come l'inquinamento diffuso di origine urbana ed agricola che non trovano nel piano né una trattazione esauriente né una risposta convincente. Entrando ancora più nello specifico il Comitato segnala che: - gli obiettivi di qualità da assumere per tutti i corpi idrici del bacino scolante devono essere adeguati a quelli del corpo lagunare (cosa non prevista dallo strumento); - mentre il Piano Direttore programma gli interventi seguendo una divisione di tipo territoriale-amministrativo, sarebbe auspicabile un riferimento ai singoli sotto-bacini idrografici componenti l'area scolante in laguna, ed una gestione unitaria degli stessi. Conseguentemente a questo tipo di considerazioni il CTP ritiene il Piano Direttore un contributo parziale, seppure utile alla stesura del Master Plan; quest'ultimo dovrà però essere redatto "in un contesto più generale di gestione dell'intero ecosistema: bacino scolante, laguna e mare Adriatico, seguendo le linee guida espresse dal CTP".


Su una traccia del tutto analoga ed a conclusioni corrispondenti giunge il gruppo di lavoro incaricato dall'amministrazione comunale veneziana nelle "considerazioni" che gli sono state richieste. Queste ultime sono più distese rispetto alla concisione delle precedenti, anche perché si soffermano sugli aspetti del Piano Direttore inerenti lo specifico del territorio veneziano. Anche nel caso degli esperti incaricati dal Comune l'invito rivolto alla Regione è, nella sostanza, quello di evitare "fughe in avanti"; di far rientrare il Piano Direttore nello spirito piu ampio del "Progetto Venezia" che vede nel c'ri' l'organo di coordinamento ge-

quistarsi. Il carattere complessivo di questo comportamento non può che richiamare accuse di verticismo, di scarsa attenzione all'equilibrio delle competenze predisposto dalla legge speciale, oltre che alle istanze di rappresentatività proprie dei comuni del bacino scolante, che vedono passare tutta l'operazione sulla loro testa. Bisogna dire, del resto, che quest'ultimo problema non è certo di difficile soluzione. Non vi è dubbio che la regione sta già lavorando a meccanismi attivi di costruzione del consenso.

nerale del Master Plan.

Le critiche più efficaci restano, a mio avviso, quelle riguardanti la delega sistematica a soggetti privati esterni, da parte della Regione, di tutte le fasi inerenti il governo ambientale: da quella della ricerca orientata alla pianificazione e programmazione degli interventi, a quella della loro realizzazione. Non si tratta qui di riproporre un discorso di sopravvalutazione del ruolo del "pubbliCO" contro il "privato". Si tratta invece di non sottovalutare i rischi intrinseci nel demandare al soggetto privato la delicata fase dell'individuazione dei modi di governo di un bene collettivo quale l'ambiente. Questa comunque non sembra essere la principale preoccupazione della regione Veneto la quale, dopo aver decentrato le attività di ricerca e pianificazione, sembra voler procedere affidando in concessione unitaria il service tecnico, necessario per avviare, la fase propriamente attuativa, al Consorzio Venezia Disinquinamento; tutto ciò secondo un modello solo formalmente dissimile da quello già sperimentato per l'intervento idraulico e certo non esente da critiche I . A fronte dell'impegno con cui la regione ha cercato di creare tutte le condizioni per

Arriviamo così alle critiche procedurali che, come vedremo, non sono soltanto critiche formali. Il comportamento della regione non poteva non provocare fastidio e dissenso negli enti locali subordinati (Comune di Venezia in primis), oltre che - ma sarebbe stato strano il contrario - nelle forze politiche di opposizione. Per avere un quadro più completo della strategia della regione bisogna illustrare brevemente i contenuti principali della legge regionale n. 17/90. Con questa la regione decide di estendere i poteri, conferitigli dalla legge speciale sui primi Otto comuni di gronda, a tutti 198 comuni del bacino scolante: oltre a ciò essa autorizza se stessa all'uso di procedure super rapide per l'affidamento all'esterno dell'incarico per la realizzazione delle opere previste nel Piano Direttore. La richiesta al cn' di un parere, nemmeno vincolante, sullo strumento, non è certo un contrappeso significativo a fronte della forte autonomia operativa che con questa legge la regione tenta di con-

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un rapido passaggio alla fase attuativa del Piano Direttore, si è già costituito il Consorzio Venezia Disinquinamento, candidato concessionario per la realizzazione dell'insieme delle opere. Si tratta di un consorzio temporaneo tra grandi imprese, che vede tra i componenti - ma deve essere un caso - le stesse maggiori società già presenti nel Consorzio Venezia Nuova e nel Consorzio Delta Po (concessionario unico della regione per la realizzazione delle opere acquedottistiche del basso Veneto). Solo per fare qualche nome si possono ricordare le presenze di Italstat (lEi), Impresint (FIAT), Mazzi (FINcosIT); nel Consorzio Venezia Disinquinamento si accosta ai precedenti un cartello veneto detto "Iniziativa" (con una quota del 45%), al cui interno ritroia-. mo i nomi dei gruppi professionali consulenti di fiducia della regione: Mascellani, Pretner, Zollet, Altieri (sono gli estensori del Piano Direttore), oltre ad un gruppo della Lega delle

Cooperative.

PER UN RiORDINO ISTITUZIONALE

Dal quadro tracciato emerge chiara la volontà politica della regione di abdicare a qualsiasi ruolo autonomo di ricerca e progetto in f avore di un "sostegno" incondizionato delle ragioni di quanti (in realtà un ristretto gruppo) forniscono servizi di ricerca ed engeneering ambientale. La confusione e tendenziale unificazione dei ruoli tra chi pianifica e programma - dopo aver individuato in maniera complessa le modalità di governo diun bene collettivo primario - chi realizza e chi gestisce - rispondendo nuovamente ad un criterio di interesse pubblico - è totale. Inutile dire che le garanzie di una delega completa dell'intero processo al sistema impresa, sono nulle e ciò 134

giustifica le reazioni e le resistenze più sopra evidenziate, oltre a quelle di tutti i soggetti espropriati di forme legittime di controllo e di partecipazione ai processi decisionali inerenti il governo ambientale (le forze politiche di opposizione, le forze ambientaliste, i semplici cittadini). Per tutti questi soggetti la priorità di un riordino istituzionale complessivo è incontestabile. Ciò comporta l'opposizione ad ogni ulteriore sovrapposizione di ordinamenti normativi speciali a quelli già esistenti ed un'opzione decisa che, tra il sistema di governo definito dalla legge speciale e quello messo a punto dalla legge n. 183/89, scelga quale privilegiare e potenziare. Ricompare quindi sullo sfondo l'opzione tra "straordinario" ed "ordinario", dove i due termini non denotano soltanto i caratteri di un sistema istituzionale ma anche un modo diverso (forse opposto) di concepire l'intervento: da un lato una cultura del "grande progetto", dall'impatto altrettanto grande, che tenta di risolvere i problemi dell'ecosistema artificializzandolo; dall'altro una cultura "della gestione ordinaria e permanente" che mira ad interventi calibrati e reversibili, caratteri questi necessari per adeguarsi all'incerta evoluzione delle dinamiche di sistema. E comprensibile che quanti propendono per un approccio del secondo tipo vedono nella legge n. 183/89 uno strumento inaspettato e potenzialmente molto utile sul quale puntare. In alternativa - privilegiando la struttura di governo definita dalla legge speciale - si aprirebbe la possibilità di potenziare la sua massima autorità (il Comitato Misto Interministeriale) in un senso di maggiore rappresentatività ed integrazione e, di rilanciare in pieno il ruolo del Magistrato alle Acque come organo di supporto tecnico operativo.


L'indecisione tra le due opzioni farebbe fare ancora molta strada a quanti sperano di continuare a gestire il. grande business del

Nom Sono formazioni tipiche della morfologia lagunare: parti di terreno che sono scoperte o sommerse a seconda dell'escursione della marea; naturalmente sono caratterizzate da forme peculiari di vita vegetale ed animale. 2 L'intero bacino scolante nella laguna di Venezia comprende 98 comuni compresi nelle province di Padova, Treviso e Venezia; vi sono insediati 1.200.000 abitanti su di un territorio dell'estensione di 185.000 ettari. Non bisogna pensare che quello del turismo sia solo un problema di intasamento; esso è molto più profondo ed implica la concorrenza impari tra qualsiasi attività economica connessa al turismo e la massa variegata delle altre. L'esito macroscopico della competizione è l'esodo massiccio delle attività e della popolazione che non possono sostenere il livello dei prezzi indotti dalla museificazione della città. Da notare la sensibilità dell'amministrazione urbana al problema: in questi giorni sta partendo un'operazione di concertazione con l'amministrazione fiorentina per un piano di rilancio dell'attività turistica compromessa dalla guerra del golfo! Il Comitatone è composto da cinque ministri: dei Lavori Pubblici, dei Beni Culturali ed Ambientali, della Ricerca scientifica, dell'Ambiente e della Marina Mercantile; da quattro sindaci: di Venezia, di Chioggia e altri due eletti tra i comuni del comprensorio; vi partecipano inoltre il presidente della Regione e quello del Consiglio dei Ministri che ne è il presidente. 'Di questi, sei sono di nomina regionale, tre del Ministero dei LLPP e tre del Ministero dell'ambiente. 6 Intendiamoci, non voglio stigmatizzare il fatto che il sistema-impresa riesca a trarre profitto anche dalla

"risanamento ambientale". Ma del resto lo sappiamo che anche non decidere è un modo per decidere -

necessità di risanare la situazione ambientale che ha contribuito potentemente a determinare. E chiaro che, se il risanamento ambientale non creasse interessi, resterebbe, con tutta probabilità, soltanto un miraggio. fl problema è un altro e cioè se sia ammissibile che i progetti in quéstione rispondano unicamente agli interessi delle imprese disponibili a realizzarli piuttosto che ad un interesse collettivo di qualità dell'ambiente di vita. Il problema se si vuole è molto generale e sempre più ricorrente e cioè: va bene produrre, ma chi decide le finalità della produzione? In un trionfo di autoreferenzialità larisposta sembra essere: il sistema economico. Ma è ancora presto per dire se davvero siano impossibili altre vie. Bisogna aggiungere un breve inciso su questa legge, "storica" e sempre disattesa, sull'ammissibilità degli scarichi sversanti nei corpi idrici. Essa è, òrmai da alcuni anni, fortemente criticata ma, ciò che più interessa, è una legge di fatto sorpassata ed incoerente rispetto all'approccio al governo delle risorse ambientali emergente dalle più recenti normative (legge n. 183189, piano triennale per l'ambiente). L'auspicio è quello di una sua modifica in direzione di una maggiore coerenza con il quadro normativo più generale. 8

Il meccanismo al quale si fa riferimento è quello in cui il cosiddetto "concessionario unico" ha in affidamento l'intero processo, dalla progettazione alla realizzazione ed infine alla gestione. In base a tale modello opera il Consorzio Venezia Nuova. La differenza, nel nostro caso, sta nel fatto che gli autori del progetto (il Piano Direttore) non corrisponderebbero a queffi candidati alla realizzazione delle opere (Consorzio Venezia Disin quinamento). Vedremo tra poco che la distinzione tra i due è fittizia.

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New York città laboratorio di John H. Mollenkopf

Nel volume Power, Culture, and Piace viene inevitabilmente legate ad una singola disciutilizzata la vantaggiosa situazione della cit- plina, ma l'obiettivo del Comitato per la Città di New York per esplorare gli aspetti ecotà di New York del Social Science Research nomici, politici e culturali dello sviluppo ur- Council è quello di collegare tra di loro magbno negli Stati Uniti. Mettendo a fuoco giormente le prospettive politiche, culturali questi temi all'interno della metropoli, la ri- ed economiche. cerca si chiede anche in quale modo la città Un altro punto di partenza è dato dalla conpiù grande ed importante della nazione abvinzione che le scienze sociali dovrebbero libia influito sull'intero sistema. Pur non ri- berarsi dalla loro despazializzazione. Le solvendo i dibattiti su come il potere, la culscienze sociali hanno visto la tendenza ad tura cdi luoghi si influenzano reciprocamen- ignorare lo spazio ed i luoghi per ottenere rite, lo studio tenta di individuare le questiosultati generalizzabii, oppure li hanno conni fondamentali che riguardano questa inte- siderati come fattori puramente incidentali. razione, così come si presentarono durante Effettivamente, la specializzazione disciplile fasi mercantile, industriale e postindustrianare richiede l'omogeneizzazione dello spa-. le nella città di New York e nell'intera zio e dei luoghi. Utilizzando una metafora società. di Herman Melville, i luoghi sono l'immagiQuesto sforzo si basa su molti assunti metone del tempo, attorno ai quali le scelte, le imdologiche e reali. Riteniamo che la nascita posizioni o il caso intessono la storia. I luodella società moderna, urbana, postindustria- ghi sono di sicuro il risultato di scelte e conle, possa essere compresa efficacemente so- flitti del passato, ma tendono anche a conlo attraverso una attenta analisi delle interadizionare le scelte ed i conflitti futuri, danzioni tra potere, cultura e struttura econodo un'impronta precisa allo sviluppo della mica. Non è sufficiente l'analisi di ciascuna storia. dimensione, ma è anche necessario esploraUna conseguenza immediata di questo è che re le interazioni. All'opposto, le discipline le grandi città sono state alla guida dello svidelle scienze sociali hanno avuto la tenden- luppo nel diciannovesimo e nel ventesimo seza ad astrarre gli uni dagli altri i settori del- colo, e probabilmente lo saranno anche nel lo Stato, dell'economia e della cultura e, nel ventunesimo. Lo stretto legame tra l'urbapeggiore dei casi, hanno ignorato o date per nizzazione ed il capitalismo industriale conscontate le interazioni che tra questi esistono. ferma la prima parte di questa affermazioIn. realtà, evidenziare la necessità di una rine. Per quanto riguarda il periodo attuale, cerca interdisciplinare è più facile che dare la situazione è più controversa. Negli ultimi vita ad un dialogo tra le diverse discipline. decenni, il decentramento economico e deLe analisi, all'interno del volume, sono mografico unitamente alla nascita di nuovi 136


centri urbani hanno creato un quadro più articolato, in luogo delle precedenti città "mononucleari". Crediamo ancora, tuttavia, che le grandi città, anche in questo nuovo contesto metropolitano, siano la guida per gli assetti degli insediamenti umani, e che siano i centri urbani a produrre le tendenze innovative.

NEW YORK: QUANDO L'ECCEZIONE È REGOLA

La città di New York rappresenta un caso particolare, a questo riguardo. La sua popolazione ed il suo bilancio superano quelli di molte nazioni. Tre quarti di coloro che lavorano nel suo sistema economico, vivono all'interno dei suoi confini amministrativi. Si tratta del più grande e più diversificato centro di servizi finanziari ed aziendali del mondo, vi si trova la più grande concentrazione di sedi direttive di società, ed è un polo per la cultura e le comunicazioni di importanza mondiale. Quindi, le innovazioni di New York, dalle mortgage-backed securities 2 alla breack-dance hanno un forte impatto nel resto del mondo. New York, come altre grandi città, combina ed intensifica le interazioni tra le forze sociali che altrove potrebbero risultare nascoste, latenti o ben separate le une dalle altre. In breve, l'Essays on New York City sostiene che gli studi sui centri urbani dovrebberoessere rivalutati come una base suggestiva e fruttuosa per le scienze sociali. La città ha dato vita alle scienze sociali ed è stata alla base di molti studi classici, da quello di F. Engels su-Manchester a quello di Robert A. Dahl su New Haven. Una visione innovativa dei centri urbani può chiarire molti dei più importanti problemi che oggi impegnano gli studiosi di scienze sociali. Tra questi ci sono problemi metodologici ed

epistemologici, come nel caso della scelta se affidarsi alle spiegazioni specifiche o a quelle più generali ocomplessive, oppure se mettere in evidenza il significato e l'interpretazione, come nel lavoro dell'antropologo Clifford Geertz, o affidarsi alle spiegazioni causali. Con la concentrazione di un gran numero di persone e di strati sociali diversi e molto vicini fisicamente, le zone urbane si presentano come un fertile terreno per contrapporre e confrontare questi diversi approcci. Queste zone evidenziano, anche in maniera molto chiara, numerosi problemi fondamentali. Tra questi quello della formazione delle classi e dello sviluppo delle funzioni dello Stato, il ruolo della politica e della cultura di fronte ai trend economici, e la relativa autonomia (o la sua assenza) ai diversi liveffi del sistema sociale. La città di New York è un laboratorio ideale dove mettere alla prova la validità e l'utilità dei nostri strumenti metodologici più generici. Concentra ed evidenzia le forze che operano su qualunque scala, dal livello di quartiere a quello mondiale. Per un secolo e mezzo è stata la città più grande del Nord America. Essendo inoltre il porto più importante, New York è stata anche il più importante punto di collegamento con il resto del mondo, in particolare con l'Europa. La sua posizione nodale all'interno della rete nazionale e mondiale delle città, l'ha aperta a tutte le tendenze che si formano ovunque nel mondo, come nel caso dell'immigrazione asiatica e caraibica, degli investimenti diretti dall'estero, o delleidee d'avanguardia nel settore artistico. Si tratta di studiare i contrasti culturali, economici e politici. Se, da una parte, New York riflette le tendenze generali, dall'altra contribuisce a formarle, lasciando così la propria impronta sugli sviluppi successivi che avvengono altrove. 137


LA CRESCITA DELLA GRANDE MELA

Tornando alle questioni che sono attualmente al centro dei dibattiti teorici sulle scienze sociali, è evidente che questi e possono essere spostate vantaggiosamente nel contesto della città di New York. In quale modo, per esempio, i rapidi cambiamenti della struttura economica influenzano il complesso delle stratificazioni sociali e politiche? Gli studi contenuti nel volume delineano gli importanti aspetti sociali, politici e culturali di quelle che sono state la prima, la seconda e la terza rivoluzione industriale, corrispondenti alle ere mercantile, industriale e postindustriale. In ciascuna di queste fasi le innovazioni e l'eredità del passato hanno avuto simultaneamente un diverso e complesso impatto su tutta la struttura delle classi. Come hanno potuto i gruppi appena creati, nel contesto urbano in rapida evoluzione, dati questi complessi effetti, entrare a far parte dell'economia, del sistema e della cultura? Come possono un sistema collettivo, una cultura civica comune, essere il prodotto di così tante correnti distinte ed in conflitto tra di loro? Si tratta di un sistema caratterizzato da mobilità verticale, dall'assenza di opportunità, o da entrambe le cose? Come si spiega il destino dei diversi gruppi? L'esistenza di una classe inferiore è una caratteristica permanente dei periodi di rapida evoluzione strutturale? La città di New York ha, di continuo, generato nuove iniquità, con nuovi gruppi ammassati in maniera apparentemente costante alla base della scala. Malgrado molti di questi gruppi abbiano migliorato la propria posizione economica col tempo, attraverso una complessa battaglia politica, ci sono state anche complicate battaglie politiche tra realtà economiche in via di sparizione, come nel caso delle produzioni artigianali nel 1810 o le piccole fabbriche di 138

vestiario negli anni dal 1980 in poi, di fronte alla nascita del sistema industriale o ai servizi aziendali avanzati. L'attuale interesse per l'analisi dell'evoluzione delle funzioni dello Stato e delle autonomie, può trarre vantaggio da studi sulla città di New York. L'intervento statale ha favorito e guidato la crescita fisica ed economica della città. Questo si è manifestato con evidenza nel caso di investimenti pubblici come il canale dell'Erie, la rete della metropolitana di New York o l'aereoporto internazionale John F. Kennedy, ma anche in maniere meno appariscenti. La sconfitta da par-

te di New York della Philadelphia 's Second Bank nel 1836 fornisce un esempio di come il vantaggio economico abbia dato forma ai mercati finanziari non solo a New York, ma in tutta la nazione. Allo stesso tempo, la concentrazione di benessere e di povertà nella città di New York, inevitabilmente trasforma le tendenze economiche in questioni politiche. Le differenze tra le classi sono state enormi per un secolo e mezzo a New York, anche se le manifestazioni di violenza o di politica di classe sono state nella maggior parte episodiche. In ciascun periodo, l'ordine politico e la cultura civica hanno mitigato le tensioni economiche. Questa mitigazione di sicuro ha avuto luogo anche al di fuori del contesto strettamente politico. Da diverse voci, in contrasto tra di loro, è nata una cultura comune, che ha messo in evidenza le spaccature tra alcuni gruppi e ne ha soppressi altri. Alcune zone urbane sono considerate come spazi della sottocultura etnica e di classe, mentre altre hanno sviluppato un carattere molto più eterogeneo. Ci sono regole implicite che governano l'evoluzione di questa differenziazione spaziale, e che sono in relazione con le dimensioni politiche ed economiche del potere. Dal dibattito sulla creazione del Central


Park fino alla controversia sugli spazi verdi nella periferia della città, 140 anni più tardi, la città di New York offre molto materiale per una riflessione. Una questione finale, centrale dal punto di vista teorico, per le scienze sociali riguarda il grado ed i limiti dell'autonomia locale. Antony Giddens ha scritto che la città è stata al centro delle teorie sociali fino all'avvento dello stato-nazione, che ha strappato alla città poteri e diritti. Gran parte del pensiero neoclassico e neomarxista ha ribadito questa posizione. I più noti economisti, sociologi e studiosi di scienze sociali hanno concluso che la concorrenza nel settore degli investimenti impedisce alle città di avere il controllo degli assetti economici, almeno per quanto riguarda la redistribuzione. Alcuni neomarxisti hanno definito le città come il prodotto dei modelli di produzione e dei malcontenti che ne derivano, ed il ruolo delle politiche locali è quello di seguire l'imperativo di promuovere i primi ed evitare i secondi. Altri studiosi, legati ad una vecchia tradizione americana, non concordano con la soppressione delle autonomie locali. Tutta la letteratura legata agli studi sulle comuriità ha dato per scontata l'importanza del contesto urbano. La School of Sociology di Chicago ha definito la città come uno spaccato della società. Pur riconoscendo che le cose cambiano con il trasferimento dell'analisi dal livello nazionale a quello urbano, lo studio di Robert A. Dahl su New Haven 1 ed il recente, premiato lavoro di Browning, Marshall e Tabb sulle città della California riconoscono che le città sono luoghi dove le forze maggiori possono essere manovrate oltre che osservate e comprese. ,

Malgrado la perdita di autorità a favore delle giurisdizioni sovrastanti, e le vulnerabilità di fronte alle tendenze globali demo-

grafiche e del mercato, questa visione contiene l'affermazione che gli interventi nei sistemi urbani possono avere conseguenze reali sul sistema, perché esercitano una reale autorità sul cuore delle attività economiche e culturali. La città di New York offre la possibilità di mettere alla prova la relativa forza teorica di queste due visioni. Quale città è stata sottoposta maggiormente alle forze globali di cambiamento, economico e culturale? E quale città ha attuato più interventi amministrativi, attraverso la creazione di un complesso welfare state locale, o con la regolamentazione del mercato della casa, o la promozione della propria espansione economica? La realtà può aiutarci a stabilire fino a quale punto le città possono piotare le maggiori forze, oppure se sono le forze stesse a guidare le città.

NEW YORK: QUANDO LA REGOLA à ECCEZIONE

Gli scettici possono non credere che esista una forte necessità di ricerche basate sui luoghi, ricerche interdisciplinari e ricerche storiche, e potrebbero ritenere che New York non possa essere un buon punto di partenza per un lavoro simile. La particolarità della città di New York può contribuire a creare dubbi sul secondo punto. New York è più vecchia, più grande, più densamente popolata e più eterogena rispetto ad altre città americane. Ci sono più cattolici che in molte altre città e vi risiede la maggiore comunità ebrea. Vi risiedono un numero enorme sia di poveri che di ricchi. E dotata di un maggiore nu: mero di dipendenti del settore pubblico, di un maggiore numero di servizi pubblici e di una maggiore regolamentazione governativa del mercato della casa rispetto ad altre città. E malgrado si tratti della città più cosmopolita del mondo, contiene realtà ristrette 139


come nel caso di Sammar Chassidim a Williamsburg, oppure gli italoamericani di Benson-Hurst. Come può, quindi, la città di New York essere considerata rappresentativa di qualunque cosa? Riteniamo che la città di New York sia più un archetipo che un caso atipico. Concentrando situazioni estreme, riesce a evidenziare forze, tendenze e conflitti che altrove rimangono latenti. Essendo una città mondiale, è la prima a risentire delle tendenze che si sviluppano altrove. Accogliendo le istituzioni economiche, politiche e culturali più influenti, crea e diffonde importanti innovazioni. Malgrado il decentramento e le nuove forze di concorrenza, la città ha avuto un ruolo dominante sotto il profilo economico per più di un secolo. La sua sproporzionata influenza sullo sviluppo politico nazionale continua ancora oggi, malgrado la sua frazione del voto nazionale si vada riducendo di continuo. Dai tempi della "political machine" (e dei suoi avversari progressistiti), al New Deal, alle riforme liberali degli anni '60 e alla crisi fiscale degli anni '70, New York è stata alla guida degli assetti nazionali. A New York si trovano un terzo dei dollari della fondazione, tre reti giornalistiche nazionali, la gran parte dei più importanti editori di riviste e di libri, due giornali di importanza nazionale, il più importante mercato per l'arte, e molte istituzioni culturali di rilievo nazionale. E sorprendente, quindi, che New York abbia ricevuto così poche attenzioni da parte degli studiosi. Sono comparse molte monografie su particolari aspetti della storia della città, ma si tratta di lavori frammentari, che mancano di una visione teorica comune. Gli studiosi hanno rivolto di più la loro attenzione verso città comé Boston, Chicago o addirittura New Haven, piuttosto che su New York. E passato un quarto di secolo dal140

l'ultimo programma di ricerca completo sul sistema politico della città o sulla sua economia. Anche se gli scettici non accettano il fatto che New York possa fornire una base per uno sviluppo teorico delle scienze sociali, la necessità di una maggiore attenzione da parte degli studiosi non può essere negata. E. B. White ha scritto una volta che "a rigor di logica, New York avrebbe dovuto essere già stata distrutta da tempo dal panico, da un incendio o da una rivolta, o dall'interruzione di qualche linea vitale per il suo sitema circolatorio o da qualche profondo, nascosto corto circuito" I . Le analisi contenute in Power, Culture and Piace indicano le ragioni per le quali, sino ad oggi, questo è stato evitato. Gli studi di Diane Lindstrom (Università del Wisconsin), Manuel Tobier (Università di New York) e Norman, e Susan Fainstein (rispettivamente del Baruch College della Università di New York e della Rutgers University), dimostrano ampiamente come le trasformazioni mercantili, industriali e postindustriali abbiano creato le grandi questioni sociali. Lindstrom mette in evidenza come la crescita economica complessiva sia stata accompagnata dal crescere dei divari in termini di equità tra le classi, nel periodo precedente la guerra. Tobier mostra come la tremenda spinta economica dell'inizio del secolo abbia prodotto nuove tensioni nel mercato dei terreni nella zona centrale e nel mercato della casa dei sobborghi. I Fainstein, a loro volta, esaminano come gli interventi statali, finalizzati a cambiare gli assetti della città con la promozione delle attività aziendali ed il decentramento urbano, abbiano creato nuovi tipi di conflitti. Questi studi dimostrano ampiamente che lo sviluppo economico ha di continuo creato conflitti, ma che non ne è mai risultata una crisi fatale. Un certo tipo di ordine potrebbe emergere


se si imparasse a convivere con il disordine. Peter G. Buckley (The Cooper Union) e William R. Taylor (Università statale di New York, Stony Brook) storici della cultura, esaminano l'utilizzo degli spazi pubblici da parte delle diverse classi, la vita della strada, ed il modo in cui l'industria della cultura popolare ha selezionato determinati aspetti di quella "cultura della strada", proiettandoli a livello nazionale. I sociologi Wililam Kornblum (The Graduate Center, Università di New York) James Beshers (Queens College, Università di New York) hanno approfondito questo tema esaminando le ricostituite enclaves etniche bianche lungo la Jamaica Bay, ed i loro rapporti conflittuali con le emergenti comunità nere e ispaniche per l'accesso a spazi pubblici come la Gateway National Ricreation Area. Questi studi suggeriscono che la costruzione sociale degli spazi pubblici ha conseguenze importanti per gli assetti economico, sociale e politico. I singoli gruppi spendono molte energie per ritagliare e proteggere una nicchia all'interno di uno spazio comune. Nessuno può dominare completamente quel contesto spaziale comune, ma le regole del gioco favoriscono alcuni degli elementi in competizione soffocando al tempo stesso l'espressione di altri. L'ordine ed il disordine non sono situazioni opposte; al contrario, l'ordine si forma sulle particolari condizioni che hanno creato il disordine. Amy Bridges (Università della California, San Diego), Martin Shefter (Corneil University), e John H. Mollenkopf .sostengono che la struttura della partecipazione politica contribuisca ad arginare i conflitti. Secondo Bridges, gli interessi politici della classe lavoratrice urbana immigrata furono raccolti dalla grande invenzione politica americana (e di New York), il partito o il meccanismo politico professionale, perché il suffragio

maschile universale bianco è precedente alla formazione di quella classe. Shefter indica come la dialettica riformistica del diciannovesimo secolo sia stata trasportata nel relativamente stabile e non contestato pluralismo degli anni '50 e dei primi anni '60. Mollenkopf analizza come i traumi economici, fiscali e razziali della fine degli anni '60 e degli anni '70 abbiano influenzato la posizione dei diversi gruppi sulla scena politica e riflette su come questa sia rimasta stabile malgrado tutto.

MISURARE I TEMPI, I LUOGHI, I FLUSSI

In luogo di qualsiasi conclusione definitiva, troviamo tre approfonditi studi. Thomas Bender (Università di New York) ribadisce il contenuto di studi precedenti suggerendo agli storici di mettere lo studio degli spazi pubblici al centro delle loro analisi sulle città, restituendo cosf una dimensione politica alla "nuova storia sociale". John Mollenkopf analizza il paradosso dei partiti politici che sono decaduti sotto il profilo della rappresentatività proprio di fronte al crescere degli sforzi dello Stato per dare forma all'ambiente fisico. Infine, Ira Katznelson (New School for Social Research) riesamina criticamente la concezione della città dei maggiori teorici sociali e offre suggerimenti per i lavori futuri. Questi studi si limitano a confermare le tesi che forniscono il punto di partenza per il volume. La cultura, la politica e l'economia hanno davvero un'influenza uguale sullo svilup po di New York? Come interagiscono tra di loro? Forse le singole analisi contengono la convinzione che siano le particolarità degli spazi comuni a dare forma allo schema che unisce questiettori tra di loro? Quale impronta particolare è stata impressa dalla 141


città di New York sulle tendenze sociali com- tanti cambiamenti nazionali, allora, concenplessive? Che prove ci sono del fatto che trare l'attenzione sulle loro attività, dovrebNew York possa essere stata alla guida dello be mettere in evidenza relazioni inesplorate tralo sviluppo economico, politico e culturasviluppo complessivo? Forse la città ha gradualmente perduto la sua influenza a causa le. Questo sforzo si tradurrà nell'esplorazione della "politica estera" di New York, vedi forze esterne? Il Comitato per la città di New York affron- rificando se la sua leadership può essere manterà queste questioni negli anni a venire con tenuta malgrado i cambiamenti tecnologici programmi di ricerca su: 1) la ricostruzione e la dispersione del potere. dell'ambiente urbano, 2) New York ed il re- Il gruppo di lavoro sull'evoluzione delle casto del mondo, 3) le variazioni in termini di renze di equità, analizzerà le ramificazioni economiche, sociali e politiche dell'attuale equità. Questi argomenti sono stati scelti per"rivoluzione postindustriale". Il declino delchè evidenziano le prospettive economiche, l'attività manifatturiera, la crescita del setpolitiche e culturali e contribuiscono allo svitore dei servizi, e l'internalizzazione delle atluppo teorico delle scienze sociali. tività economiche della città sono state parIl gruppo di lavoro sull'ambiente urbano anaticolarmente rapide dagli anni '60 in poi: lizzerà la costruzione, l'utilizzo e la comprenL'avvicendamento razziale ed etnico, l'emersione della città in termini fisici. L'attenziogere di nuovi strati sociali ed il declino dei ne sarà concentrata sul periodo tra il 1880 vecchi, e la ristrutturazione economica haned il 1920, in cui la costruzione di molte cenno comportato grosse sfide per l'economia, tinaia di grattacieli ha trasformato l'aspetto della città che è divenuta un simbolo della il sistema amministrativo e la cultura civica della città. Le tendenze alla polarizzazione modernità. Il secondo gruppo di lavoro esaminerà le va- ed una nuova middie class sono entrambe evidenti. Le vecchie situazioni di inequità venriazioni nei rapporti tra New York e l'econòmia nel suo complesso, il sistema politico gono rimosse, anche se ne nascono di nuove. e le istituzioni culturali. Se le istituzioni di New York hanno davvero favorito impor- (Traduzione di Stefano Spila)

Nom

John H. Molknkopf è professore associato di scienze politiche al Graduate Center della City University di New York, e membro del Comitato per la Città di New York del Social Science Reaserch Council. Questo articolo è un adattamento, autorizzato dall'editore, dell'introduzione al volume, Power, Culture and Piace, Essays on New York City (AA.VV., - J. H. Mollenkopf Editor, 1988) sponsorizzato dal Comitato, i diritti d'autore del volume appartengono alla fondazione Russe1 Sage. Le attività del Comitato sono state rese 142

possibili dai finanziamenti delle fondazioni Russe! Sage e Spencer e dall'appoggio finanziario del Robert F. Wagner, Sr. Institute of Public Policy, dell'Università della città di New York. 2 n.d.t.: Tipo di assicurazione sulla vita basato sul rimborso di un'ipoteca. Robert A. Dahl, W/ho governs?, Yale University Press, New Haven 1961. ' Rufus P. Browmng, Dale Marshall and David Tabb: Protest is not enough, University of California Press, Berke!ey 1984. E. B: White, Here is New York, Marper & Row, New York 1949.


queste istituzioni

Ragionare di democrazia I grandi eventi del 1989 sono stati, certo, la grande vittoria della democrazia nella versione «liberai-democratica», rivelatasi l'unica possibile e sensata. I costi della vittoria, che è stata finora sostanzialmente incruenta, emergono progressivamente, come forse era inevitabile al di là di illusioni facili. E tempi cruenti e difficili per la democrazia rischiano di tornare. In ogni caso, la democrazia occidentale si ritrova davanti a sé stessa con tutto il peso che deriva dal fatto di essere punto di riferimento e, allo stesso tempo, dmocrazia impe*tta e in crisi. In qualche modo anche per la democrazia occidentale si può dire che «l'imperatore è nudo». Ragionare di democrazia non è, dunque, un compito occasionale ma un impegno di lunga iena. In questo quadro riteniamo importanti alcune iniziative di riflessione e proposta sullo stato e sulle prospettive della democrazia come quella, per esempio, annunciata dalla Kennedy School of Government e dalla Harvard University che ha per tema Revitalizing American Democracy. Un contributo intende dario anche il Gruppo di Studio Società e Istituzioni. Dopo il primo Colloquio tenutosi a Firenze (v. anche il Taccuino nelle pagine seguenti) sul tema «quarant'anni di democrazia dopo la seconda guerra mondiale», altri contributi verranno dalla prosecuzione dell'iniziativa. Mentre continueremo a tenere aperto questo dossier. 143



Democratizzazione e democratibilità di Francesco Sidoti

Il Gruppo di Studio Società e Istituzioni dal 1987 ha elaborato un progetto pluriennale sui temi della democrazia occidentale coinvolgendo nell'iniziativa la prestigiosa Library of Congress ed intessendo allo scopo una fitta rete di consultazione e di collaborazione con ricercatori provenienti da più parti del mondo. E in questo ambito che, nel novembre scorso, è stato organizzato un workshop a carattere internazionale, avvalendosi della sponsorizzazione della Cassa di Risparmio di Firenze, che ha oltretutto ospitato i lavori nella propria sede; si è tentato in questa occasione di fare un bilancio di quarant'anni di democrazia occidentale dal punto di vista non meramente celebrativo ed autogratificatono, bensì ricordando e sviscerando alcuni grandi problemi irrisolti nelle società democratiche, dalla corruzione al terrorismo, dal persistere di gravi disuguaglianze sociali ai larghi margini operativi lasciati all'influenza della criminalità organizzata. Diretto da Giovanni Sartori (della Columbia University), il workshop si è snodato intorno agli interventi di quattro relatori: Ghita lonescu (della London School of Economics and Political Science), Alessandro Pizzorno (dell'Istituto Universitario Europeo), Alain Touraine (della Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales) ed Alison Jamieson (del Research Institute for the Study of Conflict and Terrorism); hanno partecipato al dibattito studiosi provenienti da diversi centri di ricerca internazionali, da Parigi a Washington, da Varsavia a Vancouver. Per

ovvi motivi di spazio, non tutti gli intervenuti e non tutti gli interventi (a cominciare da quelli di Sergio Ristuccia e di Francesco Sidoti) vengono citati in queste pagine riassuntive, dove sono state rifuse, in parte in forma discorsiva e in parte in forma più accademica, molte delle osservazioni emerse nel corso di un'ampia e animata discussione.

I

FONDAMENTI DELLA LIBERALDEMOCRAZIA

La discussione delle varie relazioni ha messo in rilievo che la grande domanda di democrazia, sviluppatasi nel corso degli anni ottanta, può essere schematicamente riassunta come orientata a sottolineare soprattutto due temi: la libertà di scegliere i propri governanti e la possibilità di scegliere come modello i sistemi politici, economici, sociali esistenti nel Nord America e nell'Europa non comunista. La grande forza di attrazione, esercitata negli anni ottanta dall'idea di democrazia su popoli assai diversi, è motivata innanzitutto da una radicale contrapposizione nei confronti sia del modello totalitario sia del modello autoritario. Già negli anni trenta la democrazia si era impegnata in una contrapposizione armata contro il fascismo e il nazismo; ma la vittoria di allora era rimasta, per così dire, monca, perché marxismo e comunismo rimanevano in piedi come alternative ideali e organizzative. La nuova vittoria della democrazia nel corso degli anni ottanta ha invece 145


caratteristiche epocali, perché, in un certo senso, ormai le alternative hanno sgombrato il campo. Da questo punto di vista si è potuto parlare addirittura di "fine della storia", in maniera motivata anche se illusoria. La vittoria ideale degli anni ottanta è chiaramente una vittoria antitotalitaria, che mette in rilievo innanzitutto un principio essenziale nella teoria e nella pratica della democrazia: la libertà, che da un punto di vista politico si configura essenzialmente come libertà di scelta dei governanti. Da questo punto di vista G. lonescu e G. Sartori hanno fermamente sottolineato che la vittoria della democrazia deve essere intesa correttamente come vittoria delk liberaldemocrazia ovvero come una vittoria della democrazia costituzionale su tutte quelle altre forme di democrazia che frequentemente sono state proposte nella storia: dalla "democrazia diretta", al "dispotismo democratico", dalla democrazia "socialista" di Stalin alla democrazia "organica" di Francisco Franco I. Gli aspetti propriamente tecnici della liberaldemocrazia, dalle libere elezioni alla esistenza dei partiti, sono stati ripetutamente rivendicati negli anni ottanta, ma a volte come proiezione di una battaglia ideale ancora più intensa e radicale, che faceva appello ai principi primi della vita politica. Nel concetto di società aperta (che è stato divulgato in maniera estremamente brillante da Popper, ma che era proprio della tradizione culturale occidentale da secoli) sono incluse varie idee fondamentali, molte delle quali vanno al di là del diritto di voto e del diritto di associazione nei partiti; ad esempio l'idea di tolleranza, o il diritto di critica, o l'apprezzamento degli aspetti positivi della conflittualità, o la rivendicazione di una istruzione ben distinta dall'indottrinamento. Anche alcuni principi che siamo abituati ad associare immediatamente all'idea di democrazia, in 146

realtà sono storicamente e concettualmente distinti. Principi comunemente ritenuti democratici per eccellenza sono di fatto provenienti dalla matrice illuminista (ad esempio, i principi di tolleranza e di libertà di pensiero) o dalla matrice costituzionalista (ad esempio, la divisione dei poteri). Altri principi che oggi riteniamo indissolubilmente legati all'idea di democrazia sono invece indipendenti; ad esempio sono esistite forme di pluralismo senza democrazia, e sono esistite forme di rappresentanza senza democrazia (anche se è impossibile che possa esistere una moderna democrazia costituzionale senza pluralismo e senza rappresentanza): nella società feudale, caratterizzata dalla debolezza di un potere centrale quasi inesistente, c'era pluralismo e c'era rapresentanza, ma non democrazia. Un principio ideale è stato riproposto negli anni ottanta come principio primo e più di ogni altro definitorio dell'essenza della democrazia: una sorta di primato primordiale della persona, che costituisce un limite invalicabile nei confronti di ogni sorta di potere costituito. L'idea secondo la quale i governati possono scegliere i propri governanti è strettamente associata con l'idea di una uguaglianza fondamentale tra i governati, che su un piano di assoluta parità esprimono le proprie preferenze. Il principio «un uomo - un voto» è stato fondato sull'idea di eguaglianza e quindi ritenuto self-evident innanzitutto sulla base di motivazioni di ordine religioso che mettevano in rilievo la pari dignità creaturale degli essere umani. Spesso lo stesso principio è stato ribadito sulla base di motivazioni sorte da altre premesse (ad es. un fondamento storico-teoretico è stato rintracciato nel principio del diritto romano classico

Quod omnes tangit, ab omnibus approbetur ... ); ma è stato da più parti osservato che, senza un presupposto teologico, non può essere


fondata nè l'idea di uguaglianza, né l'idea secondo la quale sia possibile distinguere il bene dal male, e nemmeno di conseguenza l'idea che il bene sia preferibile al male. La ricorrente critica a Kant dei molti hegeliani o neo-hegeliani rimane paradigmatica della difficoltà a fondare il primato ontologico del rispetto per gli altri nei «limiti della sola ragione» 2 L'alternativa tra giusnaturalismo e giuspositivismo, tra diritto naturale e concezioni relativistiche è in un certo senso assai datata. Ma è irrisolta, visto che ancora viene riproposta nei momenti di più acuto scontro tra concezioni democratiche e antidemocratiche. Il tentativo di dimostrare l'esistenza di un fondamento "naturale" o "teologico" della democrazia è stato argomentato nelle splendide opere di Niebhur e Maritain 1 , sulla base di motivazioni che hanno suscitato una vasta serie di repliche e controrepliche. Senza una preliminare definizione teologica del bene e del male, la natura non ci parla in maniera univoca: in un passo decisivo per la riflessione sul diritto naturale, sul quale si sono confrontati eserciti di interpreti, Aristotele asserisce che per natura esistono schiavi 'e uomini liberi, e che «Allo stesso modo la relazione tra uomo e donna è per natura tale che uno è superiore e l'altro è inferiore, uno domina e l'altro è dominato» (Politica, p. 1254). Nella sua relazione e nel corso della discussione, Touraine ha sostenuto (senza incontrare esplicite obiezioni) che è problematico costruire una concezione della democrazia che non sia fondata in una maniera o nell'altra sull'idea del diritto naturale. Da questo punto di vista, ad Est come ad Ovest, sotto tutte le latitudini, c'è questo punto in comune tra coloro che hanno lottato per ottenere una democrazia ancora inesistente o per fare migliorare una democrazia già esistente.

Di fatto nell'età moderna il primato dei diritti dell'uomo, per quanto controverso, è chiaramente anteriore rispetto a quello dei diritti del cittadino. Già Jefferson aveva criticato la costituzione francese del 1789 per non avere formulato una carta dei diritti fondamentali. Ricollegandosi ad una nota differenza tra tradizione anglosassone e tradizione francese, Touraine ha sostenuto che nella concezione moderna della democrazia la tradizione di Locke e, più in generale, quella dei teorici dei diritti naturali (sviluppata dai teologi cristiani, da Cartesio, da filosofi come Grozio e Puffendorf), ha avuto il sopravvento su quell'altra tradizione, rappresentata dalla concezione rousseauiana del cittadino e culminata nella celebre dichiarazione dei diritti de l'homme et du citoyen, votata nell'Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789. L'accezione di democrazia, oggi trionfante, riposa su un consenso generale esistente non intorno alla definzione del bene o di idee o di interessi accettati da tutti, ma intorno al riconoscimento di un diritto umano fondamentale il cui rispetto impone limiti inviolabii ai poteri costituiti. In nome di questo diritto primario ci si può opporre all'ordinamento positivo; e in suo nome, come hanno fatto i costituenti americani e queffi francesi, si può rivendicare il diritto di ribellione contro un potere "ingiusto". Questo diritto naturale fondamentale viene ritenuto inerente, innanzitutto alla vita personale, alla libertà di pensare, di muoversi, di realizzarsi; e per estensione è allargato alla vita collettiva.

CITTADINANZA E DEMOCRATIZZAZIONE È stato ripetutamente sottolineato nel corso del dibattito che l'idea di cittadinanza è una componente molto importante dell'idea 147


moderna di democrazia. Questo intreccio di cittadinanza e democrazia si realizza nel mondo moderno, ma è sconosciuto nel mondo classico, dove infatti c'è stata cittadinanza senza spirito civico, e senza democrazia. Il civis romano, pur avendo molto in comune con il polìtes greco, ha infatti poco a che fare con le pratiche della democrazia diretta. La Roma classica non è mai apparsa ai suoi più illustri interpreti contemporanei, come Polibio o Cicerone, una città "democratica". Veniva descritta come una oligarchia moderata: la massa dei cives era gerarchizzata dal censo (dal quale dipendevano attività genericamente politiche come la partecipazione alle assemblee e il voto), mentre la politica in senso forte (il dibattito, le decisioni operative, l'esercizio del potere) si svolgeva lasciando alla partecipazione popolare un limitato ruolo di acclamazione plebiscitaria. I cittadini romani erano più portatori di un diritto all'uguaglianza giuridica (una specie di habeas corpus dell'antichità) che di un diritto di partecipazione alle decisioni politiche I . In un certo senso l'idea moderna di citizenship racchiude sia l'eredità della tradizione greca (democrazia come partecipazione), sia di quella romana (cittadinanza come garanzia giuridica). Grazie a questo processo di integrazione di tutte e due le tematiche classiche sulla cittadinanza e sulla democrazia, anche le moderne correnti individualiste di pensiero non sempre hanno contrapposto la "democrazia dei moderni", e la "democrazia degli antichi", (è stato sostenuto che la contrapposizine esisterebbe perchè mentre l'una è fondata sul culto della privacy, l'altra è fondata sulla partecipazione). Hayek sostiene 1 infatti che fra gli argomenti di capitale importanza per giustificare la democrazia, quello più rilevante consiste nella straordinaria possibilità, che la democrazia offre, di rendere 148

attiva e partecipe una gran parte della popolazione. Secondo Hayek questo è il ragionamento principale di Tocqueville: la democrazia è l'unico metodo efficace per educare la maggioranza. Da questo punto di vista, il livello complessivo di comprensione degli affari pubblici è un criterio assai rilevante, e la democrazia è soprattutto un metodo che coinvolge nel processo di partecipazione un grande numero di individui che altrimenti rimarrebbero estranei alle decisioni di rilevanza collettiva. Come metodo di scelta dei governanti, la democrazia non mette il potere nelle mani dei più saggi e dei meglio informati, tuttavia non ha eguali come metodo in grado di coinvolgere la popolazione. In maniera sintetica Kelsen 6 riassumeva questo tipo di ragionamento quando dice che l'idea politica centrale dell'autocrazia poteva essere riassunta con il motto attribuito a Luigi XIV: l'état c'est moi; invece, l'idea politica centrale della democrazia poteva essere sintetizzata da un motto contrapposto: l'état c'est nous. In democrazia l'individuo si identifica con la forma di governo, (perchè sa di essere azionista, di maggioranza o di minoranza, di quel governo che ha contribuito a costituire con il suo voto), e il suo stato d'animo è caratterizzato dalla consapevolezza di una corrispondenza tra identità personale e autodeterminazione della comunità politica. Nel tipo democratico di personalità è prevalente il senso di responsabilità nei confronti degli altri, che sono percepiti dai membri di una democrazia non come potenziali nemici, ma come persone che partecipano ad un comune destino. Esiste un flesso signifiticativo tra solidarietà e democrazia. Questa definizione della personalità democratica è almeno antica quanto la celeberrima definizione di Pericle, riportata da Tucidide, e poi ripresa da quasi tutto il pensiero


politico classico. Il paradigma del polìtes pericleo è travasato per intero nel paradigma del civis politicus, e poi ripreso dalla esaltazione fiorentina della virtus repubblicana, sulla quale si forma la tradizione politica anglosassone prima nell'Inghilterra rinascimentale e poi nell'America dei Founding Fathers . Queste osservazioni classiche in merito ad un contenuto specifico della democrazia sono state riprese da Alessandro Pizzorno in un'analisi che ha messo in rilievo la complessità storica e sociologica attraverso la quale si forma nelle democrazie rappresentative l'identità del cittadino. Da questo punto di vista, Pizzorno ha sottolineato che le prcedure democratico-rappresentative possono costituire una sorta di processo di socializzazione, attraverso il quale, le identità private di membri isolati di un aggregato sociale possono diventare identità pubbliche di cittadini che si preoccupano di quanto accade agli altri membri della collettività. Pizzorno ha svolto questo tema a cominciare da una rilettura delle pagine specifiche scritte in proposito, nel 1861, da J. Stuart Mii in Representative Government. Secondo Miii, l'aspetto più qualificante di un governo rappresentativo era «la capacità di promuovere la virtù e l'eccellenza della gente»; dunque, partecipando ai processi rappresentativi, i cittadini fondamentalmente partecipano alla formazione di se stessi, perché il metodo della partecipazione di per sè forma una personalità virtuosa precedentemente inesistente. Si comprende facilmente come da questo punto di vista anche il più illuminato e meglio amministrato dispotismo sia inconfrontabile con un governo rappresentativo. Mentre in quel caso i sudditi sono passivi, nell'altro caso invece i sudditi sono profondamente coinvolti nella vita collettiva. Essi, progressivamente, disimpegnano se stessi dal mero perseguimento dei propri inte-

ressi privati, e quanto più partecipano al processo democratico tanto più accumulano il sentimento di essere parte di una comunità. Citando specifiche trattazioni tecniche, relative al «processo di investimento psichico» e alla «teoria della dissonanza cognitiva», Pizzorno ha sottolineato che in una democrazia rappresentativa «questo genere di partecipazione consiste nell'impegnare, cioè nell'investire qualcosa di se stessi in una impresa collettiva». Attraverso la partecipazione ai molteplici aspetti del processo democratico, la personalità è gradualmente e progressivamente coinvolta nella vita collettiva e investe qualcosa di se stessa. Dentro i processi democratici ognuno diviene di più di quanto era prima come singolo. Attraversando varie tappe di un lungo processo di destrutturazione e di ristrutturazione della personalità, l'individuo acquisisce una nuova identità, un'identità che non è soltanto sua, ma che è comune anche agli altri membri della collettività.

IL MODELLO ENDOGENO DI SVILUPPO

L'esistenza di un sistema politicodemocratico non è una "sovrastruttura", rispetto ad una base socio-economica, ma non è neanche la panacea che da sola può d'incanto creare prosperità e civiltà; la stessa cosa vale per l'economia di mercato, che da sola, non può creare effetti miracolosi sulla struttura politica o sulla struttura sociale. Senza correre il rischio di rimanere intrappolati nei limiti evidenti di una interpretazione riduzionista o genetica della democrazia, è importante sottolineare che un altro prerequisito essenziale (insieme alla cittadinanza) per lo sviluppo di un sistema democratico è quello spirito civico che storicamente è stato alla base del modello endogeno di sviluppo 149


proprio di alcuni paesi occidentali. Molti partecipanti al dibattito hanno sottolineato l'importanza di questo aspetto. Tocqueville aveva indicato, tra i requisiti fondamentali per. la democrazia, come particolarmente rilevante, l'abitudine dei cittadini all'autogoverno, che si acquisisce attraverso l'esercizio delle libertà comunali e attraverso lo sviluppo di associazioni private. Per quanto riguarda le libertà comunali, Tocqueville scrive alcune delle sue pagine più solenni, sostenendo ad esempio che senza istituzioni comunali, una nazione avrebbe un governo libero, ma non lo spirito della libertà; per quanto riguarda le libere associazioni, egli scrive che perché gli uomini divengano civili e perché rimangano tali, è necessario che l'arte delle associazioni si sviluppi in maniera non inferiore alla crescita dell'uguaglianza. In un testo classico Lipset ha bene argomentato la tesi secondo la quale la persistenza di un governo democratico-rappresentativo è correlata con il livello di benessere economico; la prosperità è di per sè un formidabile solvente dei conflitti di classe radicali e delle ideologie estremiste I . Commentando questa tesi, e prendendo in considerazione le eccezioni, Sartori ha sostenuto che le condizioni della democrazia possono essere distinte in vario modo (necessarie, sufficienti, etc.) che per quanto riguarda il benessere economico, sarebbe corretto dire che è soltanto una condizione facilita nte la crescita della democrazia 9. Di fatto i paesi di più antica democrazia hanno alti livelli medi di reddito, di industrializzazione, di urbanizzazione, di istruzione, di associazionismo; ma tutti questi fattori possono essere interpretati come espressioni di un robusto sviluppo di quel particolare assetto sociale che fu chiamato "società civile". Nei Grundlinien der Philosophie des Rechts

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Hegel sostiene che «la scoperta della società civile appartiene al mondo moderno». Così dicendo, egli riassumeva una conclusione alla quale erano concordemente arrivati molti autori settecenteschi, i quali avevano caratterizzato con il termine civil society un tipo particolare di società, differente sia da quelle esistite nel passato sia da quelle esistenti nel resto del pianeta. Un tipo di società in cui le relazioni economiche si svolgevano in maniera libera dalla tutela dispotica dello Stato, la legge rispettava la proprietà e i contratti, la giustizia era imparziale. In contrapposizione allo stato di natura, fu usato un termine che derivava chiaramente sia da civilitas sia da civitas. L'autonomia della società civile e l'affermazione di un'economia di mercato si sono realizzate attraverso l'interazione di fattori complessi, lungo un periodo di numerosi secoli . Secondo l'opinione più diffusa tra gli storici, il primo apparire di forme di "società aperta" si deve fare risalire al basso medioevo, quando alcune parti dell'Europa riuscirono lentamente a liberarsi dalla soffocante tutela del potere politico e del potere religioso. Alcune città tedesche, olandesi, italiane, furono caratterizzate dall'autonomia nei confronti del potere centrale, e da un elevato livello di autogoverno. In Europa, in generale, passò un più lungo periodo prima che si costituisse una sfera autonoma di privati operanti in una prospettiva di mercato, quindi una sfera dell'interazione umana che venne definita civil society", attraverso un aggettivo che è usato come sinonimo di polished e al quale corrisponde la dizione civilized in A. Smith. La separazione della società civile dallo Stato si compì in Europa attraverso vie diverse, comunque sempre nel corso di un complesso processo storico durato alcuni secoli. Il modello economico realizzato nelle


società europee non comuniste e in quelle nordamericane si basa sull'esistenza di una pluralità di centri economici autonomi e competitivi, su una grande espansione di concorrenza e di scambi, sul calcolo dei prezzi esteso a una grande molteplicità di aspetti della vita, sulla misurazione delle scarsità attraverso il confronto tra domanda e offerta, sulla logica di mercato allargata a comprendere comunità culturalmente e istituzionalmente assai differenziate. L'insieme di queste caratteristiche non costituisce un sistema formale che, come una ricetta, potrebbe essere applicato a un. qualsivoglia contesto storico. Perché una condizione essenziale al sorgere di un sistema economico di mercato, che sia anche democratico, è l'esistenza di un forte sentimento della cittadinanza al suo interno. La democrazia è fondata sulla moltiplicazione di attori sociali che pensano di essere cittadini della comunità alla quale appartengono. Questa idea era essenziale nei momenti in cui la democrazia si è affermata ed è essenziale ancora oggi in quei paesi, in cui la democrazia deve impiantarsi o vuole rinascere. Il crollo dei sistemi autoritari, nell'Est e in America Latina, non genera di per sé la nascita della democrazia. Touraine ha citato la concezione rousseauiana della volonté générale come espressione di questa idea di un corpo sociale che si erge davanti ai poteri tradizionali e reclama tutta la sovranità per se stesso, pretendendo che le proprie decisioni non conoscano altri limiti che quelli autonomamente scelti dalla comunità dei cittadini: per Rousseau, anche i supremi poteri non sono che esecutori, rispetto alle decisioni di coloro che sono legati dal contratto sociale. La modernizzazione è caratterizzata dalla molteplicità di itinerari storicamente percorsi; il modello endogeno è una via, il volontarismo è un'altra. Esistono numerosi tentativi riusciti di industrializza-

zione forzata e di sviluppo economico diretto dall'alto; questa scelta "esogena" o "volontaristica" (che si contrappone al modello endogeno o evolutivo sperimentato prevalentemente nei paesi angiossassoni) è stata tentata innanzitutto nell'Ottocento in Germania, ma è stata adottata in seguito da numerose altre nazioni non europee 12 Il tema del XX secolo è stato lo sviluppo industriale. In un grande numero di paesi, lo Stato nel corso di questo secolo è stato usato per trasformare la società, per "moderizzarla", cioè per farle raggiungere quel livello di sviluppo al quale erano giunti altri paesi, che venivano considerati come modello. Industrializzazione e modernizzazione sarebbero, da questo punto di vista, come tappe di un processo di sviluppo sulle quali una società riluttante viene costretta ad incamminarsi. Il punto è che quei paesi che ancora oggi consideriamo come prototipi della democrazia sono stati essenzialmente fondati su un modello "endogeno", all'interno del quale le forze sociali sono state trainanti e gli agenti esterni hanno svolto un ruolo minimo. Touraine ha sostenuto che l'immagine secondo la quale sviluppo e democrazia sarebbero strettamente collegati è un falso storico. Perché l'affermarsi della democrazia è stato caratterizzato da una logica evolutiva "endogena", mentre la scelta dello sviluppo è stata compiuta seguendo una logica volontaristica "esogena", nella quale potevano avere un grande ruolo i capitali stranieri, o una guerra, o una conquista territoriale, o l'azione di élites politiche, o i temi dell'indipendenza e dell'unità nazionale (secondo gli esempi storici forniti dalla Germania, dall'Italia, dal Giappone). In un certo senso, il tema dello sviluppo e il tema della democrazia potrebbero essere contrapposti. Tanto è vero 151


che, in analisi classiche come quella di Max Weber, il modello occidentale ha al suo centro non l'idea della democrazia, ma l'idea della razionalità. Di fatto, la Gran Bretagna, paese leader del capitalismo e dell'industrialismo occidentali, ha trascorso buona parte dell'Ottocento senza concedere un diritto di voto generalizzato, mentre la Francia e gli Stati Uniti avevano invece accordato sin dall'inizio del secolo questo diritto, quando ancora non erano paesi industrialmente avanzati. E stato storicamente possibile svilupparsi capitalisticamente senza concessioni alla democrazia; lezione che è stata recepita pienamente da molte nazioni europee e non europee. L'idea di democrazia, dunque, secondo Tourame, è in un certo senso caratterizzata da questa differenza, sostanziale, nei confronti sia di quella ideologia dello sviluppo che può essere portata all'estremo da varie forme di autoritarismo e di totalitarismo, sia di quella ideologia dello sviluppo che può essere portata all'estremo da varie forme di economicismo iperliberista. Sia l'uno sia l'altro estremismo tendono a stabilire il predominio di agenti esterni alle società che mirano, in nome dello sviluppo, alla destrutturazione dei rapporti prevalenti in determinato contesto tradizionale. Da questo punto di vista, la ricerca a tutti i costi dello sviluppo economico e industriale può trovarsi in contraddizione con quella idea di democrazia fondata su una crescita endogena, sullo spirito di cittadinanza, sull'autogoverno e sulle libere associazioni.

"ANoItIALITÀ" E "DEMOCRATIBILITÀ" NEI PAESI DELL'EST Nella sua relazione, G. lonescu, che trentatrè anni fa aveva previsto che i sistemi 152

comunisti europei erano destinati a diventare sempre meno comunisti e sempre più europei 13, ha sollevato i due problemi che sono stati al centro dell'incontro. Innanzitutto egli ha coniato la parola democratibilità, proprio per sollecitare un dibattito su quelli che sono i presupposti economici, politici, culturali perché la democrazia si possa sviluppare. Inoltre, egli ha osservato: nei paesi dell'Est, il comunismo costituiva una macroscopica anomalia; era "anormale" perché basato su una antistorica concezione arci-monolitica, arci-centralistica, arci-autarchica. I paesi che, escono dal comunismo, entrano dunque immediatamente nella "normalità"? P. Bogason (Università di Copenaghen) ricollegandosi alla relazione di lonescu si è chiesto che cosa significa il «ritorno alla normalità» dei paesi ex-comunisti, visto che, nel periodo storico precedente l'avvento del comunismo, essi non avevano sperimentato molto di simile ai sistemi politici ed economici che caratterizzano le democrazie moderne. A suo parere in quei paesi c'è stato soltanto, e in anni lontani, un inizio di democrazia, che poi è stato sradicato dall'impiantarsi dei sistemi stalinisti. Questo spiegherebbe perché in tutta l'area ex-comunista ci siano nostalgie nei confronti di varie forme di autoritarismo, e induce a chiedersi in che modo quei paesi continueranno a sviluppare quel processo democratico così faticosamente iniziato. Osservazioni di questo tipo sono state vivacemente contestate innanzitutto da Kaminski (Università di Varsavia). Egli ha osservato che nei paesi ex-comunisti esistono tradizioni democratiche, liberali, costituzionaliste di notevole rilievo. Basti pensare alla Polonia, per la quale nientemeno Rousseau elabora un progetto di costituzione, o alla Cecoslovacchia, dove, prima della presa del


potere dei comunisti, si era sviluppata una significativa cultura democratica. Più in generale, la storia dell'Impero austroungarico è una parte importante dell'affermazione in Europa della cultura dello Stato di diritto, che è riconosciuto come modello di crescita civile, nella parte orientale come in quella occidentale del continente. Ad esempio, la Romania era un paese in cui esisteva una forma di monarchia costituzionale pienamente paragonabile (anche se e afflitta da caratteristiche negative, come un elevato livello di corruzione) ad altre forme di governo esistenti in Europa. Anche per quanto riguarda il rischio di una rinascita del nazionalismo, Kaminski ha osservato che l'esistenza dei fermenti nazionalistici nei paesi dell'Est tra le due guerre mondiali è stato un fenomeno comune a tutta l'Europa. Rappresentazione e partecipazione sono condizioni essenziali perché un sistema possa essere definito democratico. Ma se si ritiene che per la nascita di una democrazia sono indispensabili lo spirito di cittadinanza e uno sviluppo endogeno, allora si può sostenere che questa condizione non è stata ancora del tutto realizzata nell'Est europeo (né in America Latina, né tanto meno nei paesi mediorientali, o in altre aree geografiche caratterizzate dalla prevalenza di legami etnici e tnbali). Nel corso del dibattito è stato sostenuto proprio che, in un certo senso, la possibilità di una rapida crescita endogena della società civile è stata distrutta da mezzo secolo di comunismo. In proposito, è stata molto citata la frase del presidente cecoslovacco Havel, secondo il quale, nei paesi excomunisti, dove le popolazioni hanno «vissuto nella menzogna» per tanti decenni, non basta cambiare il sistema istituzionale per imparare a «vivere nella verità». Ed è stata anche molto citata una battuta molto in voga tra i sovietologi, che insinua una trattazione

abbastanza scettica del problema della transizione: «Sappiamo che è possibile trasformare una vasca di pesci in una zuppa di pesci; ma è possibile riconvertire una zuppa di pesci in una vasca di pesci?» 14 E stato sottolineato che, in alcuni paesi excomunisti, si è assistito al risorgere dell'antisemitismo e a preoccupanti fenomeni neonazisti; mentre in altri si sono riscontrati bassissimi livelli di partecipazione elettorale, oppure clamorosi successi di candidati che cavalcavano i primi sentimenti popolari di insofferenza nei confronti del sistema democratico. E stato osservato che nei paesi dell'Est (come in America Latina), i sistemi autoritari sono "caduti" e non sono stati "rovesciati" da movimenti popolari e spontanei di rivolta interna. Dal punto di vista che sottolinea l'importanza dell'arretratezza o del ritardo della società civile, bisognerebbe che trascorrano molti anni prima che ci siano i presupposti perché si sviluppi un sistema economico e civile paragonabile a quello esistente nei maggiori paesi dell'Europa occidentale. J. Zielonka (Università di Leiden) ha ricordato, in proposito, che le democrazie dell'Europa e del Nord America hanno costruito le proprie procedure e istituzioni attraverso un processo spesso farraginoso di prove ed errori, di fallimenti e improvvisazioni: forse non è il caso di andare a cercare ricette prefissate per le rivoluzioni democratiche del 1989. Il fattore economico o il fattore politico sono stati spesso considerati, nelle nuove democrazie, come espedienti taumaturgici per la transizione a livelli superiori di sviluppo civile. Di volta in volta è prevalsa una concezione della trasformazione secondo la quale l'introduzione dei meccanismi di mercato avrebbe creato le condizioni necessarie e sufficienti per l'avvento del benessere, o un'opposta concezione secondo la quale il raggiungimento di un elevato livello di

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sviluppo economico, sarebbe stato raggiunto principalmente attraverso l'introduzione dei meccanismi democratico-rappresentativi. Nel corso del dibattito è stato vivacemente sostenuto che né la sola applicazione dei meccanismi rappresentativi, né la sola introduzione della logica di mercato sono sufficienti per determinare la trasformazione economica e civile di un sistema sociale. Nei paesi dell'Europa orientale non sarebbe stato il comunismo, da solo, a tenere imprigionate tutte le potenzialità esistenti nel sistema sociale, impedendo il sorgere di un'economia prospera e di una civiltà rispettosa dei diritti umani. Tanto è vero che nei paesi dell'America Latina, malgrado l'assenza di regimi comunisti rigidamente pianificatori, i vari sistemi nazionali non sono riusciti a f are sviluppare economia e società in maniera soddisfacente. Anche molti paesi dell'Africa e dell'Asia, pur adottando logiche di mercato o istituzioni rappresentative, non sono riusciti ad uscire fuori da una situazione di dipendenza e di ristagno economico. L'adozione di istituzioni democratico-rappresentative o di un sistema economico basato sui principi del mercato non sono i soli fattori di spiegazione dei processi di sviluppo. La centralità dei temi della cittadinanza e dello sviluppo endogeno è stata ribadita più volte nel corso del dibattito. Sul tema della transizione, Sartori ha sottolineato che il problema principale non è l'uscita dalla dittatura, ma entrare in una società di mercato. A suo parere, nei paesi cxcomunisti si sta realizzando una «grande trasformazione» dello stesso tipo di quella magistralmente descritta da Karl Polany, secondo il quale la prima rivoluzione industriale fu il traumatico crollo di una «società organica» 15 Sartori e Luciano Cavalli (Università di Firenze) hanno sottolineato questo aspetto: anni di stalinismo e di totalitarismo 154

hanno portato alla nascita non dell'uomo nuovo sognato da Marx, ma alla nascita dell'homo sovieticus: un essere umano estraneo alla logica della società aperta, e spaventato dai rischi e dalle incertezze della competitività. Dopo decenni di permanenza dentro una gabbia che era totalitaria in un senso specifico, perché coinvolgeva tutti gli aspetti della vita organizzativa e psichica delle persone, anche le società comuniste sono diventate "società organiche" di tipo particolare. In un suo intervento, teso a smorzare le previsioni più pessimistiche sulla evoluzione democratica dei paesi ex-comunisti, Pizzorno ha ripreso altre tematiche trattate da Polany (che aveva sottolineato come, per gli economisti classici, soltanto la minaccia della fame e non anche l'allettamento degli alti salari era ritenuta in grado di creare un mercato del lavoro funzionante), e la celebre tipologia montesqueiana delle forme di goveno (che venivano distinte a seconda della prevalente motivazione all'obbedienza: onore, virtù, paura). Pizzorno ha osservato che storicamente sono state tentate soprattutto tre vie per indurre la gente a lavorare: la paura di Dio, la pura della polizia, la paura della disoccupazione. La paura di Dio, attraverso il calvinismo, fu alle origini dello spirito capitalistico; la paura della polizia è un tipo di motivazione che anche il comunismo ha mostrato come sia, prima o poi, destinata al fallimento; la paura della disoccupazione è infine il tipo di motivazione associata con l'idea moderna di mercato e di democrazia. L'introduzione, improvvisa e su larga scala, di questo tipo di motivazione al lavoro era ovvio che avesse effetti dirompenti sui paesi dell'Est. Secondo Pizzorno, dal punto di vista di un ragionamento idealtipico su ordine e disordine sociale, è fondamentale la distinzione tra classe laborieuse e classe dan gereuse; con


quest'ultimo termine, alle origini della rivoluzione industriale, si è inteso indicare una porzione della società che è molto simile a quel che Marx ha chiamato Lumpenproktariat. Nell'Unione Sovietica queste due porzioni separate e distinte della popolazione rischiano di sovrapporsi e di confondersi; di fronte a questo tipo di rischio, fenomeni come i movimenti nazionalistici debbono essere considerati non soltanto dal punto di vista di quelle conseguenze centrifughe, che sono immediatamente percepite da tutti gli osservatori; ma debbono anche essere considerati dal punto di vista della mobilitazione e del senso di identità che generano all'interno delle popòlazioni interessate. In questo senso, essi pongono un freno assai importante contro la possibilità che il disordine sociale degradi a quel livello, minacciosamente disarticolato ed individualistico, che risulta il più difficile da controllare e che è una delle condizioni meno favorevoli per lo sviluppo economico e civile. Il problema del controllo delle classi popolari è speculare rispetto al problema delle capacità di controllo delle élites. Secondo molti partecipanti al dibattito, il problema fondamentale nella transizione alla democrazia sarebbe questo: nei paesi dell'Est vanno al potere gruppi che, precedentemente, si erano specializzati soprattutto nella critica del sistema comunista. Ora questi gruppi si ritrovano sulle spalle responsabilità di governo per le quali non erano preparati, e che sono comunque cosa ben diversa dalla, pur importantissima, funzione critica precedentemente ricoperta. In generale è assai rilevante il problema relativo alla foriiiazione politica della nuova classe dirigente nei paesi dell'Est: mentre alcuni leaders sono passati troppo velocemente dall'opposizione al governo, altri leaders sono tanto velocemente passati dall'ortodossia comunista all'oltranzismo

liberista da fare seriamente dubitare sulla loro futura coerenza. Chiudendo una discussione assai vivace, lonescu ha osservato che i paesi dell'Europa dell'Est, da un lato, rischiano ancora di essere rinchiusi dentro il cerchio di accordi (tra militari, servizi segreti, partiti comunisti) che defacto continuano ad essere operanti, dall'altro, rischiano di subire la riluttanza di molti paesi occidentali ad offrire incondizionatamente i prestiti massicci che sarebbero necessari. «Ufficialmente separati dall'Urss, e ufficialmente ancora tenuti a distanza dall'Occidente, i paesi dell'Europa dell'Est sono una sorta di terra di nessuno».

UNA SVOLTA CRITICA DELLA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE

G. Sartori ha osservato che il crollo del comunismo non deve trarre in inganno su un punto: la fine di un'ideologia non è la fine di tutte le ideologie. Anzi, poiché le ideologie sono una componente ineliminabile della storia umana, è probabile che esse continueranno a manifestarsi sotto mutate spoglie. In particolare, dice Sartori, a causa di un miscuglio vincente di populismo e di demagogia, le cosiddette "democrazie avanzate" stanno diventando sempre di più immerse in una vegetazione tropicale di protesta. «Giungle in cui ogni "voce" (cioè ogni gruppo con i decibels di voce sufficienti) è intenzionata a rivendicare privilegi, cioè vantaggi per se stessa e svantaggi per gli altri». I sistemi politici occidentali rischiano di trasformarsi da democrazie tranquille in: 1) demonstration democracy, dunque in 2) protest democracy, e,

infine, in 3) contestation democracy. Dopo che, con il crollo del comunismo, sembravano sconfitte le versioni deteriori della politica e dell'economia, le democrazie rischia155


no di essere schiacciate da un sovraccumulo sia sul lato delle domande sia sul lato delle promesse. Il fatale congiungersi di queste due spinte demagogiche renderebbe più difficile che mai l'avvento di quelle versioni migliori della politica e dell'economia, che si sperava sarebbero diventate preminenti dopo il crollo del comunismo. Incompetenza, irresponsabilità, miopia, populismo, potrebbero esprimere la loro prevalenza attraverso fenomeni come il ricorso sistematico a politiche di deJìcit spending e alla stampa di moneta. La democrazia diverrebbe allora il regno dei freeriding politicians, realizzando i timori espressi da un'ampia letteratura che da tempo ha messo in rilievo questo tipo di problemi 16. G. lonescu ha ripreso e rilanciato le osservazioni di G. Sartori, denunciando l'esistenza di un trend nelle video-democrazie verso una forma estrema di populismo, caratterizzato da tendenze egualitarie, anti-élitiste e fio-stataliste. Varie ideologie politiche, in futuro, continueranno nel tentativo di usare lo Stato come strumento di trasformazione sociale, malgrado «la quasi simultanea capitolazione dei due più importanti modeffi (quello comunista in Urss e quello socialdemocratico in Svezia), che hanno drammaticamente indicato che lo Stato può essere usato solo fino a un certo punto come strumento di ingegneria sociale». Le vivaci osservazioni di G. Sartori e di G. lonescu sono state riprese e commentate da molti partecipanti al dibattito e in special modo, da alcuni studiosi che sono stati anche alti funzionari pubblici o commis d'Etat (in particolare A. Manzella), che hanno sottolineato le ragioni per le quali c'è ancora molto bisogno di un intervento pubblico autorevole ed efficiente. Questi temi sono stati ripresi da A. Pizzorno, il quale ha cominciato osservando che sarebbe un guaio se il recente

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successo storico dell'idea di democrazia mettesse in sordina il dibattito che era in corso sulla crisi che le liberaldemocrazie stanno attraversando. Nella sua relazione Pizzorno si è però chiesto: «Ma i principi e i meccanismi delle liberaldemocrazie stanno davvero attraversando una crisi radicale, o stanno piuttosto soltanto per entrare in una nuova fase nello sviluppo delle forme di rappresentanza?» Egli ha sottolineato che sembrano abbondanti i segni che da alcuni (ma non da altri) sono considerati patologici, e li ha enumerati: «I partiti politici stanno perdendo la loro identità ideologica, se non la loro identità pura e semplice. La lealtà di partito si è dissolta; l'instabilità dell'elettorato è crescente. I partiti hanno una sempre minore capacità di realizzare il proprio programma (quando ce l'hanno). I candidati sono scelti sulla base della immagine che proiettano sui media, e non sulla base dei giudizi che si fanno su di loro gli elettori o i membri di partito sulla base della loro esperienza. Per contrasto, fioriscono le forme non-istituzionali di organizzazione dei cittadini, dai movimenti ai gruppi di pressione. Nuove forme di comunicazione in un senso solo tendono a rimpiazzare le discussioni parlamentari e altre forme di formazione dell'opinione basate sull'interazione. I mezzi di comunicazione di massa e i sondaggi di opinione rimpiazzano i canali tradizionali di comunicazione. Inoltre, paradossalmente, poichè i mezzi di comunicazione di massa si fondano sulla pubblicità, essi rendono l'aperta deliberazione vulnerabile e inefficiente. Le negoziazioni e le decisioni effettivamente significative vengono così spostate sempre di più al di là della facciata, concordemente con la regola secondo la quale troppa esposizione inevitabilmente conduce alla segretezza». Una volta presentato questo sconfortante


elenco (che in larga misura coincideva con i rilievi mossi da Sartori e lonescu), Pizzorno ha introdotto un'argomentazione non pessimistica 17, rivolta a sottolineare che quanto alcuni vedono come segni di crisi sono semplicemente del passaggio a una fase storica nuova del processo di rappresentanza. Riprendendo una periodizzazione già proposta da Bernard Manin, e arricchendola di varie altre annotazioni, Pizzorno ha osservato che dopo essere passati attraverso due fasi nella storia della democrazia, la Parlamentary Democracy e la Party Democracy, noi ora siamo

giunti alla fase della Democracy of the Public, caratterizzata da aspetti specifici come la scelta dei candidati sulla base dell'immagine, il predominio dei mezzi di comunicazione di massa e le decisioni politiche prese sulla base di un negoziato diretto con i rappresentanti degli interessi privati. E chiaro, ha detto Pizzorno, che questa situazione induce legittimamente molti studiosi a sottolineare la drammaticità del cambiamento; ma le loro osservazioni potrebbero essere considerate equivalenti a quelle svolte dalla fine del diciannovesimo secolo fino a tutti gli anni venti (quando la Parlamentary Democracy fu gradualmente sostituita dalla Party Democracy, e molti credettero di assistere alla fine del sistema rappresentativo, mentre assistevano soltanto ad una sua trasformazione (per quanto sostanziale, sia dal punto di vista dei principi, sia da un punto di vista pratico). Nel corso del dibattito è stato osservato che la Democracy of the Public è una innovazione soprattutto per gli straordinari mezzi tecnologici a disposizione di tendenze preesistenti e connaturate con l'idea stessa di democrazia rappresentativa, che nasce insieme con le grandi rappresentazioni teatrali della Grecia classica, e rinasce insieme con le

grandi rappresentazioni teatrali elisabettiane. La critica antidemocratica ha sempre fatto riferimento importante a questi aspetti "rappresentativi" o "scenografici", insinuando che, l'etimo comune tra rappresentazione scenica e rappresentazione politica, affondi in un misto comune di delega, spettacolo, finzione e copione. La concezione, riproposta ancora di recente da Habermas, della democrazia come sistema fondato sulla comunicazione, sul dialogo, su1 riconoscimento dell'altro e della sua autenticità, è stata messa in burla già da tempo in trattazioni celebri come quella di Donoso Cortès a proposito della democrazia discutidora 18 Pizzorno ha raccolto queste riserve, osservando che è chiaramente un aspetto di grande importanza sapere se un governo rappresentativo è in. una situazione di dipendenza o di indipendenza nei confronti degli interessi rappresentati. L'autonomia dei rappresentanti dai rappresentati e del governo dai rappresentanti è un problema classico della teoria del governo democratico. Nei sistemi politici pre-assolutisti, il processo di rappresentazione costituiva il momento di riunificazione di interessi sociali altrimenti dispersi e divergenti. Pizzorno ha ricordato che «in alcuni casi (ad esempio, nelle Cortes castigliane) la consapevolezza di questa funzione di riunificazione era tale, che lo Stato era considerato esistente soltanto quando il Parlamento cominciava i suoi lavori. Ogni sessione delle Cortes era infatti chiamata un otro remo: si considerava che si costituisse un altro reame ogni volta che i rappresentanti si riunivano. Alla fine dei lavori parlamentari, l'autorità statuale era nuovamente dissolta nelle sue componenti». Nelle società pre-assolutiste i meccanismi rappresentativi funzionavano, dunque, pienamente come momenti di aggregazione degli inte-

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ressi a lungo termine della comunità. Ma non modificavano l'identità dei gruppi rappresentati. Quando si riunivano, i rappresentanti di ordini ecclesiastici, comunità, città, corporazioni, universitates, stande, erano poco più di ambasciatori che entravano nel meccanismo decisionale, mantenendo intatta la loro identità pre-politica. Questo tipo di rappresentanza era la cosiddetta «rappresentanza su mandato»: proprio il tipo di rappresentanza che viene espressamente rifiutata da Burke nella lettera agli elettori di Bristol, dove viene rigettata appunto l'idea secondo la quale il parlamento dovrebbe essere un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi; al contrario di questa concezione tradizionale, dice Burke, il parlamento è l'assemblea di un corpo unitario, caratterizzato da un interesse unitario: la ricerca del bene comune. In molte costituzioni moderne, l'esplicito divieto del mandato imperativo è il segno principale della differenza esistente tra la rappresentatività degli antichi e la rappresentatività dei moderni. La prova migliore dell'eccellenza di un governo democratico è stata sovente indicata nella sua capacità di interpretare gli interessi a lungo termine della collettività e nella sua indipendenza dagli interessi privati. Pizzorno ha ripreso questa tematica osservando che il grado di indipendenza dagli interessi rappresentati può essere connesso con l'esistenza di due tipi di razionalità (differenziati sulla base del principio che la razionalità individuale è egoistica e non informata sulle conseguenze della soddisfazione immediata di alcune domande). Un tipo di razionalità è orientato in vista degli interessi a lungo termine della collettività; l'altro tipo di razionalità è orientato in vista del soddisfacimento di interessi privati, e rimane nascosto rispetto al processo di rappresentanza, che è pubblico per eccellenza. Di fatto ogni sistema 158

democratico si è attrezzato con strumenti istituzionali rivolti a formulare e a realizzare gli interessi a lungo termine della collettività. Spesso questa funzione è ricoperta da istitu.zioni non rappresentative (la monarchia, la burocrazia, il corpo giudiziario, la Corte costituzionale, l'esercito), legittimamente inserite in punti importanti del processo decisionale e costituite, sin dalle origini, per essere sottratte alla pressione di quegli interessi particolaristici che tendono ad una soddisfazione nel breve periodo. Il tema degli interessi particolaristici è strettamente connesso, oltre che con il tema dell'interesse generale, con il tema del conflitto. A volte sembra che democrazia e stabilità siano inconciliabili, ha osservato R. Severino (Georgetown University). In proposito, Touraine ha sostenuto che le divergenze di interessi sono conflittuali, ma possono essere tali da costituire l'obbligata linfa vitale per la maturazione delle forze che vogliono la democratizzazione e la modernizzazione 19 . Le società democratiche più solide sono state quelle dove si sono sviluppati conflitti di classe intensi, continui, istituzionalizzati (così è avvenuto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nei paesi dell'Europa del Nord), mentre dove (come in Francia e in Germania) i conflitti sono stati esorcizzati e repressi, le tensioni sociali sono esplose con straordinaria intensità e drammaticità, e lo Stato democratico ha rivelato maggiore debolezza e fragilità. E in un certo senso necessario che un certo tipo di conflitti diventino centrali all'interno delle società. Se non acquistano questo posto, non sono in grado di influenzare profondamente la direzione e l'intensità della trasformazione. Nella storia della democrazia industriale, le lotte operaie non sono state espressione di una protesta selvaggia, ma di una capacità delle domande sociali di concentrarsi e di porre una sfida che è


stata raccolta e che a posteriori noi riteniamo abbia contribuito a creare consenso sociale e crescita economica. A partire dalle sue argomentazioni, relative alla centralità dei diritti dell'uomo nelle democrazie contemporanee, Touraine ha sottolineato che la rivendicazione di questo primato trova espressione in varie forme di conffittualità. La frammentazione e l'eterogeneità della domanda sociale è un fenomeno importante, che ha suscitato molto disagio negli osservatori, ma sono ancora più importanti i fenomeni di ricomposizione della domanda, che oggi trovano un punto fondamentale di aggregazione appunto nell'invito alla difesa dei diritti umani. In particolare, una grande attenzione collettiva è riservata ai temi della persona umana nella sua corporeità. Dalla fecondazione in vitro alla gestione degli ospedali, sono questi i temi che generano le passioni maggiori, come è illustrato ad esempio dai dibattiti relativi alla bioetica, al principio «my body is my property», alla commercializzazione di reni, cornee, sangue, embrioni e gameti. Anche i movimenti femminili, ripropongono con forza la centralità del soggetto contro gli apparati, rivendicando un «diritto umano fondamentale». La maturazione di una più avvertita sensibilità sociale sul grande problema della manipolazione della natura è il grande compito di movimenti che mettono in questione tematiche precedentemente inesplorate. La domanda sociale è in anticipo sull'offerta politica, ma svolge pertanto un grande ruolo di provocazione e di sollecitazione nei confronti di strutture istituzionali che altrimenti rimarrebbero sorde e inerti.

L'ANTIDEMOCRAZIA: IL TERRORISMO

Uno dei principi ispiratori della democrazia

è la ricerca di soluzione pacifica dei conflitti. A differenza dell'autoritarismo (che vuole sopprimere il conflitto) e del marxismo (che vede in molti conflitti un'insanabile contraddizione), la democrazia permette e,' in un certo senso, favorisce la nascita dei conflitti, perché per la sua natura di società aperta vede il confronto e la diversità come mezzi di crescita civile. Poichè si parte dal principio che c'è reale consenso, soltanto là dove si è liberi di esprimere il proprio dissenso, varie forme di contestazione vengono preventivate e tollerate: sarebbe contraddittoria una società democratica senza discussioni e senza conflitti. In un sistema democratico, l'innovazione è ritenuta fonte positiva di trasformazione, e i conflitti sono ritenuti sovente conseguenza inevitabile dei processi di trasformazione. Proprio dal punto di vista che mette in primo piano l'esistenza di intensi conflitti nelle società moderne, la democrazia viene spesso definita come il metodo migliore per la regolamentazione pacifica del conflitto, che è istituzionalizzato e disciplinato mediante il ricorso alle votazioni. Nei sistemi democratici, esiste una competizione tra gruppi molto accesa e un dibattito tra idee molto intenso, perché alla base di tutta l'architettura sociale e politica c'è un patto di non aggressione, che esclude il ricorso alle armi. Attraverso il meccanismo confronto-discussione-voto, e attraverso la costituzionalizzazione dei poteri, le minoranze sanno che non sono condannate per l'eternità ad un ruolo subalternò, e che comunque non possono essere prevaricate dalla maggioranza sulla base di un semplice fattore numerico. Se la democrazia liberale e costituzionale può essere giudicata come il prodotto di un processo evolutivo, perfezionato per approssimazioni successive, allora un momento embiematico di questa evoluzione è il Defensor pacis di Marsiio

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da Padova, che, all'inizio del rinascimento occidentale, definisce come fine essenziale del buon governo il mantenimento pacifico della convivenza sociale. Per la prima volta nella storia dell'Occidente, Marsilio distinse nettamente potere legislativo e potere esecutivo. Precedentemente, nella cultura cristiana, era stato sostenuto il principio secondo il quale oportet ut omnes partem aliquam habeant in principatu; Marsiio compì il passo ulteriore: oltre a ribadire la differenza tra potere religioso e potere civile, egli sostiene che il potere legislativo spetta al popolo o ai suoi rappresentanti. Definizione del buon governo come democrazia e come ricerca della pace sono intimamente connesse alle radici dell'eredità occidentale. Il terrorismo è per sua essenza la negazione più radicale della democrazia, intesa come insieme di valori e come metodologia pacifica per risolvere i conflitti 2O Ciononostante, a volte i fini ultimi dell'azione terroristica possono essere, soggettivamente, ritenuti come nobili e altre volte gli autori di atti terroristici hanno mirato al sovvertimento di regimi ritenuti "ingiusti" e alla fondazione di regimi ritenuti addirittura "democratici" in uno dei molti sensi ambigui del termine. I terroristi a volte credono sinceramente di essere giustificati da una legittimità superiore, in nome della quale possono arrogarsi il diritto di vita e di morte. Questa interpretazione assurda ha una sua logica, per quanto perversa: nel corso della storia può cambiare la definizione di ciò che è considerato terrorismo. Ad esempio, ha notato A. Jamieson, nell'accordo angio-irlandese sull'Ulster è scritto che un giorno quella provincia potrebbe far parte della Repubblica d'Irlanda se gli abitanti lo decideranno. Dunque è possibile che un giorno quelli che oggi riteniamo terroristi siano giudicati in altra maniera. La possibilità di relativizzazione 160

storica non può tuttavia indurre a forme di relativismo morale, ha osservato F. Ferraresi (Università di Torino): il problema delle vittime ha una importanza fondamentale, spesso trascurata nelle analisi degli specialisti. Jamieson ha svolto una documentata analisi delle più recenti tendenze emergenti all'interno del mondo terrorista, che - ha precisato - è come un'araba fenice sempre pronta a rinascere dalle sue ceneri, anche quando sembra dato per sconfitto. Inoltre, anche sulla base di suoi studi precedenti 21, ha sottolineato che esistono ampie metamorfosi del fenomeno, come ad esempio forme di "criminalizzazione" del terrorismo, ovvero forme di interpenetrazione (originate da intrecci economici e scambi di favori) tra elementi appartenenti a formazioni terroristiche ed elementi appartenenti ad organizzazioni criminali. Queste nuove e pericolose forme di eversione, ha precisato la Jamieson, non devono però indurre a privilegiare la risposta repressiva delle istituzioni: «poiché la diff erenza cruciale tra un atto criminale e atto terroristico è il suo contenuto politico, nella risposta al terrorismo l'aspetto caratterizzante deve essere quello politico». Un ampio dibattito si è svolto a proposito delle prospettive future del fenomeno terrorista: J. Murphy (Villanova University) ha messo in rilievo che le democrazie occidentali hanno migliorato e perfezionato i loro sistemi di prevenzione, in maniera da essere molto più preparate di quanto non fossero alcuni anni or sono. N. Gal-Or (University of British Columbia), dopo aver distinto tra i vari tipi di terrorismo che hanno caratterizzato gli anni ottanta (di guerriglia, sponsorizzato dallo Stato, nazional-separatista, rivoluzionario-ideologico), ha sottolineato che il terrorismo di destra nel futuro sarà probabilmente molto più rilevante di quanto non sia adesso. Ancora in tema di previsione e


prevenzione, R. Evans (Università della Virginia) ha sottolineato l'importanza che i problemi del terrorismo (e più in generale quelli legati a varie forme di devianza politicamente rilevanti, come la corruzione, la criminalità organizzata, la nascita di una categoria sai generis di «Robber Barons») avranno in futuro nei paesi ex-comunisti, dove si sta formando una situazione generale favorevole alla crescita di fenomeni siffatti. La risposta migliore a fenomeni siffatti, ha sostenuto Evans, è la formazione di regimi che possano vantare una legittimità credibile e socialmente diffusa. In nome di una tale legittimità i regimi politici sono in grado di produrre gli anticorpi necessari: come la democrazia deve essere fondata sui fattori endogeni, anche la difesa della democrazia deve essere fondata su principi e su metodi sentiti come legittimi dalla maggior parte dei cittadini. Nelle sue conclusioni, G. lonescu ha messo in rilievo le connessioni esistenti tra tendenze antidemocratiche e uno dei fenomeni più importanti del nostro tempo: l'insieme di rivoluzione tecnologica, rivoluzione nelle comunicazioni, interdipendenza globale. La rivoluzione tecnologica ha dato vita prima ad una rivoluzione nelle comunicazioni (e soprattutto nella fornitura di informazioni), poi alla interdipendenza globale, e infine alla formazione di una società civile transnazionale che è ormai più forte e vitale degli Stati nazionali. In una situazione mondiale caratterizzata dalla rivoluzione tecnologica e dalla rivoluzione dell'informazione, è straordinariamente cambiato l'ordine di grandezza del pericolo terrorista: nei secoli passati, per quanto riguarda gli anarchici, ad esempio, esisteva un rapporto, per così dire, «uno ad uno»: un re poteva essere ucciso da un anarchico armato. Nelle società caratterizzate dalla rivoluzione tecnologica non è assurdo ipotiz-

zare, ad esempio, un movimento terroristico che potrebbe minacciare di fare esplodere un impianto nucleare. Questo nuovo tipo di sfide che vengono poste alla democrazia richiede l'adozione e di strumenti di prevenzione ancora più intelligenti e sofisticati.

Luci

ED OMBRE DELLA DEMOCRAZIA

Durante le trattative per siglare l'accordo di Helsinki del 1975, la lunga polemica tra paesi del blocco occidentale e paesi del blocco orientale diede infine vita a una controversa lista di diritti fondamentali, come il diritto di non essere arrestato arbitrariamente, il diritto a non essere in prigione senza processo, il diritto di parola e di espressione, il diritto a servire Dio a modo proprio, e molti altri. L'insieme di questo lungo elenco può essere sintetizzato dicendo che è stato rivendicato, per gli individui e per i popoli, il diritto di scegliere il modello di sviluppo; mentre rimane assolutamente non chiarito se le caratteristiche di un sistema sociale possono essere, per così dire, "create" o sono piuttosto il prodotto di una "evoluzione" che procede per adattamenti, per prove ed errori, per selezione degli esperimenti riusciti (pur potendo, beninteso, subire accelerazioni o improvvise mutazioni). La democrazia è stata spesso definita come un ideale, un punto d'arrivo ancora non realizzato, rispetto al quale, le democrazie esistenti sono un'approssimazione in parte da biasimare e in parte da perfezionare. In questa logica si può, ad esempio, chiedere che la democrazia politica diventi industrial democracy (ovvero l'estensione della partecipazione democratica anche nella fabbrica e in generale in tutti i posti di lavoro). È stato osservato che «può benissimo darsi uno stato democratico in una società in cui la 161


maggior parte delle sue istituzioni, dalla famiglia alla scuola, dall'impresa alla gestione dei servizi, non sono governate democraticamente... Oggi, e si vuoi prendere un indice dello sviluppo democratico, questo non può più essere il numero di persone che hanno diritto di votare, ma il numero di sedi diverse da quelle politiche in cui si esercita il diritto di voto (e sia chiaro che qui si intende il "votare" come l'atto più tipico e comune del partecipare, ma non si intende affatto limitare la partecipazione al voto)» 22 Malgrado i rischi di etnocentrismo, hanno sostenuto vari studiosi, è preferibile definire la democrazia, prima ancora che come un ideale, come il termine che designa il sistema politico di fatto esistente in un ristretto numero di paesi, caratterizzati (oltre che dalla libera scelta dei governanti) da uno sviluppo endogeno, dalla separazione delle chiese e dei partiti dallo Stato, dal riconoscimento di diritti fondamentali che non possono essere violati dal potere politico. Insieme a questa sottolineatura, ne è stata svolta un'altra, diretta contro quelle concezioni ottimistiche secondo le quali la democrazia sarebbe un esito spontaneo o naturale dello sviluppo storico, e le molte deviazioni da questo percorso sarebbero soltanto la conseguenza di catastrofi storiche o della impreparazione dei gruppi dirigenti. Correggendo, o ampliando, i termini classici del Gettysburg Address, Tourame ha concluso la sua relazione perorando una concezione della democrazia differenziata da molti punti di vista rispetto ad uno stereotipo tradizionale: «La democrazia non è il frutto del progresso; essa è il prodotto dello spirito di cittadinanza, della volontà di una popolazione di controllare i suoi governanti cdi valutare la corrispondenza tra domande

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sociali e risposte politiche. È il cittadino che crea la democrazia e non il contrario; e ciò ci obbliga a vedere nella democrazia il regime fondato sul rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti dell'uomo, prima ancora che il governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Nelle parole di studiosi molto diversi l'uno dall'altro, è stata disegnata, dunque, una concezione della democrazia con molte luci ed anche molte ombre. Questa impostazione non è nuova: basti ricordare i two cheersfor democracy di E.M. Forster, o la celeberrima definizione della democrazia data da Winston Churchill nel suo discorso alla Camera dei comuni del novembre 1947 (il peggior sistema di governo, ad eccezione di tutte quelle altre forme sinora sperimentate), o la scultorea definizione di Niebhur: «Man 's capaciiy for justice makes democracy possible; but man 's inclinationfor injustice makes democracy necessary» 23 Secondo molti osservatori, questa impostazione del problema della transizione alla democrazia non va abbandonata. Molti paesi hanno intrapreso una gloriosa avanzata dal totalitarismo, dall' autoritarismo, dalla miseria verso la democrazia; ma è necessario essere chiaramente consapevoli sia dei lunghi e faticosi processi attraverso i quali nasce un sistema democratico, sia dei molti problemi che persistono all'interno dei sistemi democratici. Una visione puramente idealistica e romantica potrebbe portare molte popolazioni a subire una delusione di enorme portata, che potrebbe aprire la strada ad alcune di quelle molte alternative alla democrazia, che storicamente si sono spesso realizzate, ad esempio forme estreme di populismo, di cesarismo, di nazionalismo, di autoritarismo.


NOTE CFR. G. IONESCU, Opposition, Pelican Books, Harmondsworth, 1972; G. Sartori, The Theory ofDemocracy revisited, Chatham House, Chatham, N. J., 1987. 2 M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialektik der Aufklarung. Philosophische Fra gmente, Querido Verlag 1947. J. Maritain, Christianisme et démocratie, P. Hartmann, Paris, 1963: R. Nieburh, The Chi ldren of Light and the

Children of Darkness: A Vindication of Democracy and a Critique of lts Traditional Defense, Charles Scribner's Sons, New York, 1950. ' C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome répubiicome, Gailimard, Paris, 1979; per le parallele problematiche nella Grecia classica, cfr. J. de Romilly, Problèmes de la démocratie grecque, Hermann, Paris, 1975. F. A.Hayek, The Constitution of Liberty, The University of Chicago Press, Chicago, 1960. 6 H. Kelsen, Foundations of Democracy, in «Ethics», LXVI, 1955-1956, n. 1. F. Sidoti, «Honesty» and «virtus» in America: Tocqueville e Weber, in «Sociologia e ricerca sociale», a. VII, n. 21, 1986. 8 S. M. Lipset, Political/vian, Doubleday, Garden City, 1960, pp. 538-544. ' G. Sartori, voce «Democracy», in International Encyciopedia of the Sociai Sciences, Macmillan, New York, 1968, vol. IV, pp. 112-121. ° L. Pellicani, Saggio sulla genesi del capitalismo. Alle origini della modernità, Sugarco, Milano, 1988. 11 N. Bobbio, Democracy and Dictatorship: The nature and limits o/State power, Polity, Oxford, 1990. 12 A. Gerschenkron, Economic Backwardness in Histori-

cai Perspective, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1962. 13 G. lonescu, The Politics o/the European Communist States, Weidenfeld and Nicolson, London, 1967. 14 Cfr. G. Di Palma, Aquarium and Fish Soups. Totali-

tarianism, Civil Society, Transitions, paper prepared for the conference «La rifondazione dei partiti politici dell'Europa orientale», Ferrara, October 1990. 15 K. Polany, The Great Transformation, Holt, Rinehart e Winston inc., New York 1944. 16 Cfr. ad es. V. Pareto, Trasformazioni della democrazia, in «Rivista di Milano», fascicoli di maggio, giugno, luglio e dicembre 1920. 17 Cfr. A. Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Il Mulino, Bologna, 1981. 18 Cfr. il commento di C. Schmitt, Politische Teologie, vier Kapitel zur Lehre der Souverdnitdt, Duncker & Humbiot, Munchen-Leipzig, 1934. ' 9Cfr. A. Touraine, Production de la société, Seuil, Paris, 1973. 20 p Wilkinson, Terrorism and Liberai State, Macmillan, London, 1977. 21 Cfr. A. Jamieson, Global drug Trafficking, «Conflict Studies», n. 234, September 1990. 22 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, pp. 45-46. 23 Per un inquadramento di questa definizione di Niebuhr nella sua prospettiva teologica, secondo la quale esistono uno accanto all'altro originai sin e originai righteousness, cfr. R. McAfee Brown, The Essentiai R. Niebuhr: Sekcted Essays and Addresses, Yale University Press, 1986.

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Anno XVIII - n. 81 - 82 Semestrale (gennaio-giugno) - Sped. in ahb. postale gr. IV/70

queste ĂŹstuzĂŹooi.

Governo del territorio e Riforma degli enti locali Sergio Ristuccia Roberto Mostacci

Maurizio Coppo Fabio 4ngelico Marco Cremaschi Antonio Fernandez carlo.asparini Francesco Toso

n. 81 - 82 1990


Taccuino del Gruppo di Studio

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Notizie sulle attività 1990-91 30

Incontro Cortonese

(Cortona, Sala Sant'Agostino, 5 e 6 ottobre 1990) Per la terza volta si è tenuto l'appuntamento annuale dei soci del Gruppo di Studio e dei collaboratori della rivista. Due giornate di studio deidcate rispettivamente a: «Le privatizzazioni in Italia» (a cui è dedicato il primo dossier della Rivista) e «Riflessioni e valutazioni a due anni dall'approvazione della legge n. 362/88 in materia di riforma del bilancio dello Stato». La prima giornata ha riguardato prevalentemente i profili tecnico - normativi del passaggio di attività produttiva e di servizi dalla sfera pubblica a quella privata. Sono stati analizzati alla luce di una complessa fenomenologia, la concreta individuazione degli obiettivi che le privatizzazioni sono atte a perseguire, e i criteri di valutazione in senso stretto del patrimonio pubblico, per arrivare ad ipotizzare un regime «ideale» entro cui siano garantite la congruità dei valori di scambio e la effettiva trasparenza delle scelte dei contraenti. Il quadro generale della situazione è stato integrato da riferimenti alla casistica italiana ed estera che alcuni fra i partecipanti hanno potuto illustrare anche sulla base della propria esperienza professionale. Sono intervenuti fra gli altri: Pier Giuseppe Merlo, Gian Carlo Salvemini, Pietro Spirito, Filippo Cavazzuti, Alberto Pera, Giovanni Moglia, Roberta Carlini. Nel dibattito sull'attuazione della legge di riforma del bilancio alla cui approvazione il Gruppo di Studio aveva già dedicato una giornata di studio nella stessa Cortona due anni or sono, sono emersi fatti di chiaro segno. Anzitutto si è osservato come non abbia trovato una concreta realizzazione il sistema di valutazione del costo delle leggi, che ve-

drebbe impegnata, accanto alle istituzioni, la Pubblica Amministrazione nelle sue articolazioni operative. Si è poi vagliato l'esito fondamentalmente negativo della formula «legge di bilancio più legge di accompagnamento». D'altro canto, è sembrato che sia stato fatto qualche modesto passo in avanti sul piano dei regolamenti parlamentari per quanto riguarda le procedure di approvazione delle leggi di spesa: infine, si è considerato il lento cammino della legge sulla riclassificazione del Bilancio, sia pure con la novità, quest'anno, dell'esperimento di un bilancio con voci riaggregate. In generale è stato posto l'accento sul rischio che si verifichino ulteriori trasgressioni, più o meno fantasiose, delle regole di copertura. Hanno partecipato: Andrea Monorchio, Maria Teresa Salvemini, Guido Rey, Manuela Goggiamani, Franco Bassanini, Maurizio Meschino, Sergio Gambale, Francesco Zaccaria, Vincenzo Spaziante, Alessandro Palanza, Marcello Romei, Linda Lanzillotta, Giorgio Pagano. Western democracy over the past 40 years

(Firenze - Sala Convegni della Cassa di Risparmio di Firenze), 7-8-9 novembre 1990 «Western Democracy over the past 40 years. A summing up and scenarios after the f alling of the west-east barriers in Europe» è il titolo del colloquio organizzato dal Gruppo di Studio Società ed Istituzioni con il patrocinio della Cassa di Risparmio di Firenze. Concepito come seminario internazionale, l'incontro fa parte di un progetto di ricerca a più lungo termine, inteso a fornire ad alcuni studiosi l'opportunità di ritrovarsi più di una volta nei prossimi anni per vagliare eventi e tendenze nuove delle istituzioni e della vita democratica con particolare attenzione a quanto avviene in Europa. Come


primo appuntamento di questa iniziativa pluriennale, l'incontro di Firenze ha trattato il tema delle sfide alla democrazia, esemplificate nell'avvento del postcomunismo, nel problema della corruzione, del terrorismo. Accanto ai quattro relatori - Ghita lonescu, Alessandro Pizzorno, Alain Touraine e Alison Jamieson - sono intervenuti: Andrea Manzella, Giovanni Bechelloni, Gianfranco Pasquino, Alberto Spreafico, Mario Caciagli, Roberto D'Alimonte, Francesco Sidoti, Maria Rosaria Ferrarese, Sergio Ristuccia, Luciano Cavalli, John Murphy, Robert Royal, Noemi GaI Or, Antoni Kaminski, Peter Bogason. Sul Colloquio riferisce il saggio di Sidoti pubblicato in questo stesso numero (v. pp. 145 e ss.). Informatica e pubblica amministrazione (Roma, -Biblioteca della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, 22 febbraio

1991). L'incontro, prendendo spunto da un saggio pubblicato nel fascicolo n. 79/80 della rivi'sta, è stato incentrato sullo «stato dell'arte» delle innovazioni tecnologiche nelle pubbliche amministrazioni e sul tipo di «governo» dell'innovazione. L'incontro ha rappresentato un momento di riflessione dell'intero problema ove è nata l'idea di costituire un FORUM permanente organizzato dalla società Queste Istituzioni Ricerche. Sono stati affrontati inoltre temi riguardanti: l'impatto informatico e la gestione delle risorse umane; lo stato del mercato informatico sia sotto l'aspetto dell'offerta che della domanda pubblica e della loro qualificazione. Sono intervenuti fra gli altri: Federico Butera, Enzo Cardi, Maurizio BalIa, Guido Rey, Riccardo Fatarella, Carlo Tedeschini

Lalli, Maurizio Silhitti, Pier Paolo Morelli, Mario Lombardozzi, Enrico Acquati, Angelo Gambarotta. Il futuro della cooperazione culturale in Europa tra ovest ed est. fl ruolo delle fondazioni (Vienna, Wiener Hofburg, 12 - 13 - 14 aprile 1991. Convegno organizzato dall'European

Foundation Centre) Il convegno è stato un importante incontro fra alcune fondazioni occidentali e quelle sorte o in formazione nei paesi dell'Europa centrale e orientale. Ad esso hanno partecipato anche rappresentanti di governi o ministeri dei, vari paesi. Scopo del convegno era quello di creare legami operativi e stabili relazioni di collaborazione. Inoltre, la fondazione promotrice ha voluto mettere a disposizione dei paesi orientali il proprio network e soprattutto l'ausilio tecnico dell'European Foundation Centre che è un organismo di informazione, con sede a Bruxelles. Il convegno di Vienna sembra, dunque, essere una tappa per la messa a punto di un programma di scambi e di iniziative comuni. Sergio Ristuccia, nella qualità di presidente del Gruppo di Studio, ha introdotto e presieduto la sessione che aveva come tema il ruolo delle fondazioni e i problemi concernenti la creazione di nuove fondazioni in Europa centrale e orientale (ma anche in quella occidentale). Una delle principali indicazioni del dibattito è stata l'allargamento dell'attenzione verso il più ampio settore delle «non-profit organizations» come espressione della società civile e come istituzioni sociali alternative a quelle pubbliche in crisi. Hanno partecipato al dibattito, fra gli altri: Frantisek Janouch, Peter Ballazs, Miklos Marschall, John Richardson, Tom Shebbeare, Teresa Morawinska, Miroslav Pospisil.


"BAILAMME" rivista di spiritualità e politica SOMMARIO DIZIONARI

DEUS EST VERITAS di Edoardo Benvenuto ................. pag. VOLGERE LE SPALLE AL FUTURO di Mario Tronu ......... »

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LA FASE LA PIETÀ

A UN BIVIO di Giuseppe Trotta ...........................

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SCENARI DEL SAPERE

ESISTENZIALISMO RELIGIOSO E TEOLOGIA CiVILE NELLA VISUALE FILOSOFICO-POLITICA DI AUGUSTO DEL NOCE (seconda parte) di Tito Perhni ............................... »

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LETTURE

TEMPORALITÀ E COSCIENZA IL "NON-SO-CHE" NELLA FILOSOFIA PRIMA DI VLADIMIR JANKELEVITCH di Massimo Giuliani .................... . .................

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DE LUCA, MANZÙ, SANDRI E LA PORTA DELLA MORTE DI SAN PIETRO di Giuseppe Sandri .......................

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ESPERIENZE

MEDITAZIONI E PREGHIERE LETTERE E RECENSIONI

RICORDANDO 10- QUANDO SI DICE, IL CASO! di Romana Guamieri ...................................... LE DUE LEGGI - IL TEMA DELL'AUTORITÀ IN MARGHERITA PORETE di Luisa Muraro ................................. OROGRAFIA ED ECONOMIA NELLE ESPERIENZE D'UN FILOLOGO di Eugenio Massa ............................. SAN GIOVANNI DELLA CROCE "DOTTORE DEL NULLA" E L'ESPERIENZA MODERNA DEL NICHILISMO diSergioQuinzi. ......................................... DANTE LATTES: EBRAISMO, NAZIONE E MODERNITÀ PRIMA DELLA GRANDE GUERRA (1898-1914) di Gadi Luzzatto.Voghera ..................................

IL GIOCO DI AION di Marco Montori ..................... »

N° OTTO

Abbonamento a quattro numeri L. 60.000 Versamento da effettuare, specificando la causale, sul C.C.P. n. 18735209 intestato a Editoriale Del Drago, via Pascoli 60, 20133 Milano.


CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ECONOMIA E DEL LAVORO Commissione dell 'Informazione (III)

DIRETTWE SULVORGANIZZAZIONE • DELL'ARCHIVIO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA (ai sensi delfari. 17 della legge n. 936186)

Ari. I

Ari. 4

Nell'Archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, istituito presso il CNEL, vengono depositati, nel rispetto delle procedure indicate negli articoli seguenti, i contratti e gli accordi di ogni livello e ambito relativi sia al settore privato che a quello pubblico, nonché ai rapporti di lavoro autonomo indicati nella legge n.741 del 1959. Vengono, altresì, depositati gli accordi di rinnovo.

L'elenco dei contratti e accordi depositati, con l'indicazione delle parti stipulanti, viene periodicamente affisso in un apposito Albo presso il CNEL e pubblicato sul Notiziario della Commissione dell'Informazione.

Ari. 2 Il deposito avviene a cura dei soggetti stipulanti o anche di uno soltanto di essi direttamente presso il CNEL o per il tramite degli uffici centrali e periferici del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. In occasione del deposito, dovrà essere indicato il nome di chi provvede e l'organizzazione per conto della quale avviene lo stesso.

Ari. 3 Per i contratti e gli accordi di livello aziendale, contestualmente al deposito di una copia dell'originale del contratto o dell'accordo, dovranno essere indicati nome e sede dell'azienda, settore merceologico, contratto nazionale di tiferimento nonché il numero degli addetti impiegati nella medesima azienda.

metà se il deposito avviene a cura di una organizzazione rappresenta(a nel CNEL. Art. 7 Le copie pervenute vengono conservate in ordine eronologicp, con l'annotazione della procedura seguita.

An. 6 I termini di cui all'anicolo precedente sono ridotti alla

L'elenco dei contratti inseriti nell'Archivio, con l'indicazione della classificazione operzkta secondo i criteri indicati nel precedente ari. 8, viene pubblicato nel Notiziario di cui all'ari. 4.

Ari. Il

Ari. 5 Nei 60 giorni successivi alla pubblicazione nel Notiziario della notizia dell'avvenuto deposito, i soggetti stipulanti possono prendere visione ed ottenere copia del (esto depositato e comunicare al CNEL l'eventuale diversa formulazione del testo. Copia delle dette osservazioni viene inviata, a cura del CNEL, ai soggetti che hanno curato il deposito; nei successivi 30 giorni questi ultimi possono far pervenire al CNEL ulteriori osservazioni. Alla scadenza.dei termini indicati nel comma I e, eventualmente, nel comma 2, la copia del contratto o dell'accordo viene inserita nell'Archivio. Qualora al termine della procedura indica(a nei commi precedenti, permanga un contrasto in ordine al testo, l'accordo o il contratto viene inserito nell'Archivio con in calce il testo delle osservazioni.

Ari. IO

Ari. 8 I contratti e accordi collettivi inseriti nell'Archivio vengono, altresì, classificati con riferimento: ai soggetti stipulanti; al settore di applicazione; ci al livello o all'ambito territoriale; di agli altri criteri di classificazione stabiliti dalla Commissione dell'informazione.

La Commissione dell'Informazione viene periodicamente informata dello stato di attuazione delle presenti direttive. ArI. 12 Nella prima fase di applicazione possono essere depositate presso il CNEL le copie dei contratti e degli accordi collettivi, vigenti al momento dell'entrata in vigore della legge di riforma del CNEL (I gennaio 1987), ovvero stipulati successivamente.

Ari. 9 il testo degli accordi e contratti inseriti nell'Archivio viene memorizzato. Alla memorizzazione del testo dei contratti e degli accordi interconfederali e nazionali si provvede in collaborazione con il CED presso la Corie di Cassazione. L'Archivio è aperto alla pubblica consultazione e chiunque vi abbia interesse può ottenere copie del testo depositato.

An. 13 Il testo dei contratti e degli accordi comunque pervenuti o acquisiti al CNEL senza il rispetto delle procedure indicate negli ariicoli precedenti viene conservato in un apposito settore dell'Archivio nazionale. Anche il testo degli accordi e contratti indicati nel comma precedente viene classificato e memorizzato secondo quanto previsto nei precedenti artt. 8 e 9.

per il deposito: CNEL - Archivio Contratti, Via Davide Lubin, 2 - Roma o Uffici centrali e periferici del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale per informazioni: Ufficio Commissione dell'Informazione. CNEL. Via Davide Lubin, 2 - Roma TeL (06) 3692358 - Fax (06) 3202867


• CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ECONOMIA E DEL LAVORÒ Ccimmissione dell'Informazione (III)

ARCHMO NAZIONALE DEI CONTRAM * È operativo dal 10 ottobre 1990 -* Raccoglie i contratti e gli accordi vigenti del settore privato e pubblico di ogni livello (interconfederali, nazionali, territoriali, aziendali) * Il testo degli accordi e dei contratti viene classificato e memorizzato per la consùltazione e la riproduzione * L'Archivio è aperto alla pubblica consultazione * La Commissione dell'Informazione del CNEL pubblica periodicamente • (in. apposito «Notiziario») l'elenco dei contratti inseriti nell'Archivio

La legge (n. 936/86) prevede che il deposito dei contratti avvenga a cura dei soggetti stipulanti, o anche di uno soltanto di essi

IL CNEL INVITA TUTTE LE ORGANIZZAZIONI SINDACALI A DEPOSITARE COPIA DELL'ORIGINALE DEGLI ACCORDI E DEI CONTRATTI COLLETTIVI

per il deposito: CNEL - Archivio Contratti, Via Davide Lubin, 2 Roma e/o Uffici centrali e periferici del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale per informazioni: Ufficio Commissione dell'Informazione, CNEL, Via Davide Lubin, 2 - Roma Tel. (06) 3692358 - Fax (06) 3202867


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3 L'UNWERSITÀ DOMINATA Barcellona, La trasformazione dei saperi e la crisi dell'università Toesca, Gli .ailegri automi» e le .api regine. Sini, Sapere come e sapere perché Silvescrini - Amodio, L'uso sociale della ricerca Berardi, Il Sapiente, il Guerriero, il Capitalista Bini, Maestri senza maestri Giovannini, Offe dimenticato D'Albergo, Processi formativi e democrazia sociale Ragone, Riformismi e università Mordenti, Corporazivismo universitario e legge Ruberti LE CULTURE DEL MOVIMENTO STUDENTESCO Serra, Barcellona, Buttiglione, Colombo, Curi, Taviani - Vedovati ARGOMENTI Memo - La Porta, Un partito per i giovani? IL SAGGIO

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