Anno XIX - n. 8 7-88 - Trimestrale (luglio-dicembre) - spedizione in abb. postale gr. W/70%
queste ìstìtuzìonì Sulla fine dell'URSS: deficit costituzionale e attuazione europea L'istituzione Governo: una riforma disapplicata di fronte all'integrazione europea Valerio Qnida, Andrea Manzella, Carlo Chimenti, Piero Calandra, Maurizio Meloni, Vincenzo Spaziante, Cesare Pine lii, Alberto Capotosti, Carlo Mezzanotte, Antonio Baldassarre, Domenico Marchetta, Alessandro Pizzorusso, Mario Colacito, Ugo De Siervo, Giuseppe Cogliandro, Jean-Pierre Nioche Europa Sergio Ristuccia, Arturo Vancheri, Umberto Serafini, Marina e Pierre Schneider Archivio media Federico Spantigati, Francesco D'Onofrio, Gregorio Arena, Lidia Menapace, Nino Cascino, Carlo Bandiera, Girolamo Caianiello, Sandro Roazzi, Biagio Celi, Piero Trupia, Italo Ca pizzi. Taccuino
n. 87-88 1991 i
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queste isllteuni rivista del Gruppo di Studio SocietĂ e Istituzioni Anno XIX, n. 87-88 (luglio-dicembre 1991) Direttore: SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore: VINCENZO SPAZIANTE Comitato di redazione: ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, DANIELA Fwsum, GIULIA MARIARI, GIORGIO PAGANO, MARCELLO ROMRI, CRISTIANO A. RIsTucGA, STEFANO Sai'E, FRANCESCO SIDOTI. Responsabile redazione: PIETRO MARIA Di GIOVANNI Responsabile oanizzazione: GIORGIO PAGANO Direzione e Redazione: Via Enmo Quirino Visconti, 8 - 00193 Roma Tel. 39/6/3220880 - 3215319 - Fax 3215283 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE. sai. QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN: 1121-3353 Stampa: Soc. Interstampa ari - Via Barbana, 33 - 00144 Roma - Tel. 0615403349-5405972 Finito di stampare nel mese di maggio 1992 -
Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
N. 87-88 1991
Indice
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Sulla fine dell'URSS: deficit costituzionale e attuazione europea
li L'Istituzione Governo: una riforma disapplicata
di fronte all'integrazione europea I. L'organizazione dell 'Istituzione Governo 19
Organizzazione interna e rapporti funzionali esterni dopo la legge 400 del 1988 Valerio Onida
27'
L'Istituzione Governo e la "disapplicazione" della legge 400 Andrea Manzella
32
Il Governo, il Parlamento Carlo Chimenti
35
Problemi d'equilibrio nei rapporti Governo - Parlamento Piero Calandra
40
Sull'organizzazione della Presidenza del Consiglio Maurizio Meloni, Vincenzo Spaziante, Cesare Pinelli
46
La forma di Governò - la politica di Governo Alberto Capotosti
2. 50
Quale sistema delle fonti?
Le fonti tra legittimazione e legalitĂ Carlo Mezzanotte
60
Fonti normative, legalità e legittimità: l'unità della ragionevolezza Antonio Baldassarre
65
Il principio di legalità Valerio Onida
70
Il principio di legalità e l'esercizio del controllo sulle norme Domenico Marc hetta
75
L'evoluzione del sistema Alessandro Pizzorusso
78
Lit delegificazione Mario Colacito
82
L'erosione del primato della legge Ugo De Siervo
86
Le nuove fonti Giuseppe Cogliandro
3. Contenuti di una nuova cultura di governo 90
11 nuovo dispositivo di valutazione delle politiche pubbliche in Francia in una prospettiva comparativa: tranelli e prospettive. Jean.Pierre Nioche
105
Europa
109
Ipotesi 1990: un nuovo equilibrio dei poteri in una nuova stagione di sistemi federali? Sergio Ristuccia
126
Maastricht: una critica federalista Arturo Vancheri
143
Una grande associazione europea di Poteri locali e regionali Umberto Sera fini
154
I..e Fondazioni culturali europee Marina e Pierre Schneider
173
Archivio media
175
Comunicazione e riforme istituzionali
Federico Spantigati, Francesco D'Onofrio, Gregorio Arena, Lidia Menapace, Nino Cascino, Carlo Bandiera, Girolamo Caianiello, Sandro Roazzi, Biagio Celi, Piero Trupia, Italo Capizzi
Taccuino I nostri temi
195
Fondazioni e Associazioni: istituti da tenere insieme o da separare? Mario Colacito
199
Notizie sull'attività del Gruppo di Studio "Società e I stituzioni!
202 Attività del Comitato Italiano della Fondazione Europea della Cultura 203
Incontri ed attività di "Correnti"
Sulla fine dell'URSS: deficit costituzionale e attuazione europea Agli inizi degli anni Novanta, dopo gli straordinari eventi del 1989, si poteva ritenere che stesse per aprirsi una stagione di intenso neocostituzionalismo di tipo federale. L'entità dei rivolgimenti politici nell'Europa centrale ed orientale, il collasso progressivo dell'URSS, le tendenze verso una vera e propria nuova geografia politica erano, e sono, fenomeni tali da mettere in questione le relazioni internazionali ed i rapporti fra popoli. Ma erano, e sono, fenomeni che si svolgono in una realtà planetaria dove interdipendenza economica, facilità delle comunicazioni, cultura del "villaggio globale" (almeno nelle aree sviluppate del mondo), dimensioni crescenti dei mercati sono - a loro volta - fenomeni consolidati. Tali da imporre la logica delle aggregazioni e dei grandi spazi interconnessi e che alimentano perciò le prospettive di meccanismi federali al di là dello "stato-nazione". L'ipotesi di una nascente fase di neofederalismo derivava in realtà proprio dall'im patto fra queste diverse e poderose realtà in movimento. Se si fa attenzione alle tendenze di fondo che non si concludono in breve sequenza di eventi ma che sembrano destinate a svolgersi in più lungo, complicato e tortuoso percorso si può tuttora dire che l'ipotesi rimane valida. Nella realtà gli avvenimenti appena vissuti e in corso di svolgimento sembrano muoversi in altra direzione: l'Europa post-comunista ha, infatti, rilanciato con grande forza lo spirito delle nazioni e l'emotività etnica e nazionalistica. I casi più rilevanti sono la frantumazione dell'impero sovietico interno e la guerra balcanica: cioè il crollo e il "suicidio" di stati, almeno formalmente, federali. Vale ripetere: almeno formalmente federali. Per sottolineare che, derivando la loro forza di coesione dal sistema totalitario e dalla forma di stato-partito, la caduta di questi stati non contraddice i presupposti dell'ipotesi di una nuova stagione di relazioni federali. Il federalismo è, infatti, l'espressione compiuta, e 5
talora sofisticata, di un'organizzazione statuale fondata sui diritto e sulla democrazia pluralistica. Compiuta e sofisticata perché deve far contò della com presenza delle culture e dei valori che queste rappresentano.
In ogni caso, le vicende richiamate possono essere oggetto di molteplici osservazioni e commenti anche sulla prospettiva che qui più interessa. C'è però un fatto storico che spicca fra tutti e vuole una particolare attenzione: la fine dell'URSS nella sequenza di avvenimenti che va dal tentato e fallito golpe di agosto all'ammaina-bandiera (rossa) del 25 dicembre 1991. Che dal Cremlino venisse ammainata la bandiera rossa è stato un fatto di tanta carica simbolica da aver monopolizzato l'attenzione generale nel mondo e fra i commentatori. Un'ammainabandiera come atto conclusivo del crollo dei comunismo. In realtà, un atto conclusivo del comunismo come forma statuale non aveva più ragion d'essere nel dicembre 1991 in quanto già da alcuni mesi, cioè due settimane dopo il fallito golpe d'agosto era stata posta definitiva fine al PCUS. Si può tuttavia obiettare che fra l'uno e l'altro fatto c'era un ovvio legame, essendo la fine dell'Unione la conseguenza inevitabile della fine del partito-stato se è vero, come certamente lo è, che cemento e tessuto connettivo dell'URSS era il PCUS. Eppure, guardando all'evento del 25 dicembre esclusivamente in questo modo non si coglie la natura degli eventi accaduti: il tentativo di trasformare lo stato sovietico non solo sottraendolo all'abbraccio del partito (come già due anni addietro l'abolizione deil'art. 6 della Costituzione sul ruolo egemone del partito comunista aveva preconizzato) ma dandogli una struttura e una logica di stato fondato su un federalismo paritario. E il tentativo di Gorbaciov che avrebbe trovato una sia pur parziale e fragile realizzazione attraverso la firma del nuovo trattato dell'Unione contro cui venne realizzato il golpe. Questo, dunque, fallisce ma raggiunge lo scopo di far saltare il Trattato. Un compromesso, quest'ultimo, in cui i democratici di Eltsin al potere in Russia poco credevano e che nella situazione del. dopo-golpe non hanno
pensato certamente di far proprio. Gorbaciov prosegue dopo il golpe il tentativo di dare diverso assetto all'Unione al di là del comunismo. In sostanza, egli crede che sia ugualmente possibile, in breve tempo, ricostruire un diverso tessuto connettivo federale attraverso il mantenimento al centro delle funzioni ritenute essenziali: politica estera, difesa, coordinamento della politica economica. In altre parole ritiene possibile ricreare in breve un nuovo processo federativo: contando magari sul fatto che il referendum pansovietico del marzo 1991 aveva dato una maggioranza, sia pur non travolgente, a favore del mantenimento dell'Unione. Il tentativo di Gorbaciov di salvare l'Unione, al di là del comunismo e al di là dell'illusione di cambiario (illusione che egli aveva perduto definitivamente nei giorni successivi al rientro a Mosca dopo il golpe) era insomma il portato di due convinzioni: che l'URSS come grande paese multinazionale fosse, malgrado tutto, una realtà e che il capovolgimento delle relazioni internazionali, così decisamente perseguito in sei anni, e l'instaurazione di un nuovo sistema internazionale volessero una grande realtà unitaria euro-asiatica e una sua riorganizzazione decentralizzata da realizzare con gradualità. La prima convinzione era fondata, forse, più su orgoglio sovietico (si può coglierne un'eco nello stesso messaggio d'addio: "il nostro popolo ha perduto la cittadinanza di un grande paese") che sul riconoscimento della realtà sociale sovietica. Nella quale, tanto per ricordare, la questione linguistica rimaneva una ferita aperta, data la prevalenza obbligatoria del russo, con la sostanziale mortificazione di quelle nazionali (cioè degli elementi fondamentali di ogni identità sociale), mentre la logica della panburocratica economia di comando aveva devastato il processo di sviluppo economico attraverso le specializzazioni monoculturali. La seconda convinzione era parte dei criteri su cui si fondava la strategia di cooperazione con l'Occidente e di sicurezza internazionale avviata con tanta lungimiranza. Anzi a quest'ultimo riguardo si può dire che, fra gli "errori" o le "colpe" di Gorbaciov sul fronte interno, la sottovalutazione sostanziale, che lo stesso Gorbavioc ha poi riconosciuto, della questione nazionale appare quasi una necessità 7
della politica internazionale avviata a realizzazione con decisione e senza ripensamenti: è difficile immaginare quale credibilità o addirittura quale possibilità di realizzarsi senza contraccolpi cruenti avrebbe avuto questa politica se l'URSS si fosse frantumata ancor prima delle importanti intese internazionali raggiunte con gli Stati Uniti e l'Europa (soprattutto per la riunificazione della Germania). Quanto poi alla gradualità del processo verso la sovranità delle repubbliche è singolare che a ritenerla necessaria (o inevitabile) siano stati anche alcuni animatori della secessione. Ivan Drac, leader dei nazionalisti ucraini del Rukh in un'intervista a Il Giornale (28 ottobre 1 991) ha sostenuto che ci vorrà tempo prima che l'Ucraina possa diventare veramente indipendente. La forzatura nazionalista è anche da attribuire alla logica di potere dei baroni della nomenklatura sovietica che in molti paesi hanno giocato la partita nazionalistica con veri e propri salti della quaglia dei nascenti movimenti democratici-nazionali. La situazione dell'URSS dopo l'agosto 1991 è stata così descritta da Gorbaciov: "subito dopo il fallimento del golpe, e come reazione ad esso, si è scatenato un forte processo di disintegrazione del paese. Si sono susseguiti atti dimostrativi e dichiarazioni di indipendenza. Si è trattato di una sorta di autodifesa delle repubbliche in risposta al colpo distato" (v. Il golpe di agosto, Mondadori, 1991, P. 44). Sarebbe stato perciò un miracolo realizzare l'avvio di un'unione di tipo nuovo, veramente multinazionale. Gorbaciov è sembrato disposto a ricominciare in modo ancor più squilibrato di quanto già non avesse accettato nel luglio a Novo-Ogariovo (dove si sancì che le repubbliche non sarebbero state più "socialiste sovietiche" ma "stati sovrani'9. Cioè con molto meno di undici repubbliche come precedentemente previsto, per puntare successivamente ad una lenta ma più ampia riaggregazione. Eltsin ha preferito una comunità molto lasca, ma che prevedesse in qualche modo fin dall'inizio la presenza di tutti gli stati. Unico modo per tenere dentro l'Ucraina dopo il plebiscito di novembre per l'indipendenza. L'Uno e l'altro progetto erano, in ogni caso, molto deboli. In conclusione, il golpe ha eliminato la possibilità, o forse soltanto
l'illusione, di ricostruire alla svelta legami sovranazionali delle nazioni e attraverso un rapporto corretto fra forma e sostanza degli accordi di unione (mai esistito nella realtà sovietica). A questo riguardo nessuna accelerazione della storia è stata possibile, come quasi sempre avviene nei processi di costruzione. Riconsiderando la vicenda retrospettivamente in una visione di lunga durata appare oggi ancor più chiaro che, a dispetto dell'internazionalismo teorizzato da Lenin e dai bolscevici, l'URSS era erede dell'impero zarista, grande ,russo. Nell'assetto sovietico quest'impero non solo è sopravvissuto a lungo al crollo degli altri imperi (quello austro-ungarico, quello ottomano), ma è riuscito a raggiungere il ruolo di grande potenza bipolare. Tuttavia il suo crollo riporta alla sequenza, già vista e sperimentata nella storia europea, dell'irrompere sulla scena del nazionalismo "smembrante". Nazionalismo che è fortemente conflittuale ma che alla fine può anche naturalmente predisporsi ad una definizione di regole di sovranazionalità. Dopo un processo lungo e penoso. Il pos t'Urss è un caso, anzi un insieme di casi drammaticamente aperti la cui soluzione peserà molto sull'avvenire di tutta l'Europa. Tanto più che questa ha esercitato, pur senza alcuna politica attiva, una forte attrazione per i popoli dell'area occidentale dell'ex-URSS. Così come, invece, per altri popoli dell'impero crollato altre tendenze e preferenze cominciano ad emergere e possono prevalere. Per esempio, l'attivismo dei nuovi rapporti fra la Turchia e le aree turcofane ex-sovietiche prospetta diversi e nuovi percorsi. La storia potrà così proporre ben diverse aggregazioni fra nazioni. Bisognerebbe che l'Europa si preparasse a identificarli e a tenerne seriamente conto. Ma torniamo al punto di partenza: l'ipotesi di una nuova stagione federale. Due sono i commenti necessari: uno retrospettivo, uno prospettico. Una questione cruciale che non deve rimanere irrisolta in un sistema federale autentico, cioè capace di flessibilità, sta nelle regole della secessione. Ovvero, in altri termini, nelle procedure di auto-deter-
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minazione. Il sistema costituzionale sovietico sanciva il diritto di uscire dall'Unione ma non lo regolava. In realtà, lo riduceva ad elemento meramente simbolico, essendo l'unione realtà ritenuta irreversibile e comunque dominata politicamente e amministrativamente. Quando perciò, in risposta alla richiesta di indipendenza delle repubbliche baltiche, fu posta da Gorbaciov l'esigenza di determinare le procedure della secessione, i tempi lunghi preventivati (cinque anni) potevano sì far pensare a mere manovre dilatorie, eppure si trattava di dare effettività ad un principio rimasto meramente sulla carta. Siamo, dunque, di fronte a un èaso limite di deficit costituzionale, ma non tale da poter essere totalmente isolato come un caso a sè. In realtà, il deficit costituzionale relativamente ai rapporti sovranazionali è in Europa problema fondamentale. E il problema delle relazioni inter-europee del futuro. Veniamo così al secondo commento a proposito, 'appunto, dell'attrazione europea. Si è vista spesso nelle manifestazioni, soprattutto ucraine, la bandiera della Comunità Europea, si è sentito spesso affermare il desiderio di aggregarsi all'area occidentale dell'Europa. Si tratta di aspettative ed attese che rischiano di andare deluse, e che in ogni caso pongono difficilissimi problemi di tenuta dei meccanismi istituzionali della Comunità Europea. Il problema dell'allargamento è all'orizzonte, non può essere trascurato. Ma i meccanismi istituzionali della Comunità, anche dopo Maastricht, non reggerebbero, così come sono, l'allargamento. Anche l'attrazione europea porta dunque al tema del deficit costituzionale, e dell'ipotesi di una nuova stagione federale tutta da costruire. Il lavoro da fare è veramente molto.
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L'Istituzione Governo: una riforma disapplicata di fronte all'integrazione europea Nel 1977 un gruppo di studiosi che in parte si ritrovano oggi sulle pagine di questo dossier rilanciavano il tema dell'applicazione dell'art. 95 della Costituzione con un libro collettaneo sull'Istituzione Governo (Edizioni Comunità). Uscita la legge n. 40011988 dal titolo "Disciplina della attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri", gran parte degli stessi si sono ritrovati a valutare l'applicazione di questa legge lungamente attesa (si veda la Notizia del Gruppo di Studio pubblicata sul numero 79180). Nel frattempo l'evoluzione dell'ordinamento comunitario pone all'istituzione Governo un nuovo quadro di riferimento. Gli accordi di Maastricht, che ora passano alle ratifiche dei Parlamenti nazionali, sono il punto di riferimento obbligato per qualsiasi discorso di politica economica. Ma sono anche un riferimento obbligato per la politica delle istituzioni. Non sappiamo quanto ciò risulti chiaro, ma è così. Senza entrare in una dettagliata disamina degli 11
accordi basta richiamare, come emblematico e significativo, l'art. 3 del "Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi": esso afferma che ai fini della procedura i governi degli Stati membri "sono responsabili di disavanzi della pubblica amministrazione". Da questa norma si ricavano due indicazioni forti. Una è che il bilancio sia, o torni ad essere, del Governo e non del Parlamento e nemmeno del Governo e del Parlamento. La sorveglianza multilaterale dell'Unione Economica e Monetaria è una sorveglianza fra governi. Questi, dunque, dovendo essere fra loro eguali tendono ad avere eguale fisionomia in termini di potere di governo dell'economia. Nella realtà, la gran parte dei governi dei paesi membri hanno ruolo forte nella politica di bilancio. Il bilancio è del governo. Ciò vuoI dire che il disegno di legge costituzionale, già presentato dal Governo Andreotti, per la revisione dell'art. 81 della Costituzione trova negli accordi di Maastricht una ragione di più. Non si tratta solo di rinforzare sul piano costituzionale le norme di copertura finanziaria delle leggi quanto - ed è questo il punto cruciale - riassegnare al Governo un forte signoraggio sul bilancio. Ciò significa che la politica di bilancio non può essere cogestita con il Parlamento: il che riguarda, oggi, non tanto l'opposizione, dopo che il voto palese ha limitato gli spazi di questo tipo di cogestione, quanto la maggioranza alla quale deve essere sottratta la seconda istanza di contrattazione in Parlamento che di fatto risulta la più efficace per gli interessi organizzati. La politica di bilancio è contrattata e definita solo dal Governo. L'indicazione di Maastricht può, beninteso, essere oggetto di altra e diversa valutazione. Qualcuno può vedere negli accordi un'ulteriore rafforzamento della logica intergovernativa della Comunità Europea ed un nuovo episodio dell"eccesso di delega ai governi". Ma questa è un'altra questione. Grave, certamente, ma diversa. Attiene alla problematica da non trascurare, perché non risolta a Maastricht, del deficit democratico della comunità. La seconda indicazione trae origine dalla stessa dizione letterale dell'articolo innanzi citato e riguarda la politica dell'amministrazio12
ne pubblica, quella del giorno per giorno. È ormai ampiamente dimostrato che nell'esperienza di molti paesi la politica di contenimento della spesa ha avuto successo solo se è stata insieme politica di riqualificazione della spesa. E questa è impossibile senza decentralizzazione di responsabilità e senza comportamenti amministrativi fondati su una seria valutazione dei costi e su una seria identificazione dei risultati da raggiungere in tempi dati. Viene a questo proposito in evidenza la legge 362 del 1988 già innanzi citata. Questa legge prevede un'innovazione di notevole portata: per ciascuna legge di spesa occorre non soltanto una migliore e più severa determinazione delle coperture finanziarie in termini pluriennali (la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 384 del 1 991 ha pienamente suffragato quest'obbligo) ma anche una preventiva valutazione dei costi della legge. Quest'obbligo è sorto dopo un lungo dibattito intorno all'idea di un "notaio della spesa" che, prima delle decisioni parlamentari, dovesse attestare l'entità dell'onere sostanziale che la finanza pubblica andrebbe ad assumere con ogni legge. L'idea del "notaio" era, in realtà, un po' astratta. L'obbligo imposto all'Esecutivo, e da verificare poi in Parlamento anche attraverso appositi servizi tecnici (i Servizi Bilancio dello Stato costituiti sia al Senato che alla Camera dei Deputati), è invece la giusta risposta normativa. Ma questo è un esempio fra i maggiori di quel che significa una riforma entro l'amministrazione: la legge non può essere altro che un punto di partenza. Si può ben dire che l'applicazione dell'obbligo è stata finora insoddisfacente, che, molte volte si è ceduto alla tentazione ricorrente di ridurre l'obbligo e mera e insignificante formalità. Ma biogna anche dire che calcolare i costi di una legge non è operazione semplice. Al momento mancano tutti, o quasi, i presupposti tecnici e scientifici: un'adeguata "cultura delle cifre", le banche dati, le tecniche di simulazione e così via. Il lavoro che si sta facendo presso la équipes del Parlamento, della Corte dei conti (chiamata a fare quadrimestrali resoconti critici al Parlamento sulle coperture e sulle tecniche di valutazione dei costi) e della Ragioneria Generale dello Stato è un 13
buon lavoro. Ma la prova del successo della nuova normativa la si può cogliere solo nell'amministrazione attiva, nei centri reali di spesa. E qui siamo ben lontani da poter coglierla. C'è ben consolidata l'idea che la questione finanziaria (come coprire la spesa) sia solo del Tesoro e che dunque anche l'obbligo della valutazione dei costi faccia parte' degli "annessi e connessi" della questione finanziaria. Né il Tesoro sembra far molto - si direbbe con spiccata vocazione alla sconfitta - per contrastare questa idea. Gli accordi di Maastricht, nel richiamare la responsabilità dei governi per i disavanzi della pubblica amministrazione, vanno intesi anche come una spinta verso la realizzazione, in tutta la sua portata, di un'azione amministrativa consapevole e responsabile dei costi e mirata ai risultati. Un altro, e non ultimo, rilievo si può fare a proposito degli accordi sull'Unione Economica e Monetaria: essi hanno trasferito a livello comunitario la problematica del costituzionalismo monetario e finanziario di cui si è discusso anche nel nostro Paese, sia pure se con la partecipazione prevalente di economisti più che di costituzionalisti. La questione, insomma, delle regole superiori ed esterne, in materia di condotta monetaria e di politica di bilancio, per la quale è stata invocata una soluzione più rigida in Costituzione. Il passaggio al livello comunitario di questa problematica e di questa normativa pone, fra gli altri, il quesito se debba derivarne una trascrizione in termini costituzionali interni, ovvero se questa trascrizione (a parte la questione innanzi ricordata della maggiore padronanza del Governo sulla politica di bilancio) non sia, tutto sommato, superflua. In qualche modo la risposta più convincente sembra essere la seconda. Un secondo filone di ragionamenti ha direttamente per oggetto funzionalità e ruolo del Governo. E qui, in connessione a quanto fin qui segnalato, dobbiamo anche riferirci al primo dei dossiers pubblicati in questo numero. A che punto siamo con l'applicazione della legge 400 che ha riformato nel 1988 l'attività di governo e l'ordina14
mento della Presidenza del Consiglio dei Ministri? Dai primi bilanci fatti da osservatori esterni, come è la Corte dei conti nelle sue relazioni annuali al Parlamento, si trae la conclusione che per ora si è trattato semplicemente di una riorganizzazione interna della Presidenza di incerta valenza e, al più, di un riassetto "endo governativo" considerando alcuni aspetti del funzionamento del Consiglio dei Ministri (per esempio, il Consiglio di Gabinetto). Non sembra che l'attuazione della legge abbia avuto incidenze particolari sul ruolo complessivo, politico-istituzionale, del Governo. In altri termini, la scommessa di quanti - e non furono pochi - hanno lavorato intorno alla legge per un tempo forse troppo lungo (in sostanza dalla Costituzione, in pratica dagli inizi degli anni Ottanta), la scommessa cioè che attraverso una migliore organizzazione dèl Governo come Consiglio dei Ministri e come Presidenza del Consiglio si potessero limitare effetti e danni della logica, portata spesso all'estremo, del "patto di coalizione" come nonna sovrana di governo, non può certo dirsi una scommessa vinta. La legge 400 ha avuto la.sorte di essere applicata nei primi anni da chi forse non ci credeva molto. In sostanza, quel che in un libro del 1 977 sull'Istituzione Governo (che aveva contribuito a rilanciare l'iniziativa legislativa in materia), alcuni studiosi chiamarono la direzione plurima dissociata, è fenomeno che in ampia misura continua, magari con evidenza maggiore nella condotta della stessa politica legislativa riguardante gli assetti della Pubblica Amministrazione centrale. L'episodio più evidente è stato il fallimento della delega legislativa per la riforma Ma dei comitati interministeriali, scaduta inutilmente a fine 1989. si potrebbero ancora citare le vicende dei dipartimenti cosiddetti senza portafoglio.
Il cuore del problema riguardo alle istituzioni dell'economia è nell'assetto dei ministeri finanziari. Periodicamente c'è dibattito a questo riguardo: si discute se sia giusto o sbagliato avere tre ministri invece che uno, il cosiddetto Ministro dell'economia, se sia giusto avere amministrazioni del tutto distinte (in presenza o non di un solo mi15
nistro) e quali tipi di amministrazione. Di fatto, l'assestamento degli apparati di questi ministeri continua a muoversi in assoluta e totale autonomia, tant'è che negli ultimi tempi abbiamo potuto leggere sulla Gazzetta Ufficiale quella che almeno apparentemente, per certi aspetti di apparato, possiamo chiamare la riforma maxi del Ministero delle Finanze e quella che, per entità di norme, sembrerebbe la riforma mini della Direzione Generale del Tesoro. Una riforma già da alcuni anni necessaria dopo che le erano state tolte le Direzioni Provinciali, cioè uffici con funzioni meramente amministrative di scarso rilievo sul piano delle attribuzioni principali del Tesoro, fra le quali soprattutto la gestione del debito pubblico. Per non dire del Ministero del Bilancio che ha vissuto una vicenda di grande flessibilità: alla fine degli anni '70 ci si chiedeva, se "mantenerlo non mantenerlo, a che serve o non serve"; poi è stata scoperta la vocazione di un ministero degli investimenti; oggi è una presenza istituzionale "tuttofare"; nei prossimi tempi diventerà la sede politicoistituzionale delle privatizzazioni. In questo ambito di considerazioni va richiamato infine il tema della funzione e della fisionomia della Ragioneria Generale dello Stato, per la quale rimane irrisolto il quesito se sia mero organismo strumentale dell'Esecutivo, mero organo d'apparato, o debba essere, come pure certe funzioni che ad essa sono state assegnate (la relazione di cassa, per esempio) sembrava che prefigurassero, una sorta di "authority", con un profilo di autonomia pif2 spiccato. L'ultima questione da segnalare in tema di istituzioni centrali di governo dell'economia è quella delle partecipazioni industriali dello Stato che pure residueranno - ed è da presumere copiose - dopo le privatizzazioni. La questione è rimasta nell'ombra. Si parla della chiusura del Ministero delle Partecipazioni Statali, non è chiaro il ruolo del Tesoro al di là di vendere sul mercato le partecipazioni azionarie degli enti trasformati in società per azioni. D'altra parte, non è immaginabile che lo Stato sia condotto a fare una mera politica di cassettista. CI
È singolare che nel dibattito sulle privatizzaz ioni nessun accenno sia stato fatto alla originaria costruzione del sistema delle partecipazioni statali in Italia, intellettualmente e politicamente interessante se non altro perché uomini come Vanoni e La Malfa vi hanno avuto gran parte. Malgrado alcune vaghezze ed ambiguità (per esempio, sulla valenza del principio di economicità), il disegno originario era volto a creare un'ampio spazio di autonomia per la gestione d'impresa fuori dalle regole della politica e dei comportamenti burocratici. C'è poi stata una lunga storia di progressivi stravolgimenti: l'egemonia sulla politica di alcuni "imprenditori di Stato", una reazione in termini di "amminis trativizzaz ione" dei comportamenti imprenditoriali attraverso il regime delle autorizzazioni ministeriali, il dilagare del sistema spartitorio nell'assegnazione delle cariche. Le privatizzaz ioni vanno anche intese come mezzo di riequilibrio fra funzioni politiche e funzioni imprenditoriali. Ma questo riequilibrio ha anche bisogno di adeguate risposte istituzionali entro il sistema dell 'Esecutivo. La linea di riflessione qui proposta non può tuttavia fermarsi al livello del Governo. Lo stato dell'evoluzione istituzionale nel nostro paese e soprattutto le prospettive dell'ordinamento comunitario portano in primo piano la questione dei rapporti fra il livello di governo nazionale e i vari livelli di governo territoriale. Centrale è il tema dei rapporti Stato-Regioni, ed altrettanto lo è quello dei rapporti Regioni-Enti locali. La questione regionale che con forza oggi è di nuovo nell'agenda politica segue ad una fase di particolare immobilismo. Se si considera, per esempio, la problematica dei rapporti finanziari Stato-Regioni occorre osservare che la legge 158 del 1990 ridisegna la finanza regionale senza grandi innovazioni nei confronti dell'impianto iniziale una commissione di studio del 1970. E ciò quando, già nel 1982, governativa aveva fatto alcuni notevoli passi avanti. Insomma nove anni per una assai modesta ripetizione di modelli già esistenti con piccoli aggiustamenti. Il tutto all'insegna di una politica di controllocontenimento dei trasferimenti che s'inserisce in un quadro evolutivo 17
della finanza pubblica non certo soddisfacente, e di cui nessuno può menar vanto. A fronte di ciò c'è un aspetto positivo da rilevare: l'attivismo della Conferenza Stato-Regioni istituzionalizzata dalla legge 400 del 1988. Si tratta di una sede istituzionale in crescendo che sembra realizzare un efficace collegamento centro-regioni. Nelle premesse di questo contributo si era assunto un punto di riferimento nel quesito: quali rapporti debbono essere instaurati tra le istituzioni (e qui si intendono soprattutto quelle di governo) e le forze sociali? Il tema non è di piccolo profilo. Da noi è mancato, ma la realtà economica europea ce lo riproporrà, quel confronto tra pluralismo e corporativismo in economia, fra "modello. renano" (come l'ha chiamato Michel Albert) e modello capitalistico americano o più in generale anglosassone, che in fondo è un confronto che molto riguarda il funzionamento delle istituzioni di governo dell'economia: se è vero, come è vero, che il modello renano o come usano chiamarlo i politologi anglosassoni, il modello corporatista altro non è che un articolato e proceduralizzato processo di decisioni cui partecipano anche, da dentro e non da fuori, i sindacati. Il tema è stato da noi esorcizzato, forse anche per non destare il fantasma di Bottai. La riflessione su questi temi è mancata. Né è possibile avviarla sulla base di assonanze e ibridazioni varie. C'è, tuttavia, attraverso l'Europa questa grossa questione di organizzazione del sistema economico che va dalla rinnovata ricerca di uno statuto giuridico uniforme delle società allo itatuto "sociale" della grande impresa, al ruolo delle organizzazioni del non profitto, ai meccanismi di concertazione macro-economica. In quest'ordine di idee ci si può chiedere se, per esempio, la mancata riforma dei comitati interministeriali non consenta di riprendere il problema sotto l'aspetto della predisposizione di alcuni tavoli o, meglio, di alcune procedure di concertazione a livello di Esecutivo immaginando, per esempio, un coinvolgimento in tali procedure dello stesso CNEL. La pro posta è, per ora, di ragionarne. -
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1. L'organizzazione dell'Istituzione Governo
Organizzazione interna e rapporti funzionali esterni dopo la legge 400 del 1988 di Valerio Onicla
Dal punto di vista metodologico, credo sia utile partire da un dato concreto: la legge 400 rappresenta il frutto di uno dei pochi processi di riforma giunti a buon esito negli ultimi anni. Sotto questo profilo essa merita quindi una certa attenzione; essa è giunta, sia pure faticosamente, al termine del suo iter proprio' perché ormai da molti anni va avanti la stagione dell'attenzione ai problemi del Governo, in correlazione con l'evoluzione del sistema politico che è passato da una fase di maggiore favore per assetti consociativi ad una orientata verso sistemi di più netta contrapposizione tra maggioranza ed opposizione. Ora, quando si parla di processi di riforma che incidono sulle massime istituzioni, sulle istituzioni di vertice, specialmente su quelle di indirizzo politico, sono sempre due i versanti che si devono tenere in considerazione: le decisioni, i procedimenti che incidono sulla singola istituzione e tutto ciò che attiene invece ai rapporti tra istituzioni. Nel caso del Governo vanno considerati da un lato i problemi dell'organizzazione interna e del funzionamento dell'apparato governativo e, dall'altro, es-
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senzialmente il problema dei rapporti fra Governo e Parlamento, il che vuol dire rapporti fra Governo, maggioranza e opposizioni parlamentari. La legge 400 è nata da una visione che teneva presenti entrambi questi versanti: assicurare una migliore organizzazione e un migliore funzionamento interno all'istituzione governativa da un lato, assicurare più corretti rapporti interistituzionali, dall'altro. Non c'è dubbio, però, che, almeno in termini di effetti pratici, di disciplina specifica, la legge 400 va a incidere prevalentemente sul primo versante, cioè su quello dell'organizzazione endogovernativa. E vero che c'è nella legge una parte, quella dedicata alla potestà normativa del Governo, che ha prevalentemente di mira il secondo versante; però l'impianto della legge è prevalentemente dedicato alla organizzazione e al funzionamento dell'apparato governativo.
LA RAZIONALIZZAZIONE LEGISLATIVA DEL SISTEMA DELLE FONTI
La disciplina delle fonti nella legge 400,
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infatti, è indubbiamente rispondente ad un disegno di razionilizzazione, ma non mostra l'ambizione di incidere a fondo sul ruolo e sulla posizione che queste fonti occupano nel sistema istituzionale e quindi di condurre a un riequilibrio soprattutto nell'ambito delle fonti primarie, fra fonti governative e fonti parlamentari. I temi, cui queste disposizioni della legge sono dedicate, sono tutto sommato marginali, anche se costituiscono per lo più utili perfezionamenti o esplicite sistemazioni di aspetti di questa materia che lo esigevano. Per quanto riguarda la delega legislativa, per esempio, è stato definito il termine entro il quale deve essere trasmesso il testo del decreto al'Presidente della Repubblica per consentire utilmente un suo controllo prima dell'emanazione, e introdotta la previsione di un procedimento particolare per le deleghe cosiddette lunghe, con pareri obbligatori. Per quanto riguarda la decretazione d'urgenza, si è introdotto l'obbligo della motivazione della circostanza dell'urgenza, la esclusione esplicita di alcune materie, il divieto di reiterazione dei decreti legge respinti, la statuizione secondo la quale i decreti legge debbono avere un contenuto, specifico, omogeneo e corrispondente al titolo, l'obbligo della pubblicazione dell'annuncio della mancata conversione. Si tratta di aspetti utili, ma indubbiamente marginali: basti notare, a questo proposito, come non si sia affrontato il tema della reiterazione del decreto legge 20
decaduto per decorso del termine e quindi come non si sia affrontato questo nodo, l'abuso del sistema della decretazione d'urgenza, quale strumento ordinario di legislazione. Più in generale, è mancato ogni sforzo di tentare di disciplinare e precisare le ipotesi nelle quali il Governo può fare ricorso a questo strumento. Potenzialmente, la disciplina dei regolamenti aveva maggiore possibilità di proporsi come una disciplina atta ad incidere sul rapporto Governo-Parlamento e quindi sui rapporti maggioranza-opposizione; e qui, in effetti, la legge 400 rivela uno sforzo di sistemazione organica. Per la prima volta dopo sessant'anni sono stati affrontati sia gli aspetti di tipo sostanziale, cioè i casi, i tipi di regolamento emanati dal Governo e il rapporto legge-regolamento, sia gli aspetti procedurali quali quelli della formazione dei regolamenti e dei rapporti, anche gerarchici, fra i vari tipi di regolamento. Indubbiamente, questa parte della legge esprime, in maniera molto aperta e tutto sommato coerente, lo sforzo di spostare significativamente i rapporti fra legge e regolamento, sull onda dell opinione largamente diffusa secondo la quale un eccesso di espansione dell'area della legge e quindi dell'area di presenza parlamentare indùce una maggiore frammentazione del sistema normativo, un più basso livello di tecnicità, una maggiore difficoltà di còordinamento normativo, di quanto, non possa avvenire in un sistema in cui l'area della legge è contenuta ai temi, ai principi e agli aspetti di
maggiore rilievo in ordine alla composizione degli interessi presenti nella società.
LA DISAPPUcAZIONE NELlA PlASSl iL POTERE REGOlAMENTARE
Naturalmente, sono aspetti della disciplina indubbiamente discutibili ma non è questo il punto su cui è opportuno soffermarsi; piuttosto, appare importante notare che il disegno è ancora oggi sostanzialmente privo di attuazione e di applicazione. Si manifesta con ciò, al massimo grado, il fenomeno di una legge che non è mento di integrazione e di attuazione,ancora diritto; abbiamo una nuova serie di regole sulla potestà regolamentare, ma non siamo ancora in grado di dire se funzionerà e come funzionerà, perché l'applicazione non è ancora incominciata. Nella interessantissima comunicazione, che Ugo de Siervo ha fatto al Convegno di Napoli della associazione dei costituzionalisti sul tema delle fonti dopo l'entrata in vigore della legge 400, risulta come siano molto pochi, in termini relativi, gli atti regolamentari che rispondono esattamente alla tipologia e ai modelli disegnati nella legge 400; di fatto la prassi ha continuato largamente a camminare per la sua strada. Non solo, ma alcuni degli aspetti più significativi, più innovativi della disciplinanon hanno avuto nemmeno un principio di applicazione. Tra essi il più rilevante appare il regola
cioè il regolamento destinato non soio a sviluppare una disciplina legislativa, già interamente dettagliata, ma a trattare, al di sotto di una disciplina quadro, di una disciplina di principio la sostanza della regolamentazione. Accanto a questa, vi è poi la previsione del processo di delegificazione che, in fondo, non è che la riproposizione sotto un altro livello dello stesso tema.
LA DELEGIFICAZIONE
Anche sulla delegificazione l'attuazione non è nemmeno iniziata e tutto questo non è privo di significato perché assistiamo alla incapacità storica del nostro legislatore di produrre normative di principio. La verifica più nota di questo fenomeno la si è avuta nella vicenda dei rapporti fra legislazione statale e legislazione regionale: quando la legislazione quadro ha iniziato a vedere la luce, quando sono state effettivamente varate le molte leggi quadro nelle materie di competenza regionale, questo concetto di normativa di principio è apparso quasi sempre del tutto sfuggente. E possibile affermare che nella nostra produzione normativa non esistono, pratimente, leggi che contengano norme di principio esplicitamente individuate come tali e distinte dalle altre norme, cioè dalle disposizioni specifiche o di dettaglio, anche quando vi era l'obbligo, se non costituzionale, di attuazione costituzionale, di fare questa distinzione. 21
Si ricordi, ad esempio, I'art. 6 del d.P.R. 616 del 1977, in cui nelle materie di attuazione comunitaria si prevedeva proprio che le leggi di ricezione delle direttive dovessero individuare distintamente le norme di principio, vincolanti per il legislatore regionale, e le norme di dettaglio a carattere cedevole o suppletivo, che il legislatore statale era autòrizzato a dettare per l'attuazione delle direttive, in attesa della loro sostituzione con la legislazione regionale. Ebbene, mai una volta il legislatore statale di attuazione delle direttive comunitarie ha seguito questo modello, tant'è che la questione, portata alla Corte Costituzionale, ha avuto la nota risposta secondo cui il legislatore statale può anche non distinguere i principi dal dettaglio, fermo restando che il vincolo costituzionale per il legislatore regionale si riferisce soio ai principi e si dovrà andare caso per caso ad individuare, nell'ambito della legge statale di ricezione e poi della legge statale dettata in materia regionale, che cosa sia principio e che cosa sia dettaglio. Lo stesso ragionamento la Corte lo ha fatto ammettendo la legislazione statale di dettaglio nelle materie di competenza regionale, anche al di fuori dell'attuazione comunitaria: questo cedimento alla prassi è forse la migliore dimostrazione del fatto che il legislatore ha rivelato una sua pressoché totale incapacità di formulare norme di principio. Dovremmo interrogarci sulle ragioni di tutto questo: abbiamo leggi statali sempre dettagliate e specifiche; quando ci si trova in pre22
senza di enunciazioni che vorrebbero essere o si autodefiniscono di principio, si tratta, in realtà, quasi sempre di affermazioni prive di contenuto normativo, enunciazioni politiche, proclami, mentre la parte dispositiva, normativa è formata sempre da disposizioni specifiche. Dal punto di vista tecnico basterebbe mettere a confronto le nostre leggi quadro, ad esempio, con le direttive CEE che sono notoriamente atti che pongono degli obblighi di risultato e che quindi tendenzialmente contengono solo principi. E vero che anche le direttive comunitarie spesso hanno un contenuto dettagliato, tant'è che, come è noto, vi sono delle direttive autobbligative, di immediata applicabilità, così come i regolamenti comunitari, però è anche vero che, almeno a livello di tecnica normativa, le direttive, in alcuni casi, dimostrano come si dovrebbero o si potrebbero fare le norme di principio. Ancora, sempre per restare a questa mancata applicazione del modello della legge 400, bisogna accennare al fatto che laddove essà sembrava configurare il regolamento governativo tipico come ipotesi normale e i regolamenti ministeriali come ipotesi eccezionali, in realtà, la prassi ha dimostrato che il fenomeno dei regolamenti ministeriali o addirittura di atti normativi non riconducibili a nessuno dei tipi previsti dalla legge 400 e intesi forse talvolta a sfuggire anche ai meccanismi procedurali - parere del Consiglio di Stato e controllo della Corte dei Conti - non è venuto meno, non è diminuito.
Foì'm LEOISLX1VE E RAPPORTI INTERISTITUZIONAU Il tema delle fonti è, dunque, quello mediante il quale la legge 400 avrebbe potuto potenzialmente incidere sui rapporti interistituzionali, ma la mancata attuazione e le difficoltà derivanti da ragioni storiche mettono in dubbio le capacità riformatrice che questa legge potrà davvero esplicare in materia. Invece, sul punto della organizzazione del funzionamento del Governo, cioè sul versante interno, non c'è dubbio che la legge presenta non solo un livello di attuazione molto più elevato, tra l'altro perché è stata introdotta tutta una serie di atti applicativi, ma anche una maggiore capacità di immediata incidenza istituzionale. Qui la legge potrebbe davvero dare in termini brevi i suoi frutti. Non c'è bisogno che venga richiamato nel dettaglio qual'è il disegno a cui si ispira la legge; il punto chiave, il punto di forza è il rafibrzamento della Presidenza del Consiglio, intesa nei suoi due aspetti, sia come figura istituzionale all'interno del Governo (bisogna -ricordare quanto attiene ai rapporti tra Presidente del Consiglio e Ministri, fra Presidenza del Consiglio e apparati ministeriali, il riordino dei poteri del Presidente del Consiglio, quello dei Comitati interministeriali, la sanzione legislativa del Consiglio di Gabinetto), sia come apparato servente del Presidente del Consiglio, quale figura istituzionale politica in grado di promuovere e coordinare l'attività degli apparati amministrativi ministeriali, assicurando l'unità di indirizzo ammini-
strativo e non solo politico di cui parla l'art. 95 della Costituzione. In connessione con questo punto chiave, vi è poi la ripresa, esplicita, del disegno costituzionale che tendeva ad un equilibrio fra il principio monocratico e quello collegiale nel funzionamento e nell'attività del Governo. Come è noto, storicamente, dalla previsione costituzionale che tendeva ad una certa accentuazione del principio monocratico, si è passati ad una esperienza nella quale questo principio era sostanzialmente stemperato, se non addirittura venuto meno. Si era quasi tornati alla tradizione pre-fascista, in cui la forza del Presidente del Consiglio stava nella sua autorevolezza politica e non nei suoi poteri formali e nella forza del suo apparato. Ora, con la legge 400 si tende a realizzare una situazione nettamente spostata verso una attuazione dell'equilibrio previsto dall'art. 95 della Costituzione fra principio monocratico e principio collegiale. Un altro aspetto da sottolineare di questa disciplina è la creazione o il consolidamento di una serie di strutture e procedure governative che dovrebbero essere intese ad assicurare un buon livello tecnico dell'attività di governo. Questo è uno degli aspetti tradizionalmente carenti un po' in tutte le istituzioni ed in particolare in quelle governative, per il quale, anche laddove si manifesti una volontà politica chiara, omogenea e significativa, spesso la sua traduzione sul piano tecnico risulta insufficiente. Cosi, ad esempio, l'emanazione di atti regolamentari o pararegolamentari con23
fezionati in organismi ministeriali spesso privi di competenza nella redazione normativa dovrebbe tendenzialmente venir meno con la attuazione della legge 400, perché la tipizzazione degli atti regolamentari, l'introduzione del parere obbligatorio del Consiglio di Stato e del controllo della Corte dei Conti su tutti i regolamenti, anche quelli ministeriali, dovrebbe condurre ad un migliore livello qualitativo e tecnico di questi atti. In realtà, però, questi obiettivi, molto importanti, di miglioramento della qualità, anche tecnica oltre che istituzionale dell'attività di Governo, rischiano di restare elusi o di restare in ombra perché la prassi dei rapporti istituzionali tende a muoversi su di un altro piano. Il punto è che le regole giuridiche e organizzative proprie dell'attività di Governo, e quindi anche le regole contenute nella legge 400, hanno una logica intesa ad assicurare efficienza e coordinamento nell'ambito di una istituzione che per sua natura dovrebbe essere espressione di un indi- rizzo politico univoco ed omogeneo ; non sono, cioè, regole dirette principalmente a governare conflitti, a disciplinare una dialettica, come accade per quelle parlamentari, ma piuttosto sono intese a coordinare l'attuazione di un indirizzo che si suppone univocamente determinato e perseguito dalla istituzione e dalla compagine governativa con la sua maggioranza. Le regole di funzionamento dell'istituzione governativa per loro natura, per loro logica di fondo tendono non a governare conflitti, ma a consentire una coordinata, efficiente, tecnica24
mente valida attuazione di un indirizzo che si suppone di dover a monte esservi ed essere univoco ed omogeneo. Ora è ben noto, invece, che l'attuale congiuntura istituzionale e politica è caratterizzata proprio dal fatto che manca questo presupposto; l'assenza di compattezza politica del Governo e della maggioranza, la crescente conflittualità interna alla maggioranza, l'aspetto più caratteristico della fase odierna dell'evoluzione politico—istituzionale nel nostro Paese; fase che non sembra tanto caratterizzata dallo svilupparsi delle modalità dei rapporti fra maggioranza e opposizione (quindi, consociativismo piuttosto che contrapposizione), quanto dalla crescita esasperata di forme di dialettica, di dissenso, di dissociazione, di vera e propria lotta politica all'interno della maggioranza e quindi all'inteno dell'Istituzione che la maggioranza esprime e cioè del Governo. Questa fase è iniziata da molto tempo nel nostro Paese ma si è in qualche modo anche ufficializzata nel momento in cui sono nati i governi nei quali le componenti politiche minori hanno rivendicato ufficialmente la cosiddetta "pari dignità". Si è sostenuto che la presenza di determinate forze politiche nell'ambito della maggioranza del Governo ha lo scopo di lottare contro altre componenti di essa e questo appare il modo più efficace di contrastare alcuni indirizzi politici, più di quello di realizzare forme di opposizione parlamentare. Contro questo tipo di fenomeno, contro le dissociazioni interne alla maggioranza divenute quasi regola accettata di funzio-
namento dell'istituzione governativa, ben poco possono regole istituzionali, giuridiche, come quelle della legge 400. Questo spiega perché le regole tecnicoistituzionali tendano ad essere sommerse dallo scontro politico, dimenticate, rese sostanzialmente inservibili; perché, in realtà, quando il fuoco dell'attenzione delle forze politiche è sullo scontro interno alla maggioranza, non vi sono e non vi possono essere regole valide stabilmente e per tutti, ma vi sono solo interessi in lotta fra di loro che cercano di sfruttare, di strumentalizzare, ciascuno dalla propria parte, le regole o le forzature delle regole. Quando, ad esempio, il Governo va a difendere in Parlamento un décreto—leg' ge il cui contenuto è evidentemente non omogeneo, non univoco e forse non corrispondente al titolo e lo difende con la tesi, chiaramente forzata, dell'omogeneità dei fini anziché della materia e quando in Parlamento l'obiezione tecnica, l'obiezione istituzionale viene sollevata, ma immediatamente si trasforma in una occasione di scontro politico, per cui il problema non è se quel decreto-.legge fosse omogeneo o no, se il Governo avesse ben fatto mettendo insieme quegli oggetti nello stesso decreto—legge o no, ma il problema è se la sinistra democristiana combatte il Governo o no, perché il Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato ha osato sollevare obiezione, appare chiaro come il problema delle regole istituzionali sia praticamente messo in ombra, così che nessuno gli attribuirà
più l'importanza che dovrebbe avere. Per far un esempio più generale, il fenomeno dell'abuso dei decreti—legge, della loro reiterazione è uno di quei fenomeni che hanno una grande capacità di creare guasti istituzionali, ma che ormai non può più essere ricondotto alle cosiddette lentezze dei procedimenti parlamentari. Esso appare piuttosto il frutto dell'interesse di troppi protagonisti politici a "baipassare" le varie sedi di dialettica esterna e interna alla maggioranza, imponendo fatti non compiuto ma semicompiuti, quali sono i decreti—legge in attesa di conversione, reiterabili all'infinito. La risposta a questi fenomeni di scollamento interni alla maggioranza di fatto tende a manifestarsi con processi di ulteriore centralizzazione decisionale extra istituzionali. Invece di usare gli strumenti istituzionali per venire a corrette decisioni, si usano strumenti strettamente politici estranei al circuito istituzionale (trattative interpartitiche), o anche strumenti istituzionali, come la questione di fiducia, che sono, oltre certi limiti, il segnale, la spia della prevaricazione della politica sul sistema delle regole istituzionali. I problemi dei rapporti politici ed in particolare dei rapporti politici all'interno della maggioranza diventano la condizione di tutto. Si fanno le scelte non in base a convergenze di consenso reale o a mediazioni reali fra posizioni difformi, ma spesso in nome dell'interesse supremo" di salvare una coalizione irrimediabilmente divisa al suo interno, i cui protagonisti usano in maniera del tutto spregiudicata dei 25
loro poteri di coalizione. Si cercano, cioè, compromessi di vertice che vengono imposti, in nome di ragioni di partito e dell'esigenza di salvare la coalizione di Governo, a più o meno recalcitranti componenti parlamentari della maggioranza, cosicché le scelte so-
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no in realtà, alla fine, frutto non del formarsi di vere maggioranze, ma solo del prevalere di questi interessi di schieramento. Da questa degenerazione non sarà certo la legge 400 a salvarsi, ma forse soltanto una riforma elettorale significativa.
L' Istituzione Governo e la "disapp1icaione" della legge 400 di Andrea Manzella
A me pare che la legge 400 ci sia stata offerta da Sergio Ristuccia come la madeleine di Proust: per dipanare il filo del tempo che è passato in questi tredici anni, dal primo seminario sulla Istituzione Governo della Fondazione Olivetti. Allora eravamo diversi: nel senso che era tutto diverso intorno a noi. Salvo forse una sola cosa: c'era lo stesso Presidente del Consiglio. Allora parlavamo di Governo, nella stagione che si diceva della centralità del Parlamento, proprio perché avevamo in fondo la coscienza che il periodo, del compromesso storico, poi cosi denigrato, aveva portato in effetti ad un risultato di straordinario interesse costituzionale, cioè alla maturazione delle condizioni perché la convenzione ad escludere fosse definitivamente sepolta. E quindi c'era tutto l'interesse a vedere con quali strumenti quella che era stata una opposizione "esclusa" avrebbe potuto essere associata al governo. Allora non pòtevamo sapere che nel '79 ci sarebbe stato il fatale errore di Berlinguer che, rifiutando il tentativo di formula consociativa alla direzione del Governo che gli era stata offerta da Ugo La Malfa, avrebbe decretato, questa volta si, una specie di autoesclusione. Sarebbe cominciata dunque, a quel punto quasi
come una formula necessitata, la stagione del pentapartito, stagione che, qualcuno ha scritto, avrebbe visto la formazione di una sua "costituzione esterna". Può darsi. Accettiamo questa formula. Ma esterna a che? Non certo esterna allo sviluppo della nostra Costituzione; semmai esterna a quella che era stata la prassi politica distorsiva fino a quel momento. Infatti, quali sono i punti più significativi di questa "costituzione esterna", di questo programma istituzionale del pentapartito?
L'ISruuzloNE
Goviru.o
E lA SUA NATURA PARLA-
MENTARE
Il primo è stato sempre più l'idea dell'Istituzione Governo come istituzione parlamentare, cioè la riscoperta della faccia parlamentare del Governo. Ricordo solo alcuni fatti significativi. Il decalogo istituzionale di Spadolini del 1981 rompeva un tabù: quello che il programma di governo non dovesse mai parlare di regolamenti parlamentari. Altri tabù saranno infranti nella esperienza Craxi: basta ricordare le 150 votazioni negative a scrutinio segreto, che Craxi considerò assolutamente inefficaci, non dico per provocare una crisi, ma anche solo per verifiche interne alla maggio27
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ranza. Vi è poi la spinta che in quei quattro anni di guida socialista venne data per continuare la riforma, novellistica, che durerà dal 1981 fino ad oggi, dei regolamenti parlamentari in senso antiostruzionistico e quindi nel senso della restaurazione del principio di maggioranza in Parlamento. La "parlamentarizzazione" del Governo continua con De Mita, fino ad arrivare alla posizione di una vera e propria questione di fiducia "extraparlamentare" sulla limitazione del voto segreto. 1112 ottobre 1988 De Mita preannunciò le sue dimissioni in caso di non passaggio della riforma. La questione di fiducia, anche se non posta in Aula, era così nota a tutto il Parlamento e su una votazione di natura assolutamente regolamentare. Il secondo dato istituzionale di questo periodo è quello della presenza dileggi ordinarie sempre più profondamente intrecciate, con un gioco ad intarsio, con i regolamenti parlamentari. Già la legge sul controllo parlamentare delle nomine pubbliche prevedeva un procedimento parlamentare parentetico, all'interno di un procedimento sostanzialmente amministrativo di nomina. Ma ora siamo di fronte a fattispecie ben più importanti quali quelle della legge 468 e della legge 362 che, regolando il procedimento della legge finanziaria e del bilancio, sono leggi con parti in bianco: esse rinviano a norme regolamentari a specchio. Nasce così la "sessione di bilancio" con la sua particolarissima procedura (merito della tenacia di pochi parlamentari e tra essi, soprattutto, di Franco Bassanini). 28
Un' altra fondamentale legge ad intarsio è la legge 400: soprattutto nella parte
in cui disciplina il potere di decretazione d'urgenza del Governo. Essa sarebbe priva di effettività se non fosse "richiamata" e trasportata in specifiche norme parlamentari. E, peculiarmente, i regolamenti parlamentari non sono più, per così dire, "unilaterali" e autosufficienti nella vecchia accezione di autonomia regolamentare del Parlamento, ma rinviano appunto a disposizioni legislative che diventano condizioni di procedibilità parlamentari. Il terzo fatto istituzionale che caratterizza questo periodo è un processo, sempre più visibile e sempre più forte, per il raggiungimento di una effettiva trasparenza nei rapporti Governo—Parlamento e Governo—opposizione. Punto capitale è, credo, la riforma delle regole di votazionè in Parlamento. Il voto palese ha avuto effetti a cascata, già visibili. Primo effetto è stata la costituzione del "governo ombra", che non so se appartenga alla "costituzione esterna" o alla "costituzione interna" al pentapartito, ma è certamente una conseguenza diretta di quel decisivo bouleversement del regime parlamentare vigente dalla Costituzione in poi. Il secondo effetto è stata la formazione di un vero e proprio status dell'opposizione. Nel regolamento del Senato della Repubblica, vi è già tutta una serie di norme che creano automatismi procedurali a disposizione dell'opposizione per tutta una serie di atti conoscitivi e di atti ispettivi. Vi è sancito così il diritto dell'opposizione
alla decisione sulla propria richiesta, se non addirittura (per certi interventi della Corte dei Conti) l'effettività e l'operatività della procedura sulla sola base dell'iniziativa di opposizione.
COSTITUZIONE IWERNA E COSTITUZIONE ESTERNA ALlA COAUZIONE DI GOVERNO
Se così stanno le cose, la cosiddetta "costituzione esterna" del pentapartito è caratterizzata da un forte processo di evoluzione del sistema relazionale Governo—Parlamento in senso maggioritarioe da una migliore trasparenza delle posizioni di Governo, maggioranza e opposizione. Ma in questi dieci anni c'è il problema endogovernativo: il problema della sistemazione, nella Istituzione Governo, di una coalizione ad elementi complessi. Essa è infatti una coalizione che si caratterizza fondamentalmente per quella convenzione politico istituzionale chiamata "patto della staffetta" o "patto di rotazione". Da quel momento, l'ordinamento di governo viene a caratterizzarsi per la presenza, direi, di due "opposizioni incorporate", oltre l'opposizione esterna. La prima è quella del partito che ha diritto all'alternanza: certus ari, incertus quando, esso ha comunque una preinvestitura e agisce come un partito che deve tutelare interessi precisi a termine. L'altra "opposizione incorporata" alla coalizione è quella dei partiti minori che sono esclusi dal patto dell'alternanza.
Non credo che in questa complessità debbano vedersi solo elementi negativi. Vi sono anche elementi positivi di governabilità. Innanzitutto, perché comunque essa assicura una certa tranquillità istituzionale alla guida del Governo, sia pure limitata nel tempo (i contrasti nasceranno semmai sul "quando"). Non ritengo che l'efficacia della convenzione di rotazione possa essere messa in dubbio dal rapido susseguirsi, in questa legislatura, di tre governi a guida democristiana: troppo evidenti sono state le cause "interne" di partito di questa crisi di stabilità. Del resto, nessuno degli altri partiti coalizzati ha rivendicato un cambio di guida. Vi è poi un'ampia possibilità di movimento per l'intero sistema: in questa situazione, infatti, l'opposizione esterna, che naturalmente non può essere un'opposizione che si dilani per futili motivi, ha la possibilità di collegarsi ora all'una ora all'altra delle due opposizioni "interne". Accanto agli elementi positivi non dimentico gli elementi negativi: primo di tutti la difficoltà di "governare il Governo". Tra Ministri che fanno parte del Consiglio di Gabinetto, Ministri capi di delegazione, Ministri capi di corrente, i Ministri peones, quelli su cui il Presidente del Consiglio può avere una piena auctoritas sono troppo pochi. Ed è invece il momento in cui il sistemapolitico chiede un forte spicco politico istituzionale al ruolo del Presidente del Consiglio ed anche un potere personale di sintesi e di messaggio politico ed un potere di 29
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esternazione internazionale. La pratica dei vertici internazionali "scopre" infatti il Presidente del Consiglio in una misura assolutamente medita rispetto al passato (il vertice annuale degli "industrializzati"; i vertici comunitari; i vertici bilaterali infracomunitari). Di qui l'attribuzione al Presidente del Consiglio di una più definita posizione istituzionale. Ma questi poteri istituzionali nuovi non dobbiamo cercarli nella legge 400. Dobbiamo piuttosto cercarli nella legge 362 sulle pocedure di bilancio. E lì che vi è una possibilità di espropriazione del potere di iniziativa legislativa dei singoli Ministri nei "fàrsi" fondamentale delle politiche dei vari Ministeri; è li il vero rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio; è lì che sorge il problema del conflitto tra Ministri settoriali, o °di spesa", come si suoi dire, e il Presidente del Consiglio in tandem coi Ministro del Tesoro o col Ministro del Bilancio. E sul potere di borsa e di programmazione settoriale, dunque, che noi vediamo formato un nucleo decisionale a favore del Presidente del Consiglio, già ricco peraltro di prassi conflittuale.
LA NATURA ORGANIZZATIVA DEW\ LEGGE 400
Quanto alla legge 400, essa non è certo una legge di ordinamento, ma è una legge di organizzazione. Per di più una legge di organizzazione tarpata dalle norme finali, nelle quali è prevista la "ruolizzazione" dell'esistente: la massa di per30
sonale che si è aggrovigliato, accatastato negli anni sulla Presidenza dei Consiglio e che ne tarpa di fatto le possibilità di moderno sviluppo. Ma la legge 400, a parte questo suo difetto di struttura, già ora, ha registrato almeno tre fallimenti, speriamo temporanei. Il primo fallimento conclamato è stato quello del riordino dei comitati interministeriali previsto dall'art. 7. C'è stata una commissione che ha elaborato un buon testo. Ma il Presidente del Consiglio non è riuscito a realizzare l'accordo sul criterio di riorganizzazione dei comitati interministeriali intorno a un nuovo CIPE. In questo nuovo CIPE, che costituiva il nucleo fondamentale, volevano infatti stare tutti i Ministri. Il secondo fallimento temporaneo è quello sul regolamento interno del Consiglio dei Ministri previsto dall'art. 4. Il vero ordinamento endogovernativo non si deve cercare nella legge, ma appunto in questo regolamento. Il Governo De Mita aveva creato una commissione, presieduta da Temistocle Martines, che aveva elaborato un buon testo. Ora, sembra che tutto sia insabbiato, perché ci sono difficoltà dei Ministri ad accettare un minimo di gerarchia, non istituzionale, ma almeno funzionale all'interno del Governo. Il terzo fallimento, sempre allo stato, è quello dell'Ufficio centrale del coordinamento legislativo. Qui si era cominciata una certa opera di strutturazione. Il Consiglio Superiore della Magistratura, derogando a tutte le regole e ai suoi
precedenti, aveva concesso una certa dotazione di magistrati, la base per svol gere i duri compiti previsti dall'articolo 23. Dobbiamo constatare che questo processo di riorganizzazione si è fermato. E il sistema delle fonti, in tutta la concretezza di cui parlava De Siervo, di cui parlava Pizzorusso, si lega a questi meccanismi di produzione e di controllo normativo. Il tentativo della legge 400 di creare un grande ufficio di coordinamento normativo e legislativo con rapporti esterni era il tentativo di superare la crisi tragica degli uffici legislativi dei singoli Ministeri. E qui, infatti, a questo punto, che è più visibile lo sfacelo delle competenze professionali nella pubblica Amministrazione in Italia. Si può ben parlare di regolamenti e di delegificazione: ma poi in questi ministeri resi deserti di competenza dalla insensata politica del pubblico impiego condotta assieme da commissioni parlamentari e sindaca-
ti specializzati, irresponsabili, chi è in grado di fare materialmente le norme? Qui il discorso ci porta sugli altipiani della legittimazione politica a decidere sugli interessi, compreso l'interesse degli impiegati dello Stato a lavorare o a non lavorare. Una legittimazione politica a prendere decisioni (sia pure arricchite dalla procedimentalizzazione degli interessi: e fu questa la frontiera aperta dai regolamenti del ?71) e a stabilire regole. E non riterrei possibili deleghe ad istituzioni diverse da quelle che sono nel sistema Governo- Parlamento. Nonostante il bellissimo canto di sirena di Mezzanotte, mi pare che si debba rimanere saldamente legati all'albero della centralità del sistema Parlamento—Governo, rivitalizzato, questo sì, da un diverso rapporto con il corpo elettorale. Ma questa è un'altra storia, accennata in vari interventi.
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Il Governo, il Parlamento di Carlo Chimenti
Il problema fondamentale per la nostra forma di governo è quello di stabilire una buona volta su quale dei due tavoli istituzionali principali i partiti debbano o vogliano giocare le loro carte più importanti, quelle decisive: se cioè sul tavolo del Parlamento o su quello del Governo. E questo, infatti, il nodo di fondo irrisolto da decenni, che affligge tuttora la nostra forma di governo: se il centro del sistema, ossia l'organo predominante, debba essere il Governo, o se viceversa centrale debba essere il Parlamento, anche se non dominante (perché dominante significherebbe regime assembleare, che nessuno vuole), ma solo in posizione tendenzialmente paritana col Governo. Nel 1971 riformando in senso - diciamo così - statunitense i regolamenti parlamentari, e lasciando il Governo a bagno maria, ossia privo del riordinamento della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri che l'articolo 95 della Costituzione voleva, si puntò sulla centralità del Parlamento. Ma non per convinzione, bensì per ragioni congiunturali, come disse giustamente a suo tempo Onida, per cui l'operazione rimase a metà strada, finendo per mostrare tutti gli inconvenienti che implicava, senza raggiungere nessuno dei risultati positivi che se ne potevano attendere. Nel 1988, al termine di una stagione ricca di riforme, conseguente a modifi32
che nei rapporti fra i partiti legate ai risultati elettorali del 1987, pare che la direzione di marcia delle riforme si sia rivelata quella opposta. Si è puntato sulla centralità del Governo, grazie alla nuova disciplina della Presidenza del Consiglio, alla drastica riduzione del voto segreto nelle due Camere (per tacere delle altre grosse modifiche regolamentari che ha fatto soltanto il Senato) e, naturalmente alle nuove procedure di bilancio contenute nella legge 362. Ma la domanda, a questo punto, è questa: si tratta di nuovo di una scelta congiunturale o questa volta si fa sul serio? Personalmente, sono portato a dubitare che si faccia sul serio fino a quando non siano modificati, da un lato, il sistema dei rapporti tra i partiti e, dall'altro, la legge elettorale, in vista dell'instaurazione in via di principio di quel regime di alternanza che costituisce il presupposto della prevalenza del Governo sul Parlamento in tutti i paesi in cui questa prevalenza si verifica. Non mi stupisce, però, che le forze politiche esitino a realizzare gli anzidetti presupposti dell'alternanza, perché, a parte il pericolo che essi comporterebbero per gli interessi di bottega dei vari partiti, che sono evidenti quanto legittimi, pare che sia anche lecito chiedersi - con La Palombara - se mutare i termini della "democrazia all'italiana" non significhi rischia-
re di andare alla ricerca di guai peggiori di quelli che conosciamo. Ad ogni modo, sul piano di quello che concretamente è avvenuto nel funzionamento del Parlamento e del Governo dall'88 ad oggi, pare effettivamente prematuro andare a cercare una risposta definitiva all'interrogativo se questa volta si fa sul serio oppure no. Tuttavia si può cominciare a prendere nota di qualche fatto più o meno significativo. Per quanto riguarda il Parlamento, noterei innanzitutto che, a distanza di un anno e mezzo circa, la Camera non ha completato le modifiche del regolamento necessarie ad assecondare la prevalenza del Governo sul Parlamento. Continuo a ritenere incredibile che la Camera non finirà per adeguarsi a quello che il Senato ha fatto contestualmente alla modifica delle modalità di voto, però sta di fatto che ancora non è così. Quanto poi alle modalità di voto, si può rilevare che, - a parte i casi (peraltro meno numerosi di prima) in cui il Governo è andato in minoranza anche a scrutinio palese - la prevalenza del voto palese ha prodotto una ripercussione imprevista, in termini di aumento dell'assenteismo e in termini di mancanze reiterate del nùmero legale. Inoltre, in parallelo, si è prodotta talora una sostituzione, anch'essa abbastanza rimarchevole, del Presidente del Consiglio ai Capigruppo di maggioranza nel richiamare all'ordine i parlamentari assenteisti, coronata sulle prime da successo e poi però non più. Relativamente al raccordo Parlamento—Governo sembra notevole che, dopo le riforme
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del 1988, le leggi finanziarie per il 1989 ed il 1990 siano andate in porto entro il termine costituzionale. Però, è anche vero che con molto ritardo il governo De Mita si è visto approvati i cosiddetti provvedimenti di accompagnamento; e che il governo Andreotti ha comunque dovuto registrare - lo ha detto Carli qualche "ammaccatura" alla finanziaria stessa. Il che induce a chiedersi, agli effetti degli equilibri fra Parlamento e Governo, se quelle ammaccature siano state il prodotto di una vera e propria trattativa (e dunque di un equilibrio non diverso dal passato, che ha avuto soltanto esiti meno disdicevoli) o invece sono state il prodotto di qualcosa di simile alle sceneggiate fra il mercante arabo (il Governo) e il turista straniero (il Parlamento), dove il mercante sa fin dall'inizio qual'è il prezzo che davvero vuole spuntare dal turista (nel qual caso l'equilibrio sarebbe nuovo). D'altra parte, a proposito di decreti legge, c e 1 episodio che ha visto il governo De Mita imporre al Senato la conversione in due giorni di un decreto, dato che la Camera si era mangiata da sola tutti gli altri cinquantotto. Qui il curioso è che i senatori di maggioranza, invece di vantarsi della loro bravura nel sostenere il Governo e del loro nuovo regolamento che tale bravura consentiva, hanno sollevato le più fiere proteste quasi che si vergognassero di quel che avevano fatto. Infine, per quanto concerne il Governo di per sè, nei suoi rapporti interni, è accaduto che il Presidente del Consiglio 33
De Mita ha dovuto assistere, senza reagire a quanto mi risulta, al fatto che un Sottosegretario (Zurlo) votasse contro un provvedimento governativo, ricevendo per di più il plauso successivo del suo Ministro anziché qualche rimbrotto; e che sempre lo stesso Presidente del Consiglio, dopo essersi indotto a richiamare i suoi Ministri ai doveri di solidarietà fissati dalla freschissima legge 400, è stato spinto, dal ripetersi di episodi di diaspora, a minacciare solennemente le proprie dimissioni qualora i Ministri pubblicamente dissenzienti dalle decisioni del Governo non sentissero essi il dovere di dimettersi. De Mita, come è noto, non ha potuto misurare gli effetti di quèsta sua iniziativa perché fu costretto, poco dopo, a sloggiare da palazzo Chigi per la dissociazione non già di singoli Ministri, ma di un intero partito. Dal canto suo, il nuovo Presidente del Consiglio Andreotti ha preso posizioni diverse da quelle ufficiali del Governo (mi riferisco all'inchiesta su Ustica), ma pòi lo ha difeso in Parlamento. Inoltre dinanzi al dilagare dell'assenteismo dei Ministri e dei Sottosegretari dalle votazioni parlamentari, non ha potuto fare a meno di intervenire invitando a dimettersi coloro che non se la sentissero di adempiere al più elementare degli obblighi di solidarietà governativa. E vedremo se questo richiamo avrà qualche risultato du-
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raturo. Oggi come oggi, insomma, la mia impressione è che gli effetti delle riforme dell'88, nella misura in cui tendevano a fare del Governo, invece del Parlamento, il centro effettivo del sistema, non sono stati esaltanti. Però è ancora troppo presto, ripeto, per dare giudizi definitivi. Quella che invece mi sembra di potere confermare, anche alla luce di quanto è accaduto dopo il 1988, è l'opinione che, siccome la debolezza fondamentale della nostra forma di governo risiede nella inesistente, o per lo meno insoddisfacente, ripartizione costituzionale del compito di governare tra Parlamento e Governo, ne viene che la speranza di superare la "confusione" consolidatasi nel corso degli anni fra i due organi appare illusoria, se non si addiviene previamente a determinare aree di prevalenza dell'uno sull'altro o dell'altro sull'uno. Senonché la predeterminazione (e la quantificazione) di queste aree è una scelta altamente politica, prima che tecnicogiuridica, per cui, temo che essa, anche se compiuta dai migliori ingegneri costituzionali, sia destinata a dare risultati deludenti finché non poggerà su una preventiva normalizzazione dei rapporti fra i partiti, che permetta di effettuare, senza traumi e a fini non congiunturali, la scelta di principio circa la prevalenza di un organo sull'altro.
Problemi d'equilibrio nei rapporti Governo - Parlamento di Piero Calandra
È opportuno iniziare da qualche osservazione sul rapporto che si sta creando tra l'atteggiamento delle forze politiche e le riforme istituzionali. Va ricordato che, ad esempio, la legge 400 del 1988, dal punto di vista formale non è una legge di iniziativa governativa, nonostante sia nata nel contesto di un Governo che ha posto al centro del proprio programma le riforme istituzionali, ma dovuta all'iniziativa di un parlamentare che ha raccolto la bandiera di questo disegno di legge e l'ha portata in Parlamento. Ricordo ancora che il Presidente del Consiglio De Mita non fece nulla per appropriarsi del merito diuesta legge, anzi, commentò: "l'ho trovata e l'ho fatta approvare". Altrettanto singolari sono però i silenzi degli altri; Craxi non ha più detto nulla dopo l'approvazione della legge sulla Presidenza del Consiglio: l'ha preparata, l'ha portata avanti, è stato ad un passo dall'approvazione, se l'avesse approvata lui probabilmente ne avrebbe rivendicato il merito, ma siccome l'ha approvata un altro non ha considerato che il merito gli spettasse. Evidentemente, il rapporto tra congegni istituzionali, che noi giuristi riteniamo fondamentali, e la classe politica resta un rapporto di mera propaganda. Le grandi battaglie che si sono svolte in
questi anni in Parlamento con rischi di frattura delle coalizioni e di scontro maggioranza—opposizione, avevano un contenuto istituzionale di impatto veramente minimo. La propaganda prevale nettamente sul contenuto istituzionale con una palese sottovalutazione di quest'ultimo da parte del mondo politico. L'appropriazione della attuazione dei meccanismi istituzionali si sviluppa a livello meramente burocratico e come è possibile registrare osservando il fenomeno, a livello di Presidenza del Consiglio. L'articolo 95 della Costituzione parla di ordinamento della Presidenza del Consiglio, ma in realtà il processo che osserviamo è l'organizzazione della Presidenza del Consiglio in Ministero della Presidenza del Consiglio, non l'ordinamento, cioè il rapporto tra la Presidenza stessa e gli altri centri di Governo. Dice Valerio Onida che possiamo dare un giudizio assolutorio, se non entustiasta, dei processi endogovernativi; tuttavia sono proprio tali processi che andrebbero approfonditi, giacché condizionano l'indirizzo politico per quanto disomogeneo esso possa essere (dal momento che non ne abbiamo più uno a priori). Oggi si osserva che il trionfo della tesi di Guarino sul carattere esistenziale dell'indirizzo: nulla di normativo e predeterminato, però si potrebbe prestare maggiore 35
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attenzione ai processi endogovernativi, con una minore indulgenza per il dissestato risultato dell'azione del Governo. Stiamo assistendo ad una sorta di comodo scaricarsi le responsabilità. Da parte del Governo, infatti, si usa dire che il Parlamento, come sorta di entità astratta, è responsabile di tutte le storture, quando invece alcuni prodotti escono male è il Governo, che per difetto di coordinamento, per difetto di confronto con gli interessi e tra gli altri interessi dei vari apparati che dovrebbe esserne ritenuto responsabile. Qui naturalmente il discorso si allarga molto e meriterebbe un esame a parte: fino a che punto la settorialità degli interessi può essere gestita in una società pluralistica con i canali di cui disponiamo oggi? E quali correzioni tale gestione richiede? Questo discorso di procedimentalizzazione endegovernativa è collegato alle vicende delle fonti, laddove mi pare di intravedere l'esigenza di un approfondimento anche da parte dei giuristi circa il modo con cui il Governo—istituzione arriva a definire il confronto e la definizione degli interessi in conflitto. Ho l'impressione che anche qui i giuristi e gli studiosi abbiano la loro buona parte di responsabilità nel non aver considerato seriamente la questione. Si afferma che ormai i discorsi sulla gerarchia tra le fonti trasmettono solo concetti che non hanno riscontro nella prassi; non c'è dubbio che ciò sia vero, però sono quarant'anni che i giuristi stentano ad accettare che in uno stato pluralista una rilettura dei criteri alla base della gerar36
chia delle fonti è necessaria e che la sua mancanza è alla sorgente delle attuali incongruenze; ci si riferisce qui ad un dato semplicissimo come l'espansione vigorosa del criterio della competenza rispetto a quello della gerarchia. Se si fosse pensato già da venti o trent'anni a tale fenomeno ed il mondo dei giuristi avesse sostenuto fortemente il primo criterio, si sarebbero potuti evitare alcuni tracolli, il sistema delle fonti avrebbe assunto una dimensione più ariosa e non si sarebbe arrivati al punto cui è giunta la dissociazione tra legalità ed effettività. Ciò può essere illustrato con un esempio banalissimo che pure incide sulla qualità della vita dei cittadini come l'orario dei negozi, o come tanti altri fatti locali che non si riesce mai a delegare all'autoregolamentazione dei gruppi. Naturalmente anche qui con un sistema scalare delle fonti capace di rispettare criteri certi di competenza, in cui partendo da un livello unilaterale e passando poi ad un livello concertato si giunga finalmente all'autoregolamentazione del gruppo. Non si riesce ad uscire dalla logica asfittica del rapporto legge—regolamento, come se tutto si disciplinasse ancora all'interno dello Stato persona, con l'inserimento di qualche rappresentanza corporativa con cui si imposta una regolamentazione, senza poi verificarne il livello di effettività reale. La responsabilità dell'organizzazione dei nostri studi sui criteri per articolare il sistema delle fonti non è lieve e accusare il solo sistema politico per questa défail-
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lance dell'assetto sarebbe forse poco realistico da parte nostra.
I
RAPPORTI LEGOE-REGOLkMENTO
Serve un approfondimento in questo senso, per arrivare ad un criterio che redistribuisca meglio i rapporti di coerenza tra il centro di potere politico sociale e il centro di emanazione della norma. C'è un campo molto vasto di studi,di grande dignità teorica ma anche di efficacia operativa, che è costituito dal rapporto legge—regolamento. La proposta dell'articolo 17 della 400 è senz'altro debole; è debole perché la logica di preferenza della legge, che non si elimina e che quindi favorisce in qualunque momento la riappropriazione da parte del parlamento della gestione della fonte, potrebbe funzionare solo in una situazione dove il potere governativo fosse forte e non così traballante come è attualmente. Il rapporto tra criterio di compensazione tra le fonti ed il criterio di assetto dei poteri politici è fondamentale: anche un criterio leggero come quello dell'articolo 17 potrebbe reggere bene in presenza, per esempio di un Governo di legislatura che potesse quindi avere una resistenza maggiore. Ricordo che a circa un anno e mezzo dalla legge il Governo ha istituito una commissione di studio per chiedere ai ministeri quali materie siano disposti a delegificare, ma questa ricognizione, di carattere prevalentemente tecnico, se non verrà poi supportata da una forte
iniziativa del Governo in Parlamento cadrà rapidamente preda di estemporanee riappropriazioni. Si potrebbero immaginare almeno un paio di metodi che con piccolo sforzo sono in grado di evidenziare una dislocazione di responsabilità: l'introduzione, per esempio, di norme di regolamento parlamentare o una sorta di eccezione formale del Governo in sede di Commissione parlamentare; la realizzazione di congegni che accentuino la possibilità del Governo di portare in assemblea certe iniziative che non ritiene debbano essere approvate, facendo leva anche sul rispetto della riserva regolamentare del Governo. Ciò significa che, quando un parlamentare o un gruppo di parlamentari pretende di appropriarsi del campo di regolamentazione con fonte legislativa, il Governo dovrebbe sollevare una eccezione formale, portando in aula la questione. Il secondo aspetto, legato al primo, è che, ove il Governo con congegni così drammatizzati riuscisse a difendere una sfera di potestà regolamentare, si potrebbe pensare a favorire un controllo reale del Parlamento. Al contrario sarebbe assolutamente negativa un'ipotesi che sviluppasse qualcosa di analogo al controllo della commissione in itinere, metodo che ha invischiato completamente il procedimento consultivo della legislazione delegata portando ad inconvenienti di lentezza che hanno annullato i vantaggi di maggiore forza del decreto delegato sul regolamento. E opportuno un cenno anche sul tema "politica delle fonti e Regioni". Anche qui, nel disegno di 37
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legge Maccanico sulla riforma dell'ordinamento regionale, si è tentato di introdurre un piccolo criterio di razionalizzazione, cioè che le leggi che contengono principi debbono indicare quali essi siano e quali sono i principi che si vanno a modificare, nonché come le norme statali si pongono rispetto ai futuri interventi regionali in modo da ottenere un adeguamento immediato e comunque certo e uniforme per tutti. Si sono creati subito due tipi di problemi: quelli della burocrazia statale contraria ad indicare quali sono i principi per non perdere potere contrattuale, e quelli delle regioni che vedono queste norme come una ulteriore invadenza dello Stato nella loro sfera di competenza. Ci si può solo augurareche la somma di questi problemi non porti al blocco di istituti di questo genere, benché ciò sia possibile.
IL RUOLO DELlA PRESIDENZA DEL CoNsiGuo
In materia di potenziaménto della posizione del Presidente del Consiglio c'è effettivamente qualche possibilità in questo senso. Ne è un esempio la circolare della Presidenza del Consiglio secondo la quale l'uso dei fondi speciali deve essere poi riautorizzato sostanzialmente dal Presidente. In sostanza, si immagina un nuovo negoziato con il Presidente del Consiglio e non soltanto tra Ministeri e Tesoro. Questa circolare, del resto, è stata firmata da un Presidente del Con38
siglio che in una sua precedente esperienza di Governo aveva scelto come capo di Gabinetto il Ragioniere generale dello Stato, cioè da un Presidente che conosce l'importanza di questo nesso stretto Presidenza—Tesoro, e che conosce anche l'importanza di non lasciare il Tesoro isolato nella trattativa con i singoli ministeri e quindi di riappropriarsi di una centralità nella conduzione della finanza di Governo. Vorrei soltanto aggiungere, sempre in tema di rapporti tra Presidente del Consiglio e Ministri, che nell'ottica della proiezione scalare delle fonti varrebbe la pena di utilizzare di più la sinergia fra regolamento governativo e regolamento ministeriale, per fare in modo che il regolamento governativo non sia una sorta di area di intervento del Presidente del Consiglio bensì una fonte che stabilisca principi e criteri fondamentali che poi il regolamento ministeriale svilupperà. Ciò potrebbe rappresentare un tentativo di introdurre all'interno del Governo una sorta di gerarchia tra il Governo nella sua collegialità ed il Ministro nella sua individualità. A proposito dei rapporti nella maggioranza, si può osservare come siano diventati ormai drammatici, a causa del convivere nell'ambito della stessa coalizione di forze che negli altri paesi occidentali sono su sponde diverse. Ciò rende poco chiara l'azione politica generale e, per di più, la situazione sembra peggiorare nel rapporto tra maggioranza ed opposizione, perché è nettissima la sensazione che ormai la maggio-
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ranza accentui il conflitto con l'opposizione e quindi provochi, a sua volta, reazioni drammatizzate, proprio per cercare di occultare i conflitti che sono al proprio interno. In tutto questo disordine indubbiamente i congegni di responsabilizzazione sono i primi a risentirne: non si sà di chi siano le responsabilità. Un uso accorto di una certa politica delle fonti, che responsabilizzi il Governo da un'lato ed il Parlamento sul fronte del controllo, dislocando in modo più fisiologico i meccanismi maggioranza—opposizione, potrebbe in parte (ma soltanto in parte per quello che abbiamo detto) normalizzare i rapporti all'interno della maggioranza. Per finire, mi sembra già da tempò acquisito che Governo e Parlamento rappresentano centri politicamente equivalenti; se ci fosse stato il ricambio, certamente questa clausola di garanzia avrebbe contribuito ad indurre a leggere Parlamento e Governo come centri p0-
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liticamente equivalenti. La grande disponibilità che l'opposizione comunista ha manifestato negli ultimi anni per la delegificazione, pur sapendo che temporaneamente ne veniva indebolita, denota una valenza ormai unificante di questo discorso. I giuristi del fascismo, Costamagna in testa, essendosi resi conto che il capo del Governo contava molto di più del Governo e del Parlamento, giustamente alludevano a ordinanze del Capo del Governo che avessero valore di legge. Avevano immaginato, già da allora, un criterio di riparto per competenza e non per gerarchia: bene, io credo che si debba lavorare su questo, anziché continuare ad andare avanti con la prassi del decreto—legge e della legge di conversione, con la confusione ed i problemi che ne derivano, le reiterazioni e il continuo braccio di ferro; in una parola, occorre immaginare anche in questo settore un allargamento del criterio della competenza rispetto al criterio della gerarchia.
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Sull'organizzazione della Presidenza del Consiglio
LA DEFINIZIONE NORMATIVA DEL RUOLO DELLA PRESIDENZA DEL CoNsIcuo
di Maurizio Meloni
E sicuramente giusto sottolineare la precipua fondazione endogovernativa della legge 400; ritengo, per esempio, che la 400, proprio in tal senso qualche cosa abbia fatto per quanto attiene al sistema di governo della finanza pubblica. Indubbiamente la Presidenza del Consiglio è alla ricerca di un ruolo nòn effimero nel governo del sistema della finanza pubblica; sistema che, come sappiamo, per sua natura ha bisogno di presenze istituzionali diversificate, ma sempre autorevoli e rigorose. Sistema, inoltre, molto delicato, che ha in sé la possibilità quasi connaturale di innescare forti conflittualità; un sistema tenuto sotto stretta osservazione da parte dell'opinione pubblica e che richiede interrelazioni, circolarità di controlli, interventi sinergici. Si intrecciano, in particolare, i ruoli del Parlamento, del Governo e anche della Corte dei Conti. Ma consideriamo in particolare l'istituzione Governo. Si riscontra - invero - un andamento piuttosto preciso, che, finora, non registra flessioni. Possiamo partire dal 28 aprile 1988: la "circolare De 40
Mita", intestata "Coordinamento in materia di esame delle iniziative legislative nella fase di formazione e in quella di discussione parlamentare" aveva un cospicuo impatto in materia di spesa e di governo della finanza pubblica. Si giunge, poi, all'8 agosto 1988, quando viene emanata una direttiva ai sensi dell'articolo 95 della Costituzione, ai fini specifici della preparazione della legge di bilancio del 1989. Arriviamo quindi, in crescendo, alla cosiddetta "circolare Cristofori" del 21 novembre '89, che è sì una circolare di'carattere generale, perché anche questa è sui coordinamento dell'attività di governo nei procedimenti legislativi, ma che ai problemi di controllo della spesa pubblica fa espresso e puntuale riferimento. Perveniamo, da ultimo, alla direttiva dell'il gennaio 1990: si verifica - così - il fatto che probabilmente giustifica l'assunto finora esposto nel suo minimo di validità, perché, questa direttiva si inserisce in una tematica estremamente delicata. Va per esempio a dire, in materia di utilizzo di accantonamenti per provvedimenti legislativi inseriti nei fondi speciali, che le amministrazioni potranno predisporre disegni di legge ed iniziative per nuove e maggiori spese soltanto previa autorizzazione della Presidenza
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del Consiglio. Su questo aspetto il dibattito si svilupperà in futuro; interessa qui affermare soltanto che, in materia, un qualche ruolo la Presidenza del Consiglio lo sta svolgendo. Questa tendenza verso un più compiuto tentativo di governo del sistema della finanza pubblica è indubbiamente salutare, perché ne è coinvoka la Presidenza del Consiglio, ma lo sono anche il Tesoro, e le "amministrazioni di spesa", le quali, in forza di un'intuizione forse tra le più felici della legge 362, sono state in parte "affranca-
te" dal ruolo che il Tesoro per decenni ha portato avanti in solitudine, e devono perciò confrontarsi con le "relazioni tecniche". Indubbiamente si richiede una responsabilizzazione propria delle singole amministrazioni che si devono attrezzare al meglio per un mestiere nuovo. Il ruolo innanzi delineato dalla Presidenza del Consiglio dovrà, comunque, essere ancora rafforzato, ma ritengo che ad una prima disamina un po' pragmatica della sua attuazione la 400 non risulti affatto da sottovalutare.
FORME DI ORGANIZZAZIONE
Presidente del Consiglio nei confronti del collegio. La seconda indicazione era che un'opposizione tenuta ai margini della vita politico costituzionale avesse una pregiudiziale nei confronti di qualsiasi ipotesi di rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio. E tutto sommato, a distanza di tanti anni, credo che quella fotografia della situazione e delle cause, fosse realistica. Credo tuttavia che oggi qualche cosa sia cambiata. Una sicuramente evidente ma significativa: dopo trentacinque anni di moriopolio democristiano della Presidenza, dall'81, con l'alternanza di altre forze alla guida del Consiglio dei Ministri, cessa una condizione fondamentale nelle premesse al precedente funzionamento del sistema di governo. Questo sconvolgimento forte ha creato delle condizioni tali da rafforzare la figura del Presidente del Consiglio dei Ministri, in maniera abbastanza percepibile dall'opinione pubblica, che coglieva la diversità rispet-
di Vincenzo Spaziante
Nel 1977, riflettendo sul tema della Presidenza del Consiglio insieme ad Enzo Cheli, osservavamo che, in fondo, era prevalsa nella prassi una forma né di tipo accentuatamente monocratico, né di tipo accentuatamente collegiale e pensavamo, appunto, che si fosse affermata, nei trenta e passa anni di storia costituzionale, una forma che definivamo "del governo a direzione plurima dissociata". La formula nasceva da una riflessione anche su quelle che erano le ragioni che avevano condotto a questa situazione, e, schematicamente, le riassumevamo in questi termini: la titolarità, per tutta l'esperienza repubblicana, della Presidenza del Consiglio a un solo partito, aveva fatto si che una specie di rimedio automatico stesse nel fatto di non prevedere un rafforzamento dei poteri del
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to agli anni precedenti. Le figure di Presidente del Consiglio dei Ministri apparivano molto diverse e, per il fatto di essere di un altro partito, nuove al di là di quelle che erano le capacità e la rappresentatività dei vari primi ministri. D'altro canto, rispetto a quanto colto dall'opinione pubblica, c'era un fatto "interno". L'inizio degli anni ottanta coincise con una grossa crisi, anche interna, del partito di maggioranza relativa, sicuramente indebolito dalla sua stessa storia ultratrentennale. In questa situazione emersero delle leadership diverse, che ebbero la possibilità, per un fatto puramente "meccanico" e storico, di esprimere una capacità di direzione monocratica dell'attività del Governo. E i segni che incoraggiano questa interpretazione sono molteplici: come alcune riforme in materia di contabilità generale dello Stato, ed in materia di documenti fondamentali della finanza pubblica. Mi sembra però che questa importante occasione di rivolgimento storico in realtà non abbia condotto a quello che poteva essere un esito conseguenziale, e cioè un rafforzamento reale della figura quotidiana del Presidente del Consiglio dei Ministri, ma abbia invece prodotto il ridimensionamento del suo ruolo e l'indebolimento della capacità di governo complessivo delle istituzioni. Una capacità propositiva, tecnicamente valida, anche politicamente appropriata, in quest'ultimo decennio non è riuscita a esprimersi; a distanza di dieci anni dal ricambio di governo a cui abbiamo assistito, non siamo riusciti a liberarci di 42
un'eredità carica di conseguenze, per esempio, sul piano della finanza pubblica. Un sistema come quello della sanità è oggi non solo irriformato, ma continua a produrre quegli effetti dannosi sul piano dell'irresponsabilità, sul piano della assoluta ingovernabilità delle dinamiche di spesa che oggi portano (e hanno portato negli anni passati) a delle conseguenze pesantissime sui livello della dinamica del fabbisogno dello Stato. È vero che ci sono stati anche tentativi, per esempio, di ritrovare una funzione di governo significativa: la stessa legge 362, una certa evoluzione dei regolamenti parlamentari che non solo hanno previsto la sessione di bilancio, ma hanno previsto una temporalizzazione delle attività di bilancio, con dei tempi scadenzati in maniera rigorosa, e con la previsione di pesanti conseguenze in caso di superamento dei termini. Però con quali risultati? Con gli stessi risultati, direi, sul piano sostanziale, che caratterizzano dall'inizio degli anni ottanta la legge finanziaria e i documenti di bilancio. Dobbiamo riflettere, per esempio, che proprio il millenovecentottantuno diede vita a quella cosiddetta "finanziaria bus", cioè una finanziaria talmente stracarica di autorizzazioni legislative di spesa che portò alla necessità di varare un provvedimento collegato, la legge 126 del 1982, per. disciplinare in maniera esterna al processo di bilancio una serie di disposizioni che recavano autorizzazioni legislative di spesa per una serie infinita di esigenze e di finalità di dettaglio. Ma, con caratteristiche diverse, questa stessa
procedura è continuata. La direttiva dell'li gennaio 1989 della Presidenza del Consiglio dei Ministri (a distanza appena di venti giorni dall'approvazione di una legge finanziaria che, nel corso dell'esame parlamentare, e non solo per le pressioni di tipo parlamentare si è arricchita di finalità negli accantonamenti dei fondi globali) sia una manifestazione non dico di incoerenza, ma sicuramente di debolezza estrema: non possiamo pensare che questo sia un aspetto di forza, né del Presidente del Consiglio, nè del Governo. Quindi, concludendo, direi che se le occasioni create da questa nuova situazione (che pure apriva delle possibilità
di rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio, come ad esempio la stessa legge 400) non sono state colte, né tanto, nè poco, vuoI dire che la soluzione del problema sta solo in una diversa regola del gioco elettorale, senza la quale e fuori della quale queste misure non producono gli effetti sperati né sul piano più settoriale del controllo della spesa pubblica, né sul piano dell'attività di governo. Mi rendo conto che attendere un evento con capacità così palingenetiche forse può essere ingenuo e utopistico, però sicuramente la sempre maggiore drammaticità della situazione crea le condizioni oggettive per un ripensamento.
DALL& CONFUSIONE DEGU ANNI OTTANTA ALLA
è trattato più di una speranza che di una certezza. Assai più significative sono state altre due variabili: la prassi costituzionale e le politiche costituzionali perseguite dalle singole istituzioni politiche e anche dalle istituzioni di garanzia. Il mio dubbio circa la possibilità di descrivere gli anni Ottanta come una "stagione" nasce dalla constatazione che alcune leggi del periodo precedente di impronta assolutamente definita, come la legge 675 deI 1977, la legge 468 del 1978 e la legge 833 del 1978, o sono state riformate poco e male o non lo sono state affatto. Il che mi sembra significativo di una profonda incertezza. Per tutto il decennio c'è stata, direi, una commistione, un tentativo di continui aggiustamenti fra istituti e regole che hanno caratterizzato gli anni Settanta, e
LEGGE 400
di Cesare Pinelli
Dubito fortemente che si possa parlare degli anni Ottanta, come di una "stagione" nel senso in cui si sono designati, con questo termine, il ciclo degasperiano, il centro—sinistra, la solidarietà nazionale: un periodo di tempo caratterizzato da prevalenti orientamenti di politica costituzionale. Cercherò di distinguere tre aspetti, che in parte sono stati distinti, ma che credo vadano ulteriormente precisati. Il primo è quello della dottrina. Non c'è dubbio che c'è stato, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, uno spostamento di attenzione dal Parlamento al Governo; ma si
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istituti e regole che avrebbero dovuto caratterizzare gli anni Ottanta nelle intenzioni dei riformatori dichiarati. Né il risultato muta poi molto se si tiene conto del ridimensionamento del voto segreto e della legge 400 del 1988. Concordo con coloro (e mi sembrano la maggioranza) che ritengono che la legge 400 non possa nemmeno ascriversi alla categoria delle riforme istituzionali, nel senso in cui questo termine viene adoperato da oltre dieci anni. Per quanto riguarda l'attuazione, occorre distinguere almeno tre aree: la "manovra' sulle fonti, i rapporti endogovernativi, l'amministrazione. Quanto alla prima, mi limito ad accennare alla recente vicenda della rioccupazione, da parte del Parlamento, di spazi di formazione riservati al Governo dall'articolo 17 della legge 400 (o alla contrattazione collettiva dall'articolo 3 della legge 93 del 1983). E un fenomeno che ha interessato altri regimi. In Francia, dove pure c'è una riserva costituzionale, si è avuto un recupero del Parlamento, una "rilegificazione", che coincide col massimo consolidamento delle istituzioni della quinta Repubblica (anni Ottanta). E alla fine degli anni Trenta la dottrina italiana constata che la legge 100 del 1926 non ha affatto impedito il recupero di spazi che aveva sottratto alla legge, e che già Santi Romano, quale Presidente del Consiglio di Stato, aveva ritenuto assolutamente legittimo. Sono esempi assai distanti anche tra di loro, ma che dimostrano come nemmeno in ordinamenti dove ideologia ufficiale e/o 44
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quadro costituzionale andavano in direzione di un accentuatissimo favor per il Governo si siano tenute ferme quelle premesse. La circostanza potrebbe indurre ad ulteriori riflessioni circa la conI il I 11 i i. .fl gruenza cieti una e aeu aitra centralita Quanto ai rapporti tra Presidente, Consiglio dei Ministri e Ministri, mi pare che Onida abbia posto le premesse per ogni ragionamento. Da questo punto di vista si può parlare del decennio con sufficiente definizione, come un periodo caratterizzato dalla prevalenza dello scontro interno alla maggioranza rispetto a quello fra maggioranza e opposizione. Però questa non è una valutazione di politica costituzionale sul decennio, è una valutazione politologica. Del resto, sul punto la legge del 1988 ha fatto opera di razionalizzazione di prassi anche anteriori. In ordine all'ultimo punto, dobbiamo considerare che spesso le pubbliche amministrazioni agiscono secondo una loro logica; inoltre le resistenze alle innovazioni sono molto forti in una amministrazione come quella italiana. Il fattore tempo è estremamente importante, specie in relazione agli "adattamenti" delle amministrazioni. Venendo alle politiche costituzionali delle singole istituzioni, ivi compresa la visione che i rispettivi titolari hanno del loro ruolo nel sistema, si è mantenuta o si è attenuata la consapevolezza di ciò che significherà il proprio intervento in un determinato settore per gli altri attori del sistema? Naturalmente, nemmeno quella consapevolezza va vista come un
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bene in sé. Sitratta di una risorsa strumentale al raggiungimentòdi obiettivi, anch'essi mutevoli nel tempo. La mia impressione è che ciascuna delle istituzioni, specie nella seconda metà del decennio, sia andata "per conto suo", indipendentemente dal rafforzamento o dall'indebolimento, dall'interventismo o dall'autolimitazione di volta in volta mostrati. Nel frattempo, sono emersi nuovi interessi generali, nello specifico senso di "comuni a tutti", in una serie di aree (ambiente, rapporti scienza/tecnica, immigrazione, spesa pubblica). Anche qui la consapevolezza di politica costituzionale mi sembra finora modesta, malgrado la maggiore attenzione portata all'ambiente abbia tra l'altro consentito, attravérso un'interpretazione dell'articolo 9 della Costituzione da parte della Corte, di considerare un problema di policy anche come valore costituzionale (primario o meno a secon-
da delle oscillazioni della giurisprudenza). Per quanto riguarda gli anni Ottanta, parlerei dunque di una non stagione. Non solo per il pluralismo ed il mescolarsi dei valori, che non ammette più una prevalenza o una gerarchia fissa di un valore sull'altro - con note implicazioni sui comportamenti di politica costituzionale, e sui giudizi costituzionali - ma anche perché una definizione di politica costituzionale è divenuta più precaria da parte degli stessi attori del sistema. A parlEe le matrici di indole soggettiva, che pure hanno giocato, si potrebbe formulare l'ipotesi che siamo giunti alla piena e generale accettazione dei valori liberaldemocratici in un'epoca in cui gli impianti istituzionali e l'ecosistema che anche altrove li reggevano rivelano precarietà e malessere. Un disincanto comunque diverso da quello di Kelsen e Weber.
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La forma di Governo - la politica di Governo di Alberto Capotosti
Vorrei svolgere alcune brevi considerazioni sul tema della forma di governo perché negli anni ottanta ci sono state certo delle novità con alcune linee di tendenza che dovrebbero e adopero volutamente il condizionale, rafforzare l'immagine del Governo rispetto al sistema partitico. Sul piano istituzionale due sono gli aspetti prevalenti: innanzitutto la legge 400, legge che avendo avuto una gestazione di sette anni è di paternità incerta con la derivante difficoltà a trovarvi un'interna coerenza di principi. Certo, complessivamente possiamo dire che c'è un disegno di razionalizzazione sia sul versante endogovernativo sia sul versante della disciplina delle fonti. Questi segnali sono però ambivalenti perché se da una parte è vero che ora c'è un fondamento legislativo per certi poteri che fino al settembre '88 erano adottati in via di prassi (ed il fatto che ci sia una legge che legittima certi comportamenti politici del Presidente del Consiglio è un elemento di rafforzamento), per altro aspetto c'è un fattore di inapplicabilità della stessa legge nella parte in cui essa tenta di incidere sulle condizioni politiche dell'istituzione Governo, perché queste sono tali da prevalere sulla lettera della legge. Ad esempio, interessa poco a un giurista 46
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che voglia ricostruire il processo decisionale in Italia analizzare una legge che dice che il Presidente del Consiglio può limitare la libertà di manifestazione dei Ministri per quanto concerne problemi connessi all'indirizzo politico. A parte il fatto che questa norma ripete norme statuarie, ma la sua inapplicabilità è evidentissima. Pensiamo anche ad una serie di circolari che il Presidente del Consiglio ha dovuto emettere: ricordo, in particolare, una circolare dell'aprile/maggio 1989 in cui il Presidente del Consiglio allora in carica richiamava ad una stretta osservanza del principio di collegialità i membri del Governo, dicendo che ove non si fossero attenuti a questa collegialità dovevano trarne le dovute conclusioni: Quale effetto ha avuto questa circolare? Nessuno; i vari Ministri appena fuori dall'aula del Consiglio, di fronte ai microfoni della televisione, raccontavano quello che èra avvenuto, esponendo eventualmente tutto il proprio dissenso rispetto alle scelte collegiali del Governo. Quindi torniamo di nuovo all'importanza del 'fattore politico sui fattore istituzionale e ci torniamo anche da un altro punto di vista, quello del rafforzamento del governo sul piano istituzionale con la preferenza del voto palese per le deliberazioni parlamentari.
Teoricamente, sul piano istituzionale il Governo si rafforza attraverso il voto palese. Si dovrebbe infatti - anche qui adopero il condizionale - rafforzare quel continuum Governo maggioranza che è essenziale in un regime parlamentare, per una maggiore stabilità del sistema politico. Eppure i risultati non sono affatto probanti in questo senso, perché anche qui le condizioni politiche del sistema sono tali da precludere l'applicabilità di tali norme o, per lo meno, la loro effettività quali strumenti di rafforzamento. Ciò mostra come il processo politico intervenga all'interno delle norme e ne sia il presupposto; l'applicazione delle regole organizzative non può prescinderne perché presuppone necessariamente i processi politici, i processi reali, così che questo discorso si sposta necessariamente dal piano istituzionale al piano politico. E stato detto che ci sono tre esperienze governative interessanti in questi ultimi anni che sembrano rafforzaré il distacco del Presidente del Consiglio dal sistema dei partiti così da contribuire a risolvere i problemi quasi senza dover ricorrere né a riforme elettorali, né a revisioni della Costituzione. Io non condivido questa impostazione, perché, se dobbiamo dare attenzione al dato quantitativo è evidente che alcuni Governi di questo periodo hanno avuto una durata maggiore (non è un caso che il primo Governo Craxi si sia caratterizzato per la durata più lunga negli ultimi quarant'anni); bisogna però vedere se tutto questo non dipende da una serie di
circostanze tutte politiche e tutte in un certo senso irripetibili, legate al contingente, legate alla svolta nella vita politica italiana determinata nel 1981, con la costituzione del primo Governo a guida laica dopo circa quarant'anni e ad una serie di fattori che quei Governi hanno messo in luce. Certo, con i governi Spadolini si realizzò una accentuazione del momento programmatico rispetto ad una formula, ad uno schieramento, quello pentapartitico, in realtà talmente largo da insidiare il concetto stesso di coalizione. Ma il programma potè essere utilizzato come collante fino al momento in cui servì a coprire le divergenze delle parti pubbliche; quando esse ripresero la loro autonomia, Spadolini fu costretto a dimettersi, sia pure per il dissidio tra due vecchie comari' alle quali non riuscì ad imporre di cessare la loro tenzone e di tornare ad osservare la collegialità del Governo e la leadership del Presidente. Le due comari furono più potenti perché avevano alle spalle due partiti essenziali, cosicché questa esaltazione del momento programmatico venne meno. Venendo al governo Craxi, esso potrebbe sembrare un nuovo esempio di come, anche rispetto ad un sistema partitico un po' sgangherato, si può ugualmente riuscire ad imporre una volontà del Governo tale da fare a meno di accordi puntuali e quindi di come il Presidente del Consiglio si possa rendere autonomo dagli accordi dei partiti di Governo. Senonché anche in questo caso rimane qualche perplessità, perché, ancora una 47
volta, la durata dei Governi Craxi deriva, a mio avviso, da una serie di condizioni politiche. Innanzitutto un elemento molto importante: una sorta di conventio ad excludendum nella guida del Governo nei confronti della Democrazia Cristiana, uscita sconfitta dalle elezioni del 1983. Nel sistema politico italiano si venne a creare una sorta di convenzione in base alla quale il partito di maggioranza relativa non poteva aspirare alla titolarità della guida del Governo. Questo meccanismo rese difficilmente configurabile ogni alternativa e garantì la durata del Governo di coalizione a guida Craxi. Non c'erano alternative, non c'erano altri pretendenti. Quando il problema della guida del Governo tornò ad essere un elemento di possibile rivendicazione da parte del partito di maggioranza, si tese a formalizzare tale rivendicazione col famoso patto della "staffetta' che sarà la causa della caduta del secondo Governo Craxi. Quindi, la possibilità per la Democrazia Cristiana di aspirare alla guida del Governo è un fattore, starei quasi per dire , di instabilità. Basti pensare al fatto che dal momento in cui il partito di maggioranza relativa ha ripreso la guida del Governo nell'ultima legislatura si sono susseguiti ben quattro Governi a guida democristiana. Dunque, se, come appare da questa riflessione, le condizioni politiche sono state importanti fino all'87 e poi sono cambiate, quei fattori istituzionali di rafforzamento sono probabilmente pseudo fattori o, per meglio dire, sono fattori che dal piano istituzio48
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nale non riescono a trasferirsi sul piano delle effettività. Se questo è il quadro, tracciato in maniera confusa e sintetica, è certo che non possiamo essere molto tranquilli per l'avvenire; è certo che non possiamo rimettere il funzionamento di un sistema a condizioni politiche che per la loro natura sono contingenti, mutevoli, variabili. Non credo che in una situazione del genere noi possiamo nasconderci che certe condizioni di preminenza del Presidente del Consiglio, che vengono in parte dalla legge 400, in parte dal voto palese nelle Assemblee parlamentari, ma in parte anche dalla coincidenza, almeno per tre ex Presidenti del Consiglio, tra la carica di Presidente del Consiglio e la carica di Segretario del partito (che è indubbiamente un fattore che riduce la dislocazione del potere tra Governo e partiti della coalizione), sono dei fattori estremamente contingenti. Sorge quindi il bisogno di incidere sui meccanismi che esaltano la necessità dei governi di coalizione. Questi sub-modelli del Governo parlamentare presentano tutti i caratteri di cui oggi ci lamentiamo, ma che sono i caratteri strutturali tipici del governo di coalizione; e non credo se ne esca attraverso piccole riforme del tipo di quelle del '54 nella quarta repubblica francese, come dimostra la storia di quel paese. A questo punto si impone, come essenziale ed urgente, una riforma elettorale che riduca - non dico elimini - la necessità del Governo di coalizione. Se dovessimo analizzare l'evoluzione della forma di governo de-
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gli anni '80, dovremmo, dunque, sottolineare delle novità, delle linee di interesse proprio nell'emergere del programma, nella diminuizione del valore degli schieramenti, nel ricorso, per esempio, nella composizione del Governo, a criteri paritari anziché proporzionalistici, attraverso la pari dignità dei partiti laici; dovremmo sottolineare l'importanza che ha assunto, soprattutto,
negli ultimi dieci anni, la titolarità della guida del Governo con i vari patti di rotazione che attorno ad essa sono stati inventati; tutti questi elementi di novità, però, non sono bastati ad incidere a fondo su una diversa configurazione dei rapporti, non solo tra Governo e Parlamento e tra Governo e maggioranza parlamentare, ma neppure all' interno della stessa Istituzione Governo.
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2. Quale sistema delle fonti? Le fonti tra legittimazione e legalità di Carlo Mezzanotte
LA CRISI DEL SISTEMA DELLE FON11
Osservando il profondo malessere diffuso intorno al sistema delle norme giuridiche, coinvolte dalla stessa crisi di legittimazione sofferta dalle istituzioni che le producono, si tocca con mano l'interconnessione che c'è tra sistema della legalità, sistema politico, forma di governo. L' interrogativo è se il sistema delle fonti sia ancora in grado di tenere sotto controllo i processi reali o se si tratti di un sistema totalmente da riformare, a partire da queste istituzioni delegittimate incapaci, a loro volta, di offrire legittimazione. Occorre, però, soffermarsi su una questione preliminare: questa crisi di legittimazione del sistema delle fonti è un fenomeno contingente, legato alla precarietà degli equilibri politici, o è qualche cosa di più profondo, destinato a durare almeno quanto lo Stato sociale? Questo è il punto: è solo un problema transeunte o è il frutto di dati, condizioni esistenziali del sistema della legalità in uno Stato che finalmente si avvia a diventare autenticamente pluralistico, con tutte le sofferenze che questo provoca proprio in termini di legittimazione 50
del sistema nel suo complesso e in particòlare del sistema delle fonti, che ne è l'espressione normativizzata? Non si può negare che ci siano problemi tecnici che vanno affrontati e individuati e senza dubbio ci sono temi su cui si può riflettere per scoprirne i rimedi, ma probabilmente gli aspetti tecnici sono marginali, come appare da un bilancio complessivo.
IL RUOLO DEllA COSTITUZIONE
Il malessere sembra, infatti, riguardare proprio le modalità strutturali del sistema di legalità, cioè impone di chiamare in campo il grande assente, l'epicentro di tale sistema: la Costituzione; è a partire dal ruolo che la Costituzione gioca nel sistema delle fonti che possiamo awicinarci a comprendere la sofferenza, il calo di legittimità del sistema legale. Tradizionalmente sappiamo che la Costituzione ha operato in Italia l'avvento del costituzionalismo rigido, l'avvento del principio della legge superiore; essa agisce come momento di completamento e di integrazione della legalità, collocandosi al vertice del sistema giuridico.
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Dove prima c'era la legge, oggi troviamo una Costituzione che ne mutua gli antichi attributi in termini di forza, di normatività. Se torniamo agli scritti dei costituzionalisti che si sono occupati di fonti, salvo qualche rara eccezione, questa è la tesi che ci è stata tramandata ed è forse la tesi che ciascuno di noi custodisce gelosamente: la Costituzione come atto normativo che sta al vertice e che governa i processi; quindi, la Costituzione come unità normativa e conseguentemente come centro unificatore del sistema di legalità. Ora, storicamente, questo è stato indubbiamente vero in una primissima fase. Possiamo ricordare la produttività di certe idee, come ad esempio quella di Onida, la cui tesi sull'unità delle leggi incostituzionali aveva la valenza di ridare un senso, una pienezza al principio di legalità, fondandolo normativamente. In fondo, tutto lo sviluppo del costituzionalismo italiano è potuto avvenire grazie alla forza di questa idea, che è opportuno ripetere, della Costituzione come rifondazione del sistema di legalità, di un sistema unitario di legalità. Quel che intendo sostenere, invece, è che la Costituzione, in realtà, ha finito coll'agire non come super legalità, bensì come istanza di delegittimazione della legalità e della forma legale. Di questo non ci si avvide soprattutto nei primi tempi, quando prevalse una rappresentazione che oggi possiamo dire abbastanza erronea del concetto di Costituzione; si impose l'idea di una
Costituzione contenente un modello superiore compiuto, univoco dal quale era possibile desumere principi normativi solidi, capaci di orientare gli sviluppi della legislazione. E ciò perché la Costituzione italiana iniziò a funzionare nei confronti del sistema di legalità in misura unidirezionale, operando fin dall'inizio come negazione del passato. In tale azione entrarono in gioco i principi più forti, perché erano quelli che consentivano di identificare il nemico e l'amico: da un lato il fascismo, dall'altro le forze dell'arco costituzionale. La Costituzione operò in quel frangente storico e fu questa la sua fortuna, mostrando la capacità di superare le divisioni ideologiche interne all'arco costituzionale, operò nella sua valenza di opposizione al passato svelando le sue capacità unificanti e impedendo il dispiegarsi del profondo dissidio costituzionale che oggi prevarica sulle istituzioni. Le radici del conflitto che oggi prevarica sulle istituzioni sono, infatti, già nella Costituzione: chi può dimenticare che per lungo tempo non è stato possibile identificare il modello, che per lungo tempo i concetti forti della Costituzione, i concetti di iniziativa economica, libertà, uguaglianza e quello addirittura di democrazia erano materia di scontro! Ma, in una primissima fase la Costituzione sembrò davvero presentarsi come una istanza normativa superiore che conteneva in sé gli aspetti fondamentali di un disegno complessivo, capace di orientare gli sviluppi della legislazione e quindi di governare il sistema delle fonti.
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Ciò è potuto awenire grazie al fatto che la Costituzione non si era svelata e poteva quindi mantenere vive aspettative costituzionali differenziate. Questa era la sostanza: dietro quella pretesa unità normativa di partenza si celavano aspettative costituzionali differenziate.
sistema della legalità è da considerarsi un'idea mostruosa, perché significherebbe che esiste un organo che tiene sotto controllo tutto lo sviluppo dell'ordinamento, il che è irrealistico, non corrisponde al reale. La Corte Costituzionale è solo un'istanza di legittimazione politica; la Corte Costituzionale è un organo che gioca in COSTITUZIONE, LEGAUTÀ, LEGI1TIMAZIONE dialettica con la legalità, che si rapporta ad essa in senso più orizzontale che In realtà, però, la Costituzione non è in verticale. Ora, il problema che questo grado di funzionare da completamento fenomeno di dissociazione tra legittimadel sistema di legalità, perché agisce al zione e legalità pone è innanzitutto il di fuori del tradizionale sistema di lega- problema del giudice, al quale non è lità, basato sul principio della legge e consentito di farsi lui soggetto di rilegitdell'applicazione della legge da parte del timazione della legalità. E da qui che giudice; non a caso, questa estraneità procede quella crisi di identità del giudidella Costituzione al sistema di legalità ce che si è riverberata poi in tutti i inteso classicamente è rappresentata fenomeni che hanno interessato la maquasi fisicamente dalla posizione del gistratura, a partire dall'associazionigiudice nei confronti della questione di smo. legittimità costituzionale. Come non ricordare che proprio in Il giudice si ferma, sospende il giudizio riferimento a questi due poli, legalità e perché sta di fronte ad un conflitto tra Costituzione e quindi sistema legale e legittimazione politica e legalità; è un legittimazione, si è giocata la vicenda conflitto che non gli appartiene perché della magistratura in Italia fino a pochi lui è uomo della legalità e deve fermarsi, anni fa! Abbiamo avuto un periodo in deve sospendere il giudizio e portare Italia in cui i giudici hanno tentato di questo conflitto davanti a chi nel nostro risolvere il problema della legalità infonsistema è stato concepito proprio come data, con l'uso diretto della Costituzione erogatore di legittimazione, la Corte Co- e quello alternativo del diritto; ma, è stituzionale. stata proprio quella vicenda che ci ha Anche la Corte Costituzionale, sotto dimostrato come la Costituzione sia inquesto profilo, non.rappresenta il coro- sufficiente ad un'opera di riunificazione namento del sistema di legalità, secondo del sistema giuridico, se condotta unilacelebrazioni ricorrenti, che sembrano teralmente. oggi insostenibili; che la Corte Costitu- Sono, però, soprawenute vicende imzionale sia il coronamento e il vertice del portanti e soprattutto quella che si può -
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identificare come la progressiva formazione dell'identità del sistema costituzionale, in virtù dei cambiamenti profondi prodottisi nel sistema politico. Fintanto che nei confronti della Costituzione, si indirizzavano aspettative diverse, fintanto che la Costituzione manteneva aperte le sue virtualità multiple, era largamente improbabile che essa potesse assumere un ruolo attivo nel processo politico, se non per quelle minime parti in cui era realmente capace di esprimere potenzialità unificanti o opposizione al passato: le libertà civili, le norme di organizzazione. Fin quando la Costituzione veniva ridotta a queste poche norme, era impossibile che essa avesse una significativa presenza nella definizione del sistema complessivo e giocasse un ruolo nei rapporti col sistema di legalità. Sotto questo profilo, credo vadano ripensati alcuni giudizi sulla giustizia costituzionale e sull'incidenza che essa ha avuto; quella dei primi anni, tanto celebrati, penso sia un'incidenza minore; la Corte ha cominciato a funzionare a pieno proprio quando si è venuto progressivamente riducendo l'ambito delle aspettative costituzionali, quando, poco a poco, la Costituzione ha cominciato ad operare come istanza di rilegittimazione del sistema legale. Oggi, penso si stia raggiungendo la pienezza delle condizioni teoriche in cui un processo del genere può essere, se non portato a compimento, sviluppato consapevolmente. La Costituzione si è infatti, finalmente svelata per quello che è:
non programma normativo, non insieme di norme che intessono di sé il sistema di legalità, ma enunciazione di valori pluralistici. Paradossalmente, se non ci fosse una Costituzione, oggi avremmo in ogni caso bisogno di una Corte Costituzionale; non a caso la testualità sembra rappresentare sempre meno il dato rilevante della giurisprudenza costituzionale, pure in un momento in cui assistiamo alla più forte tendenza della Corte ad inserirsi in un gioco dialettico molto stretto con il sistema di legalità. Proviamo, infatti, a ragionare sull'espansione della ragionevolezza come criterio onnipervasivo di misurazione della legalità e dell'adeguatezza della scelta poltica consacrata in un atto legale. -
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Si è potuto pensare che essa rappresentasse l'abbandono definitivo della sfera dei valori, che l'evento della ragionevolezza significasse l'introduzione di un canone debole capace di disperdere la Costituzione, frammentarla nel particolare. Possiamo citare il libro di Dogliani in cui, di fronte a questi processi, si parlava di un calo generale di prescrittività proprio perché la Costituzione sembrava diventata piccola misura di piccole cose. In realtà oggi ci si accorge èhe invece il processo era un'altro: i valori costituzionali, da monadi irriducibili l'una nei confronti dell'altra, cominciavano a misurarsi l'uno con l'altro, ad entrare in rapporto, a subire i condizionamenti di un sindacato che diventa duttile, doven53
doli combinare. Il pluralismo entrava nella Costituzione a partire dalla definizione di una identità di modello e dalla chiarificazione di alcuni concetti di fondo che all'inizio erano sembrati ambigui, incerti, aperti a virtualità multiple. Paradossalmente, però, proprio nel momento in cui essa mostra di definirsi e di aprirsi agli incontri del pluralismo (e da qui il ruolo decisivo della Corte Costituzionale, che non a caso è entrato prepotentemente in gioco proprio in questi anni), proprio in questo momento si osserva una fuga della giurisdizione. Oggi i giudici non pretendono più di legittimare alcuno e alcunché, chiedono regole. Il giudice si rivolge tante volte alla Corte Costituzionale proprio per chiedere regole; c'è un'istanza forte di legalità, di normatività che parte dai giudici. Riemerge l'estraneità della Costituzione al sistema della legalità; altro è la prestazione di legittimazione che la, Corte Costituzionale può dare al sistema di legalità anche contrastandolo, altro è invece la legalità, nel cui circuito il giudice è inserito. Ora, perché i giudici proprio oggi che il modello si è andato definendo, che un'applicazione diretta della Co, stituzione non avrebbe quegli effetti dirompenti, che ha avuto in alcuni casi negli anni in cui veniva praticata vi rinunciano?
IL CANONE DELL'S RAGIONEVOLEZZA
La verità è che ormai la Costituzione 54
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non è più custode di un disegno rigido o non ospita più disegni rigidi alternativi dai quali sia possibile, attraverso una pratica deduttiva, ricostruire un sistema di norme; la Costituzione è, invece, sistema di valori che hanno bisogno, di volta in volta, di essere raccordati, di essere posti in relazione l'uno all'altro attraverso il canone della ragionevolezza; non c'è nessun valore che sia indenne, che possa dirsi al riparo dell'esigenza di misurarsi con il resto, neppure quelli che ci piacerebbe fossero fondanti. Un esempio può essere utile: in materia di libertà non si può negare la volontà del legislatore di misurarsi con i valori attuali; pensiamo al codice di procedura penale, pensiamo all'attuazione o ai conati di attuazione del principio della pena come emenda. Ci accorgiamo però, che anche questi valori, all'impatto con il pluralismo, con le aspettative diverse, devono essere misurati l'uno all'altro. Nella carcerazione preventiva ad esempio, sono in gioco i valori più alti della libertà personale, eppure anche qui c'è bisogno di mettersi in rapporto col tutto e il giudice, sempre più, avverte la consapevolezza che questa è materia che non gli appartiene. Così i giudici restano in balia del principio di legalità che rivela quote non piene di legittimazione perché la legittimità del sistema è complessiva: essa .è espressione della legge, della Costituzione e della Corte. Il giudice che avrebbe dovuto essere l'epicentro del sistema di legalità, si trova ad occupare uno dei poli
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e a dover sempre chiedere invano qualcosa a. qualcuno, perché le aspettative di legalità sono sempre più frustanti in un sistema pluralistico. Questa è la ragione della crescente attenzione verso la Corte Costituzionale, alla quale i giudici tendono sempre più a rivolgersi. Ma, la Corte Costituzionale potrà essere il rimedio di tutti i mali? Potrà la ragionevolezza rimettere in sesto tutto? Certamente no e ciò perché credo che i sistemi pluralistici siano sistemi che hanno definitivamente perduto il bene dell'unità a priori. Oggi l'unificazione è sempre istituzionale: prima viene il pluralismo, la diversificazione dei mondi, degli ambiti di vita, delle culture, degli stadi economico-sociali, poi le istituzioni forzando, devono consentire che si arrivi all'unità, e questo è il problema della forma di Governo. E finita l'era dell'unità ontologica, essa è diventata sempre più unificazione, cui devono lavorare le istituzioni. La legalità in tutto questo è soio uno dei momenti di unificazione del sistema; non si può pretendere da lei più di quanto essa non possa dare, non si possono immaginare riforme del sistema delle fonti palingenetiche, che le restituiscano la primitiva pienezza di senso, la capacità di governare da sola i processi reali.
IL SISTEMA DELLE FONTI E Lk FORMA DI OOVERNO
Occorre esaminare, allora, il sistema delle fonti al di là delle istanze di legitti-
mazione che dovrebbero venire dalla forma di governo nel suo complesso. Quel che appare è una crescente dissociazione tra forza formale dell'atto e suo valore politico, che ormai investe tutte le fonti. Un tempo, se si voleva fare un corso di lezioni in serenità, si sceglieva il sistema delle fonti; tutto era chiaro: gerarchia, competenza, stato, regioni, regolamenti, legge. Oggi non è più così, perché si ha la percezione di trasmettere cose false. L'errore dei nostri maestri è stato quello di immaginare che tutto dovesse essere ricondotto a legalità, mentre questo non è vero, la legalità da sola non basta a tenere unito un sistema complesso, ci vuole altro. L'esempio del referendum è, in questo senso, il più macroscopico, se è vero che osserviamo la legittimazione debordare, rispetto al valore formale dell'atto, teorizzato come fonte primaria. Esso abroga léggi ordinarie e non ha valore costituzionale; tutta la giurisprudenza della Corte cospira in questa direzione: il referendum è atto che si mantiene a livello di fonte primaria, non può aspirare ad agire su fonti superiori. Però, il sistema non riesce a confinarlo in questa collocazione, perché esso possiede nel suo statuto una forza legittimante talmente superiore che lo rende capace di travolgere lo stesso quesito; il referendum, per sua natura, stritola il quesito perché è più forte dello stesso quesito. In Italia siamo andati a deliberare sui finanziamenti alle centrali nucleari all'estero, ma in realtà abbiamo
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legittimamente deciso, proprio per la capacità del referendum di trascendere dal suo stesso oggetto, sulle nostre prospettive nucleari, certo non in termini di legalità, ma in termini di legittimazione che è enormemente superiore. Tant'è che nessuno oggi penserebbe di mettersi a costruire centrali nucleari, non perché non ci sia la volontà politica di farlo, ma perché c'è stata una decisione talmente delegittimante nei confronti di questa ipotesi che, proprio perché questa fonte abrogativa è portatrice di tassi superiori di legittimazione rispetto alla sua collocazione formale, finirebbe coll'essere contraria al modello costituzionale una decisione di quel genere. L'inverso awiene quotidianamente a livello di legge; forse che la legge in generale mantiene il suo livello di fonte di rango primario? Mai. La legge davanti al giudice, ed è questa la gravità, oggi è men che nulla; è la stessa legge che molte volte introduce elusività di regqle; è la stessa legge che non vuole dare le regole. Per quanto riguarda la legittimazione delle fonti secondarie, nessuna riforma risanatrice credo sia in grado di restituirgliene, se non si pone mano a strumenti di rilegittimazione che investano la forma di governo prima che il sistema delle fonti. Capita sempre più spesso di vedere i regolamenti trattati dai giudici amministrativi come atti amministrativi, sinda-
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cati addirittura per difetto di motivazione, per eccesso di potere inteso nel senso più classico di difetto di motivazione: è la percezione del degrado della legittimazione del regolamento rispetto alla sua collocazione formale, che è pur sempre quella di un atto fonte. Se poi ci spostiamo sul versante dei rapporti tra Stato e Regioni si impone addirittura lo sconforto. Se c'è un settore in cui appare evidente l'incapacità del sistema di legare e di tenere unito il disegno autonomistico, è proprio quello dei rapporti tra stato e regione dove addirittura vi sono atti che non sono atti fonti, come gli atti di indirizzo, che sono capaci di condizionare fonti primarie anche delle regioni a statuto speciale. Spiegare ciò in termini di legalità non credo sia possibile. Ogni tentativo di collocare nel sistema delle fonti questi atti è destinato al naufragio se per sistema delle fonti intendiamo un sistema che è imperniato sulla legalità. Se, invece, per sistema delle fonti intendiamo un sistema di unificazione parziale, allora si capisce come mai atti di indirizzo del Governo possano avere il sopravvento nei confronti della fonte regionale: da un lato, infatti, abbiamo atti che hanno una loro quota di legittimità politica e dall'altro abbiamo atti totalmente delegittimati, quali sono le leggi regionali, ridotte ormai a meno che regolamenti.
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LEGAUTÀ E PLURAUSMO
Mi sembra che la domanda da fare sia questa: il principio di maggioranza, che alimenta, che legittima, che dà forza al sistema di legalità, è capace oggi di rispondere alle istanze di una società piuralistica? Io non lo credo. Nelle costituzioni che hanno assistito a questo fenomeno dalle proporzioni gigantesche che è l'awento del pluralismo, le istituzioni si attrezzano per dare risposte adeguate con modelli in cui la sola legalità costituisce un ambito insufficiente al mantenimento di tutto il sistema. Le fonti oggi, proprio per l'affollamento delle istanze di una società pluralistica, contraggono tutte un'obbligazione di risultato. Pensiamo alla vicenda più nota, quella dell'avvento della ftinzione di indirizzo; essa è embiematica di come il principio di legalità, cioè un tentativo di unificazione di sistemi autonomistici in base a legalità, sia oggi incapace di sostenere l'impatto del pluralismo, l'impatto dell'affollamento delle istanze del pluralismo. Questa è la vicenda dell'indirizzo politico, o meglio la vicenda della ftinzione di indirizzo e coordinamento come fattore di totale erosione del principio di competenza. Il criterio non è più solo quello della legalità perché quando le regioni non risolvono i problemi, ad esempio dell'ambiente, se viene un indirizzo dello Stato sostitutivo, esso si impone, perché c'è una contrazione di obbligazione di risultato. Possiamo chiamarla efficienza; possiamo chiamarla legittimazione: è diventata una qualità dell'esercizio del
potere, è diventata una qualità delle fonti. La stessa Corte Costituzionale non risponde forse anche lei ad obbligazioni di risultato quando fa i suoi bilanciamenti di ragionevolezza? Quando in Parlamento non si riesce a raggiungere una composizione e si produce un affollamento di istanze, quando il principio maggioritario non riesce a risolvere più i problemi (e questa è la vera crisi della legalità), è fatale che ci siano delle istituzioni che si assumono il compito di ricomporre. CRITERI DI UNIFORMITÀ
E ciò in base a quali criteri? Sulla base di un modello predittivo scritto tutto nella testa di un costituente? Certamente no; questo avviene sulla base di un criterio mobile, duttile, di composizione che chiamiamo "ragionevolezza". Si tratta ancora, al di là della denominazione, di un quid sottoposto a un'obbligazione di risultato: la stabilità della composizione. Esso si realizza in sistemi che hanno perduto il bene dell'obbedienza spontanea; perché legalità questo significa. Vittorio Emanuele Orlando lo scriveva ai primi del '900, quando si cominciava ad ipotizzare la nascita di un sistema di controllo sugli atti legislativi; già allora la società si andava pluralizzando, questi fenomeni emergevano, ed egli, accortosi di questo, lo rifiutava: perché? Perché pensava giustamente che tutto ciò rompesse la categoria dell'obbligatorietà, cioè il sistema delle fonti. La Costituzione rompe la categoria dell'obbligatorietà 57
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perché quest'ultima deve avere una sostanza forte: se non è capace di unificare, perde e ad essa si affiancano altre istanze di ricomposizione. La ragionevolezza è uno strumento attraverso il quale si tende all'unificazione di una pluralità di valori che non ha trovato, in sede legale, la sua stabile composizione; composizione che verrà trovata anche dalla Corte Costituzionale con molta difficoltà. Vicende passate, e anche attuali, dimostrano come neppure la costituzione di istanze che rispondono a un tipo di legittimazione per valori riescono a risolvere del tutto tali problemi. Allora si ricomincia, si riafferma per un'altra volta la legalità, per un'altra volta i valori, senza però arrivare ad un obiettivo chiaro. Questa è la ragione del pensiero debole, il quale esprime l'assenza di una meta definita. Gli stessi mutamenti intervenuti nella forma di governo rispecchiano in larga misura questi fenomeni che sono strutturali. Ricostruire sempre tutto in termini di legalità rischia di essere fuorviante. Ad esempio, occorrerebbe evitare di fare emergere convenzioni costituzionali ad ogni stormire di fronda. Si è parlato della convenzione della staffetta, Capotosti ha addirittura indicato una convenzione ad excludendum della Democrazia Cristiana. Quel che è certo è solo che ci sono state delle vicende che testimoniano di fenomeni di mobilità, del passaggio da una fase di tipo consociativo ad una fase che è ancora difficile definire, data la dislocazione ambigua, impropria che ha oggi il sistema politico italiano. 58
IL VALORE DELlA LEGGE 400
Che valutazione, che valore assume in questo contesto la legge 400? Direi ancora nessuno; si possono soltanto formulare aspettative, speranze: qualcuno, un domani, potrebbe utilizzarla. Si tratta di un'istanza di spostamento del sistema in senso maggioritario, di recupero forte del principio di maggioranza ; è questo talmente legato alle vicende della politica che è molto difficile fare previsioni. E opportuno, però, non caricare di valenze istituzionali tali vicende se vogliamo preservare un minimo di oggettività delle istituzioni. Piuttosto, è importante introdurre un ultimo tema. I mutamenti della forma di governo si percepiscono in pieno osservando i mutamenti della Presidenza della Repubblica, che rappresentava il polo su cui si concentravano, li si davvero, le condizioni fondanti del sistema. Sulla conventio ad excludendum, la sola, unica, vera convenzione che abbia conosciuto l'Italia, ha funzionato per tanti anni la nostra forma di governo e su quel funzionamento si è strutturata giocandoci a cavallo, ora da una parte, ora dall'altra, ora dalla parte della maggioranza, ora assecondando processi, di coinvogimento delle opposizioni un'istituzione: la Presidenza della Repubblica. Ebbene, oggi, questa istituzione, non ha più una funzione, non ha più le convenzioni da gestire, è rimasta nuda. Allora, che cosa è rimasto sguarnito sul fronte delle istituzioni? Un momento di forte stabilità. Il sistema politico oggi si appropria dell'esercizio delle "convenzioni": il
vis a vis fra le parti "salta" le istituzioni. La vera debolezza del sistema nasce dal fatto che oggi la stabilità non è istituzionale, le istituzioni politiche non garantiscono più quel minimo di stabilità, e anzi, quando intervengono, sembrano peggiorare le cose. E possibile dunque concludere con un ultimo interrogativo, realmente retorico. Quali prestazioni si chiedono alle istituzioni politiche e al
Presidente della Repubblica in particolare? Quali prestazioni di unificazione possiamo chiedere? Secondo quali criteri gliele chiediamo? Ciascuno dà le risposte che vuole. Ma, certo, è questa la crisi di ftinzionamento delle istituzioni su cui riflettere, se per istituzioni intendiamo un quid di oggettivo che è chiamato all'adempimento dell'obbligazione di stabilità.
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Fonti normative, legalità e legittimità: l'unità della ragionevolezza di Antonio Baldassarre
Il problema della crisi della legge e dell'esigenza di riordino del sistema delle fonti normative è uno dei problemi di più difficile soluzione, poiché le cause 'sono molteplici e di vario ordine. Non è facile scindere le cause politiche da quelle istituzionali e individuare fra le prime quelle che sono espressione di profili strutturali e quelle che nascono da contingenze o patologie storiche più particolari. Tanto per fare degli esempi che sono sotto gli occhi di tutti e che sembrano dimostrare quanto sto dicendo, è difficile non pensare che sulla crisi della legge non incida la frammentazione sociale, spesso la disgregazione, alimentata e moltiplicata, a livello di rappresentanza politica, da un sistenìa elettorale proporzionale, che ormai ha perduto la sua legittimazione storica (garante della convivenza tra gruppi politici opposti, fra partiti—sistema e partiti anti—sistema). Ed è anche difficile escludere che lo sviluppo di rapporti trasversali tra vari gruppi interni a partiti e il conseguente crearsi di rivalità più forti all'interno dei partiti (anziché tra partito e partito) siano i segni di una decadenza allo stadio finale di un sistema di partiti, che ha perduto la sua razionalità e che, con la sua strutturale irrazionalità, alimenta, a
sua volta, la crisi del parlamento e della legge. Non v'è dubbio che questi fenomeni storici e, in un certo senso, contingenti influiscano potentemente sulla crisi della legge e sull'irrazionalità attuale del sistema delle fonti normative. Ma accanto a questi vi sono fenomeni indubbiamente strutturali che vengono da lontano e che in qualche modo sono connessi allo sviluppo dello Stato moderno, alla forma di Stato contemporanea. Non credo che le molte analisi che sono state fatte a livello politico su questi ultimi fenomeni siano pienamente convincenti. Quel che voglio dire è che l'analisi posta a base delle legislazioni di grande riforma che si sono avute negli ultimi decenni soffre di un certo intellettualismo, che ha portato a soluzioni spesso astratte e che, comunque, hanno finito più per complicare il sistema che per semplificarlo o per risolvere i nodi più complessi. Valga un esempio. Con il d.P.R. n. 616 del 1977 sono state modificate profondamente, con atti aventi valore di legge ordinaria, la consistenza e il significato delle materie ripartite fra le competenze dello Stato e quelle delle regioni. A seguito di tale legge sono stati modificati, in definitiva, i confini originariamen-
te stabiliti in Costituzione per le competenze statali e per quelle regionali e, quindi, i rapporti tra legge statale e legge regionale. Tutto ciò è stato fatto con legge ordinaria modificabile da successive leggi statali dello stesso tipo. Il che comporta - come pure era stato subito notato da Antonio D'Atena in un'analisi che, per la verità, rimase allora isolata - che un atto, come la legge statale, che è oggetto della ripartizione costituzionale delle competenze fra Stato e regioni, diviene la base della ripartizione stessa, nel senso che, mentre per un verso il legislatore statale è destinatario delle norme che fissano i limiti tra la propria competenza e quella regionale, per altro verso, è l'autore sostanziale di tale ripartizione. In tal modo, ogni legge statale, in un divenire spesso caotico e poco ragionevole, può mutare - e di fatto muta - continuamente quella che dovrebbe essere - e, formalmente è - la ripartizione costituzionale delle competenze legislative fra Stato e regioni. Questo fenomeno ha in qualche modo concorso a vanificare l'esigenza di "utilizzare" il decentramento legislativo nel senso di permettere, da un lato, al Parlamento di fare norme di principio (la grande legislazione) e, dall'altro lato, di affidare alle regioni la legislazione più minuta o di dettaglio. Si badi, non voglio dire che quella indicata è la causa di tutto ciò. Il fenomeno della "amministrazione" della legge è in realtà un fenomeno legato alle strutture dello Stato contemporaneo, come è noto. Ma quello indicato è un esempio del fallimento
di un tentativo, non dico di invertire la tendenza, ma di attenuarne gli eccessi e di dare un minimo di ordine a un aspetto fondamentale del pluralismo delle fonti normative. Un fallimento che ha le sue cause pure nel versante regionale, nel quale è difficile non constatare come le classi politiche regionali abbiano storicamente dimostrato una mancanza di iniziativa e di creatività che ha condannato le autonomie regionali in ambiti sempre più marginali e insignificanti: una mancanza che tocca livelli drammatici e assolutamente patologici nelle regioni meridionali. Non c'è da stupirsi, pertanto, se nei rapporti tra Stato e regioni accada, come è stato autorevolmente ricordato, che chi prima arriva, occupa il campo. E spesso, nelle circostanze ricordate, è lo Stato a occupare il campo e sono le regioni - o, più precisamente, la maggioranza delle regioni - ad accettare ciò, senza alcuna contestazione formale. L'esempio fatto è forse il caso più mascroscopico di intervento legislativo sulle fonti normative, che, considerato da un punto di vista strutturale, sembra andare in senso opposto a quello proprio della tendenza fondamentale del processo di evoluzione delle fonti normative in uno Stato democratico pluralista (uno Stato che, in.quanto tale, è Stato basato su una Costituzione rigida inglobante i valori fondamentali della convivenza civile). In questo Stato, infatti, la signoria delle fonti deve risiedere nella Costituzione: qui sta il signore delle fonti, non nella legge ordinaria, (/ 61
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come avveniva nello Stato parlamentare ottocentesco, nello Stato liberale "monoclasse", fondato su una Costituzione flessibile, prevalentemente "procedurale", i cui valori erano valori "deboli", recessivi rispetto alle valutazioni day-byday del Parlamento. Le vicende del d.P.R 616 del 1977 e, più in generale, le vicende relative alla ripartizione tra legge statale e leggi regionali contraddicono quella regola, poiché in tal caso la signoria delle fonti risiede sostanzialmente nella legge ordinaria dello Stato. il problema si complica se da queste vicende si passa a considerare altre vicende relative alle fonti. Se, infatti, il criterio seguito nel caso dei rapporti tra legge statale e legge regionale fosse stato seguito con coerenza in ogni direzione e in qualsiasi campo, si sarebbe potuto dire che il criterio era antistorico, ma, in ogni caso, presentava una sua coerenza. E' successo, invece, che in altra ipotesi si è seguito il criterio esattamente opposto. Nella iperrazionale riforma della. Presidenza del Consiglio operata con la legge 400 del1988, il sistema delle fonti normative secondarie è stato riordinato basando tutti i regolamenti sulla Costituzione. Come ha ben detto Enzo Cheli, la legge 400 del 1988 ha reso chiaro ciò che la Costituzione implica: l'essere la potestà regolamentare, in tutta le sue forme di esplicazione, basata sulla Costituzione stessa e l'essere ricondotte le varie espressioni di tale potestà nei confini costituzionalmente richiesti (divieto di regolamenti ministeriali in campi di competenza regionale, ecc.). 62
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La confusione nel sistema delle fonti s'è ancor più accresciuta, sempre nel tormentato rapporto tra fonti normative statali e fonti normative regionali, dal particolare sviluppo avuto dalla funzione governativa di indirizzo e coordinamento. L'uso di questa funzione da parte del Governo ha progressivamente portato a vere e proprie invasioni nel campo regolamentare, sicché in molti casi solo formalmente è possibile distinguere tale funzione da quella normativa secondaria. Messa in una difficile posizione di fronte a tale problema, la Corte costituzionale ha tentato di ridurre la portata della funzione di indirizzo e coordinamento al fine di non legittimare una surrettizia intromissione nell'àutonomia regionale da parte di atti sostanzialmente simili a quelli derivanti da una fonte normativa secondaria. Perciò la Corte ha affermato che le regioni, quando sono destinatarie delle direttive espresse nell'ambito di tale funzione, sono vincolante soltanto al perseguimento di un risultato equivalente. Oppure la stessa Corte ha detto che, in certi casi, l'atto di indirizzo e coordinamento non ha forza vincolante e può essere derogato in concreto. Ciò non toglie, tuttavia, che il problema del rapporto degli atti di indirizzo e coordinamento rispetto al sistema delle fonti resti un problema aperto, ancora lontano dall'essere risolto. Il punto di fondo ai fini di un riordino del sistema delle fonti normative sta, a mio avviso, nel fatto che non si è pienamente percepito il significato delle novi-
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tà introdotte nel campo considerato dalla Costituzione, così come è stata applicata in più di quarant'anni di vita. In particolare, non ci si è resi conto che l'irrompere nel nostro sistema delle fonti degli atti normativi a competenza atipica (c.d. fonti atipiche) ha comportato l'introduzione di un nuovo principio di giustificazione. Il vecchio ordinamento gerarchico delle fonti era la realizzazione più coerente del principio di legalità; ogni piano doveva essere conforme al piano sùperiore, fino a giungere al livelllo supremo, quello della legge. L'introduzione del principio di competenza non ha semplicemente limitato la precedente concezione, ma l'ha cambiata in radice. Il concetto di gerarchia è un concetto assoluto, non tollera eccezioni; se un sistema "gerarchico" presenta "eccezioni" vuoI dire che non è gerarchico. O, meglio, può essere parzialmente gerarchico solo se la parte che risponde al principio di gerarchia resta separata da quella che risponde ai principi diversi. Ma così non è nel nostro sistema, dove fonti ispirate al principio gerarchico convivono, senza separazioni, con fonti ispirate al principio di comp[etenza. Perciò ha ragione Modugno nel dire che il nostro non è, in definitiva, un vero e proprio sistema gerarchico. Il fatto è che le fonti atipiche si rifanno, non già alla legalità, ma alla legittimazione. In altri termini, il valore delle fonti atipiche non deriva dalla collocazione dell'atto in un certo ordine di livelli (forma, forza), ma dipende dall'essere
promanazione di certi soggetti (es. fonti comunitarie, leggi regionali) ovvero di certi soggetti in una particolare veste o dal comportare il coinvolgimento di certi soggetti (es. leggi basate su intense, norme di attuazione degli Statuti speciali) o di certi organi (es. pareri). Di qui deriva, come è noto, che all'interno di uno stesso tipo di atti si produca una differenziazione di valore derivante dal particolare atteggiarsi di una competenza rispetto a un determinato campo di operatività. Questo avviene pure all'interno della Costituzione, dove gioca la differenza tra le scelte fondamentali compiute dal Costituente (c.d. principi supremi) e le altre scelte costituzionali (come ha ricònosciuto anche la Corte costituzionale). In ogni caso, se si deve fare un esempio di una fonte atipica che esprime al massimo il suo legame con la legittimazione, questo è dato dal referendum abrogativo. Un sistema del genere, a differenza di uno fondato sulla mera legalità, non può avere un'unità precostituita, pre-data. Esso non può avere, in altri termini, un'unità formale. Di qui deriva la crisi della vecchia dottrina giuspubblicistica - che forse ha raggiunto con Crisafulli il punto più alto, ma anche il più critico - per la quale la logica del sistema presupponeva un'unità formale. Ma neppure è possibile un'unità sostanziale, nel senso auspicato in Germania, sul finire del secolo scorso, dagli oppositori dei formalisti, poiché non ci può essere un motivo di unità radicato nelle scelte politiche o nelle materie fatturali regola63
te. L'unità può essere solo complessa e legata ai valori posti a base del sistema (valori costituzionali); l'unità può essere solo ex-post, come risultato giurisprudenziale, e, in particolare, come risultato della giurisprudenza costituzionale. La chiave di questa unità è data dal criterio o dal principio della ragionevolezza. Se l'unità del sistema è stata dislocata a livello dei valori costituzionali, è nella logica di questa che va individuata la chiave dell'unità. E la logica dei valori è quella delle ragionevolezza. La ragione-
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volezza che è commisurazione delle scelte del legislatore, ordinate secondo lo schema mezzi—fini, alle gerarchie di valori costituzionali relative a quelle scelte. Tutto ciò sembra lineare e quasi naturale se si guarda al concreto modo di operare del sistema. Eppure, che se ne abbia consapevolezza o no, è semplicemente rivoluzionario rispetto al consueto modo di concepire l'ordinamento delle fonti normative, rispetto all'ordinario modo di fare dell'operatore giudiziario e della dottrina giuspubblicistica oggi dominante.
Il principio di legalità di Valerio Onida
LE FONTI TIPICHE
Per tornare al sistema delle fonti, non sembra si pretenda tanto quando si afferma di volere un sistema in cui le fonti siano tipizzate, cioè si sappia quali sono gli atti e i procedimenti attraverso i quali si può produrre diritto, in cui sia chiarito qual è l'ambito di competenza di ciascuna fonte e in cui siano chiariti i rapporti fra fonti. Si può essere d'accordo sul fatto che il principio di preferenza di legge e di gerarchia non sia sufficiente a definire oggi un sistema delle fonti adeguato non solo alla realtà, ma alle esigenze di una società complessa; si può essere d'accordo sul fatto che un allargamento del criterio della competenza nel rapporto tra fonti potrebbe rappresentare la strada per instaurare un sistema di fonti più razionale, ma il criterio della competenza implica predefinizione attraverso norme, costituzionali se è il caso, dell'ambito di competenza di ciascuna fonte, che, dunque, vi sia un criterio, che questo criterio venga rispettato e che vi sia qualcuno che lo faccia rispettare, cioè la Corte Costituzionale. In fondo, la storia del rapporto fra fonti statali e fonti regionali insegna sì che c'è una gran confusione ma anche che le norme c'erano e non sono state sufficientemente rispettate. Sul te-
ma dell'indirizzo e coordinamento, è vero che esso ha "sfondato" la chiarezza del sistema delle fonti nei rapporti fra Stato e Regioni, ma non perché ciò fosse ineluttabile, bensì perché si è affermata una prassi ed anche una giurisprudenza costituzionale che ha aperto, più o meno largamente, le porte a questo fenomeno; ed è potuto accadere perché indubbiamente, le Regioni italiane sono istituzioni "deboli" che non hanno ancora o hanno perduto l'occasione di consolidare una loro presenza istituzionale capace di difendere le frontiere nelle quali la Costituzione sembrava dare loro uno spazio. Questo però non è risultato ineluttabile, ed anzi va comunque in un modo o nell'altro superato, vuoi cambiando le regole, vuoi applicando meglio le regole esistenti. Venendo poi ai rapporti legge-regolamento, l'ipotesi della riserva di regolamento, l'ipotesi della riserva di regolamento alla francese è tutt'altro che da scartare, ai fini della razionalizzazione del sistema.
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DELEGIFICAZIONE
Per ciò che riguarda la delegificazione, il vero fenomeno avvenuto nel nostro paese in questi anni è quello dei contratti del pubblico impiego perché è difesa, 65
anche contro possibili tentazioni del Parlamento di ritornarci sopra, dalla forza dei sindacati del pubblico impiego, che non soio si sono conquistati questo spazio, e non solo lo sanno difendere, ma lo vanno aggressivamente allargando. Quindi, si potrebbe dire che un processo di delegificazione, per essere attuato in maniera efficace, richiede che l'organo a favore del quale va sia un organo forte e capace di difendere il proprio spazio, e che vi siano quindi le garanzie di questo processo; il Governo, finora, non ha dimostrato una particolare capacità, o volontà, o possibilità in questo senso. Sulla legislazione di principio, è vero che vi è una serie di deleghe legislative, nelle quali, si è realizzato il doppio stadio della normazione, cioè la enunciazione preventiva dei principi e una successiva identificazione, attraverso la legge delegata, delle disposizioni specifiche. Quindi, è dimostrato che non è impossibile, neanche nel nostro sistema, attuare questo meccanismo: perché, allora, non viene più ampiamente impiegato? perché, ad esempio, il doppio stadio nel rapporto legge statale - legge regionale non è mai stato attuato, nonostante vi fosse la premessa costituzionale in questo senso? Perché il legislatore statale non ha usato la stessa tecnica che usa quando delega il governo, o perché non usa la stessa tecnica per delegificare o per fare quelle leggi contenenti norme di principio alle quali succederebbero i regolamenti di attuazione e di integrazione di cui parla l'art. 17 lettera b) della legge 400? Forse
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perché, nel nostro sistema, un po' tutti i protagonisti che intervengono nell'attività normativa vorrebbero sempre decidere tutto, perché c'è poi il problema, quando si passa ad un sistema di normazione a doppio stadio, del controllo della congruenza del secondo stadio rispetto al primo. Effettivamente, da questo punto di vista, l'adozione del modello della normativa di principio seguita da una normativa di fonte diversa, contenente i dettagli, pone dei problemi diversi da quelli classici della gerarchia, perché la gerarchia comporta che, nell'antagonismo tra due norme di grado diverso, prevale la fonte superiore. Ma, nel caso in cui si ricorra al doppio stadio, e quindi alla normativa di principio, non si dà mai la compresenza di due norme che regolino lo stesso oggetto e che siano incompatibili fra di loro; si dà piuttosto il caso di una disposizione particolare che può essere, o non essere, conforme al principio della normativa del primo stadio. E il tipo di riscontro, di controllo, e anche di garanzia di conformità che si può dare in questo caso è diverso da quello che può dare il giudice, che semplicemente disapplica la norma regolamentare, contrastante con norma legislativa che disciplini lo stesso oggetto. C'è da dire che, per esempio, occorrerebbe immaginare un sistema di controllo sulla conformità dei regolamenti di attuazione ed integrazione alle leggi di principio, arrivando fino ad immaginare l'estensione del controllo di costituzionalità, perché in fondo si tratta pur sempre di un mecca-
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nismo dello stesso tipo, cioè non eliminazione di una norma in quanto incompatibile con un'altra, ma valutazione dell'a conformità di una norma particolare rispetto a un parametro generale, a un principio contenuto in un'altra norma di fonte superiore.
PIUNcIPI0 Dl LEGAUTÀ, GovLENo E PARlAMENTO
Per quanto riguarda la disciplina endogovernativa e l'attuazione della legge 400, va detto che l'indirizzo politico non è un dato astratto e predeterminato, ma si fa nel tempo. Però, i problemi del coordinamento, in una istituzione come il Governo, si pongono in modo diverso da quello in cui si presentano nell'ambito di altre istituzioni. La necessità del coordinamento da cosa nasce? Dalla complessità delle materie da trattare e dei processi decisionali, dalla pluralità degli interessi coinvolti, dalla pluralità di apparati settoriali, cui è affidata la cura di interessi diversi che debbono essere armonizzati fra di loro. Ora, da qui, nasceva 1 idea che occorresse nell ambito del governo, la creazione di un centro più autorevole e dotato di maggiori strumenti, di un centro unitario per il coordinamento; idea che mi sembra' del tutto ragionevole. In una istituzione della dialettica e del conflitto, come è il Parlamento, l'unità si raggiunge, come è noto, attraverso la procedimentalizzazione delle decisioni e il principio di maggioranza. Principio di maggioranza che è forse anche l'elemento portante, tanto è vero
che le decisioni del Parlamento non sono necessariamente coerenti fra di loro nel tempo. E noto che uno dei punti deboli delle assemblee sta proprio nel fatto che possono prendere, quasi istituzionalmente, decisioni non coerenti fra di loro in tempi diversi, perché si coagulano diverse maggioranze, perché il processo di formazione delle maggioranze non garantisce la coerenza nel tempo delle decisioni; anzi, il principio di maggioranza è talmente forte nelle istituzioni della dialettica e del conflitto come il Parlamento che può anche arrivare a rompere le regole. Non è un caso che il diritto parlamentare interno (i regolamenti parlamentari) sia un diritto in un certo senso debole, perché le sue regole sono pur sempre rimesse, in definitiva, all'applicazione da parte della maggioranza: anche quando c'è un presidente che decide, l'ultima parola è all'assemblea, che può anche decidere di decidere contro le proprie regole. Una istituzione come il Governo, che è pur sempre, usando un termine forse oggi obsoleto, "potere esecutivo", cioè potere chiamato ad operare in ambiti parametrati, in cui già esistono dei vincoli (vincoli di natura normativa e vincoli di natura finanziaria, ad esempio), è chiamata essenzialmente ad attuare un indirizzo sia pure da esso stesso via via determinato e precisato. Ora, in una istituzione come questa, l'unità non può essere assicurata attraverso il principio di maggioranza; nessuno potrebbe immaginare che si assicuri il coordinamento governativo attraverso una quoti67
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diana riunione del Consiglio dei Ministri in cui, a colpi di maggioranza, si. prendono le decisioni, magari volta a volta incoerenti. Occorre assicurare la coerenza interna fra i diversi comportamenti che si rifanno a questo apparato e, nel tempo, fra le diverse decisioni, attraverso la creazione di un centro di unità, che dovrebbe essere la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Però, perché questo disegno possa funzionare, perché la Presidenza del Consiglio dei Ministri funzioni come centro di unificazione, e non attraverso il principio di maggioranza, ma attraverso la capacità direttiva della Presidenza stessa, occorrono dei presupposti, che sono appunto quelli che in gran parte oggi mancano, occorre cioè una preventiva accettazione, piena e senza riserve mentali da parte di tutti i partecipanti all' istituzione, delle regole, sia di tipo procedimentale sia di tipo sostanziale; l'accettazione dell'idea che i propri comportamenti hanno dei parametri, dei limiti che condizionano l'attività: sarà il rispetto delle competenze, di ogni Ministro, di ogni apparato, di ogni organismo, dello Stato nei confronti delle Regioni e così via, sarà il principio di legalità, cioè il rispetto, per esempio, da parte dell'attività governativa, delle norme di legge. Insomma, occorre, per usare un'espressione sintetica, almeno in una certa misura, non mettere sullo stesso piano fini e mezzi: non si può, in nome dei risultati che si vogliono ottenere, completamente ignorare le regole càncernenti i mezzi. Allora perché nel nostro
sistema, invece, si nota (e in maniera così consistente) una tendenza a fuggire dalle regole? Non è solo la crisi della legalità, la complessità dei problemi; è proprio fuga dalle regole. Sembra che tutti i protagonisti facciano il maggior sforzo possibile non per restare nelle regole, ma per eluderle; talvolta si assiste a comportamenti che possono apparire persino incongruenti. Ad esempio, vi è una norma di legge che prevede un certo procedimento: in sede governativa e.amministrativa si va avanti per mesi, se non per anni, a discutere del modo in cui si potrebbe realizzare quella tale cosa in maniera difforme da quello che la legge prevede. Ma se l'istituzione Governo è legata poi al Parlamento dai rapporti che conosciamo, non sarebbe meglio impiegare quelle energie per provocare una revisione del testo di legge, per adeguarlo agli interessi che si vogliono effettivamente perseguire, piuttosto che spendere queste stesse energie nel tentativo di eludere la legge, e questo talvolta in maniera del tutto consapevole? Ciascuno potrebbe richiamare alla propria mente esempi di questo modo di procedere. La valutazione complessiva è che, nel nostro sistema politico e nella fase attuale più che mai, la prevalenza della politica del breve respiro, la prevalenza dei risultati immediati sull'attaccamento alla coerenza del sistema, è un dato troppo diffuso. Da parte di tutti i protagonisti c'è una grande disaffezione verso il sistema delle regole, verso il quadfu normativo, istituzionale, quindi verso la coe-
renza complessiva del sistema, in nome dei risultati immediati, di ciò che si vuole non domani, ma oggi, immediatamente, di ciò che si può ottenere attraverso più o meno furbesche elusioni. Nell'ambito delle istituzioni, di qualunque istituzione si può distinguere tra chi immette nel proprio programma, anche come programma politico e istituzionale, il rispetto e lo sviluppo della coerenza delle istituzioni e delle sue regole e chi invece immette nel proprio programma esclusivamente e soltanto il perseguimento di interessi immediati. Va detto, però, che spaventa fortemente l'idea che la soluzione stia nella ricerca dell'efficienza, del risultato e della legittimazione, perché questo porta dritti su strade di estrema pericolosità (per esem-
pio all'uomo forte). Si dice: la legalità non basta ma il problema è se la legalità comunque debba sussistere, o, se, in nome della legittimità, del risultato, dell'efficienza, non solo si supera la stretta legalità, o c'è o non c'è; o si osservano le leggi o non si osservano. Allora, o le norme vanno rispettate, cambiate con debiti modi, secondo la gerarchia, ecc.; o non vanno rispettate. Se rompiamo questo argine, se decidiamo che non vanno rispettate, sia pure in nome dell'efficienza, dei risultati ecc., abbiamo perduto non "un" fondamento, ma "il" fondamento degli Stati liberaldemocratici contemporanei. Io credo che non possiamo essere troppo facilmente disposti a percorrere fino in fondo questa strada.
Il principio di legalità e l'esercizio del controllo sulle norme di Domenico Marc hetta
La Corte dei Conti, istituzione che al rispetto della legalità nell'amministrazione lega la ragion d'essere della sua esistenza e della sua storia, oggi si trova pesantemente investita dalla crisi del principio di legalità e dalla perdita di valore del criterio della legittimità come parametro del controllo, rimanendo "prigioniera" di un ordinamento superato, ma accusando anche contraddizioni e ritardi nella presa di coscienza di tale realtà; da qui l'effettivo rischio di una "dissolvenza" istituzionale. Certamente oggi il sistema delle fonti normative va interamente ripensato e riscritto e lo stesso principio di gerarchia delle fonti non ha più la rigidità di un tempo. Sotto questo profilo, forse, è vero che i primi capitoli dei tradizionali testi di diritto costituzionale - anche se non inutili - si awiano ad essere relegati nell'ambito della storia delle scienze giuridiche. La stessa Costituzione ha avuto un ruolo non secondario nel delegittimare il principio di legalità, e ciò è avvenuto nel momento in cui il testo costituzionale ha "svelato" compiutamente il pluralismo delle ispirazioni, dei principi e dei valori che in esso sono paritariamente accolti. In una prima fase la Costituzione ha
ftinzionato come "negazione del passato" e ciò ha consentito di superare le divisioni ideologiche interne al patto costituzionale. In tale situazione il possibile dissidio rimaneva sullo sfondo, ma vi era uno scontro latente sui "principi duri" dell'organizzazione economica e sociale e, probabilmente, sulla stessa nozione della "qualità democratica" dei rapporti plitici. Orbene, finché la Costituzione ha conservato il suo carattere di "ambiguità" essa ha alimentato aspettative costituzionali differenziate ed ha consentito al suo interno la ricostruzione di diversi sistemi, tutti egualmente plausibili e fondati sulle diverse "letture" consentite dal testo costituzionale (era sufficiente, a questo scopo, attribuire carattere "totalizzante" ad uno o più principi della Costituzione e costruire su tale base un sistema razionale e coerente): Diventata la Costituzione una Costituzione "svelata" è venuto in tutta evidenza il suo carattere pluralistico e si è posto il problema di confrontare i valori che in essa sono contenuti ed affermati, per trovarne un criterio di composizione. Questa composizione si attua attraverso l'intervento della Corte Costituzionale, che allo scopo fa uso essenzialmente del principio di ragionevolezza. Si tratta for-
se di una semplificazione espositiva, ma noto spesso una certa enfatizzazione del criterio della ragionevolezza come strumento capace di assicurare la riduzione ad unità del pluralismo del nostro sistema; mi sembra, invece, che sia quanto meno da sottolineare l'inadeguatezza del rincipio in rapporto a tutti gli interessi in gioco, specie quando questi diventano interessi in senso lato "politici" e, probabilmente, quando ci si imbatte nelle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. In effetti, se è vero che esiste una crisi del principio di legalità, è da dire che la crisi non è del principio in se stesso, ma del suo carattere eccessivamente persuasivo; si tratta cioè, del venir meno delle ragioni per cui il principio aveva assunto e conserva tuttora diramazioni e ramificazioni estremamente diffùse, che si estendono praticamente a quasi tutte le attività, anche nelle espressioni più minute. La crisi del principio di legalità è dunque la crisi della sua anomala pervasività nell'ordinamento, che sicuramente va eliminata. Credo però che, una volta effettuata la dovuta "potatura" di queste diramazioni anomale, il principio di legalità debba ricevere una riqualificazione ed una riaffermazione, basata sull'esigenza insopprimibile che alcune regole comunque debbono esistere, e fra queste, in primo luogo, ci sono le regole istituzionali e quelle della produzione legislativa. La legge 400 deI 1988 ha introdotto alcune, importanti innovazioni, in parti-
colare per la produzione delle norme secondarie, attraverso la procedimentalizzazione dell'esercizio del potere regolamentare. Non si tratta di un fatto soltanto formale; nel nostro caso il procedimento non è (nè dovrebbe essere mai) fine a sé stesso, ma assume carattere' di sostanza, tendendo 'a far sì che attraverso il procedimento vengano ad avere rilievo alcuni interessi che il legislatore ha voluto che fossero necessariamente presenti: per esempio, gli interessi di coordinamento imputati al Presidente del Consiglio (a ciò è preordinato l'obbligo di comunicazione preventiva del testo regolamentare allo stesso Presidente del Consiglio). Ma ci sono anche interessi e posizioni individuali e collettive - escluse dai maggiori circuiti decisionali operanti a livello politico e sociale - che solo con il rispetto dei procedimenti e delle forme legali possono ricevere ingresso e considerazione nel sistema di produzione normativa secondaria (magari semplicemente attraverso l'attività consultiva obbligatoria del Consiglio di Stato). Ora, in questa procedimentalizzazione dell'esercizio del potere regolamentare, c'è un'importante novità: l'intervento finale della Corte dei Conti, che app6ne il visto di legittimità sui regolamenti, e lo appone non più soltanto sui regolamenti governativi, ma anche e soprattutto sui regolamenti ministeriali, che prima ne erano esclusi. La nuova legge, pertanto, inserisce in modo completo la Corte dei Conti nel circuito istituzionale di garanzia dell'e71
sercizio del potere regolamentare e la collocazione funzionale e temporale di tale controllo (cioè il fatto che esso intervenga alla fine del procedimento di produzione normativa) attribuisce al controllo stesso alcune potenzialità del tutto particolari. In sede di controllo di legittimità sui regolamenti viene rimessa in primo iuogo alla Corte dei Conti la verifica del "rispetto delle regole" procedimentali (ad esempio l'intervenuta acquisizione del parere obbligatorio del Consiglio di Stato e la presenza degli altri adempimenti e requisiti formali richiesti). A ciò si aggiunge, poi, il fondamentale riscontro della congruenza della disciplina regolamentare con quella contenuta nelle fonti normative sovraordinate e, per i regolamenti ministeriali, l'ulteriore verifica della presenza di un'espressa disposizione di legge che ne legittimi l'esercizio. Questo importante compito, però, può essere svolto soltanto se vqìgono in tutti i casi osservate le regole di produzione normativa previste dalla legge. Ciò vale, in particolare, per i regolamenti ministeriali, i cui decreti approvativi sono assoggettati al visto di legittimità della Corte dei Conti soltanto ed in considerazione del fatto che si tratta, appunto, di regolamenti adottati a norma delle disposizioni poste dal nuovo ordinamento. Ove, invece, la medesima disciplina venisse indebitamente stabilita con semplice decreto ministeriale, quest'ultimo, di per sé, sftiggirebbe al controllo della Corte (a meno che non 72
contenesse altre statuizioni di carattere provvedimentale o finanziario). L'ipotesi non è soltanto accademica, poiché come è stato ampiamente illustrato dal professor De Siervo in una sua comunicazione al "Quarto convegno nazionale dell'Associazione italiana di costituzionalisti", tenutosi a Napoli il 27/28 ottobre 1989 - nel primo periodo di applicazione della legge 400, si è verificato che soltanto una minima parte degli atti normativi emanati abbia seguito il procedimento stabilito dalla legge stessa. Vi sono stati invece numerosi atti, sicuramente a carattere normativo (si tratta principalmente di regolamenti ministeriali), pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale ed "entrati in vigore" senza seguire alcune delle formalità prescritte e senza il visto della Corte dei Conti. Un comportamento di questo tipo porta sicuramente a vanificare la legge, né può ritenersi che l'amministrazione abbia il potere discrezionale di dare ad una certa disciplina la veste regolamentare o semplicemente provvedimentale abbassando il livello formale della disciplina stessa (con riferimento alle conseguenze pratiche derivanti dall'appartenenza dell'atto alla categoria dei provvedimenti amministrativi piuttosto che a quella delle fonti normative). La legge, infatti, indica casi e materie in cui deve procedersi mediante l'adozione di discipline di carattere regolamentare (art. 17 legge 400/1988), per cui la natura e la forma dell'atto non sono libere ma vincolate, derivando direttamente dal contenuto e dalla materia a cui esso attiene e non
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dalla volontà o meno dell'amministrazione di provvedere al riguardo con disposizioni di normazione secondaria. Si parla a questo proposito di "riserva regolamentare" e si ipotizza, anzi, l'opportunità di un'eccezione diretta a far valere la riserva stessa nei confronti di iniziative legislative e concorrenti. Se così è, la valutazione se un determinato atto integri o meno un regolamento riveste carattere "oggettivo" ed il relativo giudizio è un giudizio di "legittimità" che è rimesso, in definitiva, al momento del controllo "necessario" che la Corte dei Conti deve effettuare sui regolamenti, controllo del quale essa non può essere privata per effetto di comportamenti omissivi dell'amministrazione. Ed allora - con riferimento ad eventuali atti sostanzialmente regolamentari non sottoposti al visto della Corte dei Conti - potrebbe prospettarsi la necessità di sollevare, da parte della Cotte dei Conti medesima, un conflitto negativo di attribuzioni dinanzi alla Cotte Costituzionale, in quanto l'adozione di atti aventi contenuto normativo, non qualificati come regolamenti perché attratti alle regole procedimentali della legge 400 del 1988 (e quindi come tali non sottoposti al controllo della Cotte dei Conti) priva quest'ultima dell'esercizio di una sua specifica attribuzione. La Cotte Costituzionale sarebbe chiamata pertanto a "fornire le regole" e a dire se, avendo (o dovendo avere) un determinato atto carattere regolamentare, esso vada assogettato al procedimento a tal fine previsto e, di conseguenza,
anche al controllo di legittimità della Corte dei Conti. E il caso di accennare anche al problema delle "ordinanze", che in molti casi contengono norme di natura non soltanto secondaria ma anche primaria. Mi riferisco, ad esempio, alle ordinanze emesse dai commissari straordinari per gli interventi nelle zone colpite da calamità naturali. Di tali atti normativi non è previsto alcun controllo di tipo preventivo e la Corte dei Conti ne può valutare la legittimità soltanto successivamente, quali atti presupposti delle gestioni dei fondi i cui rendiconti pervengono al suo controllo in via consuntiva. In una recente audizione presso la Commissione parlamentare d'inchiesta sugli interventi nelle zone terremotate della Basilicata e della Campania ho avuto modo di evidenziare proprio il problema di tali ordinanze, spesso caratterizzate da un quasi illimitato potere di "deroga" all'ordinamento vigente, essendo non di rado previsto il solo limite del rispetto dei principi della Costituzione e di quelli generali dell'ordinamento (limiti, chiaramente, di difficilissima individuazione e di altrettanta poco plausibile verifica nelle concrete situazioni operative). L'ordinamento conosce anche altri tipi di ordinanze, in settori non di emergenza. Anche per le ordinanze sussiste, in generale, l'esigenza "minima" di formalizzare i procedimenti di emanazione e quella di assicurarne la "conoscibilità" mediante apposita pubblicazione, non73
chÊ di stabilire differenziate forme di controllo. Il fenomeno, nel suo complesso, rappresenta ancora oggi una zona d'ombra del nostro ordinamento, che non può essere ignorata nel mo-
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mento in cui si cerca di stabilire alcune garanzie ed alcune regole essenziali nell'ambito della vasta e per certi versi inesplorata area della produzione normativa sublegislativa.
L'evoluzione del sistema di Alessandro Pizzorusso
Nonostante che già circa un secolo fa ci fosse stato chi aveva segnalato l'oppor, tunità che il sistema delle fonti del diritto fosse studiato nell'ambito del diritto costituzionale (\Jittorio Scialoja, in Studi Skouofer. III, p. 305 ss.), fino a poco tempo fa era largamente prevalente l'opinioné secondo la quale appartiene al diritto costituzionale lo studio del "sistema organico di tutte le fonti, oltre che di quelle propriamente costituzionali, mentre appartiene agli altri singoli rami del diritto l'approfondimento delle fonti proprie di ciascuno" (Ferruccio Pergolesi, Sistema delle fonti normative. rist. 1973, p. IX) e ciò comportava, sul piano della didattica, la collocazione di questo tema nell'ambito dei corsi di «istituzioni di diritto privato», salvo occasionali e frammentarie riprese. Massimo Severo Giannini fu uno dei primi ad escludere da un manuale di diritto amministrativo il capitolo sulle fonti, affermando esplicitamente che la trattazione di questo tema era di pertinenza del diritto costituzionale (Lezioni di diritto amministrativo, 1950, p. 54). Gli anni più recenti hanno visto una piena assunzione del compito di studiare il tema delle fonti da parte degli studiosi di diritto costituzionale e ciò costituisce evidentemente un riflesso di quello sviluppo del «diritto costituziona-
le giurisprudenziale» che è seguito in Italia, in Germania, più recentemente in Spagna ed ora anche in Francia (sulle orme di quanto già in passato era avvenuto negli Stati Uniti), alla crescente diffusione del controllo di costituzionalità delle leggi e della «giustizia costituzionale» in genere. Questa evoluzione dell'impostazione metodologica del problema ha consentito di raggiungere immediatamente alcuni risultati assai importanti, principale dei quali è il collegamento fra lo studio del sistema delle fonti e quello della forma di governo, ma esso ha contribuito, per contro, a mettere in movimento la disciplina normativa delle fonti, che è stata progressivamente sconvolta da una serie di modifiche, talune introdotte dal legislatore in modo pienamente consapevole, ma altre frutto di sviluppi maturati nella giurisprudenza o nella prassi sulla base di indicazioni costituzionali o legislative di per sé piuttosto ambigue od incerte, che hanno finito per rendere terribilmente complicato e disorganico il sistema delle fonti. Questo è quanto è avvenuto in massima misura in Italia, ma rispecchia una tendenza assai diffusa anche altrove. Se ci domandiamo che cosa si può fare per attenuare gli inconvenienti che derivano da questa situazione, mi sembra 75
che due considerazioni si impongano prima di ogni altra: secondo la prima, occorre proseguire il cammino intrapreso per ricondurre lo studio del sistema delle fonti nell ambito del dintto costituzionale allo scopo di chiarire meglio quali siano le possibilità di intervento del legislatore e degli altri operatori giuridici e politici in questo campo; secondo l'altra, occorre però anche sforzarsi di condurre avanti, in tutte le sedi possibili (da quella legislativa a quella giurisprudenziale, a quella dottrinale), con maggiore impegno di quanto fosse possibile quando la stessa collocazione del tema appariva incerta, un'opera di razionalizzazione delle discipline delle fonti della quale l'uomo della strada è il primo a sentire il bisogno ogni qual volta si scontra con la diffusa intercezza del diritto della quale la cronaca quotidiana di quanto avviene nel nostro paese ci offre innumerevoli esempi (molto più frequenti di quanto non avvenga nelle altre aree geografiche interessate allo stesso tipo di evoluzione giuridica). Tutti sappiamo come in passato grandi personaggi abbiano dedicato famose pagine ai problemi della certezza del diritto, da un punto di vista filosofico e sulla base di una profonda visione della storia: mi domando tuttavia se non sarebbe il caso di dedicare maggiore attenzione anche ai problemi spiccioli della certezza del diritto che derivano dalla sostanziale incoerenza o incertezza di tutta una serie di regole costitutive del sistema delle fonti, le quali fanno sì che sia estremamente oscuro stabilire in qual misura e 76
con quali precisi effetti debba assicurarsi la conoscibilità del diritto attraverso procedimenti di tipo pubblicitario (come dimostra anche la sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale, pregevole certo, ma anche in qualche misura sconcertante); che il legislatore non sia concretamente tenuto ad osservare un minimo di regole tecniche nell'esercizio di una ftmzione così essenziale quale è quella di modificare l'ordinamento giuridico; che la determinazione dell'efficacia della legge nel tempo (e della sua eventuale retroattività, nelle sue diverse forme) dia spesso luogo a difficoltà insanabili; che l'effettività stessa delle disposizioni legislative sia talmente diseguale da rendere necessario il ricorso a categorie che sembravano definitivamente accantonate, come quella della desuetudine della legge; e la lista delle lamentazioni potrebbe continuare a lungo.
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La legge 400 del 1988 ha compiuto qualche passo verso una razionalizzazione del sistema delle fonti che non può non essere salutato con favore, nonostante i problemi che ha suscitato, così come con favore dovevano essere salutati, a mio parere, gli altri tentativi analoghi che erano stati compiuti con la legge 11 dicembre 1984, numero 839, e con qualche altro intervento di analoga portata (da valutare semmai come troppo timidi, o troppo limitati). Senza escludere che questi testi possano dare luogo a discussioni, com'è ovvio e giusto, mi sembra che si debba anche
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segnalare come quest'opera di riordinamento legislativo della disciplina delle fonti potrebbe e dovrebbe essere condotta in modo piĂš sistematico e che non si vede perchĂŠ, in primo luogo, non si ritenga necessario porre mano ad una
revisione generale di quelle ÂŤdisposizioni preliminari al codice civileÂť che rappresentano ancora il testo legislativo fondamentale relativo alla materia, nonostante che si tratti di un testo per ovvi motivi invecchiato e superato.
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La delegificazione di Mario Colacito
IGNORANTIA LEGIS NON EXCUSAT
Alcune considerazioni sui tema delle fonti del diritto, anche se si tratta di problemi che superano la legge 400. In verità diventa necessario parlare di fonti del diritto in generale dando per scontate preoccupazioni ed attenzioni sulla conflittualità esistente. Vorrei ricondurre il discorso, secondo il punto di vista del giurista, ad una realtà della quale non è strettamente necessario dire o tutto il bene o tutto il male, ma che va intanto presa in considerazione per quello che è. Innanzitutto la questione, oramai forse fuori moda, della conoscibilità del diritto e della sua perfettibilità. Si possono pur scrivere libri su questa materia, ma il risultato non potrà essere significativo se non si chiarisce chi deve conoscere il diritto. Se accettiamo l'idea che il diritto è conoscibile da tutti i cittadini allora ha ragione la Corte Costituzionale: chi non riesce (e sono i più) a sapere le leggi che in un modo o nell'altro disciplinano la sua vita, chi non è in grado di capire una legge, anche se penale, deve essere messo in grado di sapere e di capire. Ma siamo ad una fase pedagogica preliminare. Ed è impensabile rinviare la "certezza" e la "conoscenza" del diritto per l'uomo co78
mune alla soluzione dei conflitti fra le norme. Se invece il discorso lo riferiamo ai tecnici, addottrinati e perfezionisti della legge allora si è bene che venga in primo piano l'identificazione della norma giusta. Dunque, nei confronti dell'uomo comune c e un dovere d informazione e chiarezza (certo, per niente facile), nei confronti del mondo degli operatori del diritto c'è la necessità di trovare il bandolo della matassa. I problemi sono forse risolvibili sempre che, però, si siano presi in esame sul serio i problemi che ancora sono sul tappeto, primo dei quali la riforma delle amministrazioni. Per esempio: con il 1992 qualche potere normativo di qualche Ministro, che vincola, che condiziona, potrebbe essere fatto scomparire. Se in certe attività si liberalizza un p0' (non dico si privatizza) si riducono le norme di intervento autoritative e i poteri del Ministrò. Ecco allora che già da un punto di vista quantitativo il problema della normativa si alleggerisce.
PRiNcIPI, LEGGI E REGOlAMENTI
In ogni caso c'è un preliminare problema di chiarezza concettuale e metodolo-
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gica. Per .spiegar.e quali soio i principi del diritto agli studenti di costituzionale, io faccio uso di una pubblicazione gratuita del Ministero dell'interno francese. Questa pubblicazione, che è per segretari comunali, è illuminante: c'è il principio di legalità, c'è il principio di riserva legislativa in materia di organizzazione pubblica, e ci sono poi tanti principi del diritto: quali il principio della difesa del cittadino in giudizio ecc. Ovviamente, poi, a questo panorama si può aggiungere qualche qualificazione: dalle parti nostre i libri non fanno questi elenchi così che, quando noi andiamo a studiare diritto, conosciamo, forse deformante, soltanto qualche cosa che è derivato puramente e semplicemente dal nostro concetto di gerarchia delle fonti. In altre parole, conosciamo le norme ma non i principi del diritto, così studiamo male le fonti. Perché la stessa nozione di gerarchia ci dà esclusivamente la chiave del primato della fonte superiore. Insomma, siamo sempre assillati dal problema di trovare qual'è la parte più forte, o quello che può sbaragliare il campo. Così fra legge statale e legge regionale si è condizionati dal fatto che, siccome c'è una legge dello Stato, che si dice in tesi generale - è o può essere una legge di principi, essa sta al livello gerarchicamente superiore. Se però, di fatto, questa legge non è di principi e realizza invece una concreta disciplina, allora, finché la Corte Costituzionale non .dica altrimenti, comunque, ci si adegua giustificando il tutto in nome di una sostanziale differenza tra la legge
dello Stato e quella regionale fondata su una mera e meccanica scala gerarchica. E però possibile porre il discorso su una base diversa. Infatti, a parte la materia dei diritti fondamentali, la maggior parte delle altre materie è in coabitazione tra una fonte superiore ed una inferiore. Se questo è vero, perché continuiamo a studiare la "legge", perché continuiamo a studiare il "regolamento" e i limiti al regolamento e così via? Converrebbe invece valutare tutte e due le fonti nella loro interazione. Se scandalizzano i decreti legge convertiti con modifiche, dobbiamo considerare che, in realtà, ci troviamo davanti a due fonti diverse e dunque a due poteri che intervengono interattivamente. Anche per la legge di delegazione il punto centrale di riferimento è il rapporto tra due fonti diverse. Tuttavia quando tocchiamo i problemi del provvedimento delegato, forse, non facciamo mai un corretto raccordo. Per quel che concerne i regolamenti la nostra realtà, al di là o non dell'articolo 17 della legge 400, è che noi ne abbiamo una serie infinita. Possiamo anche dire, e ciò rischia di non cambiare, che molti forse sono in odore di "non legalità". Sono, però, nella nostra realtà amministrativa proprio i regolamenti che disciplinano le materie tecniche. Vi sono regolamenti autonomi che (ma forse questo in casi eccezionali) ancora determinano un certo tipo di rapporti: per esempio, se il Ministro dei trasporti disciplina, come deve essere fatto, l'aereo a vela, è giusto perché surroga una legge che non esiste e, quanto meno,
evita che un centinaio di persone ogni anno se ne vada all'altro mondo, sottoponendo questo mezzo di trasporto ad un certo tipo di disciplina. Non si capisce allora perché ci si lamenta che questo atto normativo stia in luogo della legge. Per quel che concerne i regolamenti esecutivi, ci si preoccupa del fatto che essi siano qualche volta del tutto sopravanzati dalla legge, così che sembra che in questo caso non ci sia bisogno del regolamento, perché la maggior parte del contenuto normativo è nella legge. Ma nella maggior parte dei casi il regolamento ha un contenuto normativo proprio. Così per la normativa tecnica è forse opportuno ricordare che cosa è successo un giorno per le trattrici agricole in Parlamento. Un emendamento di un deputato ha reso una legge della Repubblica non attuabile, perché in netto contrasto con una norma antecedente; cosi che è sorto il dubbio se queste trattrici agricole debbano essere fatte in un modo anziché in un altro. Il Parlamento non può fare il legislatore tecnico, ed infatti è sempre stata materia oggetto di delega. Se i regolamenti tecnici regolano interi settori dell'amministrazione, possiamo dire che questi sono gli unici atti che regolano il rapporto? Assolutamente no, perché sicuramente c'è sempre un connubio, un rapporto, almeno con una legge. Quindi, una prima questione dovrebbe essere quella di riproporre come si deve studiare questa materia tralasciando gli effetti perversi della nozione di gerarchia intesa nei suoi termini più assoluti. Ti
LA DELEGIFICAZIONE
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Un altro punto riguarda la delegificazione. Nella nostra dottrina essa è diventata sinonimo di "regolamenti al posto delle leggi". Forse nell'ordinamento francese questo è possibile, e forse è così interpretabile la Costituzione del' '58, perché in Francia se una legge deborda in materia coperta da regolamento, c'è un procedimento con il quale la si delegifica e le si dà il rango di norma regolamentare, ma da noi per la delegificazione intesa in questo modo nessuno ha mai trovato adeguato fondamento. L'art. 17 infatti afferma che la delegificazione è, in sostanza, un atto regolamentare, sulla base dei principi contenuti nella legge che prevede questo potere. Torniamo, nuovamente, a un rapporto tra due fonti diverse. D'altronde è impossibile capire cos'è la delegificazione se non si tiene conto dei principi contenuti nella legge. Questa necessità, nella maggior parte dei casi, con riferimento alla maggior parte delle fonti normative del nostro paese, appare ineliminabile. In altre parole, noi abbiamo necessariamente un problema di metodo che deve essere diverso da quello precedente. Da questo punto di vista, ci possiamo sicuramente meravigliare del fatto che il potere normativo tecnico delle amministrazioni se ne va per conto suo. Da qui la necessità di essere furbi e attenti, perché un Ministro furbo che si disinteressa di quello che dice l'articolo 14, può sviluppare norme tecniche fondamentali in una
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certa materia, al di sotto del potere regolamentare del Governo, e nessuno se ne accorge se non quando poi, in sostanza, i guai sono stati fatti. E questo avviene molto spesso in materia tecnica. Un caso concreto può essere illuminante dello stato delle cose. A Roma, come in tutte le altre città d'Italia, non si poteva impiantare un impianto di riscaldamento a gas senza un'approvazione dei competenti organi, e cioè dei vigili del fuoco. Quando qualche soggetto ha cercato di far loro capire che occorreva questo parere in via preliminare, è uscito un decreto legge, che ha equiparato l'aver presentato la domanda di autorizzazione alla concessione dell'autorizzazione. Ma era sicurezza pubblica quella cui l'intervento di questi organi mirava? Sarebbe proprio azzardata una risposta affermativa. Queste sono le difficoltà del potere normativo, che impongono la necessità di riportare in questa situazione un'attenzione anche su questi tipi di provvedimenti, sempre rimanendo nel giocò della contemporaneità o della complementarietà tra una fonte ed un'altra. Se poi si analizza il diritto comunitario si aprono le cateratte. E veramente necessario recepire con leggi delle direttive che non fanno altro che fare somme aritmetiche oppure stabiliscono quali sono le dimensioni di un involucro, di una ruota o di un qualunque congegno tecnico? Non capisco a questo punto cosa ci sia di mortificante nell'affermare che sono state, in sostanza, introdotte
attraverso un atto del Ministro in luogo di un atto del Parlamento della Repubblica. L'unica connotazione sostanziale sottostante a queste osservazioni è che forse la nostra Costituzione, in sostanza, non è un programma normativo ma è solo un'enunciazione di valori pluralistici. Forse sotto questa complementarietà delle fonti c'è o un diverso intervento di soggetti, oppure una diversa ponderazione da parte di soggetti diversi, delle stesse cose. Certo è che, ad esempio, in materia organizzativa si potrebbe rispolverare la tesi di Nigro, in base alla quale le norme organizzative non corrispondono affatto al concetto della generalità e dell'astrattezza. Se si organizza - ecco il motivo in base al quale l'art. 97 stabilisce imparzialità e buon andamento - non è detto che, avendosi una legge del Parlamento in materia organizzativa, questa sia necessariamente e ottimamente dettata in modo generale e astratto. Ci sono leggi che dicono: "E istituito l'ufficio per la vendita dei beni demaniali dello Stato" o che creano uffici periferici dicendo "Sono istituiti gli uffici" limitandosi al nome e cognome. Ovviamente qui già manca qualche cosa alla norma fondamentale, che dovrebbe contenere principi, criteri e direttive. Non c'è niente in queste leggi, così che il Ministro di turno può fare quello che vuole. E allora ecco che, tornando a questo plesso normativo, bisogna ristabilire qual è il ruolo dell'una e dell'altra fonte.
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L'erosione del primato della legge di Ugo De Siervo
Vorrei innanzitutto accennare al fatto che, in larga misura, i fenomeni dinanzi ai quali noi ci troviamo mi sembra siano fenomeni che riguardano non soltanto la nostra esperienza - nazionale, ma che interessano notevolmente, seppure con modalità lievemente difformi, anche gli altri ordinamenti di tipo parlamentare e liberai—democratico. Un po' in tutti i paesi dell'Europa occidentale si manifesta, , ad esempio, al di là del quadro costituzionale e normativo, un'enorme pluralità di strumenti normativi secondari, ed anche una continua tendenza a erodere il principio del primato della legge rispetto a tali atti. Su questo aspetto ci sono ricerche e documentazioni molto incisive. Direi anche di più: che, ad esempio, un fenomeno che apparentemente sembra di tipo diverso, cioè quello che si è verificato nella Francia della quinta Repubblica con l'erosione dei ruolo della riserva regolamentare rispetto ali'anibito legislativo (ossia,, in pratica, la legge che riconquista spazi sul regolamento governativo) è omogeneo ai fenomeni cui accennavo prima per il fatto che sembra rispondere alla continua tendenza del sistema politico a muoversi a prescindere (o prescindendo al massimo) dalle disposizioni cntenute nel sistema delle fonti supreme, siano esse la Costituzione, le norme organiche 82
e così via. Chi studia diritto costituzionale sa bene che il sistema politico, anche nello stato sociale di diritto, cerca di liberarsi delle regole, tende a "mangiarsele", a deformarle continuamente. Naturalmente, lo si nota tanto più facilmente quando il sistema politico (come in Italia, ma non solo) è iperframmentato ed è profondamente diviso. Ci si rende allora conto che a queste fonti "atipiche", o gestite fuori dei quadro costituzionale, tendono a saldarsi logiche di particolarismi politici e burocratici ed interessi di settore. Si possono fare degli esempi. In Italia verifichiamo una costante: il tentativo dei giuristi e dei sistemi politico—costituzionali di ingabbiare il potere, di dargli un ordine, di imporgli delle regole di, legalità. E opportuno notare che, malgrado non sia particolarmente affezionato al principio della legalità, magari nella visione ottocentesca, esso nella misura in cui sia predeterminazione di regole pubbliche, conoscibili e certe, è un principio tuttora importantissimo per la democrazia, perché non si dà democrazia se, come minimo, non si conosce. La legge 400 dei 1988 ha tentato di "formalizzare", di fornire un procedimento per l'esercizio dei poteri tiormativi primari e secondari del Governo. E del tutto evidente, sulla base delle prime
rilevazioni, che il potere politico—governativo ha disapplicato in modo clamoroso la legge numero 400 del 1988. NeI primo anno di attuazione dovrebbero essere stati emanati più o meno quaranta tra regolamenti governativi, ministeriali o del Presidente del Consiglio dei Ministri, contro almeno duecento atti che hanno tutta la sostanza dei regolamenti (atti di attuazione o integrazione di fonti primarie, in qualche raro caso addirittura regolamenti indipendenti), ma non hanno la forma del regolamento né governativo, né ministeriale; non hanno il parere del Consiglio di Stato, non hanno il visto della Corte dei Conti. Vi è, quindi, una nettissima, evidente fuga dall'accettazione di questa legge, con conseguenze che possono essere molto gravi in termini di tutela di alcune posizioni soggettive (si pensi alla vacatio legis, una cosa che banale non è, perché investe il problema del termine dell'entrata in vigore, quindi il problema dell'impugnabilità). In termini più generalmente istituzionali, mettere contenuto regolamentare in atti che si dicono essere provvedimenti amministrativi vuoi dire depotenziare radicalmente il ruolo del Presidente del Consiglio dei Ministri, nella misura in cui uno dei poteri concreti attraverso cui la legge 400 attribuisce un certo potere di coordinamento al Presidente del Consiglio dei Ministri. E il potere di vigilanza e coordinamento sull'esercizio del potere formativo dei Ministri; tant'è vero che è stata fatta anche una circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri in cui si
fissava tutta una serie di grilie e di controlli. Quindi, questa disapplicazione va a toccare l'attuazione dell'articolo 95 della Costituzione, ed in modo sostanzioso, non in modo minore; questa prassi, vorrei dire, depotenzia in maniera radicale i controlli di legalità sull'esercizio del potere. Io non auspico affatto il ritorno del controllo della Corte dei Conti sui decreti legge e sui decreti legislativi; però, una compensazione a quel depotenziamento doveva essere il visto della Corte dei Conti sui regolamenti, governativi e ministeriali. Nel momento in cui si afferma invece la prassi descritta, è evidente che questi atti entrano in vigore senza vacatio legis e senza controlli (usiamo questo termine un po' genericamente) di legalità preventivi. Questo mi sembra uno spunto di riflessione sull'articolo 17 della legge 400, più concreto rispetto alle esercitazioni, peraltro dottissime e giuste, che hanno fatto i costituzionalisti italiani, me compreso, sui regolamenti indipendenti ed autonomi, che sono poco più che un caso di scuola. Ma vorrei indicare un altro tipo 'di fonte che, non prevista dalla legge 400 e che. sembra essere in immensa espansione. Si tratta di una fonte normativa del Governo, cioè il potere di ordinanza. Per tutti noi, il potere di ordinanza rappresentava i prefetti, il Ministro dell'Interno ecc. Dall'inizio degli anni '80 invece, è il Ministro della Protezione civile che emette ordinanze nei casi delle catastrofi naturali o altri simili. Noi insegniamo 83
ancora nei corsi universitari che, per quanto concerne l'ordinanza, si tratta di una fonte eccezionale, di livello secondario, ossia con la capacità di disapplicare le fonti secondarie. Ma ciò in concreto non è affatto vero. Come minimo, tutte le ordinanze disapplicano le norme sulla contabilità di Stato; a volte disapplicano perfino il decreto legge convertito che le ha istituite, estendendo l'area di intervento. Su questo tanti hanno scritto e documentato. Ma se vediamo la singolare legislazione, adottata proprio mentre si stava per varare la legge 400 del 1988, ed anche successivamente, fino a tutto l'89, troviamo che il potere di ordinanza è, esplicitamente o implicitamente, usato in maniera massiva dal Parlamento italiano per legittimare forme di intervento su attività e su settori che non sono affatto dovuti a catastrofi naturali (che nessuno augura al paese); ormai, per fare un piccolo lavoro o un acquedotto, una strada, o perché c'è uno smottamento (cosa frequentissima in Italia) interveniene il Ministro per la protezione civile, sempre con la clausola: "in deroga ad ogni norma vigente". E le norme sono norme primarie, non è vero affatto che sono norme secondarie. Ma vogliamo dire di più. Se noi scorriamo quella pubblicazione istruitiva'che è la Gazzetta Ufficiale, troviamo che il potère di ordinanza è esercitato massicciamente nella sanità, nell'ambiente, e non sempre sulle emergenze. Ed ancora, ad esempio, il Presidente del Consiglio dei Ministri fa delle ordinan84
ze per far realizzare i lavori pubblici nei grandi comuni siciliani, sempre in deroga ad ogni norma vigente. Questo, quindi, mi sembra un fenomeno su cui riflettere; perché noi costituzionalisti continuiamo a discutere, e giustamente, sulla decretazioné d'urgenza, e non ci accorgiamo che, mentre freniamo il 5% della decretazione d'urgenza, ci passa sotto le gambe un fiume di potere di ordinanza che consegue, in concreto, gli stessi risultati. Anzi, la sensazione netta è che il sistema politico nazionale, e soprattutto locale, si sia ben accorto di questa fonte così atipica, e, per così dire, quando passa un treno cerca di attaccarvi sempre un carrellino, estendendo l'operatività di queste fonti che sono - queste davvero extra ordinem. Allora, dinanzi a questo io credo che un po' di attenzione specifica vada prestata, senza cadere in astrattezze del tipo: ripristinare il principio di legalità; ritengo, cioè, che pur venendo incontro alle esigenze cosi difformi dell'amministrazione dello Stato sociale, sia necessario riportare un minimo di razionalità in questo universo. Tra l'altro, mi capitava di leggere, nel testo sul bicameralismo, presentato alla Commissione Affari Costituzionali del Senato dal senatore Elia, una disposizione su una fattispecie di regolamento: se non sbaglio, si disciplinerebbe, con norma costituzionale, la delegificazione e quindi i regolamenti conseguenti alla delegificazione. In effetti, bisognerebbe cominciare a riflettere se non valga la pena che alcune idee in tema di rapporto
tra le fonti subprimarie siano disciplinate costituzionalmente o che, quanto meno, sia posta qualche premessa costituzionale; e non lasciare che tutto questo enorme filone importantissimo di fonti venga semplicemente citato nella Costituzione per il potere di emanazione del
Presidente della Repubblica, affidando poi tutto alle norme sulle fonti e, ancora di pi첫, alle mere prassi di applicazione o ai meri rapporti di forza che si instaurano tra Parlamento, Governo, Presidente del Consiglio dei Ministri e singoli Ministri.
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Le nuove fonti di Giuseppe Cogliandro
Vorrei ricordare che a fine dicembre 1989 il Ministro per i rapporti con il Parlamento ha assunto concrete iniziative per avviare il processo di delegificazione. E che l'archetipo dell'articolo 17 della legge 400 del 1988 ha generato due modelli di specie molto significativi, segno d'una accresciuta attenzione verso il tema. Faccio riferimento all'articolo 4 della legge 86 del 1989, sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario, e all'articolo 12 della legge istitutiva del Ministero dell'università e della ricerca scientifica (n. 168 del 1989). La prima norma stabilisce che "nelle materie già disciplinate con legge, ma non riservate alla legge", le direttive CEE e raccomandazioni CECA possono essere trasposte nell'ordinamento nazionale mediante regolamento, previa autorizzazione dell'annuale legge comunitaria. La seconda norma demanda allo strumento regolamentare, nel rispetto dei principi posti dalla legge stessa, l'istituzione dei dipartimenti e dei servizi, la distribuzione tra essi dei posti di fùnzione dirigenziali e le successive modificazioni dell'organizzazione ministeriale. Ho ricordato questi esempi per prospettare l'esigenza che la dottrina sostenga di più lo sforzo della delegificazione, la
quale si esaurirà pure in un rapporto tra due norme, però ha l'immenso vantaggio di restituire ad uno strumento flessibile, quale il regolamento, le materie non coperte da riserva di legge. L'uso dello strumento legislativo per recepire direttive comunitarie contenenti ad esempio norme sui trattori è esorbitante. Aggiungo anzi che qui siamo fuori anche del campo della delegificazione. Negli altri Paesi le norme tecniche non le fa né il Parlamento né il Governo, ma gli organismi di normalizzazione: l'AFNOR ,(Association franaise de normalisanon) in Francia, il Bsi (British Electrotechnical Committee) nel Regno Unito, il DIN (Deutsches Institut fir Normung) in Germania, ecc. Formalmente, esistono anche in Italia organismi analoghi (l'Ente nazionale italiano di unificazione, UNI, e il Comitato elettronico italiano, CE!). Di fatto, la nostra produzione autonoma di norme tecniche, in confronto a quella degli altri Paesi e, in particolare, della. Germania, che ha un patrimonio di 45 mila specifiche, è però irrilevante. E opportuno precisare che le norme di cui parlo non sono disposizioni giuridiche, vincolanti, ma regole private, volontarie (standards). Ossia, secondo la definizione dell'Iso (International Organization for Standardization) "specifiche tec-
LE FONTI COMUNITARIE niche elaborate da tutte le parti interessate, fondate sui risultati congiunti della Ritengo tuttavia che il richiamo della scienza, della tecnologia e dell'esperienza e approvate da un organismo qualifi- legislazione comunitaria è pertinente, cato sul piano nazionale, regionale o perché ci offre al confronto un modello diverso per tecnica legislativa e sostrato internazionale". Salvo eccezioni, il Parlamento o indulge culturale, direi quasi antropologico. La legislazione comunitaria è in prevalenza alle astrazioni, con le leggi manifesto, o una legislazione economica. Probsi spinge alla pedante specificazione, con le norme di dettaglio. Una confer- abilmente, Jacques Delors esagera quanma di questa riluttanza o difficoltà a do dice che nei prossimi anni l'ottanta per cento della normativa economica fissare norme di principio si rinviene europea sarà di fonte comunitaria. E nella legge 86 che ho prima citato, certo però che questa normativa crescerà quella sulla partecipazione dell'Italia al progressivamente di peso, e questo è un processo normativo comunitario. A modifica dell'articolo 6 del d.P.R. dato di cui occorre tener conto. 616 del 1977, che subordinava l'eserci- La peculiarità più rilevante, ai fini che zio della potestà legislativa regionale per qui interessano, degli atti normativi comunitari consiste nella loro motivaziol'attuazione delle direttive comunitarie alla emanazione di norme di principio ne: ogni regolamento o direttiva di un statali, la legge 86 del 1989 stabilisce che qualche rilievo esordisce con due o tre pagine di "visto" e di "considerando". E le regioni possono dare attuazione ad trattandosi di una legislazione economiuna direttiva dopo l'entrata in vigore della prima legge comunitaria, che, co- ca, i "motivi" non possono che attenere munque, non deve più contenere le ai meccanismi socio economici. Quella norme di principio, bensì solo indicare comunitaria è quindi una normativa abituata a ragionare sui risultati, sui fatti. le eventuali disposizioni inderogabili. Usa quindi dare definizioni, esplicitare Ma quali sono le ragioni o le spiegazioni obiettivi, graduare priorità. E ciò fa nordi questo fenomeno? Come modello malmente, almeno nella versione franalternativo di riferimento, si richiama spesso la direttiva comunitaria. Secondo cese, che è la lingua di lavoro, con stile stringato e linguaggio rigoroso. me, l'esempio prova troppo, perché la Così non è per la legislazione italiana, direttiva nasce come fonte normativa che è una legislazione ordinamentale, tipica, che impone agli stati membri determinati obiettivi, lasciandoli liberi procedimentale, ma non di risultati. Le nostre leggi indicano chi deve far qualdi scegliere i modi e le forme per raggiungerli. Si tratta quindi di uno stru- cosa e come lo deve fare, non invece mento più facile da maneggiare rispetto perché, ossia l'obiettivo concreto, quantificato degli interventi. Ora, questa retialle nostre norme di principio.
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cenza sugli obiettivi può anche essere funzionale alla tutela di interessi mime-. tizzati o inconfessati. In generale mi pare però più convincente la spiegazione di ordine culturale. Il fatto cioè che il nostro ceto politico (e, aggiungo, quello amministrativo, dato che, la maggior parte delle leggi provengono dagli uffici legislativi), avendo in buona parte una formazione giuridica, ha scarsa familiarità con gli strumenti di analisi economica. Si comprende quindi come un legislatore abituato a pensare in termini di procedure non sappia far bene la formazione di principio, che richiede una chiara visione dei valori, degli interessi e, talora, delle tecnicalità. C'è poi forse un altro fattore che impaccia il legislatore, ed è quello linguistico. L'italiano è una lingua poco evoluta rispetto all'inglese o al francese, e il periodare del giurista infila spesso una dopo l'altra scatole cinesi di "accertando", "anche sulla base di", "e con riguardo a", "nel rispetto di" e "in relazione a". E quanto queste grevi movenze stilistiche giovino alla chiarezza delle norme di principio non occorre dire. La brillante e iconoclastica relazione di Mezzanotte suscita in me reazioni contrastanti: di consenso sull'analisi del fenomeno, di inquietudine per le conclusioni che ne trae e, soprattutto, per gli sviluppi che vaticina. C'è sicuramente una perdita di legittimazione del nostro sistema delle fonti. Un argomento a sostegno può essere tratto, ancora una volta, dall'esperienza comunitaria.
Com'è noto, la Corte costituzionale, nel 1984, arrendendosi, dopo una lunga resistenza, alle ragioni della Corte di giustizia, riconobbe il primato del regolamento comunitario rispetto alla legge italiana, ancorché successiva. Il principio della prevalenza del diritto comunitario è stato successivamente esteso alle sentenze interpretative della Corte di giustizia ed è stato ritenuto operante, addirittura, nei confronti di singole disposizioni costituzionali, fatti salvi beninteso i principi fondamentali del sistema costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana (sentenza n. 399 del 1987). Ora qui naturalmente non è in discussione la supremazia del diritto comunitario, (anche se, francamente, mi sento turbato da quest'ultima sentenza della Corte, che mi sembra alquanto "eversiva"). Non è però peregrino rilevare che il diritto comunitario - di fronte al quale deve cedere la legge nazionale, la quale rappresenta il massimo della legittimazione politica - è prodotto dal binomio Commissione—Consiglio, ed è quindi la risultante dell'incontro tra istanze tecnocratiche e interessi degli Stati nazionali, mentre resta marginale nel processo normativo comunitario, pur dopo l'entrata in vigore dell'Atto unico europeo, il ruolo del Parlamento di Strasburgo, espressione dei cittadini europei. Se questo è un ulteriore esempio a favore della tesi della dissociazione tra forza formale e valore politico degli atti, devo
subito aggiungere che trovo preoccupante il de profundis spesso recitato sul principio di legalità, che, avendo esaurito la sua• funzione, andrebbe accantonato, per essere sostituito, quale nuovo elemento—cardine di riconciliazione dei valori pluralistici, dal principio di ragionevolezza. Preoccupazione che non è certo mitigata dal principio secondo il quale la Corte costituzionale utilizza la procedura in funzione della tutela dei valori fondamentali. Siamo in una fase culturalmente dominata dal pensiero debole, e nessuno pretende naturalmente di proporre un fundamentun inconcussurn di tutte le teoriche e dei principi supremi. Ma il pensiero debole non può essere la bussola di tutte le scienze, non può infrangere tutte le certezze, tutti i principi di autorità. E giusto ch'esso trovi cittadinanza in epistemologia, dato che, secondo la lezione di Popper, sono scientifiche solo le tèorie di cui si può dimostrare l'erroneità, e forse anche nell'etica, per l'impossibilità di fondare razionalmente un sistema di valori valido per tutti e in ogni tempo. Non invece nel diritto, dove il conflitto di interessi non può essere affidato ad un criterio opinabile, quale quello della ragionevolezza, ma richiede di essere governato da un principio for'te, radicato nella coscienza collettiva. Una convincente riprova si rinviene nella querelle tra Commissione CEE e Con-
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siglio di stato francese in ordine all'applicazione dell'articolo 177 del trattato CEE vede l'obbligo per le giurisdizioni superiori di rimetterre alla Corte di giustizia le questioni di interpretazione di norme comunitarie. Per sottrarsi a questo imperativo, il Conseil d'Etat elaborò nel 1964 la teoria dell'atto chiaro", secondo cui l'obbligo del rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo viene meno quando l'atto comunitario è "chiaro" al di là di ogni dubbio. La Commissione, piuttosto che confutare sul piano dei principi la dottrina dell'atto chiaro, ebbe buon gioco nel contestare nel merito due recenti sentenze del Consiglio di Stato, incentrate appunto su quella dottrina. Dottrina, questa della chiarezza dell'atto, che, come quella dell'auto—evidenza dei razionalisti o di verificazione dei neo—positivisti, e, ora, della ragionevolezza, non ha mai impedito che da un identico testo o fenomeno fossero tratte conclusioni diverse. E, infatti, non era forse ragionevole per Candide l'insegnamento del suo maestro Pangloss, che "i nasi sono fatti per reggere occhiali, e noi abbiam bene occhiali"? Ma c'è un'altra ragione che impone di conservare il pur vuinerato principio di legalità, la sua insurrogabilità: i CO.RE.CO . eserciterranno il controllo sugli atti degli enti locali in base al principio di ragionevolezza?
3. Contenuti di una nuova cultura di governo Il nuovo dispositivo di valutazione delle politiche pubbliche in Francia in una prospettiva comparativa: tranelli e prospettive di Jean-Pier're Nioche
Il 4 febbraio 1992 il Consiglio Scientifico per la Valutazione ha presentato alla stampa il suo primo rapporto annuale che aveva appena comunicato al Presidente della Repubblica francese I . Così terminava il primo ciclo di funzionamento del dispositivo di valutazione delle politiche pubbliche realizzato recentemente. All'inizio del 1990 il Governo socialista francese, presieduto dal Primo Ministro Michel Rocard, ha introdotto una riforma che ha istituzionalizzato per la valutazione una procedura ai più alti livelli dell'amministrazione. La riforma è giunta dopo un lungo dibattito, in parte dovuto alla riluttanza dimostrata in molti ambienti per un meccanismo rafforzato delle valutazioni politiche. Una conferenza sulle valutazioni delle politiche pubbliche tenuta nel 1983 e le due relazioni commissionate dal Governo sullo stesso tema, una nel 1986, l'altra nel 1989 dimostrano la vivacità della di scuss ione 2. in questo articolo descriveremo tale nuovo sistema di valutazione e affronteremo l'analisi di alcuni dei tranelli che ha già incontrato, nonché delle sue prospettive a più lungo
termine quale processo istituzionalizzato. L'articolo è diviso in due parti. La prima presenta il nuovo dispositivo e analizza alcune conseguenze del suo funzionamento ; la seconda parte consisterà in un'analisi comparativa che mette l'esperienza francese a confronto con quella di altri paesi.
LA RIFORMA DELLA VALUTAZIONE POUTICA DEL 1990: MANAGERIALE, CONTROLLATA DAL GOVERNO, PESANTE NELLA PROCEDURA
Il nuovo sistema "in merito alla valutazione delle politiche pubbliche" è stato introdotto mediante decreto il 22 gennaio 1990 . Esso ha stabilito, per la prima volta in Francia, un sistema di valutazioni politiche permanente ed istituzionalizzato, da rendersi ampiamente effettivo. La nostra descrizione del meccanismo prenderà in considerazione tre questioni fondamentali: prima di tutto il sottostante concetto di valutazione delle politiche pubbliche sul quale il nuovo sistema è basato; in secondo luogo le strutture istituzionali e procedurali del meccanismo di valutazione ; in ultimo, il
modo in cui questo processo di valutazione opera al momento dell'attuazione.
UN APPROCCIO MANAGERIALE UMITATO
Secondo il testo del decreto, la valutazione ((ha per oggetto la ricerca se i mezzi giuridici, amministrativi o finanziari utilizzati permettano di produrre gli effetti attesi da questa politica e di raggiungere gli obiettivi che le sono stati assegnati». Questa definizione è sensibilmente diversa da quelle proposte nei rapporti richiesti dal governo neI 1986 e nel 1989. Inoltre la definizione ufficiale che si trova nel decreto non riflette in alcun modo i punti fondamentali sui quali queste due relazioni hanno insistito quando hanno avanzato definizioni di valutazione della politica pubblica. La relazione del 1986, per esempio, definiva una valutazione come una pro cedura consistente nell'identificare e misurare gli effetti particolari" prodotti da una politica pubblica4. Tale definizione è stata considerata troppo metodologica dall'autore della relazione del 1989 che ne ha proposto un'alternativa basata sul principio per cui, "per valutare una politica pubblica si deve rendere un giudizio sulla politica in questione" I . L'ultima relazione, quindi, ha suggerito che venisse fatta una distinzione tra gli esperti che effettuano l'analisi - o "gruppo di valutazione" e le "autorità" di valutazione, owero il Parlamento, il Governo, i tribunali, gli
organi di controllo e vari altri enti e comitati. Solo queste istituzioni possiedono la legittimazione democratica, diretta o indiretta attraverso l'autoritàdelegata, per formulare giudizi di merito 6 . Queste due definizioni, che sono state ampiamente commentate, mettòno in luce due importanti aspetti della valutazione della politica pubblica. Il primo consiste nell'esigenza di un rigoroso approccio metodologico per raggiungere gli obiettivi scientifici e cognitivi ai quali qualsiasi valutazione deve aspirare; il secondo aspetto, più generale ed anche più vago, è dato dall'inevitabile influenza di fattori politici nel processo di valutazione che si svolge in un sistema democraticb di governo. La nuova definizione conduce ad un modello "manageriale" di valutazione nel senso stretto della parola. La politica deve essere valutata in funzione degli effetti attesi e degli obiettivi assegnati. Ebbene in molti paesi, l'esperienza ha dimostrato che è generalmente sconsigliabile, e spesso persino impossibile, impedire che i finì programmati di una politica vengano trascesi. Invece la definizione del 1990 assume che siano stati stabiliti risultati ed obiettivi espliciti, sinceri e non contraddittori di una data iniziativa politica. Assume, cioè, che gli originari obiettivi politici siano condivisi da coloro che ordinano la valutazione anche diversi anni dopo che questa è stata attuata. Tuttavia l'analisi della politica pubblica, in Francia come nella maggior parte dei 91
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paesi, indica che ciò avviene di rado. Questo approccio "manageriale" sembra allontanare la tentazione di prendersi, quando si sta effettuando una valutazione, delle libertà, considerate mine potenziali per la validità delle conclusioni della valutazione stessa. Prima di analizzare con maggiore attenzione gli inconvenienti di questo approccio "manageriale", può essere utile collocare la riforma deI 1990 in una prospettiva storica. Il nuovo sistema di valutazione ha fatto parte del pacchetto di riforme amministrative del Primo Ministro Rocard conosciuto come "Rinnovamento del servizio pubblico", una delle sue tematiche prioritarie quando ottenne la carica nel 1988. I punti chiave della riforma erano stati specificati dal Primo Ministro in una lettera di gabinetto del 23 febbraio 19897. La riforma richiedeva: * una fondamentale ridefinizione delle reiazioni cii iavoro aii interno cieti amministrazione Statale; * una maggiore efficienza nell'offrire i servizi ai cittadini; *10 sviluppo della responsabilità nell'amministrazione attraverso la decentralizzazione contabile e la verifica dei risultati; * lo sviluppo di un processo di valutazione delle politiche pubbliche. Quest'ultimo punto deve essere inteso nel generale contesto di una crescente fiducia nelle valutazioni, sia delle persone che delle organizzaziòni o delle politiche. Più specificatamente, lo scopo esplicito delle valutazioni politiche era finalizzato in tal caso ad aumentare l'efI
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III.
ficacia dei servizi pubblici attraverso gli strumenti di controllo di gestione e di calcolo dei costi. La nostra insistenza sulle diverse, anzi conflittuali, definizioni di valutazione politica non è solo segno di una predilezione tipicamente francese per la discussione di definizioni e principi. Essa è intesa a sottolineare il paradosso alla base della riforma del1990. Questa da un lato è coerente con la tendenza verso un approccio gestionale per una maggiore efficienza del servizio pubblico, d'altro lato, però, trascura una condizione basilare di tale logica poiché istituzionalizza un meccanismo di valutazione senza stabilire l'obiettivo della riduzione della spesa pubblica, né collega il processo di valutazione alle decisioni contabili le quali sono senza dubbio fondamentali per ogni obiettivo gestionale.
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ORGANIZZAZIONE CENTRAUZZATA E CONTROLLO DEL RAMO ESECUTIVO
La struttura amministrativa creata di recente e introdotta come parte della riforma comprende tre organi fondamentali: il Comitato Interministeriale per la Valutazione (cIME), il Fondo Nazionale per lo Sviluppo delle Valutazioni (1DE) e il Consiglio Scientifico di Valutazione (csE). Il CIME è presieduto dal Primo Ministro e composto dai principali ministri di gabinetto. Come organo di coordinamento per le valutazioni politiche del Governo, il CIME riceve proposte
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di valutazione da ministri e da altri organi di governo quali il Consiglio di Stato (Conseil d'Etat), la Corte dei Conti (Cours des Comptes), e l"Intercessore della Repubblica" (il "mediatore" una specie di "ombudsman" dello Stato). E' sempre il CIME, quindi, che prende la decisione finale. Esso solo seleziona i progetti di valutazione da finanziare mediante i fondi speciali dell'1DE. Il Primo Ministro, quindi, attraverso il suo controllo sul CIME, regola le risorse finanziarie dell'fDE per i progetti di valutazione. Circa l'80% del bilancio dell'nrnE è impiegato in progetti di valutazione stabiliti dal CIME, mentre il restante 20%, destinato alle valutazioni effettuate dal Consiglio Economico e Sociale (Conseil Economique et Social, un organo consultivo i cui membri rappresentano diversi settori economici e gruppi sociali), viene concesso solo previa autorizzazione del Consiglio Scientifico di Valutazione (CsE). Gli undici membri del CSE, infatti, vengono nominati dal Presidente della Repubblica, il Capo di Stato francese al quale il Primo Ministro deve rendere conto. Il Presidente sceglie i membri del CSE secondo i loro requisiti ed essi restano in carica per sei anni e non possono essere nominati per un secondo mandato. Il ruolo del CSE è quello di fornire dei pareri competenti al CIME elaborando due raccomandazioni per ciascuna valutazione. Con una consiglia il CIME sulla metodologia da impiegarsi in un progetto di valutazione, e ciò prima che il Primo Ministro e i membri di gabinetto
decidano di approvano; con la seconda, effettuata la valutazione il CSE esprime il suo giudizio sulla qualità del lavoro svolto, che viene reso pubblico insieme al contenuto della valutazione stessa. Va messo in evidenza che la decisione del Governo di rendere pubblico il contenuto delle valutazioni non è stata presa senza che si sviluppasse un intenso dibattito in seno al gabinetto. Il CSE è incaricato anche di fornire la documentazione relativa alle valutazioni, di organizzare le attività di ricerca e la preparazione degli addetti. Comunque, la sua capacità di adempiere efficacemente a questi doveri dipende dai fondi resi disponibili a tal fine dal Governo. In ultimo, alla sommità dell'intero sistema amministrativo, si trova il Commissario Generale per la Pianificazione, che è responsabile verso il Primo Ministro. Ancora una volta è interessante confrontare le raccomandazioni contenute nelle relazioni del 1986 e del 1989 a sistema concretamente operante. Il rapporto del 1986 prevedeva uno sviluppo multipolare della. valutazione nel quale sarebbero state incoraggiate le iniziative concorrenti del Governo, del Parlamento, delle autorità amministrative indipendenti, delle collettività locali e degli organismi di consultazione e di controllo. La relazione del 1989 proponeva un sistema a doppio asse, composto da un lato da un organo responsabile verso il Governo (che è diventato il CIME), dall'altro da un organo indipendente la cui composizione sarebbe dovuta essere di tipo pluralistico. 93
Il dispositivo adottato consacra il solo poio governativo, anche se il rapporto di presentazione del decreto esprime il desiderio del governo di vedere il Parlamento e le collettività locali sviluppare la loro propria politica di valutazione. Dietro questo discorso apparentemente pluralista, la riforma attuale stabilisce un dispositivo esclusivamente consacrato ai bisogni dell'esecutivo. E vero, comunque, che la riforma non conferisce in monopolio sul nuovo meccanismo di valutazione. Difatti alcune valutazioni possono essere effettuate al di là delle proprie competenze, come quelle realizzate in certi ministeri o in enti parastatali specializzati e indipendenti come il Comitato Nazionale per la Valutazione delle Università e il Comitato Nazionale per la Valutazione della Ricerca. Questi tipi di valutazione non cadono sotto la nuova regolamentazione, a meno che non abbiano ricevuto fondi dall' FNDE.
UNA PROCEDURA COMPLESSA CHE lA PRA11CA NON HA ANCORA COMPLErAMENTE DEFINITO
I mezzi del nuovo sistema sono stati introdotti durante l'anno 1990. Il Fondo Nazionale per lo Sviluppo dlla Valutazione è dotato di circa 6 milioni di franchi all'anno che devono finanziare una struttura permanente composta di due aministratori e di due segretarie. Il CIME si è riunito in due occasioni. Durante la sua prima riunione, il 26 luglio 1990, ha stabilito cinque progetti di valutazione, che hanno ricevuto un pa94
rere favorevole da parte del csE e dovrebbero essere completati per la fine del 1992: - la politica pubblica di ristrutturazione dell'alloggio sociale, - le politiche d'inserimento sociale dei giovani in difficoltà, - l'accoglienza per la popolazione sfavorita in alcuni servizi pubblici, - la politica pubblica per la gestione dei ritmi di vita del fanciullo, - l'impatto dello sviluppo dell' informatica sull'efficacia dell'amministrazione. Undici progetti sono stati scelti durante la seconda riunione del CIME il 21 marzo 1991 fra i quali due hanno ricevuto un parere favorevole da parte del CSE: - la politica d'azione sociale, culturale, sportiva e del tempo libero dello Stato in favore dei propri dipendenti, - la politica di lotta contro la droga e la tossicodipendenza. La procedura per gli altri progetti è a stati diversi d'avanzamento. Si può notare come la lista dei progetti attualmente in corso o contemplati sembra privilegiare le politiche sociali d'ordine interministeriale. Ciò può essere interpretato come un riflesso da parte dei grandi ministeri, rappresentati nel CIME, per evitare una valutazione di politiche la cui responsabilità fosse troppo chiaramente identificata. La procedura formale attraverso la quale questi progetti di valutazione sono scelti, realizzati ed infine utilizzati è definita nel decreto del 1990. Essa può essere riassunta nel modo seguente: a) Proposta di
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L'ha detto Galileo Galilei, ma possono confermarlo i 500 milioni di italiani che ogni anno scelgono il treno per i loro spostamenti. Ottomila convogli circolano quotidianamente sulla nostra rete. E viaggiano in assoluta sicurezza senza danneggiare l'ambiente. Certo non tutti i treni garantiscono ancora la stessa qualità . Ma questo è l'obiettivo cui le Ferrovie italiane stanno lavorando con impegno.
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temi di valutazione dal CIME, b) Elaborazione dei progetti di valutazione da parte dei gruppi di valutazione, c) Parere del CSE sul metodo, d) Decisione di finanziamento sui criteri del FNDE da parte del CIME, e) Realizzazione della valutazione attraverso un gruppo di valutazione, f) Pubblicazione della valutazione e. del parere del CSE, g) Delibera del CIME sui provvedimenti del caso. Si tratta di una procedura pesante e complessa i cui contorni sono ancora vaghi e indefiniti, ma per coloro che prendono le decisioni ciò presenta il vantaggio di non essere circoscritti in un insieme formale di regole e costrizioni. In questo momento è impossibile dire se il duplice obiettivo di legittimità politica (attraverso il CIME) e di forte credibilità scientifica (per mezzo del CSE) sarà raggiunto e se sarà fornita in tal modo la giustificazione per la complessità strutturale e per il lento avvio del processo. Nel frattempo una delle più delicate questioni che il CSE dovrà risolvere è quella concernente la natura dei suoi rapporti con il gruppo di valutazione che opera sotto la sua guida. Per esempio, il CSE ottempererà ai suoi doveri, definiti formalmente, di consigliare il CIME circa l'approccio metodologico che deve essere adottato dai progetti di valutazione e di offrire la sua opinione sulla qualità del lavoro svolto? Per il modo in cui l'attuale meccanismo è costituito è difficile sapere con certezza dove ha fine il ruolo del CSE e dove inizia quello dei valutatori.
ELEMENTI DI COMPARAZIONE INTERNAZIONALE
Come abbiamo detto, è ancora troppo presto per formulare un giudizio conclusivo sul nuovo sistema di valutazione, tuttavia è possibile fare qualche commento esaminando la riforma francese in una prospettiva storica e comparata. Non si può dubitare che, storicamente parlando, la riforma del 1990 abbia segnato un importante passo in avanti verso l'istituzionalizzazione delle valutazioni. Infatti, per apprezzarne il significato, basterebbe tracciarne l'incerta evoluzione e descrivere lo stato delle valutazioni prima della riforma del 1990. Inoltre, ci si può chiedere se, in seguito ad essa, lo stato delle valutazioni politiche sia migliorato rispetto alla situazione in altri paesi. Un'altra importante questione riguarda il pericolo costante di manipolazioni politiche. La riforma francese rafforza le difese procedurali contro le manipolazioni a breve termine di coloro che sono coinvolti in processi di valutazione? La realtà politica in Francia favorisce o impedisce l'istituzionalizzazione della valutazione politica a lungo termine?
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Può IL NUOVO DISPOSITIVO MODIFICARE lA POSI. ZIONE RELATIVA DELlA FRANCIA NEL CAMPO DELLA VALUTAZIONE!
Nel 1981 B. A. Levine situò la Francia tra le 'grandi nazioni" - insieme agli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania Occidentale - nel campo della 95
valutazione delle politiche pubbliche8. Ci si potrebbe chiedere tuttavia se questa lusinghiera collocazione riflettesse un sincero giudizio dello stato della valutazione politica in Francia o se fosse soio un tributo ad un passato contraddistinto dall'enorme potere dell'amministrazione pubblica francese o, per meglio dire, alla tradizione, venerata in Francia, dell'analisi e della verifica economica nel processo di formazione delle decisioni pubbliche. Un giudizio un po' meno lusinghiero fu offerto da H.U. Derlien il quale, trattando più specificatamente la pratica della valutazione expost delle politiche pubbliche, classificò la Francia tra quei paesi in cui la valutazione è meno sviluppata. Dal nostro punto di vista Derlien sembra essere più vicino alla verità. Meno di un decennio fa, nel 1983, da uno studio dello sviluppo della valuatzione politica in Francia scaturirono i seguenti punti: 10 la valutazione è un'attività in sviluppo in Francia, ma non è riconosciuta a livello istituzionale ; • le valutazioni politiche effettuate erano sporadiche e carenti di rigore metodologico; • le valutazioni politiche rappresentavano solo una parte marginale del lavoro delle istituzioni che le avevano poste in essere, non esistendo in Francia istituzioni ad hoc che se ne occupassero; • l'amministrazione statale rimaneva l'istituzione principale che commissionava e realizzava valutazioni politiche, mentre il Parlamento né richiedeva, né impiegava i risultati delle valutazioni; .
• il ruolo delle valutazioni nel dibattito pubblico sui risultati politici e sul processo di formazione delle decisioni risultava quasi inesistente e la Corte inizia appena ad interessarsene. Ci sono stati, va precisato, una quantità di segnali d'incoraggiamento da quando furono fatte queste osservazioni pungenti. Oltre alle due relazioni commissionate dal Governo nel 1986 e nel 1989, sono state realizzate molte pubblicazioni e si sono tenute conferenze su specifici argomenti attinenti alle valutazioni politiche. Allo stesso tempo una forma istituzionalizzata di valutazione iniziò a prendere forma con la creazione di organi specializzati, quali il Comitato Nazionale per la Valutazione delle Università (1985), il Comitato nazionale per la Valutazione della Ricerca (1989) e la commissione che si avviò a valutare programmi contro la povertà, la Commissione Nazionale per la valutazione del Sostegno ai Redditi (1989). Si può anche citare l'Agenzia nazionale di valutazione delle pratiche mediche e il Comitato di valutazione della politica urbanistica. Il nuovo sistema può quindi essere considerato, entro certi limiti, un consolidamento di varie strutture già esistenti. Tuttavia non va sottaciuto che, se la riforma ha aumentato gli sforzi finalizzati ad istituzionalizzare il processo di valutazione, ha però tralasciato una sua razionalizzazione. Poiché il nuovo sistema possiede un mandato ampio e generale - tranne che in materia di difesa e sicurezza - è obbligato a coesistere con diversi mecca-
nismi di valutazione già esistenti in varie aree politiche. L'inevitabile problema di sovrapposizione e di reciproco compromesso che ne consegue probabilmente condurrà all'altrettanto inevitabile problema di un uso inefficiente di risorse. Va precisato che la nostra analisi della situazione francese non include la valutazione politica effettuata ai livelli di governo municipale e regionale, né quelle realizzate dai cento dipartimenti le cui burocrazie rappresentano l'amministrazione centrale da un capo all'altro del paese. Questi organismi hanno goduto di accresciute responsabilità e maggiori poteri dal tempo della politica di decentralizzazione francese dei primi anni ottanta, ma ancora non è stato concertato alcun tentativo di coordinare il processo di valutazione a questi livelli, al fine di massimizzare l'efficienza dei rapporti dettati dalla condivisione e dalla separazione di aree di responsabilità. L'aspetto più notevole del nuovo meccanismo di valutazione, comunque, consiste nel rafforzamento dei poteri di quella parte che è già la più forte del sistema, vale a dire il ramo esecutivo del Governo. Lo studio già menzionato del 1983 scopri, per esempio, che il Parlamento produceva solo l'l% di tutte le valutazioni effettuate in Francia; ed infatti la più bassa produzione riguardo alle valutazioni si è avuta in campo legislativo. Questa situazione persiste malgrado le nobili ambizioni di coloro che vorrebbero che il Parlamento assumesse il ruolo di controllo dell'applica-
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zione delle leggi. Quanto alle ben intenzionate parole del decreto del 1990, esprimente il suo "augurio" che il Parlamento aumenti le sue attività di valutazione, ci si può solo domandare se tale incoraggiamento non nasconda un minimo d'ipocrisia, considerata l'effettiva impotenza del Parlamento francese nei confronti del Governo. Questa relativa debolezza non consiste solo nelle limitate capacità dell'organo di effettuare delle valutazioni, ma si estende ai poteri decisionali sulle nuove spese. La situazione di vantaggio del Governo è rafforzata anche da un progresso modesto nel campo delle valutazioni ottenuto dalla Corte dei Conti, il cui ruolo è stato a stento sostenuto dalla riforma. La relativa debolezza del Parlamento e quella delle Corte dei Conti sono senza dubbio collegate, poiché studi della situazione in altri paesi mostrano chiaramente che le valutazioni commissionate dai Parlamenti, che detengono forti interessi nel processo di valutazione, di solito vengono effettuate dagli organi di verifica centrali. Il nuovo sistema aiuterà a potenziare il processo in esame solo nella misura in cui tali valutazioni saranno riconòsciute ed accettate come procedure valide. In ultima analisi, la riforma non è esente da contraddizioni nascoste e tende solo a rafforzare un sistema che, se comparato con quelli esistenti nella maggior parte delle altre democrazie avanzate, risulta eccessivamente centralizzato e rigidamente controllato dal ramo esecutivo del Governo. 97
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I FATrORI STRUTWRAU: CAMBIAMENTO O STATUS QUO?
Ci sembra accurata la definizione di fattori strutturali nel processo di valutazione di P. Wagner e H. Wollmannu. Secondo questi autori i fattori strutturali costituiscono gli aspetti relativamente stabili del processo di valutazione e per questa ragione non sono soggetti alla manipolazione a breve termine degli autori politici. Se accettiamo questa definizione ci si può chiedere se la riforma francese' sia riuscita a modificare gli aspetti strutturali del processo di valutazione allo scopo di allontanarlo dal pericolo di queste pressioni politiche a breve termine. A tale proposito confronteremo la situazione francese con quella di altri paesi. H.U. Derlien ha affermato che le oscillanti risorse fiscali dei governi occidentali degli ultimi decenni possono spiegare due tendenze successive e molto diverse nelle valutazioni politichel2. La prima si sviluppò durante il boom di rapida crescita degli anni sessanta, quando paesi quali gli Stati Uniti, il Canada, la Germania Occidentale e la Svezia optarono per un processo di valutazione diretto ad analizzare le scelte tra politiche alternative e la gestione di nuovi. ,f5rogrammi. La seconda tendenza appartiene agli anni ottanta, un periodo di ristrettezza economica in cui paesi come la Gran Bretagna, la Norvegia e l'Olanda sono stati costretti ad aumentare l'importanza dei fattori' di costo nelle valutazioni; per questo motivo i loro ministeri delle fi-
nanze, gli organi di verifica e il Parlamento hanno assunto ruoli più importanti. L'esperienza francese si differenzia da ogni altra. La sua singolarità consiste nel fatto che, mentre il Governo socialista ha impiegato l'argomento della buona gestione delle finanze, al tempo stesso non ha fatto della riduzione della spesa pubblica una priorità assoluta. Ad esempio, invece di affidare la gestione del sistema al Ministro delle Finanze, lo ha rimesso al Commissario Generale per la Pianificazione. Inoltre, come abbiamo rilevato in precedenza, le valutazioni nell'ambito del nuovo sistema francese non sono collegate alle decisioni di bilancio e il Parlamento ne viene lasciato a margine. Sembra, come vedremo più avanti, che una migliore spiegazione di questa anomalia sia offerta dai fattori politici. L'ordinamento istituzionale dei poteri nel sistema francese - con la preminenza del ramo esecutivo, la debolezza del Parlamento e il modesto ruolo dell'organo di controllo centrale - non si è modificato molto nell'ultimo decennio. E' cambiato l'ambiente politico nel quale la Francia è forte per tradizione e nel quale il monolitico apparato di Stato trova se stesso. In un contesto più ampio, esso si confronta con le crescenti sfide alla sua autorità da parte dell'amministrazione emergente della CEE, mentre, a livello locale, le amministrazioni municipali e regionali stanno rapidamente acquisendo nuove aree di responsabilità. Non proponiamo un'analisi di tali feno-
meni in questa sede, ma è interessante notare che il Presidente Francois Mitterand ha giustificato l'introduzione del nuovo sistema di valutazione con questa osservazione: "lo Stato agisce meno autonomamente. E' necessario comunque che ciascuno sappia quali sono le proprie resposabilità". Il problema della consulenza nelle scienze sociali costituisce un altro fattore strutturalè che ha ostacolato lo sviluppo delle valutazioni in Francia. Non perché ci sia carenza di ricercatori competenti e preparati, ma perché il campo della ricerca e le sfere politiche e burocratiche cooperano male. Ciò è dovuto principalmente al modo in cui i membri delle élites amministative vengono preparati. La maggior parte di essi segue gli stessi iter accademici e professionali, iter che isolano dal mondo della ricerca e inculcano riflessi mentali di autonomia intellettuale nell'amministrazione. Ogni competenza "seria" sulla sfera pubblica è data come interna all'amministrazione. Tali deformazioni mentali non conducono ad una entusiastica accettazione delle valutazioni, specialmente perché l'esigenza fondamentale del valutatore è quella di essere intellettualmente indipendente. Questa situazione non mostra segni di cambiamento e le raccomandazioni contenute nelle relazioni del 1986 e del 1989, concernenti la formazione alla valutazione, per il momento non sono state attuate. Un fattore strutturale-decisivo consiste nello spostamento ideologico, avvenuto negli anni ottanta, da un modello di società accen-
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trata nello Stato verso un modello di mercato aperto alla competizione internazionale. Tale fenomeno è da considerarsi strutturale poiché non sembrerebbe vulnerabile a pressioni politiche di breve termine e risulterebbe quindi compatibile con la definizione da noi accettata. A prima vista tale clima sembrerebbe propizio per la valutazione, eppure, come vedremo in seguito, le pressioni politiche si sono fatte sentire. Trarre una conclusione definitiva circa questi aspetti della valutazione sarebbe difficile. I fattori di cui abbiamo discusso - le risorse fiscali del Governo, le pressioni istituzionali, i cambiamenti ideologici - sembrerebbero tutti favorire lo sviluppo del processo di valutazione. Eppure essi contengono delle contraddizioni, ed è difficile misurare il loro peso relativo. Soprattutto essi sono intimamente legati a fattori politici, problema inevitabile che ora affronteremo.
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L'IsiimzloNAuzzAzIoNE DELLE VALUTAZIONI IN UN AMBIENTE POUTICO
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Quanto è importante la politica? La domanda è classica ed è stata formulata negli studi comparativi già menzionati. Derlien, per esempio, afferma che i paesi della prima ondata in periodi di rapida crescita economica furono guidati generalmente da riformisti (socialdemocratici in Germania Occidentale e Svezia, democratici negli Stati Uniti e liberali in Canada). La seconda ondata, continua Derlin, fu
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caratterizzata dalla necessità per i governi conservatori, ascesi al potere durante un periodo di recessione, di definire delle politiche di tagli alle spese - negli Stati Uniti sotto i repubblicani dal1968 al 1974 e dopo il 1979, irk Gran Bretagna tra il 1970 e il 1974 e dopo che Margaret Thatcher ascese al potere nel 1979, in Danimarca dopo il 1982, in Norvegia dal 1981 al 1986, in Olanda dopo il 1982, in Norvegia dal 1981 al 1986, in Olanda dopo il 1982. Sebbene sia difficile da generalizzare poiché, anzi, esistono esempi contraddittori - Wagner e Wollmann hanno osservato che la transizione da un governo conservatore a uno progressista può condurre a una domanda crescente di valutazioni. D'altro canto, se avviene un cambiamento nell'altra direzione, il governo conservatore entrante tende a pòrre fine alle valutazioni, specialmente se esso nutre sospetto e ostilità verso le scienze sociali. Quando il governo è solo moderatamente conservatore allora, invece del brutale freno alle valutazioni, sviluppa la tendenza a cambiare semplicemente l'orientamento delle valutazioni verso analisi dei costi e studi che sostengano il processo di formazione delle scek&. La situazione in Francia non contraddice queste ipotesi, ma l'esperienza francese presenta tre peculiarità che, ancora una volta, la isolano: i) Un Presidente della Repubblica sociali. sta che è stato costretto ad accettare un governo di destra guidato da un Primo ministro conservatore dal 1986 al 1988, [114]
periodo conosciuto come "cohabitation°. Le difficoltà create da questa situazione possono essere meglio illustrate dalle sorti delle relazioni del 1986 e 1989 sulle valutazioni. Innanzitutto si deve tornare alla conferenza del 1983 che ha segnato l'apertura del dibattito su questo tema ir Franci&. Dalla conferenza, organizzata su richiesta del Ministro delle Finanze Jacques Delors nel 1981, scaturi una relazione, per il Commissario Generale per la Pianificazione, sui metodi di valutazione e sulle condizioni necessarie per l'ulteriore sviluppo di questo process&6. La relazione fu pubblicata nel maggio 1986, precisamente nello stesso periodo della vittoria elettorale del partito di destra di Jacques Chirac nelle elezioni legislative. Il Presidente Francois Mitterand si trovò nella scomoda posizione di dover invitare il leader del iu'i a formulare il Governo. Una volta insediato come Primo Ministro, fu subito chiaro che Chirac era determinato a rovesciare, non a migliorare l'apparato dello Stato. Non a caso la relazione del 1986 sulle valutazioni si è trovata senza alcun sostegno, posta su quel ben noto scaffale dove i documenti che condividono la stessa sorte sono lasciati a "raccogliere polvere". Due anni dopo, quando il periodo della coabitazione terminò con la vittoria socialista nelle elezioni legislative, nessuno ha pensato di spolverare la relazione del 1986, poiché il Primo Ministro Michel Rocard ha ordinato prontamente una nuova relazione sulle valutazioni politiche il cui obiettivo è di dare delle indi-
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cazioni sulle modalità per la realizzazione della valutazione. Il teorema di P. Wagner e H. Weollman sembra dunque essere valido, ma non permette di spiegare come il governo socialista del 1981 che ha lanciato il progetto e il governo socialista che ha realizzato il nuovo sistema nel 1990 siano profondamente diversi 2)11 Governo socialista ha cambiato profondamente i suoi orientamenti neI 1983, indietreggiando dalla politica iniziale di nazionalizzazione e massiccio intervento statale. Qui torniamo al cambiamento ideologico che è avvenuto in Francia negli anni ottanta e al suo impatto sul processo di valutazione. Durante tutto il decennio la Francia è stata divisa da una guerra civile ideologica che ha opposto i sostenitori di un'economia di libero mercato agli avvocati di un'economia regolata dall'onnipotente welfare state. Il modello dell'intervento statale è stato così opposto al liberalismo classico, essendo quest'ultimo considerato dagli interventisti inaffidabile quando incontrollato. Non ci furono dubbi sulla posizione assunta dai socialisti in questo dibattito quando giunsero al potere nel 1981. Durante i suoi primi due anni d'incarico il Presidente Mitterand perseguì una politica aggressiva di nazionalizzazione. Nella primavera del 1983, però, il Governo fece un drammatico dietrofront a seguito di un accesissimo dibattito interno. Sotto una crescente pressione monetaria, dopo la crescita piuttosto elevata dei deficit di bilancio nel 1981 e 1982,
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i socialisti furono forzati ad abbandonare la loro politica di nazionalizzazione, a porre limiti alle loro frenetiche assunzioni fra i dipendenti statali e a tirare il freno al crescente consumo pubblico. La loro ritirata ideologica dimostrava che i socialisti erano coscienti, o comunque forzati ad accettare la realtà di un'economia internazionale e in particolare la creazione di un mercato unico europeo. Allo stesso tempo, inoltre, si andava sviluppando nella società francese un nuovo consenso a favore dell'individualismo e dei valori corporativi in contrapposizione al tradizionale abito collettivo di coloro che, nell'attesa di soluzioni, guardano allo Stato. L'ethos del commercio, entro certi limiti, ha rimpiazzato le antiche verità dell'amministrazione pubblica come modello principale dell'organizzazione sociale. Sebbene questa ampia evoluzione nell'opinione pubblica francese è senza dubbio avvenuta negli anni ottanta, sarebbe sciocco soccombere alla tentazione manichea di ridurre un complesso fenomeno sociale ad una vittoria del mercato e alla scomparsa dello Stato. La realtà di solito è molto più complessa, se non paradossale, e il caso francese è l'uno e l'altro. Infatti, mentre in Francia si è'verificato il rifiuto del modello di società accentrato nello Stato, non si è rifiutato il tuelfare state in sé. Ciò anzi spiega la contraddizione tra il concetto "manageriale" di valutazione sostenuto dalla riforma del 1990 e il fatto che sia stato un governo socialista ad introdurre un nuovo siste101
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ma a tale riguardo. Mentre un approccio "manageriale" alla valutazione è in genere maggiormente compatibile con gli obiettivi di riduzione delle spese dei governi conservatori, è proprio nell'assenza di alcun legame tra il nuovo sistema francese e il processo di formazione delle decisioni di bilancio che possiamo vedere l'impronta dei socialisti. 3) 11 Governo ha conferito a se stesso il potere di controllare il processo di valutazione, paralizzando gli organi tradizionali di consulenza amministrativa. In ultimo si dovrebbe 'notare che il diretto controllo del processo di valutazione da parte dei ministri nell'ambito della struttura del CIME è considerato dai più vecchi scaglioni dell'amministrazione statale nient'altro che un potere fatto proprio dai politici. Il loro risentimento è accentuato dal fatto che, a causa della supervisione metodologica affidata al Consiglio Scientifico di Valutazione, viene stabilito un principio a favore di un'aperta competizione per i programmi di valutazione. Questò, inoltre, minaccia il tradizionale quasi-monopolio della burocrazia nel campo della valutazione. Per alcuni è come se improvvisamente si stessero spalancando le porte; per altri, in special modo per i burocrati più anziani appartenenti agli organi tradizionali di amministrazione e di controllo (il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti e l'Ispettorato Generale delle Finanze), il nuovo assetto sta ribaltando il tradizionale equilibrio di poteri tra il Governo e i membri di questi Grandscorps, a favore solo del primo. 102
La relazione Viveret del 1989, che ha preparato il terreno per la riforma del 1990, fa riferimento persino al monopolio della "legittima consulenza" esercitata dai membri di questi Grands.corps a carico della burocrazia. Attualmente sta avendo luogo un effervescente dibattito sul nuovo sistema di valutazione nell'ambito di tali più vecchi organi della burocrazia francese. L'interrogativo sembra vertere su quale atteggiamento si debba assumere. Una più forte resistenza, per non dire ostilità, potrebbe minacciare veramente e addirittura scalzare il nuovo sistema che è già fragile di per sé. Esso è diventato persino più vulnerabile dopo l'allontanamento, nel maggio del 1991, del Primo Ministro Rocard, padre della riforma. A rendere le cose più difficili, se tali riserve nei ranghi più alti della burocrazia dovessero essere espresse apertamente, si correrebbe il serio pericolo di far schierare numerosi dirigenti di unità esecutive nell'ambito dell'amministrazione contro la valutazione. Sembrerebbe allora che ci siamò imbattuti in un altro paradosso: i fattori politici che conducono al lancio della valutazione politica nell'ambito dell'amministrazione francese sono anche gli stessi che potrebbero ostacolare la sua istituzionalizzazlone. Ed esiste l'imminente pericolo di un'altra "cohabitation" dopo le prossime elezioni legislative che si devono tenere nel 1993, con le inevitabili conseguenze che comporterebbe. Se l'opposizione con-
servatrice dovesse tornare al potere, più di tutte la sorte del sistema di valutazione sarebbe incerta. L'interrogativo sul favore o sull'ostilità dei Grands-corps, alleati naturali dell'esecutivo, potrebbe rendere la situazione molto delicata. E la generale ambiguità che circonda gli obiettivi fondamentali del nuovo sistema di valutazione può solo contribuire ad accrescere queste tensioni.
CoNcLus1oN1 IN MEZZO AL GUADO
Se la valutazione è riuscita a superare una tappa importante per quel che concerne la sua istituzionalizzazione, sembra comunque che il sistema creato resti ambiguo e fragile. E naturalmente troppo presto per osservare le conseguenze della riforma. Ci sembra solamente possibile elaborare qualche congettura fondata sull' interdipendenza fra fattori strutturali e fattori politici. In prima approssimazione saremmo tèntati di dire che i fattori strutturali stabiliscono la tendenza e che quelli politici giocano un ruolo d'accelleratore o di freno lungo questa direzione e contribuiscono a modellare lo stile della valutazione praticata in un paese dato a un momento preciso. L'osservazione del caso francese suggerisce delle interdipendenze più forti. Da un lato, il disequilibrio in favore dell'esecutivo nasce in parte dal fatto che, a differenza di paesi come la Germania, la Svezia o gli USA, la domanda di valuta-
zione che nasce dal Parlamento, dagli organi di revisione e di controllo o dal pubblico, resta debole tenuto conto degli ostacoli socio-culturali e istituzionali propri della Francia1 7. D'altro lato, l'ambiguità degli obiettivi del nuovo dispositivo e la fragità dell'appoggio che può ricevere da parte degli ambienti amministrativi e politici sono il frutto una evoluzione congiunta e non ancora conclusa di fattori strutturali e politici. L'evoluzione ideologica dei francesi in favore di una economia di mercato è stata concomitante con la conversione del potere socialista. La distinzione fra fattori politici e fattori strutturali si assottiglia, in effetti, quando si pensa come un presidente come Mitterrand sia restato al potere per più di dieci anni. Ma la conversione di questo potere è ambigua e incompleta per quel che concerne l'amministrazione dello Stato, perché da un lato i funzionari costituiscono una delle basi politiche del partito socialista e dall'altro è difficile rinunciare alla comodità che offre uno Stato gollista la cui amministrazione è poco abituata al principio d'accountability. In altre parole, la valutazione vive in Francia un momento delicato e il suo sviluppo non dipende solamente dalla virtù dei responsabili del nuovo sistema. Essa non potrà veramente radicarsi e essere utilizzata per migliorare il controllo strategico dell'azione pubblica senza una riforma più ampia dello Stato che modifichi soprattutto il funzionamento del Parlamento e degli enti di controllo. 103
* L'autore desidera ringraziare tutti coloro opinioni qui espresse impegnano solo la sua che sono stati intervistati in preparaziòne persona. di questo articolo, avvertendo però che le
L'évoluation de l'experrise à La Responsabiltté - Rapport
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Western Nations: an Overview, in R . A. LEVINE (ed.), Eva.
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(Traduzione di Rita Di Prospero)
Europa
Che voto dare agli accordi di Maastrichr? La portata di un trattato, come di ogni atto normativo, non può essere valutata senza tentare di cogliere o simulare la dinamica applicativa. Si tratta di un'analisi non facile. In particolare, se si tratta di un testo complesso e tortuoso come quello di Maastricht. Per ora, mentre inizia la fase delicata delle ratifiche parlamentari nei paesi membri della Comunità, è giusto rimanere ad una considerazione politica generale. Passo, del resto, preliminare all'analisi di dettaglio e alla considerazione dei suoi possibili effetti. Il compromesso di Maastrich, di difficile lettura, può avere, come è naturate, diverse interpretazioni. Tralasciando le interpretazioni elogiative e acritiche al cento per cento e mettendo anche da parte il nero di seppia, si può dire sinteticamente che a Maastricht si è stabilito un chiaro obiettivo federale col progetto di Unione economica e monetaria (se realizzata veramente, la moneta unica è un passo gigantesco e decisivo) e si è creato un non chiaro pasticcio confederal-comunitario col progetto di 105
Unione europea, dove è addirittura difficile dire se sia ancora sicuramente salvo l'acquis comunitario. Il problema dei problemi è quindi prevedere se il federalismo dell'Unione economica e monetaria prevarrà sui meccanismi dell'Unione politica così come oggi appaiono o se questi ultimi finiranno per allungare i tempi della moneta unica e soprattutto indurrà i più titubanti a non rispettare quanto ora convenuto. C'è poi l'interrogativo dell'Italia, che rende problematico l'apporto italiano all'UEM e rischia - dopo che abbiamo lavorato molto bene nel negoziato specifico - di contribuire a farlo fallire. Guardando, come si diceva, al futuro prossimo ci sono due scadenze da fronteggiare. La prima, è il mercato unico che dovrebbe (diciamo: dovrebbe) entrare in funzione il 1 ° gennaio 1993: chi governerà veramente questo mercato? Che ruolo autonomo è stato lasciato alla Commissione esecutiva di Bruxelles? Quale controllo effettivo potrà fare di tutto questo processo il Parlamento Europeo? Come camminerà più spedito e "indipendente" questo pilastro economico-sociale di fronte ad un Unione, che non è una effettiva unione e che è composta di diversi "pilastri" separati e in definitiva affidati al coordinamento ultimo di un Consiglio europeo (il Vertice), formato da governi nazionali ciascuno dei quali rischia sempre di andarsene per conto suo? Si ha l'impressione che a Maastricht non si è concesso poco al Parlamento Europeo, ma si è concesso quel che tenderà a imbrigliarlo irresistibilmente nella rete dell 'Europa intergovernativa. In conclusione occorre anzitutto rendersi conto e far conoscere all'opinione pubblica, ivi inclusi molti ignari uomini politici ,che siamo ancora lontani da una Unione europea. A portata di mano c'è sempre la Disunione europea. In secondo luogo, occorre esaminare le possibilità precise, anche se implicite, della Commissione esecutiva di Bruxelles e del Parlamento Europeo nel determinare una linea di indirizzo coerente e nel controllarla democraticamente, coordinandosi in Posizione non subalterna con gli altri pilastri dell'Unione (politica estera e di sicurezza e difesa, cooperazione negli affari interni e giudiziari). In terzo luogo 106
occorre chiarire che, al più presto durante la campagna elettorale europea del 1994 (ecco la seconda grande scadenza da ricordare) si dovrà riproporre l'esigenza che il Parlamento Europeo sia impegnato a ottenere il ruolo che gli compete, interamente, nella revisione del Il suo compito cocompromesso di Maastricht prevista per il 1996. stituente rimane e se ne rafforza la necessità: in ogni modo, il Parlamento Europeo deve essere chiamato a controbilanciare tutto il Consiglio Europeo, coi suoi Capi di Stato e di Governo. Tutto ciò, tuttavia, è ben poco e può avere il sapore di un illuminismo che lascia il tempo che trova. Di qui la domanda: quali sono le forze politiche e sovranazionali per ottenerlo? La risposta non è argomento di riflessione per questa rivista e tuttavia, lo riconosciamo, è una risposta determinante. 1
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Ipotesi 1990: un nuovo equilibrio dei poteri in una nuova stagione di sistemi federali? di Sergio Ristuccia
Ragionare nel 1990 sulle possibili evoluzioni istituzionali e politiche dell'Europa significa innanzitutto riuscire a trovare un orientamento in mezzo all'impetuoso svolgersi degli avvenimenti che stiamo vivendo a partire dal 1989. Se, sino ad un certo momento, la novità e grandiosità degli eventi dell'Europa orientale sono state tali da suggerire a tutti, o ai più, dei confortevoli orizzonti di pacificazione e rinnovamento dei rapporti fra popoli quasi relegando ad ubbie i timori e le preoccupazioni di segno diverso, la nuova, drammatica crisi del Medio Oriente ha diffuso nella coscienza sociale e nell'animo dei singoli, sentimenti profondi di paura e di disillusione. Ed impone realismo. Meno che mai è possibile affrontare problemi e scenari senza far uso di forte senso critico ma anche di molta cautela. Certo, una prima considerazione di carattere generale si potrebbe fare: gli eventi, sia in Europa sia in Medio Oriente, nel porre come centrali le questioni di nuove relazioni fra gli stati, offrono l'opportunità di diversi e migliori assetti della comunità e dell'ordinamento internazionali. Lungo una strada di riflessioni consolanti, se non consolatorie, si può dire anzi che
le possibili soluzioni da dare a tali questioni, in termini di migliore ordine internazionale, sembrano la carta decisiva. Si può ben ritenere, cioè, che solo facendo rapidi e importanti passi innanzi in Europa nella costruzione della comunità internazionale si possono evitare drammatici regressi nella situazione mondiale. Eppure, un grande dubbio, un gran sentimento d'angoscia, sono cresciuti giornalmente, durante l'estateautunno del 1990, circa l'esisténza dei presupposti che di fatto sono necessari per cogliere e realizzare questa opportunità. Se la lucidità, cioè «l'apertura dello spirito sul vero», consiste nell'»intravvedere la possibilità permanente della guerra» - come dice Emmanuel Lèvinas' - questa lucidità oggi rischia di schiacciarci nel fare previsioni e progetti. Essa ripropone certe dure evidenze: che lo stato di guerra sospende la morale e priva le istituzioni della loro forza, perché ((annulla, nel provvisorio, gli imperativi incondizionali». Ma al di là del dubbio e dell'angoscia occorre tuttavia andare avanti nel prevedere e progettare. La caduta rapida, per certi aspetti repentina, dei regimi comunisti dell'Est non ha cancellato alcune caratteristiche di 109
fondo della geopolitica europea (in qualche modo continua ad essere legittimo parlare di Est—Ovest) ma ha imposto una ridefinizione complessiva dei rapporti politici e internazionali dentro e ftiori il continente europeo.. Ridefinizione che ha per primo presupposto l'assetto costituzionale dei paesi dell'Europa orientale. E in corso ed è da supporre che prosegua per alcuni anni un processo di riscrittura delle norme fondamentali che reggono i sistemi politici europei sul piano istituzionale. Ancora, e più, saranno molteplici i cambiamenti e gli aggiustamenti della prassi costituzionale e della «costituzione materiale». Ma si può anche parlare, per il pianeta, di una stagione di «nuove costituzioni». A quelle in itinere nell'Europa orientile (si pensi al processo di revisione del sistema costituzionale dell'Unione Sovietica di cui sono stati scritti già alcuni capitoli, non tutti ancora chiari e decifrabili), si aggiungono alcune costituzioni dell'America latina (quella del Brasile, per esempio) e quella che è in difficile quanto drammatica gestazione nel Sud Africa. E si. tratta dei casi più evidenti. Nessun facile tratto comune può essere desunto da questi complessi processi in corso. Ma vi si può individuare una fase di riaffermazione ed aggiustamento delle istituzioni della democrazia. E si può anche dire che, in qualche misura, c'è in questi fenomeni una certa omologazione delle istituzioni di governo a quello che fino a poco tempo fa si poteva legittimamente qualificare come il «modello occidentale» in contrapposizione 110
ad altri supposti modelli, storici e teorici, di democrazia. Tema ricorrente di questa urgenza di creare ex novo o di mettere a punto i meccanismi della democrazia appare il rapporto difficile fra sedi locali e sedi centrali di governo (center vs periphery) e la lotta, che vi sottende, fra etnie diverse. Il conflitto etnico riesplode, una volta cadute le ferree misure di costrizione dei regimi di dittatura, senza che le etnie abbiano maturato in alcun modo una loro ricomposizione in nazione. Una certa originaria naturalità del fatto etnico viene sollecitata ad esplodere per la ritrovata libertà dai vincoli del regime di polizia e va quasi a proporsi come la sostanza della naturale conflittualità che è propria della democrazia. Ricercare la compresenza, anche non armonica, delle realtà sociali fondate sulle diversità etniche è certo uno dei compiti storici della democrazia moderna, in particolare, della variante istituzionale che è costituita dal modello federale. Dunque, nelle realtà nuove che attraversano i passaggi, pieni di insidie, di una via verso la democrazia che si disegna attraverso le lande desolate dell'arretratezza e del sottosviluppo economico, si ripropone il tema di un possibile capitolo delle esperienze federali. Ciò mentre nell'Europa comunitaria la stessa questione federale è aperta in ragione di altri sviluppi, cioè in ragione dell'evoluzione positiva della Comunità e per la salvaguardia dei risultati ottenuti che sempre più si traduce in necessità di ulteriori passi avanti in senso federale. Si può tuttavia dire che, sia nello stadio
dell'Europa occidentale sia in quello dell'Europa orientale l'idea federale ha bisogno di rivisitazioni e aggiornamenti profondi. Il che oggettivamente pone l'esigenza, al di là di differenze fin troppo evidenti, di ricercare un filo comune di ricerca e qualche comune obiettivo in questa nuova fase di teoria e pratica della democrazia federale. li SISTEMA FEDERALE
Le caratteristiche della scelta federale riportano a ordini diversi di politica costituzionale. Da una parte il modello federale costituisce un'articolazione delle esigenze proprie del moderno stato di diritto: all'idea della distinzione e compresenza di unità di governo e di livelli diversi di governo con competenze autonome al di fuori di un ordine di gerarchia. Ciò per porre ulteriori ostacoli e vincoli alla «sovranità senza limiti» che tende ad essere l'elemento costitutivo del moderno Leviatano. Dall'altra parte, l'articolazione federale costituisce la risposta per tenere collegate in sistema le diversità materiali, ambientali, etniche e sociali di paesi e popolazioni che si ritrovano insieme. Una struttura federale permette la cognizione delle differenziate comunità di interessi regionali e locali senza presumere che esistano interessi «nazionali» tali da sovrapporsi sempre e normalmente a tutti gli altri. E stato detto che per apprendere la buona politica e la buona amministrazione, occorre rendersi conto del carattere «controintuitivo» dei rapporti politici,
che non sono mai unilineari. Ebbene l'idea federale tiene conto di ciò e in questo senso quella federale è una buona scuola per la politica. Attiene comunque al modello federale la questione della «dimensione» del sistema di governo ed è logico e naturale ammettere che nella logica federale v'è una sovrapposizione di poteri diversi, non sempre risolta né risolvibile una volta per tutte. La misura giusta dell'overlapping è il delicato punto d'equilibrio del sistema federale. Ricordare alcuni elementi caratteristici del sistema federale serve, nel ragionamento che qui si sta conducendo, ad alcune importanti verifiche. La prima è facile: riguarda il sistema federale solo di facciata che è stato finora a fondamento dell'Unione Sovietica. Fuori dalla logica dello stato di diritto il sistema federale non è neppure un meccanismo di rapporti di dominio imposti attraverso gli strumenti paralleli dello stato—partito. La seconda verifica riguarda, invece, il grande esperimento federale costituito dagli Stati Uniti d'America. Qualcuno ha detto che «the american federalism is in disarray». Ed in effetti, da una parte, si sentono denunciare e contrastare le forti tendenze centralizzatrici che da tempo si sono andate affermando a Washington (pur quando, come nella gran parte dell'era di Reagan, si è combattuto contro o ci si è lamentati del Big Goverment) e dall'altra, si denuncia una certa anarchia degli Stati. In realtà, il grande esperimento americano non ha del tutto 111
metabolizzato gli effetti della trasformazione degli Usa in superpotenza mondiale, volano di inevitabile rafforzamento del livello centrale di governo. La «presidenza imperiale», malgrado non recentissime origini e malgrado riguardi la proiezione e i rapporti esterni della federazione non sembra proprio facile l'amalgamarsi nella logica federale. Insomma, è il problema dei rapporti esterni delle federazioni nell'impatto con il disordine della comunità internazionale che le vicende del sistema federale americano nel dopoguerra ripropongono, con tutti gli effetti di «ritorno» che se ne producono per gli stessi meccanismi federali2. Quanto appena ricordato serve per dire che la realtà storica del federalismo suggerisce molteplici e notevoli aspetti problematici da valutare e chiede di rivisitare e reinventare i modelli istituzionali. Quali i punti di riferimento teorici? Ne vengono in mente due: da una parte, l'idea di «federalismo» integrale che fu al centro di dibattiti e proposte politiche già in altri momenti storici (pur trattandosi di dibattiti entro aree marginali di pensiero e azione politica); dall'altra, l'idea di «sussidiarietà» che caratterizza il dibattito sui possibili sviluppi dell'ordinamento comunitario che è in corso negli ultimi sette—otto anni. Per quanto riguarda il federalismo integrale può farsi riferimento, ad esempio, ad un documento (((Tempi nuovi metodi nuovi), del 1953, dichiarazione politica del Movimento Comunità) che rimane singolarmente lucido e preveggente 112
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fra i tanti della letteratura politica di tipo militante (anche se nel caso elitario). «Federalismo - si diceva - non deve essere statalismo, ma al contrario struttura sempre più autonomistica nell'ambito degli stati ad autonomia generale». Il fenomeno federativo va stimolato perché «solo stati strategicamente forti pongono e risolvono il problema delle autonomie all'interno» e stati forti sono «ordinamenti giuridici superiori, federazioni continentali o sub-continenta1i». Si può oggi commentare che, di per sé, ragioni forti e stringenti per tali federazioni esistono e si affermano di continuo. Ma i processi storici sono lenti e difficili in fase costruttiva e innovativa. Viene in mente il profondo travaglio del Sud Africa il cui destino sembrerebbe dover essere quello di una federazione subcontinentale. Più in generale ci si può interrogare, come ha fatto I' Economisr sulla sorte dello stato—nazione? E' un interrogativo al quale si può ben rispondere cogliendo le ragioni (e sono «good reasons») per le quali tanti paesi stanno mettendosi insieme, oggi più che in altra precedente occasione storica. Il commercio mondiale equivale a quasi un quinto del prodotto lordo mondiale e le economie crescono e prosperano solo se sono collegate a questo grande mercato mondiale; mentre frontiere e barriere frustrano il commercio, ne restringono i benefici. Eppure, ciò malgrado, ((the world seems sure to get more countries, more acronyms, and more happy flag makers» (se non altro per il probabile risveglio delle nazionalità in
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Unione Sovietica) La verità è che un paese può imparare a vivere volontariamente con un altro, sulla base del principio democratico dell'autodeterminazione, solo se emerge una identità nazionale che sia più forte delle identità subnazionali. Insomma lo stato—nazione è in crisi ma non il suo presupposto cioè il problema dell'identità. Per questo il processo federativo, va sostenuto e sospinto non solo sulla base del modello federativo compiuto a sovranità limitata, cioè sovranità ripartita fra stati e governo federale, bili of rights che prevale sulle leggi statali, piena libertà di commercio e movimento, corte suprema che risolve le controversie sui poteri ripartiti ma anche sulla base di modelli para—federali che prevedono meccanismi istituzionali forti di cooperazione per alcune aree funzionali, anche quelle tradizionalmente collegate alle prerogative della sovranità (moneta difesa). L evoiuzione aeii orainamento comunitario si iscrive appunto nella logica di quest'ultimo modello. Anzi si può dire che l'esperienza della CEE è andata rendendo visibile e plausibile il modello para-federale. Il quale in sostanza, non si pone come alternativo al modello federativo integrale ma come un meccanismo di progressivo avvicinamento. Una via procedurale tanto più necessaria quanto più manca o non è tuttora maturo il presupposto di una identità «nazionale» (o continentale) più forte delle identità sub—nazionali (o sub-continentali). T ,
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IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
E' in quest'ultimo contesto che si è affermato il principio di sussidiarietà. La situazione di stallo in cui si trovava l'Europa comunitaria a riguardo dello sviluppo e della direzione di sviluppo delle sue istituzioni fu superata, a metà degli anni '80, anche attraverso il ricorso all'idea di sussidiarietà. E questa idea si è poi affermata come un criterio guida per l'evoluzione delle istituzioni comunitarie. Occorre soffermarsi sul concetto per valutare quale in realtà sarà il suo peso nei prossimi anni. La ricostruzione della storia della sussidiarietà che è stata fatta di recente da Marc Wilk e Helen Wallaces ha, fra gli altri, il pregio di mettere in evidenza come la prima affermazione del concetto si ebbe nel caso della querelle sollevata dai Lànder tedeschi intorno ai rischi che l'estensione della Comunità avrebbe creato per le competenze esclusive degli stessi Lànder fissate dalla Grundgesetz della Repubblica federale. Un uso diciamo così difensivo, sulla falsariga delle clausole di salvaguardia delle competenze dei livelli inferiori di governo di norma presenti nelle costituzioni federali. Il che serve subito a segnalare il significato polisenso del principio. La sussidiarietà secondo la definizione che si ricava dal Progetto di Trattato che istituisce l'Unione europea (Progetto Spinelli) approvato dal Parlamento europeo nel febbraio 1984, definisce i compiti da svolgere attraverso le istituzioni europee (v. art. 12, 2° comma): si tratta dei compiti che 113
«in comune possono essere svoiti più efficacemente che non dai singoli stati membri separatamente», compiti fra i quali vengono indicati esemplifìcativamente quelli la cui realizzazione richiede l'azione in comune «giacché le loro dimensioni o i loro effetti oltrepassano i confini nazionali». In verità, il principio di sussidiarietà è innanzitutto un argomento per sostenere e promuovere lo sviluppo delle istituzioni europee e l'unione in particolare. Non è un vero e proprio concetto di valenza giuridica, se non in un senso procedurale. Nell'uso correttamente fattone nel Progetto, esso infatti fonda la legittimazione all'iniziativa per l'evoluzione dinamica dell'ordinamento della Comunità o dell'Unione attraverso un obbligo di motivare e provare l'efficacia della possibile azione comune come superiore a quella dell'azione dei singoli stati. In questo senso il principio di sussidiarierà appare il volano per l'evoluzione dato che ogni paso in avanti può creare i presupposti di migliore efficacia in campi nuovi e diversi ed in quanto impone un comportamento che mira alla concretezza e vuole dimostrazione dei risultati. Come dire: prova e vai avanti. Tutto ciò è vero a patto, naturalmente, che la procedura necessaria per attivare la sussidiarietà sia ben definita. Nell'evoluzione verso l'unione si può pensare all'iniziativa della maggioranza degli stati o all'iniziativa della Commissione o infine a quella del Consiglio europeo. Insomma, qual'è l'organo della sussidiarietà? E in qual modo esso dovrà attivarsi? 114
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D'altra parte, affinché il principio di sussidiarietà sia credibile, occorre pensare ad un processo di passaggio delle competenze non sempre botton—up ma anche up—botton. E implicito, infatti, nellà sussidiarietà un andamento bidirezionale a seconda dell'accertamento in concreto dell'efficacia delle politiche. Il limite del principio di sussidiarietà si coglie di fronte alle esigenze di architettura istituzionale. Esso, non potrà essere usato «all'infinito», ma potrà stravolgere il disegno dei poteri e dei rapporti fra poteri e istituzioni europee e istituzioni degli stati, né potrà essere usato agevolmente nei conflitti di attribuzione fra istituzioni ed organi in quanto fondato su un rinvio a elementi di diritto. Dimostrazione o sintomo della rinata dmamicità della Comunità negli anni '80, il principio di sussidiarietà è dunque un singolare, addirittura per certi aspetti geniale, punto d'incontro fra riformatori secondo schemi a priori necessariamente federali e innovatori prudenti sulla base dei risultati conseguiti. Perciò il principio di sussidiarietà è destinato ad avere un ruolo di promozione della dinamica interna comunitaria come principio accettato sul piano operativo. Non credo però che esso possa servire a fondare compiutamente l'architettura istituzionale, laddove si imponga il passaggio dal piano della costituzione materiale a quello della costituzione formale. A che punto è l'Europa della CEE sul piano dell'effettivirà dei rapporti intracomunitari? E' importante una ricognizio-
ne dei fenomeni più rilevanti su questo profilo. Essi sembrano tre: il peso di Bruxelles (Commissione e suoi comitati) nell'ordinario svolgimento degli affari amministrativi dei paesi membri; la lenta ma progressiva trasformazione della Corte di Giustizia in vera e propria «corte suprema» della Comunità europea con influenza diretta sull'equilibrio dei poteri entro l'ordinamento comunitario; il processo di attuazione dell'Atto unico. Sul piano più concreto della vita amministrativa è stato notato che il rapporto con Bruxelles è spesso divenuto routine. Al punto che talora i documenti comunitari sono ispirati dagli stessi destinatari. Cosa che avviene anche sulla base di «un trasferimento progressivo di poteri sostanziali». Ciò vale soprattutto per i ministri del Tesoro e delle Finanze degli stati membri ma comincia a valere anche per altri ministri. Così «se in un primo tempo si utilizzavano le istituzioni comunitarie per autoraccomandarsi politiche già decise in sede nazionale rafforzandole ulteriormente di fronte ai rispettivi Parlamenti nazionali, ora l'obiettivo reale diventa effettivamente quello di concentrarsi con i ministri omologhi». Sul piano di queste notazioni realistiche l'autore che sto citando ha colto come «elemento non secondario di questo stato di cose» un diverso atteggiamento delle burocrazie nazionali: queste, 'cdusate di impedire con ogni mezzo ogni trasferiménto di potere a Bruxelles, hanno in realtà scoperto che all'interno dei trecento comitati consultivi o di
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regolamentazione della Commissione o degli innumerevoli gruppi di lavoro del Consiglio è più facile trovare accordi che in sede nazionale si perderebbero in trattative fra ministri concorrenti o anche parlamentari distratti e inaffidabili» 6 Sul piano più propriamente istituzionale, occorre segnalare il peso dell'opera svolta dalla Corte di Giustizia, un peso che è stato più volte sottolineato. Nel corso della celebrazione del 400 anniversario della dichiarazione di Robert Schuman (tenutasi il 6 maggio scorso) il Presidente della Corte Ole Due ha ricordato che la Corte «si è ben guardata dall'interpretare i trattati comunitari come se fossero trattati di diritto internazionale classico. Essa ha sviluppato principi di interpretazione atti a salvaguardare il pieno esercizio delle loro competenze da parte delle istituzioni e ad assicurare l'effetto utile delle regole comunitane. Ha riconosciuto che ogni regola che impone agli stati membri obblighi chiari, precisi e incondizionati ha un effetto diretto sui sistemi giuridici interni di questi stati. E, per le regole che non hanno tale carattere, ha sottolineato l'obbligo di ogni autorità nazionale, giudiziaria o amministrativa, di darvi effetto nell'ambito delle proprie competenze e in tutta la misura compatibile con il diritto nazionale». Ma quel che più conta è il legame ormai stretto fra la Corte e le giurisdizioni nazionali. I rinvii pregiudiziali alla Corte hanno un peso crescente come si nota anche in Italia: basta considerare la giurisprudenza dei tribunali ammini115
strativi regionali. Le stesse competenze del Parlamento europeo sono state saivaguardate e in qualche modo meglio definite, in senso espansivo, dalle sentenze della Corte. Il quinto Rapporto della Commissione sull'attuazione del Libro bianco così commenta: «dopo la sentenza pronunciata nel 1990 dal Consiglio di Stato francese, tutte le somme autorità giudiziarie assicurano l'applicazione diretta del diritto comunitario». Per quanto riguarda il processo di attuazione dell'Atto unico, si possono riportare alcune osservazioni dell'appena citato quinto Rapporto della Commissione sull'attuazione del Libro bianco, marzo 1990. Non mancano nel Rapporto preoccupazioni, come si vedrà innanzi, ma esso è tutto da leggere nella chiave dell'affermazione con cui si apre secondo la quale «i lavori effettuati nel corso degli ultimi mesi sono stati contrassegnati da due caratteristiche: l'irreversibilità e l'anticipazione». Sull' irreversibilità la Commissione aggiunge alle constatazioni che già sono state fatte anche in sede di Consiglio, alcuni dati importanti: quasi il 60% delle proposte del programma del 1985 è già stato adottato; il ritmo attuale delle decisioni non è raffrontabile con quello precedente. L'anticipazione significa innanzitutto accelerazione: che la Commissione ritiene conseguenza dell'impostazione data al processo di attuazione dell'Atto unico. Cioè l'impostazione fondata sull'abbinamento, in tutti i casi possibili, dei provvedimenti di reciproco riconosci mento e dei provvedimenti di 116
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armonizzazione. L'anticipazione significa poi diverso comportamento sia dei soggetti economici sia dei governi: gli uni e gli altri intenzionati a cogliere meglio e tempestivamente le opportunità del Mercato unico. Il Rapporto esprime tuttavia preoccupazioni e forti avvertenze. Per esempio è forte l'appeIlo solenne» della Commissione al Consiglio europeo per la realizzazione dello «spazio senza frontiere». Ancora, la Commissione può ben dire di aver rispettato tutti i suoi impegni si da essere entrata nella fase della gestione delle direttive, ma contemporaneamente segnala che che l'accelerazione non c'è né si può perseguire «quando le problematiche esaminate richiedano l'umanità», sia che questa derivi dalle norme sia che derivi invece dal rifiuto del Consiglio ad attivare i principi dell'Atto unico sulla delega delle competenze alla Commissione. Insomma il Rapporto riconduce ai temi della dinamica e della meccanica istituzionale. Fra i risultati positivi che già possono essere colti lungo il percorso di avvicinamento al Mercato unico la Commissione, nel citato Rapporto del marzo 1990, segnalava la nuova dinamica del commercio intracomunitario: dopo un arretramento continuo tra il 1873 e il 1985 esso è risalito nel 1988 al livello dell'inizio degli anni '70 (62% delle esportazioni degli stati membri). Il che, secondo la Commissione costituisce un'importante inversione di tendenza. Essa <(testimonia come meglio non si potrebbe del rilancio dell'integrazione economica
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della Comunità» 7. Questa osservazione riporta alla questione delle ragioni storiche dell'Atto unico ed in particolare del legame con la cosiddetta Strategic Trade Policy (Strap). Tema che è stato oggetto di indagini e discussioni nell'ambito degli studiosi di politica economica. Per far fronte ai problemi di inflazione e di disoccupazione nell' Europa dei primi anni '80 si andò affermando la convinzione che, data la rigidità dei mercati del lavoro, non vi fosse spazio per politiche d'espansione. Di conseguenza, dovendosi seguire politiche monetarie restrittive anche al fine della difesa delle valute, parve opportuno che le autorità monetarie nazionali perdessero parte della loro indipendenza attraverso la creazione dello SME e la Ieadership sostanziale della Bundesbank. Si venne così a costituire, nella forma di un tipico institutional arrangement, un sistema sovranazionale che «over—represented the interest of flnancial capital and monetary authorities, instituzionalized a deflationarybias in the conduct of policy instruments». Si verificò quindi un certo passaggio di poteri decisionali dai governi ad un «club monetario» sopranazionale; il che venne ad aumentare l'inerzia istituzionale a livello comunitario. Per forzare la situazione (che molti riportano aIl'euro scierosis») i business leaders scavalcarono i governi nazionali e fecero dirette pressioni sulla Commissione per spingere soluzioni alternative. La prospettiva di un mercato sempre più integrato non soltanto veniva a migliorare le prospettive a medio—termine del-
l'industria europea ma forniva «a new sense of direction for the European institutions and bureaucraticy». Di qui l'alleanza fra il mondo dell'industria e il mondo di Bruxelles. L'Atto unico «has strengthened the role of the Commission as a regulatory agency and has given greater decision making powers within the Council to government authorities in the more industrialized countries (W. Germany, United Kingdom, France, Italy) that have vested interests in the promotion of Strap». In sostanza ciò avrebbe fatto emergere un complesso apparato istituzionale che, mirato su relazioni più strette fra Commissione, principali rappresentanti degli interessi economici e autorità governative dei paesi maggiori, farebbe pensare ad un altro «institutional arrangement» da denominare eurocorpbratisrn. E' questa la ricostruzione fatta da Louka T. Katseli 8 Un siffatto tipo di ricostruzioni comporta un alto grado di semplificazione. Scompare del tutto dalla storia così ricostruita la grande battaglia condotta nel Parlamento europeo da Altiero Spinelli e che in quella sede si concluse con il successo dell'approvazione del Progetto di Trattato per l'Unione europea. L'Atto unico non può più essere considerao il frutto minore e la risposta provvisoria dell'<altra» Europa (quella governativa) alla richiesta perentoria che il Parlamento europeo, ormai eletto a suffragio diretto, poneva alla Comunità. Dunque, non raccomanderei questa ricostruzione come pienamente attendibile sui piano .
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storico. Però essa può valere come utile esercitazione per contribuire ad identificare l'evolversi degli intrecci fra interessi; forze sociali e istituzioni che determinano in questi anni la «costituzione materiale» dell'ordinamento comunitario. In questo senso, la ricostruzione è invece attendibile. L'assetto degli interessi e l'institutional arrangement che l'accompagna sembra destinata a permanere nei prossimi anni. Certo, non si hanno al momento elementi di fatto perché in quell'assetto riesca a rientrare l'organizzazione del lavoro (forse attraverso l'espansione del modello corporatista tedesco?). Poiché tuttavia in questo modo il corporativo a livello europeo rimane monco sono da ritenere probabili tensioni e riaggiustamenti. Non tali, tuttavia, da modificare profondamente i punti di forza dell'institutional arrangement. Né sembra che i mercati dell'Europa orientale possano creare nei prossimi anni, vantaggi alternativi a quelli del grande mercato integrato della CEE. Anche per questo la coalizione di interessi che si è disegnata potrebbe rimanere ben salda. Modello rivisitato, sussidiarietà come principio di spinta dello sviluppo comunitario, fase protratta di institutional arrangements: in questo quadro di prospettive occorre individuare i nodi istituzionali più rilevanti che vanno sciolti nel medio termine. Tre, fra tutti, sembrano particolarmente significativi: i soggetti nazionali della politica di bilancio nel caso di unione 118
economica e monetaria ; la fisionomia dell'Esecutivo a livello europeo, la rappresentanza istituzionale delle regioni. Devo dare qualche spiegazione, sul piano metodologico, a proposito di questa scelta. Innanzitutto non sarebbe possibile fare un'ampia ricognizione dei problemi istituzionali che sono sul tavolo delle due conferenze intergovemative che iniziano nel dicembre 1990. Certo, potrebbe anche essere utile una tale ampia rassegna per valutare se le «riforme» del Trattato di Roma di cui si va a discutere siano state veramente approfondite e preparate da un dibattito istituzionale adeguato. L'impressione è che il dibattito sia stato abbastanza povero, forse nel presupposto - tutto sommato assai ampiamente condiviso nell'ambito dei Governi - che questa volta si debba soltanto ampliare il campo delle competenze della cooperazione politica intergovernativa senza significative modificazioni istituzionali. In ogni caso, sembra a questo punto più proficuo andare su temi emblematici, e quelli prescelti, come conto di dimostrare, lo sono.
DAL RAPPORTO DELORS ALLA CONFERENZA INTER GOVERNATIVA
Per il primo tema occorre prendere le mosse, naturalmente, dal rapporto Delors. Di solida struttura intellettuale, come è stato notato da molti, il Rapporto ha posto sul tavolo le questioni di maggior peso. Innanzitutto la premessa: «l'u-
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nione economica é monetaria ha implicazioni che vanno molto al di là del programma del Mercato unico». E' un'affermazione che nel Rapporto viene sottolineata anche graficamente attraverso l'uso del corsivo. E poi, ricordato che la ((Comunità continuerà ad essere composta di singole nazioni, con diverse caratteristiche economiche, sociali, culturali e politiche» sicché ((l'esigenza e la salvaguardia di tale pluralità implica che gli stati membri conservino un certo grado di autonomia nelle decisioni di natura economica», si afferma ((la necessità di un trasferimento di poteri decisionali degli stati membri alla comunità nel suo insieme». In particolare, appunto, nei settori della politica monetaria e della gestione macroeconomica. Quanto al problema di equilibrare i poteri comunitari e nazionali il Rapporto dà il suo forte contributo al principio di sussidiarietà ((secondo il quale le funzioni di governo di livello più elevato dovrebbero essere il più limitate possibile e sussidiarie di quelle di livello più basso». Di qui un 'attribuzione di competenze alla Comunità ((circoscritta specificamente a quei settori nei quali fosse necessaria un'attività decisionale collettiva». Qui lascio da parte le proposte del Rapporto per quel che riguarda i problemi specifici, e principali,' dello stesso cioè l'unione monetaria. Vengo al tema connesso del coordinai'nento della politica macroeconomica dei paesi membri. Il ruolo della Comunità nella politica economica dovrebbe tradursi in un co-
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ordinamento delle politiche di bilancio nazionali, fermo rimanendo che agli stati membri spetterebbero le «decisioni sulle grandi linee delle politiche pubbliche - in settori quali la sicurezza interna ed esterna, la giustizia, la sicurezza sociale, l'istruzione - e quindi sul livello e sulla composizione della spesa pubblica, nonché molti provvedimenti relativi alle entrate dello Stato». Ma non si tratta di un coordinamento di buona volontà: «in materia di bilancio - dice il Rapporto - sono necessarie norme vincolanti che in primo luogo impongano efficaci limiti massimi ai disavanzi di bilancio dei singoli stati membri della Comunità, ancorché nella determinazione di detti limiti si potrebbe prendere in considerazione la situazione di ciascun paese membro; che, in secondo luogo, escludano l'accesso al credito diretto della banca centrale e ad altre forme di finanziamento monetario, pur consentendo le operazioni di mercato aperto su titoli di Stato; che, in terzo luogo, limitino il ricorso all'indebitamento esterno in moneta non comunitaria». Si aggiunge poi che parrebbe necessario sviluppare tanto procedure quanto regole vincolanti in materia di politica di bilancio, che prevedano rispettivamente: - un tetto effettivo ai disavanzi di bilancio dei singoli stati membri (oltreché le altre norme già ricordate): - la definizione dell'orientamento generale della politica di bilancio a medio termine, inclusi l'entità e il finanziamento del saldo di bilancio aggregato, comprendente sia i saldi nazionali sia il saldo comunitario. 119
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In questi suggerimenti non è chiaro quale organo della Comunità debba prendere queste decisioni e in qual misura, eventualmente, tali indicazioni normative debbano esse recepite nello stesso Trattato. Si può facilmente concedere che un Comitato composto di Governatori delle banche centrali non poteva entrare in merito. Si può ancora supporre che nella premessa contenuta fra le considerazioni generali, dove si afferma che «non sarebbe possibile seguire in maniera pura e semplice l'esempio dègli stati federali esistenti», non si esclude affatto, che, sia pure con ((una impostazione innovativa ed unica», si debba seguire il modello federale, dando così per implicito che un ruolo decisionale pieno debba spettare al Parlamento europeo. Dal Rapporto Delors passiamo all'ultimo documento preparato dalla Commissione europea nell'agosto 1990 come documento per la Con ferenza intergovernativa che inizia in dicembre. Viene confermata l'idea che alcune norme relative ai disavanzi di bilancio debbano trovare sede nel Trattato. Si tratta innanzitutto del principio che i disavanzi debbano essere evitati e poi di due divieti più specifici: uno riguardante il finanziamento monetario del disavanzo e l'altro riguardante il c.d. «balling out» cioè il divieto che da parte della Comunità ci sia una garanzia d'intervento d'ultima istanza. Dunque prende ulteriormente corpo l'idea di costituzionalismo monetario e fiscale a livello comunitario, ma questo è fatto non di norme 120
positive, ma di regole che pongono limiti e soglie da non superare. Non viene quasi toccato il tema delle sanzioni che dovrebbe presiedere al rispetto dei divieti, ma il discorso rimane inevitabilmente aperto. Sul piano delle politiche attive si immaginano due strumenti di politica economica: un sistema di orientamenti pluriennali di politica economica formalmente approvati dal Consiglio europeo; un meccanismo di sostegno finanziario specifico che verrebbe messo in opera in caso di difficoltà economiche gravi o quando la convergenza economica comunque richieda uno sforzo particolare della Comunità parallelamente alle strategie nazionali di aggiustamento. Si tratta di strumenti di coordinamento delle politiche economiche che riecheggiano e in qualche modo danno ulteriore sostanza alle esperienze della cooperazione economica già sperimentate in sede internazionale, ed in particolare nel Fondo monetario internazionale. Se ne raccoglie anche il gergo quando si dice che tali strumenti opereranno «in un'ottica di condizionalità positiva». In questa stessa logica il documento raccoglie e rilancia l'idea di un rafforzamento della ((sorveglianza multilaterale». E questo il meccanismo di chiusura che dovrebbe rendere il sistema più cogente ed effettivo. Un dispositivo di sorveglianza multilaterale che copre tutti gli aspetti rilevanti delle politiche economiche è già stato adottato con la decisione 90/141 Cee. 'Esso va tuttavia meglio focalizzato sull'evoluzione delle politiche di bilancio.
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«I paesi dove la convergenza economica è in pericolo sarebbero incitati a presentare strategie a medio termine (concernenti anche il loro bilancio) destinate a ridurre gli squilibri a livelli compatibili con la loro partecipazione alle ulteriori fasi del processo di unione». Due le osservazioni da fare. La prima è che rimangono insuperate le difficoltà di «costituzionalizzare» le regole di bilancio; la seconda che il meccanismo di sorveglianza multilaterale comporta, per essere efficace, un alto grado di omogeneità istituzionale nei paesi membri. Un costituzionalismo fiscale (il termine fiscale va riferito, nel senso della lingua inglese ad entrate ed uscite dello stato) fatto di divieti è, forse, l'unico possibile. Ed è importante che i divieti indicati presuppongano comunque l'effettività di un più stringente ordinamento comunitario (di tipo para—.federale quale è connaturale ad una forte unione monetaria). Il vero rischio di tale costituzionalismo sta nel riaccreditare la centralità e la supposta quasi «onnipotenza» della politica monetaria. Il meccanismo di sorveglianza può essere, allora, mezzo di riequilibrio di una possibile canonizzazione istituzionale della logica del «club monetario»? Qui sorge il problema dell'omogeneità istituzionale cui ho fatto cenno. Dice il documento delk Commissione europea: «l'efficacia di questa sorveglianza multilaterale riposa principalmente sull'esercizio di pressioni informali fra organi a pari livello e sul grado di trasparenza raggiunto». L'affermazione dice
più di quel che sembra: essa stessa pone il problema dell'omogeneità. Problema che diviene chiaro nella sua portata quando si faccia riferimento alla ripartizione fra governi e parlamenti del «potere della borsa». Di chi è il bilancio? E' questo l'interrogativo, mai veramente teorico, che ci si pone spesso nell'analizzare le istituzioni e le politiche di bilancio dei vari paesi. Ora è chiaro che un meccanismo di sorveglianza multilaterale, non immediatamente ridotto a esercitazioni da ufficio studi, ha senso se in tutti i paesi membri il bilancio è del Governo. Ha minor senso se il bilancio è insieme del Governo e del Parlamento. In questo caso, infatti, diviene pressoché impossibile esercitare pressioni e interazioni fra organi di pari livello. Dunque, non sono di poco conto le implicazioni del passaggio efficace all'unione economica e monetaria. Ed è certamente singolare che se ne discuta poco. Aveva ragione Guido Carli, allora non ancora Ministro del Tesoro, a porsi al riguardo due domande retoriche: «Che cosa dire dell'attribuzione alla Comunità del potere di imporre vincoli ai bilanci nazionali, quando titolare di questo potere sarebbe un organo della Comunità stessa e cioè il Consiglio dei Ministri? Non sarebbe questo un espediente con il quale si trasferirebbe surrettiziamente all'Esecutivo un prerogativa che nelle democrazie parlamentari è propria del Parlamento?» Paradossalmente, l'opposizione della Signora Thatcher all'Unione economica e 121
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monetaria sembra aver funzionato come un alibi per il mancato avvio di questo dibattito istituzionale. Porre in evidenza la portata istituzionale, anchee soprattutto al livello di istituzioni dei paesi membri, di alcuni possibili e prossimi sviluppi dell'ordinamento comunitario non significa, naturalmente, porsi in posizione critica. Al contrario. Significa cogliere la serie delle inevitabili conseguenze sui piano degli ulteriori aggiustamenti istituzionali. Anche per questa strada si giunge, in realtà, alla questione cruciale del «deficit democratico>) della CEE. Certo, risolvere la questione decisiva delle regole esterne della politica di bilancio, attraverso una sorta di espropriazione dei parlamenti nazionali (certo, detentori in misura diversa del <(potere della borsa»: il più espropriato sarebbe stato forse quello italiano) e una espropriazione d'anticipo di quello europeo (ove ad esso nessun potere si pensasse di attribuire in materia di politica di bilancio) è, credo, soluzione non attribuibile al Rapporto Delors né alle elaborazioni della Commissione. Rimane che il coordinamento delle politiche di bilancio è un nodo fondamentale. Sul piano del funzionamento delle istituzioni della democrazia. La tradizionale dialettica Governo—Parlamento a livello nazionale si amplia e si complica. Ne va dunque ridisegnata l'architettura in modo da rinnovare, ma non cancellare, i tratti fondamentali della democrazia parlamentare. 122
IPOTESI ISTITUZIONAU UN SENATO DELLE REGIONI
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Affrontare compiutamente il tema del «deficit democratico» significa aprire il dossier dell'unione politica, magari rivisitando il Progetto approvato dal Parlamento europeo nel 1984. Secondo il metodo del sondaggio per problemi fin qui seguito, credo utile limitarmi a segnalare, come innanzi accennato, alcune questioni: per esempio, i punti deboli del modo con cui, da una parte, si pone il problema dell'esecutivo e, dall'altra si affronta il discorso sulla possibile Camera alta dello stesso Parlamento, nell'ipotizzare la trasformazione del Parlamento europeo in un organo compiutamente legislativo. Affrontiamo il problema dell'esecutivo. A tal fine è innanzitutto utile una digressione sugli scenari politico—istituzionali. Si può ritenere che essi si riducano a due. Il primo: l'Europa comunitaria, raggiunta la pienezza dell'Unione doganale e del Mercato unico, si limita alla costruzione dell'Unione monetaria e in via complementare incrementa l'area della cooperazione intergovernativa ma - lasciando tempo al tempo - non fa passi istituzionali significativi o decisivi verso l'unione politica. Il secondo: l'Europa approfittando del carattere stringente dell'unione monetaria, compie passi decisivi verso meccanismi di integrazione politica forte e irreversibile, si da poter parlare propriamente di unione, pur restando comunque la scontata diversità di ogni possibi-
le futuro sistema istituzionale europeo dai modelli federali storici. Entro il primo scenario l'esecutivo rimarrebbe ampiamente disarticolato, data la ripartizione attuale della funzione esecutiva fra Commissione, Consiglio dei Ministri e Consiglio europeo. Salve naturalmente la razionalizzazione degli apparati di supporto che fanno capo ai due Consigli e una maggior partecipazione del Parlamento ai processi di Iawmaking. Entro il secondo scenario, l'unico proprio per risolvere il problema del «deficit democratico», la costituzione di un esecutivo di più sicura fisionomia e di maggiore responsabilità diviene il primo obiettivo istituzionale. Diciamo, anzi, che solo un esecutivo forte e ben definito può essere responsabile di fronte ad un rafforzamento del Parlamento europeo. A riguardo dell'esecutivo si può ben partire dall'affermazione, che si sente spesso ripetere, che il Consiglio dei Ministri è il Senato in rtuce (Senato degli stati o Senato dei governi). Appare a molti ragionevole che l'organo attualmente titolare del potere deliberativo si trasformi in uno degli organi fra cui ripartire la funzione legislativa. Ha però senso parlare, in prospettiva, del Consiglio come organo meramente o prevalentemente legislativo? Non credo: e ciò sia che si parta dalla realtà attuale sia che se ne prescinda per una ricostruzione più libera del sistema istituzionale europeo. Se si parte dalla realtà attuale non sembra convincente cogliere le caratteristiche qualificanti del Consiglio dei Mini-
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stri nel suo potere deliberativo. In verità; esso sembra piuttosto detenere la titolarità delle componenti più significative ed essenziali della funzione esecutiva. Alla quale, vale ricordare, è sempre appartenuto un potere normativo e ancor più, storicamente, nella fase costitutiva degli ordinamenti. Del resto, l'art. 145 del Trattato di Roma sembra chiaro nell'attribuire al Consiglio una funzione esecutiva forte (indirizzo politico e potere di direzione del processo d'integrazione). Forte ma non esclusiva in quanto è poi la Commissione l'organo titolare sia dei poteri d'iniziativa e proposta sia di quelli dell'attuazione e/o di sorveglianza sull'attuazione di atti normativi e di politiche comunitarie. In prospettiva, l'attuale ripartizione della funzione esecutiva non perde il senso. La complessità della costruzione europea, anche se andrà assumendo caratteristiche federali, suggerisce di no. Sembra da ridimensionare il potere deliberativo del Consiglio, ad esso attribuendo il potere d'autorizzare la Commissione ad introdurre al Parlamento le proposte legislative e il potere di voto nei confronti delle leggi deliberate dal Parlamento. Inoltre, potrebbe rimanere attribuito al Consiglio un potere formativo d'urgenza con deliberazioni da sottoporre a ratifica del Parlamento. Alla Commissione spetterebbe promuovere l'iniziativa legislativa con un esclusiva del potere di proposta. Il Consiglio potrebbe essere considerato dunque, per intenderci, una ((presidenza collegiale» dell'Unione con alcune attribuzioni 123
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tipiche del sistema presidenziale: organo dunque politico per eccellenza e non camera alta. Naturalmente ciò dicendo si pone il problema dei rapporti fra il Consiglio dei Ministri e il Consiglio europeo, così come è stato istituzionalizzato dall'Atto unico. Già da tempo cioè fin dal vertice di Parigi del 1974 (quando i capi di stato e di governo decisero di vedersi almeno due volte all'anno), il problema è avvertito: da allora, infatti, il Consiglio dei Ministri ha visto ridotta, ad opera del Consiglio europeo, la sua qualità di centro decisionale della Comunità. Nella logica della «presidenza collegiale» cui ho accennato è da ritenere possibile e matura una riunificazione dei due Consigli anche attraverso una sua opportuna articolazione interna che preveda, ad esempio, un ruolo particolare del Presidente pro— tempore e la configurazione di due o tre comitati di ministri con competenza definita. In tal modo potrebbe essere evitata la logica della ripartizione di aree e competenze politico—amministrative, oggi prefigurata attraverso un Consiglio europeo sostanzialmente extra—ordinem, che viene a sovraintendere, da una parte, al sistema di comunità e, dall'altra, ad un sistema di unione intergovernativa della sicurezza e qella politica estera. Se dunque il Senato non può essere degli stati (o, più esattamente, dei Governi) c'è bisogno di un Senato e come esso dovrà essere composto? Prescindiamo completamente, a questo punto, dalla realtà attuale dell'ordinamento comunitario per una più libera 124
ricognizione delle esigenze istituzionali che nascono dai fenomeno politici e sociali europei. Come ho innanzi ricordato, c'è una questione ormai aperta attraverso l'Europa: quella, vivacemente percepita all'Est, ma ugualmente sentita in gran parte dell'Europa occidentale delle identità regionali ed etniche. Questione che la migrazione in atto verso l'Europa ricca dei paesi del Terzo Mondo verrà inevitabilmente ad accentuare. Il fenomeno porta a ritenere che vada urgentemente valorizzato in tutta l'Europa il livello di governo regionale. Di qui l'esigenza di dare adeguata rappresentanza a questo livello di governo nell'ordinamento europeo. La seconda camera del Parlamento europeo potrebbe essere, dunque, il Senato delle Regioni. In un Parlamento, al quale fosse attribuita pienamente la funzione legislativa secondo il modello di competenze e la logica di funzioni indicati nel Progetto di trattato del 1984, ben sembra ipotizzabile una seconda camera di questo tipo. Nell'esperienza costituzionale europea l'esempio sperimentato di camera delle regioni è dato dal Bundesrat in Germania. Alcuni tratti dell'esperimento tedesco potrebbero essere ripresi in sede europea: la nomina di secondo grado (non tuttavia da parte dei governi regionali ma da parte dei consigli o parlamenti regionali); l'individuazione delle leggi bicamerali per le quali cioè c'è bisogno dell'approvazione delle due camere; la determinazione degli altri poteri d'intervento o controllo nonché dei
meccanismi di composizione dei conflitti. C'è da dire che l'esigenza di una maggiore rappresentanza delle regioni è stata awertita dal Parlamento europeo nella risoluzione approvata nel luglio scorso in tema di riforma istituzionale. Si legge, infatti, nella risoluzione che «adeguata rilevanza dovrà essere riservata al ruolo delle regioni sia nel momento della formulazione delle leggi dell'Unione sia nel momento dell'esecuzione di dette leggi, attraverso l'attribuzione di poteri consultivi al Comitato delle collettività locali e regionali e nel rispetto delle strutture costituzionali di ciascuno stato». Certo, non può essere raccolto l'invito alla cautela contenuto in quest'ultimo richiamo alle realtà costituzionali, tanto diverse, deglistati membri.
Perciò occorre in ogni caso configurare un assetto transitorio della camera della regioni. Ma credo che occorrerà ugualmente fare il passaggio da un organo consultivo a un organo parlamentare pieno, sia pure nella logica di un bicameralismo non paritario. E' un passaggio importante dettato insieme dalla prudenza e dalla lungimiranza. Le considerazioni fin qui svolte sono state scritte nel 1990 in occasione del venticinquesimo anniversario della costituzione dell'istituto Affari Internazionali. Il saggio è stato pubblicato nel libro, a cura di Cesare Merlini, L'Europa degli Anni Novanta (voi. il), Franco Angeli ed. 1991. Viene qui ripreso perché rappresenta una tappa delle riflessioni che su questa rivista si vanno facendo in tema di processi politici e istituzionali in Europa.
E. Lèvinas, Totalità e infinito. Saggio suii'esterioriià, trad. it., 22 ed., Milano, 1990, p. 19. Si vedano le interessanti considerazioni diV. OSTROM sul tema Hobbes's Leviathan and the Logic of American Federalism. nel capitolo 22 del volume American Federalista: A Great Experimenc ( raccolta di saggi curata nel 1989 dat Workshop in Poi itical Theory and Poiicy Analysus, Indiana University, Bloomington). Si vedano in particolare le considerazioni conclusive del cap. 4 «The Meaning of Federalism in the Federalisr, e del cap. 5 Garcia, the Eclipse of Federalism and the Central GovemmentTrap.. Sui rapporti Governo federale e stati si veda da ultimo l'articolo, "StoppingtheStates",diW.J. MOORE, i"Jational Journai, 21 lug. 1990. Movimento Comunità, dichiarazione politica Tempi Nuovi metodi nuovi, Milano 1953.
«Goodbye to the Nation State?, editoriale, The &onomist, 23 giu. 1990. M. WILKE and H. WALLACE,Subsiadiarity: ApproacKes io Power.Sharing in the European Coinmunity, The Royal Institute of Internationa Affairs, 1990. E. DE CAPITANI, 1992. Le priorirà delle Comunità nelle materie di competenze delle Regioni italiane'; in Confronti, 1989, pp. 19 ss. li rapporto della Commissione, da cui sono tratte le citazioni che precedono, è stato pubblicato il 28 marzo 1990. Vedi per la tesi citata L T. KATSELI, «The Political Economy of European Integration: from Eurosclerosis to Eur«orporatism» Discussion Paper, n. 317, Centre for Economie Policy research (CEPR), Londra, 1989.
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Maastricht: una critica federalista di Arturo Vancheri
PIUMA DEGU ACCORDI
Una domanda corre frequentemente: sarà veramente il Consiglio europeo degli ultimi «cinque minuti» quello che si svogerà a Maastricht il 9/10 dicembre 1991? Francois Mitterand e Helmut Kohl coloro che nell'aprile del 1990 aprirono il fronte europeo all'idea della convocazione di una conferenza intergovernativa su1l'Unicne politica - ne sono convinti. Sono ancora loro, i paladini dell'asse franco—tedesco, a credere in un salto qualitativo dell'Europa comunitaria. Ed è proprio attorno alla coppia Kohl-Mitterrand che ruotano a ritmo furioso tutti i contatti bilaterali tra le varie cancellerie europee prima dell'appuntamento olandese... Dalla lettera che il presidente francese e il cancelliere tedesco indirizzarono ai propri colleghi del Consiglio europeti è passato più di un anno e mezzo. Le speranze che aveva suscitato questo documento tra tutti coloro che lo giudicavano come la premessa per intraprendere un processo finalmente incisivo per la realizzazione di una stretta integrazione tra i Dodici sono andate deluse dall'andamento, del resto prevedibile, delle conferenze intergovernative. Ricordiamo le fasi cruciali di questo lungo pro126
cesso che prevedibilmente si concluderà nella fredda cittadina olandese. Dagli inizi stentati e minimalisti del Consiglio dei Ministri degli Affari esteri di Parknasilla (con la conseguente campagna federalista contro l'Unione europea truffa) alla spinta altamente «propositiva» dei due Vertici di Roma che hanno visto, come corollariò, la fine politica di Margharet Thatcher. Dai progetti tecnicamente ineccepibili della Commissione europea in tema di Unione economica e monetaria, confortati dall'appoggio dei Governatori delle Banche centrali e del Comitato monetario, alle conclusioni ad alto «valore aggiunto» federalista delle Assise dei Parlamenti della Comunità svoltesi a Montecitorio. Dai progetti di ampio respiro europeista di un buon numero di paesi membri della CEE comportanti modifiche sostanziali ai Trattati istitutivi, ai ripensamenti intergovernativi dettati dalle rispettive preoccupazioni nazionaliste dei diplomatici di mestiere. E non è certo una novità che, nel ,quadro delle conferenze intergovernative sull'Unione economica e monetaria e sull'Unione politica, i professionisti del compromesso e della mediazione hanno preparato il terreno per un costante ed inesorabile rallentamento della spinta federalista impressa nell'aprile del 1990 da Kohl e Mitterand. Sono
bastate poche riunioni a livello di rappresentanti personali dei Ministri degli Affari esteri e dei Ministri economici per rendersi conto del repentino quanto scontato cambiamento di scenario e di mentalità. Partite in sordina e quasi ignorate dalla stampa a causa della guerra del Golfo, le due conferenze diplomatiche si sono incamminate rapidamente sui binari - ampiamente conosciuti e tristemente sperimentati - del metodo intergovernativo. Gli obiettivi politici generali fissati nel corso dei due Consigli europei di Roma sono stati vivisezionati, frammentati attraverso le «buone)> regole della diplomazia internazionale, perdendo di vista la sintesi complessiva che un simile processo politico esigeva e lasciando per contro spazio ad ottiche tipicamente nazionaliste o ancora peggio corporative. Chi ne ha fatto maggiormente le spese è stato il progetto originario della Commissione in materia di integrazione economica e monetaria che prevedeva con chiarezza e lucidità produttiva gli obiettivi finali, il metodo di lavoro ed il calendario operativo. Lo sforzo della Commissione è stato immediatamente frustrato e sabotato utilizzando pretestuosi argomenti tra i quali campeggia la tradizionale richiesta della Bundesbank di raggiungere in primo luogo la convergenza economIca prima di intraprendere qualsiasi azione in materia di politica monetaria comune. L'agenda politica fissata a Roma, durante il Consiglio europeo dell'ottobre 1990 è stata dunque rapidamente smentita dai professio-
nisti della diplomazia. Sull'Unione politica, le conclusioni raggiunte dai Capi di Stato e di Governo al termine del.Summit di Roma del dicembre 1990 lasciavano ampi spazi ai sabotaggi diplomatici, anche se alcune delegazioni nazionali (Italia, Belgio e Germania) avevano operato ampie aperture federaliste. Quanto al Parlamento europeo, il suo ruolo è stato ampiamente relegato a quello di comprimario e la formula utilizzata per garantirne il coinvolgimento - quella delle «conferenze interistituzionali preparatorie» - ha avuto il sapore amaro di una beffa poiché i governi non hanno mai mostrato di tenere conto con la dovuta attenzione degli orientamenti dell'Assemblea di Strasburgo. L'andamento frammentato e disarticola todei negoziati intergovernativi si è tradotto in un documento di sintesi preparato dalla presidenza lussemburghese, l'ormai famoso non—paper (non documento) che, influenzato ampiamente dalla Francia, ha formalizzato la confusione esistente a livello istituzionale, prevedendo una Comunità europea a più pilastri: l'Unione politica (in pratica la politica estera e quel poco che basta in tema di sicurezza), l'Unione economica e monetaria, l'attuale Comunità e la cooperazione nel campo degli affari interni. Ognuno di questi pilastri è governato da una diversa struttura istituzionale con procedure decisionali particolari a seconda del grado di comunitarizzazione. Il cappello di questa struttura policentrica è costituito dal Consiglio euro127
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peo che, secondo la più tipica delle concessioni gaulliste, costituisce il moto re del processo di integrazione. Si tratta, come si è già avuto modo di sottolineare di un gravissimo attacco al metodo comunitario e l'affossamento della struttura unica del processo di integrazione. Per indorare la pillola, il governo lussemburghese ha proposto di inserire nelle disposizioni introduttive del nuovo Trattato un riferimento alla vocazione federale della futura Unione politica. La difesa della Commissione di Bruxelles, l'istituzione comunitaria più pesantemente colpita dalla struttura istituzionale prevista dal non—paper lussemburghese (che suggerisce anche la creazione di un segretariato che di fatto spoglierebbe l'esecutivo di alcune importanti attribuzioni politiche), che si è tradotta in un controdocumento che propone un unico sistema istituzionale, non ha permesso di eliminare dal Trattato in fase di elaborazione pericolosi ritorni al passato. Per contro, il decisivo attacco al progetto originario della Commissione in materia di integrazione economica e monetaria è avvenuto, ad opera della presidenza olandese che ha rovesciato il quadro di alleanze—guida all'interno della Comunità. Il tandem franco—lussemburghese è stato infatti sostituito da quello tedesco—olandese. Ed è così che il governo olandese ha introdotto importanti modifiche al progetto di Trattato sull'UEM. Nella sostanza,. durante la seconda fase dell'UEM non verrà prevista l'istituzione della Banca centrale europea, ma la semplice creazione di un 128
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Istituto monetario europeo (già proposta dalla Gran Bretagna all'inizio del 1990), un organismo elastico e con caratteristiche non marcatamente comunitane che avrà il generico compito di creare le condizioni per l'attuazione di una politica monetaria comune. Diversamente dal progetto originario, l'inizio della terza fase dell'UEM (che prevede nella formulazione olandese la creazione della Banca centrale europea e l'istituz ione di un sistema di campi fissi) non sarà automatico, ma avverrà attraverso una decisione politica del Consiglio europeo. Inoltre, potranno essere membri effettivi dell'UEM i paesi comunitari con i conti pubblici in regola ed un tasso di inflazione contenuto. L'Olanda, tradizionalmente legata alla Germania, si è fatta essa stessa paladina della stabilità monetaria. La presidenza olandese aveva per contro presentato un nuovo testo di Trattato di Unione politica ampiamente migliorativo rispetto a quello lussemburghese soprattutto nel campo della politica estera e della difesa, della struttura del Trattato e dei poteri legislativi del Parlamento europeo. Tuttavia, il testo olandese non è stato accettato come nuova base di discussione perché giudicato, da taluni, troppo avanzato e, da altri, in particolare da Francia e Germania, troppo tiepido in materia di politica estera e di difesa. Ed è proprio a questo proposito che si è verificata l'ennesima frammentazione di posizioni e la creazione di un insolito asse comunitario: quello anglo-italiano. Quest'ultimo, sulla base di una discussa
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dichiarazione congiunta ha preso posizione per un coinvolgimento dell'Unione occidentale europea, la UEO, come pilastro europeo nella NATO. Per contro, l'asse franco-tedesco, ha decisamente indicato un modello europeo di difesa sia pure agganciato alla UEO, ma maggiormente autonomo nei confronti dell'Alleanza Atlantica. Neppure i risultati raggiunti durante il Consiglio Atlantico di Roma dell'8 novembre hanno permesso di raggiungere una posizione comune sul tema della sicurezza europea. Ed è cosi che gli ultimi appuntamenti prima del Vertice di Maastricht si sono coloriti di giallo. I documenti di compromesso e modificativi dei testi ufficiali si accumulano, i contatti bilaterali si moltiplicano, specialmente quelli che vedono protagonista John Major. Il leader britannico è infatti alla costante ricerca di un compromesso tra le esigenze dettate dalla situazione politica interna e dalla necessità di non perdere il treno europeo. Major sa che, malgrado la tradizionale ostilità di una parte degli inglesi per la Comunità, non può fare a meno dell'Europa. Ma non intende concedere nulla che possa compromettere la sovranità britannica a vantaggio di una struttura federale della Comunità europea. In quest'ottica, è ben comprensibile l'ostinazione del premier inglese nel rifiutare qualsiasi riferimento relativo alla «vocazione federale» nel nuovo Trattato e la prospettiva di una moneta unica. A tutt' oggi l'andamento della fase finale delle negoziazioni sfugge ad ogni con-
trollo. Tutto è ancora in discussione e su molti dossier mancano gli elementi necessari per raggiungere un accordo soddisfacente. Anche il Conclave dei Ministri degli esteri, l'appuntamento in cui tradizionalmente i massimi responsabili delle diplòmazie nazionali preparano le conclusioni del Consiglio europeo non ha permesso di definire un quadro chiaro della situazione.
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La vigilia di Maastrich è dunque fedele al copione di tanti altri Vertici europei. La drammatizzazione a mezzo stampa è già infatti cominciata da alcune settimane. Sulle pagine dei maggiori quotidiani europei si denunciano i rischi di un possibile fallimento del Consiglio europeo su cui pesa soprattutto il veto britannico. Tutto ciò fa parte di un disegno ben preciso che è quello di raggiungere un risultato al più basso livello possibile che possa comunque essere giustificato davanti all'opinione pubblica europea come un autentico successo. Si tratta di un copione già brillantemente sperimentato nel corso della storia comunitaria. Formalmente esiste un accordo complessivo sugli obiettivi di fondo con la sola eccezione britannica, ma sui singoli settori gli schieramenti sono svariati e «trasversali». Germania, Belgio e Italia chiedono più poteri al Parlamento europeo. Inghilterra ed Italia appoggiano una difesa europea complementare alla NATO, mentre Francia e Germania vorrebbero che fosse indipendente; l'Olanda è filo-atlantica, ma sostiene la Germa129
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nia nel suo rigore monetario. La Spagna è favorevole ad un salto federale della Comunità, ma si oppone a nuove competenze in materia sociale pur chiedendo maggiori garanzie nel campo della coesione economica e sociale. Su questo punto, il fronte dei paesi meno ricchi della CEE - Portogallo, Spagna, Grecia ed Irlanda - ha posto una sorta di ultimatum: nessun accordo a Maastricht senza azioni concrete in favore dell'economia di quei paesi. I problemi che restano aperti prima del Consiglio sono numerosi. In sostanza essi riguardano: - la vocazione federale; la sicurezza comune; - le politiche comuni; - le nuove competenze del Trattato; - il ruolo del PE. L'Inghilterra è contraria all'inserimento dell'aggettivo "federale" nel nuovo Trattato. Partita come una discussione puramente semantica, la querelle è divenuta di importanza sostanziale poiché potrà influenzare in senso federale il futuro sviluppo della Comunità. Per la difesa, la linea che dovrebbe passare è piuttosto quella anglo-italiana. La UEO sarà dunque il ponte della Comunità europea e la NATO. Le decisioni politiche dovrebbero essere assunte per consenso unanime, mentre le azioni concrete dovrebbero essere deliberate a maggioranza qualiflcata. L'Inghilterra, la Danimarca ed il Portogallo sono tuttavia contrarie a qualsiasi decisione a maggioranza. Quanto al miglioramento delle politiche 130
già inscritte nei Trattati, l'asse angio-spa-. gnolo è contrario ad aumenti sostanziali delle competenze comunitarie in materia sociale, mentre potrebbero essere aumentate quelle relative alla politica di ricerca e della protezione ambientale. Le nuove competenze del Trattato riguarderanno l'istruzione, la sanità e la cultura, ma le decisioni dovranno essere prese all'unanimità. Un importante settore di nuova competenza comunitaria è costituito dalle grandi reti transeuropee. Quanto agli altri settori quali l'industria, il turismo, la protezione ciyile e l'energia esistono opinioni diversificate tra i Dodici e, a tutt'oggi, non è ancora chiaro se verranno inserite nel Trattato oppure se saranno oggetto di un protocollo allegato. Un capitolo a parte è costituito dagli affari interni e giudiziari: immigrazione, politiche di visti, diritto di asilo ed attività di polizia. Questi settori non saranno «comunitarizzati» come chiede fermamente il governo di Bonn, ma saranno sottoposti ad una maggiore cooperazione intergovernativa. Quanto al Parlamento europeo, esso viene pesantemente penalizzato nella distribuzione dei poteri tra i diversi organi comunitari. Il potere di codecisione che dovrebbe essergli attribuito è talmente complicato che finisce per non apportare nessuna modifica sostanziale nel suo impatto sul processo decisionale. Per giunta questo potere di codecisione - che ribadisce il carattere puramente negativo del coinvolgimento parlamentare - si applicherà ad un numero molto
limitato di competenze comunitarie. Sul versante dell'Unione economica e monetaria, i risultati raggiunti fino ad oggi dovrebbero essere confermati dal Summit. Il punto più controverso rimane la clausola derogatoria concessa alla Gran Bretagna sulla sua partecipazione alla terza fase dell'UEM. Gli altri Stati membri non sono d'accordo sulla previsione generalizzata di questa clausola che permetterebbe al governo britannico di decidere nel 1996 l'effettiva partecipazione del Regno Unito aIl'Uniione monetaria. E stato per contro raggiunto un accordo di massima sulla composizione dell'Istituto monetario europeo e sui suoi compiti istituzionali che non faranno che riprendere le attuali competenze del Comitato dei governatori delle Banche centrali. Tutto ciò detto, spiega perché il Consiglio europeo di Maastricht è stato definito come il Vertice degli ultimi cinque minuti. La ricerca di un accordo complessivo sembra possibile solamente a costo di snervanti discussioni ed attraverso il ruolo chiave di mediazione che Kohl sta assumento in questi giorni. Sensibile alla pressione elettorale a cui è sottoposto Major in Inghilterra, il cancelliere tedesco prepara un possibile scenario di compromesso nel caso in cui a Maastricht i risultati dovrebbero rilevarsi insufficienti. La manovra tattica a cui Kohl pensa è quella di definire una dichiarazione politica nella quale gli Stati membri sottoscrivano la loro volontà di realizzare una Unione politica a vocazione federale e di procedere entro il
1996 ad una revisione in senso federale di ciò che è stato deciso dalle due conferenze intergovernative, in particolare, nel campo della politica di sicurezza, delle nuove competenze e dei poteri legislativi del Parlamento europeo. Il presidente della Commissione Jacques Delors, per contro, è particolarmente preoccupato della struttura del Trattato che continua ad essere concepita a compartimenti stagni. In una Dichiarazione politica diffusa in questi giorni, l'esecutivo di Bruxelles esprime tutta la sua inquietudine sull'attuale concetto di Unione che a questo stadio si svilupperà a fianco dell'attuale Comunità piuttosto che sovrapporsi ad essa. Delors a questo riguardo parla di un Trattato organizzato in maniera schizofrenica. Secondo il presidente della Commissione, l'Unione politica che sta nascendo è priva di personalità giuridica nei confronti del diritto internazionale. Dal canto suo, il Parlamento europeo (ed il suo presidente Enrique Baron) ha finalmente assunto una posizione particolarmente dura. Nel corsò della sessione di novembre ha infatti approvato a larga maggioranza una risoluzione nella quale dichiara che, se i testi che verranno sottoscritti a Maastricht sono quelli attuali, sarà costretto a votare contro i risultati del Summit. Il Parlamento europeo ha inoltre bocciato categoricamente la proposta proveniente dalla Francia di istituzionalizzare le Assise tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali con lo scopo di partecipare attivamente al processo decisionale comuni-• 131
tario. Una simile conferenza, fornirebbe una risposta sbagliata ai problemi del deficit democratico ed indebolirebbe ulteriormente la legittimità democratica del Parlamento europeo. La posizione del Parlamento europeo è finalmente chiara. L'Assemblea di Strasburgo chiede modifiche sostanziali per quanto riguarda l'unicità del Trattato, la codecisione legislativa, l'integrazione della politica estera e di sicurezza nelle azioni comuni, il voto a maggioranza sulle questioni sociali. Il Parlamento chiede che queste riforme siano adottate anche in maniera graduale a condizione, però, che questo gradualismo sia previsto attraverso procedure automatiche e vincolanti entro il periodo 1992/1996. Su due punti essenziali la piena entrata in vigore delle modifiche deve essere anticipata: la procedura di codecisione legislativa e la coincidenza del mandato della Commissione e del Parlamento europeo che devono entrare in vigore al più tardi entro il gennaio 1995, sei mesi dopo l'elezione del nuovo Parlamento europeo per garantire ai' cittadini europei l'effettiva legittimità democratica del sistema istituzionale europeo. Al di sotto di questo minimo, il Parlamento europeo non può accettare altre soluzioni. Se ciò accadrà il Parlamento voterà contro e, in tal caso, i parlamenti di Belgio, Germania ed Italia hanno già dichiarato che non ratificheranno le conclusioni di Vertice europeo di Maastricht. Politicamente si tratterebbe di una posizione importante che potrebbe aprire una fase del tutto nuova nel caso in cui l'iniziativa 132
di «riserva» prospettata da Kohl dovrebbe mettersi in moto e venga sottoscritta una dichiarazione politica solamente tra quei paesi che si dichiareranno pronti a realizzare una stretta Unione politica. Contemporaneamente, il Parlamento europeo, dovrebbe mettersi in movimento al fine di dare attuazione al paragrafo 12 della dichiarazione delle prime Assise comunitarie relative alla necessità di definire una Costituzione dell'Unione europea su base federale elaborata dal Parlamento europeo e dalle assemblee rappresentative. Non si tratta di un lavoro improvvisato dal momento che l'Assemblea europea ha già elaborato da alcuni mesi (dicembre 1990) le basi costituzionali della futura Unione. E dunque dal rapporto Colombo, che prenderà avvio la nuova battaglia per la realizzazione di una vera Federazione europea. Di fronte all'ennesimo fallimento del metodo intergovernativo che 'si concretizzerà negli ultimi «cinque minuti», è il metodo democratico e parlamentare che dovrà finalmente prevalere soprattutto di fronte alle nuove sfide internazionali ed interne che l'Europa dei Dodici è chiamata a fronteggiare prima delle fine del secolo.
Dono
GU ACCORDI
A Maastricht si è consumato in due giorni e due notti di difficili e aspre discussioni il lungo cammino che ha portato alla conclusione delle due conferenze intergovernative sulle unioni
economica e monetaria e politica. Dare un giudizio a caldo sui risultati di un Consiglio europeo che aveva assunto come da copione i toni drammatici del vertice da «ultima spiaggia» è estremamente difficile, soprattutto perché solo dopo una riflessione attenta ed approfondita dei testi potrà essere dipanato il groviglio delle modifiche apportate ai Trattati istitutivi della Comunità europea. In prima approssimazione si può avanzare una prima sommaria conclusione: i risultati delle due conferenze intergovernative costituiscono probabilmente il massimò che poteva essere acquisito attraverso il metodo di lavoro che è stato scelto e che è quello fin troppo conosciuto delle conferenze diplomatiche. Una volta di più si hala conferma che il metodo intergovernativo, perdendosi nei rigagnoli delle richieste corporative e nazionalistiche, fa perdere di vista quel disegno politico di insieme che Delors ama definire «la ricerca degli interessi essenziali comuni». Questi interessi essenziali non sono stati tenuti minimamente in considerazione dai ministri nazionali e dai propri rappresentanti personali ed è a causa di questo che si può affermare con certezza che per un'ennesima occasione la Comunità europea non è riuscita a mettersi nelle condizioni di assecondare i ritmi che la storia le imponeva. Il Continente europeo nel suo complesso - e non solo la Comunità europea aveva bisogno di risultati ben più incisivi ed importanti di quelli scaturiti dal Vertice di Maastricht: un metodo auten-
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ticamente democratico e dunque maggiormente consapevole del ruolo politico del Parlamento europeo avrebbe certamente permesso di raggiungere ben più importanti progressi sulla via della costruzione di una vera Unione europea. Non bisogna dunque meravigliarsi nell'apprezzare negativamente i risultati conseguiti in materia di Unione politica, dove la tattica britannica del divide ed impera ha avuto più successo di quanto si poteva pessimisticamente attendere. Il fronte degli undici si è spaccato e piuttosto che lasciare a terra gli inglesi ha preferito indebolire il carattere comunitario dei testi da ultimo approvati. Si è finito dunque per dare completa soddisfazione agli inglesi senza pretendere in cambio alcuna contropartita. E i risultati positivi raggiunti in materia di EUM non possono essere valutati come un elemento di «consolazione», poiché una effettiva evoluzione positiva dell'integrazione economica e monetaria tra gli undici (dei dodici se l'inghilterra lo vorrà) crea già da oggi delle pesanti contraddizioni in mancanza di un contrappeso politico fortemente federalista. Semmai I'UEM diventa un probabile elemento di squilibrio senza la previsione di strutture e di meccanismi autenticamente democratici. Non si tratta - è bene precisarlo - del solito pessimismo di coloro che il nostro Ministro degli Esteri definirebbe «intellettuali frustrati>', ma di una visione attenta e realista di ciò che ci offre oggi il «convento comunitario>'. Senza un autentico governo dell'economia, senza regole del gioco chiare e 133
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democratiche, il rischio tangibile è quello di abbandonarsi a quella nuova e pericolosa versione di realpolitik europea che la Gran Bretagna chiama oggi «un nuovo modello di cooperazione tra Stati». Paradossalmente, abbiamo preferito cominciare dalle conclusioni, per attirare l'attenzione dei lettori di «Comuni d'Europa» sui risultati complessivamente negativi delle due conferenze iiitergovernative. Questi ultimi confermano un teorema tristemente conosciuto nella storia comunitaria e che lega insieme la sovranazionalità «normàtiva» e quella «decisionale». Maastricht dimostra infatti che ogni qualvolta vengono allargate le competenze normative della Comunità europea parallelamente avviene una diluizione del «metodo comunitario» a tutto vantaggio del metodo intergovernativo. In pratica si aumentano i poteri normativi, ma diminuiscono o almeno non aumentano in egual misura i poteri decisionali delle istituzioni che dovrebbero incarnare gli interessi comuni europei. Nella nostra analisi sui risultati delle due conferenze intergovernative vogliamo partire da quello che comunque rappresenta l'elemento positivo del Vertice di Maastricht e cioè la decisione di realizzare le due successive tappe dell'U nione economica e monetaria. Sulla base di una proposta lanciata dal governo italiano ed immediatamente sostenuta da Francia e Germania, la definitiva consacrazione dell'UEM non dovrà passare attraverso le forche caudine di un voto all'unanimità come gli ultimi pas134
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saggi della conferenza diplomatica lasciavano presagire. E stato infatti previsto che, alla fine del 1996, il Consiglio europeo si riunirà per decidere a maggioranza qualificata (sulla base di un rapporto stabilito dalla Commissione e dall'Istituto monetario europeo) di passare alla fase finale dell'UEM in anticipo rispetto alla data del 1999 se almeno sette Stati membri saranno in condizione di aderirvi. I paesi europei dovranno tenere l'inflazione ad una distanza di almeno l'1,5% sui paesi più virtuosi, il debito pubblico complessivo entro il 60% deI PIL ed il fabbisogno annuale entro il 3% del l'IL. I tassi di interessi dovranno essere armonizzati ad un livello sensibilmente più basso di quello attuale. Se l'appuntamento del 1997 non sarà rispettato, i paesi comunitari che risponderanno ai criteri economici stabiliti (in un protocollo allegato al Trattato) potranto automaticamente far parte dell'UEM senza altri passaggi formali a partire dal 1999. Rispunta come è facile intuire, il concetto di Europa a due velocità, poiché quei paesi che non saranno in regola con i criteri economici sopra definiti non potranno partecipare alla terza fase dell'UEM. Per la Gran Bretagna, il discorso è diverso poiché godrà dell'oramai famosa clausola «optin'g out» che le consentirà di partecipare alla terza fase solamente se il suo Parlamento deciderà in tal senso attraverso un voto esplicito. La moneta unica (e la conseguente istituzione di un sistema a campi fissi) e la creazione di una banca europea dovreb-
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bero diventare prima della fine del secolo una realtà ed un possibile elemento federatore dell'Europa. Utilizziamo il condizionale per due ragioni di fondo: la prima è che, malgrado sia prevista una procedura automatica, potrebbe pur sempre verifica verificarsi un aggravamento della congiuntura economica europea tale da diluire i meccanismi in principio vincolanti e mettere a rischio l'inizio della terza e decisiva fase; la seconda è che, per essere un autentico elemento federatore, I'UEM deve rispondere a principi e metodi autenticamente democratici. Ora, le disposizioni istituzionali prevedono un notevole rafforzamento del ruolo del Consiglio europeo e del Consiglio dei Ministri: quest'ultimo tuttavia non è compensato da un ruolo più attivo del Parlamento europeo, che dovrebbe essere invece considerato come il naturale contrappeso politico alla Banca centrale indipendente che nascerà prossimamente. D'altro canto, i meccanismi riguardanti la gestione della politica economica comunque appaiono a prima vista insufficienti sia per realizzare un efficace coordinamento delle politiche economiche nazionali sia per garantire una efficace attuazione da parte degli Stati membri delle scelte di politica economica a livello europeo. Il rischio è dunque quello da una parte di lasciare ai paesi più forti la conduzione della politica economica di fronte ai paesi economicamente più deboli, e dall'altra, di non realizzare effettivamente un coordinamento delle politiche macroeconomiche. Questi dubbi
aumentano se si esaminano le magre disposizioni previste in materia di politica industriale che prevedono uno scarno coordinamento delle misure attuate in questo campo a livello nazionale e con il principale obiettivo di evitare qualsiasi azione nazionale che possa restringere il regime comunitario di libera concorrenza. Pesa dunque sull'Unione economica e monetaria l'incognita di meccanismi decisionali troppo fragili come «valore aggiunto comunitario» e troppo poco democratici (come impulso a controllo parlamentare). Questa analisi acquista ancora più valore alla luce dei risultati raggiunti in materia di unione politica. Abbandonato ogni riferimento alla vocazione federale (cedendo alla Gran Bretagna senza ricevere nulla in cambio: basti pensare alle vicende dell'UEM ed alle disposizioni relative alla politica sociale e del lavoro), la nascente Unione esclude per il momento qualsiasi prospettiva di carattere federale o prefederale, con le più pesanti incognite relative alla struttura del nuovo Trattato, che vede una pericolosa confusione tra elementi «comunitari» ed elementi «intergovernativi». In tal senso, la prima considerazione da fare è che la nuova Unione non sostituisce le vecchie Comunità, ma si giustappone ad esse nella misura in cui i suoi obiettivi coincidono ed ampliano - in modo peraltro confuso ed approssimativo - gli obiettivi del Trattato CEE, precisando che tali obiettivi verranno realizzati da un quadro istituzionale unico all'interno, del quale pe-
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raltro il Consiglio europeo assume un ruolo centrale che non può non avere influenza nell'evoluzione dell'intero sistema comunitario. Contrariamente all'Atto unico europeo, che si limita a formalizzare giuridicamente l'esistenza del Consiglio europeo, gli accordi di Maastricht ne precisano dettagliatamente i compiti istituzionali sia nel campo dell'Unione economica e monetaria che in quello della politica estera e della difesa, rafforzandone in maniera decisiva le prerogative. La seconda considerazione, che discende direttamente dalla prima, è che l'unione oltre a ricomprendere le attuali Comunità prevede l'acquisizione di due nuovi pilastri costituiti dalla politica estera e di difesa (la PEsc) e la cooperazione negli affari interni e giudiziari. Da questo discende che l'Unione, a differenza della CEE, non ha personalità giuridica propria e che, come la Gran Bretagna desiderava, il metodo comunitario entra in pericolosa concorrenza con il metodo della cooperazione. La struttura prescelta è dunque quella a più pilastsri, ma il modo con cui viene attuata crea pericolose incognite per quanto riguarda l'attuazione delle azioni comuni (attraverso il metodo comunitario) e la cooperazione (il metodo intergovernativo). Anche la previsione di alcune «passerelle)> tra le due forme di intervento crea notevole inquietudine, dal momento che è ben possibile un ritorno a forme di cooperazione intergovernative rispetto alle forme più avanzate di azione comune. Pertanto, il rischio 136
di una effettiva diluizione dell'acquis comunitario, più volte paventato dalla Commissione esecutiva, esiste davvero se si pensa alla disarticolazione delle strutture decisionali e dell'incerta distinzione tra cooperazione e politica comune. Sottolineare molto questo punto, è bene precisare, non è un puro esercizio accademico, poiché è proprio su di esso, anche alla luce del principio di sussidiarietà inserito nel Trattato, che si giocherà la futura evoluzione dell'Unione europea. La distinzione tra azione comune e cooperazione infatti si collega rispettivamente ai concetti di competenze esclusive e competenze concorrenti. Quest'ultime, che devono essere analizzate attraverso l'applicazione del principio di sussidiarietà, si esercitano attraverso l'azione della Comunità in quanto tale e dei singoli Stati membri. Occorreva dunque determinare i rispettivi campi di competenza tra Comunità e Stati membri, chiarendo innanzitutto quali dovessero essere attuati attraverso l'azione comune e quali attraverso la cooperazione. Per contro, il Trattato definito a Maastricht non opera questa scelta ed opta per un'ulteriore formula contradditoria, che utilizza un approccio rigido attraverso cui elenca le competenze attribuite alla CEE (il nuovo articolo 3), mantenendo in vita l'articolo 235 che prevede le cosiddette competenze implicite della Comunità da realizzare attraverso un voto unanime. Come si vede, il pasticcio è completo poiché, al di là di competenze esplicitamente definite, esiste una zona grigia di
difficile decifrazione e la cui ambiguità lascia poco spazio ad una dinamica evolutiva del processo di integrazione. E infatti su questa zona grigia che dovrebbe essere applicato il principio di sussidiarietà, secondo cui la Comunità non agisce che per condurre a termine i compiti che possono essere intrapresi in comune in modo più efficace che gli Stati membri operando separatamente, in particolare quelli di cui la realizzazione esige l'azione della Comunità perché le loro dimensioni od i loro effetti sorpassano le frontiere nazionali. Senonché il Trattato di Maastricht ha aggiunto una seconda condizione negativa secondo cui «l'azione della Comunità non eccede quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato». In tal modo come traspare chiaramente si blocca ogni possibile evoluzione della dinamica comunitaria, impedendo in particolare l'attuazione di politiche realmente comuni. Ciò appare evidente alla luce dell'analisi delle «nuove competenze» comunitarie. Queste ultime sono: l'industria, le grandi reti transeuropee, la salute, l'educazione, la cultura, la protezione dei consumatori. In questi settori, le competenze restano fondamentalmente nelle mani degli Stati membri, mentre alla Comunità spetta il compito di sviluppare «azioni di incoraggiamento». Non si tratta pertanto di vere e proprie politiche comuni: per molte di esse infatti non è prevista una legislazidne comunitaria cogente essendo stata scelta la strada delle semplici «raccomandazioni, a detri-
mento di misure effettivamente cogenti per gli Stati membri. Nel settore industriale, così come per vecchie competenze quali la ricerca, lo sviluppo e la protezione ambientale, il principio del voto all'unanimità (del resto previsto come base giuridica per le deliberazioni dell'articolo 235) in seno al Consiglio rischia di far fare modestissimi passi in avanti all'efficacia di un processo decisionale sottoposto ai vincoli di un consenso unanime. Né vale poi ad addolcire questo giudizio la constatazione che, salvo per l'industria (dove l'Assemblea di Strasburgo viene soltanto consultata), il Parlamento europeo dispone di quel palliativo denominato ipocritamente «potere di codecisione». Non si capisce bene, infatti, come il Parlamento europeo possa effettivamente decidere con il Consiglio se quest'ultimo, la maggior parte delle volte, è chiamato a deliberare con voto unanime. Tutta questa confusione, questo pasticcio istituzionale, avrà come conseguenza una difficilissima quanto impossibile gestione dell'azione comunitaria, considerando per esempio che in alcuni casi il Parlamento europeo sarà coinvolto non già con la sola procedura di codecisione (una sorta di terza lettura delle proposte di atti legislativi), ma anche con la vecchia procedura di cooperazione. Il minimo che ci si possa attendere da questa situazione è un super lavoro della Corte di Giustizia che sarà probabilmente chiamata a sbrogliare una matassa intricatissima. D'altro canto, la Corte di Giustizia avrà certamente qualcosa da dire nella gestio-
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ne della politica sociale che si sta delineando dopo Maastricht. Pur di andare avanti senza la Gran Bretagna, fleramente ostile a qualsiasi forma di legislazione comunitaria in campo sociale, i partners comunitari hanno escogitato la formula di un protocollo aggiuntivo aI Trattato attraverso cui potranno realizzare un embrione di politica comune. Su alcune materie, tra cui il miglioramento delle condizioni di lavoro, la sicurezza—salute dei lavoratori, l'uguaglianza uomo—donna e l'integrazione delle persone meno favorite nel mercato del lavoro, le decisioni del Consiglio verranno prese a maggioranza qualificata. La Gran Bretagna potrà non adottare queste direttive (e potrà egualmente partecipare al voto?) rimanendo isolata rispetto agli altri paesi comunitari e ponendo le premesse per un dumping sociale legalizzato, che si tradurrebbe in una gravissima forma di distorsione di concorrenza all'interno della Comunità. Quanto alla coesione economica e sociale, che pareva costituire uno spinoso problema da risolvere a causa dell'intransigenza del fronte meridionale da cui provenivano pressanti richieste per maggiori finanziamenti per le proprie regioni in difficoltà, il Consiglio europo ha rapidamente raggiunto un accordo senza apportare nessun miglioramento significativo alle disposizioni già esistenti. L'unico elemento di novità riguarda la possibilità di poter raggruppare gli attuali fondi strutturali, mentre per quanto riguarda la dotazione finanziaria tutto è rinviato al negoziato sul secondo 138
"pacchetto" Delors, atraverso cui gli Stati membri dovranno decidere le prospettive finanziarie per il periodo 1993/1 997. A tutt'oggi non sono stati apportati quei miglioramenti economici ed istituzionali che permettono di agire sulle cause e non solamente sugli effetti degli squilibri economici e sociali tra le diverse aree territoriali della Comunità. Ci domandiamo, quali effetti avrà questa non decisione sulla famosa convergenza delle economie degli Stati membri? Fin qui si è parlato delle modifiche apportate al funzionamento della Comunità europea. Ma come si è precedenternente ricordato, l'Unione si compone di altri due pilastri costituiti dalla politica estera e di difesa e dalla cooperazione nel campo degli affari interni e giudiziari. Partendo da quest'ultima, l'accordo di Maastricht aggiunge un titolo dedicato a questa forma di cooperazione intergovernativa legandolo inoltre al nuovo articolo 100C, secondo cui il Consiglio dei Ministri determina all'unanimità i paesi terzi i cui cittadini devono essere muniti di visto al momento dell'attraversamento delle frontiere esterne dell'Unione. E' inoltre previsto che, allorquando in un paese terzo sopravviene una situazione di urgenza che potrebbe provocare un afflusso improvviso di persone all'interno dell'Unione, il Consiglio dei Ministri può, a maggioranza qualificata e per un periodo di al massimo sei mesi, rendere obbligatorio il visto per i cittadini del paese in questione. La proroga di tale obbligo può essere decisa solamente all'unanimità.
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Le disposizioni riguardanti la cooperazione negli affari interni e giudiziari hanno ad oggetto non solamente la politica dei visti e dell'immigrazione, ma anche il diritto di asilo, la lotta alla droga, alle frodi nonché la cooperazione doganale e di polizia. Tuttavia, come si è già ricordato, la struttura decisionale è di tipo intergovernativo classico, in virtù del fatto che in questa materia possono essere stabilite delle convenzioni internazionali utilizzando l'articolo 220 del Trattato che per la sua applicazione richiede una decisione favorevole dei 2/3 dei membri del Consiglio dei Ministri. Questa forma di cooperazione ha evidenti effetti per quanto riguarda la libera circolazione delle persone all'interno della Comunità: la sua previsione si è infatti resa necessaria per evitare che la mobilità dei cittadini comunitari potesse aprire le porte a forti migrazioni provenienti dai paesi terzi. Il risultato di tutto questo è che, anche alla luce degli ancora scarsi risultati conseguiti dall'Atto unico europeo in tema di libera circolazione delle persone (materia anch'essa sottoposta al voto unanime del Consiglio), possa verificarsi una paralisi nel1 abbattimento delle frontiere fisiche intracomunitarie, che si tradurrebbe in una grave limitazione dei diritti dei cittadini europei. Tutto questo è del resto in stridente contrasto con un altro capitolo su cui si è realizzato un accordo a Maastricht, la cittadinanza europea. Secondo il nuovo Trattato è cittadino dell'Unione colui che possiede la cittadinanza di uno Stato membro. La conse-
guenza di questa scelta è che qualunque ampliamento o restrizione da parte di uno Stato membro delle condizioni di accesso alla propria nazionalità avrà un'incidenza diretta sulla cittadinanza europea. La Commissione, nel suo progetto originario, avrebbe voluto rafforzare l'influenza della creazione della cittadinanza europea sulle legislazioni degli Stati membri, prescrivendo l'adozione di una dichiarazione unilaterale di ciascuno Stato sulla nozione di nazionalità, ma tale esigenza è stata respinta dalla Conferenza, che ha inteso così salvaguardare la sovranità di ogni Stato membro nel suo potere di legiferare in materia di cittadinanza. Il nuovo Trattato determina poi il diritto di circolare e di soggiornare sul territorio degli Stati membri, ma questa disposizione si scontra con i limiti precedentemente ricordati in tema di eliminazione dei controlli alle frontiere, cui si aggiunge l'ambiguità più volte ricordata tra azione comune (libera circolazione delle persone) e cooperazione (politica di immigrazione, visti, diritto di asilo). Il Trattato di Maastricht introduce inoltre cinque nuovi diritti per i cittadini dell'Unione: si tratta dell'elettorato attivo e passivo nelle elezioni comunali; l'elettorato attivo e passivo alle elezioni europee; la protezione dei paesi terzi da parte di tutti gli Stati membri; il diritto di petizione al PE; l'istituzione del mediatore europeo. Senza entrare nel dettaglio di questi diritti che non rappresentano altro che le istanze già avanzate dal Rapporto Adonnino nel 1985, la 139
domanda che ci si pone è la seguente: quale significato ha la cittadinanza europea se correlativamente non si è reso più democratico il sistema giuridico ed istituzionale comunitario? Questo interrogativo ci porta ad esaminare gli scarsissimi risultati conseguiti in materia istituzionale. Detto già del ruolo centrale che assumerà il Consiglio europeo nella dinamica istituzionale e del rafforzamento dei poteri legislativi del Consiglio dei Ministri (unione economica e monetaria, politica estera e cooperazione affari interni e giudiziari), non si può che constatare tristemente il ruolo marginale che il Parlamento europeo continuerà a giocare nei processi decisionali. La tanto sventagliata «procedura di codecisione» (che si applicherà sulle decisioni riguardanti, la libera circolazione dei lavoratori, il diritto di stabilimento, il mercato interno, l'educazione, la ricerca, l'ambiente, le reti transeuropee, la cultura e la protezione dei consumatori) non è altro che una riedizione della procedura di cooperazione affiancata da un comitato di conciliazione con il Consiglio, che in ultima analisi permetterà all'Assemblea di Strasburgo di esercitare un semplice diritto di veto alla fine di tre tribolatissimi mesi. E' questo il potere legislativo che da tanto domandava il Parlamento europeo? Il risultato è solamente un groviglio di procedure (la consultazione, la cooperazione, il parere conforme, il bilancio, la concertazione) che nulla apportano in termini di valore aggiunto democratico al processo decisionale comunitario. La democrazia nel140
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la nuova Unione rimane dunque una semplice scatola vuota. In tema di legittimità democratica e di efficacia delle istituzioni, se prima di Maastricht esprimevamo dei ragionevoli dubbi, oggi abbiamo fondate ragioni per giudicare negativamente le modifiche apportate dalle conferenze intergovernative. Né possiamo essere più benevoli quanto ai poteri di esecuzione della Com'missione, che rimangono imprigionati nelle regole riguardanti i comitati di rappresentanti nazionali che dovrebbero solamente assisterla in questa funzione. Né il fatto che l'esecutivo comunitario durerà in carica quanto il Parlamento europeo e che quest'ultimo potrà esprimere il suo consenso (sotto forma di consultazione), nella nomina della Commissione stessa, ci rende meno severi nel giudizio complessivo. Lo stesso discorso vale per le modifiche apportate al funzionamento delle altre istituzioni ed organi della Comunità, quali la Corte dei Conti, la Banca europea per gli investimenti ed il Comitato economico e sociale. D'altro canto Maastricht non ha sfruttato l'occasione per istituire una rappresentanza delle Regioni che sia in grado di permettere una maggiore presa di considerazione degli interessi regionali. Le disposizioni previste dal Trattato di Maastricht consentono infatti di adire al Comitato delle Regioni - che è rappresentato dagli eletti regionali - solamente in un limitato numero di casi ed i poteri ad esso conferiti sono di natura meramente consultiva come quelli del Comitato economico e socia-
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le. In conclusione, le modifiche apportate in materia istituzionale sembrano confermare la rottura con il metodo comunitario e la crescente egemonia dell'approccio intergovernativo all'interno di tutti i pilastri sui quali poggia la struttura dell'Unione. Un ultimo esempio di questa tendenza, quello probabilmente più significativo, è costituito dalla politica estera e di sicurezza. Le conclusioni di Maastricht prevedono che gli obiettivi di queste politiche vengano realizzati attraverso una «cooperazione sistematica». L'elaborazione, l'adozione e l'attuazione delle azioni comuni è sottoposta a pesanti procedure di decisione: in una prima fase infatti il Consiglio europeo decide all'unanimità la lista dei settori che potranno essere sottoposti ad azione comune. In un secondo tempo, il Consiglio dei Ministri decide, sempre all'unanimità, che una questione sarà oggetto di un'azione comune fissandone la portata, gli obiettivi ed i mezzi di azione. In una terza fase infine, il Consiglio decide sempre con voto unanime quali azioni potranno essere attuate a maggioranza qualifìcata "rafforzata". Da questa sommaria descrizione si intuisce facilmente perché il presidente della Commissione Jacques Delors ha definito questa procedura «schizofrenica>. Una possibile azione comune in materia di politica estera e di sicurezza è infatti sottoposta ad una tripla decisione all'unanimità prima di poter essere attuata effettivamente. Ne deriva l'affermazione di una nuova forma di Santa Alleanza
istituzionalizzata, che certamente non sarà in grado di far giocare all'Europa quel ruolo che le compete nell'ambito delle relazioni politiche internazionali. In quest'ambito del resto il ruolo del Parlamento è praticamente ignorato essendo prevista la sua semplice consultazione. Anche nell'ambito della politica di difesa, che pure figura esplicitamente nei testi approvati a Maastricht, i risultati raggiunti non possono dirsi positivi poiché, nel tentativo di sposare i due approcci che si contrapponevano - quello angio— italiano (più gradualista) e quello franco—tedesco—spagnolo (più diretto ed incisivo) - da Maastricht è uscita una formula di compromesso nella quale si afferma «che la PEsc include i'insieme delle questioni relative alla sicurezza dell'Unione, ivi compresa la formulazione a termine di una politica di difesa comune che potrebbe condurre a termine ad una difesa comune». Quanto al ruolo della UEO, essa non farà parte integrante dell'Unione come chiedevano Francia e Germania, ma dovrà elaborare ed attuare le decisioni e le azioni dell'UE che hanno implicazioni nel settore della difesa. Una nuova conferenza prevista pe il 1996 prevede che le decisioni interlocutorie in materia di difesa potranno essere eventualmente riviste inparticolare per quanto riguarda il ruolo dell'UEo. Il Trattato precisa infine, ma ciò è quasi inutile ricordarlo, che la procedura di un eventuale voto a maggioranza non si applica al settore della difesa. Siamo giunti al termine di questa tor141
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mentata analisi dei risultati delle due conferenze intergovernative, analisi che definiamo tormentata in ragione delle soluziòni complicate, anti—democratiche e anacronistiche scelte dai governi nazionali. Lasciamo ai nostri lettori giudicare serenamente sulla base di quanto detto fino ad ora. Avvertendoli però che la battaglia per la Federazione europea non si interrompe dopo il Consiglio di Maastricht e non potrebbe essere diversamente in virtù delle lampanti contraddizioni che abbiamo cercato di mettere in luce in questo articolo. La battaglia federalista continua
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e continua là dove i governi l'hanno interrotta. Continua nella ricerca di un'Europa democratica, di un Europa consapevole del suo molo di fronte ai propri cittadini e di fronte al mondo intero. La battaglia federalista continua affinché possa nascere dalle contraddizioni di Maastricht un processo costituente e democratico che conduca l'Europa di oggi a trasformarsi in un'autentica Federazione europea. I governanti europei sono avvertiti. * Da Comuni d'Europa, per gentile concessione.
Una grande associazione europea di Poteri locali e regionali di Umberto Serafini
In un giorno di fine inverno deI 1871 John Robert Seeley - uno dei massimi storici inglesi, anzi europei del secolo scorso - tenne una conferenza ai membri della Peace Society; titolo: "Gli Stati Uniti d'Europa". Il testo è uno dei classici del federalismo. nel congresso pacifista di Ginevra del 1867, che vide come mattatori Garibaldi e Victor Hugo, si era creata una "Lega per la pace e la libertà", il cui giornale fu intitolato "Stati Uniti d'Europa": ebbene, Seeley è di una assoluta severità nei riguardi di quel pacifismo che non implichi un cambiamento di sistema politico fra gli Stati. Come dire, che occorre giudicare severamente quei gemellaggi che si limitino a fare poesia sullo "spirito europeo" e non cerchino di appoggiare concretamente la costruzione politica di una Federazione europea sovranazionale. Ma il testo di Seeley ha un paio di passaggi, che ben rendono le convinzioni di chi - sei o sette persone - che nel 1950 si proposero di dar vita a un movimento popolare, basato sull'opera educativa e sull'azione politica da parte delle autonomie territoriali democratiche europee, a partire dai Comuni. Uno: "le federazioni che siano solo il frutto di intese tra governi (afferma Seeley) non sono che una farsa". L'altro: "la Federazione che
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noi vogliamo ... non sarà mai raggiungibile con mezzi puramente diplomatici, o attraverso la mera azione dei governi, ma solo grazie ad un generale movimento popolare". Per altro Seeley si illudeva, affermando già allora, nel 1871, che sarebbe stato inconcepibile in precedenza un siffatto movimento popolare, ma ormai nulla si poteva concepire più facilmente: viceversa fino a metà del nostro secolo sono stati i governi a condurre irresponsabilmente l'Europa di disastro in disastro. Il primo conflitto mondiale (1 91 4-1918) fu anzitutto una terribile guerra civile europea; poi ne scoppiò una seconda nel 1939 non solo per un criminoso disegno della Germania nazista e per l'anticipazione fascista dell'Italia, che resta una vergogna storica del mio Paese: fra il primo e il secondo conflitto, dopo il generoso tentativo del francese Briand appoggiato dal tedesco Stresemann cioè dalla Repubblica di Weimar -, con una proposta respinta dal governo italiano, da quello sovietico e da quello inglese, si manifestò tutta l'insipienza dei governi democratici. Mi limiterò a ricordare il patto navale stretto dal governo inglese, nel 1935, con Hitler, e il pavido ricorso unilaterale al principio del "non intervento" da parte del governo france143
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se, che impassibile lasciò compiere in Spagna l'assassinio della Repubblica democratica da parte del generale Franco, aiutato dai fascisti e dai nazisti. Da ultimo, alle soglie della sconfitta da parte della Germania, il governo francese respinse l'offerta di una Unione sovranazionale indissolubile fatta da Churchill, consigliato anche da quel grande europeo che è stato Jean Monnet. Poi ecco che si verifica quello straordinario evento, che si può chiamare la Resistenza europea, di cui l'impareggiabile teorico è il tedesco Walter Lipgens.
LA NASCITA DEL
ccir
Mentre infieriva la guerra e le Nazioni d'Europa si dividevano in occupanti e occupate - con l'eccezione, fra le belligeranti, del Regno Unito - sorsero una serie di movimenti di liberazione nazionale per le une e di lotta antifascista (in conclusione contro i propri governi) per le altre, che ebbero largamente in comune l'ideale di una federazione europea democratica. Quanto aveva chiesto Seeley cominciava a divenire realtà, la gente si domandava, ovunque, il perché delle ritornanti guerre civili continentali: una grande disponibilità popolare per gli Stati Uniti d'Europa si delineò chiaramente. Certo, non tutta la Resistenza europea al fascismo lii federalista: ma il federalismo si inserì spontaneamente nei programmi di buona parte delle forze politiche impegnate nella lotta par144
tigiana, si formarono gruppi il cui fine prioritario era restaurare la democrazia e creare la Federazione. In Olanda i due giornali clandestini principali, "Vrij Nederland (Olanda libera)" e "Het Parool (La parola d'ordine)", parlavano apertamente di crisi della sovranità nazionale intangibile e di pace da conquistare basandola su istituzioni sovranazionali. In Francia "Combat", diretto da Henri Frenay, che raccoglieva gruppi resistenti particolarmente nel Sud e faceva centro a Lione, chiedeva gli Stati Uniti d'Europa ("un passo verso l'unità mondiale"); nella zona di Tolosa operava il gruppo "Libérer et Fédérer", animato dall'esule italiano Silvio Trentin; soprattutto, nel 1944, il "Programma" del "Mouvement de Libération nationale" (al quale aderivano tutti i gruppi della Resistenza, salvo i comunisti, che del resto in tutta Europa agivano in vista di un diverso ideale, non fondato sulla priorità del ristabilimento della democrazia politica) sosteneva che una lega di Stati sovrani è un imbroglio e che bisognava combattere per una autentica Federazione europea, democratica, aperta a tutti i popoli, ivi compresi Regno Unito e URSS, col fine strategico di una organizzazione federale del mondo. In Italia circolavano diversi progetti, fra i quali il "Programma di Milano" dei cattolici, il "Progetto di Costituzione europea" di Galimberti e Répaci, i "Saggi" di Einaudi pubblicati clandestinamente dai liberali: ma soprattutto fu decisivo il "Progetto di Manifesto per una Europa libera e unita", redatto nel 1941 nell'isola di Ventotene dai
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confinati Ernesto Rossi ed Akiero Spinelli e con la prefazione del filosofo socialista Eugenio Colorni, dal quale prese le mosse un "Movimento federalista europeo" attivissimo nella resistenza. In Germania occorre ricordare la posizione del Kreisuer Kreis, del "Piano di pace" di Karl Friedrich Goerdeler, "The Unity of Europe" di Hilda Monte: ma un gruppo meraviglioso, che è il simbolo di un federalismo che nasce dalla coscienza popolare e dai giovani, fu quello della "Die Weisse Rose (Rosa bianca)". I volantini pacifisti e federalisti di giovani (senza dimenticare un loro professore, il kantiano Kurt Huber), tutti fatti decapitare da Hitler, sono veramente l'emblema di una Resistenza europea, che noi non ci sentivamo di permettere nel 1950 che continuasse a venire tradita. Si affievolisce durante la Resistenza l'impegno britannico, che - subito prima e agli inizi della guerra - per primo aveva dato l'esempio, di grande valore culturale ma anche organizzativo, della "Federal Union" (sviluppatasi sulla scia di tre dei massimi scrittori di federalismo, Philip Kerr - meglio conosciuto come Lord Lothian -, Lionel Curtis che invano si era battuto per la trasformazione del Commonwealth britannico in una federazione - e l'economista Lionel Robbins): ma questa posizione inglese si spiega, dopo il rifiuto francese dell'offerta di una Unione e soprattutto per la necessità vitale di dare un assoluta precedenza al dialogo con l'America, salvando del resto con grande coraggio la libertà di noi tutti europei, che dob-
biamo serbarne gratitudine durevole, insieme ai milioni di morti sovietici, che sarebbe un delitto da dimenticare. Arriva la pace, si conclude la Resistenza e i governi nazionali riprendono a tradire l'Europa. Il 21 marzo 1947 al Congresso americano Fullbright, che è in cordiale rapporto con Jean Monnet, presenta un progetto di risoluzione perché il Congresso stesso favorisca "the creation of United States of Europe within the framework of United Nations": a questo fine si ispira anche il Piano Marshall, che per cominciare propone l'elaborazione di un comune programma economicò europeo; sedici governi nazionali europei rispondono "no". Poi c'è il Congresso europeista de L'Aja del maggio 1948: non vi prevale l'élite federalista - che nel 1947 aveva fondato l"Union européenne des fédéralistes" (UEF) -, ma vi prevalgono i partiti politici che, anche quelli teoricamente internazionalisti o universalisti, risultano rapidamente rinazionalizzati. Infine il 5 maggio 1949 si compie quella che Seeley chiamerebbe "una farsa" dei governi: prende vita il Consiglio d'Europa, che nulla ha di federale o di pre-federale, poiché è un più che tradizionale foro intergovernativo, con una Assemblea consultiva che nessuno - nei momenti cruciali - si preoccuperà di consultare. Frattanto si andavano ricostruendo, leccandosi le ferite, gli Stati nazionali degli anni trenta, gli Stati nazionali di sempre, malgrado i tentativi e gli appelli della élite federalista: e così arriviamo al1950. Questa premessa, indubbiamente lun145
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ga, era per altro .necessaria per ricostruire il terreno, in cui sono affondate le radici del Consiglio dei Comuni (e delle Regioni) d'Europa, e lo sdegno e i propositi dei suoi promotori. Tutto ciò era poi necessario sottolineare ancor più in un momento in cui il ccRE sta divenendo paneuropeo e si trova di fronte, più o meno, a una sua rifondazione ; con problemi nuovi, senza dubbio, ma anche con la necessità di coerenza coi valori per cui è nato: che si basano in sintesi - e citerò ancora una volta Seeley - sull'organizzazione della pace attraverso l'estensione del federalismo; il quale implica, naturalmente, anche le autonomie territoriali, ma non micronazionalismi che subentrino ai macronazionalismi.
LA PRIMA ASSEMBLEA
Nel 1950, dunque, a Jean Monnet, da una parte, e a un piccolo gruppo di federalisti europei, dall'altra, parve giunto il momento di dire "basta" a una ricostruzione dell'Europa di sempre. Il 9 maggio, su suggerimento di Monnet, ci fu la Dichiarazione Schumann ed iniziò, tra mille difficoltà, ma soprattutto con l'appoggio determinante dei tre grandi statisti cattolici (Schumann, Adenauer, De Gasperi) e poi del socialista Spaak, l'èra comunitaria: non era la Federazione, ma - come si dice - un funzionalismo aperto a sviluppi federali, cioè qualcosa di serio. Durante l'estate e l'autunno, in sei o 146
sette federalisti europei, pensammo a nostra volta che potesse essere finalmente la democrazia di base, a partire dai Comuni a dar vita a quel movimento popolare generalizzato di cui parlava Seeley. "Tutto divide gli Stati, tutto unisce i Comuni", avrebbe esclamato poco dopo un vecchio uomo politico francese, Herriot, Sindaco di Lione. Mi fa quindi sorridere qualche neofita del cca, quando afferma che gli amministratori locali eletti non debbono fare "politica estera": ma in effetti noi lanciammo allora una grande scommessa e tremammo finché non si arrivò, nel gennaio successivo a Ginevra, al successo dell'Assemblea costitutiva. La grande organizzatrice fu inizialmente Alida De Jaeger, tedesca di Amburgo, di origine ebrea e di educazione cosmopolita, esule in Olanda e ora stabile in Svizzera, dopo la lunga battaglia antinazista: ella, associatasi ad alcuni amici svizzeri, convocò una piccola riunione a Seelisberg sul Lago dei Quattro Cantoni, nella quale spiccavano tre persone: Gasser, Bereth e Labedeck. Adolf Gasser era autore di un libro assai pertinente, Gemeindefreihit als Rettung Euro pas, ma soprattutto era stato nel 1934 l'anno dopo dell'ascesa al potere di Hider - uno dei fondatori della "Union européenne, mouvement suisse pour la fédération de l'Europe", a cui guardarono molti democratici tedeschi perseguitati (nel suo ambito fece un famoso discorso sul futuro federalista dell'Europa Thomas Mann). Jean Bareth aveva partecipato alla fonda-
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zione dell"Union européenne des féd& ralistes" e si dichiarava un convinto seguace di Proudhon, cioè del caposcuola del federalismo integrale, supra e infranazionale. Artur Ladebeck, primo Borgomastro di Bielefeld, aveva sofferto destituzione dall'insegnamento e carcere sotto il nazismo: fautore di un'amministrazione locale che si basi soprattutto sull'assemblea eletta dal popolo, era convinto poi che non si poteva rimandare l'unità europea, ma si doveva portare avanti con una costruzione che partisse dal basso. A Seelisberg la De Jaeger aveva invitato anche l'italiano Adriano Olivetti, il quale, scampato a stento alla Gestapo dopo l'armistizio italiano, si era rifugiato in Svizzera, ove aveva composto uno dei grandi testi dell'autonomismo europeo, L'ordine politico delle comunità: rientrato in Italia, Olivetti aveva fondato il "Movimento Comunità", che si batteva appunto per moderne e democratiche autonomie locali. Olivetti non poté partecipare a Seelisberg, ma propose a chi scrive, che militava con lui nel "Movimento Comunità", di accollarsi con gli altri amici europei la promozione del CCRE: dopotutto io ero con Gasser uno dei decani del movimento federalista europeo, essendomi schierato nel 1935, da studente, contro la preparazione italiana della guerra etiopica, perché contrario a quella come a tutte le guerre, ma sottolineando il nullismo della Società delle Nazioni e l'utilità di creare, come primo passo per la pace mondiale, gli Stati Uniti democratici d'Europa.
Organizzare le delegazioni dei diversi Paesi all'Assemblea costitutiva fu, alla fine dell'anno, una impresa assai dura e anche delicata, perché si creava l'embrione della futura classe dirigente del CC(R)E: fummo spesso aiutati dall"Union européenne des fédéralistes". L'Assemblea si svolse a Ginevra tra il 28 e il 30gennaio 1951, la partecipazione fu larga e qualificata, presidente del CEE fu eletto Cottier, consigliere del Comune di Ginevra e Presidente dell'Unione dei Comuni svizzeri; la Segreteria fu affidata alla De Jaeger, con la collaborazione di Bareth. Fu costituito un Comitato d'Azione, presieduto da Chaban Delmas (che è uno dei fondatori, che ancora milita con noi, come un altro "pioniere" che voglio ricordare, il nostro amico Lucien Sergent); il Comitato fu articolato in quattro sezioni, che è utile ricordare: 1 - autonomia amministrativa e finanziaria (responsabile Ladebeck); 2 - equilibrio città-campagna (responsabile Berrurier, segretario aggiunto dei "Maires de France" e sindaco di un piccolo Comune del Dipartimento Sei-. ne-et-Oise); 3 - sicurezza, assistenza, mutualità (responsabile J.J. Merlot, amico di Spaak, sindaco di Seraing e futuro Ministro belga dell'Economia); 4 azione politica europea (responsabile il senatore italiano Bastinetto, di Venezia, sindacto di San Donà del Piave e vecchio europeista degli anni venti, ai tempi di Paneuropa e Coudenhove-Kalergi). Le quattro sezioni di lavoro prefigurano schematicamente l'impegno straordinario dei quarant'anni successivi, ma pri147
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ma occorre dire qualcosa sulla struttura che si volle dare al cc(E. I colleghi tedeschi, con encomiabile coerenza, sconsigliavano che fossero create sezioni nazionali, pericoloso veicolo - éssi sostenevano - di interessi ristretti in una organizzazione voita a una costruzione sovranazionale: confesso che fummo Bareth ed io, che, pur apprezzando il punto di vista dei tedeschi, insistemmo, per due ragioni, per la creazione di queste sezioni. La prima ragione, puramente pratica, era che dubitavamo che un bureau centrale riuscisse da solo a espandere il CC(R)E in ogni angolo di ciascun Paese e a diffondere realmente quanto si decideva negli organi statutari sovranazionali. La seconda era che le sezioni nazionali, organizzate in maniera adeguata allo statuto europeo e politicamente pluraliste come pluralista nasceva il CC(R)E, permettevano una formazione non caotica o casuale della stessa dirigenza europea. Comunque eravamo pienamente d'accordo con gli amici tedeschi che gli organi statutari proibissero i mandati imperativi delle sezioni nazionali: da allora il voto nei nostri organi è strettamente individuale, e fa una certa meraviglia che di tanto in tanto un dirigente del CC(R)E esprima "la volontà" della sua sezione, quando dovrebbe limitarsi a riferire quanto negli organi democratici nazionali si è discusso e a quale parere del tutto prowisorio, a maggioranza o all'unanimità, si è pervenuti. E' per questo che correttamente, in occasione soprattutto dei periodici Stati 148
generali, si tengono riunioni delle "famiglie politiche" a livello sovranazionale: ma si potrebbero tenere anche riunioni sovranazionali tra federalisti gtadualisti o massimalisti o altre analoghe, per approfondire diverse tesi europee. In ogni modo negli organi statutari del CC(R)E non può emergere un punto di vista inglese o lussemburghese o greco, ma solo un punto di vista europeo A eventualmente diverso da un punto di vista europeo B. Descrivere, senza spiacevoli omissioni, quarant'anni di attività instancabile in un breve articolo è owiamente impossibile: sarà meglio insistere sui criteri del nostro lavoro. Vorrei fare una premessa: dal primo dopoguerra a oggi si è avuto un po' ovunque un indebolimento degli interessi politici dei colleghi amministratori: troppo spesso essi si sentono degli impiegati pubblici o dei tecnocrati, non degli eletti del popolo, con precisi doveri anche verso il futuro. Da ciò la cattiva tendenza a trasformare il CC(R)E in una "agenzia europea di servizi", dimenticando quel che discutemmo a Palermo a mezzo inverno del 1953, in una memorabile riunione di quello che allora si chiamava il nostro "Esecutivo europeo", a cui sono più che orgoglioso di essere stato il relatore in quell'occasione sul tema "Costituzione europea e libertà locali". Evocai il concetto, che gli amici francesi conoscono bene perché risale a Georges Sorel, di "blocco storico": si può stabilire una alleanza fisiologica fra coloro che
difendono le libertà locali e coloro che costruiscono la federazione sovranazionale, e in fondo l'avversario quotidiano di entrambi risulta lo Stato nazionale, immobile nella difesa dei suoi privilegi e anche nella sua pigrizia. Gli amministratori locali e regionali, dunque, prima di chiedere servizi, debbono servire il CC(R)E e aiutarlo a progettare in un coerente quadro federalista. Questo, del resto, abbiamo così frequentemente realizzato e per questo risultiamo tuttora una associazione unica e insostituibile.
I
SEORI D'IMPEGNO
Nel campo che si considera nostro specifico, ma che è interdipendente con quello della cosiddetta politica pura, oserei distinguere quattro settori in cui ci siamo maggiormente impegnati. Il primo si rifà alla gloriosa gestazione della 'Carta europea delle libertà locali'1— formalmente lanciata agli Stati generali di Versailles nel1 953, poi copiata e in parte fraintesa da gruppi culturali e dal Consiglio d'Europa. Ci lavorammo un paio di anni sotto la guida ferrea di Ladebeck, e alla redazione finale un' intensa settimana a Ginevra - riuscii a condurre con me il giurista spagnolo esule José Semprum y Gurrea: allora in Spagna c'era la dittatura di Franco, ma volevamo tener presente la costituzione democratica del 1932. A parte l'espressione caratterizzante "al di sopra delle frontiere" che è nella Premessa, credo
che nella "Carta" siano attualissimi quei "mezzi stabili (permanent facilities)", che si vogliono forniti a "ogni cittadino" affinché "prenda parte attiva alla vita locale": questo vale oggi per coloro che, a torto, intendono le autonomie come sfera di azione esclusiva di una data ernia o minoranza particolare, dimenticando che al suo interno ogni "diversità" deve potersi esprimere, poiché il perno di ogni libertà è la singola persona umana. Per tempo, già agli "Stati generali" di Cannes del 1960, affrontammo, con la relazione di Ambrosini, presidente della Corte Costituzionale italiana, il problema dell'Europa delle Regioni, mentre Fernand Dehousse redigeva per noi il progetto di un eventuale Senato europeo delle Regioni; riapprofondimmo il tema delle Regioni nel 1970, con la relazione Martini agli "Stati generali" di Londra: ma evitammo ogni volta due errori, quello di considerare le Regioni avulse dall'intero sistema delle autonomie - e quindi in conflitto con gli Enti infraregionali e con l'intera concezione federalista - e quello di chiedere il Senato delle Regioni - come ha fatto recentemente e demagogicamente un'associazione europea delle Regioni quando esso veniva utilizzato da coloro che volevano non concedere poteri legislativi alla Camera europea eletta a suffragio universale diretto. Il secondo campo, quello della finanza locale, ci mostrò subito l'interdipendenza tra il sovranazionale e il locale. La Comunità europea di credito comunale (cEcc), struttura ausiliaria del CC(R)E che 149
si avvalse, negli anni cinquanta, della competenza del professor Mossé, già rappresentante del governo francese a Bretton Woods, mostrò ché non si poteva parlare di autonomia locale senza un sistema monetario europeo, ricadendo per il momento le garanzie di cambio sulla discrezionalità degli Stati nazionali. Il collega Berrurier propose poi di verificare l'eventualità - risultata irrealistica al tempo dell'entrata in vigore del Trattato della CEE - di chiedere una sezione ad hoc della BEI, ma il problema ha avuto finalmente un avvio che può portare a risultati positivi solo ora, nella prospettiva dell'Unione economica e monetaria: questa porterà non solo a cambi fissi, ma anche ad una irrinunciabile armonizzazione fiscale. D'altra parte il CC(R)E ha sempre postulato in campo economico e sociale una politica regionale europea, che non sia la somma di politiche regionali nazionali: essa sarà così un elemento essenziale della coesione economica comunitaria - di una Comunità, beninteso, che non si intende chiusa, ma aperta a tutte le successive adesioni -: questa politica regionale implica il sinergismo dell'impegno locale e del contributo sovranazionale, che vuole trarre vantaggio da uno sviluppo ornogeneo di tutto il territorio e dall'abolizione delle sacche di miseria in un mercato che si prevede unico. Il terzo campo è quello della politica ambientale. Afferma la Carta di Bruges, approvata dal CC(R)E nel 1974, dopo un serrato dibattito avvenuto nel 1972 agli "Stati generali" di Nizza, che "in man150
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canza di una politica mondiale, è indispensabile, quanto meno al livello di diciassette Stati del Consiglio d'Europa, una politica europea dell'ambiente, sia perché l'ambiente naturale di misure di salvaguardia dell'ambiente metterebbe in condizione d'inferiorità il Paese che fosse solo ad applicarle"; e quindi "una legislazione e una regolamentazione uniformi o quivalenti in tema di ambiente debbono andare in vigore nei diversi Comuni, nelle diverse Regioni e nei diversi Paesi d'Europa". Ma anche qui ci si accorse che a livello intergovernativo non si risolvono razionalmente i problemi: questo sostanzialmente affermò la conferenza organizzata insieme, nel novembre dello stesso 1974, dalla Comunità europea e dal CC(R)E. Il CC(R)E è arrivato a comprendere che occorre una "sintesi a priori" (mi si perdoni l'espressione kantiana) fra sviluppo economico e pianificazione del territorio (aménagement du territoire): e qui si affronta alla radice una politica ambientale. Ora, il Consiglio d'Europa è l'istituzione intergovernativa, e senza potere, delle buone intenzioni: solo una Comunità europea, finalmente dotata di un Esecutivo con poteri reali e di un Parlamento che legifera, potrà portare avanti quel che nella citata riunione del novembre 1974, partendo dalla "qualità della vita", chiamammo ambiziosamente "nuovo progetto per l'uomo europeo della fine del XX Secolo"; ovviamente con la consultazione obbligatoria del Consiglio europeo dei Poteri locali e regionali, che a questo effetto come a
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tutti gli altri che incidono sulle autonomie territoriali ha richiesto da tempo il CC(R)E e che è previsto nel progetto di Costituzione europea, approvato dal Parlamento Europeo il 12 dicembre 1990. Finalmente il quarto campo è quello non tanto della libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità quanto delle immense migrazioni in Europa centro-occidentale e meridionale che si prevedono dall'Est e ancor più dal Sud. L'inevitabile regolamentazione dell'afflusso nelle nostre città, la necessaria gradualità con cui si deve dar vita a una società europea multietnica implica l'esigenza prima morale che politica che ogni amministratore locale e regionale - che ha doveri maggiori di un semplice cittadino - si batta per un intervento europeo globale, unitario e decisivo che affronti i problemi del Sud del Mondo e dei Paesi di emigrazione per fame (ed anche, scusatemi, di incremento demografico pauroso proprio per lo stato di indigenza). E' il federalismo, l'autentico federalismo, che deve espandersi, fino a provocare una riforma sostanziale delle Nazioni Unite. Del resto concetti analoghi esprimemmo agli "Stati generali" di Vienna del 1962, dove approvammo la "Carta federalista dei Comuni e dei Poteri locali d'Europa" progettata da Jean Bareth.
LATrIV1TÀ POUTICA
Così vengo alla storia più strettamente
politica del cci. Credo che il ccRE sia stato e stia ancor più per essere quel movimento popolare che chiedeva Seeley nel 1871. In diciotto edizioni degli "Stati generali", in cui si è mostrata una capacità di mobilitazione popolare assolutamente unica; in congressi dei Comuni gemellati, di cui mi limito a ricordare quello donde è uscita la sostanza del testo che poi abbiamo chiamato "Manifesto di Bordeaux"; in centinaia di riunioni sovranazionali, statutarie e no, ove abbiamo mostrato di essere all'avanguardia del processo di unità europea; in migliaia di gemellaggi - i nostri - e di incontri intercomunali in cui abbiamo dato un contributo ineguagliabile alla formazione di una consapevole società europea, noi abbiamo mostrato una chiaroveggenza e una capacità di pressione politica, di cui non mi sarei sentito così certo nel 1950. Una "Dichiarazione di principi", diffusa prima dell'Assemblea costitutiva di Ginevra e dovuta, credo, alla penna di Alida De Jaeger, affermava : "Il CEE... non sarà mai un fattore di isolamento o di divisione, ma sempre e ovunque un fattore di cooperazione a tutti gli sforzi di progresso politico, economico e sociale dell'umanità considerata nel suo insieme". Parole che sembrano scritte oggi. Agli Stati generali di Versailles (1953), relatore politico Alexandre Marc, richiamammo l'esigenza di appoggiare l'Assemblea ad hoc", che stava per portarci all'Unione politica e che dovrebbero studiarsi gli statisti prima del grande Vertice di dicembre a Maa151
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stricht. A quelli di Venezia (ottobre 1954), svoltisi poche settimane dopo la caduta del Trattato della CED e con essa del famoso articolo 38 sulla Comunità politica (Io ricorda qualcuno?), il cci operò per primo e da soio (relatore il borgomastro Roser, grande europeo che voglio qui ricordare) il "rilancio europeo", e osammo chiedere elezioni europee a suffragio universale e una Comunità politica con poteri limitati, ma reali. Pochi mesi dopo lanciavamo l'Appello di Esslingen per una Assemblea Costituente, ove qualificavamo i governi nazionali come "lenti o insufficienti". Evitando ogni massimalismo settario, appoggiammo criticamente (Stati generali di Liegi: 1958) i Trattati di Roma. Avevamo capito le potenzialità del processo comunitario: del resto abbiamo sempre utilizzato realisticamente ogni occasione, e non ci eravamo tirati indietro dal platonico Consiglio d'Europa, accusandolo solo di eccessiva diplomazia, incongrua per quello che poteva essere - e tuttora può - un grande foro d'opinione e un punto d'incontro con popoli ancora non preparati a legami federali: nel suo ambito ottenemmo una vittoria di principio - soprattutto grazie all'amico Chaban Delmas, presidente di Commissione dell'Assemblea consultiva -, la creazione della Conferenza europea dei Poteri locali (cEPL). Negli "Stati generali" di Roma (1964), anche memori della "Dichiarazione" della De Jaeger, lanciammo la proposta di metterci alla testa di un "fronte democratico europeo".Nel 1975 a Vienna dem152
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mo la spallata decisiva per le elezioni europee, con una risoluzione (primo firmatario Gaston Defferre) che chiedeva al prossimo Parlamento eletto di funzionare da Costituente: cosa puntualmente avveratasi col Progetto Spinelli, che noi, primi in Europa (a Torino, aprile 1984), appoggiammo senza riserve. Frattanto nel 1981, con gli "Stati generali" di Madrid, ci eravamo affacciati più decisamente al Sud del Mondo, lanciando le basi della successiva conferenza in Marocco delle Città europee con le Città arabe. Nel 1985, poco prima del Vertice europeo di Milano, recammo al Presidente di turno della Comunità lo straordinario elenco di adesioni alla richiesta di una Unione politica europea di grandi Città del Continente, di Presidenti di Regione, eccetera, ottenendo questo candido commento: "I colleghi dei vani governi affermano che il popolo europeo non è pronto, ma vedo che in realtà sono loro a non essere pronti": pochi giorni dopo, anche in seguito alla grande manifestazione federalista di piazza del Duomo piena di nostri gonfaloni - mentre il collega Hofmann parlava accanto al Presidente del Parlamento Europeo -, il Presidente di turno della Comunità pretese la convocazione - che ottenne solo a maggioranza - della Conferenza per l'Unione europea: questa Conferenza, svoltasi poi lontano dall'opinione pubblica, portò solo all'Atto unico - noi stessi, in momenti di malumore, lo chiamammo il "topolino di Lussemburgo"—, ma che in verità rimise in moto tutto il processo di
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integrazione. A Berlino nel 1986 e a anticipammo il colloGlasgow nel1988 quio col Centro e con l'Est europeo, ivi compresa l'Unione Sovietica: e forse qui non è inutile ricordare che nel 1956, agli "Stati generali" di Francoforte su1 Meno, avevamo previsto in pieno come sarebbe stata possibile la riunione della Germania, non quale alternativa all' Unione europea, ma al contrario come effetto, anche del processo di unione europea, sul regime sovietico e in seguito alla democratizzazione dell'Est. Oggi siamo in presenza della grande sfida. Abbiamo raccolto intorno a noi, ai Poteri locali e regionali, le forze vive della società europea, attraverso la Convenzione per l'Unione democratica, e coi governi o contro i governi esigiamo che si pervenga all' Unione federale delo, per ripetere l'Europa dei Dodici l'espressione di Mitterrand, di "coloro che vorranno' -: questa avrà un carattere esemplare e ci permetterà una maggiore credibilità per chiedere l'attuazione del federalismo nella grande Casa europea. Ma diffidiamo dell'imbroglio di quei nostri statisti che, proponendo di pensar subito alla grande Europa, trovano vergognosamente un alibi per non costruire il primo nucleo federato esemplare: in realtà si vogliono servire della grande per fuggire dai doveri della
piccola Europa. Viceversa dobbiamo aver chiare le idee: a noi interessa - a Est come a Ovest - l'autogoverno locale come pilastro della sovranazionalità democratica. Noi respingiamo d'altra parte l'autodeterminazione (self-determination), cioè il separatismo, di coloro che non sono pronti a far sì che in ogni caso i "diversi" sappiano convivere sotto una legge comune, e ogni singola persona sottolineo: ogni singola persona - sia rispettata al di sopra di ogni macro o micronazionalismo. Ricordiamo poi che al di sopra delle singole culture, dei Baschi o dei Tirolesi o di qualunque etnìa, c'è una cultura universale che si sta maturando, per esempio, negli annuali seminari di Erice in Sicilia, dove fisici, biologi e filosofi di tutto il mondo cercano di approfondire le basi di una cultura della pace. Mai come oggi si è presentata all'umanità la scelta del federalismo: l'unità nelle diversità, fino al governo mondiale. A questo pensavamo - lo ricordo come fosse oggi - durante le orribili giornate della guerra mondiale, a questo si pensava nei Lager e in tutte le prigioni politiche, a questo pensavano i meravigliosi ragazzi della "Rosa Bianca". La democrazia di base, non può tradire questa strategia.
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Le Fondazioni culturali europee di Marina e Pierre Schneider
L'ambizione di questo articolo è di fare emergere, attraverso l'esame dei loro statuti, i tratti distintivi delle fondazioni i cui dirigenti fanno parte del Club dell'Aia. Questo Club, creato nel 1971, è un'associazione composta dai direttori di alcune fondazioni private fra le più importanti e le più attive. In modo indiretto, il Club è un'associazione informale di queste stesse fondazioni e si preoccupa particolarmente dei problemi della loro cooperazione in Europa, ma anche nel resto del mondo. Come indicano sia il nome del Club che l'articolo 1.2 del suo statutò, il Club dell'Aia è: «un corpo costituito da direttori di fondazioni d'Europa» (art. 2.1). «Un corpo costituito da direttori di fondazioni europee» (titolo). Sua caratteristica è di possedere la personalità morale e di essere registrato a L'Aia, Paesi Bassi, da qui la sua appellaziòne. E dunque solo per convenzione e per una maggiore semplificazione che sarà utilizzato in questo articolo l'espressione "le fondazioni membre del Club dell'Aia". Si tratta di un'associazione di fondazioni site in Europa e in Israele (van Leer Jerusalem Foundation). I rappresentanti di quelle che si trovano altrove nel mondo possono diventare "membri corrispondenti". Questo carat154
tere di cooperazione europea si traduce nelle attività delle fondazioni membre anche se queste ultime offrono il loro appoggio a delle operazioni e a delle attività principalmente nazionali e se esse non sono in alcun caso esclusivamente europee nelle loro attività internazionali. Questo Club riunisce delle fondazioni nel senso stretto del termine, in maggioranza, se non esclusivamente, delle «fondazioni di distribuzione o di ridistribuzione». Esse sono le cugine europee delle celebri private gran.making foundations americane. La loro attività rappresenta una spesa annuale dell'ordine di 240 milioni d'ECU nei campi scientifico, culturale, medico e sociale.
BREVE PANORAMICA DELLE FONDAZIONI i CUI DIRIGENTI SONO MEMBRI DEL CLUB
Una rapida analisi cronologica può essere evocatrice delle variazioni nei ruoli e aspirazioni delle fondazioni in Europa. Fra le più vecchie bisogna citare la Carlsberg Foundation, stabilita in Danimarca nel 1876, particolarmente attiva nel campo della ricerca nelle scienze naturali, matematiche, umane e sociali, oltre che nel mecenatismo artistico. Altre fondazioni stabilite prima della seconda
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guerra mondiale potrebbero essere citate, quali il WeUcome Trust, il Leverhulme Trust o la Nuffielcl Foundation. Queste fondazioni sono vecchie non soio per l'età, ma anche da un punto di vista tipologico: - la loro sorgente di ricchezza (lascito di un uomo ricco e non combinazione di diversi apporti quali partecipazioni industriali, sottoscrizioni pubbliche, fondi 'pubblici); - il loro campo di attività (aiuto alla ricerca o aiuto ai poveri); - il loro modo di creazione (per testamento e non durante la vita del fondatore, quali i community trust, per esempio). Il dopo guerra è marcato da uno sviluppo rapido di una nuova generazione di fondazioni importanti in Europa. L'esempio della Germania è interessante per la creazione della Fritz Thyssen Stiftung, la Stiftverband fir die Deutsche Wissenschaft, la Stiftung Volkswagen. werk e la Robert Bosch Stiftung GinbH. Nella convinzione che l'industria fosse stata uno dei grandi responsabili di ciò che avvenne negli anni trenta, la creazione della maggior parte delle fondazioni del dopoguerra risponde alla precisa volontà di operare in modo che nel futuro il potere economico potesse servire al bene dell'umanità e non essere sviato verso fini politici nefasti. Sarà opportuno ricordare anche la creazione della Fondazione Giorgio Cmi in Italia nel 1951, del Prins Bernahard Fonds nei Paesi Bassi sin daI 1940, e infine del K6ningin Juliana Fonds, la cui attività
principale è di sviluppare il benessere sociale. La creazione nel 1954 della Euro pean Cultural Foundation rappresenta un tornante in Europa. E lo stesso continente, in quanto regione geògrafica, che diventa l'obiettivo della fondazione. Essa offre il suo appoggio a dei progetti di carattere europeo implicanti almeno la partecipazione di tre paesi così da favorire una migliore comprensione e integrazione europea. Durante gli anni sessanta fu fondata la Fundaao Calouste Gulbenkian in Portogallo, concentrata su attività caritatevoli, artistiche, educative e scientifiche; parallelamente in Spagna nacque la Fundaci6n Juan March al fine di promuovere e sviluppare le attività sociali, culturali e scientifiche. La terza fondazione importante stabilita durante questo periodo è la Bernard van Leer Foundation, la quale ha caratteristiche veramente peculiari. Si tratta infatti di una vera e propria rete di fondazioni a cui è destinata l'integralità del capitale del gruppo van Leer. Ciò è un fatto quasi unico ed infatti il solò Wellcome Trust potrebbe esserle confrontato fra le fondazioni importanti. Inoltre, la Bernard van Leer Founda. tion è verosimilmente la sola fondazione al mondo che utilizzi l'essenziale dei ricavi al di fuori dal proprio paese d'origine (più del 95%), e, in più, senza che ciò sia collegato ai benefici realizzati dalla società nei vari paesi. Le priorità determinate dalla fondazione e i profitti delle società sono infatti indi155
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pendenti. Fra le altre fondazioni stabilite in questa epoca, e membre del Club, si può citare, per l'Italia, la Fondazione Adriano Olivetti, attiva nel campo delle scienze sociali, economiche e politiche, e, per la Spagna, la Fondaci6n Generai Mediterranea che fu creata quale risposta alle sfide che poneva una società dal rapido sviluppo. E dunque logico che il suo campo d'attività sia quello dei problemi sociali. La Fondation Nestle nacque nel 1966, in Svizzera, in occasione del centenario della società omonima, con l'obiettivo di studiare i problemi della nutrizione nel mondo. La Bank of Sweden Tercentenary Foundation marcò, attraverso la sua creazione, il tricentenario della banca e ha per oggetto il sostegno e la promozione di ogni ricerca scientifica presentante un legame con la Svezia. La Foundation Roi Baudoin fu creata nel 1976 per commemorare il 25° anniversario dell'ascesa al trono di Re Baldovino. Il suo fine è quello di promuovere delle migliori condizioni di vita per i Belgi. Queste ultime tre fondazioni presentano un tratto comune nell'essere state create per commemorare degli eventi speciali. Per terminare questa presentazione, bisogna citare un'importante iniziativa istituzionale in Francia: la Fondation de France creata nel 1969-da un gruppo di case finanziarie, pubbliche e private, sul modello dei community trusts americani.
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Essa costituisce l'inizio per l'Europa di una categoria speciale di fondazioni, a carattere essenzialmente fiduciario e finanziario. Questa descrizione molto sommaria ed enumerativa avrà già dato un'idea delle diversità degli scopi, dei campi d'attività o degli eventuali beneficiari delle fondazioni del Club dell'Aia le quali sono però tutte caratterizzate da una missione, una dotazione, ma soprattutto da un'operatività i cui effetti devono essere percepibili a livello internazionale.
LA MISSIONE GU SCOPI CARITATEVOU
Non è necessario ripetere che, per definizione, le fondazioni non possono avere che uno scopo d'utilità pubblica, cioè d'interesse generale, senza carattere di lucro (non-profitmaking). Definirne più precisamente i caratteri generali è però impossibile; sarebbe cercare di delimitare la nozione d'utilità pubblica di una società in un dato momento della sua evoluzione. Esso deve però essere sufficientemente preciso per dare alla fondazione una specializzazione che possa Caratterizzarla. L'articolo 1.2 dello statuto del Club rimane vago nel menzionare il proprio oggetto: «il Club... agisce quale piattaforma internazionale informale per le discussioni sui problemi legati alla gestione delle fondazioni private, e al ruolo della filantropia nella società». L'articolo 4.2 è però molto più istruttivo: «I problemi da discutere concernono i punti
importanti a livello internazionale relativi alle politiche di ricerca, d'educazione, di sviluppo sociale e culturale, e delle altre materie di cui si preoccupano direttamente le fondazioni nel contesto europeo». Ritroviamo qui l'evoluzione sulla trasformazione del ruolo delle fondazioni e la predominanza di nuove attività. Gli statuti del Club permettono di scoprire che gli obiettivi tradizionali quali la salute pubblica, l'educazione, l'insegnamento, gli alloggi sociali, ecc., sono in declino davanti ai nuovi. Oggi infatti ci ci concentra maggiormente sulio studio, la ricerca, le attività culturali e artistiche, l'aiuto ai giovani, gli scambi internazionali o l'ecologia. Come indicato dall'articolo 4.2 dello statuto del Club, i programmi di «ricerca, educazione, sviluppo sociale e culturale» contraddistinguono la maggior parte, se non tutte, delle fondazioni del Club. Alcune hanno però scelto di limitare il proprio campo d'azione solo ad una parte delle «attività caritatevoli, artistiche, educative e scientifiche» che caratterizzano le fondazioni ad ampia vocazione. Vi è chi ha concentrato i suoi sforzi in obiettivi culturali e sociali; è il caso, per esempio, della Fondazione Adriano Olivetti, che, come stabilito dagli articoli 2.1 e 2.2, carca di «sviluppare le iniziative, come le attività culturali e sociali, conformi agli ideali di Adriano Olivetti in diversi campi di studio». La Fondazione Giorgio Cmi mira invece a «promuovere il restauro dell'isola di San Giorgio
Maggiore e a sviluppare le ricerche e altre attività concernenti i problemi dello sviluppo pacifico». Più comuni sono gli obiettivi di ricerca e di promozione artistica. Le Carlsberg Foundations possono essere citate a titolo d'esempio. La Carlsberg Foundation «contribuisce allo sviluppo delle scienze in Danimarca» e la New Carlsberg Foundation «contribuisce alla promozione delle arti». Particolarmente importante è il binomio ricerca - educazione sul quale hanno concentrato la loro attenzione tre delle fondazioni tedesche del Club dell'Aia: la Fritz Thyssen Stiftung, «che si consacra esclusivamente allo sviluppo della ricerca e dell'apprendistato nelle università e negli istituti di ricerca tedeschi» (art. 3), la Stiftung Volkswagenwerk il cui articolo 2 concerne «la promozione delle scienze, della tecnologia e delle lettere sponsorizzando la ricerca e l'insegnarnento universitario)) e la Stifterverband fir die Deutesche Wissenschaft che cita al suo articolo 1 la <(promozione delle scienze e della tecnologia nella ricerca e nell'educazione». La van Leer Jerusalem Foundation promuove ugualmente <(gli studi avanzati nel dominio della ricerca e dell'educazione»; mentre il Leverhulme Trust «è limitato a degli obiettivi di ricerca e d'educazione». Infine vi sono fondazioni aventi uno scopo unico il quale può essere la ricerca (soprattutto in materie scientifiche). Così la Ciba Foundation che «assicura la promozione della cooperazione internazionale nella ricerca medica, clinica, e biologica» e la Bank of Sweden Tercente-
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nary Foundation che favorisce la «ricerca destinata a allargare le conoscenze sugli effetti nella società dei cambiamenti tecnici, economici e sociali». Fra le fondazioni che hanno in primo luogo obiettivi sociali è possibile citare la Kiningin fu. liana Fonds il quale mira alla «promozione del benessere sociale, il termine di lavoro sociale essendosi allargato con le tendenze sociali nei Paesi Bassi», la Fundaciòn Generai Mediterranea che ha per oggetto «d'aiutare le iniziative private lottanti per trovare soluzioni ad ogni problema sociale riconosciuto». La Robert Bosch Stiftung GmbH ha invece scelto di «promuovere la salute pubblica», così come la Nuffield Foundation che s'interessa principalmente «ai progressi della salute e del benessere sociale», ma anche alle «cure e al conforto delle persone anziane pòvere e ai progressi dell'educazione». Alcune fondazioni hanno concentrato la loro attenzione su obiettivi particolari quali, per la Bernard van Leer Foundation, la «promozione dell'innovazione nell'educazione legata ai bambini e ai giovani socialmente sfavoriti per permettere di mettere in opera le loro risorse innate», la nutrizione per la Fondation Nestlé, o il dialogo e la cooperazione fra le università e l'industria a Madrid per la Fundaci6n Llniversidad Empresa. Infine non può essere lasciato sotto silenzio il problema dell'adattamento degli obiettivi alle mutate condizioni sociali. Esiste infatti una tendenza evolutiva in seno alle fondazioni europee frutto dei
cambiamenti della società e di modelli politici. Ciò implica degli adattamenti e anche delle rinuncie a certe attività. Una fondazione quale la Fondazione Adriano Olivetti che ha degli obiettivi molto ampi è stata spinta a sacriflcarne alcuni. La tendenza in Italia è «di creare delle piccole fondazioni per rispondere a degli obiettivi sociali specifici» sul modello delle commurtity foundations americane. Ora più che mai queste fondazioni dovranno dare prova d'indipendenza, di spontaneità, di flessibilità, innovazione e spirito di sperimentazione, tutte qualità che non potranno, negli anni a venire, non alterare, adattare e modificare gli obiettivi.
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lA DOTAZIONE
Una caratteristica prima delle fondazioni, al punto da costituirne una definizione, è che, a causa della loro dotazione statutaria, esse possono disporre, in principio, durante la loro vita, di risorse giuridicamente garantite davanti ad ogni evenienza. La dotazione, elemento che contraddistingue il concetto stesso di statuto, è fondamentale. Oltre agli importanti sviluppi che hanno vissuto le fondazioni in questo campo, il tipo di fonte economica è un elemento di differenziazione fra le charitables foundations e le charitable funds in Gran Bretagna. Benché le risorse interne risultino normalmente da un capitale iniziale - eventualmente incrementato da liberalità ul-
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tenori - esse possono prendere altre forme e trovarsi completate, se non addirittura sostituite, da fonti esterne non meno garantite. E questa un'evoluzione molto interessante. L'aspetto «garanzia» del finanziamento è estremamente importante, quale sia la forma che prenda il reddito della fondazione. E a causa di questa situazione finanziaria che una fondazione, differentemente dalle associazioni, non è un progetto bello e generoso alla ricerca di fondi, ma, inversamente, consiste in dei fondi preesistenti alla ricerca di un utilizzo filantropico. Ciò permette di chiarire il significato dell'articolo 2.1 dello statuto del Club dell'Aia per cui la fondazione è un ente «avente un reddito producente i fondi principali e una sorgente di reddito statutaria regolare per finanziarie le sue attività». E qui opportuno notare che i diversi sistemi giuridici definiscono l'atto di dotazione in modo disparato: il diritto francese lo considera come una liberalità fra persone private, quello tedesco vi vede una nozione di patrimonio di destinazione e l'anglosassone lo considera quale costituente una entità autonoma; comunque la maggioranza dei diritti nazionali vedono nella destinazione dei beni a uno scopo disinteressato, un elemento fondamentale della fondazione. 1. Le risorse interne Queste risorse sono, innanzitutto e essenzialmente, assicurate dal capitale che, per principio, è dato alle fondazioni in dotazione (dotazione in capitale) a titolo
iniziale e costitutivo, la cui destinazione deve essere il finanziamento dell'obiettivo staturario e delle attività connesse. Dato che le fortune, da un punto di vista storico, erano essenzialmente fondiarie, la nozione di fondazione si è vista conferire un carattere perpetuo che rispondeva precisamente al desiderio dei fondatori di vedere la loro memoria sopravvivere eternamente. L'oggetto della dotazione iniziale in capitale è dei più diversi e può portare su ogni elemento del patrimonio: - immobili o diritti immobiliari; - mobili; - valori di portafoglio, diritti di credito, di canoni o d'autore, così come fondi o contanti. Questa dotazione è destinata innanzitutto ad assicurare alla fondazione la sua prima sistemazione. La dotazione le deve permettere di disporre o di acquistare gli immobili necessari al suo funzionamento e i beni immobili che può dover conservare quale sua missione o di chi avrà bisogno a titolo di equipaggiamento. La dotazione ha anche quale oggetto il funzionamento della fondazione durante la sua vita. Si tratta, a fianco dei beni immobilizzati per natura o destinazione, del capitale finanziario che le permetterà di affrontare, attraverso redditi propri, i bisogni correnti. Ciò implica che il capitale finanziario iniziale dovrà essere investito in modo da ottenere il migliore rendimento annuale, assicurandogli così la conservazione, se non un plusvalore. Essendo le fondazioni istituzioni sen159
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za fini di lucro ci si può chiedere se sia lecito per una di esse sfruttare un'impresa commerciale o industriale. In Francia ciò non è possibile, anche nel caso che i profitti dovessero essere unicamente destinati per gli scopi indicati dallo statuto della fondazione. Diversa è invece la situazione in paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Svizzera e gli stati scandinavi. Sempre in materia di risorse proprie nulla vieta alle fondazioni di possedere, a titolo della loro dotazione, delle parti di società commerciali anonime, avendone addirittura la maggioranza del capitale. Il caso non è raro fra le fondazioni affiliate al Club dell'Aia, similmente a quel che si verifica negli Stati Uniti. Questa situazione pone però dei delicati problemi; essa mette la fondazic, ne nell'obbligo di dovere esercitare, anche se solo in modo indiretto, delle responsabilità industriali, il che non è la vocazione di un'organizzazione senza scopo di lucro. Ne potrebbero scaturire dei risultati finanziari mediocri o addirittura delle perdite dovute al fatto che le fondazioni devono, o si credono tenute a conservare i propri patrimoni mobili; infine, e soprattutto, possono nascere dei gravi rischi di confusione, se non di collusione, nelle relazioni d'affari della fondazione e dell'impresa, ciò che gli americani chiàmano il self dealing. Generalmente gli statuti sono silenziosi su questo punto, ma il principio d'indipendenza della fondazione dalle imprese che la sostengono finanziamente è comunque assicurato. Essendo la dotazione della fondazione 160
destinata a garantire il suo funzionamento, essa ha per principio un carattere intangibile se non inalienabile. La dotazione deve essere normalmente versata in un'unica soluzione sin dall'inizio, ma potrebbe, in via eccezionale, essere costituita in diversi momerìti. Se non sembra esistere una quota minima per il capitale di partenza, un principio generale dovrebbe esigere che, conformeaente alla sua finalità, la dotazione abbia caratteristiche che le permettano di assicurare il funzionamento della fondazione durante la sua vita. Si tratta dunque essenzialmente d'un problema d'equilibrio contabile e se ciò non figura negli statuti è che la giurisprudenza o la legislazione vigente se ne sono già preoccupati. 2. Le risorse esterne: sovvenzioni e fund raising A causa del loro carattere d'interesse generale, le fondazioni hanno una vocazione a ricevere ogni aiuto esterno. Esse possono così ottenere delle sovvenzioni dallo Stato, dalle collettività locali, dagli istituti pubblici o infine dalle imprese e dai particolari. Per ciò che concerne le sovvenzioni pubbliche, cisi può domandare se una fondazione interamente fi?ianziata dai poteri pubblici possa considerarsi ancora realmente indipendente: contrario al principio stesso del finanziamento delle fondazioni, il ricorso sistematico alle sole sovvenzioni pubbliche non saprebbe offrire tutte le garanzie richieste. Le fondazioni del Club dell'Aia non menzionano questa sorgente di red-
dito e, quando lo fanno, non è che a titolo accessorio, precisando che si tratta di accordi speciali per aiutare alcune iniziative specifiche (Fondazione Giorgio Cini, Fundaci6n Universidad Empresa). Le fondazioni possono anche ricevere delle sovvenzioni da parte delle imprese e non ci si stupirà di trovare tali casi in seno al Club. Una fondazione fiduciaria come la Fondation de France ha proprio come vocazione, riconosciuta dall'art. 17.4 del proprio statuto, ricevere tali versamenti. In materia di contributi da parte delle imprese, così come per le sovvenzioni pubbliche, le fondazioni devono prendere particolari precauzioni. Sembrerebbe necessario, da parte delle imprese, 1 impegno formale d assicurare per un periodo di tempo sufficientemente lungo la regolarità di questi versamenti. Più che lo statuto delle fondazioni, sono quelli delle imprese, infatti, che dovrebbero prevedere che una parte dei loro benefici annui debba essere distribuita a delle opere. Si può comunque citare l'articolo i della Bank of Sweden Tercentenary Foundation che prevede che una «parte eccedente delle attività della Banca nazionale» sarà messa a disposizione della fondazione. Il problema essendo allora dj determinare se questo versamento può analizzarsi come sovvenzione d'impresa o come sovvenzione pubblica, o i due insieme. A fianco delle persone pubbliche e delle imprese, le fondazioni possono, infine e soprattutto, indirizzarsi ai particolari per ottenerne le liberalità. Si tratta della
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sorgente più importante dei fondi filantropici privati, e il regime delle fondazioni dona loro delle possibilità eccezionali. Nessuna l'esclude e le legislazioni sono incitatrici, soprattutto fiscalmente. Comunque una fondazione non dovrebbe sostenersi sul semplice sconto di liberalità che è per sua stessa natura, a carattere eminentemente aleatorio. Necessariamente in tal caso la fondazione dovrebbe essere organizzata sotto la forma di una fondazione collettiva e fiduciaria, a l'esempio dei community trusts americani. E il caso, in seno al Club, della Stifterveband fi2r die Deutsche Wissenschaft e della Fondation de Franceche sono tutte due delle fondazioni aventi come vocazione quella di ricevere ogni liberalità, di amministrarla e di ridistribuirla, conformemente ai desideri dei donatori, a profitto di ogni azione d'interesse generale. Quest'apporto dei particolari può andare al di là, finanziando un'organizzazione speciale, a carattere ancora più collettivo, che permetta la messa in opera di metodi di fund raising. E il caso, per una parte almeno, della Fondation de France, eccezionalmente della Fondaciòn General Mediterranea: «contribuzioni di campagne di fund raising a dei fini specifici aperte quando la fondazione li stima necessari)). Inversamente, alcune fondazioni del Club dell'Aia escludono questa possibilità nei loro statuti, come, per esempio, la Bernard van Leer Foundation, il cui articolo 3 stabilisce: «la fondazione si astiene in principio all'acquisizione di fondi attraverso il ricorso alla 161
solidarietà pubblica». 3. Le fondazioni sènza capitale Le risorse di finanziamento delle fondazioni essendo ampie e delle più varie, ci si può domandare se l'esistenza di fondazioni senza dotazione di capitale non sia possibile. Se all'origine delle fondazioni non era praticamente concepibile altro modo per crearle e finanziarle, la situazione si è evoluta e le fortune dei particolari non sono più quelle che erano, almeno in valori relativi. Così, le fondazioni potrebbero ricorrere a dei nuovi modi di finanziamento, adottando, a loro volta, al lato della tradizionale capitalizzazione, dei metodi più o meno ispirati alla répartition. Inoltre, gli Stati Uniti conoscono già una moltitudine di fondazioni d'impresa o anche di famiglie che non comportano alcuna dota. zione di capitale e non sono alimentate che dai versamenti annuali da parte dei fondatori. Questo sistema non è sconosciuto in seno al Club dell'Aia, al punto di rappresentare 80% dei redditi della Ciba Foundation. Leggendo lo statuto della Stifterberband fi2r die Deutsche Wissenschaft ci si può domandare se essa abbia un capitale o se non viva esclusivamente grazie ai contributi annuali delle sue migliaia di membri. Le risorse di queste fondazioni possono molto variare da un anno all'altro secondo la congiuntura economica, così che esse non sono vitali che al prezzo di non impegnarsi in operazioni comportanti eccessivi costi fissi. Ciò significa che si 162
tratta di grant - making foundations e non di operating foundations. Le nuove fondazioni collettive e fiduciarie che sono le community foundations conoscono un grande sviluppo negli Stati Uniti, sia perché esse hanno saputo adattarsi alle nuove strutture e condizioni finanziarie della società moderna che perché hanno saputo proteggersi con ogni garanzia. contro gli abusi.
ALLOCAZIONE DEI FONDI: L'AlTIVITÀ, I BENEFICIARI E GU ORGANI DECISIONAU
1. Tipi di attività Per compiere la propria missione, quale è stata espressa negli statuti attraverso il principio di oggetto o di scopo, le fondazioni devono mettere in opera certi mezzi e fare prova d'intraprendenza. Così come per gli scopi, le.fondazioni devono definire questi mezzi nei loro statuti. Ciò avviene, nella maggioranza dei casi in modo indicativo, cioè non limitativo, come invece per l'oggetto. I mezzi devono essere appropriati agli scopi che persegue la fondazione e conformi al suo spirito. Questi mezzi devono dunque rimanere leciti, cioè conformi alla legalità, a l'ordine pubblico e ai buoni costumi. Questi mezzi devono anche e soprattutto avere un carattere disinteressato e dunque escludere qualsiasi carattere strettamente speculativo o anche solo esclusivamente commerciale. Dall'esame dei diversi statuti delle fondazioni facenti parte del Club appare
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una gamma di mezzi molto estesa fra cui: - manifestazioni culturali, artistiche, scientifiche; - programmi di studio e di ricerca; - strutture da gestire, quali centri sociali o culturali, musei, centri d'incontro e di scambio; - allocazioni a terzi: borse, premi, viaggi, studi; - ogni mezzo d'informazione e diffusione, attraverso ogni media: pubblicazioni, riproduzioni, opere, collezioni. La scelta dei mezzi delle fondazioni pone diversi problemi, di cui uno, fondamentale, consiste nel determinare se la fondazione deve agire direttamente o attraverso la via della distribuzione - redistribuzionea terzi. Cosa avvenga in seno al Club dell'Aia è stabilito dall'articolo 2.1 dello statuto che definisce la fondazione quale grant - making o/e operarional institution. Le due categorie dunque coesistono o sono suscettibili di farlo nel Club dell'Aia. Naturalmente, le fondazioni del Club sono conosciute principalmente come grant —making foundation, ma ciò non impedisce un'attività d'azione diretta parallela. E difficile trovare una fondazione che non amministri il suo centro, sia esso di ricerca, di documentazione o di studio. Un esempio d'attività parallela alla ridistribuzione che si trova largamente in seno al Club è la gestione diretta di un museo. Citiamo, così a caso, i musei che dirigono la Carlsberg Foundation, la Fundaao Calpuste Gulbenkian o il Wellcome Trusts.
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Per concludere con questo problema di scelta fra l'azione diretta o l'azione indiretta (ridistribuzione), si può segnalare, a titolo di riflessione più generale, che le fondazioni, soprattutto quelle d'impresa o di fund raising, il cui finanziamento non è assicurato da una dotazione in capitale, ma dipende dalle risorse esterne, non hanno altra scelta che quella di agire per la via della ridistribuzione di quello, che possono ricevere ogni anno, con l'esclusione di ogni gestione diretta carica di spese non riducibili. Inoltre, appare dall'esame delle loro attività, che le grosse fondazioni, quali la Thyssen Stiftung o la Wolkswagenwerk Stiftung, concentrano la loro attività nella distribuzione di doni e di aiuti, mentre quelle di taglia più modesta preferiscono, al contrario, essere piuttosto operative. E interessante notare che è quasi sparita ogni menzione di attività filantropiche dagli statuti (in quanto opposte agli aiuti a dei progetti precisi di sovvenzioni per la ricerca). Per quel che riguarda le attività perseguite dalle fondazioni, uno studio fatto dal Club nel 1986 indica che 19 fondazioni (73%) si concentrano sulle scienze sociali e sul benessere, 17 sulla medicina e nutrizione, mentre il campo d'attività meno menzionato è quello della comunicazione e delle nuove tecnologie d'informazione che interessa le fondazioni (42%). L'ultimo grande problema che pone alle fondazioni la scelta dei propri mezzi è di sapere se, in caso di gestione diretta di uno stabilimento e di un programma, 163
esse possono darsi a delle attività remunerate: vendita di prodotti o prestazione di servizi. In gran Bretagna la risposta tradizionale è totalmente restrittiva: una charity non deve avere alcuna attività lucrativa, nemmeno, sembra, la vendita di carte di beneflcienza. Per gli altri paesi la situazione è più imprecisa e, se il carattere disinteressato delle fondazioni vieta loro di perseguire la realizzazione di benefici da distribuire a degli aventi diritto, non è loro impedito di realizzare degli eccedenti di ricette da ridestinare in investimenti o spese correnti. Rimane però la consapevolezza che sul piano pratico l'esercizio di simili attività possa imporre certe obbligazioni e servitù alle fondazioni, soprattutto in materia d'imposte e di responsabilità. E per questo che le fondazioni che possono distinguere le loro attività remunerate da quelle non lucrative concedono spesso lo sfruttamento delle prime a dei terzi qualificati quali commercianti. Gli statuti sono su questo punto a volte imprecisi e il più spesso silenziosi; la risposta al problema non può allora che trovarsi nei regolamenti interni e nelle decisioni del Consiglio d'Amministrazione delle fondazioni. Bisogna anche considerare la compatibilità o meno dell'esercizio d'attività economiche con lo strumento della fondazione. Una simile compatibilità è stata a volte affermata, particolarmente nel diritto tedesco, a partire della constituzione della Fondazione Cari Zeiss nel 1898, dato che la struttura della fondazione applicata all'impresa si manifestò atta a permettere di legare 164
l'attività di grandi complessi industriali a delle finalità determinate e controllate, alla condizione di rispettare degli obiettivi dichiarati dalla fondazione. Uno dei segni distintivi della fondazione è che il suo patrimonio è sottratto all'influenza del diritto di successione e delle tasse. Questo pone un problema in ciò che concerne le fondazioni aventi una impresa e comunque collegate a delle imprese, perché il diritto tedesco ignora, contrariamente al diritto angioamericano, la legittimazione automatica della fondazione dal fatto che essa persegue un fine caritatevole. Si può citare a titolo d'esempio quelle grandi fondazioni industriali private di creazione recente che associano il desiderio di partecipare attivamente alla politica sociale al disegno di assicurare la sopravvivenza dell'impresa per il più grande numero di generazioni come la Robert Bosch Stiftung. In Inghilterra, si può citare il Weicome Trust che condivide con la van Leer Foundation il privilegio quasi unico di detenere l'integrità del capitale di una impresa industriale, ciò che fra l'altro non appare nello statuto. Parallelamente, il principio fondamentale secondo il quale il profitto proveniente dai beni di una charity appartiene alla comunità evita che delle imprese commerciali si facciano passare per delle fondazioni per beneficiare dei vantaggi fiscali afferenti allo statuto di una charity. Il caso dell'Olanda è particolarmente interessante perché si considera che la ricerca di un profitto non è incompati-
bile con il principio della fondazione e lui stesso, dopo avviso autorizzato, i che essa ha il diritto di fare dei benefici beneficiari ultimi del charitable trust. fino a quando essi saranno utilizzati per Questi stessi principi s'applicano alle uno scopo ideale. Inversamente, gli sta- fondazioni. I loro beneficiari, non conotuti di certe fondazioni vietano simili sciuti in anticipo, non possono che scaattività economiche. Così nell'articolo 2 turire dalla libera e coscienziosa scelta dello statuto della Fondation de France si del Consiglio d'Amministrazione, che vieta " ogni sfruttamento diretto di ogni agisce in ciò conformemente alla lettera impresa o di ogni stabilimento a carat- e allo spirito dello statuto. Nella pratica, tere industriale o commerciale, e ogni il principio della specificazione in Franpartecipazione non minoritaria al capi- cia, o la necessità per un trust anglosastale d'una società". Notiamo, per finire, sone di essere enforceable, conducono a il declino patrimoniale durante gli anni precisare le cose negli statuti, preveden'70 delle fondazioni culturali private in do d'anticipo ogni categoria di beneficiaItalia, avendo l'elevato tasso d'inflazione ri definita in riferimento a dei criteri eroso le rendite da capitale. d'utilità generale: i poveri in generale, o i tjoveri di una precisa comunità. Questi criteri di selezione non devono 2. I beneficiari Il principio d'interesse generale s'appli- comportare alcuna discriminazione raca sia alle gran t—makig foundations che ai ziale o religiosa o di sesso, salvo, precisamente, per combattere o correggere, a trusts detti caritatevoli. A chi dunque queste grant—making foundations conce- profitto delle minoranze, tali discriminadono dei fondi? Votate per principio zioni. Il principio dell'esclusione di ogni discriminazione, nominale e in anticiall'interesse generale, le fondazioni fanno in definitiva beneficiare delle loro po, per ogni beneficiano particolare non gioca nel caso delle persone morali che azioni delle persone fisiche o morali sarebbero esse stesse d'interesse generadeterminate. Esse hanno dunque dei le. Così si può sempre, per via di una beneficiari privilegiati. I trusts detti caritatevoli, cioè d'interesse pubblico, diffe- liberalità condizionata, se non addiritturentemente dai trusts privati, d'interesse ra nello statuto, imporre a una fondaziopersonale e familiare, non possono es- ne di fare beneficiare della sua attività sere orientati al profitto di persone par - una specifica istituzione o organismo di interesse generale dando a quest'ultimo ticolari denominate, ma solamente di il potere di scegliere egli stesso i destinapersone definite in rapporto all'interestari ultimi dell'operazione. Così, per se generale. Il beneficiano non è un individuo identificabile, ma la comunità esempio, la Fondation Roi Baudoin preo una classe della comunità. Il beneficia- cisa nell'articolo 5 del suo statuto, che rio ha dunque, a priori, un carattere sia possibile definire in modo specifico anonimo e spetta al trustee di scegliere la destinazione dei doni e legati. Il do165
natore può infatti desiderare che il suo contributo sia utilizzato per un obiettivo di sua scelta, la fondazione potendo, sotto riserva dell'accordo del suo Consiglio d'Amministrazione, creare dei fondi per oggetti specifici. Una voka definiti i beneficiari per grandi categorie non resta che identificarli individualmente. Questa responsabilità decisiva appartiene in proprio ai trustees e al Consiglio d'Amministrazione. Essa si pone comunque in termini diversi secondo che si tratti di una fondazione di gestione diretta o di una fondazione di distribuzione. Nel primo caso, i beneficiari si trovano automaticamente - anche se a volte indirettamente - raggiunti dall'azione stessa della fondazione, che si tratti dei malati dell'ospedale gestito e dei visitatori del museo, o degli scienziati associati al programma di ricerca. Nel secondo occorre fare una scelta personale. Lo studio realizzato dall' European Culturai Foundation sul ruolo delle fondazioni del Club dell'Aia in Europa mostra che 15 membri apportano il loro sostegno a delle istituzioni la metà delle quali appartengono a loro stesse. Ma la maggioranza delle fondazioni del Club sovvenziona degli individui identificati in particolari categorie quali i ricercatori, gli studenti o i professori. Alcune fondazione escludono però in modo esplicito questa possibilità. La Bernard van Leer Foundation e la Stiftung Voikswagenwerk vietano ogni assistenza diretta a delle persone individuali. La scelta di indirizzarsi agli individui è giudiziosa, perché 166
il genio inventivo è frutto dei singoli piuttosto che delle organizzazioni burocratiche, anche se private. In più, la sovvenzione a un'associazione rischia di dover essere continùa, a meno di non tagliarle bruscamente i viveri, cosa che non esitano a fare le fondazioni americane. Conviene sottolineare che certe legislazioni vietano in modo specifico alle fondazioni di fare delle donazioni ai loro fondatori e a volte alle loro spose e figli, o a quelli che vi contribuiscono. 3. Definizione delle attività, identificazione dei beneficiari: importanza e poteri dell'organo responsabile. Lo statuto del Club dell'Aia, nell'articolo 2.1 relativo alla definizione della fondazione, menziona con evidenza l'organizzazione: "gestita dai propri amministratori o direttori, e organizzata in modo tale da potere intraprendere un'azione creativa, e da ottenere delle realizzazioni professionali oggettive nel proprio campo d'attività". Due caratteristiche sono evidenti: la discrezionalità lasciata alle fondazioni per quel che riguarda il proprio modello organizzativo, e la necessità per la fondazione di avere il suo proprio Consiglio d'Amministrazione senza doversi rimettere a una istanza esterna. Designato in modo generico sotto il nome di Consiglio d'Amministrazione o di Board of Trustees, l'organo direttivo porta in realtà nominativi vari. Così si chiama Junta rectora (Fundaci6n Universidad Empresa), Executive Council (Ciba Foundation) o ancora, più semplicemente Direcrion (Prins Bernhard
Fonds, Bank o Sweden Tercentenary Foundation). Ognuna di queste fondazioni ha il suo proprio Consiglio d'Amministrazione (interno e esclusivo della fondazione) il quale può però essere designato da un'organismo esterno come succede, per esempio, in Svezia. Gli statuti esaminati presentano la caratteristica di consacrare delle clausole di importanza eterogenea, sui poteri conferiti al loro organo direttivo. Essi sono notevolmente diversi sia per la lunghezza delle clausole che per il loro contenuto. Alcuni statuti non consacrano che uno spazio ridotto alla definizione dei poteri degli organi direttivi, mentre altri vi dedicano numerose disposizioni (le fondazioni britanniche ne sono un buon esempio). Ma, evidentemente, il posto consacrato a questi poteri negli statuti è una scelta che non influisce sulla loro esistenza reale dato che possono essere indicati in modo generale o essere altamente specificati (poteri di gestione della fondazione per esempio). E raro che l'organo direttivo sia il solo organo previsto dallo statuto della fondazione. L'articolo 3 dello statuto della Fondation de France ne è un esempio: "La Fondazione è amministrata da un Consiglio assistito da un comitato giuridico e finanziario e da comitati tecnici". In un certo numero di statuti si trovano delle commissioni essenzialmente di due tipi: finanziarie (commissione del controllo dei conti nell'articolo 24 dello statuto della Fundaao Calouste Gulbenkian, la cui presenza è fra l'altro resa
obbligatoria dalla legislazione portoghese) e scientifici (se ne trova menzione, peresempio, nell'articolo 11 dello statuto della Fondation de France "Comitati tecnici scientifici", o nell'articolo 4 dello statuto della Bank of Sweden Tercentenai-y Foundation "Consiglio e Comitati di ricerca"). Certi statuti menzionano la possibilità di creare tali comitati (affari culturali, sociali, scientifici, per l'educazione ... ). E il caso della Fondation de France il cui articolo 11 dichiara che tali comitati "sono creati dal Consiglio d'Amministrazione in funzione del bisogno" e la European Cultural Foundation come la Fundaao Calouste Gulbenkian hanno degli articoli aventi il medesimo oggetto. Si trova ugualmente molto spesso negli statuti la presenza di un organo ristretto, sotto le più diverse denominazioni quali "ufficio" (Fondation de France, Euro pean Cultural Foundation, Prins Berrthard Fonds) o ancora "comitato esecutivo" (Ciba Foundation, Bernhard van Leer Foundation). La presenza di una commissione di consultazione, incaricata d'un ruolo di consiglio presso l'organo direttivo della fondazione è ugualmente frequente negli statuti delle fondazioni esaminati. Si può citare il Consejo de Patronato della Fundaci6n Juan March, il Patronato della Fundaci6n Universidad Empresa, che però non ha che un ruolo di semplice consiglio contrariamente a ciò che il suo ruolo di semplice consiglio contrariamente a ciò che il suo nome potrebbe far credere, il Advisory Panel della Ciba 167
Foundation. Altrove si trova, sebbene più raramente, la menzione di un Segretariato (Fondation Roi Baudoin o Fondation Nestlé). Infine, l'esistenza di Presidenti e di Direttori è, in modo molto comprensibile, spesso prevista (Fondazione Adriano Olivetti, Fritz Thyssen Stif. tung, Fondation de France ... ).
LE OPERAZIONI A UVELLO INTERNAZIONALE
L'articolo 2 dello statuto del Club dell'Aia precisa che, per essere inclusa, un'istituzione deve operare in qualche modo a livello internazionale. Non v'è qui nulla di strano per un Club che si vuole, secondo il suo sottotitolo, "un corpo costituito di fondazioni europee". Comunque, se il Club è europeo quanto alla nazionalità delle fondazioni che Io compongono, ci si può domandare se queste non siano impregnate di cultura nazionale quanto alla loro attività. In effetti, secondo la volontà del fondatore, la natura dell'oggetto e soprattutto l'ampiezza dei suoi mezzi, la fondazione, può avere secondo il suo statuto un campo d'azione più o meno ampio. Questi può essere solamente locale: diverse fondazioni gestiscono delle istituzioni a carattere essenzialmente locale (ospedali per esempio). Negli Stati Uniti la grande maggioranza delle piccole e medie fondazioni concentrano i loro sforzi geograficamente su una località specifica (in particolare le community foundations). Può però essere anche regionale, e ce ne sono sempre di più. E il caso in Francia 168
della Fondation scientifique du Sud—Est, per la regione di Lione o negli Stati Uniti delle fondazione Moody and Penne che concentra le proprie attività soprattutto in uno Stato. Il campo d'azione è molto spesso nazionale, anche se le fondazioni esercitano anche delle attività più ampie come la Fondazione Olivetti e la Stiftverband fir die Deutsche Wissenschaft. Infine esso può superare le frontiere nel caso delle fondazioni a vocazione o a carattere internazionale, perché esse esercitano una parte delle loro attività all'estero (Ciba foundation, Fondation Nestlé, Euro pean Cultural Foundation ... ). La maggioranza di queste fondazioni privilegiano però il loro paese o esigono un forte legame con il loro luogo d'origine: E opportuno menzionare un'ultima caratteristica delle fondazioni non senza interesse per questo articolo: " ... Le fondazioni sono di una tale ricchezza che, sebbene esse siano limitate a delle frontiere nazionali o regionali, la loro attività si sviluppa su una scala così grande che esse hanno un impatto internazionale attraverso il proprio esempio, il proprio prestigio e il lavoro dei borsisti che esse dotano o delle istituzioni che aiutano". Si può citare a tal proposito la Fondation Roi Baudoin che, nel suo articolo 3, sostiene le attività miranti al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione belga considerando diversi fattori fra cui quelli internazionali, che potrebbero influenzare, anche in modo indiretto, l'evoluzione del paese nei prossimi anni. Ilcriterio d'internaziona-
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lità è anche qui presente, sebbene in modo tenue. Di regola generale, considerando le attività delle fondazioni in seno al Club, si può affermare, come dichiarava in un rapporto M. Rayrnond Georis, Presidente del Club dal 1983 al 1985, che, "malgrado che le nostre fondazioni aiutino in modo predominante delle operazioni internazionali e non sono in alcun modo esclusivamente europee in questo, esse possono comunque vantare dei risultati europei molto incoraggianti". Gli statuti di alcune delle fondazioni del Club sono chiaramente indirizzati verso delle attività a carattere internazionale. Lo studio preparato nel 1986 dall'European Cultural Foundation mostra che 21 fondazioni (81%) aiutano dei progetti in paesi europei altri che il proprio. Delle 16 (62%) che aiutano delle iniziative negli Stati Uniti quattro restringono la loro dimensione internazionale alla cooperazione fra l'Europa e questo paese: la Calrsberg Foundation, la Robert Bosch Stiftung, la Fundaci6n Juan March e la Fondazione Giorgio Cmi. Naturalmente, tali decisioni rilevano dalla politica generale della fondazione e, naturalmente, clausole precisanti gli Stati Uniti come paese beneficiano non sono presenti negli statuti. I paesi del Commonwealth figurano nel programma d'attività delle fondazioni del Regno Unito e di sei altre fondazioni, il che fa un totale di dieci fondazioni. Altra constatazione interessante dello studio preso a riferimento è il fatto che
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undici fondazioni di sei paesi hanno delle attività con il Giappone. Infine, per quel che riguarda i paesi in via di sviluppo, si può rilevare che "sebbene 22 fondazioni aiutino direttamente o indirettamente delle iniziative nel mondo sviluppato, di cui 7 in modo esclusivo, numerose fondazioni del Club dell'Aia provano in modo evidente il loro impegno in favore del terzo mondo". Sono infatti 17 le fondazioni appartenenti a undici paesi europei che contribuiscono in modo diretto o indiretto a risolvere i problemi della popolazione nei paesi in via di sviluppo. Appare chiaramente da queste statistiche che tutte le fondazioni del Club, a dei livelli diversi, hanno un'attività internazionale, sebbene in modo molto eterogeneo. Una fondazione come la Kòningin Juliana Fonds che distribuisce il 90% dei suoi doni a dei progetti nei Paesi Bassi risulta come "donante dell'aiuto a delle istituzioni o a dei progetti di alcune organizzazioni di paesi del terzo mondo" quali l'Indonesia o il Suriname. La stessa relatività esiste negli statuti: la Fondation de France ha delle attività in favore del terzo mondo che non sono identificabili dalla sola lettura del proprio atto costitutivo. Al contrario, gli statuti di alcune fondazioni sono risolutamente indirizzati verso delle attività internazionali: il nome stesso della Fondation Nestlé, "Fondation Nestlé pour l'étude des problèmes de l'alimentation dans le monde" è eloquente, ciò viene confermato dall'articolo 4 dello statuto che stabilisce che l'obiettivo deve essere rag169
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giunto "particolarmente nei paesi in via di sviluppo" . Interessante è l'articolo 2.1 della Bernard van Leer Foundation che precisa che "i progetti [devono essere realizzati], preferibilmente se non esclusivamente, nei paesi dove una società van Leer è stabilita". E stato così possibile scrivere che questa fondazione "spende più di 95% dei suoi redditi fuori dai Paesi Bassi, il suo paese d'origine. E la sola fondazione conosciuta nel mondo che utilizza la maggiorparte dei suoi redditi in paesi altri che il proprio". Conformemente alla ragione d'essere del Club, 81% delle fondazioni membre sostengono dei progetti in paesi europei diversi dal loro. Si trovano anche 8 fondazioni operanti in 10 paesi europei o più: il Wellcome Trust, la Ciba Foundation, la Volkswagenwerk Stiftung, la Fundaao Calouste Gui benkian, la European Cuirurai Foundation,la Bernard van Leer Foundation e il Prins Bernhard Fonds. Bisogna notare comunque che solo due fondazioni limitano le loro attività alla dimensione europea. Si tratta delle Euro pean Cultural Foundation il cui articolo due dello statuto indica chiaramente il sostegno alle attività" a carattere europeo " . Segnaliamo infine il grande numero d'iniziative definite europee senza essere multinazionali, per esempio, quando il finanziamento concesso dalla fondazione resta nel paese d'origine della stessa (caso dei centri di studio europei, dei cicli di conferenze europee, ecc.). Si può citare qui il Leverhulme Trust, la Fundaci6n Juan March o la Fondazione Giorgio Cmi. FPLI]
CONCLUSIONE
Lo studio degli statuti delle fondazioni raggruppate in senso al Club dell'Aia ha mostrato una grande diversità a livello degli obiettivi e delle attività come a quello del Club dell'Aia non è un gruppo omogeneo di fondazioni identiche, ma un affresco rappresentativo dei diversi tipi di un quadro potenziale e limitato dell'attività reale che esse esercitano ; nell'insieme le azioni delle fondazioni sono infatti molto più ampie degli obiettivi citati negli statuti. Per quel che riguarda il loro patrimonip, le fondazioni si costituivano in passato grazie a una dotazione iniziale importante (definizione della fondazione stricto sensu), mentre oggi le contribuzioni annuali tengono un posto sempre più rilevante, tanto che sembra che si stia andando verso delle fondazioni senza dotazioni di base. Anche per quel che concerne l'organizzazione delle fondazioni gli statuti sono molto eterogenei, alcuni essendo molto brevi altri al contrario molto particolareggiati. Se appare che le fondazioni siano attualmente un poco ovunque in crisi, con la distanza di una prospettiva storica, si può però notare che questi istituti, vecchi come il mondo civilizzato, hanno già conosciuto ben altre crisi e le hanno tutte superate. Sembra inoltre che si tratti di una crisi di crescita dato il rinnovamento che le caratterizza' da una quindicina d'anni da ogni punto di vista, sia esso il numero di nuove creazio-
ni, il loro regime giuridico e fiscale o i loro tipi e i loro metodi. Cambiamenti a cui partecipano attivamente le fondazioni del Club dell'Aia. In realtà il loro solo vero problema di principio che stanno affrontando è quello del loro regime: come tutelare la loro libertà d'azione e quali garanzie ricercare. In conclusione possiamo ripetere le parole di Michel Pomey "fin quando ci saranno ancora - fisco permettendo - dei veri
fondatori, cioè dei soci capaci di offrire dotazioni, siano di un nuovo tipo, più collettivo che individuale, in redditi non meno che in fortune, queste istituzioni venute dalla notte dei tempi, che sono le fondazioni, sono anche degli istituti per l'avvenire comunque oggi più che mai".
(Traduzione di Bernardino Casadei)
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Archivio media Riprendiamo il tema dei media, sul quale gict altre volte ci siamo soffermati per individuare il valore che la nostra societĂ attribuisce alla comunicazione. In un sistema frammentato e pluralista nella manifestazione di porte. ri ed interessi, risulta frammentario e pluralista anche l'uso che della comunicazione viene fatto. Ma la comunicazione conserva la sua individualitĂ , oppure deve uniformarsi ai criteri di omogeneizzazione necessari per renderla fruibile per la societĂ di massa? 173
Comunicazione e riforme istituzionali
COMUNICARE PER OUENERE RiFORME E MODELlARE IL COMPORTAMENTO PER OTtENERE ALLEANZE
di Federico Spantigati Una riforma istituzionale che passa attraverso i media non raggiungerà mai risultati se non di mantenimento delle strutture esistenti; in una società di trasformazione come quella italiana attuale le riforme attraverso le tecnologie dei media, sono irrealizzabili. Quale è una strategia di comunicazione che permette oggi di ottenere dei mutamenti? Una prima risosta va ricercata in una strategia che punta non sulla comunicazione, ma sui comportamenti, ossia utilizza la comunicazione come modo di far giungere la conoscenza del comportamento ai destinatari interessati. Questo è anche il nucleo centrale di Correnti, associazione di cultura della comunicazione, fatto che può sembrare strano perché di solito i comunicatori si pagano affinché questi si awaigano dei media quali strumenti di comunicazione. I comunicatori hanno una funzione non in quanto modellano la comunicazione, essendo esperti di linguaggio, ma in quanto modellano i comportamenti dei soggetti che vogliono comunicare e
in quanto sono esperti dei rapporti e degli interessi in gioco tra i soggetti stessi. La comunicazione è il contatto dei comportamenti. La comunicazione è far conoscere al destinatario il comportamento, eliminando per quanto è possibile la mediazione dell'elaborazione dell'informazione, senza trasformare con la comunicazione l'informazione sul comportamento affinché sia conosciuta dal destinatario una informazione a lui più accettabile. La concezione della comunicazione da affinare è una concezione non strumentale ma sostanziale; quindi, non mezzo di trasmissione di dati al di sopra della realtà dei fenomeni. In tema di riforme ad esempio è una comunicazione che non ha la proposta della riforma da presentare a chi deve decidere,'ma ha il fine della riforma da presentare a chi deve decidere per discutere con lui come chi deve decidere deve modificare nella riforma il proprio comportamento, anziché decidere nella riforma per sé e per gli altri. I destinatari della comunicazione per le riforme istituzionali non sono le istituzioni che devono essere modificate, come erroneamente credono i promotori del referendum, a cominciare da Giannini, che provocano i cittadini ad espri175
mersi per modificare con la loro volontà le istituzioni, ma gli altri interlocutori delle istituzioni, a cominciare dai partiti, che devono con le riforme modificare il loro comportamento verso le istituzioni. Non serve, ad esempio, modificare le regole elettorali quando non si modifica il modo di utilizzare le regole all'interno dei partiti. Questo modo di considerare il tema, che mi sembra chiaro nella proposizione negativa relativa ai media, è stato condiviso da varie persone di Correnti che hanno partecipato al dibattito in corso in questi mesi. Sulle motivazioni della affermazione che ho fatto relativa al tema ci possono essere varie spiegazioni. A tale riguardo ho preparato una giustificazione di principio basata su tre ordini di considerazioni: - il livello costituzionale, ossia il modo in cui procedono le riforme costituzionali nel nostro paese; - il livello basso delle amministrazioni ; - il livello della diversificazione territoriale degli enti locali. Al livello degli enti locali si è pervenuti alla legge sulle autonomie locali e al fatto che gli enti locali devono elaborare, oggi, delle decisioni in ordine alle loro riforme. Il modo in cui si è giunti a questa riforma è significativo in quanto si confrontavano due posizioni: - Giannini - la razionalizzazione del sistema; - Pototschnig - la continuità del sistema tradizionale rinnovato. La prima posizione nella comunicazione è analoga a quella che si sta sostenendo per le riforme istituzionali attraverso i 176
referendum, cioè comprovare con la comunicazione la bontà delle proprie affermazioni. E una posizione che vede al di là della ragione. Passioni, affetti, sentimenti, atteggiamenti quali la pietas, la carità, l'amore le sono estranei. Uno scarto umano per questa razionalità è uno scarto umano, non l'obiettivo delle riforme perché, in conformità all'art. 3 comma secondo della Costituzione, esso cessi di essere uno scarto umano. Le riforme proposte dalla razionalità riguardano solo l'art. 3 comma primo della Costituzione, non il comma secondo. La seconda posizione si esprime nella comunicazione all'opposto: non fare azioni pubbliche a sostegno della riforma proposta, perché sarà attraverso la progressiva introduzione di riforme da parte degli enti stessi che dovrebbero essere oggetto di riforme che avrà luogo la riforma. La comunicazione è il comportamento degli enti locali, non l'informazione per la decisione sugli enti locali. Come sappiamo, ha vinto la seconda posizione. Quanto agli altri due livelli di considerazioni che giustificano la mia impostazione del tema (che è l'impostazione di Correnti) ne parleranno altri nel corso del dibattito.
LA
NOVITÀ COSTITUZIONALE DI CossiGA È ESSERE
COMUNICATORE DI SÈ STESSO, SENZA INTERMEDIARI
di Francesco D'Onofrio
Da parte dei soggetti titolari di poteri di decisione formale, assistiamo oggi ad
una sottovalutazione riguardo alla comunicazione delle riforme o del sistema delle alleanze possibili. Vi è una produzione eccessiva di opinioni da parte degli operatori e dei dirigenti politici e una sottovalutazione delle strategie di comunicazione. In questo ambito si può collocare, ad esempio, la specifica modernità della presidenza Cossiga. Sulla questione della presidenza credo sia giusta la valutazione di Federico Spantigati, ma con una precisazione: le sue riflessioni sono ancora poco valutate da un punto di vista della raccolta di alleanze politiche possibili, affinché le proposte di Cossiga si realizzino. La causa della quasi indifferenza da parte del sistema politico è da ricercare nell'uso dei media in modo dirompente, tanto da provocare un insieme di reazioni (tra le quali anche sensazioni di fastidio), una sorta di estraneità dalle proposte del Presidente. Sul versante della discontinuità costituzionale, caratteristica della presidenza Cossiga, la volontà di cambiamento è così contraddittoria che sembra non voglia produrre alcun cambiamento. La discontinuità sta dunque prendendo piede, anche se non è detto che si trasformi nelle proposte (ammesso che Cossiga abbia delle proposte). Egli passa per presidenzialista, ma non credo che questo sia il modello che predilige; certamente è meno istituzionale e più radicale nella discontinuità che è propria della sua comunicazione, ed è un modello che chiunque voglia contrastar-
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lo deve adoperare. I leaders politici che intendono operare sullo stesso terreno non possono fare a meno di adottarla. Fino ad ora non hanno ancora colto dal modello Cossiga il messaggio di uso della comunicazione senza intermediario. Cossiga è, infatti, comunicatore di sé stesso, è contemporaneamente propositore e comunicatore delle proposte. Questa mi sembra la novità con cui il mondo della comunicazione si deve confrontare. Stiamo entrando in un contesto in cui il giornalista intermediario cessa di avere una esclusiva funzione di ponte tra la società e il "palazzo", (prima ritenuto "impenetrabile" perché non comunicava con l'esterno). In questo contesto la comunicazione saldava l'opinione pubblica diffusa e lo strato dei dirigenti del paese. L'ipotesi Cossiga tende invece a mettere in difficoltà la funzione di ponte degli operatori della comunicazione. Esalta la comunicazione, ma la gestisce in proprio. Credo che questo diventerà un modello diffuso, più attraente per chi vuole assumere nella comunicazione un ruolo da protagonista, in tutti quei campi - economico, politico, finanziario, artistico che realizzano la distinzione tra chi propone e chi apprende. Chi comanda prende la decisione ed il resto del mondo l'apprende nei modi, forme e tempi che la comunicazione determina: è questa funzione sacerdotale della comunicazione che viene messa in discussione. Si tratta di una fase di transizione, di disaggregazione dei sistemi di governo 177
del paese, alla ricerca di nuovi equilibri e di nuove aggregazioni, di nuovi livelli istituzionali, fase in cui occorre essere propositori di idee e protagonisti del linguaggio con cui le idee vengono proposte. Vediamo come ciò incide sui fatti. La legge 142, ad esempio, è una legge molto importante, ma priva della capacità di raggiungere la gente per far sapere che attraverso questa lege si aprono canali di influenza sulla decisione amministrativa prima inesistenti. E un caso clamoroso di mancato governo della comunicazione, perché nessuno dei numerosi protagonisti ha vissuto la confezione di questa legge. In questo modo la vecchia abitudine di fare la legge attendendo che qualcuno ne parli, ha condotto a non produrre molte cose che la legge avrebbe potuto realizzare. C'è ancora chi si chiede se per ottenere un provvedimento amministrativo sia necessario essere iscritti ad un partito politico. E infatti è passata inosservata quella parte della legge 142 che tenta di distinguere la politica dall'amministrazione. Tutte le grandi riforme di cui parlano i partiti sono ancora incomprensibili: credo che chi voglia produrre risultati politico/legisitivi ron possa continuare a dialogare con la gente attraverso intermediari, che assorbono la proposta, la traducono nel linguaggio della gente e suscitano un consenso, oppure un dissenso. Siamo in una fase di modifica rilevante: sia per il modo in cui la vita politica si svolge e si organizza, che per il modo in cui la vita dell'informazione si organizza e si svolge. 178
LA
NOVITÀ NELLA COMUNICAZIONE PUBBLICA È
FARE IL SERVIZIO DIAIDGANDO CON I CITTADINI
di Gregorio Arena.
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Mi occupo di un profilo particolare della comunicazione, cioè il collegamento tra comunicazione e riforme amministrative. La testimonianza su questo tema si articola su due spunti di riflessione. Per quanto riguarda le riforme amministrative si può partire da quanto diceva Federico Spantigati che poneva il problema in termini di strategia alternativa, sostenendo che è importante saltare l'intermediazione dei media e comunicare i comportamenti. Questo mi sembra particolarmente adatto come modo di comunicare per la pubblica amministrazione; in particolare per quei soggetti che erogano servizi (che sono in Italia il 70%) e di fatto comunicano attraverso il proprio comportamento, cioè attraverso il modo in cui erogano i servizi pubblici. Un altro aspetto interessante è emerso da quanto diceva Francesco D'Onofrio: la comunicazione può avere una funzione di accelerazione delle riforme amministrative perché in realtà le resistenze istituzionali sono tali, che appena si toglie il piede dall'acceleratore della ri-, forma non si sta fermi, mai si va indietro. La comunicazione può servire, in questo caso, ad anticipare le riforme, ad amplificare gli effetti, a mobilitare gli interessi e a comunicare le riforme già fatte con un effetto incentivante su chi sta lavo-
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rando alle riforme ftiture. E interessante notare come D'Onofrio parlava di mancata comunicazione su una riforma realizzata molto importante, come quella dei poteri locali. Del resto, la riforma della autonomie locali è del giugno 1990, mentre dell'agosto 1990 è la legge 241 sul procedimento amministrativo, sulla quale un po' di comunicazione c'è stata, ma rimane molto da fare in questo senso. La comunicazione pubblica che le amministrazioni pubbliche possono svolgere va quindi vista come un elemento essenziale per realizzare la riforma istituzionale sul versante amministrativo. Continuando per spunti e proposte di riflessione, credo che andrebbe distinta nella comunicazione pubblica la parte interna da quella con valenza esterna. In genere quando si parla di comunicazione pubblica si intende quella rivolta dalle amministrazioni verso i cittadini e gli utenti. Secondo me bisogna prima parlare della comunicazione delle amministrazioni verso i dipendenti, cioè della comunicazione rivolta all'interno. Questo è importante per due motivi. Se è vero il discorso di Federico Spantigati, che ciò che si comunica sono comportamenti, è evidente che nei confronti degli utenti dei servizi pubblici la vera comunicazione la svolgono i dipendenti con cui i cittadini entrano in contatto quotidianamente. Questo è un primo profilo: bisogna comunicare ai dipendenti pubblici in modo che siano soggetti partecipi, attivi e consapevoli di quello che l'ammini-
strazione sta facendo in termini di riforma di sé stessa. Un secondo aspetto per cui è importante la comunicazione interna è la riforma amministrativa, che non si può fare "contro" i dipendenti. Uno degli errori della classe dirigente, sia politica che amministrativa, è stato di pensare che la riforma amministrativa si potesse fare calandola sulla testa dei dipendenti pubblici. Non dico che le riforme amministrative vanno fatte a favore dei dipendenti pubblici, ma non possono nemmeno quest'ultimi essere considerati come estranei e nemici. Sono milioni di persone, uomini e donne, che molte volte si impegnano oltre il loro dovere strettamente di ufficio e che, se alleate nella lotta per una riforma amministrativa, possono essere una grande forza trainante. Solo così si può fare una buona comunicazione pubblica verso l'esterno, altrimenti si rischia di realizzare grandi campagne di informazione e poi di far incontrare agli utenti dipendenti pubblici disinformati. Passiamo ad alcuni spunti sulla comunicazione pubblica verso l'esterno. Un primo punto potrebbe essere questo: mentre i soggetti privati quando fanno comunicazione su un prodotto o su sé stessi non hanno l'esigenza di mettere in rilievo il proprio essere un soggetto privato, un soggetto pubblico dovrebbe mettere in rilievo il suo essere pubblico. La comunicazione pubblica dovrebbe lanciare due messaggi: quello relativo al servizio specifico (Ferrovie, Enel, Sip, 179
Italgas) e l'altro riferito all'essere soggetto pubblico come qualità distinta. Le privatizzazioni di cui tanto si parla non possono essere una panacea, e comunque in alcuni settori non possono essere realizzate. Un altro punto è questo: i soggetti pubblici hanno un vantaggio rispetto a quelli privati, cioè di poter usare quello che uno studioso francese ha chiamato le tre "c": comunicare, costringere e controllare. Questa potrebbe essere una riflessione ulteriore: quanto più è grande lo spazio della costrizione e del controllo tanto meno c'è spazio per la democrazia. In altri termini, un potere pubblico che usa per ottenere determinati comportamenti dai cittadini molta costrizione e controllo, ma poca convinzione, è un potere pubblico autoritario, arcaico e non democratico. E evidente, nei termini in cui stiamo parlando, che non posso ottenere consenso se non comunicando. Qui è interessante notare che rispetto all'amministrazione pubblica tradizionale (cioè quella che i manuali dicono che ordina, emette prowedimenti, decreti e delibere) oggi le amministrazioni pubbliche per raggiungere risultati compatibili con gli interessi loro affidati mirano ad ottenere il consenso delle persone. Pensate ad esempio al caso dell'ambiente: non sarebbe possibile mettere un carabiniere dietro ogni famiglia che va a fare un picnic per evitare che butti i sacchetti di plastica nella natura. La pubblica amministrazione deve ottenere da milioni di persone microcomportamenti che tutti insieme fanno 180
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comportamenti collettivi lodevoli; per questo è essenziale comunicare. Quanto detto, fra l'altro, modifica completamente l'immagine di amministrazione come potere esecutivo (se mai sia stata tale) in quanto emerge che le amministrazioni pubbliche usano la comunicazione come strumento per modificare comportamenti di persone. Chi le legittima a far questo, a cercare cioè di modificare il comportamento di milioni di persone? Nelle leggi c'è scritto che bisogna combattere l'Aids, tutelare l'ambiente, etc., ma non viene detto come deve essere fatto. Questa è un'altra possibile riflessione: l'uso della comunicazione da parte di soggetti pubblici, in nome di un interesse generale loro affidato dalla legge; ma il passaggio dall'interesse generale alla singola comunicazione pubblica non è in alcun modo controllato. Un altro aspetto ancora. Gli utenti vengono informati, con i cittadini si comunica. Comunicare presuppone un dialogo, un flusso di informazioni e di influenze reciproche tra chi comunica e chi riceve la comunicazione; perciò se si pone l'accento sulle comunicazioni pubbliche la relazione è tra pubblica amministrazione e cittadini sovrani. Un altro elemento di riflessione è emerso da una indagine realizzata nei mesi scorsi dal Movimento federativo democratico sui servizi sanitari. Siamo abituati a pensare che nel Servizio sanitario nazionale quello che non va è soprattutto il rapporto tra degenti e personale. Dall'indagine emerge, invece, che non ci sono lamentele esplicite da parte dei
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degenti nei confronti dei rapporti con il personale, bensì quello che pesa è l'incertezza relativa alle condizioni di ricovero, ai tempi di attesa, alle diagnosi, alla continuità di assistenza (e non la mancanza di rapporti informali o di relazioni effettivamente gratificanti). Ancora: chi si occupa di comunicazione dice che bisogna differenziare la comunicazione a seconda dei soggetti a cui ci si rivolge. Ma questo con riguardo all'amministrazione pubblica significa, dal mio punto di vista, che bisogna differenziare entrambi i poli. Ho Usato il termine amministrazione pubblica in senso generico, in quanto intendo in realtà riferirmi ai poteri pubblici; Giannini su questo è stato assolutamente decisivo. Diversi sono, infatti, i soggetti pubblici che comunicano a diverse categorie e classi di cittadini. Questo significa che, se la pubblica amministrazione ha il compito affidatole dalla Costituzione di realizzare il principio di uguaglianza sostanziale (cioè di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo delle persone), la comunicazione pubblica deve essere articolata a seconda dei soggetti a cui ci si rivolge, non soltanto perché è un fatto di imparzialità o di maggiore efficienza nel comunicare, ma perché in questo modo si realizza meglio il principio di eguaglianza sostanziale. Sotto questo profilo la comunicazione pubblica non è all'avanguardia, in quanto viene ancora realizzata in modo indifferenziato. Infine, un ultimo punto. La Costituzione garantisce ai pubblici poteri libertà di
manifestazione del pensiero e in realtà noi parliamo di comunicazione pubblica dando per scontato che i soggetti pubblici possano comunicare. Ma dov'è nella Costituzione un qualche principio costituzionale che disciplina la materia della comunicazione pubblica? Non esiste, perché nella cultura dell'assemblea costituente non c'era questa esigenza. Dobbiamo riferci all'art. 21 della Costituzione. Ma i poteri pubblici hanno una libertà di manifestazione di pensiero? Probabilmente si, ma dove sono i confini di questa libertà? Dov'è il confine tra comunicazione pubblica sul servizio e promozione dell'immagine del singolo assessore o ministro? Dov'è il confine tra la comunicazione pubblica di servizio e la legittimazione di questa comunicazione di influire sul comportamento di milioni di per. sone? E chiaro, per concludere, che sulla comunicazione pubblica, anche dal punto di vista costituzionale, ci sarebbero da fare delle riflessioni di fondo per integrare la Costituzione italiana e per adeguarla sotto questo profilo alle realtà attuali.
LA NOVITÀ NELL't COMUNICAZIONE DEI CITAD1NI È IL DECIDERE I PROPRI COMPORTAMENTI
di Lidia Mena pace
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Sono stata sollecitata da quanto ha detto Federico Spantigati sulla comunicazione che modifica i comportamenti, che diventa comportamento in quanto si agi181
sce da soli, senza intermediari. Vorrei dire qualcosa su questi due punti. Mi interessa verificare se è possibile influire sulla riforma del fisco attraverso una qualche forma di comunicazione sul fisco, perché il fisco tra le cose pubbliche è ancora una delle più misteriose, sibilline. Si può sperare in un suo perdòno, ma tutto questo attiene ad un rapporto più religioso e sacrale, che politico. Se è vero quello che dicono gli scienziati e gli epistemologi, la scienza moderna (pur molto complicata) ha un alto carattere normativo, quindi si può comprendere se si conoscono le formule; possibile che il fisco non abbia questo carattere normativo? L'associazione Unione donne italiane, di cui faccio parte, ritiene che il.fisco su base familiare (non su base individuale) sia un danno per le donne, e che sia necessario far sapere che la politica sindacale degli assegni familiari su un monoreddito legittima il lavoro vero delle donne e impedisce alle casalinghe di trovare una propria professionalità, incoraggiando il lavoro nero. Mi risulta che sia possibile per il/la contribuente decidere la destinazione di una piccola parte del gettito fiscale (8 per mille). Con la legge sul volontariato si possono détrarre i contributi dati: finora è stato possibile per le istituzioni pari allo Stato, come la Chiesa, e per le forme associative che non competono col sistema politico e con lo Stato, come le associazioni di volontariato. Se per avere accesso alle risorse pubbliche occorre costituirsi in partito, ciò significa che 182
attraverso il fisco non si diversifica il manifestarsi delle espressioni politiche della cittadinanza, mentre il fisco dovrebbe essere un equilibratore delle espressioni associative, delle iniziative politiche. La maggior parte delle donne, in quanto dipendenti pubbliche, non sono evasori fiscali. Non si conosce quanto incida il lavoro nero delle donne casalinghe, che contribuisce all'evasione fiscale di coloro che si avvalgono del loro lavoro senza denunciarlo ; né si capisce perché essendo le donne contribuenti significative, non sia rispettato un loro eventuale gradimento sulle spese. L'UDI ha intenzione, dalla prossima dichiarazione dei redditi, di presentare una lettura "sessuale" del bilancio dello Stato. In altri termini, se dobbiamo introdurre stabilmente nel sistema fiscale italiano la possibilità, a favore dei contribuenti, di fornire alcune indicazioni di desideri su una piccola parte della ricchezza pronta da utilizzare, alcune considerazioni si possono fare. Riguardo alla questione della comunicazione e del comportamento, posta da Federico Spantigati, credo che sia stato Pertini ad introdurre la discontinuità, e non Cossiga. In realtà il primo ha cominciato ad agire con dei comportamenti da Presidente presidenziale e non da Presidente di una Repubblica parlamentare. Non siamo una Repubblica presidenziale, questo significa che la Costituzione materiale è muta, e che quindi si tratta di comportamenti che hanno già deter-
minato una riforma istituzionale delle più significative, sulla quale le leggi interverranno poi in forma di sanatoria. Nessuno ha la certezza se si tratta di un fattore strutturale o congiunturale, se ci sarà un consolidamento, certo è che in Pertini assumeva il carattere dell'immediatezza e in Cossiga assume quello della trivialità (intesa come linguaggio parlato nei luoghi occasionali). La spontaneità del linguaggio di Pertini era una prima rottura della sacralità silenziosa di chi rappresenta il potere, e mentre la trivialità di Cossiga indica la sua modernità, ossia la sua consapevolezza che ci troviamo in una fase di leader populista. Corre l'obbligo di non essere ripetitivi, perché la ripetitività è consentita soio se il potere è sacrale: il gesto sacrale di Papa Giovanni Paolo 11 di baciare la terra dovunque arriva in visita pastorale, non è più un linguaggio perché diventa ripetitivo, banale, quindi è meglio eliminarlo. Vorrei che ci occupassimo di un linguaggio che è comportamento, perché la sua forza di trasformazione mi pare strepitosa, e non si può contrastarla affermando che un Presidente della Repubblica deve usare sempre un linguaggio italiano privo di idiotismi: non dire mai "io sono sardo", oppure "lui è un cretino"; questo suo modo di esprimersi è la forza della comunicazione in quanto appare come il massimo della democrazia populista: "parla proprio come noi!". Non obbliga nessuno a sforzi per immaginare un messaggio politico un p0' più
raffinato, ma adopera un messaggio di facilità, che non si controbatte dicendo: "siate ermetici".
TIPOW0IE DI CONTENLJI1 E FORME DI COMUNICA. ZIONE DELL'AMMINISTRAZIONE
di
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Nino
Cascino
Ho trovato nel dibattito la stessa tipologia di comunicazione che alcuni anni fa ho studiato in relazione all'oggetto audiovisivo di servizio, e che può estendersi anche ad altre forme di comunicazione ed essere utile per continuare la riflessione sul rapporto tra comunicazione e amministrazione. Si era scoperta questa tipologia di comunicazione: la comunicazione con riferimento alle misure o alle norme amministrative riguarda anche i destinatari, quindi non solo l'amministrazione vuole comunicare ai suoi cittadini di aver fatto qualcosa, ma vuole comunicare che vi è un maggiore rispetto dei suoi diritti. Un'altra forma di comunicazione può avere come obiettivo quello di creare comportamenti desiderati dai cittadini, e questo può avvenire per prevenire i grandi problemi (come nel caso di una comunicazione ai cittadini per rendere più efficace l'intervento dell'amministrazione, ove questo intervento sia reso per migliorare la situazione). Ad esempio i condoni fiscali impediscono di fare una campagna per l'equità fiscale. Un ultimo tipo di comunicazione può esse183
re quella didattica o formativa, e può essere a sua volta rivolta agli utenti o agli operatori professionali dei diversi servizi. Per ciascuno di questi tipi di comunicazione si pongono problemi distinti; * la destinazione, perché ogni comunicazione può avere destinatari diversi; * i mezzi; * la collocazione all'interno dei mezzi; * i linguaggi. Tutti questi tipi di comunicazione riguardano sempre fatti che si vogliono comunicare. L'incontro di oggi ha visto fatti di segno contrario ed opposto. A proposito delle riforme fatte e non comunicate, un esempio tipico sono le direttive CEE a cui non viene data l'enfasi delle leggi nazionali, nonostante siano dopo due anni leggi degli Stati membri della comunità. Forse la comunità europea non ha trovato i mezzi di comunicazione idonei per comunicare con i cittadini.
COMUNICARE È SUSCITARE UN APPRENDIMENTO TRk INTERNO E ESTERNO
di Carlo Bandiera Ho passato questi ultimi giorni al convegno annuale di una associazione internazionale di managers, un incontro in cui si cerca di fare il punto nella gestione delle istituzioni al loro interno. Un elemento significativo di questo convegno è stato il superamento dell'idea della cultura di impresa, che può essere anche 184
istituzione. Il tema di discussione riguardava le modalità per ottenere il successo all'interno di una istituzione, affinché quest'ultima porti al successo i propri obiettivi. Fino a poco tempo fa la letteratura ha affermato che se l'istituzione conosce la propria cultura, ossia i propri modi di operare, e indirizza i propri comportamenti verso quella direzione, individuando i punti di for2a su cui dibattere, può raggiungere il successo dei propri obiettivi. Se noi imponiamo quindi una data strategia di comunicazione rispetto a una riforma istituzionale, questa strategia di comunicazione ha successo non solo se la trasmettiamo nel modo corretto, ma se la veicoliamo con le modalità attese dai pubblici che sono interessati alla riforma istituzionale. Cosa è successo di nuovo? I grandi guru affermano che ci sono grandi cambiamenti all'interno di questo processo: ci si sta infatti dirigendo verso un'idea di learning organization, ossia di organizzazione che apprende. Secondo questa linea, il discorso dovrebbe porsi nel modo seguente: hanno successo a livello di strategia comunicativa quel tipo di riforme che riescono a trovare delle alleanze interne od esterne tali da suscitare un apprendimento comune, sia interno che esterno, e quindi un miglioramento comune grazie alla fusione tra l'elemento interno e quello esterno. Esempi concreti di questa metodologia si possono ritrovare in grosse strutture aziendali e istituzionali del nord America, ma anche francesi ed inglesi, e dimo-
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strano come una strategia di comunicazione e una strategia tout court di azienda sono vincenti solo se passano attraverso delle alleanze capaci di sviluppare apprendimento. Sono quindi d'accordo con Federico Spantigati quando afferma che il successo è più legato alle alleanze che alle strategie di comunicazione in senso stretto; vorrei però aggiungere che le alleanze e il sistema del consenso funzionano solo in presenza dell'elemento di apprendimento comune, e quindi di miglioramento futuro vissuto in comune.
COMUNICARE È AVERE UNA AUTORITÀ di
Girolamo Caianiello
Vorrei aggiungere che Cossiga non parla come tutti noi, perché io non parlo così. Gli accenni fatti finora al problema dell'amministrazione mi interessano molto. Mi occupo di attività ispettive nell'ambito del sistema fiscale, e mi ha colpito molto quanto affermato da Gregorio Arena a proposito della comunicazione all'interno dell'amministrazione. A riguardo posso portare la mia esperienza e dire che oggi l'amministrazione vive una situazione di distacco tra i vertici e la periferia. Voglio dire che effettivamente il metodo della comunicazione all'interno dell'amministrazione è efficace e produttivo, anche ai fini della persuasivit, ma richiede un lungo lavoro di impostazione.
vero che un dirigente di un ufficio amministrativo deve agire con la comunicazione, ma allo stesso tempo ha anche bisogno di una autorità non solo formale. Questo è un discorso di ordine generale perché il fantomatico interesse pubblico, di cui qualcuno deve essere portatore, in realtà non è incarnato da nessuno, in quanto i meccanismi di selezione politica della classe dirigente sono ad oggi tutt'altro che ispirati alla cura dell'interesse pubblico. Per concludere, vorrei ricordare che negli anni '50, invasati dalle grandi ideologie, i nostalgici del regime si lamentavano che i treni arrivassero in ritardo. Questa è l'eredità che stiamo ancora pagando; la nostra costituzione materiale si basa sul principio che chi vuole la democrazia deve rassegnarsi ad avere un treno sempre in ritardo.
COMUNICARE È TENERE CONTO DEL SOCL.LE di
Sandro Roazzi
Il mio osservatorio è puntato più sul sociale che sulle riforme istituzionali. E un punto di vista preoccupato visto che il sociale si trova in una situazione paradossale, tenta di evolversi ma non riesce a dare segnali, indicazioni che siano in qualche modo tenute in conto nel dibattito politico e istituzionale. Ad esempio, riguardo allo statuto degli enti locali, abbiamo fatto un sondaggio per conoscere come i cittadini valutano 185
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questo strumento. I risultanti sono stati sconfortanti, perché nessuno conosceva gli strumenti di difesa del cittadino e in più c'era una forte richiesta di privatizzazione dei servizi; quindi non solo il meccanismo messo in moto per dare maggiore efficienza non era conosciuto, ma persisteva una realtà che richiedeva la privatizzazione. Un altro esempio è la richiesta da parte del sindacato di delegificare il rapporto di lavoro di pubblico impiego, tenendo anche conto che questo poteva avere un valore di distinzione tra amministrazione e partiti. Anche questo discorso di sottrarre il più possibile alla partitocrazia la struttura della pubblica amministrazione, attraverso uno strumento nuovo di contrattazione, non arriva alla gente. Questi due esempi evidenziano la distanza tra il dibattito sulle politiche istituzionali e il sociale, che tenta di riformarsi e di dare nuovi input. Il referendum è frutto non solo di alcuni settori politici, ma anche di un certo associazionismo che sfugge alla politica e vuole riconquistare degli spazi. Questo tentativo di fare politica in modo diverso lascia impregiudicato il ruolo della società civile, e cerca di riconsegnare alle forze politiche un risultato che può essere gestito in termini di continuità e di autoconservazione. Dal punto di vista economico si parla molto di privatizzazioni. Proprio nel mo mento in cui in Italia si afferma l'idea di un sindacato di partecipazione. Questa potrebbe essere una riforma importante anche dal punto di vista istituzionale 186
dell'economia del paese, che rischia invece di subire una forte divaricazione. Per il sindacato, quindi, non si tratta più di chiedere spazi; si tratta di considerare il sociale in modo diverso come attore di un processo di cambiamento. Il tutto impoverisce il dibattito sulle riforme, e nello stesso tempo fa perdere l'occasione di avere una platea di protagonisti più ampia attraverso la quale spingere nella direzione più concreta. Al di là di tutto, quello che noi scontiamo è la fine di un conformismo culturale che ha lasciato un vuoto di valori e di ispirazione. Credo che ci siano tutti gli elementi per ricostruire una reale pluralità di idee e di impostazioni, e qui il ruolo dell'informazione diventa fondamentale.
COMUNICARE I COMPORTAMENTI È UNA ALTERNA , TIVA ALLE RIFORME
di Biagio Celi
parlato di riforme istituzionali e di comunicazione, e mi è sembrato che certi interventi dessero per scontato che si dovesse passare a riforme istituzionali e quindi che si dovessero comunicare le riforme stesse. Non mi trovo d'accordo con questa linea, e spiegherò per quale motivo. Se il comportamento è ciò che viene valutato, poiché il comportamento è qualcosa di continuo, non si può parlare di riforme istituzionali, in quanto presupporrebbe il fatto che queste debbano Si è
essere decise al di fuori di uno schema temporale. Se è vero che il comportamento accade nel tempo e che il valore da considerare è la continuità, le riforme non servono perché non tengono conto delle forze che vanno organizzandosi e legittimandosi.
COMUNICARE È CAMBIARE I PARADIOMI
di Piero Tru pia
Tutti abbiamo sempre pensato a Craxi come a un riformatore, ma oggi è omologato al quadro di tutti quelli che parlano di riforme. Craxi ha parlato di necessità di riforme anche radicali, di suscitare un soggetto forte anche nella cittadinanza, ma non si è pronunciato sugli schieramenti che avrebbero potuto realizzare questa riforma. E possibile oggi operare attraverso la cosiddetta politica della "mani libere"? Ritengo di no. Di Cossiga non parlo perché condivido l'opinione di Francesco D'Onofrio. Mi ha colpito quanto ha detto riguardo alla figura dell'assessore, più presente per la folla rispetto al funzionario. Ritengo che si debba amministrativizzare il rapporto di governo del territorio, delle risorse, altrimenti non diventeremo mai un paese moderno. La burocrazia è stata totalmente espropriata dei suoi poteri da parte dell'assessore, che non è come negli Stati Uniti capo di un ufficio, ma è sempre un politico che commissaria una parte dell'amministrazione. Vorrei che la licenza edilizia fosse rilasciata dal
segretario comunale, e che fosse una certificazione e non una licenza. Tutte le riforme fatte hanno sempre lasciato una "mano morta" politica sulle funzioni amministrative. Vorrei riferirmi ad alcuni fatti strutturali della comunicazione che attengono a paradigmi mentali secondo cui la comunicazione è assunta. Dobbiamo renderci conto che la vera transizione è da un paradigma ad un altro. Le altre transizioni da un sistema politico ad un altro, da un sistema istituzionale ad un altro, da un sistema amministrativo ad un altro, sono tutte inglobate in questo cambio di paradigma mentale/filosofico che è già avvenuto. Siamo vissuti all'interno di un macro paradig ma che vedeva la predominanza di alcune categorie: ad esempio la categoria del partito come parte (non come partitocrazia) che conquistando una maggioranza relativa di governo (e forse neanche questo) riusciva poi a governare il tutto. Non è la regola della maggioranza, è qualcosa di diverso. Per ottenere qualcosa in questa società, per contare qualcosa bisognava essere parte, cioè esser quidam de populo, ossia un civile, ma anche un socialdemocratico, un liberale e appartenere ad un 2% per ottenere un potere quasi totalitario (come poter attraversare la fascia blu del centro di Roma con una macchina blu seguita da una grigia con paletta). L'altro paradigma che si ha è quello ideologico. Si riteneva che alla base del governo di società ci fosse una matrice di tipo ideologico marxista, socialdemo187
cratico, etc. Questo metteva al riparo dalla ricerca di soluzioni caso per caso, di quella che, in una certa liberai democrazia, è stata chiamata l'ingegneria sociale. Un altro paradigma che è venuto meno è stato quello della rivoluzione. Noi tutti abbiamo vissuto all'interno di un paradigma il cui cambiamento doveva essere radicale, rivoluzionario e non graduale. In questi ultimi due anni questi paradigmi non hanno funzionato più e al paradigma di tipo partitico (la parte governa il tutto) si è sostituito quello dell'essere civile. Vale a dire cittadini indifferenziati che hanno i propri diritti, a prescindere dall'appartenenza. L'ideologia viene sostituita dall'ingegneria sociale, cioè il modo di cercare soluzioni. La rivoluzione è stata sostituita dal cambiamento radicale. Qualunque sia la strategia che si adotterà occorre far conto dei cambiementi di questi paradigmi. Trovo che la comunicazione in generale è disattrezzata per gestire questi nuovi paradigmi, in quanto ci portiamo dietro il carico delle nostre idee e non possiamo improvvisamente dotarci di altre, ma ci dobbiamo educare a ragionare con nuovi paradigmi. Trovo inoltre che in questa fase di transizione di paradigmi, come spesso accade in tutte le civiltà, prevalgano non le ideologie ma le dottrine di tipo totalitario, che io ho chiamato di tipo futuristico, cioè il bene, il male, la luce, le tenebre. Mi sembra che Cossiga sia una figura gnostica, il principe della luce che vuole sconfiggere il principe delle tenebre. 188
COMUNICARE È ESERCITARE UNA FUNZIONE CPJTICA
di Italo Ca pizzi
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Premetto che non ero preparato all'intervento e che il mio sarà un intervento generico; me ne scuso perché la discussione è invece andata avanti su questioni precise e su livelli particolari, come le riforme amministrative e locali. Cercherò comunque di dire le mie opinioni tenendo anche conto del dibattito avuto nel Consiglio di "Correnti" la settimana scorsa. Tuttavia la questione dei comportamenti che ha toccato Federico Spantigati, se l'ho ben capito, mi interessa riprenderla un momento, perché mi è parso che il suo fosse un discorso di tipo propositivo e in divenire e in un certo senso elitario. Voglio dire che il ragionamento della modificazione dei comportamenti in comunicazione può forse funzionare, se riferita ad un'elite, sia politica che culturale, ma non funziona del tutto se riferita ai comportamenti di massa. Prendiamo ad esempio i comportamenti degli automobilisti e dei teleutenti. Essi rappresentano, presi come categorie, le masse d'urto deideologicizzate dei "fruitori" tipici della società post—moderna. Ha ragione Biagio Celi nel. dire che la modifica dei comportamenti richiede continuità e tempi lunghi. Penso che non si possa cambiare di punto in bianco il comportamento delle formiche. Mi sembra inoltre che il ragionamento di Spantigati, cioè che soltanto con i
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comportamenti si possono modificare le cose, sia tautologico, perché per modificare i comportamenti occorre la comunicazione e non viceversa; oppure occorre l'educazione che a ben guardare è la stessa cosa. Abbiamo parlato tante volte di questa questione senza venirne a capo perché il comportamento del potere è quello che è, il comportamento dei "fruitori' è quello che è. Federico Spantigati ci dovrebbe spiegare che cosa intende lui per comportamenti quando parla di incidere nelle riforme. Per riferirmi al discorso sulla comunicazione e le riforme istituzionali, mi ha colpito il fatto che i progetti di riforma dei partiti, da tempo allo studio, venivano tenuti nel cassetto e non venivano divulgati. A parte il Psi di Craxi, che aveva il progetto della grande riforma che doveva essere un punto essenziale della sua politica, ma che è stato ora abbandonato, a me è parso che nessuna delle forze politiche prendeva una posizione chiara sulla questione delle riforme istituzionali. Poteva sembrare un ritardo tecnico, invece sotto covava un fortissimo dissidio politico che è sfociato adesso in uno scontro cruento tra le gerarchie partitiche e tra gli apparati di potere, con effetti gravissimi di deterioramento del quadro democratico e istituzionale. Ormai questo deterioramento viene palesato da tutte le parti, da ogni parte politica, comprese quelle che reggono lo Stato e il governo della RepubSlica. Si è passati dalla reticenza alla confusione totale, ad una situazione di sbanda-
mento costituzionale che tocca delle punte di primato storico. Le proposte di riforma da parte dei partiti si andranno probabilmente chiarendo dopo le elezioni politiche, ma intanto la campagna elettorale si sovrappone ad ogni sorta di comunicazione obiettiva. Si percepisce che la rettifica del sistema istituzionale si presenta per lo meno ardua a cagione degli interessi in gioco che stanno emergendo prima ancora che i programmi di riforma vengano formulati. Ho avuto l'impressione dell'impossibilità per il cittadino medio di capire cosa stia succedendo e quali siano i progetti reali di riforma e perché non vengano manifestati. Non c'è alcuna chiarezza, speriamo che dopo questo periodo di campagna elettorale si sciolgano finalmente i nodi. Vorrei citare le posizioni recentissime di Giorgio Galli e Stefano Rodotà. Galli dice che i referendum non cambieranno gli uomini del palazzo, esprime cioè una posizione pessimistica. Dall'altra parte Rodotà sostiene che l'unica speranza che si possa avviare una riforma istituzionale è basata sulla possibilità dei referendum di sentire la pubblica opinione sui problemi di fondo. Certo il referendum è una forma fondamentale di autogoverno, ma è mio parere che non sia facile che l'orientamento delle opinioni possa sfociare in soluzioni certe o buone perché la situazione può prestarsi anche a sbocchi strumentali, se si parte dalla considerazione della perdita di fiducia dell'opinione pubblica nello Stato e nella incapacità collettiva di dare 189
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una risposta al disordine politico. Si può osservare che tentazioni non democratiche possono guadagnare terreno cavalcando la rassegnazione e lo scontento di massa. Si dice che il potere sia una necessità della vita organizzata, ma se esso è necessario sorge il problema di come conteneme e frazionarne le dimensioni entro forme democratiche per far si che il cittadino non venga annientato ad opera del potere legale; anche le disfunzioni, le corruzioni, le degenerazioni fanno parte del sistema del potere legale e allo stesso tempo dei poteri extra legali, come l'industria della comunicazione di massa nelle forme egemoni. E allora cosa si può dire? Al cittadino, all'opinione pubblica appartiene fare sì che lo stato giudirico avvicini il diritto ai dettami costituzionali, quindi affermare lo stato di diritto con la comunicazione come perno. Questo è uno dei punti che mi trova abbastanza d'accordo con Federico Spantigati, cioè il punto in cui la comunicazione come perno si ponga al centro di contatti, di interessi incapace di generare delle alleanze, superando sia chiaro le forme egemoni e devianti dell'industria della comunicazione. Nelle nostre elaborazioni di Correnti noi abbiamo chiamato questo rapporto con il nome di "società comunicativa", che è basata proprio sulle alleanze di comunicazione e sull'integrazione di competenze esprimendo una forza di comunicazione primaria. L'organizzazione cioè delle competenze e delle analisi che sappia integrare la 190
comunicazione dotandosi di strumenti capaci di esercitare una funzione di interventi e una funzione critica nei confronti delle forme devianti della comunicazione, e nella fattispecie nei confronti delle riforme istituzionali. Sulle grandi questioni delle riforme istituzionali, sui plebisciti, sui referendum dovrebbe essere esercitato un controllo d'opinione mediante la citata cultura critica che deriva dalla capacità di esprimersi della società comunicativa. Quindi esercitare una competenza comunicativa affinché l'informazione sia informazione e non deviazione, reticenza o peggio occasione di scontro tra poteri, con il risultato di non far capire, di non comunicare, di non risolvere. Occorre scongiurare che la riforma istituzionale degeneri in una sorta di controriforma. Non credo, come dice Rodotà, che la controriforma sia già in atto; spero che malaugurati tentativi di controriforma non possano agevolmente passare con il controllo di una corretta comunicazione e di una opinione informata.
MODEUARE IL COMPORTAMENTO È RENDERE DISE. -
GUALE IL COMPORTAMENTO
di Federico Spantigati L'intervento di Italo Capizzi è stato molto utile per tirare le somme di questo incontro che mi sembra abbia dimostrato l'utilità di mettere in contatto persone che si occupano di cose diverse, da punti di vista diversi, pur avendo un interesse
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comune. Personalmente il dibattito mi ha permesso di giungere ad alcune conclusioni in tema di comunicazione. Mi sembra sia stata accettata la rilevanza di una questione di fondo posta da Correnti: la questione della mediazione. Sul rapporto comunicazione/riforme istituzionali un punto centrale è quale sia la mediazione che viene fatta nella comunicazione tra le proposte delle riforme e la presentazione di esse ai destinatari delle riforme. Se la presentazione delle proposte vuole far decidere i destinatari è un conto. La riforma in tale caso sembra democratica, ma è un lasciare le cose come stanno, è conservatorismo autoritario. Tali sono, come ho già accennato, i referendum oggi in corso di elaborazione. Se la presentazione delle proposte tiene conto che i destinatari hanno un comportamento sull'oggetto della riforma e la riforma deve derivare da una modificazione del loro comportamento, è un altro conto. In questo caso la comunicazione è mediazione, mentre non lo è nel primo caso. I tre livelli su cui si è svolta la discussione cioè le riforme costituzionali, amministrative e locali - sono stati presentati per la comunicazione in modo differenziato. Le riforme degli enti locali sono un buco nero per diversi motivi; il primo di questi, come dice Francesco D'Onofrio, è che non se ne è mai parlato. C'è poco da dire al riguardo, quanto a comunicazione. Il mutamento a livello costituzionale è stato discusso ed approfondito. Il risul-
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tato del dibattito è che sono in atto mutamenti sia nelle strategie istituzionali che nelle strategie di comunicazione. Il livello su cui si è concentrata di più l'attenzione è quello amministrativo: il dibattito ha sottolineato la centralità del momento amministrativo. Questo è coerente con la tesi di Correnti, in quanto accetta che il problema è la mediazione comunicativa, che ha luogo a livello di amministrazione. Gli strumenti usati per produrre le riforme devono essere visti con attenzione, oltre che per il loro significato puntuale nella struttura istituzionale, anche per le implicazioni che hanno nei comportamenti del corpo amministrativo. Come la comunicazione può venirci in aiuto? L'uso dei mass media rafforza una struttura oligarchica, cioè una struttura conservatrice. L'alternativa è un ampliamento della democrazia sostanziale, e quindi del pluralismo della diversificazione, che si realizza attraverso il comportamento "poliqualitativo": secondo questa tesi la comunicazione ci può aiutare in quanto cultura che consente l'aumento del pluralismo e l'efficacia sociale basata su pluralismo. Si tratta di una comunicazione tecnicamente sofisticata, non perché si usano i satelliti, ma perché i concetti sono sofisticati. Si comunica non attraverso un comportamento tout court, ma attraverso un comportamento che è un linguaggio: poiché si tratta di promuovere delle riforme che comportano una pluralità di interlocutori, il comportamento deve es191
sere un linguaggio differenziato a seconda degli interlocutori, un comportamento poliqualitativo. Per spiegare il concetto di comportamento poliqualitativo occorre partire dallo schema di comunicazione di De Saussure. Nella comunicazione secondo tale schema ci sono tre elementi: chi parla, il mezzo (il medium), e chi riceve. Il problema della comunicazione è di far pesare il meno possibile lo strumento intermediario, in quanto luogo dove si annidano le manipolazioni; la logica degli interlocutori viene talvolta stravolta da chi ha il dominio dei mezzi di comunicazione. La capacità di gestire la comunicazione è la capacità di rendere linguaggio le diversità possibili di comportamento. In una situazione complessa la comunicazione deve aumentare la diseguaglianza e non ridurla, per consentire la comunicazione verso interlocutori diversi. Lo schema trifase di De Saussure non ftinziona, in quanto prevede di uniformare attraverso il medium il contenuto della comunicazione in modo da renderlo intellegibile tra chi parla e chi lo riceve. Se vogliamo fare riforme istituzionali, in
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una società pluralista, occore che la comunicazione sia la più diseguale possibile. Non è un processo facile. Tra i comunicatori abbiamo elaborato una serie di concetti tecnici (quando li usiamo ci capiamo tra di noi) che sono: comunicazione globale, opinioni collettive, messaggio poliqualitativo, società complessiva, concetti senza i quali diventa difficile parlare di comunicazione nella società pluralista. Questi concetti sono stati elaborati da un nucleo ristretto di persone. Perché siano utili in tema di riforme istituzionali è necessario che diventino comunicazione autorevole, che arrivino ad un livello di pubblico più vasto. E necessario che ci sia un aumento di cultura della comunicazione può servire a poco. Il problema è un problema di capacità comunicative, che oggi sono carenti proprio tra i comunicatori, i quali non riescono a trasmettere le loro elaborazioni ai destinatari che potrebbero utilizzarle per le riforme istituzionali. Il difetto della comunicazione non sta nei politici, ma nei comunicatori, che si limitano a parlare tra di loro e a fare convegni che concorrono a raggiungere risultati utili, se lo sono, per loro soltanto.
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Taccuino
I nostri temi Fondazioni e Associazioni: istituti da tenere insieme o da separare? di Mario Colacito
Nel chiudere l'articolo che inizia la raccolta di scritti curata da P. Rescigno, Le fondazio. ni all'italia e all'estero (CEDAM, Padova, 1989), Giuseppe Guarino osserva che "concepita la fondazione come istituto adatto ad una pluralità di impieghi, un soggetto di diritto comune ... viene meno la premessa per impostare problematiche agevolative che riguardino la fondazione cornetale e che mirino pertanto ad individuare serie di norme da applicare indistintamente a tutte le fondazioni". L'avvertimento è assai utile per ricostruire le linee entro le quali si colloca una qualsiasi tematica di ricerca sul settore non profit e la stessa finalità di individuare progetti normativi generali o particolari dei soggetti che in esso operano. Qui di seguito si cerca di mettere in rilievo le possibili motivazioni che possano indurre ad un tipo di ricerca, anziché ad un'altra. Sotto il profilo dell'ordinamento italiano, occorre partire dal problema della compatibilità sostanziale tra normativa civilistica e normativa costituzionale. Da un punto di vista rigorosamente formale, non sembra sostenibile che ci sia incompatibilità fra la Costituzione e il Codice Civile. Ne discende che, pur partendo dalla "inadeguatezza" facilmente constatabile - della normativa che regola le associazioni e fondazioni, non
si può ritenere che un eventuale intervento normativo debba avere le caratteristiche forti di un adeguamento alla Costituzione. Lo stesso si può però dire sul piano sostanziale? Per rispondere occorre. fare inizialmente riferimento all'art. 2 Cost., per la parte in cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Al di là di interpretazioni che ne rappresentano il contenuto in termini di clausola generale di salvaguardia o tutela di situazioni anche non previste dal testo costituzionale, resta pur sempre l'accostamento possibile tra lo stesso articolo e la libertà di associazione ex art. 18. In sostanza, entrambe le norme, salvo approfondimenti, rappresentano la piattaforma di valori alla cui luce possono misurarsi le norme che ci interessano. Comunque si inquadri la libertà di associazione, sia come libertà negativa che positiva, e comunque si realizzi la garanzia prevista dall'art. 2 anche alle situazioni del cittadino nel.quadro delle formazioni sociali si può ben aderire alla tesi che vede nella Carta costituzionale del 1948 l'abbandono della posizione di antagonismo o di indifferenza rispetto ai cosiddetti enti intermedi tra indi-
viduo e Stato. E peraltro vero che i due principi dell'asso195
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ciazionismo e della libertà del cittadino nelle associazioni sociali vengono ad avere un'efficacia loro propria nei confronti delle strutture associative, nel senso che finiscono per avere un maggior peso per le associazioni non riconosciute" piuttosto che per le associazioni riconosciute. Come è stato osservato da Galgano, il rapporto quantitativo tra le norme rivolte all'associazione riconosciuta e quelle del capo III del primo libro del Codice civile relativo alle associazioni non riconosciute e alle fondazioni si rivela all'osservatore contemporaneo del tutto sproporzionato alla importanza delle due figure. Tutta la gamma delle più significative manifestazioni del fenomeno associativo, e tra questa i partiti e i sindacati, preferiscono la forma dell'associazione non riconosciuta. Alla quale si guarda, anche per la mancanza di controlli governativi, come all'espressione più adeguata della libertà di associazione. Da tempo immemorabile è un punto fermo il ruolo della figura "fondazione" nel quadro delle persone giuridiche. Nel periodo storico più recente occorre partire dal profondo, diverso significato che assume l'art. 11 del Codice civile del 1942, rispetto all'art. 2 del Codice civile del 1865. Quest'ultimo disponeva che i comuni, le province, gli istituti pubblici civili ed ecclesiastici ed in genere tutti i corpi morali legalmente riconosciuti sono considerati come persona e godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico. Posta accanto all'articolo i dello stesso codice, ai sensi del quale ogni cittadino gode dei diritti civili,. purché non ne sia decaduto per. condanna penale, la norma ha rappresentato lo strumento per far divenire i corpi morali dei soggetti di diritto ma spostando le fonti regolatrici di ogni persona giuridica, privata e pubblica, nell'ambito delle leggi e degli usi l'
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di diritto pubblico, o appunto osservati come diritto pubblico. Nel nuovo codice anziché scomparire, come osserva Galgano, la disposizione corrispondente all'art. 2 del codice previgente e cioè l'art. 11 ha mutato la sua funzione, dal momento che si riferisce alle sole persone giuridiche pubbliche. E per questo la norma le sottrae alla disciplina civilistica. Tuttavia il senso della norma è profondamente mutato. Laddove l'intera roblematica delle persone giuridiche non poteva configurarsi al di fuori del diritto dello Stato, nel nuovo codice la disciplina delle persone giuridiche pubbliche, con il diritto pubblico, assume il valore di disciplina differenziata rispetto alla disciplina generale di tutte le persone giuridiche private. Altri utili spunti conviene raccogliere. Il gruppo sociale non ha presenza giuridica diretta nell'ente fondazione così come avviene nelle associazioni. L'attribuzione della soggettività alla figura soggettiva immateriale rende questa portatrice di ogni interesse giuridico tutelato dal sistema ed opera attraverso una imputazione o limitative della legittimazione. Come si deve allora ricostruire il raccordo tra il valore dell'articolo 2 Cost., e quello del conferimento della soggettività alla fondazione? Nel semplice fatto che l'organizzazione collettiva ha nella fondazione una funzione servente rispetto allo scopo cui è preordinata, mentre nell'associazione assume posizione dominante. Tanto ciò è vero che l'osservazione porta, come svolgimento logico, all'affermazione della possibilità logico—giuridica di qualifi. care come proprietà, e sia pure come una speciale forma d.i proprietà o come situazione giuridica di appartenenza di beni, diversa ma analoga alla proprietà, la posizione di potere spettante agli amministratori della fondazione. Sicché resta da dimostrare che -
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l'esigenza pluralistica rispecchiata nella norma costituzionale tocca anche il tema e la realtà delle fondazioni. A questo punto potrebbe non risultare tanto singolare - anche se a tale conclusione si è pervenuti in dottrina per altro verso che il discorso sulle fondazioni debba essere sostanzialmente scisso da quello delle associazioni. I temi delle associazioni non profit costituiscono, dunque, un pianeta da esplorare sotto il profilo costituzionale o più in generale, istituzionale, anche se quest'ultimo termine si presta a fraintendimenti. La concreta attuazione della libertà associativa o meglio, più esattamente, la verifica del quadro di coesione e conformità tra il principio costituzionale di libertà e le modalità di attuazione quali risultano dalla normativa del Codice civile costituiscono oggetto necessario di approfondimenti. L'uniformità del regime delle associazioni e delle fondazioni potrebbe essere considerata come effetto del particolare ruolo della disciplina unitaria. Si vuole dire che, in realtà, tale disciplina che - coerentemente con una certa costruzione della autonomia privata - si limita al tema del riconoscimento e dei controlli. Tema che assume valenza particolare solo se gli si attribuisce il ruolo di verifica del presupposto dell'utilità sociale. Se invece, attraverso questa strada, ci si contiene alla questione più formalistica e tradizionale del controllo ab externo della autonomia privata, tale valenza potrebbe essere minore. Salvo il punto, non ancora sicuramente acquisito, che riconoscimento e controlli siano orientati alla trasparenza necessaria in una società pluralista a garanzia dei cittadini. Da quest'ultima visuale il discorso rimane,
beninteso, molto ampio. Per esempio, occorre dare per scontato che esistono rimedi ad una serie di altri strumenti di controllo previsti dall'ordinamento, non interessa se in chiave autorizzativa o concessiva. In tutti questi casi il connotato ricorrente degli istituti è quello del controllo di tipo legale: cioè riferito ad attività da verificare con riferimento a parametri tratti da modelli teorici di collettività più che a esperienze di
collettività concrete. Così certe categorie logiche come l'interesse pubblico, la moralità, l'ordine pubblico continuano ad essere punti di riferimento senza che si siano mai trovati metodi consolidati per saggiare la corrispondenza degli istituti giuridici nella pratica, siano essi autorizzazioni, concessioni o istituzioni di enti privati. Migliori risultati non si ottengono certo, da tale punto di vista, ove si richieda sempre e soltanto al legislatore di chiarire o risolvere, in concreto, i problemi che egli medesimo ha. In realtà, tocchiamo con mano la concretezza dei problemi del pluralismo anche se può aversi l'impressione che questo del pluralismo sia un concetto troppo cangiante che vede un alternarsi rapido di termini sostanzialmente diversi. Due modi di essere dell'ordinamento comunitario possono a questo punto soccorrere nell'ottica che stiamo seguendo. Da un lato, la relativa non distinzione tra interesse pubblico e collettivo: la indifferenza, sotto il profilo dei principi, delle strutture rispetto agli interessi da realizzare per la mancanza nell'ambito dell'ordinamento comunitario dei caratteri degli apparati pubblici continentali. Poiché nell'ordinamento comunitario non sussistono strutture da definire a diritto 197
amministrativo la presenza di tale connotato facilita anche nell'ordinamento italiano l'accoglimento della tesi propria degli ordinamenti comunitari che strutture "private" possono realizzare finalità pubbliche o, più esattamente, che tali strutture realizzano (anch'esse) finalità di interesse collettivo o sociale. La sicurezza di tale affermazione avrebbe d'altra parte Io stesso grado di vigore della tesi che per le "water companies" dell'ordinamento inglese, società private, non è stato mai messo in discussione il fatto che l'attività di distribuzione dell'acqua rappresenti un servizio di pubblica utilità. Da tale prospettiva comunitaria, l'analisi si sposta su un altro punto e cioè quello dello spessore e rilievo dell'interesse che viene realizzato attraverso lo strumento associativo e attraverso quello delle fondazioni. In sostanza, si può osservare che di un tipo sono i parametri che devono essere garantiti dal soggetto di controllo in sede di riconoscimento di enti morali (fondazioni o associazioni), di altro tipo sono quelli che valgono in occasione della verifica delle attività (in caso di associazioni non ricosciute). Anche qui il facile richiamo al rilievo sociale dell'attività dell'associazione in quanto questa è somma di individui, non realizza facili simmetrie. Se è implicito il rilievo sociale dell'attività della associazione, non altrettanto giustificato o implicito sarebbe ritenere che proprio perché la fondazione è uno strumento diverso e non presuppone il riferimento ad una volontà collettiva, ne consegua la neces-
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sità - specifica appunto per la fondazione - di un mero riscontro di coerenza delle attività rispetto alla finalità. Ulteriore punto di indagine riguarda l'evidenziazione di interessi di particolare rilievo nel sociale, quali emergono nella normativa degli ultimi anni. Si fa riferimento a finalità che divengono di particolare rilievo in quanto oggetto di interventi atti a privilegiarne la realizzazione o comunque a promuoverne indirettamente la realizzazione attraverso, per esempio, agevolazioni fiscali. In sostanza, ci si trova di fronte ad un dilemma di questo genere: se in luogo di una norma generale che imponga di lasciar libero, sui servizi pubblici di trasporto, il posto destinato a categorie generali come: invalidi, anziani, ci si trovi di fronte a specificazioni maggiori, la previsione più analitica realizzerebbe un maggior numero di interessi ovvero costituirebbe un autolimite inconsapevole della stessa attività di trasporto? Nell'ambito delle organizzazioni non profit si tratta di valutare quale sarebbe il rapporto tra una norma di genere che prevede un sistema generale di riconoscimento e comunque una previsione generale nei confronti di tutte le associazioni (del tipo di quella contenuta nel codice civile sulle associazioni non riconosciute) e quelle eventuali norme specifiche che individualizzano il regime concernente l'attività di tali organizzazioni nel sociale.
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Notizie sulle attività del Gruppo di Studio "Società e Istituzioni" Esperienze di riforina negli Enti Pubblici (Roma, Biblioteca della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, 20 giugno 1991) La stagione delle riforme istituzionali è ancora dedicata al confronto tra le diverse proposte di modifica del «sistema di governo» sancito dalla Costituzione. Da qui, giustamente, occorre partire per ricercare condizioni di maggiore ftinzionalità del sistema politico. Ma va anche ricordato che, se solo oggi sembrerebbero maturi i tempi per le Grandi Riforme, il riformismo istituzionale non è stato però in tutti questi anni inoperoso. Sia pure cimentandosi con temi di minore impegno e di portata settoriale, il riformismo ha anzi accumulato una dose non piccola nè insignificante di esperienze, sulle quali è mancata in genere una riflessione capace di andare oltre il caso singolo e comunque di cogliere, in ciascuna vicenda, i risvolti di maggiore rilievo problematico in termini di politica delle riforme. E in questa chiave che il Gruppo di Studio si è proposto di analizzare e discutere, mettendole tra loro a confronto, le esperienze di riforma che tuttora interessano tre importanti organismi pubblici (IsrAT, ICE, EN). In particolare si è voluto sottolineare l'importanza della fase di attuazione e delle modalità con cui questa viene affrontata. Sono intervenuti fra gli altri: Enzo Cardi, Marco Cimini, Raffaele Simonetta, Federico Spantigati, Stefano Sepe, Giulio Vesperini, Gianni Orsini, Guido Norcio, Vincen-
zo Spaiiante. Le relazioni della Corte dei conti sul Rendiconto Generale dello Stato (Roma, Residenza di Ripetta, 17 luglio 1991) Il Gruppo svolgendo ormai da anni la funzione, fra le altre, di un «ircolo» aperto che consente discussioni franche fra addetti ai lavori e studiosi intorno ai temi della politica e delle tecniche di bilancio e, cercando di tener fede a tale intento, ha utilizzato come occasione d'incontro, di serio e franco scambio di idee e di commenti, l'ultima relazione della Corte dei conti sul Rendiconto Generale dello Stato. Nel dibattito si sono poste questioni di contenuto, di metodo e di impostazione su alcuni problemi di politica di bilancio ormai da alcuni anni al centro dell'attenzione. Sono intervenuti fra gli altri: Giuseppe Carbone, Manin Carabba, Andrea Monorchio, Vincenzo Spaziante, Luigi Fiorentino, Paolo de Joanna, Maurizio Meschino, Giorgio Macciotta, Maria Teresa Salvemini, Maurizio Meloni, Mario Falcucci, Francesco Battini, Marcello Romei, Gaetano D'Auria, Sandro Palanza, Stefania Boscaini. 4° Incontro Cortonese (11 e 12ottobre 1991) Il dibattito è stato dedicato, il primo giorno, a qualche riflessione sul tema Quale costituzione per l'Europa e, il secondo giorno,
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al tema Quale finanza pubblica nel conte' sto europeo degli anni novanta Il secondo tema ha rappresentato (come del resto il precedente seminario sulla relazione della Corte dei conti sul Rendiconto Generale dello Stato), una nuova tappa del lavoro del workshop sulla finanza pubblica. La discussione sul primo tema ha messo in evidenza che intorno ai temi e problemi sul tappeto non ci sia adeguato dibattito politico ed istituzionale né siano state prese serie iniziative di studio. E quel tanto che c'è s.rto riguarda l'unione economica e monetaria in ragione della logica stessa funzionale-economica della CEE e, ancor più, della spinta che al dibattito dà il «club monetariò» che fa capo alle banche centrali. Inoltre, dopo i fatti sensazionali deI 1989, ci si chiedeva se la CEE avrebbe resistito alla possibile ridislocazione degli interessi nazionali sul continente. Si immaginava, per esempio, una Germania non solo intenta alla riunificazione ma grande protagonista di una nuova politica Mittel europea e dell'Europa orientale. Successivamente quelle domande sembravano aver perso senso, soprattutto da quando si è scoperto che i paesi Usciti dal socialismo reale sono, in gran parte, non «secondo mondo» - come si riteneva - ma tout court «terzo mondo». Nei confronti del quale nessuno in Occidente ha da solo, spalle sufficienti per gestire leadership in termini di politica economica. Ma può veramente dirsi che la CEE non corra più rischi di forti spinte centrifughe e di impossibilità a crescere dopo gli impressionanti eventi dell'agosto 1991? Appare chiaro che l'Europa occidentale si è trovata letteralmente impreparata ai compiti politici che il post 1989 va ponendo a getto continuo, dalla crisi, e poi guerra del Golfo 200
alla dilacerante crisi balcanica. Oltre ai soci del Gruppo di Studio son intervenuti: Pietro Gargiulo, Giandonato Caggiano, Piero Pennetta, Massimo Mombelli, Giuseppe Palumbi, Francesco Massicci, Nicola Forti, Emanuela Goggiamani, Orazio Carabini, Francesco de Filippis, Francesco Garri, Giuseppe Carbone, Luigi Sai, Manin Carabba, Girolamo Caianiello. Comunicazione e riforme istituzionali
(Roma, Residenza di Ripetra, 29 ottobre 1991) Continuando il dibattito già svolto in altri momenti sulle riforme istituzionali, sempre più al centro dell'agenda politica e destinato a restarvi ben oltre le prossime elezioni politiche, il Gruppo ha affrontato con questo seminario (organizzato con l'associazione "Correnti") il tema della comunicazione che si intreccia strettamente con quello delle riforme istituzionali. In primo luogo, è il caso di rilevare che l'attenzione sulle riforme istituzionali è stata sollecitata attraverso specifica ed intensa azione di comunicazione. In secondo luogo, il potere esercitato. nella comunicazione è fra quelli il cui riassetto è problema stesso di riforma, e non di poco conto. In terzo luogo, per l'esito dei processi decisionali per le riforme istituzionali, è collegato all'uso di strumenti di comunicazione anche con modifiche istituzionali al riguardo, quali sono ad esempio i referendum almeno per molti aspetti. L'attenzione del dibattito è stata inoltre incentrata sul rapporto istituzione-comunicazione in riferimento ai tre livelli di riforme istituzionali su cui realmente verte l'attuale discussione politica e che presentano problemi di comunicazione differenti: le riforme costituzionali, le riforme amministrati-
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ve, le riforme del governo locale. Hanno partecipato fra gli altri: Nino Cascino, Federico Spantigati, Francesco D'Onofrio, Pietro Trupia, Gregorio Arena, Girolamo Caianiello, Bernardino Casadei, Gior-
gio Pagano, Lidia Menapace, Giovanni Celsi, Gabriella Ciaschi, Giorgio Santerini, Bruno Maria Somalvico, Toni Muzi Falcone.
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Attività del Comitato Italiano della Fondazione Europea della Cultura Si è costituito a Roma il nuovo Comitato
Italiano della Fondazione Europea della Cultura. L'iniziativa .è stata promossa da Sergio Ristuccia, presidente del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, con il supporto organizzativo dell'associazione culturale "Gruppo di Studio Società e Istituzioni". Nella prima riunione il nuovo Comitato ha affermato la volontà di caratterizzarsi come promotore di quella "cultura d'Europa" che può essere fattore di unificazione e comprensione nel continente contro le tendenze conflittuali e centrifughe che pericolosamente
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lo percorrono. Infatti senza forti valori culturali condivisi, l'integrazione economica non basta e può addirittura creare reazioni di rigetto. La Fondazione Europea della Cultura è nata circa 40 anni fa ed oggi è diventata strumento operativo di vari programmi educativi della CEE, quali ad esempio Erasmus e Tempus. Il Comitato Italiano, da un lato, si propone come punto di riferimento italiano per il network internazionale della Fondazione Europea della Cultura, e dall'altro intende essere un centro autonomo di iniziativa.
Incontri ed attività di "Correnti"
Le prime righe del documento relativo alle finalità e programma di "Correnti" affermano la centralità, in tutte le attività dell'Associazione, della valorizzazione del ruolo della comunicazione come qualità politica ed etica del comportamento. Il documento porta la data dell'aprile 1991, data in cui l'Associazione di cultura della comunicazione si è ufficialmente costituita con il nome di "Correnti". Il gruppo originario è formato da persone che provengono da diverse esperienze nell'area della comunicazione, come consulenti esterni, responsabili delle attività di relazioni esterne o degli uffici stampa presso orgrnizzazioni pubbliche e private, docenti universitari, studiosi, titolari di agenzie. Alcune di queste persone si interessano di questi problemi fin dagli anni '60. Cercare di spiegare comemai si sia deciso di chiamarsi "Correnti", è un po' come tentare di descrivere ciò che è importante nella comunicazione per l'associazione stessa. Un nome che concentri in sé delle qualità giudicate importanti nella valutazione della comunicazione comporta necessariamente che o si è d'accordo sulla scelta di quelle qualità e sulla modalità espressiva (il nome) oppure si raggiunge l'accordo per approssimazione dando per scontato che una parte dei giudizi sia sicuramente in disaccordo. Ora, il problema è che decidere un nome per un'associazione che vive di quello che fa e di quello che pensa è una contraddizione: il nome cristallizza ed "unifica" le diffe-
renze che esistono all'interno dell'organizzazione in quanto fatta di persone per forza di cose diverse l'una dall'altra, mentre le differenze (anche se il nome "urìifica") rimangono qualitativamente tali. "Correnti" è sì un nome, ma esprime allo stesso tempo un senso di moto, di azione che si svolge nel tempo: così che "Correnti" corrisponda sempre a qualcosa che non-è mai come prima: un'essenza non statica ma dinamica, perché è dinamico lo stesso svolgersi delle azioni degli uomini, sia singolarmente presi che, a maggior ragione, nel loro complesso. Così anche la società italiana è dinamica e mai uguale a come era in un tempo precedente; Se non si riesce a cogliere ciò che è importante nel suo divenire, risulta poi difficile cogliere i suoi modi di aggregazione e di non aggregazione, non si riesce a comprendere le sue modalità di comunicazione. La società italiana, così frammentata e pluralista nella manifestazione di poteri e di interessi, è frammentata e pluralista anche nell'uso che viene fatto della comunicazione, ora per omògeneizzare le differenze (la società di massa), ora per esprimere la specificità dei propri interessi. Se l'espressione del pluralismo è valutata ricchezza rispetto alla povertà di stimoli di situazioni dove la diversità è invece livellata: ciò che è veramente importante per "Correnti" è favorire proprio quella espressione del pluralismo delle soggettività. Operativamente si tratta da una parte di approfondire concetti teorici come quelli 203
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sviluppati in questi decenni dal gruppo originario: la comunicazione globale, le opinioni collettive, il messaggio poliqualitativo, la società complessiva, la comunicazione autorevole. Dall'altra parte di analizzate e di approfondite esperienze di comunicazione così da esplorarne le differenze fra i soggetti e contribuire alla formazione di coesioni culturali. Ciò che "Correnti" si propone è la valorizzazione della comunicazione intimamente connessa alla politica ed all'etica del comportamento e la diffusione delle conoscenze sulla comunicazione così da permettere a sempre più soggetti di essere poli attivi di essa e non sempre e solo riceventi passivi di messaggi. Il comportamento dell'essere umano è influenzato non solo da fattori ambientali che non possiamo controllare, ma è influenzato anche da fattori che dipendono dalle scelte che altri uomini fanno o stanno facendo in questo momento. Alcune volte l'essere umano ne è consapevole e quindi può agire di conseguenza, altre volte non ne è consapevole ed è manipolabile da chi quelle scelte ha fatto non sempre nell'interesse di entrambi. Approfondire e delineare possibilità di intervento al fine di favorire la libera espressione e la coessione di differenti interessi è il compito che "Correnti" intende affrontare. Non a caso per il primo incontro pubblico, occasione di presentazione di "Correnti", è stato scelto come tema "La comunicazione non è mercato". In questa occasione si è analizzato il rapporto tra il mercato: - uno dei "modi costitutivi" (Giorgio Piva) del vivere della nostra società, "un modo profondamente radicato nella struttura storica della cultura" nella quale siamo tutti 204
immersi e dalla quale ne siamo tutti influenzati, più o meno consapevolmente ; e la comunicazione: - "processo storicamente irreversibile di modi di organizzazione e di espressione" (Italo Capizzi e Nino Bigi), dove la dimensione qualitativa dei fenomeni sollevati dai processi di comunicazione è infinitamente più ricca e ampia di quella dei processi di mercato. In entrambi i casi avvengono degli "scambi", ma la natura di questi non è confrontabile. Sono "modi" diversi. Appartengono a classi di fenomeni differenti, livelli diversi tra i quali non può essere fatta confusione di elementi: la comunicazione "riguarda ogni tipo e soggetto delle relazioni umane", il mercato riguarda lo scambio di "beni" economicamente valutabili. Le attività della comunicazione possono contenere anche quelle chiamate "di mercato" in quanto particolari "modalità" di "scambio", ma non può avvenire il contrario, poiché le attività di comunicazione non si esauriscono con quelle di mercato: esistono, dei modi di comunicazione non classificabili come fenomeni di mercato. Il pericolo di una confusione tra i due livelli è quello di non sapere cosa si sta facendo, come e con quali effetti. Il problema sollevato da "Correnti" è la non semplificabilità dei processi di comunicazione, come avviene in quelli di mercato grazie all'uso del denaro. La confusione che deriva dalla apparente similarirà tra mercato di "beni" e "mercato" della comunicazione porta in sede di analisi di problemi di comunicazione a conclusioni viziate, finendo per pregiudicare le conseguenti scelte da compiere. Dalla necessità di non fare confusione tra questi "modi" che appartengono a piani
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diversi dell'agire umano, consegue il bisogno di chiarezza, di una comunicazione autentica (non rituale), "autorevole" e "riconoscibile", "corretta". Concetti questi ampiamente dibattuti durante l'incontro del 28 maggio 1991 per la presentazione di "Correnti", presso la biblioteca del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro a Roma. In autunno, il 29 ottobre 1991, presso il Residence Ripetta a Roma un incontro tra "Società e Istituzioni" e "Correnti" ha approfondito il rapporto tra società e modi di comunicazione. Il tema delle riforme istituzionali trattato in tale incontro, si collega al tema più ampio
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della qualità dei modi dell'agire ("le radici delle necessità", Giorgio Piva). Tali "radici delle necessità" vivono all'interno di "modi di modi (modi costitutivi o costituenti) intoccabili perché propri della struttura storica della cultura" di cui noi tutti siamo un effetto (Giorgio Piva). La domanda che è stata posta nell'incontro è: quali modi di essere istituzione per quali modi di agire (della società)? In altra parte della rivista sono pubblicati gli atti, riassunti, dell'incontro Biagio Celi
205
• IN ITALIA ABBIAMO CHIESTO A .1 MANAGER E FUNZIONARI PERCHE' HANNO SCELTO L'ANNUARIO GENERALE ITALIANO.
"Ho fatto un conto di quanto ho speso in un anno per le esigenze dei mio lavoro in telefonate, In ricerche stressanti, in tempo e denaro. Una cifra decisamente importante che avrei potuto risparmiare ed investire in tanti altri modi.
per questo ho scelto l'ANNUARIO GENERALE ITALIANO della Guida Monaci uno strumento semplice da usare, pratico e aggiornato che mi consente di sapere ciò che voglio, subito, quando Io voglio!!"
GUIDA MONACI
Editori dal 1870
I di*ritti eiruomo cronache e battaglie
organo dell'unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo direttore Mario Lana
EDITORIALE
Mario Lana SAGGI Sulla repressione dei crimini individuali contro la pace e la sicurezza dell'umanità
Benedetto Conforti The refugee concept and harmonization of european asylum policies
Cri stopher Hein - Rossella Pagliuchi Una priorità per le Nazioni Unite: la cooperazione tecnica per i diritti umani
Jan Martenson INTERVISTE Con il Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo
RUBRICHE Lo straniero e la P.A. - a cura (li Mario Lana Per un "cahier de doleances" Ambiente e cittadino - a cura di Andrea Di Porlo Tutela dell'ambiente e legge n. 241 del 7 agosto 1990 sul procedimento amministrativo
di Antonella Catini Minori - a cura di Sebastiano Ferlito L'impegno del Presidente del Brasile per i diritti dell'infanzia Salute - a cura di Umberto Randi Trattamenti obbligatori, trattamenti obbligati e indennizzi per danni
MOVIMENTI E ASSOCIAZIONI L'Istituto Latino-Americano di assistenza legale alternativa Amnesty International
DOCUMENTI
a cura di Umberto Randi
Sommari delle sentenze della Corte di Strasburgo settembre-ottobre 1990
Con lo scrittore marocchino Moumen Diouri
a cura di Anton Giulio Lana e Francesco Rosi
a cura di Mario Lana
Documento della riunione di Mosca della Conferenza sulla dimensione umana della CSCE La "Dichiarazione dei diritti e delle libertà dell'uomo" del Congrcsso dei Deputati del popolo sovietico Raccomandazioni conclusive dell'incontro ONU delle istituzioni nazionali di promozione e protezione dei diritti dell'uomo Messaggio dell'Unione Forense per la tutela dei diritti dell'uomo al Forum di Mosca sulla libertà di stampa Rapporti della CSCE sulla discriminazione delle etnie minoritarie in Macedonia: a) diritti dell'uomo; b) economia; c) educazione Conseil d'Europe: Convention sur la participation des étrangers à la vie publique au niveau local Documenti sullo sciopero dei giudici del 3 dicembre 1991: a) Associazione nazionale magistrati; b) Consiglio nazionale forense; c) Federavvocati; d) Commissione unitaria degli ordini e delle associazioni forensi d'italia Documento CIR sulla reiezione di domanda d'asilo dopo l'attraversamento di altro paese Conclusion du Congrès du Mijc sur justiciablité des droits sòciaux en Europe
ATTUALITÀ Sull'isterismo etnico in Jugoslavia
Alberto Benzoni Note da Pretoria: una corte africana dei diritti umani?
Mauro Cappelletti Una nuova ipotesi: la Commissione mediterranea per i diritti dell'uomo
Matteo Carbonelli Protezione dei rifugiati: un sistema da completare
Paola Malintoppi Un Forum a Mosca sulla libertà di stampa
Salvatore Orestano Verso un protocollo europeo dei diritti sociali?
Louis-Edmond Pe (lii i Somalia: una tragedia dimenticata
Moharned Ali Salah Sul voto amministrativo agli stranieri in Europa
Paolo Ungari
&mocrazia e diritto
trimestrale del centro di studi e di iniziative per la riforma dello stato
i anno XXXII, numero 1, gennaio-marzo 1992
Il «mondo nuovo» •
ILTEMA
Le sfide dell'interdipendenza Giuseppe Cotturri La politica 'che cambia Fabio Giovannini La cultura della complessità contro il governalivismo mondiale Ernesto Balducci L'irrinunciabile cammino verso la comunità planetaria Luciano Canfora L'internazionalismo difficile Daniele Petrosino Nazionalismi 'e neonazionalismi in Europa Pietro Barrera I diritti delle minoranze nel crepuscolo degli si ali nazionali Michela Nacci - Peppino Ortoleva « Insorgenze » o « rigurgiti»? Il nazionalismo fra destra e sinistra Renato Cristin Sentieri incrociati. Per una fenomenologia dell'inierculturalità LA QUESTIONE Politiche e strumenti Guglielmo Ragozzino La « spassionala » logica del capitale nell'ordine economico internazionale Luciana Castellina Gironi danteschi intorno alla BundesbanL' Giuseppe Vacca Riflessi europei nel complotto di agosto Contro Gorbaciov Giorgio Nebbia Spaceship Earth Gianni Lanzinger Rio de Janeiro: -per un nuovo diritto all ambiente Marina Rossanda Salute e ricerca scientifica.' il ruolo dell'Oms ARGOMENTI L'Onu tra la guerra e la pace Relazioni e interventi presentavi al Convegno della Fondazione internazionale Lelio Basso (Roma, 15-16 aprile 1991): Rigau, Ferrajoli-Senese, La Valle, Gianformaggio, Chemillier-Gendj-eau, Faik, Giardina, Conforti IL SAGGIO Daniele Archibugi L'utopia della pàce perpetua
L. 18.000 CL 64-1469.0 ISSN 041»9565
B MOTH Anno VI- Fase. 34 - Luglio-Dicembre 1991 - Lire 8.000
SOMMARIO
51 HEIDEGGER E L'IDEOLOGIA DELLA GUERRA Giuseppe Semerari
3 NOTIZIE
55 HEIDEGGER: UNA METAFISICA PER LA GUERRA
9
Pier Franco Taboni
IL SUD-EST EUROPEO: UNA REGIONE STORICA Dinnenien Cacea,n,,
63 LE FIGURE DI CROCE E MARTINEI1'I NELLA VISIONE STORICO-FILOSOFICA DI DEI, NOCE
15
Tuo Perhini
IL TI.:MA I)EI.I.A PAURA IN I-IOIIIIE.S fulien Freutid
79
25
RECENSIONI carne/noi - Palestina Clauseeviiz - Schiniiiiana
SU I'OTERE E ARBITRIO IN HOBBES Giuliwu, Borghi
31 DAL CORPO MISTICO Al. CORPO POLITICO: (;ENESI I)ELI.'ORI)INE (;IURII)IC() IN FRANCISCO SUÀREZ E THOMAS HOBBES hj,r.'lh,, Cedroni
37 TESI PER UNA TEOLOGIA POLITICA III Cari Sehenzin
39 UN "MANIFESTO" DELL'ILLUMINISMO FRANCESE /)nn,enico di
lOSCO
47 NIETZSCHE, HEIDEGGER E ALCUNE QUESTIONI DI METODO •Michele Martelli
Li' illusi razioni sosia di bjszo brasetinie
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Gentile Lettore, la rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'Amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti - 11 corsivo editoriale,
con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. - I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. Le privatizzazioni in Italia, l'evoluzione delle democrazie occidentali negli ultimi 40 anni, 1'«Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, le televisioni sono gli argomenti trattati nel corso del 1991. - Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società e Istituzioni, nel cui, ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers. Il programma per il 1992
Le nostre riflessioni nel prossimo anno riguarderanno tra l'altro: religione e società, giustizia, integrazione tedesca, nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, 'America. Ritorneremo sui temi della sanità e delle privatizzazioni. Organizzeremo l'indice generale della rivista a testimonianza di circa 20 anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se dunque Queste Istituzioni risulterà di Suo gradimento Lei potrà rinnovare l'abbonamento o sottoscriverne uno nuovo utilizzando la cedola con le condizioni a Lei riservate. Qualora lo abbia già fatto Le chiediamo di indicarci i nominativi di persone interessate ai temi.e ai problemi sui quali la nostra rivista si sofferma. Contando di poterLa ancora annoverare tra i nostri lettori abituali, Le porgiamo i nostri più cordiali saluti. Queste Istituzioni
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COLLANA MAGGIOLI - «QUESTE ISTITUZIONI»
La società QUE S .1. RE., editrice del periodico Queste Istituzioni, ha da qualche anno avviato un progetto ambizioso che oggi vede finalmente raggiunti gli obiettivi iniziali. Nel 1992, in collaborazione con Maggioli editore, saranno pubblicati sei volumi collegati ai temi solitamente trattati sulle pagine della rivista. Sono i primi titoli di una collana mirata a trasferire nel settore pubblico le motivazioni e le esperienze che nel settore privato vengono definite cultura déll'innovazione. Attualmente l'esigenza di innovazione dell'Amministrazione dello Stato viene soddisf atta mediante contributi esterni di idee, ricerche, progetti operativi, strumenti di formazione. I saggi scelti per la collana di Queste Istituzioni si propongono di approfondire la conoscenza delle dinamiche sociali ed economiche per introdurre nell'Amministrazione pubblica le più efficaci tecniche di opinion making tra quelle sperimentate e verificate dall'attività delle imprese private. L'organizzazione e la programmazione di una collana, unite all'impegno costante per la pubblicazione della rivista, esigono altresì una quotidiana riflessione della nostra struttura sulla rapida evoluzione del sistema culturale stimolata dal confronto con la realtà della vicina integrazione europea.
già pubblicati: Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione - pp. 255, 1989, L. 30.000. in corso di pubblicazione: Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Parlamento S. Ristuccia, G. Cogliandro, L. Hinna, P. Silvestri Controlli e nuove tecniche di revisione nel settore pubblico: realtà e prospettive R. Greggio,' G. Mercadante, P. Miller, J. P. Nioche, J. Sloft Manager dell'Europa mediterranea Advisory Commission on Intergovernmental Relations Come organizzare le economie pubbliche locali
in preparazione: R.G. Penner, A.J. Abramson Le cinghie rotte della borsa (ovvero la storia del bilancio federale USAdal 1974 ad oggi) Jean Raynaud Le «Chambres Regionales des Comptes»: caratteri di una innovazione istituzionak
CONCESSIONARIA PER LA PUBBLICITÀ: SYNKROS Venture Management sri - Tel. 0613213959 Le inserzioni a pagamento sono pubblicate su pagine patinate. QUOTE DI ABBONAMENTO 1992 (IVA inclusa) Abbonamento annuale (4 numeri) L. 60.000 Abbonamento per studenti 50% di sconto Abbonamento per l'estero L. 90.000 Abbonamento sostenitore L. 200.000 Còndiziom di abbonamento L'abbonamento si acquisisce tramite versamento anticipato sul dc postale n. 24619009 intestato a «Q.I.R. srl QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE». Si prega di indicare chiaramente nome e indirizzo dei versante, nonché la causale del versamento. -L'abbonamento decorre dal 1 1 gennaio al 31 dicembre e, se effettuato nel corso dell'anno, dà diritto ai fascicoli arretrati. L'abbonamento è continuativo salvo facoltà di disdetta da esercitarsi a mezzo lettera, entro il mese di novembre di ciascun anno con effetto dal 10 gennaio sùccessivo: la semplice reiezione dei fascicoli non può essere considerata come disdetta, così come il mancato pagamento per il rinnovo entro il 31 dicembre di ciascun anno. I fascicoli non riceyuti devono essere richiesti entro 3 mesi dalla data di pubblicazione. Trascorso tale termine verranno spediti, in quanto disponibili, contro rimessa dell'importo più le spese postali. In caso di cambio di indirizzo allegare un talloncino di spedizione. IVA, FATTURE E MEZZI DI PAGAMENTO DIVERSI DAL CONTO CORRENTE POSTALE L'IVA è assolta dall'editore ai sensi dell'art. 74 lett. c) del D.P.R. 26. 10. 1972 n. 633 e successive modificazioni nonché ai sensi del D.M. 29.12.1989. Non si rilasciano quindi fatture (art. 1 c. 50 D.M. 29. 12.89). Per questo si consiglia l'utilizzo del dc postale la cui matrice è valida come attestato a tutti i fini contabili e fiscali. Qualora si desideri eccezionalmente acquisire l'abbonamento o singoli fascicoli tramite assegno bancario o circolare direttamente al nostro indirizzo: Q.I.R. sri - Via Ennio Quirino Visconti, 8 - Scala Belli mt. 7 - 00193 Roma, se si desidera comunque una ricevuta dell'importo pagato (sotto forma di nota d'addebito) occorre aggiungere, contestualmente al versamento, la somma di L. 2.500 per rimborso spese. N.B.: Per qualsiasi comunicazione si prega di allegare il talloncino-indirizzo utilizzato p& la spedizione.
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