Queste istituzioni 90 91

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Anno XX - n. 90-91 - Semestrale (aprile-settembre) - spedizione in abb. postale gr. IV/700/,

queste istituzioni Quale costituzione per l'Europa dopo il referendum francese?

Le ragioni dell'Europa Sergio R istuccia, Gabriele Calvi, Sergio Bruno, Massimo Fichera L'America di fronte a se stessa Robert D. Putnam, Russel Kirle Germania riunificata Mario Cacia gli, Luigi Sai, Istituto tedesco per la Ricerca Economica, Jan Pri ewe, Roland Sturm Taccuino

J,ĂŒ n.90-91 1992


queste istituzioni rivista del Gruppo di Studio SocietsĂŹ e Istituzioni Anno XX n. 90-91 (aprile-settembre 1992)

Direttore: SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore: VINCENZO SPAZIANTE Comitato di redazione- ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, DANIELA FEUSINI, GIuuA MAIUANI, GIORGIO PAGANO, MARCELLO ROMEI, CIUSTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE, FRANCESCO SIDOTI.

Responsabile redazione: GIULIA MARIANI Responsabile organizzazione: GIORGIO PAGANO Direzione e Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8- 00193 Roma Tel. 39/6/3220880 - 3215319 - Fax 3215283 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE Sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN: 1121-3353 Stampa: Litoled s.r.l. - Via dei Piani di Monte Savello, 41c - Roma (Pavona) Finito di stampaie nel mese di novembre 1992

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Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


Indice

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Quale costituzione per l'Europa dopo il referendum francese?

Le ragioni dell'Europa 3

Europa: le ragioni della cultura Sergio R istuccia

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Cultura europea e ricerca sociale Gabriele Calvi

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Egemonie politiche ed egemonie teoriche nel gioco dell'unificazione monetaria europea Sergio Bruno

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Quale televisione per il 1999? Massimo Fichera

L'America di fronte a se stessa 40

Per rivitalizzare la democrazia americana Robert D. Putnam

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Proletarizzazione e degrado urbano Russel Kirk

La Germania riunificata 65

Un sistema sempre pi첫 asimmetrico Mario Caciagli


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L'economia tedesca e la sfida dell'unificazione Luigi Sai

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Sovvenzionamento e privatizzazione mediante la 'Treuhandanstalt' Istituto tedesco per la Ricerca Economica

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I compiti dell'amministrazionefiduciaria sono irrisolvibili Jan Priewe

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I sindacati e l'unità tedesca Roland Sturm

Taccuino 129

I nostri temi... / Continuando a ragionare di democrazia: fallita la città degli atei? Bernardino Casadei

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Notizie dal Gruppo di Studio "Società e Istituzioni"

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Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali


Quale costituzione per l'Europa dopo il referendum francese?

Seguire le questioni europee diviene sempre pii'i difficile per il correre degli eventi e per il loro divaricarsi in molteplici vicende che certamente si collegano. le une alle altre ma che richiedono rnoltiplicate energie per intenderne la portata, gli svolgimenti e i possibili effetti. La difJìcoltì, per ora, sembra sollecitare opinioni ripetute, giudizi costruiti con frasi fatte, forti emozioni (di fronte alla crisi valutaria di settembre-ottobre) che attingono a stereotipi consolidati nell'anima europea (fondamentali, naturalmente, quelli riguardanti i tedesch) Sono molte le pagine di questa rivista dedicate negli ultimi anni alle questioni europee. Non dobbiamo certo spiegarne il perché Piuttosto ci sembra il momento di tenere aperto e aggiornato il discorso per contribuire al dibattito sul: l'Europa in un momento difficile e confuso. L 'altro anno a Cortona, nel presentare il tema "Quale costituzione per l'Europa"(in occasione del 4 0 incontro annuale degli amici e collaboratori della rivista), esprimevamo il forte disagio creato dalla totale disattenzione al negoziato in corso che avrebbe portato al trattato di Maastricht. Disattenzione per i temi e i contenuti che si andavano delineando. Disagio per il grande silenzio forse dovuto alla natura stessa della metodologia negoziale, che è strettamente intergovernativa. Il negoziato ha certamente coinvolto un numero molto ampio di persone, se si considera quanti sono coloro che nei vari paesi, per ragioni d'ufficio, hanno partecipato al lavoro negoziale. Eppure tutto è rimasto rinchiuso in questo ambiente. In confronto al passato si è aggiunta una dzfficolt: che in ragione dell'oggetto principale del negoziato, cioè l'unione monetaria, il "club monetario "che ne è stato protagonista non poteva agire altrimenti che con la consueta riservatezza. Ma al di fuori della metodologia del negoziato, ci sono altri motivi del "grande silenzio ' Per esempio, la scomparsa di una generazione di federalisti che non ha trovato sostituti e rincalzi.. In ogni caso, a parte le persone, si sono logorate le formule politiche e istituzionali dei movimenti europeisti. Servono idee fresche, non mere ripetizioni di modelli ormai fragili perché troppo semplificati. Ad un anno di distanza non sembra immaginabile maggior contrasto fra il III


gran silenzio del pre-Maastricht e la recente, emotiva e surriscadata, attenzione al Trattato da ratificare. Tutto dipende dal fatto che il tema Europa è stato portato all'attenzione delle opinioni pubbliche e delle decisioni elettorali attraverso alcuni referendum (danese efrancese)? Ovvero c'è un rapporto fra la condotta negoziale e il grande silenzio dell'anno scorso, da una parte, e le emozioni di questi mesi, dall 'altra? Sono quesiti rilevanti non solo per chi farà la storia della costruzione europea ma anche per mettere a punto, oggi, la politica europea. Diverso disagio esprimevamo nella riunione del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali l'8 maggio scorso. Un disagio che aveva a riferimento l'establishment culturale e accademico del nostro paese (per esempio, molti economisti) che per lo più ha usato il tema Europa sotto l'angolatura, divenuta in mano ai mass media'una ripetizione molto frusta, "stare in Europa ' "l'Italia esce dall'Europa", "come sifa a rientrare in Europa" e così via. Un modo di affrontare il tema a cui sembra sfuggire il fatto che l'Europa non è ancora un risultato sicuro e definitivo; che la responsabilità cui chiamare paesi come il nostro riluttanti ad una politica di qualche serietà e rigore non è solo quella di esserci o non esserci, ma è quella, assai maggiore, che, con tali comportamenti, si contribuisce a non fare l'Europa. E che negli anni si è andata affermando una sorta di routine europea (passi avanti, contrasti, soste, riprese del cammino) con l'implicita convinzione che, tutto sommato, il fatto è da considerare positivamente. Eppure c 'è da dire: attenti alla routine. Non solo la storia non è finita, ma la storia può tornare indietro. Lo fanno temere alcuni eventi del 1992, che sono al di là dell"orlo della ragione" come l'ingestibilità dei conflitti balcanici che hanno pesato molto sull'Europa comunitaria. Di qui le ragioni della cultura. Innanzitutto come impostare il confronto fra popoli europei che sembrano ritrovare se stessi (ma è poi vero?) solo in conflitti terribili e orribili. Sono problemi che gli uomini di cultura ci pare debbano riproporsi come loro compito principale. Ritrovare le ragioni del "perché l'Europa unita" è dunque un compito che va rinnovato con un 'attenzione specifica ai maggiori problemi del continente. Ricordando che la questione Europa è troppo grande per essere lasciata solo alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, per quanto benemeriti essi siano. Il tema di oggi è ritornare alle questioni della costituzione europea dopo il referendum francese del 20 settembre. Referendum che va considerato sia nei suoi risultati, sia nella sua portata. I risultati vanno letti in relazione alle aree geografiche e alla composizione sociale dell'elettorato. Ci pare che alcuni osservatori della stampa francese lo abbiano già fatto (si vedano le usuali analisi molto

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attente di "Le Monde"). A questo riguardo è significativa la sostanziale e ampia adesione al trattato che si è avuta nelle aree geografiche di frontiera, storiche aree di conflitto franco-tedesco. Importante sembra anche la composizione dell'elettorato che ha detto sì. Da una parte, ha contato la distinzione fra città e campagna al punto da poter dire che il blocco del sì è anche la parte della popolazione che nelle città è dedicata al mondo dei servizi, al mondo dell'economia e delle professioni e che l'elettorato del sì non è esattamente l'elettorato del Presidente. Il sì all'Europa è venuto, in buona parte, da elettori che non sono politicamente con Mitterand. Il che sta a dimostrare quanto il tema Europa sia stato recepito e fatto proprio dagli elettori. Insomma non era del tutto vero quello che si diceva prima del voto, che cioè l'elettorato francese avrebbe utilizzato il referendum per un sì o un no al Presidente o ai socialisti che li governano. Si coglie meglio ora quale sia il significato del referendum e si misura pienamente la distanza molto ampia che c'è stata tra il grande silenzio del 1991 e il dibattito acceso che s'è aperto sul trattato in questi mesi. Per la prima volta - e qui veniamo alla questione della portata del referendum - si interrompe una procedura di formazione della costituzione europea affidata integralmente alla logica intergovernativa. Il lavoro delle cancellerie si confronta direttamente con il grande pubblico. Da questo momento in poi il processo cambia. Come ha commentato "Le Monde", è finita, con il referendum francese, l'epoca del dispotisme e'c1air: in altri termini la costruzione europea non è piì compito esclusivo dei governi e delle strutture che operano intorno ad essi. Beninteso, ciò non significa che la percezione generale dei temi sia stata una percezione sufficiente, compiuta, informata. Del resto, sarebbe stata una bella pretesa aspettarsi chiarezza su tutti i temi di fronte all'elettorato, se è vero che il complesso del trattato consentiva già a molti analisti di professione, giuristi o comunque operatori professionali delle questioni europee, di parlare di "pasticcio" di Maastricht con una diffusa previsione di un ampio contenzioso in sede applicativa. La materia è sicuramente difficile a tradursi per una percezione chiara dell'elettorato. Sorge la questione se sia stato giusto fare ricorso al referendum: in materia tanto complessa, per propria natura destinata ai "distinguo ' sembra assurdo ridurre tutto ad un sì o ad un no. Il passaggio pili logico sarebbe quello attraverso la democrazia rappresentativa. Ma non in sede di semplice ratifica quanto di elaborazione del trattato. Questo è il punto. Sarebbe stato opportuno, se non necessario, passare cioè attraverso il parlamento europeo in misura molto

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più ampia. Il parlamento europeo, unico possibile 'facitore" democratico della Costituzione comunitaria, non ha però ruolo legislativo né, a dire il vero, ha fatto molto per averlo o per conquistare comunque un ruolo forte d'iniziativa. Considerando questa situazione, il ricorso alla democrazia referendaria ha un senso. Anche se soltanto di supplenza nei confronti di quel che manca nel processo democratico dell'integrazione europea. Insomma, è stato giusto far ricorso al referendum. Ed è stato giusto, in questo modo, innovare il processo per ora meramente intergovernativo. Se non altro si è avuto modo di verificare a fondo gli umori dei popoli europei, anche se attraverso un sondaggio parziale. A questo punto chiediamoci: cos'è Maastricht in termini generali come meccanismo e in termini di "viabilitì" per una fase di costruzione ulteriore dell'unione? C'è chi, avendo operato come negoziatore, può rispondere in buona coscienza che il Trattato è frutto di una "sintesi equilibrata e realista" (lo ha scritto l'Ambasciatore Vanni D'Archirafi su "Il Sole 24 Ore" del 20 settembre 1992). E dal punto di vista di chi ha il polso dei rapporti fra i dodici governi nell'ambito di un negoziato che è stato, tutto sommato, non lungo e molto serrato, il giudizio sembra corretto e convincente. Tuttavia il Trattato rimane quel che è: cioè intricato e barocco senza gusto. Innazitutto ha scelto la via dei diversi e autonomi pilastri: l'Unione, per quanto riguarda sicurezza e difesa da una parte e giustizia e lotta alla criminalitì dall'altra, rimane sostanzialmente separata dal metodo comunitario, non è altro che un certo metodo di concertazione fra governi che si assume migliore di quello in atto perché agganciato a un metodo più stringente. L 'Unione non nasce, in senso proprio e stretto, ma si afferma come obiettivo. Il Trattato è un passo importante ma iniziale secondo la logica delle tappe successive, del rinvio ad altro appuntamento di verifiche e aggiustamenti. In questo senso è rilevante, anche solo per intendere il processo che ha portato a Maastricht, l'annuncio di una prossima conferenza intergover-. nativa da tenere nel 1996. Mentre non poteva sfuggire a chi ha negoziato efirmato il Trattato di Maastricht che prima del '96 ci saranno, nel 1994, le elezioni del Parlamento Europeo, occasione naturale di un dibattito sulle prospettive del Trattato. Maastricht è stata una fuga in avanti, come molti hanno detto di recente? Certo, nell'agenda europea c'erano ancora, nel 1990, i problemi, non tutti risolti né bene impostati, dell'attuazione dell'Atto Unico e poteva avere ragione chi intanto di ciò si voleva preoccupare (il governo inglese ma non soltanto). Ilfatto è che nel compromesso dell'A tto Unico era previsto l'impegno a negoziare il VI


Trattato sull'unione economica e monetaria. Non è stata, dunque, una forzatura arrivare a Maastricht. La questione è l'unione economica e monetaria in sé: quanto sia urgente e quanto sia matura. L'unione economica è un processo di convergenza seguito, indirizzato e sospinto dagli organi della Comunità e soprattutto dal Consiglio. Lo stesso Consiglio Europeo (il consesso dei capi di stato) indica gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli stati membri, poi il Consiglio delibera a maggioranza qualificata raccomandazioni che definiscono tali indirizzi e ne sorveglia l'applicazione sulla base di apposite relazioni della Commissione. Affinché questo processo divenga cogente in qualche misura sono previste delle 'anzioni" per gli stati che non ottemperino alle indicazioni di convergenza (particolari obblighi di informazione, limiti per il ricorso al credito della Banca europea degli investimenti, obbligo di deposito infruttifero, "ammende di entità, adeguate"). Ma la vera sanzione s'immagina che sia, almeno agli inizi, il rimanere fuori dall'unione monetaria. Unione che è, invece, un sistema istituzionale disegnato in dettaglio e tale da presentarsi come fortemente coeso. Francesco Papadia, in una relazione, ha illustrato con grande chiarezza cosa significhi unione monetaria: il passaggio all'unione è un fatto senza precedenti. Non era mai successo che un gruppo di stati indipendenti avesse deciso di mettere progressivamente in comune un aspetto così importante della sovranità, avendo come punti di arrivo il trasferimento totale ditale sovranità (moneta unica), la funzione monetaria come meccanismo non piii gestito in modo discrezionale ma come attività vincolata dalfine della stabilità dei prezzi, la piena indipendenza della Banca Centrale Europea. Non c'è dubbio che in questi termini il cambiamento è profondo e radicale. Basta pensare che usualmente, nel pensiero costituzionale, la funzione monetaria e la Banca Centrale vengono assunti a componenti del sistema dell'Esecutivo nella ripartizione tradizionale dei poteri. Vero è che ormai nello stesso pensiero costituzionale si dà per scontato che non esistano ferree distinzioni dei poteri così come tramandate dal costituzionalismo classico. Ma questo è un altro discorso. Non si è mai vista una trattazione che tiri del tutto fuori la Banca Centrale dall'area del Government nell'accezione ampia della lingua inglese, pur riconoscendole un ampio potere autonomo. Né sembra pienamente utilizzabile qui la teoria dei cosiddetti poteri amministrativi indipendenti applicata a istituzioni molto diffuse in altri paesi e ora anche nel nostro. Si tratta normalmente di poteri di secondo livello, o comunque di settore, fra i quali non è facile collocare la Banca Centrale. A riguardo dell'unione monetaria c'è poi da osservare che il disegno del TrattaVII


to risponde alla concezione della politica monetaria che si è andata via via af fermando come indivisibilità della politica monetaria. Sarebbe evidenza confermata dall'esperienza che il libero commercio e la piena mobilità dei capitali abbiano bisogno di una politica monetaria unitaria. In questo senso il disegno di Maastricht non supera la soglia di quanto è strettamente necessario. Dunque, un disegno che risponde al principio di sussidiari età (sifa a livello di unione solo quello che ad altri livelli di governo non si può fare bene). Tale concezione è diversa dall'impostazione, venti anni fa, del rapporto Werner, secondo il quale decisioni fiscali e di bilancio e decisioni monetarie dovrebbero essere prese congiuntamente a livello comunitario. Nella logica di Maastricht sembra sufficiente la convergenza delle politiche di bilanci o con adeguati meccanismi di sorveglianza multilaterale. C'è da chiedersi se la Bundesbank nelle famose dichiarazioni del febbraio scorso, seguenti alla firma del Trattato, non tendesse a rimanere fedele alle ipotesi del rapporto Werner quando ha richiamato la necessità di una ulteriore integrazione politica (unica condizione per consentire decisioni comuni di bilancio) accanto a quella monetaria. Tanto più importante il documento di febbraio in quanto attestazione che, in ogni caso, i suggerimenti della Bundesbank sono tutti passati, o quasi, nél Trattato. Alla luce di queste considerazioni c'è da chiedersi se abbia senso quanto dicono alcuni analisti di parte economica del Trattato: va bene il Trattato in sé, ma non il protocollo sulla convergenza, che quantijìca in rapporti precisi la misura della convergenza medesima. Il meccanismo generale è accettabile ma si deve ridiscutere il protocollo. In verità è nel Trattato che c'è il nuovo con la sua carica di forte discontinuità. Al di fuori di visuali meramente domestiche, è l'unione monetaria l'origine possibile di profondi contrasti e moti di rigetto. Per questo se ne continuerà molto a ragionare. Nel Trattato di Maastrich l'unione monetaria è il volano della costruzione comunitaria. Non per il prevalere di una forte convinzione monetarista (tutto sommato, può proprio definirsi monetarista la stessa Bundesbank?) quanto piuttosto come applicazione estrema del metodo funzionale e del "dinamismo evolutivo" che si fa risalire a Jean Monnet. Se sia giusta questa interpretazione non è una questione meramente concettuale. Si tratta in realtà di intendere la forza reale del progetto istituzionale realizzato. Se si parte da considerazioni di teoria economica si può pensare che la separazione fra regime dell'unione economica e regime dell'unione monetaria possa anche rispondere a convinzioni monetariste che tendono a sottovalutare il peso della fiscal policy (politica di bilancio come politica delle entrate e delle spese) VIII


a favore della decisiva rilevanza del fattore monetario. Senonché non sembra proprio che la scelta di Maastricht dipenda da una preferenza di questo tipo. Non si intenderebbero né l'attenzione per gli aspetti istituzionali della gestione della moneta (di cui normalmente i monetaristi si curano poco) né la grande enfasi posta sulla necessità di una convergenza delle politiche nazionali di bilancio su obiettivi determinati. Al contrario, la separazione delle due unioni risponde, da una parte, alla fondamentale esigenza politica di mantenere il "potere della borsa" nelle mani degli stati membri e, dall'altra, alla possibilità, che tale separazione ha fatto da tempo intravedere, di definire un "settore funzionale" di grande rilievo al quale applicare il metodo dell'integrazione non più reversibile. In questo senso ha ben giocato l'idea della compiuta indivisibilità della politica monetaria e si spiega l'intesa fra Delors e i governatori delle banche centrali che ha fatto da elemento propulsore del processo negoziale che ha condotto a Maastricht. Dunque, è stato sperimentato l'ultimo possibile stadio del metodo di integrazione funzionale: quello, come già altre volte notato, a più alto rischio, perché la moneta è stata sempre considerata tipica espressione della sovranità anche e soprattutto sul piano simbolico. Il passo verso la moneta unica, proprio per questa sua carica simbolica non poteva non far riemergere dal sommerso problemi di coscienza collettiva, come poi molti commentatori hanno forse esageratamente segnalato. In questo quadro può servire l'idea che la funzione monetaria vada inquadrata entro schemi istituzionali di magistratura economica, come ha suggerito Papadia? Egli ha scritto: "In una certa misura, la funzione monetaria è stata distinta e separata da quella esecutiva per assimilarla, pur rimanendo importanti distinzioni, a quella giudiziaria. Per molti versi, è una concezione nuova di politica monetaria che è stata affermata nel Trattato ". Certo, "la norma che impone alla Banca Centrale europea di perseguire la stabilità dei prezzi non è sufficiente a determinare, meccanicamente, la condotta della politica monetaria (..). La complessità dell'azione di valutazione non attribuisce però natura discrezionale alla politica monetaria, così come la complessità dell'interpretazione della legge non attribuisce potere discre2ionale al giudice". La similitudine ha sue suggestioni ma anche forti controindicazioni. Fondamentale è il quesito se la stabilità dei prezzi sia o possa mai essere un obiettivo neutrale e se, quindi, soltanto ad esso debba riferirsi il compito di gestire la moneta unica. Il secondo tema "costituzionale" che merita una particolare riflessione, è la sussidiarietà divenuta punto chiave del Trattato attraverso l'art. 3B. La sussidiarietà ha dimostrato di essere qualcosa di più di un geniale argomen-

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to politico-culturale nel processo di integrazione? Chi ha introdotto il concetto della sussidiarietì nell'armamentario politico culturale quotidiano voleva semplicemente convincere che una serie di funzioni di governo si esercitano meglio sopra a livello di comunitì, che non sotto a livello di stati. Tuttavia è chiaro che in sé il concetto non può essere usato in una sola direzione. E naturalmente bidirezionale ed ha un forte contenuto di relativitì storica: non c'è, infatti, un problema che possa essere risolto meglio ad un livello di governo piuttosto che ad un altro, in termini generali e per l'eternitì. La sussidiarietà è un principio di movimento, processuale, che per diventare un principio di diritto ha bisogno di procedure e di organi. Lo abbiamo gitì osservato e sottolineato altre volte. Che dire dopo Maastricht? Innazitutto, in termini politici, è stato subito colto ed utilizzato questo aspetto bidirezionale. Non a caso i più forti sostenitori della sussidiariet dopo che l'idea è stata rilanciata da Delors nel suo rapporto dell'85, sono ora gli inglesi e quanti altri immaginano che sia giì arrivato il momento per restituire agli stati, o ad altri livelli di governo (le regioni), molte competenze della Comunità. Il fatto di per sé era prevedibile. In realtà lo stesso art. 3 B del Trattato spinge chiaramente a questa lettura: "nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la comunitì interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario". Ciò significa che nell'ambito delle competenze non esclusive della Comunitì il vincolo forte è posto proprio alla Comunitì. Leon Brittan, nella sua conferenza sul tema della sussidiarietL, tenuta nel giugno scorso a Firenze, ha molto sottolineato la speranza che si inizi una revisione della legislazione comunitaria per restituire competenze agli stati e che il principio di sussidiarietì sia di "diretta applicazione" tale cioè da poter essere azionato anche dai cittadini presso le giurisdizioni e da servire in tal modo come strumento di controllo diffuso sulla Comunitì. In conclusione, il principio di sussidiariettì è servito a suffragare passi in avanti dell'integrazione europea in quanto però contiene una clausola di salvaguardia di cui gitì si comincia a chiedere l'applicazione. E la Comunitì che viene richiesui dì dimagrire. Si è fatta gran polemica sul centralismo CEE anche se si è trattato spesso di una comoda e un po' ipocrita scappatoia. Giustamente ha ricordato Tommaso Padoa Schioppa che si può parlare di un centralismo CEE, ma non come frutto di un presunto federalismo centralista implicito nella Comunitì quanto del fatto che i meccanismi di centralizzazione sono il naturale frutto storico dei grandi

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stati nazionali europei i cui funzionari sono stati chiamati a gestire la Comunità portandovi dentro tutto il centralismo dei grandi stati. Non è quindi un problema di competenze quanto di metodi di lavoro, di comportamenti e di cultura che possono ben essere modificati e corretti. Campi delicatissimi da valutare nel Trattato sono quelli della sicurezza, difesa, lotta alla criminalità, giustizia, cultura. Campi che avranno sviluppi secondo i metodi della cooperazione intergovernativa e non del metodo comunitario, ovvero secondo frenanti principi di unanimità. Ma questi sono campi di prospettiva. Intanto siamo ormai alla vigilia della piena applicazione dell'Atto Unico a gennaio 1993. 111992, negli anni scorsi identificato come una data mitica, l'ultimo anno della preparazione prima dell'Atto Unico, èpoi diventato l'anno dei grandi dubbi, della crisi delle perplessità, dello stop. C'è addirittura il rischio di dimenticarsi della data del 10 gennaio 1993. Non che i meccanismi si siano interrotti; anzi, come dice l'ultimo Rapporto della Commissione sull'attuazione dell'Atto Unico, pubblicato agli inizi di settembre, il lavoro è andato avanti, la Commissione ha fatto gran parte del lavoro programmato, il giudizio da dare è del tutto positivo. Ciò non toglie che in questo tipo di processi contano anche 1'ztmosfera e la motivazione. Quell'iniziale attenzione che la nostra amministrazione aveva dedicato al '93 non è diventata quella primaria questione politico-amministrativa che oggettivamente è. Lo sgretolarsi del sistema politico italiano, la crisi drammatica della nanza pubblica, gli sconvolgimenti valutari sono fatti che rafforzano l'euro-scetticismo naturale delle burocrazie. C'è di che essere preoccupati. D'altra parte, nel Rapporto della Commissione non possono non colpire certi punti che sottolineano le difficoltà. Il fatto che i tempi non saranno quelli previsti in materia di statuto dell'impresa europea, questione dibattutissima, e di brevetti europei, significa che nel fondo dell'anima più propria della Comunità, cioè quella della concorrenza e della competitività, sono emerse contraddizioni non facili. E la Commissione che segnala quanto sa bene chi segua l'annosa questione: si tratta dello stallo creato dalle antitetiche impostazioni di Gran Bretagna e Germania in ordine ai modelli d'impresa. Esempio concreto di quel "capitalismo contro capitalismo" cui Michel Aubert si è recentemente riferito in un libro di successo. C'è poi un capitolo su cui non è facile intendere quale sarà la conclusione: le procedure del mutuo riconoscimento. Un capitolo che è sempre stato considerato strategico per avviare un confronto innovativo fra le singole pubbliche amministrazioni degli stati membri. Ci sono tutte le ragioni per dire, riprendendo uno spunto iniziale, che, al di là di Maastricht, l'agenda europea di questi mesi va riportata in primo piano.

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(dall'introduzione alla giornata di studio del 2 ottobre 1992 a Cortona) XI


questeistRuzioni

Le ragioni dell'Europa

«Se dovessi rifare l'Europa, probabilmente inizierei dalla cultura». Così si dice che Jean Monnet si confidasse, con alcuni amici, verso la fine di una vita il cui racconto raccolto nelle sue memorie non cessenì mai di riempirci di ammirazione. Jean Monnet l"inspirateur' come lo definiva il generale De Gaulle, dell'Europa unita. Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, in collaborazione con il Comitato Italiano della Fondazione Europea della Cultura, ha organizzato un incontro sul tema "L'Europa: le ragioni della Cultura" in occasione della sua XIX Assemblea annuale. Alfondo c'era la convinzione che si debba riprendere il discorso dal principio: non perché ci sia tutto da rifare, ma al contrario perché non vada perduto il senso di direzione e perché quel che si è fatto sia perfezionato e valorizzato. Il no danese a Maastricht e l'assenza di una forte maggioranza francese in favore del processo di unificazione sono ben pii't che semplici indicatori di un certo malessere. Sembrano suggerire che i singoli cittadini europei non sentano come propria quell'avventura collettiva che potevano immaginare dietro l'idea di un'Europa unita. Mentre eravamo abituati a considerare i governanti come


gli uomini che frenavano all'insegna della politica tradizionale, oggi i ruoli ci sembrano quasi invertiti. Sono i capi di Stato a cercare di spingere aventi i loro paesi, spesso indifferenti quando non ostili. Ma nello spingere avanti sanno comunicare le ragioni, profonde e vere, del "fare l'Europa"? Il meccanismo può continuare afunzionare come una routine di passi avanti e indietro da cui nessuno, alla fine, si sente di uscire. Siamo però sicuri di dovercene accontentare? O non dobbiamo rinnovare, attraverso le ragioni della cultura, la ricerca delle ragioni dell'Europa?

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Europa: le ragioni della cultura di Sergio Ristuccia

C'è un dialogo, forse non mai ben cominciato e mai compiutamente condotto, che va riproposto: quello fra scienze sociali e mondo delle istituzioni, dell'economia, delle forze sociali. Con l'incontro di oggi (Assemblea annuale del Css, 8 maggio 1992. N.d.R.) intendiamo prendere una prima iniziativa utile a questo fine. Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali - vero - non è rappresentativo delle scienze sociali italiane nel loro complesso (ci auguriamo che questa rappresentatività possa nascere da iniziative entro il Consiglio Nazionale delle Ricerche), ma ne è, credo, espressione significativa. Come scrivevano nel 1987 Valerio Castronovo e Luciano Gallino, due fondatori del Consiglio (e Gallino ne è stato per anni autorevole presidente), il Css è stato, e vuole continuare ad essere, "un importante crocevia di programmi e di esperienze di ricerca con proiezioni internazionali in aree di frontiera fra differenti settori del sapere". Certamente, le scienze sociali hanno pròblemi interni di sviluppo e di interrelazione fra le discipline. Diciamo sinteticamente che hanno degli "interna corporis" a cui far fronte. A que-

sto proposito nel 1991 (ne farò poco avanti più ampio cenno) si è aperto un interessante confronto. Fra tali problemi c'è quello - a ben riflettere - primario che sorge intorno alla questione se non sia elemento costitutivo delle scienze sociali la loro vocazione ad entrare nell'operosità concreta della vita sociale, a contribuirvi come capacità di comprensione e come capacità di proporre e verificare soluzioni per problemi sociali di vario tipo e dimensione. In questa prospettiva, l'iniziativa di oggi ha anche un secondo motivo, contiguo e complementare: l'opportunità di presentare il nuovo Comitato Italiano della Fondazione Europea della Cultura. La costituzione del Comitato vuole ripristinare un ruolo attivo italiano in un organismo indipendente che da decenni opera con prestigio in Europa con funzioni di spicco in molti campi e in particolare nel mondo dell'educazione (basti pensare ai compiti di gestione dei grandi programmi educativi della CEE affidati alla Fondazione: mi riferisco a ERASMUS, LINGUA e al nuovo programma TEMPUS per i paesi dell'Europa orientale). Dalla combinazione di questi motivi è 3


emerso come tema obbligato di riflessione l'Europa. Il momento Storico delicato "chiama", mi sembra di poter dire, le scienze sociali e in ogni caso impone studio ed impegno nella prospettiva ampia della cultura.

IL RUOLO DELLE SCIENZE SOCIALI

Prima di entrare nel tema vorrei riprendere il cenno relativo al fatto che nel 1991 si è riaperto un importante dibattito intorno ai compiti delle scienze sociali. Mi riferisco, da una parte, al rapporto sulle "Scienze Sociali nel contesto delle Comunità Europee" redatto, su incarico della Commissione, a cura dell'European Sci ence Foundation e dell'Economic and Social Research Council del Regno Unito e, dall'altra, all'uscita del primo volume dell'Enciclopedia delle Scienze Sociali, ultima fra le prestigiose iniziative dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il primo documento muove da una calibrata critica dell'uso fin qui fatto delle Scienze sociali nella formulazione e nel processo decisionale delle politiche comunitarie (ricerche orientate solo su problemi nazionali, orizzonte temporale di breve periodo, predominanza, se non esclusività, di ricerche macroeconomiche oltrechè di quelle tecnologiche ingegneristiche) e delinea il possibile, organizzato contributo delle scienze sociali riguardo ad alcuni problemi sociali da identificare (e il Rapporto alcuni ne identifica) e da studiare, con ap4

porti multidisciplinari, nella loro natura e nel loro svolgimento di medio-lungo periodo. La lucida introduzione storico-metodologica all'Enciclopedia, sottolinea per suo conto una caratteristica essenziale della impostazione seguita: "realizzare l'esigenza dell'interdisciplinarietà integrando, ovunque ciò sia possibile, le prospettive disciplinari nella trattazione dei singoli articoli; e per far ciò assume come centrale non queste prospettive, ma il fenomeno sociale preso in esame". Problemi sociali, fenomeni sociali. Trovo in tutto ciò una forte assonanza con quanto il Consiglio italiano per le Scienze Sociali affermava nel 1987 a presentazione dei due volumi sulla Società Contemporanea, pubblicati da UTET: cioè "il convincimento che, per orientarsi criticamente nel gran labirinto dell'uomo e della società, tanto più per gli ultimi decenni così densi di eventi cruciali e di repentini mutamenti di scenario, sia necessario individuare una pluralità di fattori, valutandoli sia nel loro peso specifico sia nelle loro reciproche interazioni" e ancora - il convincimento di quanto opportuno sia "il progressivo orientamento, che è venuto maturando in particolare negli ultimi anni, verso un più intenso dialogo tra scienze umane, scienze economico-sociali e scienze fisico-naturali, ossia fra campi del sapere per lungo tempo separati da una barriera di incomunicabilità". Mi auguro che il dibattito possa essere al più presto ripreso nelle sedi più opportune per mettere a punto e realizza-


re una costruttiva politica delle scienze sociali in Italia e in Europa. Il Css non farà mancare il suo contributo. E veniamo al tema di questo Colloquio: Europa: le ragioni della cultura; Europa: i compiti delle scienze sociali.

LA COSTRUZIONE DELL'UNITÀ EUROPEA

Ha scritto recentemente Jacques Delors: "La costruzione europea è un'avventura collettiva. Ciascuno può lavorarvi, ai proprio posto. Da quarant'anni conosce alti e bassi, ore di entusiasmo e periodi di delusione, prova che niente è mai acquisito. Prova che bisogna essere prudenti quando si analizza il rinnovamento che si è prodotto dal 1984, che è opportuno essere vigili per non perdere, in pochi mesi d'insensatezza, una parte di ciò che si è acquisito". E difficile non consentire, ed è difficile trovare qualcosa da aggiungere ai ragionamenti di Delors nella prefazione dei suo ultimo libro sui "nuovo concerto europeo". Ci sono da raccogliere alcuni spunti. Innanzitutto vale riandare alle ragioni ultime della costruzione eùropea. La consuetudine di alcuni decenni di vita pacifica nei continente ha fatto perdere naturalmente ia percezione di quanto fosse pressante il bisogno, per la gente d'Europa, di porre fine ai catastrofici conflitti intereuropei e di dare radici profonde al sistema di convivenza democratico. Un bisogno di pace che sembrava poter anche imporre salti

drastici, grandi accelerazioni della storia ma che poi ha dovuto confrontarsi con la realtà sedimentata delle diversità e dei conflitti degli interessi europei. Volendo fare un bilancio di questo secolo i decenni della pace di cui la nostra generazione ha goduto non riescono ancora a compensare i conti tremendamente negativi dei decenni della guerra totale intereuropea. E la generazione fortunata non può credere che ormai tutto sia a posto e trascurare i compiti che rimangono ancora, e a lungo, da compiere. In secondo luogo, occorre riandare ai metodo della tessitura europea, quel metodo che ha avuto per campione Jean Monnet. Personaggio singolare nella storia dell'Europa, uomo delle istituzioni più che tecnocrate, formidabile consigliere del principe e statista più degli statisti che consigliava, egli coniugò l'idea forte di un'unione europea di tipo federale con la capacità di cogliere, in modo originale, le formule per coinvolgere e legare le sovranità nazionali per singole aree e funzioni. Le Memories di Monnet sono una miniera di esempi. Dal folgorante racconto di come l'idea di unione franco-britannica (un solo parlamento, un solo esercito) - idea di Monnet accolta da Churchill - cercò di contrapporsi, nei giorni tremendi del maggio 1940, al disfattismo di fronte all'avanzata nazista che portò all'avvento di Petain, al ricordo di come fu concepita la Comunità del carbone e dell'acciacio. Cinque anni dopo la guerra, racconta Monnet, un'altra occa5


sione di guerra ormai si presentava davanti a noi se non avessimo fatto nulla: "la Germania non ne sarà la causa ma ne sarà l'oggetto in gioco". Ecco, allora, l'esigenza di stabilire un rapporto particolare di cooperazione fra Francia e Germania mettendo sulla stessa base di partenza l'industria francese e quella tedesca attraverso una gestione congiunta della ricchezza del carbone e dell'acciaio di cui i due paesi si dividevano in modo complementare i bacini naturali iscritti entro un triangolo geografico che le frontiere storiche dividevano artificialmente. Ecco l'idea da realizzare senza percorrere le vie delle precedenti esperienze di generica e impotente cooperazione internazionale e sapendo che il fine primario era la salvaguardia della pace. Il primo documento di lavoro messo a punto da Monnet e dai suoi collaboratori ha il passaggio caratterizzante - come egli stesso sottolinea - in queste poche linee: "Attraverso la messa in comune delle produzioni di base e l'istituzione di un'Alta Autorità, le cui decisioni legheranno la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, si realizzeranno le prime assise concrete d'una federazione europea indispensabile per preservare la pace". La storia della Comunità Europea è stata, almeno nelle fasi dinamiche, una ricerca del punto d'incontro fra l'istanza forte di un obiettivo federale (poco conta se esplicito o implicito) e la necessità di cogliere la formula o il meccanismo limitato ma cogente che legasse i paesi membri ad una realtà tutta nuova

dei rapporti inter-europei. La critica ricorrente e giusta dei federalisti che si rifanno ad un modello classico e compiuto è stata, come altre di diverso tipo, una critica preziosa. Che tuttavia non ha reso sempre piena giustizia alla novità - novità necessaria - del metodo comunitario. Naturalmente quest'ultimo si presta a facili degenerazioni e a molteplici inerzie: dalle appropriazioni delle burocrazie di vario tipo attraverso l'uso gonfiato e indebito della logica intergovernativa, alla perdita - sempre pericolosa - dell'orientamento e degli obiettivi. Sono stati molti i momenti dal 1958 ad oggi che hanno costituito per ripetere un'altra espressione di Monnet - "il tempo (obbligato) della pazienza". La storia degli ultimi 10-15 anni dall'euro-pessimismo all'Atto Unico e al mercato comune del '93 (le cui dimensioni e la cui portata stanno per ampliarsi ancora dopo il recente accordo con l'As sociazione Europea di Libero scambio che creerà il più grande mercato mondiale: 380 milioni di abitanti, il 40% del commercio mondiale e un'area che va da Capo Nord alla Sicilia e a Creta), e poi agli accordi di Maastricht - incrociando dal 1989 gli eventi grandiosi della rivoluzione della libertà nell'Europa centrale e orientale - una storia che sta mettendo di nuovo alla prova e a ben dura prova, il metodo della costruzione europea. Nel quale alcuni affinamenti sono stati fondamentali: primo fra tutti, nell'Atto Unico, quella tecnica dell'attuazione degli accordi attra-


verso una chiara previsione di scadenze e progressioni che qualche studioso ha chiamato la "rivoluzione delle procedure"; in secondo luogo, la tenuta stessa del metodo. In quest'ultima fase, infatti, ritroviamo l'idea di dover creare legami forti di governo unitario a livello europeo intorno ad un'area funzionale di rilievo, che potremmo chiamare strategica se la parola non fosse ormai corrosa dal moltiplicarsi degli usi impropri. La grande novità di Maastricht e che 1 area funzionale e al massimo livello possibile: l'area monetaria. Materia delicatissima, innazitutto perché sul piano simbolico tocca il cuore della sovranità, anche se nulla è così da tempo profondamente internazionalizzato come la materia monetaria. In secondo luogo perché la politica monetaria è da tempo al centro della politica economica. Per tutto questo gli impegni di Maastricht sono, nella loro parte essenziale, il frutto massimo di un metodo e per questo - inutile nasconderlo - sono ad alto rischio. Quanti in questi ultimi anni si sono assunti il compito di costruire il percorso verso l'unione in questa area funzionale strategica - e si tratta del "club monetario" come qualcuno ha chiamato gli uomini delle banche centrali europee che nella stretta intesa con Jacques Delors hanno tirato il processo verso l'unione economica e monetaria - hanno ben avuto consapevolezza di interpretare, nel momento storico, il metodo della costruzione europea che nacque con la Comunità del carbone e dell'acciaio. Di ciò gliene va

dato atto con pieno riconoscimento di merito. Il fatto è che il livello a cui si è portato il metodo è talmente alto da non poter più immaginare che la partita possa essere giocata solo su questo terreno trascurando l'ampiezza delle questioni che sorgono dall'impatto dell'unione economica e monetaria con le società europee, con le loro strutture di potere, con la loro organizzazione degli interessi. Occorrono, certo, ulteriàri e seri passi sul piano istituzionale dell'unione politica, come ha suggerito la stessa Bundesbank, ma c'è più di una ragione per avviare una lùcida comprensione e simulazione delle azioni e reazioni che si avranno nella concretezza della vita sociale. Forse è questa stessa preoccupazione che Delors ha voluto esprimere quando ricordava che "niente è mai acquisito".

CONTRADDIZIONI INACCETTABILI

1992: le due facce dell'Europa, Siviglia e Sarajevo. Giustamente il giornale The European intitolava così la prima pagina del numero dell'altra settimana. Da una parte, l'esibizione dell'ottimismo e di un certo modo di guardare al futuro della cooperazione tecnologica e non solo di questa; dall'altra parte, a circa 2000 chilometri sullo stesso contienente, la morte, il regresso alla guerra etnica o tribale, l'incubo che il passato peggiore dell'Europa si riappropri della storia. bi


A dire la verità, l'ottimismo di Siviglia in questa situazione rischia di risuonare un po' fatuo. Certo, come si leggeva nel documento preparatorio del V Incontro ecumenico delle chiese europeee tenutosi nel novembre 1991 a Santiago de Compostela, "molti uomini in Europa centrale, dell'Est e del Sud hanno la sensazione di essere ritornati al tempo antecedente la prima guerra mondiale o tra le due guerre: le catastrofi non appartengono solamente al passato. La possibilità che gli orrori del passato si ripetano non è da escludere quando si considerano le nuove correnti estremiste, il terrorismo, il razzismo d'ogni sorta, l'intolleranza religiosa, nonché il risveglio dei nazionalismi e della xenofobia in tutta l'Europa". C'è la tentazione di dire, a questo proposito, che per le abitudini di una società abituata sempre più alla memoria corta, alle prospettive di breve termine, allo shortism dei comportamenti politici ed economici, i tragici fatti dei Balcani sono una lezione che riporta alla necessità di cogliere i fenomeni della lunga durata sul piano della storia o dell'antropologia culturale. Ma questa tentazione è intellettualistica. Pur richiamando alla memoria la grande lezione di dottrina di maestri come Fernand Braudel sarebbe rimanere a cercare ragioni nel mondo degli addottrinati. Laddove, nei tragici avvenimenti balcanici, colpisce, al di là di tutto e al di là dell'impreparazione della classe politica occidentale ad affrontare il proble8

ma, lo sgomento di quella gente comune che abbiamo visto chiedersi: come mai è potuto accadere? non stavamo vivendo insieme in qualche modo da tempo? Di qui le responsabilità storiche di un sistema politico e istituzionale che pur crollando rimane lontano dall'aver superato la soglia di una democrazia effettiva, di qui le responsabilità drammatiche della classe dirigente locale, della sua miseria storica. Ma di qui anche il dispiegarsi di compiti nuovi per gli europei. E un capitolo nuovo della costruzione, è un reinizio arduo su un versante importante dell'unità europea. E qui allora, di nuovo, soccorre una raccomandazione di Monnet, che si dice egli abbia confidato ad alcuni amici: "Se l'Europa fosse da rifare, occorrerebbe forse cominciare dalla cuii tura ,' L'Europa oggi non è da rifare, ma bensì essa deve far fronte ad un nuovo capitolo che per ora ha grandi potenzialità solo negative. Rimarginare le tragiche ferite dei Balcani sarà difficile. Non basterà questa volta allargare il mercato o stabilire altri e più ampi legami funzionali. Questa volta occorre parallelamente cominciare dalla cultura nel senso forte che occorre ora richiamare.

QUALE CULTURA PER L'EUROPA? È possibile un progetto di cultura che, secondo il suggerimento del filosofo Emmanuel Levinas, preceda la politica e sia una "relazione con altri", presi


questi altri per quel che sono, e non già ridotti a "ciò che si apparenta al mio"? Un progetto di cultura che sia, in altri termini, anche e soprattutto una relazione etica? L'esperienza del pluralismo nelle democrazie occidentali condurrebbe a rispondere frettolosamente di sì. Senonché più di un dubbio è lecito da quando, e cioè da gran tempo, il pluralismo ha cessato di essere, se mai lo è stato, relazione etica, ed è semplicemente prassi combinatoria di interessi non sempre nobili, ne di gran profilo. Ma è di questa cultura che s'avverte il bisogno, nel senso dunque dell'etica ma anche del grande contributo dell'antropologia culturale, quando al cuore della realtà e dell'evoluzione europea è il formidabile dilemma delle identità: quella europea da sollecitare e da far crescere; quelle delle comunità nazionali e regionali da riconoscere e salvaguardare, anzi da valorizzare proprio nella logica della pace europea. A seguire l'evoluzione dell'idea d'Europa (secondo quanto ricostruì magistralmente nelle sue lezioni Federico Chabod, lezioni che si vorrebbero ripubblicate da Laterza magari insieme alle lezioni sull'idea di nazione), l'Europa sempre stata, in epoca moderna, un'idea delle diversità. Anche Edgar Morin nel suo saggio di pochi anni fa "Penser l'Europe" partiva da quest'idea di diversità. Diversità che molte volte, tuttavia, sono sembrate sopraffare la possibilità stessa di una identità europea tanto da far qualificare l'Europa (per esempio da Walter Laquer) come un "continente

smarrito". Del resto è stato osservato come solo "l'americanizzazione" dei comportamenti sociali soprattutto attraverso i rnass media, sia stato fattore di qualche unificazione del nostro continente, certo più forte della stessa integrazione istituzionale comunitaria. A questo dibattito si sono recentemente riferiti Enrico Castelnuovo e Valerio Castronovo nella prefazione al bel libro Europa 1992. Radici di un'identitì. Che sia ancora scarsa l'incidenza del processo comunitario sull'idendità europea è sottolineato dallo stesso Jacques Delors quando ha sottolineato "l'enorme distanza creatasi tra i progressi della costruzione europea, da un lato, e la percezione che hanno i cittadini, dall'altro". Si comprende dunque come ci sia oggi un continuo interrogarsi sull'identità d'Europa, sul nucleo essenziale dei suoi valori, sulla sua immagine. Rispetto a questa ricerca hanno certamente un peso importante i problemi della scuola nel senso più ampio del termine, da quella primaria all'università. L'articolo 126 del trattato di Maastricht dev'essere a questo proposito largamente citato, come segnala opportunamente Le Monde nel dossier Campus di fine marzo. Esso è , da una parte, l'espressione del dilemma delle identità: infatti, afferma la volontà di promuovere iniziative innovative ma non vuole toccare le sensibilità nazionali dei paesi membri. Se ne conclude che per incoraggiare la cooperazione in campo educativo non bisogna pretendere di armonizzare le politiche. Posizione che, al


momento, sembra ragionevole se non fosse che in qualche modo si viene ad identificare come area protetta l'identità nazionale mentre scoppia attraverso l'Europa la questione delle identità regionali che non può non avere eco ed influenza sul piano delle stesse politiche educative. Una questione che sul tavolo europeo potrebbe essere affrontata meglio e con senso d'equilibrio. La spinta, in ogni caso, alla cooperazione in campo educativo deriva da alcuni tratti storici comuni dei sistemi educativi europei. Lo ha ricordato Jean-Pierre Jallade, direttore dell'Istituto europeo dell'educazione e della politica sociale della Fondazione Europea della Cultura, ricordando che il tratto principale che distingue i sistemi europei da ogni altro e soprattutto da quello degli Stati Uniti è l'esistenza di un diploma alla fine dell'insegnamento secondario. Il futuro del bac è un tema, dunque, che coinvolgerà tutti i paesi della Comunità. Ma la questione di fondo che sul piano educativo e, aggiungerei, della formazione permanente, riporta nel cuore del dilemma delle identità è la questione linguistica. Teoricamente si immagina il bilinguismo come necessario per i cittadini d'Europa. Ma quale bilinguismo, se non ha alcun senso porre la scelta di una lingua della comunità e dell'unione? Il bilinguismo si trasforma così in necessario plurilinguismo e con ciò bisogna prendere atto di un inevitabile filtro selettivo ed elitistico entro la cit10

tadinanza europea: fra chi pratica più lingue e chi no. Del resto, la barriera linguistica opera in vario modo: tende a rinchiudere, per esempio, i detentori di una lingua forte e diffusa come l'inglese entro un mondo proprio delle idee e delle lettere. Un recente studio sulle traduzioni letterarie in Europa segnala come a fronte del 18% di traduzioni che si hanno in Francia sul complesso della produzione libraria e al 25% che si registra in Italia e in Spagna, solo poco più del 3% sono nel Regno Unito le traduzioni. Cifre che naturalmente vanno ben lette e interpretate. Qui servono semplicemente per ricordare un altro aspetto della complessa questione della barriere linguistiche. Barriere che possono essere ridotte come i sistemi scolastici s'apprestano sempre più a fare (in questo campo il ritardo italiano è grave), ma che malgrado ogni sforzo di cooperazione previsto dall'art. 126 del Trattato così come modificato a Maastricht, va assunto per quello che è: il fondamento principale delle diversità ma, insieme, bisogna ricordarlo, la ricchezza della cultura europea. Tanto è vero che contro il predominio delle lingue forti, nazionali o imperiali (quale non è stata la sottovalutazione della questione linguistica nel governo dell'uRSs anche nell'epoca della perestroika!) si è affermato attraverso il continente il movimento di rivalutazione delle lingue regionali, agevolato anche dall'opera di sistemazione degli apparati strutturali che la moderna linguistica consente.


RUOLO DELLE SCIENZE SOCIALI NELLA COSTRUZIONE EUROPEA

In uno degli ultimi numeri della rivista "History of European Ideas", nata a suo tempo con il supporto della Fondazione Europea della Cultura, uno studioso (Walker Connor) - facendo il punto delle ricerche sulla nascita delle nazionalità con un articolo dal titolo intrigante "Dalla tribù alla nazione?" - fà subito, all'inizio, questa affermazione: "Malgrado gli sforzi estesi che generazioni di storici e analisti hanno dedicato alla storia dell'Europa e dei suoi popoli, fissare le date dell'acquisizione della coscienza nazionale da parte di ognuno dei circa cinquanta gruppi nazionali esistenti in Europa rimane un compito fra i più controversi". Fra gli argomenti portati a sostegno di questa affermazione il più sorprendente credo che siano - e ricordo la cosa come una curiosità - le conclusioni di un recente autorevole studio secondo le quali gli abitanti della campagna e delle piccole città di Francia non si consideravano membri della nazione francese ancora nel 1870 e per buona parte fino alla prima guerra mondiale. Rivelazione che giustamente l'autore considera "particularly dramatic" perché la Francia viene tradizionalmente considerata fra i primi casi di creazione in Europa di un compiuto stato-nazione. Vero è, bisogna dire, che è nota la tradizionale distanza psicologica che c'è sempre stata fra Parigi e il resto del paese; tuttavia le

conclusioni ricordate non mancano di colpire. Alla fine dei conti, quali che siano alcune regolarità che possano essere rilevate ad un'analisi di antropologia culturale o di altra scienza sociale, rimane il fatto che la nazione e un entita che si auto-definisce tale. Se ne conclude che i opinione popoiare puo in ogni momento giungere a sentire necessario che la nazione venga realizzata". In effetti, oggi le condizioni storiche hanno riproposto, attraverso l'Europa, fenomeni diffusi di questa soggettività nazionale: pericolosi per la pace e la coesione europea se non colti per tempo e se non governati attraverso i meccanismi della democrazia sovranazionale. Intenderli, valutarli, prevederli può essere un compito precipuo delle scienze sociali. "L'identità sociale non può essere trattata - è stato giustamente avvertito - come un genere di lusso a cui indulgere soltanto in certe occasioni rituali. Poichè sono coinvolti non soltanto i comportamenti e gli atteggiamenti aperti alla valutazione razionale, ma anche i più profondi piani emozionali dell'attaccamento e dell'appartenenza, questi facilmente possono essere lasciati fuori dalle preoccupazioni di quanti desiderano trattare soltanto con le dure materie economiche. Tuttavia, se lasciati fuori, essi con più probabilità eromperanno in modi fortemente conflittuali minacciando la coesione sociale che è sostegno indispensabile di un'Europa competitiva". La saggia raccomandazione è contenuta nel citato rap11


porto sulle "Scienze Sociali nel contesto della Comunità Europea". Non credo tuttavia che riguardo al problema delle identità il compito sia soltanto quello di intendere e prevedere. Le scienze sociali hanno anche il compito, ritengo, di impegnarsi nella progettazione dei sistemi istituzionali per valorizzare le identità e per farle coesistere. Personalmente sono fra coloro che da tempo avvertono che la questione delle Regioni è una delle maggiori questioni politico-istituzionali europee. Sul punto il trattato di Maastricht è stato prudente. Forse a ragione, anche perché non è maturato un progetto adeguato. Progetto che non può essere compito esclusivo del mero pensiero istituzionalista, ma di un pensiero costituzionale che raccolga i frutti, i suggerimenti, le previsioni di un intenso lavoro interdisciplinare. Per esempio, come non tenere conto nel trattare la questione regionale, dei risultati delle scienze dell'ambiente? Contiguo ma diverso al tema specifico delle Regioni è quello delle minoranze, sia le minoranze stanziali e storiche sia quelle nuove derivanti dall'immigrazione. Può darsi, come qualcuno immaginosamente ha scritto (mi riferisco a Miguel Angel Bastenier, vicedirettore di EI Pais), che in un futuro lontano si possa avere memoria storica degli anni che stiamo vivendo come quelli dell'inizio di un grande fenomeno progressivo di meticciato planetario, cui non resisteranno le più gelose identità nazionali. 12

Può darsi! Tuttavia il percorso sembra passare ora per il riconoscimento delle identità e per uno statuto della convivenza che non è stato ancora scritto ma che sembra urgente. Uno statuto da scrivere in termini di costituzione europea e in termini di tavola dei valori etici. E un terreno sul quale m'auguro che possa realizzarsi un'importante iniziativa della Fondazione.

DISCUTERE ATTENTAMENTE SULL'EUROPA È il momento di concludere. Anche perché a ripercorrere le "ragioni della cultura" - che sono tante - si rischia di compilare un elenco che rischia di perdere via via il focus forte che pur deve avere. Consentitemi alcune considerazioni conclusive. In Europa è questo il momento delle ratifiche degli accordi di Maastricht e il dibattito nei parlamenti e nell'opinione pubblica (il caso francese e quello danese sembrano al momento di maggior spicco) tocca molti problemi di prospettiva: quello soprattutto relativo a come l'Unione prossima ventura possa far fronte all'esigenza dell'allargamento, perlomeno secondo la logica dell'accordo con l'Associazione di libero scambio, e come appena dopo dovrà farvi fronte con un ulteriore aggiustamento istituzionale. Al contrario si vorrebbe un dibattito più approfondito: che sarà comunque da riprendere alla scadenza non lontana delle elezioni per il Parlamento Europeo. Mi domando se nel frattempo potrà fi-


nalmente avvenire che si trovino tempo e modi in questo paese per affrontare seriamente nell'opinione pubblica il tema dell'Unione Europea. La situazione a cui è ridotta la politica italiana e le gravi emergenze nazionali da anni irrisolte hanno, fra l'altro, impedito che seriamente si discutesse dell'Europa. Quasi si trattasse di un lusso. E un fatto da constatare. In questo modo l'Europa potrebbe anche improvvisamente trasformarsi, nella coscienza della gente, da immagine piacevole di un gadget turistico all'immagine di un cerbero da molti invocato ma alla fine odiato. Siamo su una pessima strada. La sede che ci ospita - il CNEL - oggi una delle principali assise dove si discute e si lavora per mettere a punto un percorso che consenta la convergenza economica del paese rispetto agli obiettivi di Maastricht. Qui e altrove intelligenze oneste si adoperano per suggerire

qualcosa di concreto, utile e condiviso al governo ignoto che dovrà condurre il paese attraverso questo percorso. La convergenza •è vitale. Tuttavia non vorrei che si facesse l'errore, alla fine imperdonabile, di non ricordare che la convergenza è necessaria non tanto per stare in Europa ma per far camminare l'Europa. E l'Europa è il progetto, non ancora pienamente raggiunto e non ancora sicuramente garantito, della pace duratura e operosa nel continente secondo quanto indicava il primo documento di lavoro di Monnet per la Comunità del carbone e dell'acciacio. L'Europa integrata e patrimonio troppo prezioso perché le presenti generazioni non la consegnino alle future al meglio delle sue potenzialità. Se non si cerca di rinnovare questa forte consapevolezza il dibattito sulla convergenza potrebbe anche risultare senza fiato.

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Cultura europea e ricerca sociale di Gabriele Calvi

Uno dei motivi che ci spingono oggi a riflettere sulle ragioni della cultura certamente ravvisabile nella nostra convinzione che la ricerca sociale - in particolare: la ricerca sociale empirica possa contribuire in modo rilevante alla formazione di una comune coscienza europea. Eppure, siamo tutti costretti a constatare come, fra i tanti fiumi che alimentano la cultura europea, la ricerca sociale empirica dedicata alla reciproca conoscenza dei popoli del continente appaia solo un rigagnolo. Considerando le indagini che per ampiezza e sistematicità del confronto hanno fornito dei dati comparabili per tutte, o buona parte, delle nazioni europee, troviamo il carfiere quasi vuoto. La CEE ha dedicato una parte assai modesta delle rilevazioni Eurobarornetro a problemi di natura sociale, fra le quali merita però di essere ricordata quella relativa alla fiducia (social trust) fra connazionali e nei confronti dei cittadini degli altri Paesi, i cui risultati sono stati ripresi più volte nei lavori di Inglehart e Rabier. Un segnale importante è stato dato nel 1981 dalla fondazione European Value 14

System Study Group (Amsterdam), che ha promosso un sondaggio sulle credenze e sui valori in nove Paesi della Comunità, ripetuto recentemente, nel 1991. Dal 1985 è in atto l'International Social Survey Program, a cui aderiscono oggi dieci Paesi europei. e sei extraeuropei, per sondaggi annuali comparati su atteggiamenti sociali relativi a problemi diversi. Il contributo di questo programma diviene sempre più consistente ed è da considerare per la liberalità con la quale i risultati delle indagini vengono messi interamente a disposizione della comunità scientifica, tramite lo Zentralrchiv fuer empirische forschung di Colonia. Non vi è molto altro da citare, se si eccettuano alcune indagini di carattere sociopolitico, sulla scia della 'Five Nations' di Almond e Verba, che hanno toccato questo o quel Paese, o solo un gruppo di Paesi mediterranei. In breve, se il sistema della nostra riflessione concerne espressamente il substrato psicosociale ed etico sul quale si tratta di edificare una nuova conoscenza dell'Europa unita, non è esagerato affermare che conosciamo troppo poco


e che, soprattutto, sono i cittadini europei a conoscere pochissimo gli uni degli altri. All'occhio disincantato del ricercatore i 340 milioni di cittadini che entreranno il prossimo anno nel mercato unito appaiono un aggregato estremamente eterogeneo, costituito da persone e popoli che la storia ha separato per secoli, anche molto dolorosamente, ai quali ha dato tradizioni, istituzioni, costumi, abitudini, mentalità molto diversi. Ebbene, questo amalgama resta totalmente misterioso per le scienze sociali. Non esiste un solo studio comparato e sistematico sulla coscienza etnica e nazionale dei popoli europei, sulle caratteristiche delle molte identità nazionali - e delle rispettive minoranze - o sul grado di identificazione dei cittadini dei vari Paesi con le istituzioni e i simboli che li rappresentano. Poche e frammentarie informazioni di questo genere sono reperibili solo nell'Eurobararnetro, limitatamente ai Paesi della Comunità.

CREARE UNA COSCIENZA EUROPEA

Se ricerchiamo le ragioni della cultura per l'Europa non dobbiamo nasconderci che noi, cittadini della CEE e dello spazio EFTA, con i cittadini degli altri paesi di civiltà europea chè presto avanzeranno la richiesta di associazioni al mercato unito (Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia), per un insieme di oltre 450 milioni di persone, siamo tutti pro-

fondamente divisi da ignoranza, preconcetti, stereotipi e barriere emozionali, destinati a protrarre nel tempo i loro effetti nefasti. La caduta di muri e steccati - politici, economici e militari - travolti dal moto impetuoso della storia, ha messo i popoli di fronte a questa sconcertante realtà. Soprattutto l'ignoranza che gli uni hanno degli altri è apparsa improvvisamente enorme, un'ignoranza colma di diffidenza, di egoismi e di pregiudizi ben più minacciosi delle armi un tempo schierate alle frontiere. Il futuro di pace e collaborazione, che sembrava ormai a portata di mano, si è rilevato lontano, difficile e tutto da conquistare. Le coscienze più vigili hanno percepito i nuovi ostacoli come più consistenti, subdoli e duri da rimuovere di quelli spazzati via dalla lotta alle dittature e dalla coercizione economica, che impone ai Paesi un'interdipendenza crescente quale condizione di vita. Ed è da questa consapevolezza che può avere inizio una nuova mobilitazione etica, politica e scientifica, cui è necessario assegnare prioritariamente il compito di accrescere la conoscenza che i popoli e le nazioni hanno di se stessi in rapporto agli altri. Gli strumenti di questa impresa sono certamente molti, dalla letteratura al cinema, dalla stampa alla televisione, dalle famiglie alla scuola. La rivisitazione della storia, l'aggiornamento geografico ed economico hanno un ruolo importante. Sono le scienze sociali, però, che devono assumersi l'onere maggiore del15


la ricerca, alfine di confrontare le culture e la mentalità dei popoli, discernere i valori dagli atteggiamenti pregiudiziali, scoprire le propensioni e le resistenze ad un mondo nuovo di cui tutti possano sentirsi cittadini. La maturazione di una coscienza fondata su un'identità sovranazionale e nutrita di comprensione e tolleranza per la diversità può essere favorita solo dalla cultura, è vero, ma questa, a sua volta, non può crescere senza il contributo di una ricerca sociale che approfondisca la conoscenza effettiva e reciproca dei popoli e indichi gli ostacoli da rimuovere lungo il cammino. L'annuncio di un'Europa che nasce dovrebbe sollecitare in noi tutti la consapevolezza che è necessario allargare gli orizzonti del nostro lavoro. Dovremmo aprire maggiormente i nostri interessi scientifici dalla prospettiva nazionale a quella internazionale e, in particolar modo, dalle ricerche 'monoculturali' - oggi assolutamente prevalenti a quelle comparate. E mia personale convinzione, in proposito, che sia da iscrivere nella missione e nell'agenda del Consiglio Italiano delle Scienze Sociali la promozione di una collaborazione e di un confronto scientifico che varchino il confine delle Alpi. Se la vocazione del futuro è l'Europa, lo è in qualche misura anche la nostra vocazione.

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LE DIFFICOLTÀ IN CAMPO

Vi è moltissimo da fare per questa via e tra difficoltà di ogni genere. Vorrei accennare ad un modesto caso.La preparazione di un sondaggio dell'International Social Survey Pro grarn sul tema della coscienza nazionale, che verrà realizzato nel 1984 in 18 Paesi dell'Europa, dell'America e dell'Asia, ha messo in difficoltà il drafting group internazionale fin dalla sue prime battute. Gli antropologi, i sociologi e gli psicologi delle università e dei centri di ricerca coinvolti nell'iniziativa hanno subito rilevato che persino la terminologia scientifica corrente e le espressioni comuni da porre nella bozza del questionano erano inadeguate alla complessità dei fenomeni sul campo. E apparso molto ambiguo e di difficile impiego, ad esempio, un concetto fondamentale della ricerca, quello di identittì nazionale. Il senso di tale identità origina infatti da un insieme di fattori che rendono il concetto multidimensionale e confusivo. Il compito di tradurre il concetto in un insieme di indicatori, o strumenti di misura, si è rilevato molto arduo. Ha scritto M.N. Ghiolla Phadreigh, un sociologo dell'Università di Dublino che collabora al progetto, che il sondaggio in Irlanda deve tener conto di tre diverse situazioni. L'identitì nazionale irlandese è sentita solo dai cattolici, poiché i protestanti dell'Ulster si sentono inglesi. L'identitì di cittadinanza è sentita nella Repubblica e nell'Ulster solo


da coloro che hanno mentalità moderna ed europea. L'identità etnica è invece sentita nel sud come nel nord dell'isola, sia da cattolici, sia da protestanti. Nella Repubblica Federale di Germania divengono ambigui il concetto e il termine di immigrante, che designa per alcuni solo i turchi o gli italiani, mentre per altri indica anche i tedeschi che provengono dalla Germania dell'Est o dalle enclaves tedesche della Polonia e della Russia. Le difficoltà del razionale della ricerca, poi, sovrastano quelle del linguaggio, certamente minori al confronto. Basti pensare quanto critico è divenuto il rapporto fra i concetti di identità nazionale o etnica e quello di modernizzazione, il processo della quale ha favorito per certi aspetti l'ampliamento e la flessibilità di tali identità, mentre per altri aspetti le ha esacerbate, sollecitando la rinascita di culture e linguaggi minoritari e la competizione politica fra subunità regionali.

RIFLESSIONI SUL FUTURO

Il disegno di un'Europa multiculturale, ma integrata, mostra sempre più chiaramente tutta la sua difficoltà. Il melting pot etnico e culturale fondato sulla prosperità e sui consumi si è già rilevato un'illusione negli Stati Uniti. Quand'anche credessimo ciecamente alla tranquillità prospettiva di un'Europa unita in un grande mercato, nella moneta unica, nel reddito crescente, nei

consumi opulenti, dovremmo toglierci l'illusione che possa essere l'affluenza il tessuto connettivo civile della futura Comunità. L'affluenza genera una cultura del consumo cui sono facilmente proclivi milioni di persone. Ma una simile cultura, è ormai provato, tende a distruggere le culture preesistenti senza edificare nuovi valori che non siano individualistici e antisolidaristici. Nella migliore delle ipotesi, la cultura del consumo genera il consumerismo e il boicottaggio delle industrie e dei prodotti lesivi di particolari interessi, come dimostra quanto accade oggi negli Stati Uniti. Un grande mercato europeo ed enormi ricchezze a portata di mano dei Paesi egemoni e delle potenze finanziarie possono agire, inoltre, in modo dirompente, sullo spirito comunitario, sollecitando egoismi mai sopiti e preclusioni più forti di quelle istituzionalmente legittimate. L'Europa già soffre la sperequazione delle condizioni di vita di molti suoi abitanti. Non esiste l'euro-consumatore, è una figura mitica, afferma Brigitte Vincent in un recente studio dell'Eurostat (Futuribles, 163, 1992). Restano enormi le differenze fra un consumatore e l'altro per tenore e stile di vita. E presto l'Europa, già investita da tensioni etniche, nazionalistiche e regionalistiche interne, dovrà affrontare anche la migrazione delle forze di lavoro extracomunitarie, dei rifugiati politici, nonché la pressione della povertà dal sud e dall'est. 17


Per far fronte a questa situazione di cui possiamo prevedere con certezza solo la crescente complessità, l'Europa avrà bisogno di forme di governo sempre più efficaci ed elastiche, a geometria variabile, come afferma Riccardo Galli (Globale/Locale, Isedi, Milano, 1991), quali potremo avere solo con il consenso di cittadini capaci a loro volta di una identità flessibile, regionale, nazionale e sovranazionale, e di una chiara coscienza degli interessi sovraindividuali. E di fronte a questa sfida che ritroviamo le ragioni della cultura, di una cultura che valorizzi l'immenso patrimonio accumulato nel passato della civiltà europea, ma che guardi anche in modo nuovo ai nuovi problemi, o ai problemi che ha lasciato ai suoi margini quando stata sciovinista, o troppo provinciale, o elitaria. Un modo nuovo di guardare ai problemi odierni sta infatti nella convinzione che non saranno pochi politici, o alcune figure carismatiche, a costruire la nuova Europa. Saranno i milioni e milioni di cittadini di tanti Paesi a co-

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struirla, o a decretarne il declino, mentre altri giovani popoli esploderanno tutta la loro vitalità. Pertanto, è evidente che la cultura di cui cerchiamo le ragioni non potrà essere una cultura astratta, consegnata solo alle biblioteche, ma piuttosto una cultura capace di orientare quotidianamente il comportamento sociale e politico di tanti milioni di europei. Le ragioni della cultura non sollecitano, dunque, solo lo sforzo della ricerca e della produzione scientifica, ma pure la ridistribuzione del sapere, la riscoperta dell'educazione, della, formazione civile e politica, senza delle quali non vi può essere un consenso diffuso al progetto di una nuova Europa, ai benefici, ma pure agli inevitabili costi che ne deriveranno. Urgono una maggiore cultura del sociale e una cultura più ridistribuita: questa la realtà. Questa è la sfida che ci tocca molto da vicino. Questa, però, è anche la convinzione che guiderà correttamente ogni nostra azione futura. Io ne sono certo.


Egemonie politiche ed egemonie teoriche nel gioco dell'unificazione monetaria europea di Sergio Bruno

All'indomani del Vertice di Maastricht vi è stato un coro di accoglienze favorevoli. Oggi, a metà del 1992, molti entusiasmi sembrano cominciare a sopirsi, anche se per il momento non si concretano in prese di posizione specifiche. A mio avviso una maggiore riflessività, prima di Maastricht, non avrebbe guastato. Su ciò mi soffermerò più avanti. In ogni caso le decisioni di Maastricht, piaccia o meno, hanno messo in moto un processo che per qualche tempo andrà avanti comunque. Il problema è quello di vedere quali pieghe potrebbe prendere tale processo, per l'Europa nel suo complesso e per l'Italia in particolare. Di questo mi occuperò nella restante parte dell'articolo.

PRIMA Dl MAASTRICHT Sulla questione dell'Unione Monetaria Europea (uME) - se, come, quando, in alternativa a cosa - si gioca un conflitto a più parti e su più piani. Si apre con essa una sequenza di biforcazioni importanti nel processo dinamico che può condurre o meno all'integrazione politica europea e/o, in caso affermativo,

connotare diversamente qualità e tempi ditale integrazione. Un piano del conflitto è politico, e riguarda la leadership europea e le connesse alleanze. Su questo, tuttavia, si inserisce un secondo piano di conflitto, definibile come "ideologico" in senso lato. Esso riguarda infatti visioni alternative della società e dell'economia (come funzionano, come dovrebbero funzionare) e quindi chiama indirettamente in gioco le teorie che tali visioni strutturano. Su questo secondo piano di conflitto, che attraversa i paesi coinvolti, si inseriscono interessi reali (ad es. delle parti sociali), i cui portatori aderiscono a tali teorie/ideologie/visioni sulla base di riflessioni di.sostanza e di opportunità e sulla base di convincimenti e di trends culturali che riflettono esperienze pregresse. L'eventuale avvento dell'uME costituisce, al contrario di altri paesi del processo integrativo europeo, una discontinuitì; cambiano cioè, rispetto ad altri cambiamenti, pregressi o possibili per il futuro, il grado e la natura delle irreversibilitì che con tale trasformazione verrebbero costruite. L'UME va infatti letta come la obliterazione dell'esistenza, e 19


quindi della potenziale aggiustabilità dei tassi di cambio. Non soio, in caso di risultato negativo, il ritorno a monete separate sarebbe difficile, ma ben ardua diverrebbe, a partire da un tale eventuale insuccesso, una ripresa a breve termine del processo di integrazione europea. Di qui non solo e non tanto la necessità di riflettere bene prima del passo, quanto quella di congetturare sugli scenari che da esso potrebbero derivare sulla base di riferimenti culturali, teorici e politici non extrapolativi. L'UME è fortemente voluta dalle Banche Centrali e da tutti gli ambienti che, per opportunità o per genuina fiducia, ne condividono la visione. Questa visione può ricondotta agli schemi c.d. di nuova macroeconomia classica Questi esaltano il ruolo della concorrenza nel conferire efficienza al sistema; la concorrenza farebbe infatti sopravvivere ed emergere la migliore tecnica ("the best way technique") per ogni specifica produzione; paesi, aree, imprese dotate di tecnologie non competitive sarebbero costrette - non più al riparo di possibili riallineamenti dei tassi di cambio - a scartare tali tecnologie per adottare quelle più competitive, sia pur passando per una fase di crisi e di disoccupazione, che tuttavia tali schemi considerano transitori. La funzione dell'uME può essere - in una tale ottica - riguardata come avente funzioni fondamentalmente "disciplinari". Queste riguardano certamente il mercato ed i suoi agenti, ma non 20

meno i lavoratori e il settore pubblico. La "obbligatorietà" dell'efficienza, cioè, finirebbe per costringere le classi politiche inefficienti e spendaccione a divenire attente alle esigenze degli operatori economici, più responsabili e oculate (è anzi probabile che un tale atteggiamento - a mio avviso un tantino ingenuo ed eccessivamente ottimista abbia attirato molte simpatie a favore dell'uME da parte del mondo imprenditoriale italiano).

LE PERPLESSITÀ CHE DERIVANO DA VISIONI ALTERNATIVE Questa visione ed il connesso carattere catartico e transitorio attribuito alla crisi che seguirebbe l'UME non sono condivisi da molti politici ed analisti, economisti e non. Si tratta di soggetti che hanno una esperienza e una percezione diretta della realtà tecnologica, industriale, istituzionale e sociale, al contrario dei macroeconomisti che hanno generato gli schemi più sopra ricordati, che di tale realtà hanno per lo più una conoscenza indiretta e sintetica; si tratta di analisti con esperienza di economia industriale, di tecnologia, di organizzazione, di politica istituzionale e sociale; di funzionari pubblici appartenenti a ministeri tecnico-economici (come l'Industria); di esponenti del mondo delle imprese, pubbliche e private; di funzionari CEE (ad es. DG XII, DG V, ma certo non del Direttorato per gli affari economici e finanziari, la cui


cultura è invece omogenea a quella del- consentono la persistenza di tali positile Banche Centrali). ve "diversità" e, con la possibilità di Per essi la concorrenza moderna, lungi occasionali aggiustamenti, la sostanziadall'essere imperniata - come fattore le tenuta dinamica degli equilibri comprincipale - sul costo del lavoro per petitivi. Inoltre è la flessibilità potenunità di prodotto, è invece, almeno per ziale dei tassi di cambio che consente ad la maggior parte dei settori, dipendente imprese, aree e stati che si trovano in dalla capacità innovativa, dalla qualità stadi relativamente più arretrati di altri dei prodotti, dalle strategie organizzati- di "coabitare" con questi. ve e di mercato. Competere su un mercato estero implica per lo più installarsi in esso con strategie, capacità organiz- POSSIBILITÀ DI EFFETTI ANTICOESIVI zative e commerciali di lungo periodo, tanto che i dati mostrano come i pro- Come conseguenza di questo diverso dotti manifatturieri che un paese espor- quadro interpretativo, si congetturano ta in un altro costituiscono di solito conseguenze dell'UME molto diverse da una quota relativamente stabile delle quelle delineate dai macroeconomisti. importazioni di quest'ultimo, soggetta L'UME scatenerebbe un clima ipercoma variare solo nel lungo periodo, scarsa- petitivo, che finirebbe alla lunga per mente sensibile ai cambiamenti di breerodere i profitti della maggior parte ve nelle relatività nazionali dei costi del delle imprese a favore di quelle poche lavoro. che si trovano a godere, in concomitanEsistono diverse modalità tecnologiche za della transizione, di vantaggi cumuassociate a business competitivi e di lativi; la differenziazione e il tasso di insuccesso imperniati su prodotti simili. novatività rallenterebbero (come avveLe tecnologie non sono date una volta nuto in Gran Bretagna e ad una parte per tutte e di eguale efficienza una volta rilevante del sistema nord-americano, disponibili: esse sono invece soggette a che infatti ha sperimentato negli anni processi di apprendimento, mentre i fe- '70 e '80 una dinamica della produttivinomeni innovativi sono per lo più cu- tà notevolmente inferiore a quella eumulativi. La diversità di tecnologie e di ropea); le crisi di impresa e i fenomeni modi di uso, inoltre, espande i processi di disoccupazione non sarebbero quasi di invenzione e di apprendimento per mai rapidamente transitori, bensì di effetto dell'instaurarsi di fenomeni di lunga durata; si creerebbero nuovi fofertilizzazione incrociata. colai di dualismo. Sono i tassi di cambio che, funzionan- Il risultato sarebbe, in altri termini, ando da "fattore cieco" di compensazio- ticoesivo nel breve-medio periodo e di ne di una pluralità di differenze cultu- possibile logoramento della dinamica rali, istituzionali, economiche, ecc., della produttività nel più lungo periodo. 21


luogo il processo di integrazione delle due Germanie. Una situazione, quale quella immediamente successiva al 1972, di estrema volatilità dei tassi di cambio non è favorevole allo sviluppo economico e alla concorrenza internazionale. Sotto questo profilo I. processi di coordinamento tra le Banche Centrali e di conseguente stabilizzazione hanno certamente fornito un contributo positivo, anche se, nel caso europeo, l'intrecciarsi alla concorrenza sui mercati di una concorrenza tra le politiche pubbliche nazionali ha probabilmente determinato accanto ad una crescita nazionale della produttività, l'accumularsi (di per sé sistemicamente aberrante) di un'eccessiva e inutile disoccupazione. Sarebbe tuttavia ingenuo ritenere che il carattere positivo delle azioni volte a UN PROCESSO DI FEDERALIZZAZIONE IMPRO- stabilizzare i cambi possa essere extrapolato fino a ritenere che la fissità assoPRIA luta dei tassi - quale si avrebbe con l'uIn Europa si sta vivendo al momento ME - costituirebbe l'optimum. Il pasun processo di federalizzazione impro- saggio ad una situazione in cui sia impria, con l'unione economica e moneta- possibile aggiustare le parità costituisce ria in anticipo su quella politica. Eppu- infatti - come già osservato - una dire l'esperienza passata dimostra che, scontinuità strutturale. perfino quando l'unione politica - e la Nell'attuale situazione, di stabilità relasolidarietà che l'accompagna - costi- tive e di aggiustamenti concertati, si ha, tuiscono il passo preliminare, l'unione nel campo reale, una notevole vivacità economica e monetaria si accompagna innovativa, con crescenti processi di a squilibri economici e sociali e all'in- cooperazione infraeuropea. Questi, in sorgere di nuovi dualismi. Di qui evi- concomitanza con esplicite azioni comunitarie volte a favorire processi di denti motivi di preoccupazione. Tali motivi sembrano trovare nuovi e integrazione sia sociali che economici, ulteriori alimenti negli errori e nelle in- sta ponendo serie e diffuse premesse soddisfazioni cui sembra stia dando per ulteriori coesioni. Non verrebbe

• Si può addirittura formulare l'ipotesi che sia proprio la consapevolezza degli inevitabili squilibri connessi all'UME a suggerire a taluni soggetti che premono per un'accellerazione del processo di • unificazione politica europea l'opportunità di sfruttare in tal senso l'uME: la necessità di correggere e/o compensare gli squilibri conseguenti all'uME operando sul piano delle politiche strutturali, industriali e sociali costringerebbe infatti - si congettura - a giocare più precocemente di quanto altrimenti possibile, la carta di una più avanzata soli•darietà, possibile solo a seguito di più concreti passi sui piano dell'integrazione politica. Si tratterebbe in questo caso di una strategia quanto meno spericolata.

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tutto ciò messo in crisi da un'liME decisa troppo precocemente e non meditatamente?

Dono MAASTRICHT Il Vertice di Maastricht è valutabile su due piani, quello del processo integrativo europeo e quello dei riflessi per l'Itaha. Sul primo ha prevalso la soddisfa. zione, soprattutto per gli accordi sull'unificazione monetaria. Sul secondo gli atteggiamenti sono stati quanto meno ambigui; si è parlato di sette anni di sacrifici, accompagnando spesso l'affermazione con una sorta di strizzatina d'occhio, che stava a dire "i sacrifici sono necessari e meno male che adesso ci vengono imposti dal di fuori". Dissento da entrambe queste tendenze valutative, per motivi diversi ma accomunati dalle stesse riserve interpretative: scarsa attenzione ai fenomeni della parte reale dell'economia e della società, eccessiva attenzione a quelli monetari e finanziari, superficiali connessioni tra i due piani. A prescindere in questa sede dai pur fondamentali risvolti politici e ideali, l'unione europea dovrebbe avere come principale posta, dal punto di vista economico e strategico, quella di rendere l'Europa il terzo poio competitivo mondiale, accanto a quello nordamericano e a quello del sud-est asiatico. Dal punto di vista della competitività l'ordine macroeconomico e macrofinanziario costituisce una condizione

non sufficiente, spesso utile ma a volte perfino non necessaria. Soprattutto, è cosa diversa se tale ordine è il risultato di processi reali virtuosi, o invece qualcosa di perseguito fine a se stesso, come una sorta di imperativo meramente disciplinare del tipo cui si faceva riferimento nei precedenti paragrafi.

LE RAGIONI DELLE PERFORMANCES COMPETITIVE DEI DIVERSI SISTEMI Le ragioni di fondo della buona per/ormance competitiva giapponese e tedesca sono essenzialmente micro e mesoeconomiche: le strutture organizzative delle imprese e della società sono robuste e ben coordinate, imperniate su diversi, ma egualmente curati ed efficienti, sistemi di valorizzazione della risorsa umana. Per contro è difficile non correlare la performance sostanzialmente distonica degli Stati Uniti (una quota minoritaria di grandi imprese altamente competitive accanto ad una massa di aziende la cui competività è basata sui bassi salari ed è puramente orientata all'interno, con una bassa dinamica della produttività), e in buona misura della Gran Bretagna, con la struttura dicotomica del sistema educativo e culturale di questi paesi. Quanto alla Francia, che è forse oggi tra i paesi europei quello con la migliore qualità della vita, è difficile per converso non connettere tali risultati alla capacità che il governo e l'alto funzio23


di politiche industriali nel sistema europeo, ponendolo in posizione di svantaggio rispetto agli altri poli competitivi mondiali. La diminuzione di ruolo delle politiche industriali nazionali dovrebbe invece essere compensata da una valorizzazione crescente del ruolo di una politica industriale europea. A Maastricht, da questo punto di vista, si è mancato totalmente il bersaglio. I Paesi europei hanno previsto una lunga marcia di avvicinamento alla moneta unica. Per un verso ciò potrebbe apparire un bene, per dar tempo ai Paesi membri di equilibrarsi reciprocamente sul piano delle capacità competitive. A ben vedere, tuttavia, è possibile che l'attesa, un'attesa che le regole dell'uOPZIONI E PERICOLI PER L'EUROPA nione monetaria prescrivono di utilizL'Europa, per contro, avrebbe le di- zare per irrobustire il controllo sulle dimensioni adatte, ma i mercati captivi namiche di spesa pubblica e salariali, per attività strategiche sono troppo ri- cioè in chiave fondamentale restrittiva stretti, e le capacità competitive troppo e "disciplinare", possa giocare in senso frammentate, per poter controbilancia- contrario. re la forza delle grandi imprese norda- L'idea di concorrenza che è alla base mericane e giapponesi e dei "sistemi" dell'unione monetaria è quella di un'esasperata, miope, atomistica ed aggresin cui tali imprese operano. In particolare l'Europa manca di una siva ricerca di condizioni di minimo copolitica industriale unitaria ed efficien- sto; una concorrenza molto diversa da te. Anzi, mentre per il momento le po- quella oggi vincente, basata invece, colitiche industriali dei paesi membri fini- me si è già accennato, sulla ricerca e lo scono, a dispetto delle regole, per com- sviluppo di opzioni innovative e di alpetere tra loro, per il futuro si prospet- leanze, sulla qualità della risorsa umana e su una sua adeguata incentivazione, ta il pericolo che il progressivo smantellamento delle politiche industriali sull'insediamento nei mercati per la codegli stati membri, operato alfine di tu- struzione di rapporti di clientela di luntelare le regole di concorrenza all'inter- ga durata. Quest'ultimo tipo di concorno della Comunità, determini un vuoto renza si giova di quadri di riferimento

nariato di quel paese hanno di concepire, organizzare in modo credibile e perseguire con determinazione grandi programmi capaci di indurre risposte produttive, spesso innovative. Il Giappone ha una politica industriale organica, efficiente e condivisa. Gli Stati Uniti hanno degli spezzoni di politica industriale e certamente una politica commerciale, giocata soprattutto in chiave difensiva. La Germania e la Francia hanno certamente una politica industriale, diversa ma egualmente efficiente, ma hanno dimensioni troppo piccole per poter competere alla pari con i due giganti.

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stabili e almeno moderatamente espansivi, di mercati ampi, di servizi e infrastrutture efficienti, di politiche industriali di supporto. Si tratta quindi di qualcosa di molto diverso dallo scenario che potrebbe venirsi a determinare nel corso della ricerca, da parte degli Stati membri, delle migliori condizioni di ingresso nell'unione monetaria. Se, come tutto lascia ritenere possibile, dovesse prevalere presso la maggior parte dei paesi europei la tendenza a praticare politiche restrittive, senza serie tendenze compensative nei restanti, agli appuntamenti di fine secolo L'Europa potrebbe arrivare forse con qualche modesto risultato sul piano dell'inflazione media, ma certo con una capacità competitiva deteriorata e/o con tassi di disoccupazione preoccupanti.

QUANTO ALL'ITALIA...

Quanto all'Italia, essa rischia in questa fase di transizione di trovarsi in una situazione di particolare fragilità. Ci vuol ben altro che tagliare le spese sanitarie e previdenziali. Occorre rendere efficienti i servizi, le infrastrutture, la Pubblica Amministrazione. Non potendosi purtroppo disporre di una politica industriale europea, occorre almeno una politica industriale italiana chiara ed efficace. Se, come la Confindustria ripete, i prezzi industriali stanno aumentando a meno del 3%, altrove, cioè negli altri

settori, i prezzi stanno aumentando nell'ordine del 10% o più, con corrispondenti accumulazioni di rendite differenziali; è plausibile che un'analoga forbice inversa, punitiva nei confronti dei settori esposti alla concorrenza internazionale, si stia accumulando nelle dinamiche differenziali delle produttività. È allora evidente che il problema della competitività italiana stia tutta in questo "altrove". In questo "altrove" la spesa pubblica c'entra, ma più in termini di efficienza delle azioni finanziate con la spesa che di generico volume di spesa; il problema non è quindi da affrontare con la logica dei "tagli", bensì con quella di una profonda revisione e riqualificazione dei modi e dei meccanismi dell'agire pubblico. In questo senso l'eccesso di concentrazione dell'attenzione sul controllo delle poste finanziarie di bilancio potrebbe risultare addirittura dannosa. In ogni caso è evidente come il c.d. "risanamento" finanziario del bilancio non è che la minima parte degli interventi necessari per il riequilibrio della competitività. Esemplifico di seguito interventi aventi quasi tutti priorità e portata maggiore. Commercio e servizi. Per ragioni in parte ben note ma in parte ancora inesplorate, in questo settore non sono all'opera mercati efficienti; 'di qui l'accumularsi di rendite e basse dinamiche di incremento della produttività. Questo settore è un vero e proprio invito alla "deregulation", molto più di 25


quanto lo siano altri cui si fa riferimento a sproposito più spesso. La liberalizzazione delle licenze commerciali e degli orari costituisce il primo ovvio, ancorché insufficiente, passo. Passi di questo genere, come si è detto "preliminari", costituirebbero una vera e propria rivoluzione, sul piano politico prima ancora che economico. Appalti. Le clausole di revisione-prezzi sono al contempo causa di lievitazione della spesa e dei prezzi e di ritardi nell'effettuazione dei lavori. Si deve avere il coraggio, come accade in buona parte dei paesi esteri, di far competere le imprese anche in tema di formazione delle aspettative e in termini di abbreviazione dei tempi di esecuzione, come strategia assicurativa nei confronti dell'inflazione. Il passaggio di regime può indubbiamente comportare un'immediata lievitazione della spesa, che si ha ragione tuttavia di ritenere più che compensata da una minore dinamica successiva e da un'accelerazione nell'esecuzione delle opere. Ne risulterebbero inoltre due spinte di rilievo, a restringere i margini di corruzione e ad obbligare il contraente pubblico ad una maggiore programmazione dei propri adempimenti e ad una maggiore e migliore (cioè più specifica e accurata) trasparenza dei ruoli e delle definizioni di responsabilità. Politica industriale. Non se ne fa quasi più dai primi anni '80. Non vi è uno solo dei vari tentativi di costruzione di "poli italiani" (nella chimica, nell'elet26

tronica, nell'informatica, ecc.) che possa dirsi riuscito e vitale. Ha ragione l'Ing. De Benedetti quando lamenta come il mercato nazionale, soprattutto per la parte pubblica, sia lontano dall'essere un mercato captivo favorevole per le imprese italiane; va soio aggiunto che l'informatica non costituisce un caso eccezionale e che all'estero i governi son dotati - nella sostanza - di unfairplay certamente minore del nostro ma di una capacità di mascherare la cosa nella forma di gran lunga superiore, sicché ne risultano effetti più difficilmente impugnabili presso le giurisdizioni vigilanti europee. Quanto ai Gruppi delle partecipazioni statali non si sa più ormai da tempo che mandato abbiano. Devono perseguire obiettivi pubblici e strategie sistemiche, anche a costo di profitti minori e possibilmente negativi, come si pensava un tempo, o devono far profitti, come sembra sia il loro mandato più di recente? Nel secondo caso perché tali imprese debbono restare pubbliche? Nel primo quali sono strategie e obiettivi e chi del caso deve definirli? Trasporti. Ci sono voluti oltre cinque anni per varare il CIPET, organo compromissorio e forse in prospettiva dannoso per il coordinamento delle decisioni pubbliche in questo settore, in cui le politiche restano nelle mani di oltre venti diverse "teste", ciascuna delle quali non ha voluto fin qui cedere un briciolo delle sue competenze e delle sue sovranità; "dannoso" si diceva per-


che' può divenire la sede dove si formalizza il gioco dei veti incrociati. Il controllo della logistica da parte delle imprese italiane è scarso e si assiste ad una preoccupante espansione della presenza straniera. Ferrovie e trasporto aereo si trovano variamente in ritardo competitivo. Telecomunicazioni. Qui le prime formulazioni del riassetto, con l'assorbimento del "ramo inerte" ASST, risalgono addirittura al 1983. Si tratta di un settore che, nonostante i più recenti apprezzabili sforzi di accelerazione degli investimenti, si trova ancora probabilmente in una situazione di sottoinvestimento a fronte di un traffico pagante in espansione. Ciò non tanto a causa delle strategie del gestore, quanto per effetto delle complessità del reticolo di competenze e responsabilità da cui dipende il governo del settore, sicche' il volume degli investimenti non dipende dalle opzioni future, come dovrebbe, ma dai vincoli e dalle eredità del passato nei loro riflessi finanziari. Nonostante i miglioramenti, comunque, basta un minimo di esperienza internazionale per sapere che ie performances del sistema telecomunicativo sono più scadenti e più care di quelle assicurate dalla maggior parte dei nostri concorrenti internazionali. Ciò si traduce in uno svantaggio per il sistema imprenditoriale italiano. Alle incertezze di assetto si sono di recente aggiunte incertezze regolative, quali quelle sulla durata della concessione in monopolio del telefono mobile,

che non possono non interferire negativamente sulla definizione strategica delle architetture di rete. Concessioni, autorizzazioni e licenze. La piramide della corruzione ha come sua base la ricerca di deroghe a vincoli e divieti in un sistema in cui quasi tutto è vincolato o proibito. La tangente ai geometri dei comuni e ai vigili urbani fa da ombrello a più grandi e pervasivi sistemi di favori e corruzioni. Accade così che il sistema dei vincoli, così pesante e pervasivo, è lungi dall'impedire abusi. Di qui l'esigenza di rivedere e ridurre drasticamente il sistema di divieti e di vincoli, associando a quelli residui dei controlli efficaci. Educazione e ricerca. L'Italia ha seguito strade del tutto distoniche rispetto al resto dell'Europa nel campo dell'educazione superiore, sovraccaricando di compiti le università, lasciate al contempo senza quadri di riferimento programmatici attendibili, con risorse reali decrescenti, senza veri spazi di autonomia, prive di un managernent dedicato. Risultati: carenze nella disponibilità di risorse umane per le attività produttive (si pensi ad es. al campo ingegneristico, alla chimica) e per la stessa ricerca e didattica (una miope politica dei reclutamenti determina fin d'ora, e ancor di più ciò succederà in futuro, vuoti di organico vistosi in molte aree e sedi), estrema povertà di rapporti tra la sfera delle attività produttive e le istituzioni educative e di ricerca. Le cittì E possibile discutere sulle pira27


midi del Louvres o sull'arco della Defense. Queste discussioni non sono possibili, per mancanza di materia, nelle nostre città ingessate. La capacità trainante, sul piano tecnologico ed economico, di grandi programmi urbani, è miopemente sottovalutata (si pensi allo sviluppo sistematico, con forte standardizzazione delle tecniche, di programmi per l'utilizzazione dei sottosuoli urbani, per decongestionare il traffico, abbattere l'inquinamento, valorizzare opzioni commerciali). Fisco. Tema che non meriterebbe commenti, data la sua notorietà, non fosse che per il fatto che un serio restringimento dell'evasione metterebbe alle corde le rendite che si accumulano nel

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settore dei servizi, in ipotesi attaccate con la deregulation di cui si è parlato più sopra, con immaginabili significati politici. Inoltre, con un fisco meno "evaso" si potrebbe cominciare a fare della politica sociale più moderna, più efficace nei confronti dei veri soggetti deboli, meno costosa (si pensi al diritto allo studio, alla sanità, al diritto all'abitazione).

CONCLUSIONI

La mia impressione è che il costo politico delle azioni qui esemplificate sia ben maggiore di quello di una più rigorosa politica di bilancio, più efficace e produttivo, ma forse fuori della portata e della volontà dell'attuale classe politica.


Quale televisione per. il 1999? di Massimo Fichera

Esistono alcune idee fortemente radicate nel nostro modo di pensare la televisione. Due di queste, in particolare, vengono subito alla mente: una è quella che la Tv produca un processo di "involgarimento" culturale nel corpo della nostra società; l'altra - del tutto antitetica - vuole invece la televisione capace di unificare culturalmente e di far coesistere produttivamente i variegati insiemi che compongono una nazione. Queste tesi, così contradditorie, convivono spesso nelle comuni pratiche discorsive e, talvolta, perfino nelle analisi degli studiosi. La loro compresenza, il loro "dividere" in due parti irrimediabilmente conflittuali il punto di vista sul medium elettronico, ci riporta mevitabilmente alla difficile ecologia tra "comunicazione" e "omologazione". Si tratta di un tema complesso quanto nevralgico, che ha attraversato - in modo esplicito o meno - tutti i pensieri "forti" del Moderno. Oscilliamo da un valore considerato assolutamente positivo come quello del "comunicare" ad un'altro in cui identifichiamo la rinuncia alla nostra identità individuale o collettiva. La civiltà industriale e di massa ha prodotto, nel suo processo di

strutturazione, questa antinomia ideologica. Ma cosa c'è dietro questa dura contrapposizione? Quali sono i conflitti di culture che si agitano tra le quinte? Per trovare una chiave di lettura dovremmo forse risalire fino a Seneca ed alla sua celebre metafora del popolo come gregge, secondo la quale se il popolo non esprime capacità di discernimento e di autocontrollo della vita comunitaria, la gestione di ciò che oggi definiamo veicolazione delle informazioni non può che essere appannaggio di pochi: politici, ecclesiastici, intelletuali. I quali si ritrovano così in mano il potere di scegliere contenuti e modi della comunicazione ed i valori che devono regolare la vita del "gregge". Questa accezione èlitaria delle cose ha dominato ogni pensiero, da quello cattolico e quello laico. La ritroviamo in Montaigne come in Ortega y Gasset. E dunque naturale che la tesi del "villaggio globale" di McLuhan sia divenuta il paradigma egemone per quanto concerne la riflessione sul sistema dei media. Una grande omologazione culturale, con tutti i suoi valori positivi (pochi) e negativi (molti): era questa la "profezia" dello studioso canadese per il futu29


ro prossimo venturo. Una profezia che - non dimentichiamolo - viene pronunciata negli anni '50. Si era, a quel tempo, nel pieno dell'impatto televisivo sui linguaggio, le mentalità ed i comportamenti. Al suo apparire e nei primi decenni deHa sua vita, il medium elettronico scandiva i tempi del nuovo ordine sociale, fornendo informazioni in un flusso continuo, suggerendo modi di comportamento, imponendo ritmi socialmente condivisibili. Un po' come era accaduto, secondo la brillante intuizione dello storico francese Le Goff, quando l'orologio aveva soppiantato le meridiane ed il tempo naturale, quello delle stagioni e dell'agricoltura, con il freddo e razionale tempo degli affari, del denaro, delle macchine. Un tempo in cui erano organizzate e omologate le funzioni sociali e quelle soggettive, il ritmo del lavoro e quello del riposo. Un nuovo modello di organizzazione del capitale stava gettando le basi per la futura civiltà industriale, sullo scenario della quale il "tempo" ed i "modi" della vita sarebbero stati dettati da dispositivi ancor più complessi. Tuttavia, il sistema dei media non è più, oggi, omologo e omogeneo in tutte le sue parti come poteva apparire ai suoi albori. Esso non scandisce più, in modo paritetico, tempi e mode. Si è trasformato in una complessa rete di sottosistemi, tra loro strettamente interrelati e nel contempo largamente autonomi, che diversìfica al massimo le informazioni e le modalità attraverso cui vengono fruite. Questo è il risultato di 30

un trend tecnologico fondato sulle potenzialità dell'elettronica. Allo stato attuale delle cose, parlare di comunicazione vuoi dire parlare di informatica, cibernetica, robotica. Gli strumenti del comunicare si sono evoluti, sono diventati più "intelligenti" e prevedono una partecipazione ed un'intelligenza diversa da parte di chi li usa. Di qui il tramonto di un trait d'union, quello che lega i termini mass e media in una equazione che appariva, sino a poco tempo fa, inscindibile. Si prepara l'avvento dell'individuai-media, e in questa fase di transito assistiamo ad un singolare paradosso: proprio mentre la comunicazione raggiunge, grazie a dispositivi come il satellite a distribuzione diretta, il suo più ampio raggio di potenziale diffusione, coprendo estensioni intercontinentali, le modalità operative e le scelte divengono sempre più soggettive.

UN P0 ' DI STORIA

Ma, ai fini del nostro discorso, occorre fare ora un breve passo indietro. Sappiamo tutti che la televisione ha una storia tecnologica, che viene inaugurata all'inizio del secolo con i primi esperimenti per la trasmissione a distanza delle immagini, ed una storia operativa, che in Europa comincia di fatto nel 1936 in Gran Bretagna. Per un insieme di concause, essa giunge in Italia assai più tardi, con l'inizio delle trasmissioni regolari della RA! nel 1956. Il modello di broadcasting britannico, che prevede


un controllo diretto dello Stato sugli enti radiotelevisivi, è quello di un "servizio pubblico" chiaramente ispirato alla filosofia del Welfare State. Esso si pone l'obiettivo di rendere la televisione un mezzo per informare, divertire ma anche "educare" il pubblico. Questa vocazione pedagogica del servizio pubblico, garantita dallo stato di monopolio, venne recepita e adottata anche da altre nazioni europee. In Italia, ad esempio, nei primi anni di attività, la mattinata televisiva era interamente dedicata a "Telescuola", vere e proprie lezioni scolastiche tenute da maestri e professori ad un pubblico che ancora esprimeva un alto tasso di analfabetismo. Se guardiamo il quadro politico e sociale di quegli anni, ritroviamo un'Italia ancora fortemente divisa sul piano delle culture e dei linguaggi. La pervasività televisiva comincia a ridurre le distanze fra centri e periferie. L'accresciuto scambio di informazioni tende a costruire un tessuto connettivo che "accomuna" la gente, quanto meno sul piano dei comportamenti. Per quanto riguarda la lingua, il cosiddetto "potere omologante" riesce finalmente - come non era certo riuscito, per fare un paragone istituzionale, alla scuola pubblica - a fornire un esperibile modello di raffronto alle "pezze" di un corpo nazionale che si presentava, allora, come un autentico arlecchino linguistico. A questo punto, tuttavia, sorge un. legittimo interrogativo: è proprio vero che la televisione abbia determinato, in Italia, un processo di unificazione cui-

turale? Se ritenessimo che ad un singolo medium sia attribuibile un tale potere di orientamento, non faremmo altro che riproporre la vecchia ossessione orwelliana dei Grande Fratello. Poiché questa immagine di controllo massificante, come abbiamo già sostenuto, non è più - e forse non lo è davvero mai stata - ipotizzabile, non possiamo far altro che ribadire che la televisione è uno strumento, assai potente ma sempre e soltanto uno strumento. In quanto tale, essa è lo specchio tecnologico della società che la esprime, in modo dialettico e/o conflittuale. Se guardiamo al diverso percorso del medium televisivo nei paesi dell'ex-blocco orientale europeo rispetto all'esperienza occidentale, il nostro assunto assume maggiore chiarezza. Nell'Europa che riemerge dalla Il Guerra Mondiale, il broadcasting pubblico si ritrovava a svolgere alcune funzioni di basilare importanza, . partecipando ad un generale processo di ricostruzione e rilancio dell'economia. In quegli anni, il bisogno di coesione nazionale ed internazionale era ovviamente molto forte. Da allora molte cose sono cambiate, e chiudere gli occhi o minimizzare non ci aiuta a capire e ad agire. In questo scorcio finale di un secolo saturo di eventi, caratterizzato dalla grande velocità di tutti i fenomeni sociali, il quadro europeo si presenta estremamente complesso. Gli Stati del vecchio continente si accingono ad "armonizzare" i propri sistemi economici e politici, mentre le "differenze" etni31


che e culturali si evidenziano sempre di più.

L'IDENTITÀ CULTURALE EUROPEA

Dovremmo forse interrogarci sul senso di ciò che usiamo definire "identità culturale europea". A ben vedere, in fondo, si tratta di un'idea astratta, un sogno dal sapore illuminista germinato nella fase di affermazione dello stato moderno. Tuttavia, nell'impersegmentato scenario di popoli e usanze che è l'Europa, rischia di evaporare al contatto con la realtà. Una realtà che oggi, purtroppo, vede la base etnica delle nazioni trasformarsi in una forte destabilizzazione dell'idea di Stato. Conflitti rimossi e mai risolti si sono riaccesi in concomitanza della crisi dei pensieri politici forti, delle ideologie che hanno sostenuto lo sviluppo dell'Occidente. Non stiamo certo proponendo, sia ben chiaro, l'abbandono di questa seducente quanto necessaria utopia. Riteniamo, tuttavia, che per trasformarla in un "progetto" adeguato al nostro tempo è necessario abbandonare l'idea che l'identità europea costituisca un dato di fatto, una condizione "preesistente". Il riemergere dei nazionalismi ci impone di prendere atto che il percorso non è così semplice. Le grandi architetture statali che in questo come in altri secoli sono crollati, sotto la spinta di localismi feroci ed incontrollabili, ci ammoniscono dall'affidarci a facili luoghi comuni. Ci sono cose che la civiltà del

Moderno non ha potuto integrare e superare, ma solo rimuovere come della polvere sotto il tappeto. L'organizzazione razionale dello Stato ha inevitabilmente compresso realtà ineludibili seppur minoritarie. Oggi ci troviamo a fare i conti con la polvere accumulata nell'arco dei secoli, un lasso di tempo in cui il vecchio continente ha continuato ad essere attraversato da lunghe scie di sangue. Su cosa si baserebbe, dunque, il concetto di identità culturale europea? Non possiamo inscriverla nell'orizzonte del cristianesimo, pressata com'è ai propri bordi dall'universo islamico. Non possiamo ricondurla alle stagioni dell'ellenismo, troppo distante nel tempo e certo non fondamento di tutti i popoli europei. Non possiamo sostenere di essere figli della rivoluzione industriale o del pensiero dei lumi perché, come sosterrebbe Ernesto De Martino - troppe sono le derive ed i "relitti antropologici" del passato con cui grandi masse continuano a convivere. Tuttavia, tutte queste "istituzioni" ed altre ancora fanno parte del nostro bagaglio. Un bagaglio talmente ricco di tempo e storia da apparirci, a volte, come un fardello impossibile da sopportare. L'Europa è antica. Questa è forse la chiave della sua identità. Un continente in cui nasce gran parte dei nostri punti di vista sul mondo, un insieme di territori umani diversissimi, ognuno portatore di una propria specificità. In questo quadro possiamo cogliere il tramonto dell'idea storica dello Stato moder-


no, con le sue propensioni ai grandi processi di centralizzazione e la sua vocazione, esplicita o implicita, ad imporre modelli univoci di pensiero. D'altronde, dopo Newton era inevitabile pensare i corpi biologici e sociali come "macchina". Il paradigma meccanicistico ha dominato fin qui il nostro orizzonte culturale. Forse è giunta l'ora di cambiarlo.

LA TV PER L'EUROPA

L'idea moderna dello Stato compie sempre più fatica a contenere e riflettere la società civile. Viviamo nel pieno di un transito epocale, in cui i rapporti produttivi sono sempre meno quelli della civiltà industriale, in cui emergono nuove esigenze e nuove direttive della progettualità esistenziale come e l'interesse suscitato dalla Conferenza Mondiale di Rio lo conferma - la contraddizione di specie. In un corpo sociale che manifesta vecchie differenze e che continua a produrne di nuove, bisogna superare l'idea che le grandi forme di centralizzazione possano continuare ad organizzare tutti i livelli dell'esistenza. Le diversità, di qualsiasi tipo siano, non possono essere celate. Ad esse occorre dare spazio e voce, perché anche in loro - e nella possibilità di dialogare con loro - risiede una parte della "nostra" identità. Trovandoci nel pieno di una grande trasformazione, che necessariamente investe anche i piani della politica, non

possiamo dire altro che la televisione dell'immediato futuro avrà i caratteri e svolgerà il compito che sarà deciso di assegnarle. In altre parole, non aspettiamoci che la semplice diponibilità di una tecnologia transnazionale della comunicazione determini irrefrenabili ondate di fraternizzazione. Sarà necessario, invece, compiere le scelte politiche più opportune e ognuno dovrà farsi carico della propria parte di responsabilità. La televisione è un grande strumento di comunicazione, ma le direzioni del suo impegno devono essere determinate con oculatezza. Questo è esattamente il compito che si trovano a dover affrontare, qui ed ora, senza possibilità di future correzioni di rotta, governi e broadcasters europei. Una televisione capace di travalicare i confini delle singole nazioni, così come in Italia ha contribuito al processo di superamento dei regionalismi (processo non ancora compiuto ed oggi fortemente messo in discussione dal fenomeno leghista), può senz'altro lavorare contro la diffidenza per ciò che è diverso e per la comprensione dell'altro da s. Ma è evidente che tutto ciò non automatico. Nel nostro paese, trent'anni dopo Telescuola, c'è chi propone di separare i "buoni" dai "cattivi", facendo della riaffermazione del proprio patrimonio linguistico - peraltro legittima - un pretesto per rivendicare supremazie pretese e razzismi di antica natura. Il problema, dunque, è capire quale televisione va progettata in funzione di quale modello di società. E 33


questo l'amletico problema. La cui risposta risiede, com'è chiaro, per una parte consistente al di fuori del sistema televisivo. Se guardiamo allo scenario europeo della comunicazione, ci troveremo alla presenza di un autentico nodo gordiano. La compresenza di pubblico e privato, frutto del superamento complessivo di una stagione della politica sociale europea, genera al momento conflitti di difficile risoluzione. Eppure, in una fase di radicale trasformazione dei processi comunicativi, parrebbe naturale o quanto meno auspicabile che tutte le risorse e le intelligenze debbono essere rivolte, comunitariamente, alla riconversione del vecchio modello di broadcasting. Le odierne tecnologie, ed in particolare il satellite a distribuzione diretta, rappresentano una sfida e insieme una possibilità di straordinario rilievo. Anche perché consentono il definitivo annientamento di quell'immagine demoniaca e massificante che una parte consistente della nostra tradizione culturale tendeva ad assegnare ai media industriali. Come mai in passato, fin dai tempi "mitici" della democrazia ateniese, intravediamo la possibilità di recuperare una sede del confronto sociale paragonabile all'agorì. Che questo "luogo"

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sia un immateriale universo contenuto in circuiti e fibre ottiche è del tutto marginale. Le nuove tecnologie, soprattutto, sono in grado - per la loro intrinseca flessibilità - di aderire ad un modello "federativo" della comunicazione e della politica. Consentono, cioè, la realizzazione di un mosaico organizzativo e culturale basato sulla specificità degli individui, sulla loro "appartenenza" e sulla loro volontà di comunicarla. Possiamo immaginare così la televisione del futuro. Non più massmedia, eppure capace di toccare la vita e l'esperienza di un numero enorme di persone. Non più strumento "educativo" ma un grande processo di circolazione delle informazioni, una sorta di auto-educazione collettiva. Un mezzo in grado di "omologare", stavolta, le pratiche della comunicazione, restituendo a quest'ultima un valore ed un ruolo del tutto positivi. In questo quadro, iniziative come quella di "Euronews", il primo canale informativo europeo realizzato esclusivamente attraverso il diretto contributo dei telegiornali nazionali dei principali broadcasters pubblici europei, rappresentano auspicabilmente le avanguardie di un mutamento politico e culturale che riveste un'impòrtanza storica.


questeistRuzioni

L'America di fronte a se stessa

Accecato dall'entusiasmo che sembrava legittimo dopo gli storici eventi dell'89, un osservatore poco attento avrebbe potuto immaginare quest'ultimo decennio del ventesimo secolo come l'apologia del modello occidentale di cui gli Stati Uniti possono essere elevati a paradigma. Trionfatori della guerra fredda, gli americani sarebbero stati infine unanimamente consacrati apostoli e difensori della libertà, legittimando così quell'orgoglio e senso di superiorità morale che ha sempre contraddistinto i figli dei padri pellegrini, ma che aveva subito un duro colpo con la guerra del Vietnam. Non è da escludere che la decisione, le cui conseguenze si sono rivelate più gravi del previsto,, di partecipare massicciamente al conflitto nel Golfo Persico sia stata favorita proprio dal rinnovarsi di questa visione del mondo. Oggi, soprattutto dopo gli scontri di Los Angeles, il proliferare delle esecuzioni capitali e la manifesta incapacità del sistema politico americano di selezionare un Presidente all'altezza dei propri compiti e responsabilità, quest'immagine si è affatto rovescita. "Queste Istituzioni ' rivista tradizionalmente attenta a ciò che accade oltreoceano, non poteva non dedicare un dossier ai travagli di questo grande paese. 35


Per restare però fedeli a quella missione di torce che «vengono usate non di corsa per una visione somniaria e immediata di quelle cose che "diventano eventi ' ma un po' più a lungo con l'insistenza necessaria per vederci un po' più chiaro», invece di dedicarci all'analisi di questi recenti ed importanti eventi, abbiamo voluto pubblicare le riflessioni di due studiosi, per altro così diversi, come Robert D. Putnam e Russel Kirk, che ormai da anni sono consapevoli dei rischi che corre il loro paese e sono impegnati nel trovare soluzioni a quella che sembra una delle crisi più profonde che mai gli Stati Uniti abbiano dovuto af frontare. Confidiamo infatti che una prospettiva di più ampio respiro e che non sia emotivamente condizionata dai tragici eventi che hanno sconvolto le città americane all'inizio della scorsa primavera potrà permetterci una migliore comprensione del presente. Sarà interessante notare come sia Putnam, già membro della commissione dei Quaranta sotto l'amministrazione Carter e rettore della J. F. Kennedy Government School della Harvard University e oggi direttore di un programma dal titolo indicativo: "Revitalising American Democracy' che Russel Kirk, uno dei più influenti studiosi conservatori, già vicino all'aministrazione Reagan e oggi fiero avversario della presidenza Bush, siano concordi nel concentrare le proprie speranze nelle capacità autorganizzative della società americana: l'uno confidando nei corpi intermedi descritti da Alexis de Tocqueville, l'altro soprattutto in una riconquista della centralità del ruolo della famiglia e della Chiesa. La consapevolezza delle difficoltà che avrebbero caratterizzato gli anni Novanta non è stata esclusivo monopolio di alcuni matres à penser, ma ha coinvolto larghi strati dell'opinione pubblica. Prova ne è il numero del 28 settembre 1991 del prestigioso "National Journal" interamente dedicato all"America in the '90s" con un sottotitolo illuminante: «Lavorando più duro, ma risparmiando meno, un'invecchiata e sempre più etnicarnente composita popolazione si sta aprendo nuove frontiere in periferia. L'ineguaglianza economica è in aumento, mentre la famiglia è sotto pressione». E, in realtà, dai dati ivi riportati possono sorgere preoccupazioni forse addirittura più profonde di quelle stimolate dalle cronache dei recenti scontri cittadini. Gli Stati Uniti stanno infatti attraversando un periodo di profonde trasformazioni strutturali. La tradizionale divisione etnica fra una maggioranza bianca e una minoranza di colore che già tanto preoccupava Tocquiville si complica ogni giorno di più per la forte immigrazione asiatica e la vera e propria inva sione latinoamericana, che ha portato il bilinguismo in una nazione in cui il ruolo dominante della cultura anglosassone è rimasto per più di due secoli assolutamente incontrastato. AlltTrban Istitute si stima che nel 2010 la popolazione composta da bianchi non ispanici sarà scesa al 68% del totale, mentre quella 36


d'origine latinoamericana sarà diventata la più numerosa minoranza del paese. Superare tale sfida sarà particolarmente difficile, non solo per gli inevitabili problemi di convivenza fra culture profondamente diverse, ma perchè, a causa delle peculiarità somatiche, le diverse popolazioni sono facilmente distinguibili e dunque gli stereotipi e le generalizzazioni più facili. Infine, mentre la lotta dei neri è stata caratterizzata da un continuo tentativo di emanciparsi dal loro passato di schiavi, riducendo le discriminazioni più patenti, ma non insidiando mai la predominanza della maggioranza, i nuovi arrivati tendono spesso a voler assumere posizioni di leadership, il che è difficilmente accettabile dalla popolazione bianca. Indicativa a tal proposito la recente polemica contro i troppo studiosi e brillanti studenti asiatici. Anche la distribuzione della popolazione sta subendo importanti mutamenti: da nazione essenzialmente rurale costellata da grandi metropoli, il paese sembra volersi trasferire in massa nella zone periferiche che già raccolgono il 48% dei cittadini, migrazione favorita, oltre che dal degrado urbano e dalla disoccupazione agricola, dal sistema fiscale e dal prezzo delle case. Tutto ciò sta comportando degli importanti mutamenti anche nella geografia politica del paese. Prima alle città democratiche si contrapponevano le campagne repubblicane, ora invece questa evoluzione costringerà i due partiti a confrontarsi sullo stesso terreno. Più interessanti per i lettori di "Queste Istituzioni" sono i mutamenti che dovrà subire un governo locale che molti osservatori non esitano a definire balcafico e che ha un disperato bisogno di modernizzazione e di sviluppo in senso regionale. La decentralizzazione ha infatti portato a una frammentazione che non può più essere superata dal ruolo direttivo, oggi fra l'altro in declino, del centro urbano. Attualmente non esiste alcuna autorità capace di mobilitare le risorse e di risolvere i problemi non più affrontabili all'interno delle vecchie suddivisioni àmministrative. Gli unici soggetti con competenza regionale sono infatti alcune specifiche agenzie che però hanno esclusive competenze strettamente definite. In realtà non c'è negli Stati Uniti una grande simpatia.per sistemi politici regionali, ma non sembra che vi siano molte alternative, a meno di non applicare la politica dello struzzo. Il mito di una società destinata a garantire il progresso e il benessere di tutti si è poi sciolto come neve al sole e l'ineguaglianza e la povertà stanno sviluppando. si a tassi inquietanti. Se, secondo il coefficente di Gini, essa, fra il 1969 e il 1979, era aumentata del 3,3%, in questo ultimo decennio l'incremento è stato del 6,7%, con un 'erosione di quel ceto medio che Croce definiva la classe non 37


classe, destinata a mediare i conflitti, evitando che essi si tramutino in veri e propri scontri. Naturalmente le cause di questa evoluzione sono molteplici e oltre ai problemi che nascono dalle pratiche discriminatorie, particolare importanza rivestono i mutamenti nella struttura economica con lo sviluppo di una società fondata prevalentemente sulla produzione e distribuzione di servizi, e quelli sociali, in particolar modo all'interno della famiglia. Per quel che concerne il primo punto, grave sembra essere stato il declino della forza degli operai delle fabbriche i cui salari sono addirittura calati in termini reali. L'industria dei servizi, molto più flessibile e dai contorni mal definiti rispetto al settore manifatturi ero, oltre a non garantire le conquiste ottenute dalla classe operaia, necessita spesso di un più alto livello di formazione, la quale, anche a causa dei costi sempre più proibitivi dei colleges americani, è spesso preclusa agli strati meno agiati della popolazione. Ultimo aspetto, ma forse il più inquietante, di questa breve ricognizione, riguarda la condizione delle famiglie di cui ben il 25% è composta da un unico genitore con le conseguenze per la vita dei figli che è facile immaginare. Un unico dato: un bambino su cinque vive sotto la soglia di povertà. Paradossalmente proprio la società dell'opulenza impone uno sforzo lavorativo sempre più massiccio da parte dei membri di ogni nucleo familiare, sforzo che però, almeno per i redditi più bassi, non permette neppure di mantenere il proprio livello di vita. Il Congressional Joint Economic Committee ha infatti calcolato che malgrado un aumento di più del 30% nello sforzo lavorativo, il reddito per queste famiglie più disagiate è sceso del 5%. Naturalmente, sottoposta a tali pressioni, la famiglia difficilmente potrà assolvere le funzioni educative che pure la società le conferisce. Così, costretti a dedicarsi quasi esclusivamente alloro lavoro, i genitori non possono che trascurare ifigli delegando ogni responsabilitè educativa alla scuola che però sembra assolutamente incapace di farsene carico. Difficile sarà calcolare i costi futuri di questa politica, ma certo si può prevedere fin da ora che saranno molto alti. Estremamente interessante è poi la consapevolezza, stimolata da questa crisi, di quanto la famiglia sia efficiente da un punto di vista anche meramente economico. Così A. J. Cherlin, sociologo della John Hopkins University di Baltimora, non esita a dichiarare che la famiglia fa un enorme quantità di lavoro per la società gratis, e che ci si sta appena rendendo conto di quanto caro sarebbe sostituire le funzioni che essa compie. Una prova empirica di tutto ciò è data dalle difficoltà che nuclei familiari dal reddito sicuramente elevato, come quelri li che guadagnano annualmente 60.000-70.000 dollari, incontrano a sparmiare quando entrambi i coniugi lavorino. 38


L'America deve dunque affrontare gravi ed impegnative sfide confrontandosi con problemi strutturali la cui soluzione, soprattutto con una popolazione che sta invecchiando, imporrà una profonda mediazione e dei grossi sacrifici al di là del facile palliativo della spesa pubblica, la quale, quando non è stata preceduta ed accompagnata da un'attenta analisi e da una forte consapevolezza della complessità degli ostacoli da superare, si è spesso rivelata un rimedio peggiore del male, come del resto racconta in questo numero Russel Kirk nel suo intervento. Se come spesso accade gli Stati Uniti precedono l'Europa nei problemi come nelle mode e nei costumi, allora sarà forse opportuno liberarsi dei tanti consolidati modi di governare su cui ci si è basati, in senso progressista o liberista o semplicemente acritico, nei decenni che hanno seguito la seconda guerra mondiale.


Per rivitalizzare la democrazia americana di Robert D. Putnam

La rivoluzione del 1989, quella potente ondata di riforme democratiche che ha investito l'Unione Sovietica e l'Europa orientale, toccando anche l'America Latina e perfino il Sudafrica, ha rappresentato un potente stimolo per noi occidentali. L'ideale dell'autogoverno si dimostrato infatti ben più forte di qualsiasi regime totalitario. E tuttavia negli Stati Uniti d'America - i cui ideali democratici sono stati enunciati per la prima volta nella Costituzione ben due secoli fa - la sensazione che qualcosa sia andato storto è sempre più ampiamente diffusa. Per un curioso scherzo del destino, il momento culminante del trionfo della democrazia all'estero coincide con il serpeggiare di un crescente senso di incertezza negli Stati Uniti, entrati ormai nel terzo secolo del loro esperimento di autogoverno. La sensazione che questo esperimento sia fortemente a rischio di vacillare si è diffusa infatti ormai su vasta scala nell'opinione pubblica.

LA PERDITA DEL CONSENSO

In tutte ie democrazie la forza e la legittimità dei Governi si basano sul consenso dei governati; ma in America un 40

numero sempre più grande di cittadini si sente alienato rispetto allo Stato. La sfiducia nelle istituzioni ha raggiunto negli ultimi due anni i livelli più alti mai registrati nel nostro Paese. L'euforia che ha fatto seguito alla Guerra del Golfo ha rappresentato soio una momentanea battuta di arresto nell'ambito di un sempre più esteso scetticismo nei confronti delle istituzioni politiche. La campagna per le elezioni presidenziali del 1992 ne è stata un'ulteriore conferma. In generale, quando si pensa ad un'epoca di malcontento e di disagio diffuso l'esempio che viene di solito in mente sono gli anni Sessanta. Ebbene, un recente sondaggio Harris ha messo in luce come al giorno d'oggi il senso di impotenza e disaffezione rispetto alle pubbliche istituzioni sia ben più forte che negli anni Cinquanta e Sessanta. A quell'epoca infatti la maggior parte dei cittadini americani aveva fiducia nelle scelte del proprio Governo, oggi ciò non è più vero. Nel 1990 ha votato solo un misero 36% degli aventi diritto, per cui oggi il livello di partecipazione al voto negli Stati Uniti è il più basso di tutti i paesi industrializzati. Ma c'è di più. La maggioranza della gio-


ventù americana è del tutto indifferente e disimpegnata rispetto alla politica. Se nel 1972 avevano votato circa la metà dei giovani americani aventi diritto, nel 1988 la partecipazione ha riguardato soltanto un terzo. Inoltre, le giovani generazioni di adesso sono meno informate e si interessano allo Stato, alla politica e ai grandi temi in misura nettamente inferiore rispetto a quelle di qualche tempo fa: se nel 1965 i due terzi circa degli americani al di sotto dei 35 anni leggevano regolarmente un quotidiano, tale quota si è attualmente ridotta al solo 25%. Si potrebbe imputare questo fenomeno alla televisione, e tuttavia l'ipotesi sarebbe manifestamente errata: nel 1965 più della metà dei giovani americani seguiva regolarmente i telegiornali, mentre oggi a seguirli è soltanto il 20%.

I PROBLEMI DA AFFRONTARE Ovviamente, non è lecito attribuire ai giovani o alla popolazione generale le responsabilità della crescente disaffezione nei confronti delle istituzioni pubbliche. Oggi gli Stati Uniti sono costretti a confrontarsi con una spaventosa mole di problemi sociali. Dalla condizione disperata dei poveri delle aree urbane al fallimento del sistema scolastico, dalla crescente erosione della competitività dell'industria nazionale al degrado delle infrastrutture e dell'ambiente, siamo in presenza di una vasta gamma di problematiche che ten-

de purtroppo ad ampliarsi. E in effetti, troppo spesso gli americani non sono riusciti ad anticipare e prevedere i problemi, e ad affrontarli quindi adeguatamente al momento giusto. Ci si potrebbe chiedere a questo punto come sia possibile che un paese ricco e pieno di risorse come gli Stati Uniti si ritrovi con tutte queste problematiche irrisolte. Esistono al riguardo alcune opinioni ampiamente diffuse, tra cui in particolare le seguenti: - ci si disinteressa troppo dei problemi comuni, sui quali è necessario lavorare insieme; - interessi ristretti e localistici vengono privilegiati rispetto all'interesse pubblico; - il Governo americano è incapace di agire con lungimiranza. Naturalmente, qualsiasi verdetto semplicistico in merito alla performance di un'istituzione complessa come il Governo americano non può che essere errato. Alcune iniziative governative sono certamente valide: ad esempio, l'operato delle forze armate è stato motivo di orgoglio per l'intera Nazione sia durante la Guerra del Golfo, sia nel successivo momento della ricostruzione nel Kurdistan e nel Bangladesh. Lo strepitoso miglioramento della performance delle forze armate americane dal 1971 al 1991 è una conferma dei benefici effetti di un governo e di una politica stabile. E tuttavia la democrazia americana continua a vivere un momento difficile, sempre meno capace di autogover' 'rsi, 41


e ci si chiede quali siano le cause e i possibili rimedi a questa situazione. Gran parte dell'attuale dibattito sulla stampa popolare parte dalla proposta di questi rimedi. Alcune delle idee apparse su questi giornali possono anche essere di per sé buone, come la proposta di campagne mirate alla registrazione dei votanti; esse non sono tuttavia in grado di risolvere il problema alla radice. La scarsa partecipazione al voto può essere infatti paragonata alla febbre del bambino: il sintomo va certamente curato, ma è più importante combattere le cause ad esso sottese. Altre soluzioni ipotizzate sono invece del tutto inadeguate e suscettibili di peggiorare ulteriormente la situazione: è questo il caso, a mio parere, delle limitazioni imposte dagli elettori alla durata delle cariche pubbliche in California, Colorado e Oklahoma nel 1991. Le limitazioni artificiose del numero dei mandati che possono essere svolti consecutivamente da una sola persona' rappresentano infatti un fattore di distorsione degli incentivi; attraverso la limitazione arbitraria della durata in carica all'interno di un'assemblea legislativa, esse favoriscono inoltre lo spostamento del potere verso gli altri due poli del triangolo, cioè verso i lobbisti e i funzionari pubblici di professione. Se occorre dunque non limitarsi a curare i soli sintomi, emerge la necessità di effettuare un'analisi più puntuale degli errori fatti, e quindi delle cause all'ori42

gine dell'attuale crisi della democrazia americana. Personalmente, non sono in grado di offrire risposte esaurienti al riguardo, ma semplicemente alcune ipotesi che desidero sottoporre alla vostra attenzione.

IL CONTESTO GLOBALE

Il primo aspetto che a mio avviso va messo in evidenza è il contesto globale. Se è vero che su qualsiasi carta politica mondiale le frontiere delle Nazioni sono oggi più che mai precisamente definite, è infatti altrettanto vero che dal punto di vista economico i confini nazionali tendono attualmente a sfumare. I flussi di denaro, di idee e di problematiche si spostano istantaneamente da un punto' all'altro del mondo, in una fitta rete di interdipendenze che ha reso sempre più difficile la gestione dei problemi in una logica di politica interna. Problemi còllettivi come la recessione, il degrado ambientale e la diffusione della droga sono diventati ormai problemi globali, che vanno oltre i confini politici delle Nazioni. I nostri mercati sono inoltre investiti da una internazionalizzazione crescente, mentre l'ambito di riferimento privilegiato della politica rimane localistico. Ci si deve quindi chiedere se il distacco crescente tra la geografia dei nostri problemi e quella della nostra capacità di risolverli non sia una parte importante del problema, e quindi una


delle principali difficoltà per il Governo americano e probabilmente anche per i Governi di altre Nazioni. Un secondo insieme di cambiamenti di notevole interesse ai fini del nostro discorso riguarda le istituzioni politiche. Negli ultimi decenni il Congresso e la Presidenza della Repubblica sono stati controllati da partiti politici diversi; mentre nella prima metà del secolo questa gestione era molto più rara. Nel periodo 1900-1952 ci sono stati ben 44 anni di governo unificato; a partire dal 1952 il Governo stato gestito da partiti diversi per oltre i due terzi del tempo. Anche a scala nazionale si registra lo stesso andamento, quale riflesso del trend evidenziato al livello federale. Altre modificazioni nelle modalità di funzionamento delle nostre istituzioni hanno contribuito ad esacerbare ulteriormente la situazione. Negli anni Cinquanta, quando i Democratici erano a capo del Congresso e alla Casa Bianca c'era Eisenhower, il controllo di Sam Rayburn e Lyndon Johnson sulla Camera e sul Senato era reale, e i patti da loro stabiliti nella Camera Ovale avevano un riscontro immediato a Capitol Hill. Ironicamente, oggi invece in nome di una maggiore democrazia il potere all'interno del Congresso è stato frammentato e disperso in una serie di commissioni, sottocommissioni, e infine funzionari delle sottocommissioni.

I GRUPPI DI INTERESSE Un altro aspetto determinante è l'attuale proliferazione delle reti di influenza, definite "triangoli di ferro" da alcuni politologi. Tali reti coinvolgono legislatori e membri delle sottocommissioni, funzionari delle agenzie dell'esecutivo ed esponenti di lobbies che perseguono un unico obiettivo. Alla proliferazione di queste reti contribuiscono inoltre le campagne per i contributi delle commissioni di azione politica (PAcs). Le udienze congressuali sugli scandali dei risparmi e dei prestiti hanno rivelato un esempio particolarmente sconveniente del funzionamento di tale sistema; tuttavia le attività della Nazione subiscono la crescente influenza di queste reti anche in innumerevoli casi che non implicano direttamente alcun comportamento immorale. Nel corso degli ultimi decenni il numero dei gruppi di interesse organizzati rappresentati a Washington e più che triplicato, senza tener conto del sempre maggior numero di uffici per le pubbliche relazioni di imprese private e di altre validissime istituzioni tra cui l'Università di Harvard. Il sistema delle lobbies presenta indubbiamente alcuni vantaggi, tra cui quello di fornire una particolare forma di sensibilità diffusa al livello micro. Ciò fa sì che alcune cose di comune interesse vengano fatte. Molti degli attuali gruppi d'interesse fanno lobby per conseguire obiettivi che riguardano l'intera collettività, come un ambiente più pulito, 43


un sistema scolastico migliore, o sistemi pensionistici più generosi e in ultima analisi rappresentano l'intera collettività. Il problema è che i gruppi di interesse rappresentano soltanto la nostra parte più "ristretta". Essi non possono di certo essere investiti di responsabilità inerenti la struttura delle politiche pubbliche. In linea di principio, soltanto gli amministratori competenti possono essere investiti di responsabilità per quanto attiene il "succo" di tali politiche; il crescente "vantaggio della carica" ha portato a una riduzione della portata di questa responsabilità. In breve questo sistema penalizza gli interessi più grandi a favore di quelli particolari. Le assemblee legislative di tutto il Paese, da Washington a Sacramento, si trovano ormai in una situazione di stallo dovuta alla presenza dei gruppi di pressione e alla diffusione di posizioni esplicitamente di parte. Alcuni legislatori si impegnano nel tentativo di convogliare tutti i loro sforzi nel perseguimento degli obiettivi dei propri collegi elettorali, subordinando quindi gli interessi nazionali di più ampio respiro a interessi locali. La diffusione di questo fenomeno rappresenta una parziale spiegazione del deficit apparentemente incontrollabile del bilancio. Se si ammette che questi fenomeni rappresentano una parte del problema, ci si deve anche interrogare rispetto alle possibili soluzioni. 44

IL MARKETING POLITICO

Ma non tutti i cambiamenti di maggiore rilevanza si sviluppano all'interno delle istituzioni dello Stato. Una delle connessioni cruciali è quella tra stampa, campagne politiche e marketing politico. Oggi l'americano medio guarda la televisione per circa 30 ore a settimana. A livello nazionale, il numero delle ore passate davanti alla tv supera in media quello delle ore spese lavorando. Alla fine della scuola media superiore il ragazzo americano medio ha guardato la televisione per circa 19.000 ore, molto di più di quelle passate a scuola, a leggere, a giocare all'aperto o in compagnia degli amici. Nel bene e nel male, i miei figli fanno parte della prima generazione sottoposta ad un impatto così forte della comunicazione visiva. Questa prima generazione post-Gutenberg può essere a tutti gli effetti definita come MTV generation. Lo straordinario sviluppo della comunicazione visiva ha rivoluzionato non soltanto il mar/eeting dei beni di consumo, ma anche le campagne politiche. Il marketing politico moderno ha attratto un gran numero di uomini e di donne dotati di eccezionale talento; uno dei più importanti di loro è stato un giovane che nel 1968 lasciò l'ufficio di Los Angeles di J. Walter Thompson per organizzare la campagna presidenziale di Richard Nixon. Questo giovane si era fatto un nome con l'invenzione di uno slogan pubblicitario di un insetticida. Il messaggio, "Black Flag Kilis Bugs


Dead", aveva infatti riscosso un enorme successo. Semplice e ridondante al tempo stesso, quello slogan aveva avuto il merito di riuscire a trasferire il messaggio in una "pillola" indimenticabile; e non è certo facile riuscire ad essere ridondanti in sole cinque parole. Il successo di H. R. Haldeman ha ispirato un'intera generazione di marketeers politici. La spesa per l'advertising politico in tv è andata alle stelle. Se nel 1970 vennero spesi in pubblicità televisiva circa 12 milioni di dollari per tutte le campagne del Congresso, nel 1990 la spessa per la pubblicità televisiva ha raggiunto i 270 milioni di dollari. Inoltre, gli spot sono diventati più brevi e più coinvolgenti sul piano visivo, mentre diminuisce il tempo speso nella comunicazione del messaggio effettivo. Ancora nel 1984 soltanto il 5% degli spot aveva durata inferiore o uguale ai 15 secondi. Nel 1990 gli spot con durata inferiore o uguale ai 15 secondi erano diventati del 41%. Proprio come la pubblicità della birra o delle automobili, anche la pubblicità politica si concentra in misura crescente sulle sensazioni piuttosto che sulla sostanza. Per cui vediamo molti tramonti, cascate, spiagge e campi di grano, ma senza alcuna illustrazione dei programmi concreti. L'influenza della rivoluzione televisiva non si limita tuttavia al solo marketing politico. Essa ha avuto notevoli effetti anche sull'ampiezza del trattamento delle notizie. Un numero sempre più ampio di persone è totalmente dipen-

dente dalla televisione per quanto riguarda l'informazione sui candidati e sui relativi programmi politici. La dottoressa Kiku Adatto della Shorenstein Barone Press - Politics Center di Harvard ha pubblicato di recente i risultati di uno studio sull'ampiezza di trattazione delle notizie nei telegiornali durante le campagne per le elezioni presidenziali del 1968 e del 1988. I risultati di questo studio, peraltro ampiamente discussi, hanno dimostrato che nel 1968 la durata media dei discorsi dei candidati teletrasmessi dai telegiornali era di 42 secondi. Si tratta di un tempo a malapena sufficiente per costruire un'argomentazione convincente su un qualche tema complesso. Ebbene, nel 1988 essa si era ridotta, per due candidati alla più importante carica politica del mondo, a 9.8 secondi. Nella teoria democratica, le elezioni rappresentano un'importante deliberazione dei cittadini sui temi cruciali con cui il paese deve confrontarsi. Dalle elezioni emergono infatti una scelta ed un mandato per il governo del paese. Tuttavia è un dato di fatto: le nostre elezioni si basano in misura crescente su slogan di assalto. Una volta erano i partiti politici a svolgere la funzione di tramite privilegiato tra i candidati e gli elettori. Se i vincitori non mantenevano durante la loro durata in carica le promesse fatte nella campagna elettorale, il partito doveva assumersene le responsabilità. Oggi la situazione è ben diversa, in quanto il tramite privilegiato tra la gente e i loro governanti sono i me45


dia e i consulenti politici indipendenti. Coloro che ricoprono questi nuovi ruoli politici sono persone dotate di notevole talento, moralmente valide nella maggior parte dei casi; il punto è che purtroppo non sono responsabili davanti all'opinione pubblica. Se si ammette che questo cambiamento rappresenta una parte del problema, dobbiamo chiederci come comportarci al riguardo. Tuttavia il nuovo marketing politico è efficace proprio perché in ultima analisi fa appello ai cittadini americani. Sono stati i cittadini americani a creare le condizioni favorevoli ai mercanti della politica e dell'immagine. E stata accettata una concezione della democrazia in cui le politiche dello Stato non rappresentano la risultante di un dibattito collettivo sul bene comune, ma piuttosto un sottoprodotto dell'interesse privato ed un residuo delle strategie delle campagne elettorali.

LA LEZIONE DI TOCQUEVILLE

In sostanza, ciò che è andata perduta è una concezione più antica della democrazia, cioè quella originaria descritta dal francese Alexis de Tocqueville dopo il suo viaggio negli USA nel 1830. La visione che Tocqueville aveva della democrazia enfatizzava l'importanza dell'impegno del cittadino qualunque nella gestione della cosa pubblica, e quindi di un senso dell'impegno civico e sociale ampiamente diffuso e condiviso. I 46

fondamenti originali della democrazia americana erano le associazioni di comunità, e non i marketeers elettorali. Il voto era soltanto un aspetto, sia pure importante, di questa concezione della democrazia. Temo che al giorno d'oggi il nostro senso di cittadinanza e di appartenenza allo Stato si sia notevolmente impovérito. La rivitalizzazione delle nostre istituzioni democratiche deve necessariamente partire dal basso. In analogia con la formula del movimento ambientalista, direi che dobbiamo pensare in un'ottica globale e al tempo stesso agire in un ambito locale, allo scopo di costruire una cultura civica più attiva, più completa e più responsabile. Quest'anno ricorre il 200° anniversario del Bili ofRights; a volte mi chiedo se non sarebbe necessaria anche una "Carta delle Responsabilità" per focalizzare la nostra attenzione sugli obblighi che abbiamo in quanto cittadini, oltre che sui nostri diritti. Diventa infatti sempre più evidente che l'impegno dei cittadini rappresenta un elemento determinante ai fini del buon governo. Per chiarire questo aspetto farò ricorso ad un esempio. Per circa 20 anni sono stato impegnato in uno studio finalizzato all'individuazione dei motivi per cui in Italia alcuni governi locali funzionano bene ed altri no, e quindi in ultima analisi alla scoperta degli elementi caratteristici delle comunità ben gestite rispetto a quelle soggette al malgoverno. Le realtà locali italiane sono estrema-


mente diversificate. Alcune sono gover- sua capacità di riformarsi e di autorinnate dai comunisti, altre dai cattolici, novarsi. Il più delle volte il cambiamenaltre ancora dai liberali o dai conserva- to coincide con un miglioramento. tori; alcune sono ricche e moderne, Sembra tuttavia che nel corso di un sementre altre sono a livelli di povertà e colo si verifichino almeno una o due di arretratezza paragonabili a quelle dei occasioni in cui la combinazione della paesi del Terzo Mondo. A cosa sono rapidità dei cambiamenti, dell'orgoglio, dovute le differenze nella qualità dei dei problemi e dello scoraggiamento è governi locali? Il partito politico al po- tale da preannunciare un'epoca di grantere non sembra essere determinante, di riforme. Forse non è soltanto una così come non sembra esserlo la pro- coincidenza che una fase per certi versi sperità economica. L'indicatore più at- analoga a quella attuale in quanto a fattori di cambiamento economico e sotendibile del buon governo sembra essere l'intensità del senso civico e del ciale si sia verificata proprio a cavallo coinvolgimento del cittadino nella vita tra il nostro secolo e il secolo precedente. pubblica. Tale coinvolgimento si espri- Mi riferisco a quell'epoca che ha avuto me non soltanto nel livello di parteci- inizio con la fine dell'Età dorata nelpazione al voto, ma anche nella parteci- l'ultima decade del XIX secolo, e che pazione ad attività sportive e ricreative. ha avuto il suo momento culminante Come disse Tocqueville, è proprio con i cambiamenti dell'Età del Progresl'impegno civico a fare la differenza. E so. Quell'effervescente età di riforme può essere determinante anche nel caso ha portato alla trasformazione delle procedure politiche degli Stati Uniti, dell'America contemporanea. Certo, il dibattito su come rivitalizzare ponendo un freno agli eccessi degli inla democrazia americana rischia di are- teressi acquisiti e mettendo le basi per narsi nelle secche della disperazione. una politica illuminata. Abbiamo l'impressione che nulla di ciò Proprio come è accaduto recentemenche siamo in grado di fare possa valere te, anche alla fine del XIX secolo il Paea modificare la situazione. Ma non è se venne pervaso da un'ondata di fiducia nelle proprie istituzioni dopo la dicerto questo il messaggio che sto cermostrazione della propria imbattibilità cando di trasmettere, e per questo voglio concludere con una breve lezione sul piano militare. A quell'epoca gli Stati Uniti avevano combattuto quella di storia. che John Hay ha descritto come una "piccola splendida guerra" contro la Spagna nelle Filippine e a Cuba, nella LE RAGIONI PER IMPEGNARSI quale morirono più soldati americani Una delle qualità durature della demo- per i morsi delle zanzare che per le palcrazia americana, consiste proprio nella lottole dei nemici. A livello interno tut47


tavia i grandi cambiamenti che si erano verificati nei decenni precedenti avevano trasformato la società americana, lasciandole una serie di problemi sociali irrisolti. La rivoluzione industriale aveva prodotto lo spostamento di milioni di cittadini dalla campagna alla città, mentre la rivoluzione tecnologica nel campo dei trasporti e delle comunicazioni aveva trasformato un insieme di comunità isolate di un'economia nazionale. Gli empori e i negozi Blacksmith erano stati sostituiti da Sears and Roebuck e dalla us Steel, mentre le grandi fortune di alcuni venivano oscurate dallo squallore degli slums e dallo scandalo del lavoro infantile. Le massicce ondate di immigrazione avevano cambiato il volto dell'America, mentre un'economia soggetta a periodi di rapida crescita alternati a momenti di crisi era periodicamente segnata da episodici fallimenti bancari. Il governo era afflitto, a livello statale come a quello locale, da quelli che Charles Merriam definì "i saturnali della corruzione politica". In sintesi, questi grandi cambiamenti avevano rivoluzionato il modo di vivere degli americani; ma la gestione degli affari pubblici era rimasta indietro rispetto alle nuove condizioni. Tutto questo dovrebbe risultarci familiare, essendo molte le analogie di questa situazione con l'attuale scenario. Fu così che nell'arco di poco più di un decennio ci furono una serie di importanti riforme. I progressisti di tutte le correnti della scena politica, dai populisti repubblicani fautori del buon gover48

no come Robert La Follette, Hiram Johnson e Theodore Roosevelt ai fondamentalisti agrari democratici come W. Jennings Bryan e ai radicali come W.E.B. Du Bois e Susan B. Anthony, fino ai numerosissimi riformisti locali, furono impegnati, in ogni parte del Paese, in un gran dispendio di parole e di azioni mirate a ridare il potere alla gente, e a ricreare la "comunità impegnata" di Aléxis de Tocqueville. L'età del Progresso ha recato con se' cambiamenti profondi e duraturi. Molti degli aspetti del nostro sistema di governo che oggi ci sembrano assodati sono nati proprio in quel breve momento storico: è questo il caso dello scrutinio segreto, del sistema delle elezioni preliminari, del referendum, dell'elezione diretta dei Senatori, della protezione delle risorse naturali, della Federal Reserve Board, delle leggi sul lavoro minorile e sul voto alle donne. Tuttavia il punto essenziale che desidero mettere in risalto non riguarda il contenuto delle riforme progressiste, in quanto alcune di esse sono all'origine delle attuali difficoltà. L'aspetto che voglio sottolineare è piuttosto il processo delle riforme, e la possibi1itì di un cambiamento effettivo. All'inizio del secolo una leadership illuminata e un rinnovato impegno civico hanno reso possibile un profondo cambiamento nelle modalità di gestione degli affari pubblici. A mio avviso oggi esistono le condizioni per l'avvento di una nuova età del Progresso. Episodiche fiammate di progressismo non partigiano si accompa-


gnano alla crescente diffusione di fenomeni di volontariato e di filantropia al livello delle comunità locali. I leader dei due principali partiti politici sottolineano l'importanza del conferimento di poteri e del ruolo del Governo in tale processo. Ribaltando un trend consolidato in circa venti anni, recenti ricerche mettono in evidenza un numero crescente di matricole universitarie interessate a fare del bene e una minore crescita del numero di quelle interessate ad una buona riuscita sociale. Anche la rabbia che gli elettori hanno espresso durante la recente campagna per le elezioni presidenziali rappresenta per certi versi un segnale che i tempi sono ormai maturi per il cambiamento. Con una leadership creativa e il coinvolgimento dei cittadini possono riemergere sia la soluzione di questi problemi, che il coraggio di concretizzarla. Le riforme introdotte dai primi progressisti quasi cento anni fa possono essere inadeguate rispetto ai problemi attuali; ma il coraggio dei promotori di queste riforme resta un esempio da imitare, così come la loro capacità di rompere con il passato, il loro senso civico ed il loro dirompente entusiasmo circa le possibilità di un effettivo progresso sociale, politico e perfino morale. La rivitalizzazione della democrazia americana deve quindi rappresentare un impegno per tutti i cittadini. Dobbiamo liberarci dal cinismo, oggi tanto

di moda, per domandarci quale sia il tipo di governo che desideriamo e per attivarci allo scopo di ottenere il risultato voluto. Come ha osservato di recente il commentatore politico conservatore George Will, "la Guerra del Golfo ha liberato negli americani uno straordinario senso collettivo. E evidente che questa Nazione esprime un profondo anelito verso il senso di appartenenza che nasce dalle imprese comuni. Il problema è se una qualsiasi altra impresa che non sia la guerra possa soddisfare tale anelito". Se i nostri sforzi avranno lo stesso successo di quelli dei primi progressisti, può darsi che di qui a cento anni qualcuno si fermerà a guardare ad un'epoca di grandi riforme, la seconda età del progresso. Dovremmo prendere spunto dagli eventi degli ultimi due anni la nascita delle nuove democrazie e l'insorgere di problemi nelle democrazie più antiche - per avviare un dibattito pubblico sul governo degli Stati Uniti che sia più focalizzato rispetto a quello attualmente in corso. Gli accademici non sono certo in grado di dare tutte le risposte del caso, non essendo del tutto chiari neanche gli interrogativi cui si deve rispondere; siamo però pienamente coscienti dell'importanza. di contribuire al dibattito sulla rivitalizzazione della democrazia americana. (Traduzione di Marzia Qua)

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Proletarizzazione edegrado urbano di Russel Kirk

Mi si chiede spesso quale sia a mio parere la più grave delle tante difficoltà con le quali la Repubblica americana è costretta oggi a confrontarsi. A questa domanda rispondo che, dal punto di vista sociale, la più sconcertante ed angosciosa delle disgrazie che affliggono gli Stati Uniti d'oggi consiste nella crescita di un "proletariato". Occorre anzitutto chiarire il significato dei termini "proletario" e "proletariato", che ci provengono dai tempi degli antichi Romani. Nell'accezione 'originaria romana, per proletario s'intende colui che non può offrire alla società nient'altro che non sia la propria progenie. Costui non paga le tasse, sussiste solo in virtù della spesa pubblica, non adempie ad alcun dovere civico e non svolge nessuna attività lavorativa degna di nota; inoltre, non conosce il senso della pietas. I proletari in quanto massa sono estremamente forti. Questa massa pretende una serie di garanzie che nel passato coincidevano essenzialmente con il pane e i divertimenti. Oggi le loro richieste sono ben più consistenti, ma vengono soddisfatte comunque, al fine di scongiurare l'esplosione di fenomeni di violenza collettiva. Non è sukiel

perfluo sottolineare come il solo contributo che i proletari offrono alla società consista nei loro discendenti, che nella maggior parte dei casi diventano a loro volta proletari. Indolenti, ignoranti e sovente criminali, i proletari sono in grado di portare alla rovina una grande città e perfino una Nazione: fu quello che Arthur Toynbee definisce il "proletariato interno" a distruggere la civiltà romana, mentre i barbari invasori (cioè il "proletariato esterno") non fecero che spezzare il fragile guscio di una cultura già agonizzante. Carlo Marx, il più strenuo contestatore del patrimonio culturale della società moderna, chiamò il proletariato ad insorgere, provocando spargimenti di sangue su vasta scala. A seguito della loro affermazione in Russia dopo la I guerra mondiale, ed in Europa orientale oltre che in molte altre Nazioni successivamente alla 11 guerra mondiale, i seguaci di Marx hanno conferito posizioni di potere - per lo meno a livello locale - a proletari brutali, che lo hanno gestito stupidamente ed in maniera assolutamente spietata. Invero, i proletari sono incapaci di costruire, ma sono


purtroppo in grado di seminare distruzione. Per tutto il XVIII e il XIX secolo, e fino ai primi decenni di quello in corso, gli Stati Uniti d'America non hanno conosciuto il problema del proletariato, per lo meno su vasta scala; tuttavia Jefferson temeva la probabilità di un avvento di questa classe, quale effetto della crescita dei maggiori centri urbani. Nel 1857, Macaulay presagì i pericoli di un processo involutivo, al termine del quale "un qualche Cesare o Napoleone prenderà le redini del governo in maniera autoritaria, o nel XX secolo la vostra Repubblica verrà saccheggiata e distrutta dai barbari, così come accadde nell'Impero Romano durante il V secolo".

IL VOTO PROLETARIO

Macauly sottolineò con forza come negli Stati Uniti il proletariato non sarebbe dotato soltanto del potere dell'intimidazione attraverso la violenza, ma anche di quello, ben più efficace, delle urne. Egli ha sostenuto infatti che "i vostri Vandali e i vostri Unni verranno generati all'interno del vostro Paese, per mano delle vostre stesse istituzioni". Ma cosa si intende oggi in America per proletariato? Chi sono coloro che fanno parte di questa classe priva di radici e in preda al malcontento, che rappresenta un peso per la società? Per chiarire questo aspetto occorre indicare in primo luogo quali sono i gruppi che a

nostro avviso non fanno parte del proletariato. Il concetto di proletariato non coincide con quello di povertà. Benche' la maggioranza dei proletari siano poveri, un uomo può essere abbiente e al tempo stesso essere un proletario se rappresenta unicamente un fastidio per la comunità, e se condivide la mentalità tipica dei proletari. All'opposto, molte persone di condizioni economiche modeste sono dotate di un carattere encomiabile, e sono ottimi cittadini. Al riguardo, sono portato a citare una battuta pronunciata da Robert Frost nel corso di una conversazione con degli amici liberali: "Non parlate dei poveri ad ogni momento!". I poveri sono sempre con noi, così come ci insegna Gesù di Nazareth. Il concetto di proletario non coincide neppure con quello di "lavoratore". Una delle caratteristiche del proletario in effetti è proprio quella di non lavorare volontariamente. Personalmente sono stato pressoche' letteralmente cresciuto nello scalo ferroviario di Pere Marquette alla periferia di Detroit, e mio padre era macchinista e fuochista delle locomotive; eppure non eravamo proletari, ne' lo erano i miei compagni di scuola ed i loro genitori. Il termine proletario non è nemmeno sinonimo di beneficiano dell'assistenza pubblica, benché la gran maggioranza dei proletari si trovi di fatto in questa condizione. Infatti, tra i beneficiari delle varie formule assistenziali locali, statali e federali vi sono numerosi anziani, 51


disabili ed altri soggetti che pur trovandosi in condizioni di disagio non sono così sfortunati da condividere la mentalità e la moralità dei proletari. Inoltre, la popolazione proletaria non è solamente una popolazione urbana. Le condizioni di vita tipiche del proletariato sono infatti di sempre più frequente riscontro, perfino nelle zone rurali più remote. Anche nel mio villaggio, che si trova in una zona boscosa e selvaggia del Michigan, si è sviluppato uno squallido accampamento di roulottes e camper fatiscenti, proprio nei pressi della mia vecchia casa; nei giardinetti del paese si spacciano stupefacenti, ed il tasso di criminalità cresce costantemente, specie per quanto riguarda gli episodi di violenza contro le donne. Inoltre, l'unica chiesa è stata trasformata in un negozio di antiquariato. In estrema sintesi, il proletariato consiste in una massa di individui che hanno perso qualsiasi senso etico e di responsabilità personale, qualsiasi speranza di migliorare la propria condizione, qualsiasi curiosità intellettuale. Essi non provano un sensO di appartenenza ad un nucleo familiare, né partecipano attivamente ad alcun movimento religioso o politico, e non mostrano alcuna consapevolezza dell'esistenza di fini ed obiettivi che valga la pena di conseguire; la maggioranza di essi vive, come fanno le bestie, completamente alla giornata. I "lazzaroni" napoletani hanno vissuto per secòli in condizioni proletarie di questo genere; ma purtroppo i "lazzaroni" delle città e delle campa52

gne dell'America d'oggi sono assai più aggressivi rispetto a quelli dell'antica Napoli.

L'ABBANDONO DELLE CITTÀ

Il proletariato si è impossessato del cuore di numerose città americane; in altre si è installato lungo una fascia urbana squallida e pericolosa, nelle immediate adiacenze delle zone centrali. Una trentina di anni fa, mentre pranzavo con l'economista Colin Clark in un locale di Oxford, esternai al Professore la mia inquietudine circa il futuro delle grandi città americane. Il Professor Clark mi rispose che esse cesseranno senz'altro di esistere: o meglio, sopravviveranno solamente i sobborghi al di là dei confini amministrativi delle città, trasformate in cumuli di macerie spopolate e in preda alla devastazione, per cui l'aspetto delle vecchie aree urbane sarà simile a quello della città di Dresda dopo i bombardamenti della TI guerra Mondiale. In realtà queste condizioni stanno già verificandosi, e ad un ritmo spaventosamente accelerato. Consentitemi di ricorrere ad un esempio di indiscutibile evidenza. Conosco la città di Detroit fin da quando ero bambino, e quindi da più di mezzo secolo; durante questo periodo l"arsenale della democrazia" è stato ampiamente "proletarizzato". Quando ero studente universitario, e girovagavo per le vie della città ogni fine settimana, Detroit aveva una popolazione di due mi-


lioni di abitanti; adesso ne ha la metà. Istituzioni come l'Istituto d'Arte, la Biblioteca Comunale, il Museo Storico e l'Università Statale Wayne sopravvivono, insieme ad alcune chiese di pietra, in un contesto di assoluta decadenza. All'interno del campus universitario sono state posizionate, a breve distanza l'una dall'altra, alcune cabine telefoniche. In queste cabine il telefono è stato installato direttamente sul pavimento, in maniera tale che la persona ferita possa strisciare fino ad afferrare l'apparecchio; il tempestivo intervento di una pattuglia di polizia è previsto anche nel caso in cui la vittima dell'aggressione nòn riuscisse a comunicare niente, non essendo in grado di parlare. Nell'anno del Signore 1990 la vita intellettuale di Detroit è diventata questa.

LA DECADENZA DI DETROIT

Sarei tentato di proporvi alcuni schizzi della vita nella Detroit proletaria; ma me ne manca il tempo. Alcuni possono aver letto il recentissimo libro di Ze'ev Chafets, Devil's night and other true tales ofDetroit, oppure il mio articolo sulla Detroit's Devil night, pubblicato un paio di anni fa su «Newsday» così come è possibile che abbiate visto il programma televisivo che tempo fa ha scatenato l'ira di quel demagogo sleale che è il sindaco di Detroit, o che siate stati in qualche modo colpiti da un articolo, apparso sul «New Yorker», che ha messo a nudo la miserabile condizione pro-

letaria in cui il sindaco costringe, deliberatamente, la giovane generazione, praticamente imprigionata in un ghetto. In ogni caso, non credo ci sia qualcuno che non sia a conoscenza del degrado che attualmente investe quella che un tempo è stata una città prospera e ricca di speranze, dotata di una cultura propria. Ma quali sono stati i fattori che hanno dato luogo alla rovina e alla proletarizzazione della città di Detroit? Le cause dell'attuale decadenza sono complesse e non riguardano soltanto Detroit, ma si riscontrano anche nella maggior parte delle altre città americane; tuttavia qui gli effetti sono particolarmente gravi. Al riguardo, ritengo doveroso elencare le problematiche più stringenti. Un primo fattore è senz'altro la presenza dell'industria automobilistica. Tale industria ha indubbiamente generato molta ricchezza, favorendo anche un rilevante incremento demografico; tuttavia non si può negare che essa abbia arrecato ingenti danni ad una città un tempo pacifica e tutto sommato abbastanza piacevole. Tali danni sono dovuti in primo luogo al fatto che la Ford e le altre industrie dell'auto hanno avuto la necessità di reclutare manodopera ovunque fosse possibile reperirla, dagli Stati meridionali all'Europa centroorientale. Per cui la maggior parte dei lavoratori (scarsamente o affatto qualificati) che sono venuti in massa a lavorare nelle fabbriche di auto di Detroit erano persone sradicate da una qualche cultura rurale. Alcuni di loro non si so53


no mai pienamente integrati nel modo di pensare, nel costume e nella politica americana: più che acculturarsi si sono deculturalizzati, diventando quindi facile preda dei demagoghi. Accadde così che nel 1932 il gruppo étnico minoritario più conservatore di Detroit erano i neri del quartiere di Paradise Valley; questi accesi sostenitori di Herbert Hoover erano tra i più poveri di tutta la città.

L'ABBANDONO DEL CENTRO CITTADINO

In secondo luogo, il trionfo dell'automobile ha offerto ai cittadini benestanti l'opportunità di costruirsi una villetta nei sobborghi, soprattutto nella zona di Grosse Pointes; e di conseguenza diventò sempre più frequente l'abbandono delle vecchie abitazioni nei quartieri centrali. Con l'avvento del New Deal questa fuga di capacità e di ricchezza dalla città vecchia subì una drastica accelerazione grazie alla Home Owners Loan Corporation e ad altre analoghe iniziative di prestiti ad un tasso di interesse contenuto, avallate dal Governo Federale; ovviamente tali prestiti venivano concessi a coloro che erano in grado di offrire solide garanzie circa la restituzione degli stessi. L'effetto di queste politiche è stato il progressivo abbandono del centro cittadino da parte dei commercianti, degli imprenditori, dei professionisti, degli artigiani. Ne è derivato un vuoto, che è stato successivamente colmato da gruppi etnici ed 54

economici dotati di minori capacità di leadership. Il trasferimento di Henry Ford dalla piccola casa di Bagley Avenue a una grande tenuta di campagna nei pressi di Dearborne ci sembra embiematico della situazione descritta. Un analogo processo di abbandono di quartieri centrali si è verificato praticamente in tutte le città degli Stati Uniti, con la parziale eccezione di New York e di San Francisco. In terzo luogo, il potente sviluppo dell'industria bellica che ha investito "l'arsenale della democrazia" durante la Il guerra mondiale ha fatto sì che a Detroit accorresse un gran numero di lavoratori, per la maggior parte bianchi della regione degli Appalachi (chiamati hillbillies dagli abitanti del Michigan) e neri degli Stati del Sud. A questi ultimi se ne aggiunsero degli altri, rimasti senza lavoro a causa del perfezionamento tecnologico delle macchine utilizzate perla raccolta del cotone e di altri cambiamenti che avevano modificato l'economia degli Stati meridionali. Fu così che persone i cui antenati si erano stabiliti nel Sud da generazioni si ritrovarono a Detroit confuse e smarrite, scosse nelle loro abitudini e convinzioni e spesso cariche di un forte risentimento. Ma non è tutto. La cessazione delle produzioni belliche che fece seguito alla fine del conflitto mondiale determinò infatti una drastica diminuizione delle opportunità di lavoro e quindi una povertà diffusa; quest'ultima a sua volta portò con sé una notevole confusione morale e un forte malessere socia-


le. Il divorzio e l'abbandono delle motuttavia questa misura precauzionale gli e dei bambini divennero ben presto era diventata già insufficiente, per cui fenomeni comuni a Detroit ed in altre cominciai ad andare in giro con la picittà americane; i programmi per il so- stola. Negli anni Sessanta la situazione stegno dei minori a carico nacquero era ulteriormente peggiorata, fino al proprio in risposta alla crisi della fami- punto di sconsigliare assolutamente il glia. Questi programmi, finanziati con passaggio in queste strade, se non in cafondi del Governo Federale, erano stati so di effettiva necessità. Nel contempo creati con le migliori intenzioni; ma i mezzi pubblici di trasporto venivano. sfortunatamente lo schema unitario ad ridotti, per cui divenne necessario camessi sotteso ha rappresentato un terreno minare a piedi o guidare un'automobile fertile per la rottura delle famiglie, per per potersi spostare. La città è infatti il ricorso endemico all'assistenzialismo tuttora priva di una metropolitana, che e per la nascita delle bande di ragazzi, si sarebbe potuta realizzare agevolmenprigri ed annoiati, che guardano con te all'epoca della Depressione, e il sisteammirazione e rispetto agli sfruttatori ma tranviario ha subito un graduale dedella prostituzione, ai ladri, ai truffato- clino. Per cui già negli anni Sessanta si ri e agli spacciatori di droga, considerati era determinata una situazione di estreuomini di successo e quindi modelli da ma penalizzazione ed emarginazione di imitare. Attualmente siamo già alla ter- tutti coloro che non posssedevano za generazione di questi individui "di- un'auto oppure erano anziani, invalidi pendenti", autentici proletari il cui o semplicemente timidi. Fu infatti a contributo alla società consiste sola- partire da quell'epoca che queste catemente nella propria progenie, che pegorie di persone si trovarono di fatto raltro seguirà molto probabilmente il costrette a vegetare all'interno delle comportamento dei genitori. proprie abitazioni, essendo del tutto Molte zone della città vecchia si sono impossibilitate a spostarsi; nel frattemdunque progressivamente degradate, fi- po, anche le drogherie di quartiere cono a diventare in alcuni casi realmente minciavano a diventare sempre più rare. pericolose. Se negli anni Quaranta era ancora possibile percorrere le strade più squallide disarmati, già nel decen- LE RUSPE DEL GOVERNO FEDERALE nio successivo non era più possibile farlo, per lo meno nelle ore notturne. Fu a In sintesi, il degrado della città era diquell'epoca che adottai la precauzione ventato evidente; fu così che alcuni di portare con me un coltello quando pensarono di porre rimedio a questo dovevo attraversare alcune di queste stato di cose demolendo "in toto" alcustrade, tra cui Michigan Avenue, di ni quartieri cittadini e ricostruendoli notte. Alla fine degli anni Cinquanta "ex novo". Era questa la ricetta degli 55


entusiasti sostenitori del "rinnovamen- prevalenza donne), tipografi ben retrito urbanistico" dell'amministrazione buiti del «Detroit News» e del «Detroit Johnson. Ma purtroppo il risultato di Free Press», maltesi e cattolici, una delquesta politica non fu quello desidera- le tante minoranze di Detroit. La Most to: essa favorì piuttosto la nascita di de- Holy Trinity, una vecchia chiesa cattoserti urbani e giungle d'asfalto, anche se lica, rappresentava in effetti il centro non c'è dubbio che i profitti dei co- ideale dell'identità del quartiere. struttori e dei progettisti furono molto All'inizio dei massicci programmi di elevati. La distruzione totale di interi rinnovamento urbanistico finanziati quartieri popolari è stata una delle de- dal Governo Federale, alcuni zelanti terminanti della crisi di Detroit. Infatti, pianificatori osservarono tuttavia che i nuovi abitanti della città avevano ap- nel quartiere la frequenza dei furti era pena cominciato ad ambientarsi, ad ot- eccessivamente elevata, così come queltenere impieghi regolari e ad entrare la di altri comportamenti antisociali. Se nello spirito della città quando comin- questi pianificatori avessero analizzato ciò l'assalto delle ruspe federali. Da le proprie mappe in maniera più scruquel momento essi non ebbero più che polosa si sarebbero senz'altro resi condue possibilità: trasferirsi nei brutti to che i comportamenti devianti si concentravano nella quasi totalità dei casi quartieri dell'edilizia popolare moderna, o ripiegare su qualche vecchio quar- lungo la Michigan Avenue; inoltre, tali comportamenti erano per lo più episotiere di case a basso prezzo scampato alla demolizione, e destinato comunque a di di ubriachezza molesta, essendo la Michigan Avenue un autentico "paratrasformarsi in uno slum. Consentitemi, a questo punto, una di- diso alcolico" per i cittadini di condigressione, e di offrirvi un esempio effi- zioni socio-economiche modeste, ed cacemente esplicativo del processo fin erano comunque assolutamente margiqui descritto. Corktown è un quartiere nali nelle strade residenziali di Corkdella vecchia Detroit, distante poco più town. Il punto è semplicemente che la di un miglio dall'antico e pregevole Michigan Avenue rappresentava il conMunicipio (distrutto anch'esso nell'am- fine di una parte del quartiere; ma i piabito dello splendido progetto di rinno- nificatori urbani non furono così sottili vamento urbanistico dell'amministra- da effettuare distinzioni di questo tipo, zione Johnson). Fino all'inizio degli e si limitarono a rilevare che Corktown anni Cinquanta la zona era abbastanza esibiva elevati tassi di criminalità. La gradevole, grazie alla vicinanza del soluzione del problema consisteva Briggs Stadium e alle sue case ben co- quindi nella demolizione del quartiere struite. Tradizionalmente, gli abitanti e nella sua trasformazione in un'area industriale: nell'ottica di questi signori, di Corktown appartenevano alle seper sbarazzarsi della delinquenza bastaguenti tipologie: irlandesi anziani (in 56


va cancellare la vecchia Corktown. Le ruspe del Governo Federale entrarono quindi in azione sulla base di questi presupposti, distrugendo immobili architettonicamente validi ed espellendo un gran numero di famiglie, da tempo residenti nel quartiere. Venne poi demolito anche l'unico punto di ritrovo rimasto: una trattoria; la sola attività che riuscì a sfuggire alla distruzione fu un grande negozio di libri usati situato in un vecchio edificio.

I DANNI DELLA GUERRA ALLA POVERTÀ

Ho cominciato a conoscere bene Corktown proprio nel momento in cui cominciava il processo involutivo di cui sopra. E fu proprio allora che i fenomeni antisociali, fino a quel momento praticamente assenti, cominciarono a manifestarsi nei lotti vuoti cosparsi di pietrisco: inoltre, le abitazioni superstiti si trovarono costantemente esposte al rischio di invasione. Infatti i ragazzi del quartire, privati di qualsiasi punto di ritrovo, cominciarono a riunirsi in bande rivali che si combattevano a vicenda, e a strappare le borsette alle donne. Questi atti antisociali non erano all'inizio che un mezzo per sottrarsi alla noia di un quartiere che gli innovatori urbani avevano reso di una bruttezza spaventosa, arrivando perfino a tagliare tutti gli alberi. Poco dopo le bande cominciarono ad entrare in giri di attività illegali assai redditizie, e cominciarono a verificarsi alcuni casi di omicidio. Ho

conosciuto personalmente uno dei ragazzi sospettati di uno di questi casi, un amabile giovane dotato di un certo gusto in materia di architettura. Era stato costretto a unirsi ad una banda per poter sopravvivere, e detestava con tutto il cuore ciò che i dissennati innovatori urbani stavano facendo di Corktown. Ricordo poi che a quell'epoca corteggiavo una ragazza con i capelli rossi, impegnata in attività di volontariato non retribuite ed organizzate dalla Parrocchia della Santissima Trinità. Questa ragazza abitava in uno degli appartamenti di un vecchio stabile che aveva visto giorni migliori, in prossimità della chiesa; nello stesso edificio abitavano alcune anziane irlandesi che non osavano più uscirne per il timore di essere scippate e malmenate. Proposi a Mary di prendere in prestito una delle mie pistole, essendo quello stabile pericoloso; ma la ragazza declinò l'offerta dell'arma, con la motivazione che se i ragazzi delle bande fossero venuti a conoscenza del fatto che lei era in possesso di qualcosa del genere avrebbero fatto immediatamente irruzione in casa sua per rubargliela. Non intendo procedere oltre in questa divagazione, motivata peraltro dal solo intento di mettere in risalto quello che a mio avviso è il punto essenziale, e cioè la totale inadeguatezza delle strategie adottate dalla amministrazione Johnson. Sono infatti convinto che il fallimentare progetto di rinnovamento urbano degli anni Sessanta abbia contribuito in misura determinante alla proletarizzazione degli abitanti rimasti 57


a Corktown. Ora che la maggior parte dei vecchi residenti se ne è andata, è stata espulsa o è deceduta, si tentano progetti di riqualificazione urbanistica e di ripristino della vocazione residenziale dell'area. Si tratta senz'altro di progetti interessanti, ed è anche possibile che abbiano successo; ma non bastano certo a cancellare dalla mia memoria le facce, oneste e rudi, degli abitanti del quartiere ridotti alla miseria e ad una autentica condizione proletaria proprio a causa della "Guerra alla Povertà" promossa dall'Amministrazione Johnson. La denominazione di tale politica andrebbe a mio avviso modificata in quella più realistica di "Guerra sulla Povertà". Durante gli spaventosi disordini che si verificarono a Detroit nel 1967, alcuni dei rivoltosi lanciavano bottiglie incendiarie all'interno dei negozi al grido di "Rinnovamento urbano immediato!". La loro rabbia nasceva dalla generale insoddisfazione per le scelte del Dipartimento per lo sviluppo residenziale ed urbanistico. Personalmente, sono pienamente concorde con le dichiarazioni rilasciate dal Governatore del Michigan George Rodney durante l'ultimo discorso pubblico tenuto prima di lasciare l'incarico, essendo stato chiamato a Washington. Durante questo discorso Rodney affermò testualmente che la rivolta di Detroit - praticamente un'insurrezione popolare - era dovuta essenzialmente al risentimento dei cittadini nei confronti delle politiche urbanistiche del Governo Federale. 58

Nel Rapporto Kerner (il cui autore, si potrebbe obiettare, è finito poi in carcere) si legge che la rivolta di Detroit era stata originata da tensioni razziali, provocate dai razzisti bianchi. In effetti, bianchi e neri erano pressoché ugualmente rappresentati tra le file dei saccheggiatori e degli incendiari; ma tra gli arrestati tutti quelli accusati di aver sparato con armi da fuoco erano bianchi. E questa la prova che la Grande rivolta non è stata assolutamente una protesta organizzata dei cittadini neri contro il razzismo, ma piuttosto un'insurrezione proletaria che avrebbe fatto la gioia di Jack London. Anche la costruzione di gigantesche strade di scorrimento e la conseguente distruzione di numerosi quartieri consolidati ha favorito il processo di proletarizzazione della città. A seguito della costruzione di queste superstrade è diventato praticamente impossibile spostarsi dai quartieri della città vecchia in altre zone senza un'automobile. Inoltre, migliaia di abitazioni decorose, spesso di proprietà della famiglia che le occupava, sono state spazzate via e sacrificate senza tanti scrupoli per lasciar spazio alle strade; ma queste ultime si sono in molti casi trasformate in barriere che impediscono l'accesso a chiese e negozi. Dimenticando che le città sono fatte per essere vissute, i costruttori di autostrade hanno pensato alla città di Detroit come ad una cosa seccante, da cui occorreva anzitutto potere entrare e uscire il più in fretta possibile. Grazie a tale politica, i casi di aggressione vio-


lenta contro le persone la cui auto era rimasta in panne lungo le superstrade sono diventate da tempo ordinaria amministrazione. Tra i vari fattori che hanno favorito la crisi della città il più catastrofico in quanto a effetti è il totale abbandono da parte della classe media, che ha subito una forte accelerazione dopo la rivolta del 1967. Già a quell'epoca la polizia aveva perduto l'effettivo controllo di una città cresciuta disordinatamente, e praticamente tutte le famiglie che potevano permettersi di acquistare un'abitazione o un lotto di terreno nei sobborghi fuggirono dal centro. Al momento attuale la maggior parte dei vecchi abitanti di Detroit si è ritirata oltre Eight Mile Road, e quindi al di là del confine amministrativo settentrionale della città. Dal Detroit River alla Eight Mile Road la via principale di Detroit, Woodward Avenue, è in preda all'abbandono e allo squallore più totale, eccezion fatta per alcune chiese e per gli uffici pubblici. Recentemente un cittadino mi ha fatto osservare come sia diventato ormai impossibile acquistare una camicia nella parte bassa della città: gli eleganti grandi magazzini di un tempo sono stati demoliti da anni.

IL CROLLO DEL SISTEMA SCOLASTICO

Tra i fattori all'orgine della attuale società senza classi (o, meglio, formata da un'unica classe, il proletariato) assume un posto di particolare rilievo il tracol-

lo del sistema della pubblica istruzione. L'integrazione forzata ha dimostrato di essere la soluzione peggiore sia per i neri che per i bianchi, e lo stato di crescente abbandono delle scuole di quartiere ha prodotto alienazione e disaffezione negli allievi e nei loro genitori. Le scuole sono diventate luoghi sgradevoli e pericolosi in cui gli insegnanti spendono la maggior parte delle loro energie nel tentativo di mantenere una qualche parvenza di ordine. Anche i sondaggi di opinione hanno confermato la ferma opposizione dei genitori bianchi e neri alla integrazione di massa; ma la loro opinione non ha avuto alcun peso, essendo il potere decisionale saldamente in mano a giudici onniscienti ed educatori infallibili. A questo punto vi sarete senz'altro resi conto della complessa multifattorialit del disagio che investe oggi Detroit. E quasi come se un genio del male avesse ordito un intricato complotto mirato a distruggere la città. Ma non è tutto, in quanto esiste un ulteriore elemento che ha favorito la rovina della città. Mi riferisco al flagello del traffico degli stupefacenti e dell'ampia diffusione della tossicodipendenza, che rappresenta la più recente di tutte le terribili disgrazie di questa città. E possibile che a Washington il fenomeno della droga assuma aspetti ancor più drammatici che a Detroit, ma ne dubito, anche se è vero che negli ultimi due anni la capitale ha tolto a Detroit il primato nazionale relativo alla frequenza dei casi di omicidio. La descrizione delle deleterie conse-


guenze connesse al fenomeno droga mi sembra pleonastica; mi limiterò quindi a sottolineare come la ricerca di droghe allucinogene sia un comportamento tipico del proletario che non ha alcun obiettivo da perseguire nella vita, e come la tossicodipendenza sia di per sé in grado di trasformare persone dotate di buone opportunità in proletari senza speranza.

CHI Può OFFRIRE SPERANZA?

Può darsi benissimo che leggendo questo lungo elenco di disgrazie vi siate chiesti cos'è che mantiene ancora parzialmente viva e funzionante la città di Detroit, resistendo alla disperazione dei proletari. Le chiese cristiane rappresentano senz'altro un esempio di resistenza a questa disperazione. Si dice che all'interno dei confini amministrativi della città ci siano all'incirca 2500 chiese, tenendo conto sia delle cattedrali sia delle cappelle più povere. Alcuni dei templi neri presenti in città offrono esperienze religiose del tutto eccentriche e particolari; ma anche queste chiese forniscono una qualche sorta di consolazione e di speranza in uno scenario di terribile desolazione, e anche la più insignificante di esse rappresenta un pezzo di spirito comunitario che sopravvive al disastro. La pratica fervente della religione cristiana riesce ancora a ridestare una qualche forma di vita spirituale in una città allo sbando. L'influenza dei predicatori neri non ac-

cenna affatto a diminuire. Nel 1973, nel momento culminante di un aspro confronto politico circa l'opportunità diiiberalizzare l'aborto, organizzai un incontro tra le principali organizzazioni in difesa della vita che operavano nei Michigan. La riunione si tenne in una grande sala sul lungofiume. Sul palco sedevano, dietro di me, tre o quattro enormi predicatori neri della Chiesa Battista; la presenza di questi autentici monoliti color ebano stava quasi a rappresentare un sostegno fisico e morale. C'erano anche un pastore protestante bianco ed un rappresentante dello Stato, l'allora Presidente della Camera dei Rappresentanti del Michigan Wiliiam Ryan, mentre nessun prete cattolico aveva avuto il coraggio di prendere posto insieme a me sui palco. Comunque, la presenza di ministri dei culto di razza nera era il segno evidente della vittoria dei movimenti per la vita nella città di Detroit. E in effetti, quando a novembre la proposta di liberalizzazione dell'aborto venne messa ai voti nello Stato del Michigan la sua sconfitta fu drastica: per ogni persona che votò a favore ve ne furono quasi due che votarono contro. I contrari alla liberalizzazione furono la maggioranza schiacciante nei quartieri neri, arrivando in un caso a sedici voti contrari per ogni voto a favore. Il modello proletario marxista ha tentato di eliminare le pastoie della religione; tuttavia è evidente che a Detroit quest'ultima continua ad esercitare una forte influenza, e a costituire un potente ostacolo alla proletarizzazione totale.


La scelta, della città di Detroit quale esempio esplicativo del processo di proletarizzazione in atto negli Stati Uniti d'oggi è motivata dalla esasperazione che in questa città assumono le varie condizioni favorenti tale processo. Secondo alcuni la situazione della città di Newark è ancora più grave e la stessa Washington potrebbe stare peggio, se non fosse per la presenza del Governo Federale e per il freno che esso rappresenta. Spero che tutte queste argomentazioni siano sufficienti a convincervi di quanto sia assurdo spendere le risorse nazionali per mandare centinaia di migliaia di uomini nel deserto arabo, quando le città americane si sono trasformate, come temeva Jefferson alla fine del XVIII secolo, in autentiche piaghe sociali su un corpo malato.

REDENZIONE E RICOSTRUZIONE

La tendenza del popolo americano ad una proletarizzazione crescente - che nella maggior parte dei casi si esprime con modalità più subdole e quindi apparentemente meno drammatiche rispetto a quelle fin qui descritte - dovrebbe costituire per tutti i conservatori un potente stimolo alla riflessione. Prospettare un qualsivoglia rimedio o palliativo richiede infatti una notevole capacità di immaginazione. Qualcosa in effetti si sta già muovendo, ad esempio attraverso l'istituzione di programmi federali mirati a promuovere lo sviluppo dell'imprenditorialità tra i grup-

pi etnici minoritari. La Heritage Foundation ha promosso, nel corso degli ultimi anni, svariate riforme ed innovazioni economiche finalizzate a sostenere il conseguimento di tali obiettivi; in questa sede, ovviamente, è impossibile entrare nel merito degli sforzi effettuati in tal senso. La massima parte del lavoro di redenzione e ricostruzione non può essere svolta che dalle persone politicamente orientate verso idee conservatrici, attualmente soggette al triste dominio dei demagoghi e dei ciarlatani. Questi si sono auto designati come leader, e guidano ora i loro stolti sostenitori verso la proletarizzazione totale. Ho conosciuto personalmente alcuni validi esempi di dedizione alla causa del ripristino del senso civico e della responsabilità sociale; tra questi, cito per tutti Elmo e Mattie Coney di Indianapolis. Mi è inoltre giunta la notizia che alcuni abitanti di Washington stanno tentando di prendere in mano la disastrosa situazione della loro città dopo la destituzione del sindaco Barry. I professionisti del welfare non potranno mai riuscire a preservare la gente dalla proletarizzazione: soltanto alcuni coraggiosi volontari potranno raggiungere questo obiettivo. Inoltre, solo il ripristino di un sistema di insegnamento tarato sui valori della saggezza e della virtù potrebbe convincere le nuove generazioni dell'importanza che nella vita riveste la ricerca di qualcosa che vada oltre la mera violenza e guidarle verso un orientamento al bene comune piuttosto che non alla sfi61


da di qualsiasi autorità. Un sistema di certificazione della qualità mirato ad orientare una selezione delle scuole potrebbe far molto per conseguire entro pochi anni risultati soddisfacenti in rapporto a questi obiettivi. Al riguardo mi viene spontaneo ricordare la sorpresa di alcuni giornalisti che si erano recati a visitare una scuola cattolica del South Bronx. Abituati alle maniere barbare e agli atteggiamenti di scherno caratteristici delle scuole pubbliche di New York, essi rimasero sbalorditi quando una bambina nera, designata per l'occasione quale hostess, andò verso di loro presentandosi con le dovute maniere, per poi accompagnarli con garbo intelligente in tutte le classi. Abituati a scuole pubbliche in grado di produrre soltanto giovani proletari, i giornalisti si meravigliavano del fatto che la scuola cattolica del South Bronx - l'unica struttura a non essere seriamente danneggiata nell'ambito di un vasto circondario - fosse impegnata nello sforzo di formare gli eredi di una tradizione cui-

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turale, a dispetto degli ostacoli del contesto.

CONSERVARE LE TRADIZIONI

Per proletarizzarsi non occorre alcuno sforzo particolare: basta infatti sottomettersi alle mode disumanizzanti e deculturalizzanti del momento, e venerare gli attuali idoli delle folle. E invece assai difficile mantenere le tradizioni di ordine, libertà e giustizia, e le eredità di cultura, immaginazione e arte che dovrebbero esserci proprie. Alcuni spiriti maligni vorrebbero fare di tutti noi dei proletari in nome di una falsa uguaglianza, l'uguaglianza nella miseria. All'opposto, lo spirito dei conservatori improntato al conseguimento dell'obiettivo di riscattare il maggior numero possibile di uomini e di donne da quell'abisso senza obiettivi e senza gioia che è la condizione proletaria. (Traduzione di Marzia 011a)


questeistRuzioni

La Germania riunificata

Il mondo dell'Est è in piena dissoluzione, gli Stati Uniti sono in una profonda crisi sociale (v. il dossier America in questo numero), le relazioni internaziOna li non hanno ancora un baricentro: in questo quadro la societì tedesca diventa sempre piii il punto di riferimento di ogni realistica riflessione sui futuro dell'Europa. Le comunitì europee furono sin dagli anni Cinquanta uno strumento fondamentale per ridare al popoio tedesco la propria dignità persa con il crollo del regime nazista, per superare lo stato di subordinazionè che l'occupazione alleata aveva sancito e per evitare di essere travolti dalla sfida comunista che a molti sembrava in quegli anni, ormai lontanissimi, inarrestabile. La Germania non ha più bisogno di alcuna legittimazione politica che possa giustificare un particolare contributo tedesco, in termini di "sacrifici" o esposizione all'inflazione, per la costruzione europea. Soprattutto dopo che sono apparse di tutta evidenza le difficoittì enormi, superiori al previsto, che la riunificazione impose. Questa è la convinzione che sembra prevalere nel paese. Bisogna tenerne conto perché è rappresentativa di un profondo cambiamento di posto e di ruolo della [3]


Germania in Europa, anche se questo cambiamento non significa nessun meccanico ritorno al passato. Le tensioni anglo-tedesche, il risorgere attraverso l'Europa di "paure e sospetti", l'ombra crescente di un terreo folklore nazista, il reale conflitto degli interessi economici nazionali esigono il massimo di luciditì politica. Ed ha ragione l'ex-cancelliere Helmut Schmidt a dire che, intanto, «sarebbe ora che il governo britannico e la Banca d'Inghilterra da una parte, e il governo tedesco e la Bundesbank dall'altra - così come la stampa - si rendessero conto della cupa atmosfera politica che, insieme, hanno generato». Se dunque per tutti coloro che hanno a cuore il futuro dell'Europa la situazione tedesca è al centro dell'attenzione, l'interesse di questa rivista va, pii specificamente, ai rapporti fra il pubblico e il privato e cioè all'esperimento di privatizzazione nei Lànder orientali (v. gli articoli di Sai, dell'Istituto tedesco per la Ricerca Economica e di Priewe) forse più importante e significativo di quelli giì avvenuti in Francia e in Gran Bretagna. Una testimonianza importante sulle condizioni di questo grande processo di trasformazione è nel libro di un manager industriale italiano, Franco Tatò, che ha avuto la ventura di seguire, come presidente del consiglio di sorveglianza di un societì tedesco-orientale, il tentativo infruttoso di una ristrutturazione e privatizzazione nella Germania dell'Est (Autunno tedesco. Cronaca di una ristrutturazione impossibile, Sperling & Kupfer editori, Milano 1992). Nelle impressioni dirette di questo diario, non mediate da rielaborazioni teoriche, ci sono molteplici spunti di cui occorre tener conto: per esempio, aifini del. la riflessione sul c.d. "modello renano ' il modello cioè del capitalismo tedesco, come contrapposto sul piano delle istituzioni e dei comportamenti a quello anglosassone (v. Michel Aubert, Capitalisme contre Capitalisme, Ed. Seuil, Paris 1991). In qual modo questo modello risolverì l'impatto con la realtì economica della ex-DDR? Nell'attivitì economica - ecco un 'osservazione di Tatò - «l'autoritarismo si traduceva soprattutto nell'esposizione di una metodologia, di una gabbia all'interno della quale però esisteva una scelta di operazioni relativamente ampia. I devastanti risultati di questo sistema sono visibili a tutti, ma le cause vere devono essere ancora spiegate. Non so quanto il sindacalismo italiano, che è ancora convinto della necessitì di ricercare forme di partecipazione senza corresponsabilitì, sia cosciente del probabile risultato finale di un approccio del genere». Si sta giocando dunque una partita difficile il cui risultato ci interessa molto direttamente.

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Un sistema sempre più asimmetrico di Mario Caciagli

Da due anni la RDT non esiste più, autodissoltasi dopo la caduta del Muro ed il crollo dei regimi comunisti. Il Beitritt, cioè la sua adesione alla RFT venne ratificato il 3 ottobre 1990 - oggi festa nazionale dell'unità tedesca. Ciò che spesso non si considera è che, pur se l'unificazione ha assunto le sembianze dell'annessione da parte del più grande e del più ricco dei due vecchi stati, nemmeno la RFT esiste più. La Germania unita ha scelto di continuare a chiamarsi Bundesrepublik Deutschland per rimarcare il trionfo del modello occidentale su quello comunista e per segnare una continuità che, oltre i molti tedeschi occidentali tutt'altro che entusiasti della travolgente novità, dovrebbe rassicurare gli alleati (e l'opinione pubblica internazionale) che poco o niente è cambiato nella natura dello stato tedesco e nella sua collocazione in Europa e nel mondo. Occorre invece prender atto che c'e oggi in terra tedesca un nuovo sistema politico, economico, sociale - che, se ha fatto balenare negli altri lo spettro della Grande Germania, attualmente sta soprattutto facendo i conti con se stesso. E i conti non tornano, o almeno

non sono tornati nei tempi brevi promessi o sperati. Sembrava, cioè, che per la nuova Germania si ponesse innanzitutto il problema di rivedere il suo ruolo internazionale, con relative aspirazioni di grande potenza e conseguenti timori di alleati e vicini. Il problema resta indubbiamente per il futuro, forse anche prossimo. Per intanto questa Germania sta cercando di assestarsi al suo interno, con un processo che è risultato più faticoso e impervio del previsto. Le pagine che seguono vogliono essere un succinto inventano delle difficoltà del nuovo sistema tedesco nella ricerca di equilibri interni, economici e sociali, politici e istituzionali, a due anni dall'unificazione. L'inventano non è solo parziale, è anche provvisorio. Al molti che sono stati già fatti - in Germania ovviamente più che altrove - altri dovranno seguire, perché questo periodo di grandi trasformazioni e di faticosi assestamenti è destinato a durare a lungo.

L'ASIIVIMETRIA

Per definire la forma del nuovo sistema sorto con l'unificazione la letteratura 65


politologica tedesca ha introdotto una categoria interpretativa: l'asimmetria 1 . L'asimmetria corre, si capisce, fra le due parti della Germania che sono state divise per quarant'anni. Essa, e questo scontato, attiene soprattutto alle condizioni economiche dell'Ovest e dell'Est. A condizioni economiche fortemente asimmetriche corrispondono ancora questo era meno scontato - due realtà sociali che lo sono altrettanto e forse di più. Ma - ciò che è più interessante e più negativo per i tedeschi - l'asimmetria si riscontra, addirittura si va accentuando, anche nelle istituzioni, nei partiti, negli atteggiamenti politici e nella mentalità dei cittadini. L'unificazione dei due stati, vista anche con il senno del poi, non poteva probabilmente aver luogo che in quei tempie in quelle forme. La fretta, dettata sì dall'incalzare della crisi dell'intera Europa orientale, ma non meno dalle esigenze elettorali e di prestigio di Helmuth Kohl, è però stata cattiva consigliera. Ora si vede come la rapidità delle decisioni non fosse accompagnata non solò da alcuna linea strategica, ma nemmeno da un'adeguata cognizione dei problemi. Kohl aveva promesso agli elettori dell'Ovest e dell'Est - soprattutto ai primi, perché i secondi avevano premuto per una soluzione a immediata scadenza, votando per la CDU orientale nelle prime e uniche elezioni libere della RDT il 18 marzo 1990 e premiando il partito del cancelliere nelle prime elezioni pan. •1

tedesche del 2 dicembre successivo che dopo l'unificazione nessuno sarebbe stato peggio e molti sarebbero stati meglio.. Le Cassandre erano state numerose: dal candidato socialdemocratico Oskar Lafontaine alla Bundesbank (del tutto contraria alla conversione alla pari del marco orientale avvenuta il i luglio 1990). La discussione sui "costi dell'unit" è divampata a partire da allora e continua naturalmente tutt'oggi, ormai con molte prove alla mano 2 . I costi erano intesi prevalentemente come costi economici. Via via sono emersi i costi sociali e politici. Nella prima metà deI 1992 la situazione, anziché migliorare, sembra addirittura essere peggiorata. La crisi ha la sua origine interamente a Est, ma gli squilibri che ne sono derivati coinvolgono tutto il sistema. Se si tiene conto che nella RFT benessere e stabilità politica, crescita economica e consenso sociale sono andati per quarant'anni di pari passo, si può capire come le difficoltà dell'attuale transizione possano rimettere in discussione il modello tedesco. L'asimmetria può colpire duramente un sistema politico che, grazie allo sviluppo economico ininterrotto e all'ordine sociale garantito, aveva toccato livelli molto alti di funzionalità e di efficienza. Siamo ben lontani da una crisi di legittimità, ma si cominciano a percepire i rischi di profonde incrinature nell'accordo sistemico.


IL GRAVE SQUILIBRIO ECONOMICO

Il peso del gigante tedesco è tale che, se in un primo tempo si è temuto che diventasse troppo forte e invadente, ora si teme che cessi di essere la locomotiva di cui l'Europa ha bisogno. Sulle condizioni dell'economia tedesca esiste perciò un flusso costante e massiccio di informazioni che scorre per tutta la stampa e la pubblicistica internazionali. In questa sede basterà allora ricordare alcune cifre sul suo stato di salute a metà del 1992. Non sono cifre confortanti. Il tasso di inflazione è salito al 4,5%, raddoppiandosi rispetto allo scorso anno. La disoccupazione è del 4,7% nella parte occidentale, ma fra il 30 e il 40% in quella orientale. Il deficit dello stato è quasi la metà del Pil: poco rispetto all' Italia, molto rispetto alla tradizione tedesca. Nella sua dichiarazione al Bundestag del 17 giugno Kohl ha dovuto finalmente dar ragione alle Cassandre: nel processo di integrazione delle due parti del paese ci sono state delusioni e sconfitte; il processo durerà più a lungo di quanto si fosse auspicato; più alti dovranno essere, quindi, i trasferimenti da Ovest a Est. 3 Insomma, i costi dell'unità sono e saranno più alti del previsto. A1l'Ovest, a dire il vero, tutto è andato per il meglio nel 1991. Le poche avvisaglie di crisi sono dipese dalla congiuntura internazionale, ma la produttività è cresciuta ed i profitti sono andati alle stelle, oltre il 10%, in alcuni settori fino

al 20%. Ciò proprio perché, abbattuto il Muro, tutto il territorio della Germania orientale è divenuto un grande mercato di beni di consumo che ha stimolato la produzione occidentale. Essendo i profitti dell'industria manifatturiera divenuti notoriamente tanto alti, i lavoratori dipendenti occidentali hanno presentato il conto nella primavera del 1992. I metalmeccanici, che costituiscono ancora il settore più ampio dei lavoratori dell'industria e sono rappresentati dal sindacato più forte del mondo, hanno potuto strappare in pochi giorni di lotta gli aumenti rièhiesti. Più dura e più spettacolare era stata, poche settimane prima, la lotta dei dipendenti pubblici, che hanno effettuato lo sciopero più lungo e massiccio del dopoguerra, semiparalizzando per undici giorni il paese e lasciando allibito chi conosce il regolare ed efficiente funzionamento dei servizi tedeschi. Ma in quel caso era lo stato che doveva pagare e lo stato tedesco, ben diversamente dall'industria privata, è sopraffatto dai debiti per l'impegno di accollarsi i costi dell'unità. Cosi, alla fine, il governo ha ceduto, ma i dipendenti pubblici si sono accontentati del 5,5% di aumento rispetto al 9% che avevano chiesto. La ripresa di una forte conflittualità sociale si spiega inoltre con il malumore e le preoccupazioni per l'avvenire degli strati sociali meno privilegiati. Di per sé potrebbe essere un'iniezione di vitalità per il sistema: i sindacati ne sono usciti rafforzati e la SPD potrebbe incanalare la protesta secondo le migliori 67


regole dell'opposizione tutta interna al sistema. Ma in questa estate stanno arrivando - nonostante le promesse contrarie del governo - i primi consistenti tagli al sistema sanitario, mentre altre prossime misure restrittive appaiono inevitabili. Nel clima di apprensione che si sta creando c'è il rischio che la protesta cerchi altre strade, diverse dal sindacato tradizionale e dal tradizionale partito d'opposizione. Eppure la situazione è ancora rosea all'Ovest rispetto a quella dell'Est, dove il presente e il futuro stanno assumendo contorni decisamente drammatici. Tutto il sistema economico dell'ex RDT è sottoposto ad un violento e apparentemente inarrestabile processo di deindustrializzazione. A fine giugno 1992 la produzione industriale risultava crollata in alcune regioni almeno del 25% rispetto a due anni fa. L'insieme della produzione nella ex RDT è ora il 35% rispetto al 1990. Il numero di coloro che hanno perso un lavoro si aggira sui 4 milioni: pur considerando in questa cifra i prepensionamenti, i lavoratori in cassa integrazione a zero ore e quelli inseriti in corsi di riqualificazione che mascherano una realtà di disoccupazione, quest'ultima rappresenta - come ho già anticipato - almeno il 40% sui 10 milioni di occupati che aveva la IWT. I posti di lavoro che si sono creati nel commercio, nelle banche e nella pubblica amministrazione sono pagati con il denaro occidentale. Non solo le grandi branche obsolete (siderurgia, miniere, cantieristica) sono iri crisi irrimedia68

bile, ma anche l'agricoltura e i settori produttori di beni di consumo stanno andando a picco. Il livello di vita dei cittadini dell'Est è certamente migliorato, ma grazie alle sovvenzioni e ai trasferimenti dall'Ovest. Gli orientali possono oggi comprare di più e meglio: ma comprano - hanno follemente comprato nei primi mesi dopo l'unificazione, dando fondo anche ai loro risparmi - i beni prodotti all'Ovest, colpendo la produzione indigena. La quale ha perso per di più tutti i mercati dello scomparso COMECON e si è vista, infine, brutalmente esposta all'intera concorrenza internazionale. A metà del 1992 il prodotto lordo dell'Est risulta pari al 7% dell'intero prodotto nazionale, mentre gli abitanti delle regioni orientali sono il 20% della popolazione tedesca e la superficie copre il 30% del territorio nazionale. 4 Gli investimenti verso l'Est continuano a latitare. La Treuhandanstalt, la grande agenzia finanziaria pubblica (ben più grande dell'IRI) che si è fatta carico di tutte le imprese dello stato comunista, continua a incontrare molte difficoltà. 5 A tutto giugno 1992 era riuscita a privatizzarne circa 7.200 su 12.000 ma si trattava di medie e piccole imprese, mentre deve tenersi sul collo le grandi industrie decotte che a stento riesce a vendere a pezzi. Paradossalmente i tedeschi orientali soffrono ora le conseguenze di quelle capacità produttive dell'Ovest che tanto avevano ammirato per décenni dagli schermi televisivi. Mentre i tedeschi oc-


cidentali vedono con preoccupazione e talvolta con rabbia come stiano andando verso Est 150 miliardi di marchi ogni anno. I dirigenti della PDS (il partito nato dalle ceneri della SED) ed alcuni esperti tedeschi e stranieri avevano detto, di fronte alla affrettata e incontrollata unificazione economica, che la Germania orientale avrebbe potuto fare la fine del Mezzogiorno italiano. 6 Oggi lo temono in molti fra gli economisti tedeschi: la Germania orientale può divenire una zona arretrata e improduttiva, condannata ad essere perennemente assistita dallo stato centrale. Quel che è certo è che le differenze regionali sono ora molto forti, quasi come quelle italiane. Ciò sta provocando delusione per le promesse mancate (o per le illusioni coltivate) e sta creando tensioni interne e risentimenti sociali. Puo compromettere, infine, i rapporti fra i singoli Liinder e fra tutti i Linder e lo stato.

IL FEDERALISMO MINACCIATO

Una recentissima sentenza della Corte costituzionale ha dato ragione al più piccolo dei L1inder, la città-stato di Brema, riconoscendogli l'inadeguatezza dei fondi di conguaglio ricevuti dal Bund negli ultimi anni. E stata una piccola vittoria del federalismo, mentre sta rischiando di essere colpito dall'unificazione: proprio quel federalismo che è stato uno dei punti

forza del sistema tedesco occidentale, garanzia di equilibrio istituzionale e politico e canale espressivo delle energie periferiche. Un sistema di compensazioni finanziarie regolato dal governo centrale assicura una redistribuzione di risorse dai Lnder più ricchi a quelli più poveri. Ma finora i Linder poveri erano soltanto due o tre, e sempre i più piccoli. Da quando sono nati all'Est cinque nuovi Liinder (più Berlino), tutti bisognosi di aiuto, il sistema delle compensazioni diventato fonte di scontri e di litigi (vedi il ricorso di Brema alla Corte). Aveva probabilmente ragione chi sosteneva che cinque nuovi Lnder erano troppi (per popolazione sono tutti insieme inferiori alla Renania Settentrionale-Westfalia, il più grande degli occidentali). Non solo essi difettano di risorse finanziarie, ma difettano anche di una burocrazia addestrata (molti funzionari occidentali sono costretti a fare la spola fra Bonn e le capitali regionali con funzioni suppletive e di addestramento) e di un ceto politico all'altezza, sia per inesperienza o sia perché se ne scoprono in continuazione componenti compromessi con il vecchio regime (le cariche dei governi regionali orientali sono sempre più spesso affidate a uomini politici occidentali). Anche il federalismo è quindi asimettrico.7 Lo è per la debolezza istituzionale e amministrativa dei nuovi Lnder e lo è per le loro condizioni economiche. Tutto ciò spinge verso il rafforzamento dei poteri e dei mezzi a disposizione del 69


co partito fra i due grandi dopo il 1961. Solo nel 1983 approdarono al Bundestag i Verdi (che ne sono, però, usciti proprio nel 1990). Ora i due grandi partiti sono sottoposti alla critica e alla disaffezione dell'elettorato. L'insofferenza antipartitica non era sconosciuta nella RFT ed aveva le motivazioni proprie di altri sistemi: onnipresenza dei partiti, sclerosi burocratica, scandali e corruione. Ma in questo ultimo anno è rapidamente cresciuta, alimentata a Ovest dalle accuse di errori e incompetenza per come viene condotta la transizione (vittima principale ne è il maggior partito di governo, ma l'opposizione socialdemocratica non ne è esente), dall'inquietudine per il benessere minacciato, da spinte xenoUN SISTEMA PARTITICO INSTABILE E SBILANfobe. dATO Questo risentimento ha trovato espresUn altro fattore di forza della Bundesre- sione politico-elettorale in liste di propublik è stato il sistema dei partiti, sia testa, come i Republikaner che il 5 apri per il formato (pochi) sia per la dinami- le scorso hanno ottenuto il 10,9% nelle regionali del Baden-Wurttemberg o coca (alternanza). I due grandi partiti di massa ( Volkspar- me la DVU che ha raggiunto il 6,3% (suteien, come li chiamano i tedeschi, perando quindi la Sperrklausel) nelle re"partiti di tutto il popolo"), che nel do- gionali dello stesso giorno in Schleswigpoguerra raccolsero l'eredità della sub- Holstein e che aveva già ottenuto il 29 cultura socialista e di quella confessio- settembre 1991 il 6,2% nella piccola citnale, hanno svolto una grande opera di tà-regione di Brema, tradizionalmente integrazione in un sistema democratico rossa (la SPD vi aveva perduto 1'11,7%). di grandi masse prima ad esso estranee. L'elettorato di queste liste non è fatto La loro solida base elettorale era garan- di nostalgici neonazisti, come erroneazia di stabilità; la loro polarizzazione mente si pensa all'estero (anche se moderata ha consentito per due volte il Schonhuber, il leader dei Republikaner realizzarsi dell'alternativa (nel 1969 e ha un passato da SS), ma di pensionati, nel 1982). Il meccanismo del ricambio è operai non specializzati, piccoli comstato facilitato dal ruolo della FDP, uni- mercianti e piccoli imprenditori che

Bund e quindi verso un centralismo minaccioso per l'autonomia e il decentramento. Lo sanno bene i governi regionali occidentali che hanno premuto per un mantenimento del livello dei propri fondi, che non intendono sacrificare fino al 1994 al conguaglio esorbitante che i trasferimenti all'Est imporrebbero. Non è questione soltanto di egoismo particolaristico (c'è anche quello): diminuzione dell'autonomia finanziaria significa sempre diminuzione dell'autonomia politica. Perfino la questione della capitale a Berlino è stata vista dalla periferia dell'Ovest come un possibile attentato al federalismo.

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paventano che la loro condizione venga compromessa non soio dagli immigrati stranieri, ma anche dai tedeschi dell'Est. Se l'avanzata di queste liste di destra continuerà fino alle prossime elezioni politiche, la loro presenza nel Bundestag scardinerà il formato del sistema partitico con effetti negativi sulla sua stabilità. Il formato del sistema partitico può essere scardinato anche a Est, in ragione di un'altra delle asimmetrie tedesche. Questa nasce dal fatto che i partiti sono nell'Est tutt'altro che consolidati. Se è vero, infatti, che nella prima fase della transizione era sembrato che i partiti vecchi e nuovi dell'Est, promossi a proprie succursali da quelli dell'Ovest, ne riproducessero caratteri e costellazione, l'impressione si è rivelata erronea. Si ricorderà che la CDU esisteva già nella RDT, come partito satellite della SED. Dopo qualche mese di incertezza, la CDU di Kohl riconobbe il partito orientale e lo condusse alla grande vittoria del 18 marzo 1990. Anche un partito liberale e un partito nazionalista avevano già funzionato come satelliti durante i quarant'anni di regime: dalla loro unione con un piccolo partito liberaldemocratico, spuntato nell'ottobre dell'89, è nata la FDP orientale. 8 I partiti democristiano e liberale dell'Est hanno portato alle rispettive case madri un nutrito gruppo di iscritti, nonché un rilevante patrimonio in sedi, giornali, strutture parallele. Eppure non sono riusciti a divenire soggetti vitali, proprio per il peso della collabora-

zione con il regime che ha offuscato le figure di molti dirigenti e ha tenuto lontani nuovi aderenti e sostenitori. La CDU orientale, nonostante il sostegno di Bonn, è in uno stato di permanente crisi. Il calo dei suoi consensi, che risulta dalle ultime serie di sondaggi (dal 44% dei voti conseguiti a Est il 2 dicembre 1990 sembra essere scesa, nell'aprile 1992, al 27% degli elettori disposti a votarla), si spiega naturalmente con la disillusione provocata dalle mancate promesse di Kohl, ma si spiega anche con la sua incapacità di penetrare realmente nella società civile. Lo stesso vale per la FDP orientale, a sua volta in crisi, nonostante che, sulla carta, i suoi iscritti siano addirittura più numerosi di quelli del partito dell'Ovest. Per identiche, ma opposte ragioni la SPD sembra invece risalire nella simpatia degli elettori orientali: i sondaggi di aprile le davano il 41% rispetto al 23,6% conseguito nel 1990. Ma la SPD orientale, nata dal nulla nell'autunno 1989, è del tutto inconsistente come organizzazione: nonostante gli sforzi degli inviati di Bonn, i suoi iscritti sono ancora poche decine di migliaia e la sua presenza sociale praticamente nulla. Il Bùndnis 90, la formazione elettorale rappresentata al Bundestag che raccoglie gli eredi della rivoluzione pacifica dell'ottobre 1989, non riesce ad andare al di là della sua forma iniziale di minoranza intellettuale.. L'unico partito che funziona ad Est, grazie ai precedenti in risorse e in esperienza, è forse la PDS che riesce a racco71


gliere di nuovo consensi per la sua politica di dura opposizione, come si è visto nelle elezioni di Berlino del 25 maggio, dove è arrivata all'11,4%. In questa situazione, anche la PDS può giocare un ruolo di disturbo sull'intera scena tedesca. Le stesse elezioni di Berlino hanno confermato, inoltre, l'ascesa dei Republikaner e il calo congiunto di CDU e SPD. Nella parte orientale della capitale i risultati sono stati ancora più disastrosi per i due grandi partiti. A Est sembra esserci dell'altro. I deputati democristiani eletti nei collegi orientali hanno manifestato recentemente l'intenzione di formare una frazione autonoma all'interno del gruppo parlamentare di Bonn con lo scopo dichiarato di esercitare una maggior pressione a favore dei loro rappresentati. Un esponente di rilievo della CDU orientale, Peter-Michael Diestel, ha addirittura annunciato il proposito di dar vita ad un nuovo raggruppamento politico a carattere regionale. Ha lasciato intendere che illustri personaggi sarebbero pronti ad aderire: la stampa ha fatto i nomi di Gysi, il capo della PDS, e di De Maiziére, l'ex presidente dei ministri democristiano. Si tratterebbe di costituire una sorta di «Lega Est>' (per usare una terminologia italiana) in grado di raccogliere la protesta degli scontenti di tutti i partiti e di tutti i gruppi sociali dell'ex RDT. Un fatto è certo, comunque: gli elettori orientali mancano di solide identificazioni partitiche e sono quindi esposti, secondo le previsioni di tutti gli esperti, 72

a forti fluttuazioni. Non solo possono cambiare voto (i sondaggi, abbiamo visto, lo stanno indicando),, ma possono farlo in direzione di nuove e originali formazioni. Quella che era sembrata piena accettazione del modello partitico di Bonn potrebbe quindi saltare in un prossimo futuro. Il sistema partitico, già così solido nella RFT, è tutt'altro che strutturato nella Germania unita: ciò era stato messo in conto dopo le elezioni del 1990. Quello che c'e di nuovo, due anni dopo, è che il sistema partitico potrebbe assumere una configurazione «zoppa» : l'asimmetria che nuovi partiti sostenuti dall'elettorato orientale possono mettere in atto - unita ai successi delle liste di destra ad Ovest - muterebbe decisamente tanto il suo formato che la sua dinamica, con riflessi di prevedibile rischio per l'intero sistema politico.

UNA CULTURA POLITICA DIVISA

Le vicende dei partiti confermano che la società orientale è tutt'altro che vertebrata. Al contrario è una società atomizzata, svuotata, prosciugata da quarant'anni di regime. Il disagio individuale e l'immaturità politica trovano espressione estremizzata nella minoranze violente. Le cronache dell'ultimo anno sono piene dei raids di bande di giovani neonazisti contro gli stranieri. I gruppi neonazisti sono molti di più e molto più attivi a Est che a Ovest. Non si limitano alle parate, già


abbastanza rivoltanti, ma danno sovente sfogo a esplosioni razziste, condite dalla più bieca retorica nazionalista. Gli skin-heads rappresentano, almeno per ora, un fenomeno di ordine pubblico. Ciò che più preoccupa è l'apatia politica che nasce dall'angoscia, dallo scetticismo, dalla frustrazione e che si innesta sull'alienazione accumulatasi per decenni (compreso quello del Terzo Reich). E preoccupa la disaggregazione sociale che induce all'isolamento e all'opportunismo. Ho detto della debolezza dei partiti. Emerge ora anche la mancanza di un tessuto associativo, che viene addirittura rifiutato dopo il forzato inquadramento del regime in cento tipi di organizzazione. Le poche forme associative che hanno preso vita in questi due anni sono state imposte dall'alto: stavolta non da un vertice autoritario ma da un sistema se non straniero, certamente estraneo'°. Ne è esempio più clamoroso il sindacato che, pur avendo acquisito le ramificate strutture di quello comunista di stato, stenta ad affermarsi ed a far proseliti. Non riesce a prender piede all'Est una cultura partecipativa, mentre sopravvive quella del sospetto e del clientelismo di stato. D'altronde, le continue rivelazioni su presunte collaborazioni con la STASI investono una fetta molto larga della popolazione. Una cultura politica comune a tutta la Germania sembra oggi il traguardo più lontano. Ci vorranno anni prima che valori, atteggiamenti, aspettative possa-

no coincidere. Sarà questa l'asimmetria più grave da rimuovere. Le rispettive mentalità appaiono ancora molto distanti. I «fratelli dell'Est (come sono stati chiamati, con molta retorica, per quarant'anni) cominciano ad avere qualche perplessità sull'unificazione: non possono rimpiangere il passato, ma conservano soltanto una "rassegnata fiducia". Dell'unificazione troppo affrettata i tedeschi dell'Ovest non sono mai stati convinti; ora lo sono ancora meno. Dopo gli entusiasmi della prima ora, il baratro fra Ossis e Wessis, abbreviazioni ormai divenute correnti ed usate in senso spregiativo dagli uni contro gli altri, si e rivelato in tutta la sua dimensione. Gli orientali rimproverano ai Wessis arroganza, prepotenza, supponenza. Gli occidentali rimproverano agli Ossis mancanza di inziativa, sfiducia nei propri mezzi, passività, petulanza. Le inchieste dicono che se tanto a Ovest che ad Est il problema più sentito appunto la difficile unità, seguito dalla preccupazione per il mercato degli alloggi, sugli altri problemi la differenziazione è netta. Quello di gran lunga più avvertito dagli Ossis è la disoccupazione, seguita dal decollo economico e dall'ordine pubblico; per i Wessis, invece, il problema più grave sono gli immigrati e la relativa questione del diritto di asilo e poi la difesa dell'ambiente (al quale gli altri sono indifferenti) Perfino analisi psicologiche rivelano la distanza fra le due mentalità.'2 Un diverso rapporto con la realtà finisce col


ribadire due culture politiche differenti, spesso contrastanti. Per questo si dice oggi in Germania che è stato più facile abbattere il Muro di Berlino di quanto non lo sia abbattere il muro che c'e «in den Kòpfen», «nelle teste»

I RISCHI DELL'ASIIvIMETRIA Il gigante tedesco è quindi pieno di malanni. In che direzioni possono farlo oscillare le asimmetrie sopra illustrate? Quali scenari si prospettano per la Germania a partire dalla situazione del 1992? Il permanere delle difficoltà potrebbe paradossalmente accelerare il cammino verso l'unificazione europea, come ha riconosciuto lo stesso Kohl. In questa direzione spingono i più potenti gruppi di pressione: le grandi imprese, il sindacato, le chiese. Nell'Europa unita la Germania potrebbe veder allentate molte delle sue attuali tensioni. Indebolita, manterrebbe certamente un ruolo di preminenza, ma rinuncerebbe alla pretesa di averne uno egemone. Potrebbe accadere, però, che l'aggra-

varsi delle stesse tensioni susciti derive isolazioniste e nazionaliste. Di fronte alle. pressioni dell'esterno (l'immigrazione, in particolare), la risposta alle asimmetrie potrebbe essere l'appello al ritrovarsi del popolo tedesco in uno stato forte e rinchiuso in se stesso. Contro la stessa volontà degli attuali protagonisti politici, il nazionalismo potrebbe essere - come in altri periodi della storia e sotto altri cieli - la valvola di sfogo per scaricare all'esterno difficoltà e colpe. Resta da vedere, infine, se la prospettiva della Grande Germania, potenza centrale e predominante in Europa, che sembrava così attuale due anni fa, resta ancora in piedi. Intorno a questa idea lavorano influenti gruppi di intellettuali che respingono come illusoria la soluzione europea, rivendicano il "sacro egoismo" dello stato tedesco, invitano il popolo a ritrovare se stesso nella dignità, ma anche nella forza (non esclusa quella atomica) e nella grandezza 13 . Il poco che si può dire è che le circostanze attuali sembrano aver tolto loro un p0' di fiato.

Note Lo si veda nell'ultima edizione del miglior manuale sul sistema politico tedesco, K. Von Beyme, Das politische System der Bundesrepublik Deutscland nach der Vereinigung, Mùnchen, 1991. La categoria dell'asimmetria ritorna in due ottimi lavori recentemente tradotti in italiano: G. Lehmbruch, La ricostruzione istituzionale della Germania Orientale, in «Rivista italiana di scienza politica», 1, 1992, pp. 5-40 e M. Kreile, Labora74

tono Germania. Le tappe dell'integrazione, in «Il Mulino», 1,1992, pp. 89-108. 2 Fra le tante pubblicazioni su1 tema, si veda il severo bilancio contenuto in J. Priewe e R. Hickel (a cura di), Der Preis der Einheit. Bilanz und Perspektiven der deutschen Vereinigung, Frankfurt am Main 1991. Sui tanti problemi e sulle strategie per affrontarli si vedano i contributi raccolti in U. Liebert e W. Merkel (a cura di), Die Politik der deutschen Einheit, Opladen 1991


H. Kohl, Solidariet:A Partnerschafr, Verantwortung. Regierngserklàrung am i?. Juni 1992, riportata in «Das parlamente», 26giugno 1992. Riprendo queste cifre da K. Von Dohnanyi, Der Notplan Ost, in «Die Zeit», 3luglio 1992. L'interessante resoconto di un manager italiano che ha seguito il tormentato processo di privatizzazione di un'azienda nei pressi di Berlino si trova in F. Tatò, Autunno tedesco. Cronaca di una ristrutturazione unpossibile, Milano 1992. 6 Sul confronto con il Mezzogiorno hanno insistito in particolare gli esperti dell'Istitut fiir Weltwirtschaft di Kiel, come risulta, fra l'altro, da alcuni loro Diskussionsbeitràge del 1991. Per l'asimmetria e altri problemi del federalismo tedesco oggi cfr. A.B. Gunlicks e R. Voigt (a cura di), Fòderalismus in der Bewiihrungsprobe. Die Bundesrepublik in der 90erJahren, Bochum 1991. 8 Per i partiti satelliti della RI2T è ancora di utile lettura, proprio per capire gli sviluppi odierni, P.J. Lapp, Die 'befreundeten Parteien'der SEO, Kòln 1988. I dati dei sondaggi sono ricavati dal Politbarometer di

aprile 1992 dell'istituto demoscopico Forschungsgruppe Wahien di Mannheim. Cfr. C. Offe, German Reunification as a 'Naturai Experimente', in «German Politics», 1, 1992, pp. 1-12. Informazioni ricavate dal Politbarometer cit. alla nota 8. Per un quadro sistematico della diversità di atteggiamenti a Est e Ovest dopo le elezioni del 1990 ai primi riiesi del 1992 ; si veda M. Jung e D. Roth, Poi itiche Einsteiiungen in Ost-und Wetsdeutschiand seit der Bundestagswahl 1990, in «Aus Politik und Zeitgeschichte», 19, 1992, pp. 3-16. 12 Cfr. P. Becker, Ostdeutsche und Westdeutsche auf dein Prùfstand psycologischer Tests, in «Aus Politik und Zeitgeschichte", 24, 1992, pp. 27-36. 13 Ne è esponente di punta lo sotrico Arnulf Baring, del quale si veda, fra l'altro, la lunga intervista raccolta in Deutschland was nun?, Berlin, 1991. Per una valutazione più serena del dibattito in corso sul ruolo della Germania in Europa si vedano i saggi racolti da Bruno Schoch, Deutschlands Einheit und Europas Zukunft, Frankfurt am Main 1992.

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L'economia tedesca e la sfida dell'unificazione di Luigi Sai

L'unificazione, prima monetaria e poi politica ma non ancora economica tra le due Germanie avvenuta nel 1990, rappresenta un avvenimento di eccezionale importanza per la futura evoluzione dell'integrazione europea. Ciò in considerazione del peso economico che già da sola la RFF rivestiva nell'economia europea e mondiale, del ruolo del marco tedesco come moneta-ancora del Sistema Monetario Europeo e della futura Unione Monetaria e della disciplina monetaria imposta in tali ambiti da parte della Bundesbank, e infine delle potenzialità ma anche dei rischi che l'unione di due sistemi economici così diversi comporta a diversi livelli. Non è dunque privo di interesse cercare di capire il quadro della situazione complessiva al fine di individuare i fattori che possono far prevalere le potenzialità positive oppure i rischi, dal momento che nel primo caso verrebbe a formarsi al centro dell'Europa, intesa sia in senso geografico che politico, un gigante economico in grado di determinarne i tempi e i modi dello sviluppo, e nel secondo caso un paese le cui difficoltà potrebbero avere riflessi drammatici e comunque molto gravi sui diversi 76

processi di integrazione e trasformazione attualmente in corso. Forte e crescente è la preoccupazione che i territori est-tedeschi, o i 5 Nuovi Lii nder come ora è chiamata quella che fu la DDR, possano trasformarsi in una botte senza fondo divoratrice di immense risorse finanziarie, una sorta di enclave assistita con massicci trasferimenti finanziari da Ovest. Non è un caso infatti che in Germania si parli molto dei rischi di una 'Mezzogiorno-economy' con il quale termine si paventa espressamente la possibilità di una ripetizione in chiave tedesca della lunga esperienza italiana nei confronti delle regioni meridionali. Dietro questo timore possiamo leggere molto chiaramente la preoccupazione che il dualismo economico che si è creato con l'unificazione non possa essere superato nei tempi rapidi che molti, probabilmente sopravvalutantdo la situazione economica della DDR, Si aspettavano e che esso diventi un aspetto strutturale della nuova Germania, indebolendone la posizione di potenza economica mondiale riconquistata nel corso del secondo dopoguerra. In tale caso lo scenario che si verrebbe a deli-


neare potrebbe essere il seguente: elevato e permanente deficit pubblico necessario a sostenere livelli di vita della popolazione ad Est non troppo dissimili dai livelli di vita dell'Ovest, riduzione dei consistenti avanzi della bilancia commerciale, indebolimento strutturale del marco e inflazione. E chiaro che se questa sequenza si dovesse effettivamente verificare ne dovremmo concludere che molto incerte diventerebbero le prospettive di giungere entro i tempi previsti all'Unione monetaria ed economica europea e che molto più difficile sarebbe il percorso dei Paesi ex-comunisti per uscire dalle loro attuali difficoltà.

ALCUNI IMPORTANTI ASPETTI DELL'UNIFICAZIONE

Sotto il profilo, giuridico si può affermare che il rapido precipitare degli avvenimenti dalla caduta del Muro di Berlino in poi trova un suo sbocco definitivo nel Trattato per la creazione di una Unione monetaria, economica e sociale che venne firmato il 18 maggio 1990 tra i due Governi. Esso era stato preceduto da un inteso e talora acceso dibattito sulle modalità sia giuridiche che economiche che dovevano portare all'unione di due sistemi politici, economici e sociali così diversi. Dal punto di vista della costituzione della Repubblica Federale Tedesca vi erano due strade che potevano essere percorse per giungere all'unione dei

due Stati tedeschi: l'articolo 23 che regola l'ingresso nella RFT di 'altre parti della Germania' e l'articolo 146 che prevede la possibilità di elaborare una costituzione vera e propria (non è un caso che l'attuale ricostruzione della RFT sia chiamata 'Grundgesetz', cioè 'Legge fondamentale' quasi a sottolinearne la provvisorietà). La differenza non è puramente procedurale ma sostanziale in quanto la decisione del governo tedesco occidentale, prontamente accettata dall'altra parte, di fare ricorso all'art. 23 corrisponde ad una visione riduttiva del processo di unificazione inteso 'come un compito di riorganizzazione giuridica e amministrativa di un meccanismo economico' 1 che si pensava avrebbe potuto continuare a funzionare e che quindi avrebbe potuto essere trasformato, per così dire, 'in corsa'. Il successivo Trattato di Unificazione del 31 agosto non faceva dunque altro che sanzionare questa scelta 2 : i ricostruiti 5 Lànder orientali (Brandenburgo, Sassonia, Sassonia-Anhalt, Mecklemburgo-Pomerania e Turingia) chiedevano di aderire alla IUT e ne facevano automaticamente proprie l'insieme delle istituzioni giuridiche, sociali ed economiche. Scompariva così di colpo, in una sorta di resa senza condizioni, qualsiasi specificità e anche dignità del vecchio stato e dei suoi abitanti. Sta forse qui, in questa mancanza di nelaborazione collettiva di una unione che da tutte le parti era definita 'storica', la radice della sottovalutazione dei pro77


blemi economici, politici e sociali che stanno via via emergendo nella Germania unificata. Non vi è dubbio tuttavia che le considerazioni più interessanti si possono fare a proposito dei contenuti economici del Trattato di unione. Anche senza giungere alle formulazioni del tipo 'DM-Nationalismus' 3 come sintetica espressione della realtà nascosta dietro il velo dei discorsi sull'unità nazionale etc., si può ben dire che l'economia ha giocato in questo caso un ruolo essenziale. Da un lato, quello occidentale, come convinzione che l'unificazione rappresentava il momento culminante e vittorioso del c.d. modello tedesco rispetto a un modello di economia pianificata e collettivista che mai aveva nascosto di porsi come radicale alternativa ad esso. E inoltre che la forza economica raggiunta dal sistema tedesco occidentale avrebbe consentito di digerire senza grosse difficoltà e tensioni sociali e in tempi rapidi l'integrazione nella economia sociale di mercato di un intero sistema economico. A posteriori possiamo ben dire che la scelta dell'art. 23 era implicita in questa convinzione. Dall'altro lato, quello orientale, la consapevolezza cresciuta negli anni dell'enorme dislivello tra il benessere materiale dei due popoli trovò uno sbocco traumatico e dirompente nella fuga di massa del 1989 mentre la prospettiva di poter accedere direttamente a quel benessere con il semplice cambio dei marchi orientali in DM attraverso la scorcia78

toia della unione monetaria fece crollare ogni possibilità di percorrere una strada autonoma. La questione più importante che il Trattato del 18 Maggio definisce è quella della unione monetaria: l'art. 2 recita infatti che 'le parti contraenti formano a partire dal 1 luglio 1990 una unione monetaria con un unico spazio monetario e avente come moneta comune il DM... La Bundesbank diventa la banca centrale di questo spazio monetario... Le obbligazioni e i crediti in marchi orientali saranno convertiti in DM nella maniera stabilita dal presente Trattato'. Mentre nell'an. 10 comma 5 vengono definite le modalità di conversione: 'Salari, stipendi, pensioni, locazioni e affitti.., vengono convertiti in rapporto 1:1... tutte le altre obbligazioni e crediti in rapporto 2:1... i depositi presso gli istituti di credito delle persone fisiche residenti nella RDT vengono convertiti per ammontari determinati nel rapporto 1:1... in rapporto all'età delle stesse'. L'asettica espressione giuridica nasconde in realtà un gran numero di questioni sulle quali occorre soffermarsi. a) l'idea dell'unione monetaria ora e subito 4 rappresenta la risposta che il governo tedesco, facendo propria una idea originariamente avanzata da un deputato della SPD, offre una risposta alla trasformazione repentina degli umori della popolazione tedesco-orientale che è condensata nel passaggio dallo slogan tutto interno allo scontro politico in atto nella RDT 'Wir sind das Volk' allo slogan 'Wir sind ein Volk' (rispettivamen-


te 'Noi siamo il popoio' e 'Noi siamo un solo popolo'). La completa delegittimazione di qualsiasi prospettiva di trasformazione graduale del sistema politico ed economico nell'ambito di un più lento e meno traumatico processo di integrazione fra i due Stati riassunto in un altro significativo slogan 5 trova il suo corrispettivo nella convinzione del governo tedesco che l'unica maniera per arrestare il flusso immigratorio della RDT era quello di procedere nel più breve tempo possibile all'unione monetaria ed economica, concedendo ai tedeschi-orientali il simbolo stesso della potenza economica della RFT, cioè la sua moneta. la decisione della RDT di rinunciare alla propria sovranità monetaria ancora prima della unificazione politica pone bene in luce quelle che sono le caratteristiche peculiari di questa unificazione, a proposito della quale molti osservatori hanno usato il termine di annessione. Si può dunque affermare che mentre la formazione della Repubblica Federale Tedesca come Stato fu preceduta dalla riforma monetaria e dalla introduzione di una nuova moneta, l'unione monetaria entrata in vigore il i luglio 1990 ha sancito la fine della RDT ancora prima della sua fine politica. la questione cruciale quando si decide una unione monetaria è naturalmente quella del rapporto di conversione tra le due monete. L'atteggiamento in proposito da parte della Bundesbank fu inizialmente quello di rifiutare l'ipotesi stessa di un unico spazio monetario in

favore della opzione convertibilità che era la stessa sulla quale si muovevano gran parte degli economisti sia ad Est che a Ovest. Tale strategia aveva come fulcro il ripristino della convertibilità del marco orientale fissando un tasso di cambio in rapporto al DM sufficientemente basso da consentire una forte ripresa delle esportazioni sui mercati occidentali 6 Molte sono le obiezioni anche di carattere economico che si possono fare a questa ipotesi e non ci pare questa la sede opportuna per discuterle. 7 Forse il migliore commento all'affossamento di questa che era, a detta degli osservatori, il sentiero di sviluppo più realistico per la RDT è il seguente: "Alla DDR manca un fattore essenziale, il tempo.... Quanto più i cittadini toccano con mano le differenze tra capitalismo e socialismo e quanto più hanno informazioni sullo stato rovinoso dell'economia... tanto più rapidamente svaniscono le speranze nella possibilità I i i 8 ai rinnovamento aei sociaiismo'' Una volta scelta in sede politica la strada della rapida unificazione la Bundesbank ingaggiò una durissima battaglia sui termini dell'unione monetaria e in particolare sul rapporto di conversione. Il rischio che la Bundesbank paventava era che un rapporto di conversione troppo favorevole ai cittadini dell'Est e troppo distante da quello che era il tasso di cambio di circa 4.4:1 al quale le due monete erano scambiate potesse avere effetti incontrollabili sulla situazione monetaria in Germania, dal momento che pesava come un incubo il 1•

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consistente stock di depositi di risparmio che i cittadini della RDT, in mancanza di alternative reali di spesa, avevano accumulato nel corso degli anni e che era valutato a circa 150 miliardi di marchi orientali 9 . Era inoltre convinzione della Bundesbank che un rapporto di conversione 1:1 "avrebbe comportato per l'economia della DDR un livello di indebitamento e un livello di costi, al quale la maggior parte delle imprese... non sarebbero in grado di svilupparsi nell'ambito della concorrenza internazionale" 10 La Bundesbank riteneva perciò di dover raccomandare, in maniera molto riluttante, come 'essenziale' un rapporto di scambio di 2:1, fatta eccezione per un limitato ammontare di 2000 DM per abitante che dovevano essere cambiati secondo il rapporto di 1:1. Molto significativo è, a questo proposito, osservare la risposta immediata e dai contenuti totalmente differenti che il Direttorio della 'Staatsbank', cioè la Banca Centrale: della RDT diede il 2 aprile successivo In essa si sostiene la necessità di fissare il rapporto di conversione al livello di 1:1 sia per i salari e gli stipendi che per i depositi di risparmio dei cittadini, sulla base di motivazioni di ordine sociale, politico ed economico, mentre si accetta un rapporto di 2:1 per i restanti depositi e crediti (delle imprese). Gli accordi contenuti nel Trattato rappresentano un rapporto medio di conversione di circa 1.8:1 e non vi è dubbio che ciò equivalga ad una vera e propria 80

rivalutazione del marco orientale, cioè l'esatto opposto della strategia di cui abbiamo parlato sopra e quel che più conta della situazione in cui si trovarono le imprese tedesche dopo la riforma monetaria del 1948 e durante gran parte del periodo del miracolo economico del dopoguerra. Questa considerazione indebolisce fortemente la tesi espressa in alcuni studi secondo i quali 15 nuovi Lànder potrebbero ripercorrere la strada già percorsa con successo dalla RFT. Quanto alle conseguenze ci pare significativo e illuminante citare un passo della lettera del SVR al Cancelliere Kohl del 9 Febbraio. "Con una rapida unione monetaria verranno posti in essere processi di adattamento, che potrebbero danneggiare la produzione e l'occupazione nella DDR. L'offerta di prodotti nella DDR molto spesso non risponde per qualità e quantità ai desideri della gente. I consumatori, che con il DM Otterranno una moneta convertibile, eserciteranno una forte domanda per beni di consumo prodotti in Germania Occidentale o all'estero. Il potere d'acquisto defluirà dall'economia della DDR. Le imprese orientali si troveranno direttamente esposte ad una concorrenza internazionale, cui al momento non sono in grado di fare fronte. Dal momento che esse potranno vendere i loro prodotti con maggiori difficoltà, la produzione e la produttività scenderanno. Ciò non rimarrà senza conseguenze per i redditi e l'occupazione che pure dovranno scendere. Al temporaneo vantaggio che i cittadini della DDR otterran-


no con l'introduzione del DM di poter accedere ai mercati occidentali, seguirà immediatamente il contraccolpo, poiché impiegando il loro reddito nell'acquisto di beni in Occidente verrà ridotta la base stessa su cui il reddito si forma. I movimenti di popolazione diverranno ancora più forti 12 d) il passaggio da una economia pianificata ad una economia di mercato che nel caso della DDR ha voluto dire il recepimento dell'intero corpo di principi giuridico-economici tedesco occidentale poneva la questione, comune peraltro agli altri paesi ex-comunisti, di definire delle modalità che governassero il processo di privatizzazione della proprietà statale. In questo caso, ancor più che negli altri, tale processo è inestricabilmente legato con una questione che nel periodo successivo all'unificazione ha assunto un peso assai rilevante, e che si può chiamare la questione dei diritti di proprietà. Nella RDT il momento della nazionalizzazione della proprietà privata non si limitò al momento costitutivo dello Stato come entità fondata giuridicamente sulla proprietà collettiva: vi furono le espropriazioni operate dal III Reich soprattutto contro i cittadini ebrei, quelle fatte dalle autorità di occupazione, e poi altre ondate l'ultima delle quali all'inizio degli anni Settanta. Ma vi fu anche una sorta di nazionalizzazione strisciante che colpiva, per forza di cose, le persone che anno dopo anno riusciranno legalmente o illegalmente a passare in Occidente. Il peso, anche politico, di questi rifugia-

ti che sono milioni era perciò molto forte. I due governi decisero perciò di chiarire una volta per tutte la questione con una dichiarazione congiunta del 15 Giugno 1990 nella quale viene affermato il principio della restituzione ai vecchi proprietari delle proprietà confiscate o espropriate, fatta eccezione per quelle avvenute nel periodo di occupazione (1945-1949) e per quelle proprietà immobiliari la cui attuale destinazione ne renda impossibile la restituzione materiale. L'avere scelto la strada della restituzione delle proprietà al posto di quella dell'indennizzo ha avuto conseguenze molto pesanti dal momento che ha nettamente ritardato il processo di privatizzazione, frenando i potenziali acquirenti nell'attesa che venissero definite le numerosissime richieste 13 Pilastro della privatizzazione delle imprese ex-RDT e la 'Treuhandgesell-schajì' (THA) un ente che venne costituito il 17 Giugno 1990 dal governo della RDT con lo scopo, a quanto si legge nel preambolo della legge, "di mettere a disposizione dei risparmiatori, dopo un inventario del patrimonio popolare e della sua redditività come pure dopo il suo impiego prioritario per la trasformazione strutturale della economia e il risanamento del bilancio statale, una quota del patrimonio nazionale a compenso del ridotto importo derivante dal cambio della moneta del 2 luglio 1990". La legge fu integralmente e semplicemente recepita dal Trattato di Unificazione, laddove all'art. 25 si specifica che il 81


compito della THA è quello di "Strutturare in maniera competitiva e privatizzare le imprese già di proprietà del popolo". Questo ente si è così trovato ad amministrare dopo l'unificazione qualcosa come 8000 imprese nel solo settore industriale con più di 40000 impianti produttivi e circa i 2/5 dell'intero territorio della ex RDT. Attorno ad esso si sono addensate critiche e accesi dibattiti, chi lamentandone la insufficiente definizione dei compiti, chi l'insufficente ritmo delle alienazioni e chi invocandone una sua trasformazione. In altra parte della rivista si troverà un'analisi molto più approfondita della questione e quindi eviteremo di dilungarci. Ci sembra tuttavia opportuno riassumere brevemente i termini del problema che corrispondono all'alternativa privatizzare-risanare. Vi è infatti una corrente di pensiero che ritiene che l'obiettivo di privatizzare il più rapidamente possibile debba avere la precedenza assoluta, demandando alle forze del mercato l'opera di risanamento. Un'altra corrente di pensiero, più attenta alle tematiche sociali e alle conseguenze drammatiche in termini di occupazione che avrebbe una privatizzazione a tutti i costi, pone con forza il problema del risanamento delle imprese come precedente a quello della loro alienazione. Non si possono infatti porre tutte le imprese sullo stesso piano: accanto a imprese con ottime possibilità di sopravvivenza, come nel caso dei servizi, banche, assicurazioni, distribuzione 82

etc., vi sono imprese le cui prospettive di sopravvivenza sono molto più incerte, e altre ancora che hanno sicuramente scarse chances di sopravvivenza. Ci riferiamo in quest'ultimo caso ad esempio ai cantieri navali, al settore dell'industria pesante o a quella dell'industria chimica, quest'ultimo gravato per di più dal problema dell'elevato inquinamento e quindi dei costi del disinquinamento. Per queste imprese probabilmente l'alternativa è tra la chiusura immediata oppure l'avvio di un costoso processo di ristrutturazione gestito in prima persona dalla THA.

LA SITUAZIONE DELLA DDR AL MOMENTO DELL'UNIFICAZIONE

Alfine di comprendere quello che l'unione di due sistemi economici tanto diversi significava ci sembra utile offrire alcuni dati di confronto tra le due economie (Tavola 1, p. 95). Un'analisi sia pure sommaria di questi dati ci consente di fare le seguenti osservazioni: 14 a) l'occupazione nella RDT era caratterizzata da un tasso di partecipazione molto elevato, soprattutto nel settore femminile. La struttura settoriale dell'occupazione denotava una forte concentrazione nel settore manifatturiero (oltre il 40%), un'alta, ma non altissima, quota in agricoltura mentre i servizi assorbivano una quota molto bassa di lavoratori in rapporto a quella dei paesi industrialmente avanzati. Questa


distribuzione settoriale dell'occupazione corrispondeva grosso modo a quella della RFT all'inizio degli anni Sessanta. I salari medi lordi nel settore manifatturiero corrispondevano a circa 1/3 dei salari lordi nella Germania Ovest ed erano sostanzialmente in linea con le rispettive produttività. I dati ufficiali collocavano la produttività in RDT a circa il 50% della produttività occidentale, ma si trattava di dati sicuramente sovrastimati se non fasulli 15 Le cause di questo basso livello della produttività sono da imputare da un lato alla mancanza di motivazioni economiche e al fatto che il regime socialista non ammetteva l'esistenza di disoccupazione palese, col risultato che la disoccupazione veniva trasferita all'interno delle fabbriche, e dall'altro lato al deplorevole stato degli impianti, alla mancanza di pezzi di ricambio, a loro volta causati da una politica industriale che aveva dato priorità assoluta ad alcuni settori (l'elettronica, la produzione di lignite, estremamente inquinante) ai quali furono destinate ingentissime risorse. Il prelievo per imposte e contributi era invece completamente diverso: 33.2% in iwr, 15.0% in RDT.

L'elevata consistenza dei depositi a risparmio rifletteva da un lato la mancanza di alternative finanziarie all'impiego dei risparmi e dall'altro la differente evoluzione nel corso del tempo del reddito monetario netto della popolazione rispetto agli impieghi. Ponendo il 1970=100, il reddito nazionale dal lato degli impieghi era cresciuto a 181 nel

1988, mentre il reddito monetario netto a 205 e i depositi a risparmio a 291. Non vi è dubbio quindi che siamo in presenza di una sorta di 'risparmio forzato', vale a dire di una componente almeno dei risparmi che era tale in quanto la carenza di beni di consumo, durevoli e non, non offriva occasioni di spesa. Era esattamente questo 'Geldueberhang' (Pletora monetaria) che preoccupava grandemente le autorità monetane occidentali per il suo potenziale inflazionistico al momento dell'unificazione monetaria. Si confrontino a questo proposito anche i dati sulla differente dotazione di beni di consumo durevoli tra i due Paesi. L'indice dei prezzi per i due Paesi denotava un andamento totalmente divergente. Ciò rifletteva innanzitutto il modo col quale era calcolato l'indice stesso, e cioè il paniere dei beni che viene preso in considerazione e che in RDT includeva certi tipi di beni di consumo di prima necessità e gli affitti ma non altri. Resta tuttavia il fatto che i prezzi di alcuni prodotti alimentari di largo consumo (burro, patate, carne di maiale, pane di segale), degli affitti, della energia elettrica, del gas da cucina, dei trasporti ferroviari etc. erano nel 1998 gli stessi del. 1970, quando i Paesi Occidentali avevano sperimentato nello stesso periodo lunghi anni di inflazione spesso a due cifre. La stessa 'virtuosa' Germania Occidentale registrava nello stesso arco di tempo un tasso cumulativo di inflazione di quasi il 98%. Ciò non aveva naturalmente nulla a 83


che vedere con la maggiore efficienza dell'economia tedesco-orientale, ma era interamente ascrivibile alla decisione politica di sovvenzionare quei prezzi. Le conseguenze di tale decisione furono molto gravi sia per il bilancio statale, una cui quota crescente doveva essere destinata a tale scopo (nel soio 1988, ad esempio, il costo delle sovvenzioni per i beni e servizi di prima necessità era pari a circa 50 miliardi di marchi, cioè 1/5 del bilancio statale) sia per le distorsioni che tale struttura dei prezzi determinava dal lato della produzione. Si pensi alla questione del fabbisogno energetico che ha potuto essere soddisfatto soio ricorrendo alla produzione interna di lignite, altamente inquinante. Un'altra conseguenza di questo fatto fu che al momento dell'unificazione la struttura dei prezzi tra i due Paesi era estremamente diversa. I prodotti e i servizi sovvenzionati costavano spesso 1/5 o 1/6 dei corrispondenti prodotti occidentali, mentre gli altri costavano anche il triplo e il quadruplo e spesso erano introvabili. Come vedremo questa osservazione ci aiuterà a capire alcuni fatti importanti che si verificarono all'indomani dell'unificazione. e) I dati sull'export/import testimoniano di una strettissima integrazione della economia tedesco-orientale nell'ambito del sistema di scambi multilaterale della comunità degli Stati socialisti e di una scarsa penetrazione sui mercati occidentali. La crisi in cui stava entrando la comunità economica socialista avrebbe comunque posto la DDR nella condi84

zione di dover ristrutturare totalmente il suo apparato produttivo al fine di trovare una nuova collocazione sui mercati internazionali. f) La condizione delle infrastrutture materiali (trasporti, telecomunicazioni, etc.) era disastrosa. Il patrimonio abitativo molto invecchiato e molto spesso fatiscente. La rete ferroviaria, che era stata pesantemente colpita dalle distruzioni della guerra e dalle operazioni di smontaggio effettuate dai sovietici, misurava 14.000 Km complessivi. Di questi solo il 30% funzionava su due o più binari e solo il 24.8% del totale risultava elettrificato. La situazione delle strade era altrettanto disastrata. Molto diversa era naturalmente la situazione economica della RFT alla vigilia della unificazione. Nel corso del secondo dopoguerra essa era emersa come una delle tre potenze economiche mondiali e certamente, assieme al Giappone, come quella più dinamica. La sua partecipazione agli scambi internazionali era rilevantissima. La bilancia commerciale era stata costantemente in attivo nel corso di tutti gli anni Ottanta mediamente di quasi 100 Mlrd. di DM, mentre nel 1989 presentava un saldo positivo di oltre 140 miliardi di marchi. Ugualmente positivo era il saldo delle partite correnti, che tiene conto anche dei trasferimenti, servizi (assicurazioni, trasporti etc.): particolarmente evidente era il trend ascendente dei redditi netti da capitale (22 miliardi di marchi) che rifletteva il crescente ruolo della


Dove passa il treno il verde è sempre verde. Il verde, un colore che si addice al treno. Verde, nel codice segnaletico significa "via libera", ma in senso metaforico può rappresentare anche fiducia verso il mezzo di trasporto ferrovia e verso i suoi programmi di sviluppo. Riconquistare un ruolo centrale nel sistema dei trasporti italiano non è per le Ferrovie una semplice strategia aziendale, è anche la positiva risposta a un'esigenza prioritaria del Paese. Dalla parte del treno ci sono ragioni economiche, sociali, ambientali. Ma tutto questo ancora non basta. Per raggiungere gli obiettivi di risanamento e sviluppo, per riuscire a offrire un servizio di trasporto all'altezza dei migliori standard europei, le FS hanno bisogno della convinta solidarietà della clientela e della pubblica opinione. Solo così il verde resterà verde.

LITALIA CHE Si MUOVE



LA SICUREZZA 9E UNA BUONA ABITUDINE.

UN CONTINUO RICAMBIO D'ARIA. CONTROLLI PERIODICI. CANNE FUMARIE LIBERE E PULITE. APPARECCHI DI QUALITA. INSTALLATORI QUALIFICATI. Comitato Italiano Gas-CIG


Sciogliere i nodi per dare più spazio vitale alla città. Sciogliere i. nodi non significa intervenire drasticamenfe là dove i nodi esistono e sono forse inevitabili. Occorre distinguere tra nodi e nodi. La nuova strategia delle Ferrovie italiane per le aree urbane prevede un intervento operativo e infrastruffurale in quei nodi dove l'inadeguatezza della rete viarig e l'irrazionale sovrapposizione dei diversi veffori producono disagi e disfunzioni. Nei progròmmi di sviluppo delle Ferrovie sono previsti progeffi, interventi e investimenti che, d'intesa con gli Enti locali, mirano a rendere più agevole e razionale la mòbilità dei ciffadini e delle cose. Nuove linee e più treni. Nuovi servizi e più spazi vitali alla città. Per una migliore vivibilità e un maggiore rispetto del territorio.

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Germania come esportatore netto di capitali. Inoltre il susseguirsi ininterrotto di saldi attivi delle partite correnti a partire dal 1982, che si può valutare cumulativamente di quasi 500 miliardi di marchi, aveva consentito di costituire una sorta di riserva-cuscinetto di attività sull'estero cui attingere per finanziare una parte almeno dei consistenti costi dell'unificazione. L'attività economica girava a livelli molto sostenuti con tassi di crescita del PNL in termini reali del 3.7% nel 1988 e del 3.85% nel 1989. L'opera di consolidamento del bilancio perseguita nel corso degli anni Ottanta dal governo liberal-democratico aveva riequilibrato i conti pubblici che cvidenziavano deficit estremamente contenuti. Il tasso di crescita dei prezzi al consumo era stato in media tra il 1982 e il 1989 inferiore al 2%, anche se tra il 1988 e il 1989 era passato dal 1.3% al 2.8%, ma ciò era probabilmente il riflesso di un surriscaldamento dell'economia che era prossima al pieno utilizzo della capacità produttiva. Un dato negativo era tuttavia rappresentato dall'andamento della disoccupazione che si manteneva costantemente su valori superiori al 8%, il che corrisponde a circa 2.2 milioni di disoccupati come si evince dalla Tavola 2 (v. p. 96) che rappresenta la situazione del mercato del lavoro pre-unificazione.

EFFETTI ECONOMICI DELL'UNIFICAZIONE

Per comprendere le conseguenze a livello economico dell'unificazione dobbiamo considerare che essa ha posto immediatamente le imprese tedescoorientali nel pieno della concorrenza internazionale, dal lato dei costi, dei prezzi di vendita e della qualità dei prodotti. A nessuno di questi tre livelli esse erano in grado di competere, essendo venuta meno la possibilità di utilizzare il tasso di cambio come ammortizzatore. I prodotti di prima necessità costavano formalmente molto meno ma solo grazie a massicce sovvenzioni che il governo non avrebbe più tollerato. Ancora più grave era la situazione per i prodotti dell'industria manifattueriera che al tasso di conversione 1:1 si trovarono completamente fuori mercato. Il primo effetto dunque fu una fortissima caduta dei livelli di produzione che coinvolse tutti i settori, a cui si aggiunse il crollo dei mercati di esportazione. A seguito dell'unificazione monetaria infatti con il quasi contemporaneo crollo della Comunità economica socialista, i Paesi dell'Europa Orientale avrebbero dovuto pagare i prodotti tedeschi orientali in valuta forte, cioè in marchi, e non più con il sistema di compensazioni bilaterali in vigore in precedenza. Una considerazione opposta vale invece per i consumatori, i quali, con l'unificazione, si trovarono a poter disporre di un consistente potere d'acquisto da indirizzare senza più restrizioni verso 85


l'intera gamma dei beni di consumo occidentali. Si assistette quindi ad una sorta di gigantesco effetto di sostituzione che portò al rifiuto di massa di ciò che era stato fino ad allora oggetto di consumo da parte della popolazione, aggravendo ulteriormente, in quello che è stato definito una sorta di 'suicidio economico' collettivo, le difficolt. dei produttori. Conviene ora esaminare più nel dettaglio i principali punti di interesse.

Gli scambi con l'estero I dati di bilancia dei pagamenti del 1990 e ancora più del 1991 rivelano una forte inversione di tendenza. La bilancia delle partite correnti ha subito un peggicramento di quasi 110 miliardi di marchi 16 . Ciò a sua volta è dovuto agli sviluppi della bilancia commerciale e soprattutto al fortissimo incremento delle importazioni che hanno avuto la funzione di vera e propria valvola di sicurezza nell'evitare che il forte incremento della domanda indotto dall'unificazione avesse conseguenze disastrose sui prezzi. Mentre le esportazioni restavano sostanzialmente stabili sui valori del 1989, le importazioni aumentavano di 50 miliardi di marchi nel 1990 e di altri 90 miliardi nel 1991. L'incremento ha riguardato praticamente tutti i prodotti, con punte più significative per i beni di consumo durevoli (+ 37.7% le importazioni di autoveicoli!) e per i beni capitali. 86

Tutti i partner commerciali della Germania hanno beneficiato di questo incremento: i Paesi della CEE hanno potuto incrementare le loro esportazioni verso la Germania in media del 16%, ma con dati abbastanza divergenti fra di loro '. Nel complesso il saldo attivo della Germania nei loro confronti è diminuito nel 1991 di circa 40 miliardi di marchi. Si può dunque dire che rilevante è stato il ruolo dell'unificazione tedesca e della Germania nel sostenere i livelli di attività del resto del mondo, in un momento difficile per l'economia internazionale e dopo anni nel corso dei quali la Germania era stata accusata di perseguire una politica neo-mercantilistica e di non volere assumere il ruolo di traino, di 'locomotiva', che il suo enorme surplus commerciale avrebbe consentito. Dal lato dei movimenti di capitale l'analisi di dati di bilancia dei pagamenti consente di aggiungere qualche altra riflessione interessante. Per quel che riguarda i movimenti di capitale a lungo termine in uscita la Germania continua a caratterizzarsi come una forte esportatrice di capitale; nel 1991 sono altresì aumentate le importazioni di capitale soprattutto per effetto degli acquisti da parte degli stranieri di bonds federali emessi per finanziare i costi dell'unificazione. Molto significativo ci pare il dato sugli investimenti diretti in entrata e in uscita, riassunto nella Tavola 3 (v. p. 96). In un periodo in cui si pensava che lo sforzo del governo volto a incrementa-


re e indirizzare verso i territori orientali gli investimenti delle imprese alfine di accellerare a1massimo il processo di trasformazione strutturale, si osserva da un lato una sostanziosa caduta degli investimenti stranieri e un aumento del processo di internazionalizzazione delle imprese tedesche. Nel 1991 il saldo cumulativo della bilancia delle partite correnti e di quella dei movimenti di capitale a lungo termine denota un passivo di 62 miliardi marchi. Poiche' la posizione netta sull'estero della Bundesbank è rimasta in tale periodo inalterata, ne segue che tale passivo è stato finanziato attraverso transazioni di capitale a breve termine, evidenziato da una forte riduzione delle attività bancarie nette sull'estero. In altre parole, il forte aumento dei tassi di interesse tedeschi ha spinto gli stranieri a finanziarsi non più in marchi ma in altre divise, con un costo minore (ad. es. dollari).

Il mercato del lavoro È questo il settore dove più evidente si manifesta la divisione tra quella che era la Germania Occidentale e i 5 nuovi Linder. Per quel che riguarda i dati complessivi della Germania unificata riferiti all'ultimo trimestre del 1991 e ricordando al lettore che essi non sono definitivi, la popolazione attiva ammonta a poco più di 39 milioni unità, con una occupazione totale di 36,555

milioni e un numero ufficiale di disoccupati pari a 2,615 milioni. Queste cifre sono tuttavia il frutto di un andamento fortemente divergente tra Ovest ed Est come mostra la Tavola 4 (v. p. 96) (nella quale sono riportati i dati cumulati 1990 e 1991). Ci sembra che questi dati, nella loro semplicità, possano dare il senso della trasformazione in atto e dell'entità dei flussi di manodopera che si sono verificati tra le due parti della Germania unificata. Essi vanno tuttavia letti con un pò di cautela. L'economia tedesco-occidentale ha indubbiamente tratto i maggiori benefici, almeno nel breve periodo, dall'unificazione comportandosi come una gigantesca spugna che ha assorbito la parte sicuramente più dinamica e giovane della forza lavoro orientale. La creazione di oltre 1.700.000 posti di lavoro nel giro di meno di due anni non richiede, pensiamo, commenti, mentre la contemporanea debole riduzione della disoccupazione sta a dimostrare che essa non è facilmente aggredibile con le tradizioni politiche di tipo keynesiano. Anche le cifre relative alle regioni orientali vanno interpretate: la riduzione dell'occupazione è fortissima, quasi tre milioni di unità, cui corrisponde una disoccupazione di poco più di un milione di lavoratori. La riduzione della popolazione attiva è da un lato il frutto di un forte aumento del pendolarismo, anche su grandi distanze, verso Ovest, dei programmi di pensionamento anticipato e di riqualificazione della 87


manodopera, e dall'altro, in misura minore, del diverso modo di rilevamento statistico. Va tuttavia sottolineato ancora una volta che si tratta di dati provvisori in senso strettamente statistico e in un senso più sostanziale. Il dato della disoccupazione ad Est è sicuramente destinato ad aumentare sensibilmente mentre non è escluso che i pendolari e una parte dei lavoratori trasferiti ad Ovest ritornino ai luoghi d'origine nel momento in cui la domanda di lavoro ad Est, per effetto delle ristrutturazioni e dei nuovi investimenti, riprenda a salire. Un'altro, fondamentale aspetto del mercato del lavoro è quello dei salari e della politica salariale. Con l'avvio dell'unione economica, monetaria e sociale anche i salari dei lavoratori orientali vennero convertiti al tasso di 1:1. Essi subirono una prima spinta verso l'alto sia per compensare i lavoratori del maggiore prelievo fiscale e dei più elevati contributi sociali, sia per mantenere il più possibile inalterato il loro potere d'acquisto a fronte dei prevedibili aumenti dei beni di sussistenza che si sarebbero certamente avuti una volta eliminate le sovvenzioni di cui essi godevano. Vi era tuttavia molta attesa circa la politica salariale che i sindacati avrebbero deciso di seguire. Da una parte (Bundesbank, svR) si premeva affinché non si verificasse ad Est una forte esplosione salariale, avendo in mente un modello di adeguamenti successivi rapportati all'andamento della produttività in modo 88

da rendere più facili ed attraenti gli investimenti delle imprese occidentali. Da parte sindacale accettare una simile situazione avrebbe comportato l'accettazione di un doppio mercato del lavoro dove si sarebbero registrate differenze salariali tra medesime mansioni dell'ordine del 50%. Una simile scelta avrebbe comportato probabilmente un forte indebolimento dello stesso sindacato. D'altra parte se è vero che la spinta finale al crollo del regime comunista è stata data dall'esodo di centinaia di migliaia di persone e che l'unificazione è stata imposta, per così dire, anche dalla necessità di arrestare tale esodo concedendo delle condizioni oltremodo favorevoli nel cambio della moneta, bisogna riconoscere che risultava difficile mantenere dislivelli salariali troppo elevati per lungo tempo. E ben noto oramai che ove non esistono (ma anche quando esistono) barriere statuali, linguistiche, di costume etc., le differenze di reddito rappresentano una spinta decisiva ai flussi di manodopera da una regione all'altra. Il dilemma che si poneva alle parti sociali e al governo era dunque il seguente: salari troppo bassi o che crescessero troppo lentamente all'Est rispetto alle aspettative della popolazione avrebbero potuto spingere un gran numero di persone a cercare una occupazione definitiva ad Ovest. Le conseguenze sulle prospettive di sviluppo ad Est sarebbero state devastanti. Viceversa, salari troppo alti o che crescessero troppo ve-


locemente rispetto all'andamento della produttività avrebbero potuto frenare l'afflusso di capitali privati e trasformare le regioni orientali in un'area fortemente e durevolmente assistita. Bisogna ragionevolmente riconoscere che una decisione in proposito non era facile. E apparso chiaro fin dai primi negoziati all'Est che i sindacati avrebbero puntato nella direzione di un rapido adeguamento dei salari tra le due parti del Paese. Tipico è a questo proposito il contratto dei lavoratori metallurgici firmato nella primavera del 1991 e seguito poi a catena da altre categorie che prevede che entro la fine del 1994 i salari orientali contrattuali all'Est dovranno essere pari a quelli dell'Ovest. Svaniva dunque in questo modo l'illusione di alcuni che le regioni orientali potessero riprendersi e trasformarsi rapidamente attirando forti investimenti grazie ai bassi salari. Inoltre l'aggancio ai salari occidentali ha creato una sorta di scala mobile interna (gli aumenti salariali all'Ovest trascinano quelli all'Est) che rischia di rendere molto difficile e lenta la trasformazione del sistema economico orientale, soprattutto nel settore industriale.

La finanza pubblica Questo settore è certamente quello che ha dovuto sostenere il primo e più forte impatto dell'unificazione, dovendo fare fronte ai trasferimenti finanziari da

Ovest ad Est. Questi si sono via via venuti rivelando sempre più consistenti mano a mano che appariva chiaro che l'economia dei nuovi Lnder era in condizioni molto peggiori del previsto. Nel 1991 secondo la stima della Bundesbank 18 i trasferimenti finanziari totali verso 15 nuovi Lànder hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 140 miliardi di marchi. Ad essi si contrappongono quasi perfettamente gli oltre 120 miliardi di marchi che rappresentano, secondo le valutazioni contenute nel Rapporto 199 1/92 del SVR, il valore di quelle che potremmo chiamare le esportazioni nette interne di merci da Ovest ad Est nel 1991. Il deficit dell'intero settore pubblico del 1991 è salito a circa 110 mird. di marchi che rappresentano circa il 4% del PNL, una percentuale molto elevata secondo gli standard tedeschi. Il giudizio della Bundesbank in proposito è molto netto: "Deficit del settore pubblico della grandezza registrata nel 1991 sono, su un arco di tempo prolungato, insostenibili" 19 Il contenirnento del deficit a questa cifra, molto inferiore alle previsioni che lo collocavano attorno ai 150/160 miliardi di marchi, dipende in parte dalla manovra fiscale varata dal governo federale nel corso dell'anno e da un gettito delle imposte superiore al previsto ma in parte sostanziale dalla capacità di spesa delle autorità regionali e locali all'Est. Il finanziamento del deficit è stato realizzato ricorrendo ai mercati finanziari in misura cinque volte superiore al 89


1989. Il ricorso al mercato da parte del- Le privatizzazioni 2 l'insieme della autorità pubbliche centrali, regionali e locali è stato di 102 mi- Anche per il suo forte impatto ideololiardi di marchi nel 1991. Ma se si con- gico è questo l'argomento attorno al siderano altri enti, come le Poste, le quale più acceso si svolge il dibattito in Ferrovie e la THA, la cifra sale a 141 mi- Germania. Il ritmo delle privatizzazioni viene annunciato ogni mese con orliardi. Parallelamente con il crescere del defi- goglio dalla presidenza della THA, quasi cit pubblico è aumentato anche l'inde- a segnare le tappe della rinascita econobitamento complessivo che è passato da mica dell'Est. 929 mlrd. di DM nel 1989 a 1169 miliar- Riteniamo che il servizio più utile che possiamo rendere al lettore è quello di di nel 1991, vale a dire il 42% del PNL. L'imponente manovra di bilancio av- fornire i dati e le cifre più aggiornate. viata con la riunificazione può essere Va osservato in proposito che il numero delle imprese da privatizzare (inizialmeglio apprezzata se si considera il rapmente poco più di 7.000) è costanteporto tra spesa pubblica e PNL che nel mente lievitato nella misura in cui mol1991 ha raggiunto il 51%, cioè approssite di esse venivano suddivise in imprese mativamente 4 punti percentuali al di autonome al fine di renderle più facilsopra del livello del 1989. mente vendibili. Attualmente il numeVa infine osservato che non si può dire ro complessivo di imprese (ivi compre-' che la situazione dal punto di vista del se quelle già privatizzate) è di circa bilancio pubblico abbia raggiunto un 12.000 e non è escluso che esso possa punto di svolta. Già la Bundesbank pre- aumentare ancora. vede che nel 1992 il deficit crescerà an- I dati più recenti 22 a nostra disposiziocora, mentre rimangono sospese, come ne indicano che al 31 Marzo 1992 risuluna spada di Damocle, alcune impor- tavano privatizzate 6.579 imprese mentanti questioni che potrebbero peggio- tre altre 5.117 risultavano ancora sotto rare sensibilmente i conti pubblici: il il controllo della THA. Il numero mensifabbisogno finanziario della THA, a sua le delle privatizzazioni è di circa 400 volta collegato con la questione delle unità, il che farebbe prevedere che enprivatizzazioni, le garanzie per i crediti tro poco più di un anno l'intero procesalle esportazioni concesse ai Paesi del- so sarebbe terminato. Nella realtà gli l'Europa Orientale come la Russia, la stessi esponenti della THA parlano più restituzione delle proprietà ai vecchi prudentemente del 1995 come termine. possessori o ai loro eredi che spesso so- Se così fosse si tratterebbe comunque di no alcune centinaia 20 , il risanamento un eccellente risultato. Per quanto riguarda i risvolti in termiambientale i cui costi sono ancora sconi di occupazione e investimenti delle nosciuti. '

del


privatizzazioni già attuate, i dati forniti dalla THA parlano di 1.078.000 posti di lavoro assicurati, cioè di impegni da parte degli investitori in tal senso, e di investimenti previsti (ma non ancora realizzati) per quasi 130 mlrd. di marchi. Delle oltre 5.000 imprese che restano da privatizzare circa il 56% sono imprese con meno di 100 addetti, mentre le grandi imprese con più di 500 addetti rappresentano il 10% circa del totale. La presenza degli investitori stranieri tuttora abbastanza limitata e la THA sta facendo grossi sforzi per coinvolgere un numero maggiore. Il numero di imprese da essi acquisito è di 347 con un impegno in termini di occupazione pari a poco meno di 100.000 unità e di investimenti per circa 10 mlrd. di marchi. Forte è la presenza di investitori inglesi (19%), svizzeri (18.5%) e francesi (14%). Molto scarsa quella italiana (4%) e statunitense (5.5%). Che dire dunque al termine di questa scarna elencazione di cifre? Esse sono la testimonianza dello sforzo enorme che si sta facendo per ristrutturare radicalmente il sistema economico della exDDR. Se i tempi non sono quelli inizialmente previsti non bisogna tuttavia dimenticare che non troviamo nella storia altri casi che possano essere paragonati con quello che si sta facendo in Germania. Le 6500 imprese privatizzate nel giro di due anni in un Paese che non aveva grosse esperienze in questo campo costituiscono un esempio che andrebbe probabilmente un pò più studiato anche nel nostro paese.

È difficile comunque pensare che l'esperienza tedesca della THA possa rappresentare un modello per così dire 'esportabile' negli altri Paesi dell'Europa orientale. Troppo grandi sono le differenze, per non parlare poi del fatto che questi Paesi non hanno, come osservava acutamente il Ministro polacco per le privatizzazioni in un recente convegno su questo tema a Berlino, 'uno zio ricco'. Tuttavia va anche detto che il successo, per ora relativo, delle privatizzazioni in Germania, non è di per sé garanzia che al termine di esso la Germania avrà superato il suo attuale dualismo e sarà realmente unificata. Se abbiamo il conto dei posti di lavoro che tramite le privatizzazioni vengono garantiti o salvati, abbiamo d'altra parte il conto crescente dei disoccupati, palesi o nascosti che siano. Riassorbire questi rappresenta una sfida probabilmente più ardua e più lunga della stessa privatizzazione.

CONCLUSIONI

Questa breve rassegna dei principali aspetti economici dell'unificazione tedesca non consente di trarre conclusioni definitive sulle prospettive a medio termine e di rispondere alla domanda implicitamente contenuta nel titolo di questo lavoro, se cioè la Germania riuscirà a vincere la sfida della unificazione o meno. Ci sembra che in molti prevalga, a questo proposito, un atteggiamento acriti91


co che, facendo riferimento alla 'bravura' dei tedeschi, del resto ampiamente dimostrata, porta a sottovalutare la reale complessità del problema e le sue scansioni temporali. Per concludere: nèi termini eccessivamente semplificati con cui l'unificazione è stata presentata dal governo all'opinione pubblica dei due Paesi non si può dire che essa abbia avuto un grande successo. Sono stati ampiamente sottovalutati sia i tempi dell'integrazione dei due sistemi economici sia i reali costi di essa. Potrebbero essere questi problemi non gravi, ma non bisogna trascurare le implicazioni e le ricadute sul piano politico e sociale che questi fatti potrebbero avere. Qualche segnale in proposito si già potuto osservare. dal punto di vista economico i Caposaldi del processo di rifondazione strutturale della economia eX-DDR sono attualmente rappresentati in primo luogo da un forte e crescente impegno di spesa dello Stato che potrebbe trasformare quei territori in un ambiente dotato di infrastrutture modernissime molto favorevole agli insediamenti produttivi, vista anche la presenza di una forza lavoro caratterizzata da un buon livello di istruzione e abituata alla disciplina di

fabbrica. In secondo luogo dalla presenza dominante del capitale esterno, sia esso tedesco-occidentale o estero, non esistendo ad Est grossi patrimoni privati accumulati che possano rappresentare il volano di una ripresa economica autocentrata. Se rinascita economica vi sarà si tratterà dunque di un fenomeno in larga parte etero-diretto i cui tempi saranno decisi altrove. un'opinione largamente condivisa che l'economia dei 5 nuovi Lnder non abbia, ancora raggiunto il punto di svolta.inferiore e che esso sia da collocare presumibilmente verso il 1995. Si tratta naturalmente di previsioni, corroborate da robuste indicazioni statistiche 23 . Esse tuttavia ci consentono di affermare che non è ancora possibile stabilire quale dei due scenari alternativi prevarrà. Se cioè la via di uscita alla crisi strutturale in cui si dibattono le regioni orientali condurrà a un secondo miracolo economico tedesco che avrebbe ricadute e forza di attrazione enormi sui Paesi circostanti, soprattutto quelli excomunisti. Oppure se assiteremo a un processo di 'risanamento difensivo' 24, caratterizzato da una accentuata deindustrializzazione e da un persistente dislivello tra le due macro-regioni della Germania.

Note Cfr. J. Habermas, Dopo l'utopia', p. 42, Marsilio, 1992. 2 Sul dibattito che si accese nel mondo accademico ed PA

intellettuale tedesco su questa questione si veda da una parte l'appello firmato da un nutrito gruppo di docenti universitari e intellettuali dal titolo significativo


'Dove sta il popolo?' che sostiene la necessità di evitare scorciatoie e di offire agli abitanti delle due parti della Germania, fecendo ricorso all'an. 146, la storica opportunità 'di esprimere collettivamente sotto forma costituzionale il loro concetto di unità; dall'altra parte l'appello firmato da un altrettanto nutrito gruppo di professori di diritto costituzionale che si esprimono a favore dell'ingresso secondo l'an. 23 a causa soprattutto dei rischi di instabilità che l'altra procedura, sicuramente piò lenta, avrebbe comportato. Cfr. Blaetter fuer deutsche und international Politik, n. 5/90, pp. 633-635. Cfr. anche J. Habermas, op. cit., p. 44: 'L'unificazione non è stata vista come un atto normativamente voluto dai cittadini di entrambi gli Stati i quali, in piena consapevolezza, si uniscono in una comune nazione di liberi cittadini'. Cfr. L'articolo di J. Havermas: 'Der DM-Nationalismus', Die Zeit, Nr. 14, 30Marzo 1990, p. 62. Essa fu lasciata significativemente da un deputato della SPD, Ingrid Matthaeus-Mayer, sulla pagine della 'Die Zeit' nel Gennario del 1990. 'Kommt die Mark, dann bleibenm wie, kommt sie nicht dann gehen wir' (se arriva il DM restiamo, altrimenti ce ne andiamo). 6 Si veda a questo porposito i contributi pubblicati nel volume 'Die Zukunft der DDR-Wirtschaft', Rowohlt, Ambuergo, 1990. Una strategia di sottovalutazione implica un peggioramento dei 'terms of trade' e quindi dei redditi reali della popolazione. Poteva essere questo compatibile con l'obbiettivo di evitare una eccessiva mobilità della manodopera da Est ad Ovest? Per una discussione dei risvolti economici dell'opzione tra sviluppo della RDT come Stato indipendente o come regione nell'ambito di uno Stato tedesco unificato si veda l'esauriente contributo di H. Herr e A. Westphal in 'Die Zukunft...', op. cit., pp. 15 1- 171 Si veda anche la lettera molto decisa inviata il 9 Febbraio 1990 dai 5 Saggi, il gruppo di autorevoli economisti che ogni hanno produce un pregevole rapporto sulla situazione economica del Paese, (Sachverstaendigesrat zur Begutachtung der gesamtwirtschaftlichen Entwicklung, d'ora in poi SVR) nel quale si ritiene che la rapida realizzazione dell'unione monetaria...' rappresenti . ...il falso mezzo per arrestare il flusso degli Uebersiedler (cioè dei tedeschi-iruebtaku cge decudibi du trasferirsi in Germania Occidentale)'. 8 Cfr. K. Huebner, 'Von der BRD lernen, heisst siegen lernen', in 'Blaetter fuer...', 3/90, pp. 3 18-331. Anche senza considerare la particolare, favorevole per '...

i tedeschi e probabilmente irripetibile congiutura politica internazionale, c'è a nostro avviso una considerazione che rende irrealistica la prospettiva 'gradualistica'. Era chiaro che il fabbisogno finanziario necessario per ristrutturare l'economia tedesco-orientale avrebbe richiesto trasferimenti da Ovest il cui finanziamento avrebbe colpito in qualche modo i redditi individuali. E pensabile che ciò potesse avvenire senza che l'Ovest potesse gestire politicamente il processo di unificazione? Ed è pensabile che i cittadini della RFT avrebbero accettato di sacrificare anche solo parzialmente il loro benessere senza una contropartita ideale come quella dell'unificazione? Cfr. il rapporto dei 5 saggi (SVR) 1990/91' 'Auf dem Wege zur wirtschaftlichen Einheit Deutschalnds', p. 301. IO Cfr. la presa di posizione del Zentrlabankrat della Bundesbank del 29Marzo 1990. Cfr... 'erklaerung des Direktoriums der Staatsbank der DDR', riportata in 'Blaetter fuer...', Nr. 5/90, pp. 637-638. 12 Cfr. 'Jahresgutachten des SVR' 1990/91, p. 307. 13 Secondo un rapporto redatto da un gruppo di esperti per il Ministero dell'Economia del 16 Febbraio 1992 il numero delle domande di resituzione era di circa un milione e avevano come oggetto piò di un milione mezzo di proprietà. Cfr. 'Problemen der Privatisierung in den neuen Bundeslaendern', Wissenschaftlichen Beirat beim BMWi. il governo tedesco è dovuto correre ai riparti nel marzo 1991 con una nuova legge indirizzata esplicitaniente a limitare 'gli impedimenti alla privatizzazione delle imprese e per la promozione degli investimenti'. 14 Una premessa doverosa va fatta a proposito della attendibilità dei dati statistici della RDT che è stata piò volte messa in dubbio non solo dagli economisti occidentali ma anche dagli stessi economisti della RDT. Valga per tutti l'esempio dell'allora ministro dell'economia tedesco-orientale Christa Luft che in un rapporto del 1990 utilizzava i dati forniti dal DIW di Berlino, uno dei principali istituti di ricerca economici della RFT. (Cfr. 'blaetter fuer deutsche und internat. Politik', 3/90, p. 320). IS Cfr. H. Siebert, 'The Economic Integration of Germany', p. 4, il quale stimava la produttività nella DDR a 1/3 di quella tedesco-occidentale. 16 Nel 1990 essa presentava un attivo ridotto rispetto al 1989, ma ancora cospicuo (77.4 miliardi di marchi), mentre nel 1991 essa presenta un segno negativo di 34.3 miliardi. 93

-


` Si va dal + 7.7% della Grecia al + 14.9% del nostro paese fino al + 29.5% della Spagna. 18 Cfr. 'Report of the Deutsche Bundesbank for the Year 1991', p. 27. 19 Cfr. ancora 'Report...', p. 30. 20 Un recente articolo su questo problema del settimanale 'Die Zeit' (Nr. 13, 20 Marzo 1992) era intitolato "La battaglia delle case", a significare la gravità del problema che convilge la vita di centinaia di migliaia di persone. Gli autori consideravano il principio della 'restituzione prima dell'indennizzo' come 'il più grave errore della politica di unificazione' e domandavano

94

polemicamente quanto il governo federale avrebbe rinunciato al suo 'dogma' della proprietà. 21 Dal momento che questo argomento è trattato specificamente in altra parte della rivista le nostre osservazioni saranno necessariamente limitate. 22 Cfr. 'THA Informationen' Ausgabe 13, Mai 1992. 23 Ad esempio l'indice della produzione idnustriale (1989-100) presenta un valore di 36 riferito al IV trimestre del 1991. Cfr. l'articolo di J. Goldberg 'Kein Aufschwung in Ostdeutschland', in 'Blasetter feur...', 6/92, pp. 759-762.

Cfr. J. Priewe-R. Hickel 'Der Preis der Einheit', Fischer Verlag, Frankfurt a/M, 1991, pp. 224 e segg.

24


Tavola 1 UnitĂ di misura Popolazione attiva: uomini donne PoSolazione attiva per settore: agricoltura attivitĂ manifatturiere edilizia altri Reddito medio lordo mensile pro-capite nel settore manifatturiero Depositi a risparmio presso gli Istituti di credito: Totale Pro-capite Dotazione delle famiglie di beni di consumo durevoli: Automobile Televisore di cui: a colori Telefono Congelatore Lavatrice Superficie abitativa pro-capite Esportazioni verso i Paesi socialisti Importazioni dei paesi socialisti Indice dei prezzi al consumo

DDR

RFT

1.000 % -%

9.861 51.1 48.9

29.779 60.3 39.7

% % % %

10.8 40.5 6.6 42.1

4.9 33.6 6.6 55.0

Marchi/DM

1.292

3.657

Mlrd.M/DM Marchi/DM

151.6 9.091

714.6 11.579

% % % % % % mq. Mrld.M/DM % Mlrd.M/DM %

52 96 52 9 43 99 27.0 90.2 69.5 87.2 68.7

97 98 94 98 77 99 35.5 567.7 4.4 439.6 4.7

1970=100

99.5

197.7

Fonte: Rapporto 1990-91 del SVR 'Auf dem Wege zur wirt,schftlichen Einheit Deutsch!ands' p. 95 e p. 298 e segg. Il dato sulla popolazione attiva di riferisce al 1989, gli altri dati al 1988.

95


Tavola 2

Popolazione attiva Occupati totali Lavoratori dipendenti di cui: stranieri Lavoratori autonomi Disoccupati

RFT

DDR

29.779 27.741 24.757 1.678 2.984 2.038

9.861 9.861 9.678 X 183 X

Fonte: 'Jahresgutachten des SVR', 1990/91 e 1991/92, p. 102 e p. 95 rispettivamente. I dati si riferiscono all'anno 1989.

Tavola 3

II.DD. tedeschi all'estero II.DD. in Germania SALDO

1989

1990

1991

-26.5 12.6 -13.9

+

-36.1 2.5 -33.6

+

+

-34.4 3.7 -30.8

Fonte: Deutsche Bundesbank, Monthly Bulletin, Marzo 1992, pp. 36-37.

Tavola 4 RFT Popolazione attiva Occupati . Disoccupati Pendolari Fonte: 'Jahresgutachten des SVR', 199 1/92, pp. 96e 107.

96

+ + .

1.455 1.710 255

ex-DDR - 1.895 - 2.950 + 1.055

495


Sovvenzionamento e privatizzazione

mediante la "Treuhandanstalt" a cura dell'Istituto tedesco per la Ricerca Economica

La "Treuhandanstalt" (amministrazione fiduciaria), il cui compito è la privatizzazione ed il risanamento delle ex imprese statali della ex Repubblica Democratica Tedesca, si ritrova sempre al centro della critica pubblica. Sul successo o l'insuccesso di questa istituzione, che è direttamente sottoposta al Ministero Federale delle Finanze, c'è una grande disparità di opinioni. Da un lato la privatizzazione di più di 3000 imprese in soli un anno e mezzo è una prestazione considerevole, dall'altra parte rimangono ancora più di 7000 imprese che saranno meno facilmente vendibili. Sino alla fine di questo mese anche le rimanenti imprese della THA (Treubandanstalt) dovranno mostrare bilanci d'apertura. Compito della THA sarà, relativamente a questi bilanci d'apertura e sulla base di concetti di risanamento, di decidere sul prossimo futuro di queste imprese. Imprese non risanabili ed incapaci di sopravvivere dovrebbero essere chiuse, se a ciò non si dovessero opporre decisioni politiche. Poiché non si può contare su una veloce privatizzazione delle restanti imprese, è giunto il momento di riesaminare dettagliatamente l'attuale concetto di sov-

venzionamento e di privatizzazione. È indispensabile provvedere affinché ci sia più trasparenza nel risanamento, rinunciare generalmente a decisioni caso per caso e porre incentivi più forti per la privatizzazione.

PUNTI DEBOLI DEL LAVORO AD OGGI SVOLTO DALLA THA

L'attuale prassi di sovvenzionamento e di privatizzazione mediante la THA non è facilmente comprensibile né per le imprese stesse, né per i potenziali compratori o per lo Stato in quanto proprietario. Per assicurare la sopravvivenza delle imprese la THA diede per esempio garanzie per crediti che le sue imprese assunsero presso Banche Commerciali. Queste garanzie, il cui volume è da calcolarsi intorno ai 30 miliardi di marchi, dovrebbero, nella maggioranza dei casi, esser state usate per l'esercizio corrente delle imprese e quindi per il pagamento degli stipendi. Il peso fiscale, che a lunga scadenza da ciò dovrebbe derivare, è, per lo Stato, difficilmente calcolabile. Non è inoltre chiaro secondo quale criterio fu dato l'assenso a simili garanzie. In ogni caso 97


questo tipo di appoggio ha contribuito appena alla ristrutturazione, poiché non ha né abbassato i costi delle imprese, né è stato sufficientemente utilizzato per investimenti. E un problema che pesa il fatto che manchino stimoli per la ristrutturazione delle imprese. Particolarmente preoccupante è lo sviluppo dell'industria, che fu improvvisamente esposta alla concorrenza occidentale dopo l'inizio dell'unione economica e monetaria. La privatizzazione è qui progredita meno rapidamente rispetto alle iniziali aspettative. La maggior parte delle imprese industriali sono ancora di proprietà della THA. In pratica molto danaro viene speso per il mantenimento delle imprese, senza che questi sovvenzionamenti siano collegati a obblighi di modernizzazione di prodotti e' stabilimenti. Secondo informazioni frutto di alcune indagini, le imprese della THA investono molto al di sotto della media. Le garanzie di liquidità hanno portato le imprese ad una posizione di attesa, piuttosto che ad una ristrutturazione razionalizzata o ad una politica di investimenti attiva. Non è neanche da escludere che la THA stessa abbia frenato piuttosto che incentivato le intenzioni di investimento delle sue imprese, per impedire probabili allocazioni sbagliate di mezzi scarsi. Con ciò le probabilità di sopravvivenza, come di privatizzazione della maggior parte di queste imprese, dovrebbero essere calate. Nonostante i 12,5 miliardi di marchi ricavati dalle 98

vendite, la THA dovrà chiudere quest'anno con un consistente deficit. Essa esaurirà del tutto la linea di credito di 25 miliardi di marchi fissati nel contratto di unificazione. Ciò dimostra che misure di risanamento e di pianificazione sociale, come anche gli sforzi nella privatizzazione, sono legati ad altri costi. Con ciò le privatizzazioni sino ad oggi fatte si dimostrano un successo solo ad una prima analisi. I pezzi che promettevano guadagni sicuri furono subito venduti. Contemporaneamente aumenta però il numero delle imprese della THA, poiché le grandi imprese vengono smembrate per costituire unità vendibili. Per potenziali aquirenti di imprese della THA conviene perciò aspettare, poiché aumenta sulla THA la pressione per ribassare ulteriormente il prezzo o assicurare alti sovvenzionamenti nel caso di passaggi di proprietà. Proprio nell'ambito industriale è perciò urgentemente richiesta una nuova idea di privatizzazione che ponga stimoli per un possibile rapido rientro di imprenditori privati. Dopo l'esame dei bilanci di apertura e dei concetti di risanamento, la THA intende fornire imprese considerate "risanabili" di un adeguato capitale proprio, oltre il limite stabilito dalla legge, ovvero diminuire i debiti e/o dare una possibilità di inizio alle imprese mediante una partecipazione 'silenziosa'. L'approvazione dei bilanci di apertùra da parte della THA è necessaria e possibile solo con l'aiuto di decisioni caso per caso. Ma lì viene superato il limite, do-


ve la THA come proprietaria sperimenta concetti di risanamento. In questo caso la THA è in obbligo riguardo alla ristrutturazione e al successo sul mercato di queste imprese. A questo dovere, di fronte alla pressione politica per mantenere in vita le imprese, non si può più sottrarre ed è obbligata ad assicurare alle imprese risanabili ulteriori aiuti. Ciò rientra nella logica di questo sistema, ma impedisce la trasparenza dei sovvenzionamenti ed inoltre rende più dif ficile la privatizzazione. Già il gran numero di imprese e la difficile situazione economica rendono praticamente impossibile una singola decisione ponderata riguardo ai concetti di risanamento. Perciò il modo di procedere della THA deve esser cambiato. Regole di privatizzazione e di sovvenzionamento chiare e valide per tutti, connesse a sanziòni, dovrebbero sostituire singole decisioni. Un simile modo di procedere, col suo effetto di modificazione strutturale è, nella maggioranza dei casi, sensibilmente superiore a decisioni singole. La chiusura di grandi imprese tocca il concreto dei limiti solo se, ad esempio, nei settori dell'acciaio, della chimica, delle costruzioni navali, non venga politicamente accettata. In questi casi, nei quali, in particolar modo per considerazioni di politica regionale, sono inevitabili sovvenzionamenti continui, simili a quelli fatti un tempo per regioni o branche in crisi della Germania occidentale, le imprese dovrebbero essere svincolate dalla proprietà della THA e dovrebbero essere

condotte come società a capitale con partecipazione federale e soprattutto regionale.

LE PROPOSTE FATTE SINO AD OGGI SONO TROPPO UNILATERALI

In tempi recentissimi non v'era carenza di proposte per nuove strategie di sovvenzionamento. Di regola viene preso in considerazione un sovvenzionamento dei costi di produzione. Una serie di proposte mira alla riduzione dei costi salariali, ed un'altra alla ristrutturazione accelerata col ribasso dei costi di capitale. Esemplare per la prima serie è il cosiddetto modello Berkley 1 proposto da un gruppo di economisti di quella Università. Questi propongono di ridurre generalmente i costi di retribuzione nella Germania orientale mediante sovvenzionamenti. Il DIW (Istituto Tedesco per la Ricerca Economica) ha recentemente discusso questa proposta, rifiutandola 2 . A breve termine sovvenzionamenti delle retribuzioni possono sì produrre un abbassamento dei costi significativo per la sopravvivenza di aziende, ma a lungo termine si pongono consistenti problemi. Pesa particolarmente il fatto che una simile misura, se dovesse valere per tutti gli stabilii menti della Germania dell'est, non sarebbe finanziariamente sopportabile. il governo federale segue da diverso tempo con i suoi programmi di incentivazione degli investimenti una strategia di sovvenzionamento dei capitali, poi99


ché devono in particolar modo essere dati stimoli per la ristrutturazione e la modernizzazione degli stock di capitali. Tuttavia i sovvenzionamenti del capitale non risolvono a breve scadenza i problemi di costo di molte aziende, che sono ancora proprietà della THA, poiché il successo o l'insuccesso di progetti di investimento si rivelano solo dopo un più lungo periodo di maturazione. Per molte aziende le spese per stipendi ed investimenti non sono corrispondenti. Senza provvedimenti di sostegno efficaci a breve scadenza la maggioranza delle aziende di proprietà della THA non ha possibilità di sopravvivenza. Questi provvedimenti di sostegno dovrebbero agire direttamente dal lato dei costi delle aziende. Sono tuttavia parte di essi anche la promozione delle vendite attraverso le garanzie Hermes e le commesse pubbliche dirette. Sovvenzionamenti di capitali necessitano quindi altre misure per rendere possibile la sopravvivenza delle imprese nella fase di adattamento. Garanzie dalle quali non provengano incentivi alla ristrutturazione, sono in questo senso un mezzo comprensibilmente inadatto!

UNA MOSSA COMBINATA

Di fronte all'urgenza dei problemi e all'insufficienza delle attuali misure di ristrutturazione, è necessario procedere diversamente. Si offre l'occasione di combinare tra loro i rispettivi vantaggi del sovvenzionamento salariale e del ca100

pitale. A ciò si aggiunge anche la necessità della cessazione dalla attuale prassi di decisioni singole da parte della TELA. Le sovvenzioni dovrebbero essere assicurate a tutte le imprese industriali ancora in mano alla THA, nel caso i bilanci di apertura fossero da esse approvati ed i problemi di eccessivo indebitamento fossero stati risolti con una propria dotazione di capitale. Le sovvenzioni dovrebbero essere uguali per tutte le imprese e del tutto trasparenti, nonché sostituire i crediti garanti sino ad oggi e gli aiuti diretti. Inoltre proponiamo che la THA offra 3 , a tutte le sue imprese industriali, un sovvenzionamento dei salari, una partecipazione agli investimenti delle imprese sotto forma di sovvenzionamenti a fondo perduto per un periodo di 5 anni. Il loro ammontare dovrebbe essere calcolato in modo che, insieme ad altri mezzi per la promozione degli investimenti, sia uguale alla somma con la quale gli istituti di credito partecipano al progetto di investimento. Con una partecipazione propria delle imprese per esempio del 20%, ciò significherebbe che gli istituti di credito da una parte e la THA dall'altra, parteciperebbero assieme ad altri fondi per il sovvenzionamento di progetti di investimento con il 40% alle spese di investimenti. Se l'impresa avesse diritto ad altri mezzi d'incentivazione del 25%, la TElA alzerebbe questa somma a 40% affinché, con una partecipazione propria del 20%, sia raggiunto il contributo di 40% degli istituti di credito. I sussidi previsti appoggiano la ri-


strutturazione dell'apparato produttivo e, con ciò, accelerano la costruzione di uno stock di capitali moderno e competitivo che, alla fine del processo di adattamento, permetterà alle imprese il pagamento di salari competititivi. Un simile tentativo di riforma del sistema di sovvenzionamento è inevitabile, in quanto l'industria della Germania dell'est non dovrà solo, a breve scadenza, concorrere sul mercato dei beni ma dovrà, a lunga scadenza, concorrere con imprese dell'ovest sul mercato del lavoro. In questo senso sgravi dei costi salariali di breve durata, in forma di sovvenzionamenti salariali, sono aiuti provvisori che permettono alle imprese di superare il periodo necessario sino a che gli investimenti non incidano sul rinnovamento ed il miglioramento dei mezzi produttivi. Per raggiungere ciò è essenziale attivare forme di sovvenzionamento salariale di tipo degressivo, cioè a dire, occorre che in tre o quattro anni siano completamente eliminati. Se per stabilire l'ammontare dei sovvenzionamenti venisse preso come base l'attuale livello di retribuzione oraria, sarebbe escluso che subentri l'amministrazione pubblica per finanziare un aumento salariale eccessivo. Per i datori di lavoro si pone così, nonostante il sovvenzionamento retributivo, lo stimolo per opporsi ad aumenti salariali troppo forti, visto che ogni aumento salariale diminuisce, in rapporto ai costi complessivi del lavoro, il valore del sovvenzionamento. Con queste premesse, e nell'ipotesi che il numero delle

persone occupate in questione si riduca dagli attuali 1,7 milioni a 1,3 milioni per la fine del 1994 k , i costi di un simile programma si aggirerebbero nell'anno 1992 sui 15 miliardi di marchi circa. Come conseguenza di un simile sovvenzionamento strutturato in modo fortemente regressivo e del prevedibile calo di posti di lavoro in questione, nel 1993 le spese si ridurranno a 10 miliardi di marchi. Il sovvenzionamento dei costi del lavoro cesserebbe tra il 1994 ed il 1996. Sovvenzionamenti regressivi hanno, a fronte dell'attuale regolamentazione del lavoro a orario ridotto, vistosi vantaggi, in quanto viene favorito il lavoro come elemento di costi, e non invece l'esonero dal lavoro sotto forma di lavoro a orario ridotto. L'attuale regime applicato nella Germania dell'est ha, oltre a ciò, lo svantaggio di impedire la mobilità delle forze lavorative. Nel caso di una debolezza congiunturale, per la quale nella Germania occidentale venne concepita la regolamentazione del lavoro a orario ridotto, un simile impedimento alla mobilità può essere del tutto adeguato al fine di mantenere per ciascuna impresa il proprio specifico capitale umano. Nella situazione della Germania orientale la regolamentazione pratica è piuttosto dannosa e non dovrebbe essere proseguita. La forte degressività delle sovvenzioni salariali assicura teoricamente che le sovvenzioni non scompaiano, poiché lo stock di capitali non viene modernizzato. Poiché la maggior parte delle imprese hanno bisogno di prodotti nuovi e qua101


litativamente migliori, onde riconquistare i mercati, i soli sovvenzionamenti salariali non potrebbero assicurare la loro sopravvivenza neanche a breve scadenza. Un uso indebito dei sovvenzionamenti non è da escludersi, ma anche nel caso di abuso, questa misura è più conveniente che non il pagamento di sussidi di disoccupazione o l'occupazione di forze ABM (misure per la ricerca occupazionale) in società di collocamento. Assieme allo sgravio dei costi del lavoro è urgente la ristrutturazione ed il rinnovamento dello stock di capitali, affinché le imprese rimangano concorrenziali a lungo termine. Alle imprese THA dovrebbero essere offerte, oltre alla agevolazioni per investimenti ed ai sovvenzionamenti, aiuti per investimenti. La necessità di altri mezzi d'investimenti viene mostrato chiaramente dai recenti sondaggi di imprese della DIW nella Germania orientale 5 . L'ostacolo più frequentemente citato per lo sviluppo delle imprese della THA, sarebbero, secondo i sondaggi, i mancanti mezzi di finanziamento per investimenti. Secondo il modello qui proposto, le imprese dovrebbero esibire il consenso di un istituto di credito per il progetto di investimento da sostenere, onde poter ottenere la concessione degli aiuti della THA. Il coinvolgimento degli istituti di credito deve mobilizzare non solo il potenziale di consulenza e di valutazione nell'esame di progetti di investimento ma garantire una, seppur limitata, responsabilità privata. Tali crediti bancari non deveno perciò es102

sere garantiti dall'amministrazione pubblica. Solo in questo modo è possibile impedire che le ditte attuino programmi d'investimento del tutto privi di rischi che, in seguito, si rivelerebbero non redditizi. Non si può comunque impedire che con questa regolamen tazione vi siano prese di beneficio e che vèngano effettuati investimenti sbagliati. Anche i contributi d'investimento della THA devono essere definitivamente limitati, per esempio a 5 anni. I mezzi messi a disposizione dalla THA sono inoltre legati a progetti nella Germania dell'est. Gli impianti che fossero finanziati con l'aiuto di questi programmi, sono da condurre sul luogo d'origine dell'azienda o altrove, nelle nuove regioni federali per la durata di 3 anni. Complessivamente, nella migliore delle ipotesi, c'è da aspettarsi ulteriori investimenti di 20 miliardi di marchi l'anno. Ne risulterebbero contributi della THA in ordine di grandezza di 5• miliardi di marchi - un po di piu considerando gli effetti di trascinamento. Considerando l'effetto sulla crescita dal punto di vita economico generale, si deve tener conto, diversamente che non per le sovvenzioni salariali, della possibilità di un ampio autofinanziamento. Spesso si dice che un sovvenzionamento del lavoro o del capitale favorirebbe una tecnologia produttiva che incrementa troppo il lavoro o il capitale rispetto alle esigenze di mercato. Questo argomento è, nel caso della Germania dell'est, di secondaria importanza. Si tratta in questo caso della organizzazione del


passaggio di un sistema sino ad oggi pianificato ad un ordine di mercato aperto. Il passaggio da una produzione ad altro impiego di capitali risulta inevitabile. Per facilitare questo adattamento, il tentativo qui proposto prerede che attraverso le sovvenzioni salariali le imprese ad alta intensità di lavoro siano più fortemente agevolate delle imprese ad alta intensità di capitali. La progressiva diminuzione dei sovvenzionamenti retributivi, al contrario, in presenza di sovvenzionamenti di capitale immutati, porta vantaggi comparativamente maggiori per le imprese ad alto impiego di capitale. Per la durata del programma sussiste dunque uno stimolo ad organizzare la produzione con più intensità di capitale. La limitazione temporale e la contemporanea ed ulteriormente necessaria garanzia per i mezzi d'investimento dovrebbero impedire che avvengano significativi sovrainvestimenti. ACCELERAZIONE DELLA PRIVATIZZAZIONE

Mediante il sistema di sovvenzionamenti proposto aumentano per le imprese della THA le chances di raggiungere in futuro degli utili. C'è quindi da aspattarsi che il numero degli interessati all'acquisto di imprese THA aumenti notevolmente, visto che il sovvenzionamento dei salari e del capitale dovranno essere collegati all'impresa e non all'ex proprietario, la THA. In questo modo il compratore si aggiudica i vantaggi del sovvenzionamento. Ciò si ripercuoterà tuttavia anche sui prezzi

di vendita delle imprese, cosicché lo stato rientrerà di una parte delle sue spese. E necessario fare un esame più approfondito per capire fino a che punto con una simile regolamentazione vengano toccate le direttive della CEE. A paragone con una vendita a prezzo di vendita negativo, con questa regolamentazione gli effetti di produzione da attendersi dovrebbero essere sensibilmente più alti. Poiché sia contributi alla retribuzione che quelli agli investimenti devono essere definitivamente limitati nel tempo e dichiarati in modo trasparente, dal punto di vista della Comunità Europea una simile regolamentazione dovrebbe essere piuttosto tollerata, più che non l'attuale incomprensibile prassi di sovvenzionamento e vendita. Questo argomento regge anche facendo la stima degli effetti di distorsione concorrenziale delle sovvenzioni salariali e in conto capitale per imprese vendute o ancora di proprietà della THA. Anche gli attuali sovvenzionamenti per la gestione o la vendita di imprese della THA sono distorsivi a livello concorrenziale. Se si cessassero tutte le sovvenzioni a questo gruppo di imprese esse difficilmente potrebbero essere in grado di sopravvivere. I sovvenzionamenti ne facilitano, nella fase di passaggio, il processo di modificazione. Una concorrenza corretta richiede anche uguali condizioni di partenza. Le imprese già vendute dalla THA hanno già ottenuto la possibilità di partenza con riferimento al prezzo d'acquisto e agli altri sussidi. Un sistema di sovven103


zionamento del tipo qui proposto parifica le imprese che per ora rimangono di proprietà della THA. La regressività del sovvenzionamento contributivo e la limitazione nel tempo dei contributi agli investimenti impediscono un durevole abuso del sistema. Quelle imprese che, anche a queste condizioni, non potessero essere vendute, non otterranno ulteriori sovvenzioni. I rischi della ristrutturazione sono uguali per tutte le imprese. Al più tardi, dopo 3-5 anni, allorché non siano più pagate sovvenzioni salariali, l'adattamento alle necessità di mercato dev'essere completato. BILANCIO

Anche una simile strategia di sovvenzionamenti, non può risolvere tutti i problemi delle imprese della THA. Essa necessita di alcuni provvedimenti complementari. Così il crollo dei mercati dell'Europa orientale ed in particolare la situazione nell'Unione Sovietica, hanno condotto ad una caduta della domanda non sopportabile per imprese un tempo indirizzate verso questi mercati. In questo caso le sovvenzioni da sole non bastano. Le garanzie I-jermes sino ad oggi concesse, nonché l'assegnamento di crediti ai compratori dei prodotti, sono una premessa necessaria per il mantenimento della produzione in parecchie aziende della Germania dell'est. Un problema al quale in passato il DIW ha attribuito grande significato, è quello dei vecchi debiti che passano sulle imprese THA 6 . Il DIW ha sempre ri 104

chiesto il passaggio totale allo stato di questi debiti, visto che in caso di bancarotta o di vendita essi finiscono comunque allo stato. La regolamentazione qui proposta di dotare le imprese di un adeguato capitale d'esercizio, determina proprio questo anche senza vendita. Con ciò si facilita alle imprese l'accesso a capitali non propri. La strategia di sovvenzionamenti qui proposta di sussidi ai salari e agli investimenti ha il vantaggio di essere trasparente, che i suoi costi sono calcolabili, che vengono posti stimoli alla ristrutturazione, che contiene sanzioni, che si può generalmente rinunciare a decisioni caso per caso concessi e che la privatizzazione riceve nuovo slancio. In complesso essa è più orientata al futuro delle pratiche attuali, poiché punta di più al conseguimento di effetti produttivi. Dietro a ciò vi è la considerazione fondamentale, che a lungo andare alla previdibile parificazione degli stipendi al livello occidentale solo le imprese produttive saranno in grado di sopravvivere. L'attuale regolamentazione di lavoro a orario ridotto nella Germania dell'est, le garanzie occupazionali e l'ampia regolamentazione dei licenziamenti per interi settori non garantiscono nel medio termine i posti di lavoro, bensì ostacolano la mobilità e rendono più difficile il processo di ristrutturazione che, unico, può consentire di raggiungere nel lungo termine lo standard di vita dell'occidente e la sicurezza sociale. (Traduzione di Daniea Merella)


Note l

George Akerlof, Andrew Rose, Janet YelIen and Helga Hessenius, East Germany in From the Cold: The Economic Aftermath of Currency Union, in: «BrookinFs on Economic Activity» 1, 1991 Sovvenzionamenti contributivi generali - nessuna via d'uscita dalla crisi occupazionale della Germania orientale. «Relazioni settimanale del DI'W», Nr. 36/ 91. Curato da Heiner Flassbeck, Gustava-A. Horn e Wolfgang Scheremet. Le imprese agricole e minerarie della THA sono qui

escluse a causa delle particolari situazioni di questi settori. Breve rapporto, Istituto per al ricerca sul mercato del lavoro e dei mestieri, 11.7.1991. Processi di adattamento dell'economia generale e delle imprese nella Germania dell'est, 3 0 rapporto, in, «Rapporti settimanali del DIW», Nr. 39-40/1991. 6 Vecchi debiti delle imprese della ex RDT. Inevitabile una cancellazione. a cura di: Reinhard Pohl, in «Relazione settimanale del DIW», Nr. 36/90.

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I compiti dell'amministrazione fiduciaria sono irrisolvibili di Jan Priewe

Per Amministrazione Fiduciaria si intende normalmente una istituzione che - come per esempio un'associazione per analisi economica o un ufficio di consulenza fiscale - agisce secondo regole chiaramente stabilite per conto di terzi. Del tutto diversa la Amministrazione Fiduciaria di Berlino est (THA) che, sulla base della legge per l'A.F. promulgata dalla Camera Popolare dell'ex RDT, amministra le 7900 ex imprese di proprietà popolare. Presieduta dal presidente Karsten Rohwedder, si e qui creato nel frattempo un Ministero dell'Economia segreto, una specie di governo ombra con la pienezza dei poteri. La holding statale probabilmente più grande del mondo decide sul destino di 3-4 milioni di posti di lavoro, in modo indiretto su 2/3 di tutti i posti di lavoro della Germania dell'est, su enormi proprietà terriere, sulla applicazione o sul differimento di misure ecologiche negli stabilimenti esistenti, sull'impiego di manager nelle direzioni e nei consigli d'amministrazione degli esercizi della holding 1 . In ciò la sua forma organizzativa contraddice la legge per l'Amministrazione Fiduciaria promulgata dalla 11011

Camera Popolare 2 (Rohwedder: "Condizione di infedeltà alla legge"); inoltre la fissazione degli obbiettivi e delle procedure sono solo vagamente definiti in questa legge 3 che fu adottata, immutata, con il trattato di unificazione. 4 La THA è sottoposta al controllo disciplinare e giuridico del Ministro delle Finanze che ha appena costituito il nuovo dipartimento "Partecipazioni Federali, Amministrazione Fiduciaria", a dirigere il quale fu nominato John von Freyend, da anni uno dei quattro amministratori generali della Confindustria tedesca (BDI) . La direzione della THA agisce generalmente in modo autonomo, il Ministero delle Finanze non ha posto regole d'azione. La TELA, un'ente di diritto pubblico, controllata da un consiglio d'amministrazione di 23 membri formato, per la maggior parte, da manager tedesco-occidentali di grandi imprese; a questi si aggiungono 5 rappresentanti delle nuove regioni (Linder) federali. Come unico sindacalista è stato chiamato Hermann Rappe (IG Chemie). La costituzione di società per azioni di settore della THA - come previsto dalla legge


statali dell'ex RDT, devono essere pagati con le sue entrate (in ogni caso sino alla fine del 1993). La l'HA può, per far fronte ai suoi compiti, accedere a crediti fino a 25 miliardi di marchi. Una parte consistente delle circa 7900 aziende ex proprietà popolare, serve prevalentemente per compiti comunali e secondo I COMPITI la legge sulla THA deve essere trasferita Nell'articolo 2 della legge sulla THA so- ai comuni (ca. 1800 aziende). La legge no definite le competenze: la THA deve che secondo l'art. 1 della legge sull'Amservire alla privatizzazione ed alla valo- ministrazione Fiduciaria sarebbe necesrizzazione del patrimonio popolare se- saria al riguardo, non è ancora stata condo i principi dell'economia sociale promulgata. Lo stesso vale per la possidi mercato: "Essa deve stimolare l'adat- bilità prevista di un passaggio di parte tamento delle strutture economiche al- dei beni di proprietà popolare a distretle esigenze di mercato, influendo parti- ti e regioni. La THA Si oppone energicacolarmente sullo sviluppo delle imprese mente a rivendicazioni di proprietà ed risanabili e sulla loro privatizzazione". ai diritti di cogestione dei comuni e delMediante un opportuno decentramen- le regioni. Birgit Breudel, per esempio, to si debbono creare strutture compet- membro della direzione THA, ha dato titive. Le entrate THA dovute alla priva- ordine a tutte le imprese di offrire a imtizzazione dovrebbero andare a vantag- prenditori privati tutti i terreni non negio, oltre che dell'adattamento struttu- cessari alle imprese 7; con ciò si impedirale e dell'economia, del risanamento sce che questi terreni vadano ai comuni del bilancio pubblico, e possibilmente o alle regioni, i quali potrebbero fare anche di quei risparmiatori che, duran- una sensata politica di incentivazione te la conversione della valuta, poterono economica oppure di utilizzazione a licambiare solo col rapporto di 2 a 1. Di- vello comunale o regionale. chiarazioni più precise sulla distribuzione e l'uso dei fondi ricavati dalla privatizzazione - le prime sicuramente BILANCIO DELLA THA DOPO SEI MESI esagerate valutazioni della proprietà popolare si aggiravano, secondo dichia- Dopo le iniziali confusioni dovute alla razioni THA, su 200-600 miliardi di mar- ricostruzione, l'organizzazione della chi - fino ad oggi non sono state fatte. THA Si è stabilizzata. Nell'Ottobre 1990 Un ulteriore compito della THA: secon- furono istituite 15 sedi decentralizzate do l'articolo 23 del trattato di riunifica- alle quali furono assegnate tutte le zione la metà dell'insieme dei debiti aziende che occupavano fino a 1500 la-

- nei cui consigli di sorveglianza avrebbero dovuto prevalere forme di cogestione, non venne realizzato a dire il vero senza opposizione dell'ultimo governo della RDT 6 .

THA

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voratori. Attualmente vi lavoravano circa 400 collaboratori, mentre i dipendenti della centrale berlinese sono 550 (di cui 150 provengono dalla Germania Occidentale). Il numero complessivo dei collaboratori sarà raddopiato. L'appello del Cancelliere H. Kohl "Professionisti per la ex Repubblica Democratica" è stato seguito da più di 60 manager che intendono lavorare dai 3 ai 6 mesi per la THA e che continueranno ad esser pagati dalle loro aziende di provenienza 8 . Fino all'estate 1990 la THA ha potuto reclutare 130 manager dell'ovest per i consigli d'amministrazione e le commissioni di vigilanza delle imprese di proprietà popolare . Il consiglio d'amministrazione della THA, d'accordo con il governo federale, interpreta il suo compito nel senso che una rapida privatizzazione - rappresenti la via migliore per un risanamento veloce ed efficiente. Solo in casi eccezionali la 'rHA stessa dovrà porre in atto misure di risanamento. Le imprese non risanabili dovranno essere chiuse. Tuttavia secondo una dichiarazione di Rohwedder, la maggior parte delle imprese sono fondamentalmente risanabili; sino alla fine del 1990 solo circa 4050 imprese con 40-50000 posti di lavoro sono state scelte per una futura, ineludibile chiusura 10 . Ma non sono state ancora prese decisioni definitive di chiusure. D'altra parte in molti casi c'è da temere che il successo della privatizzazione provochi in molti casi un risanamento selvaggio con licenziamento di massa. Il risultato delle vendite della 108

stava, almeno alla fine del 1990, in evidente contraddizione con l'obbiettivo prefissato. La sede centrale della THA, lo scorso anno, non ha venduto più di 200 aziende con proventi di 1,5 miliardi di marchi, a cui si aggiungono circa 200 imprese vendute dalle sedi regionali, con un ricavo netto di 200 milioni di marchi Queste cifre non comprendono 125.000 punti di vendita al minuto in mano alla THA, i 7500 alberghi e ristoranti, le 2000 farmacie e le 900 librerie. Per quanto riguarda il commercio al minwo, una parte consistente è già stata venduta. Sino agli inizi dell'ottobre 1990, 2300 vecchi proprietari hanno potuto riavere le loro vecchie aziende, tuttavia agli inizi del 1991, giacevano domande di riprivatizzazione per 17000 aziende che possono essere esaminate solo lentamente. Fino ad oggi vi sono state solo 3 "Managenzent-Buy-Outs" (vendita a dirigenti) e nemmeno una assunzione di controllo da parte delle maestranze 12• Diversamente dalla disponibilità ad investire nel settore industriale molto esitante degli imprenditori tedesco-occidentali, e particolarmente anche degli stranieri nell'ambito dell'industria, si è presto giunti alla vendita o alla costituzione di joint-ventures nel settore delle banche (Deutsche Bank-Kreditbank), delle assicurazioni (soprattutto l'Allianz), dell'energia come anche per molti giornali. Solo in pochi casi è intervenuto l'ufficio federale dei cartelli. Nella prima fase delle attività della THA si trattava, accanto all'edificazione della THA


stessa, di trasformare le aziende, un tempo di proprietà popolare, in spa e sri, di assumere o cambiare il mangement delle imprese, come pure di garantire la liquidità alle imprese della THA. Immediatamente dopo la riforma monetaria la maggior parte delle imprese fecero richiesta per crediti di liquidità per poter pagare le spese correnti come gli stipendi e le retribuzioni. La THA assicurò questi crediti di liquidità in modo forfettario senza esaminare le richieste caso per caso, ma in maniera ridotta rispetto alle richieste delle aziende. Ancora nel quarto trimestre del 1990 vi erano 400 domande per aiuti di liquidità, per un importo di 2 miliardi di marchi; nel decidere su questi aiuti la THA ha tuttavia tenuto in considerazione la capacità di risanamento delle aziende 13 Sino alla presentazione dei bilanci di apertura, che avviene solo molto lentamente, è prevista secondo l'art. 25 del trattato di unificazione una moratoria per il servizio dei vecchi debiti, cioè la THA Si fa carico fino ad allora degli interessi e degli ammortamenti. Se la moratoria non dovesse essere prolungata, dopo la definizione dei bilanci d'apertura molte imprese entreranno in una fase critica e la THA sarà posta davanti alla decisione se assumersi i debiti o far presentare la bancarotta. A ciò si aggiunga il fatto che gli scambi esteri con paesi COMECON non saranno più fatti con rubli trasferibili (sopravalutati), ma con moneta forte, il che praticamente, significa la perdita di massicce sovvenzioni. In sostituzione il governo THA

federale intende concedere crediti Hermes e crediti per l'esportazione a condizioni vantaggiose che, tuttavia, sono legati alla verifica da parte della THA circa la capacità di risanamento delle singole aziende 14. La THA non ha fino ad oggi mai chiarito secondo quali criteri intende considerare risanabili le imprese. Il concetto di risanamento proposto da molte aziende, sulla base di una guida distribuita dalla THA, sono considerate all'interno della THA come del tutto insufficienti. Entro il 21 gennaio 1991 tutte le aziende dovranno aver presentato propri programmi di privatizzazione 15 Le attività di vendita della THA sono state avviate tardi in modo relativamente lento.

PERCHÉ LA PRIVATIZZAZIONE PROCEDE COSÌ LENTAMENTE?

La maggior parte dei critici della THA sottolineano la lentezza delle attività di vendita trascurandone così la difficoltà. La THA non può vendere liberamente e senza un esame preventivo, ma ci deve essere un'offerta concorrenziale. I prezzi e gli impegni devono, almeno inizialmente, venir contrattati: inizialmente occorre definire le unità da vendere, affinché con vengano venduti solo i pezzi migliori e non rimanga invendibile il resto. In sostanza occorrerebbe fare dei concorsi internazionali, i potenziali interessati dovrebbero almeno sviluppare a grandi linee delle proposte di risanamento e dei piani per finanziamenti: le


banche dovrebbero esaminarle, e così via. Il governo federale dal 1982 ha privatizzato non più di 676 imprese pubbliche con un ricavato di 9,4 miliardi di marchi, e ciò in condizioni incomparabilmente più favorevoli. La stessa radicale privatizzazione in Gran Bretagna andata avanti solo lentamente. Infine, esistono solo pochi esperti altamente qualificati in privatizzazioni e risanamenti: nessuna delle grandi banche tedesche dispone di più di 25 esperti per "Mergers & Acquisitions" 16 . Anche i sostenitori più accesi di una radicale privatizzazione di mercato hanno bisogno di tempo. A buon diritto si può dire che una veloce privatizzazione di un'intero sistema economico - se si ragiona in termini di uno o due anni del tutto impossibile. Che il tempo sfugga lo si vede dai problemi derivati: le imprese non privatizzate necessitano ancora di crediti di liquidità e di altre sovvenzioni; le aziende vengono costrette ad un atteggiamento di attesa passiva, le procedure di risanamento vengono procrastinate, vengono definitivamente persi i vecchi mercati. Collaboratori qualificati se • ne vanno, la concorrenza occidentale è più veloce ed occupa le fette di mercato o costituisce nuove imprese nell'est. A ciò si aggiunge l'atteggiamento esitante di imprenditori occidentali, una volta che si prescinda dalle summenzionate imprese nei settori bancari, assicurativi, energetici e nel commercio come anche dai pochi "pezzi migliori" dell'industria. Quali sono i motivi di que110

sto attendismo riguardo agli investimenti? Di sicuro è da citare innanzitutto l'insicurezza giuridica riguardo eventuali richieste di restituzione da parte di vecchi proprietari; inoltre le cattive infrastrutture, o i costi del risanamento, inclusi i costi sociali connessi ai licenziamenti, l'insicurezza circa vecchi problemi ecologici. Inoltre gli imprenditori esitano per motivi legati a tattiche di vendita, per far calare i prezzi. Vecchi debiti non costituiscono un ostacolo: semplicemente abbassano il prezzo d'acquisto. Ma tutti questi non sono gli ostacoli decisivi per gli investimenti: nella Germania dell'est gli investimenti sono, dal punto di vista dei potenziali aquirenti, investimenti di ampliamento che vengono fatti solo nella prospettiva di una vendita positiva a lunga scadenza: a loro volta questi dipendono dal grado di utilizzazione degli impianti dell'azienda originaria e dalle sue prospettive di guadagno. A fronte di una congiuntura che, a livello mondiale, sta rallentando, l'indecisione nell'attuare investimenti che accrescono la capacità produttiva è del tutto razionale. Molti imprenditori sono orientati sul breve periodo e si aspettano rapidi guadagni. La maggior parte delle imprese occidentali non hanno esperienze di risanamento totale che in molti casi è necessario: così il rischio sembra loro troppo alto o preferiscono costruire nuovi stabilimenti. Questi problemi non possono essere risolti, per quanto bassi siano i prezzi delle imprese. La


non può evitare risanamenti autonomi. Con ciò risulta evidente che la strategia di una veloce privatizzazione, nonostante i profondi desideri ideologici, non ha successo. Soltanto una parte delle imprese, a breve scadenza, è vendibile, per quanto le "spose" vengano abbellite, il prezzo d'acquisto abbassato e aumentata la dote. Ma ecco che si pongono due quesiti: cosa avviene durante il processo di risanamento? Occorre iniziare subito col risanamento, anche se in realtà la THA vorrebbe lasciare questo compito agli aquirenti. Cosa fare, in secondo luogo, con imprese il cui risanamento può durare anni e che solo dopo diversi anni possono presentare i conti in nero, ma che nella sostanza meritano di essere mantenute in vita? Tale è probabilmente la condizione di gran parte delle imprese tedesco orientali. Sino ad oggi la THA non ha fatto conoscere come intenda procedere con queste aziende e quali criteri voglia adottare nelle decisioni di chiusura. A ragione il SVR 17 commenta che la THA, nella sua forma attuale, non può in nessun modo risanare da sola; tutt'al più per alcune imprese (poche) potrebbe introdurre particolari misure. Da ciò il comitato ne deduce che, se non si trovano imprenditori privati e se le banche, applicando normali criteri, non prestano capitali per il risanamento, si fa strada l'ipotesi che le imprese non siano risanabili. A chiare linee ciò significherebbe che tutto quanto non sia velocemente privatizzabile, non è risanabile e dunque deve essere veloceTHA

mente chiuso, per non sprecare ulteriormente sovvenzioni. Questa è la logica del disboscamento 18 totale.

ALTERNATIVE

A ciò si può opporre che il risanamento ha bisogno di tempo e che il calcolo di fare veloci guadagni è in questo caso del tutto inappropriato. Ciò che è risanabile a media scadenza, dovrebbe essere risanato, ed in prima linea con il decentramento, grazie alle imprese stesse in collegamento con un appoggio attivo della THA. Una parte del capitale per il risanamento di queste aziende classificate come risanabili, ma non ancora privatizzabili, deve venire dallo stato, cioè dalla THA: sia come apporto di capitali di diretta pertinenza (la maggior parte delle imprese sono sottocapitalizzate, nonostante che a fronte di rischi particolarmente grandi, abbiano bisogno di un capitale di rischio altrettanto alto), che come sovvenzioni per misure di investimento e di altro tipo. Oltre a ciò possono e devono essere utilizzati i crediti bancari. •Per anni molte di queste aziende saranno imprese statali o semi-statali, per giunta beneficiari di sovvenzioni. Dopo un periodo di almeno cinque anni, queste aziende dovrebbero lavorare coprendo i costi, per cui dovrebbero essere alleggerite dei vecchi debiti e del peso del risanamento ecologico di cui non hanno reponsabilità. Dopodiché queste aziende potrebbero, se politicamente 111


richiesto, essere privatizzate, meglio ancora attraverso la borsa, con ampia diffusione delle quote azionarie. Con questa strategia di risanamento lo stato risparmia gli alti costi conseguenti alla disoccupazione (circa 20.000 marchi a disoccupato incluse le tasse ed i contributi sociali) come anche quelli dovuti alla creazione di posti di lavoro mediante insediamenti industriali (con premi d'investimento del 33% per ogni posto di lavoro creato, occorre calcolare 60.000 marchi per ogni posto di lavoro). Una simile concezione di risanamento richiede una struttura totalmente diversa per la THA. Deve essere diversamente organizzata a livello del personale, necessita di più capitale, deve essere molto più decentralizzata, deve porsi obiettivi di politica occupazionale, deve fare una attività di politica industriale in misura tale da superare largamente i tentativi di risanamento fatti presso la Arbed Saarstahl, nelle miniere o nei cantieri della Germania del nord. Un risanamento cauto è più adatto del "disboscamento". Quest'ultimo avrebbe deleterie conseguenze a livello sociale e politico-economico: disoccupazione di massa per lungo tempo, pericolo di emigrazione, mancati gettiti fiscali nelle regioni (Lànder) e nei comuni. Il presidente della THA Rohwedder contesta energicamente, evidentemente punto sul vivo, che il suo istituto faccia in pratica politica strutturale: "Ci occui i i '1 9 piamo ai azienue e non ai politica` Con ciò egli intende respingere le inge112

renze non richieste dei nuovi Lnder federali. Nessuno può sapere meglio del neo eletto "manager dell'anno" che questa sua dichiarazione contrasta con la verit. E sì vero che la THA intende essere una pura istituzione di manager, una specie di gigantesca agenzia immobiliare, ma dietro a questa facciata di ideologia manageriale si fa politica in modo deciso. La stessa delimitazione delle aziende disponibili alla vendita, la loro scomposizione in nuovi raggruppamenti, il riunirla in pacchi azionari, non è altro che politica strutturale. Come anche il contrattare prezzi e la scelta dei compratori, la decisione su chiusure, investimenti sostitutivi, garanzie, piani sociali, sovvenzioni, personale di guida in migliaia di aziende. Persino ciò che in riferimento a singole imprese può sembrare una semplice scelta di economia aziendale, che si potrebbe tranquillamente lasciare ad un'istituzione che ragioni ed operi secondo punti di vista di economia privata, non vale più per un'intero sistema economico: qui occorre pensare proprio in termini di economia e di politica economica. Alcune delle nuove regioni federali hanno riconosciuto che il loro raggio d'azione è enormemente limitato dalla THA. Il presidente del Consiglio dei Ministri della Sassonia Kurt Biedenkopf è andato più in là di tutti, quando in una dichiarazione del governo ha richiesto basilari modifiche per la THA; secondo Biendenkopf, i compiti della THA van-


no ben oltre la privatizzazione: essa non è né responsabile né legittimata per la politica strutturale, non dovrebbero esser vendute a tutti i costi le imprese e la Sassonia non deve diventare il paese di imprese controllate. Conseguentemente le sedi regionali della THA dovrebbero essere collegate ai governi regionali 2O Nel frattempo sembra che Biedenkopf si sia accontentato di un posto nel consiglio d'amministrazione della THA. La conferenza dei Ministri e Senatori dell'economia di tutti i Linder federali hanno richiesto un maggiore diritto a decidere nella THA, più informazioni ed il coinvolgimento nelle decisioni. Fino al marzo 1991 dovrebbero essere elaborate delle proposte da parte di un gruppo di lavoro, sotto la responsabilità del Land della Sassonia 21 . Sono necessarie tuttavia alternative fondamentali. In ogni caso la legge THA deve essere cambiata, come è stato chiesto pure da Rohwedder e dal Comitato di esperti. I compiti della THA devono esser precisati: il rapporto privatizzazione e risanamento è da definire maggiormente, con particolare attenzione al risanamento. Alla definizione dei compiti deve aggiungersi la politica del mercato del lavoro e quella occupa-

zionale, che praticamente non viene svolta dalla THA. E decisiva però la decentralizzazione in direzione di una Federazione democratica. Poiché il nucleo centrale dei compiti della THA è grettamente politico-economico, essi dovrebbero essere essenzialmente assunti dalle nuove regioni: o venendo assunti direttamente dai governi dei Lànder e così sciogliendo la THA 22 , o decentrando la THA in 5 THA regionali sottoposte al controllo democratico delle regioni. In questo caso bisognerà tener debito conto dei sindacati. Oltre a ciò si dovrebbe considerare se non sia sensata un'avanzata forma di cogestione con i lavoratori nell'ambito delle imprese THA - in modo simile alla cogestione sperimentale nel caso Montan - che comprenda i problemi sociali ed economici. Le THA dei Lnder dovrebbero avere a disposizione una dotazione di personale e finanziaria che li rendesse capaci di porre in essere misure di risanamento autonome in ogni azienda che, pur non essendo privatizzabile a breve scadenza, sia però a media scadenza risanabile, ed in seguito, privatizzabile. (Traduzione di Daniela Merella)

Note Cfr. anche J. Priewe, La THA-la Holding statale più grande del mondo, in "Frankufter Rundscahu", 14.11.90, pgg. 27-28. 2 "Handelsblatt", 29.2.1990. Legge sulla privatizzazione e riorganizzazione dei beni popolari (legge THA) del 17.6.1990, Gazzetta uf-

ficiale della Repubblica Democratica Tedesca, parte 10 n. 33, 22.6.1990 Trattato fra la Repubblica Democratica Tedesca e Repubblica Federale Tedesca sulla realizzazione dell'unificazione tedesca, doc. nei "Blatter", 10/1990, pgg. 1257 e seguenti, articolo 25. 113


"Handeisblatt" 21/22.12. 1990 Roland Berger & Partner sri, Perizia sulla elaborazione organizzativa della THA, Muenchen, 27.8.1990. Scritto del 12.10.1990 ai consigli d'amministrazione ed agli amministratori delle imprese appartenenti alla THA. 8 "Stern" 1/91, pgg. 84. "Handeisblatt" 8.11.1990. "Frankfurter Rundschau" 22.11.1990 Ibidem e 4.1.1990. 12 Ibid. ' "Handelsblatt", 29.11.1990. 14 "Frankfurter Ruridschau", 13.12.1990 come pure 7.12.1990. "Stern", 1/1991. 16 Roland Berger & Partner, op. cit. 17 Consiglio di esperti per la stima delle tendenze economiche generali, Rapporto annuale 1990/199 1, 6

"

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Stampa della Camera Federale, 11/8472 Bonn 1990, cifra 506 e seguenti, 517. Il consiglio richiede a ragione una precisazione dei criteri per i decreti di chiusura. Propone, detto in breve, che al più tardi dopo tre anni le imprese abbiano degli utili e che siano in grado di servire i vecchi debiti entro il limite del valore reale dell'impresa. Prescindendo da transitori aiuti di liquidità, il capitale di risanamento deve essere raccolto sul mercato finanziario (cifra 535). Che cosa succederebbe se la copertura finanziaria fosse troppoo esile e le banche non dessero più crediti? La proprosta è in definitiva orientata a massicce e rapide chiusure. ' "Frankfurter Rundschau", 7.11.1990. 20 "Handelsblatt", 9./10. 11.1990. 21 "Handelsblatt", 20.12.1990. 22 Cfr. i miei consigli in: L'Amministrazione Fiducia. ria «HA).


I sindacati e l'unità tedesca di Roland Sturm

Nell'attuale dibattito sui problemi conseguenti all'unità tedesca, i sindacati giocano un ruolo strordinariamente esiguo. Il loro influsso sui problemi decisivi a livello politico è sfuocato. Dove essi semmai vengono consultati, ciò non lascia tracce nell'opinione pubblica che, da parte dei sindacati, viene cercata per scopi rappresentativi anche in misura molto ridotta. Fino ad oggi è stata risparmiata ai sindacati la pubblicità negativa prodotta dalle onnipresenti scoperte di legami con la STASI (il servizio di sicurezza statale della ex Repubblica Democratica Tedesca) da parte di cariche statali alte e altissime, di partiti e associazioni (sino ai nuovi Presidenti dei Consigli dei Ministri delle nuove regioni dell'est). Non è dunque cambiato nulla per i sindacati tedeschi dopo la riunificazione? Stanno giocando i1 ruolo normale ora in un territorio più grande? Una simile supposizione sarebbe falsa. In realtà le sfide imposte ai sindacati con l'unificazione erano e sono enormi. Dovrebbe essere risolto il problema dell'unità tedesca anche in campo sindacale. I problemi politici ed organizzativi che ne conseguono, hanno già acuito i conflitti d'in-

teresse interni ai sindacati ed ancora non sono stati risolti in modo soffisfacente. Con l'unità tedesca l'ambiente sociale si rapporta in modo totalmente diverso con i sindacati. Non è per essi solo difficile superare con una strategia unitaria a livello di organizzazione interna i contrasti di interesse tra i loro membri dell'ovest e dell'est. I sindacati si vedono anche doppiamente sfidati da altre forze sociali. Da un lato si esigono da lòro proposte per il loro contributo alla ricostruzione economica, dall'altro si vedono costretti ad opporre argomenti alle voci sempre più forti di quegli economisti conservatori (compresa la Bundesbank) che vedono nella riduzione degli stipedi a Est e ad Ovest la chiave per il risanamento economico di tutta la Germania. Dinnanzi a questa sfida la ritirata sulla routine sindacale è più che altro l'ammissione di un deficit propositivo. Con ciò si abbandonano possibilità creative. Come il governo federale, attualmente i sindacati affrontano i problemi conseguenti alla riunificazione tedesca, in modo più passivo che attivo.

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L'UNITÀ SINDACALE TEDESCA

La libera Federazione Sindacale Tedesca (FDGB) della Repubblica Democratica Tedesca, alla fine, coi suoi 10 milioni di membri era la più grande organizzazione di massa della RDT e, chiaramente determinata nei suoi fini, doveva servire come cinghia di trasmissione del partito economista al governo (sED), cioè far valere le decisioni di partito nelle aziende. Inoltre la FDGB era una gigantesca burocrazia sociale, responsabile della condizione delle assicurazioni sociali e con ciò unica ad occuparsi dei viaggi ricreativi, del suo servizio vacanza e per i soggiorni termali che erano di particolare qualità per un paese come la RDT, la quale riduceva drasticamente la libertà di viaggiare dei suoi cittadini. Fintanto che la RDT continuava ad esistere il DGB vedeva se stessa nel ruolo di interlocutore della FDGB che appoggiava nel settore sociale la politica di distensione del governo federale. Spesso - come nel frattempo abbiamo saputo dalle relazioni della FDGE alla SED sui contatti con il DGB - ciò avveniva in modo ingenuo. Già il dialogo veniva classificato da parte occidentale come un successo politico ed i sindacati erano relativamente ben disposti a rispettare il parere della RDT, secondo cui continui accenni a violazioni dei diritti umani nella RDT, potevano soltanto ostacolare l'atmosfera positiva dei dialoghi. Persino quando nella RDT si delineava la svolta politica, rispetto alla FDGB, il DGB aspettava da essa tentativi per un rinnovamento'. Do116

po la svolta del 1989 è vero che la FDGB si liberò dei propri vertici corrotti guidati da Harry Tisch, ma il suo apparato faceva tutto il possibile per mantenere in vita sé stessa ed il proprio ruolo quasi statale. Ad esempio invece di separarsi dalle direzioni sindacali delle imprese, la FDGB Si schierò dalla loro parte per impedire l'elezione democratica secondo l'esempio occidentale dei consigli aziendali in ciò parzialmente appoggiata addirittura da funzionari sindacali tedesco occidentali che ancora puntavano sulla cooperazione del partner FDGB. La nuova legge sindacale della RDT promulgata nel marzo 1990 doveva rinsaldare le vecchie posizioni. Il primo ed ultimo congresso straordinario della FDGB nel febbraio 1990 aveva tuttavia preso decisioni organizzative che impedivano un consolidamento della FDGB e che iniziavano ad aumentare l'indipendenza dei singoli sindacati. La direzione amministrativa della FDGB era ora formata dai 20 direttori dei singoli sindacati e da 7 membri eletti dal congresso. Con ciò i sindacati avevano già conseguito una decisiva posizione di maggioranza. Allorché essi poi si rifiutarono di mettere a disposizione dell'apparato FDGB sufficienti mezzi finanziari, l'apparato nonostante una riduzione del personale dell'80%, non era più in grado di agire. Politicamente i vecchi sindacati della ex RDT e soprattutto i suoi funzionari cercavano di guadagnare terreno reagendo con richieste radicali al 10 trattato di stato (unione monetaria, economica e sociale) fra RDT e la RFT. Già nell'aprile


la FDGB organizzava manifestazioni manovrate da funzionari SED, nelle quali si richiedeva una riforma monetaria con un cambio nel rapporto di i a 1. La FDGS pretendeva aumenti salariali del 50%, una scala mobile del 30% e l'introduzione della settimana lavorativa di 38 ore. Dopo una visita di uno dei direttori del DGB Ernst Breit, l'allora Presidente del Consiglio dei Ministri della RDT, il cristiano democratico Lothar Maiziere, 1'8 Maggio si rifiutava di continuare a trattare simili pretese con la FDGB. Contemporaneamente la IG mineraria della RDT annunciava la sua uscita dalla FDGB. Finalmente agli inizi del maggio 1990 il DGB, su pressione del Presidente del OTV Wulf-Matthies e del Presidente dell'IG Metall Steinkuhler, fu pronto ad abbandonare il suo atteggiamento attendista e ad inserirsi nel processo di democratizzazione. Si dovette all'intervento del DGB se, il 9.5.1990, in contrasto con le norme statutarie, si formò un consiglio di portavoci della FDGB con tre membri di sindacati di categoria. La FDGB si trasformò in "Federazione dei Presidenti dei Sindacati Industriali e dei Sindacati". 1110 maggio il Presidente del DGB ed il Presidente del Consiglio dei portavoci raggiunsero un accordo sulla creazione di una tutela sindacale degli interessi unitaria per tutta la Germania, cosa già richiesta dal Consiglio direttivo federale del 18.4.1990. Questa si sarebbe dovuta originare con la fusione dei sindacati membri del DGB con i singoli sindacati della RDT 2 1114 settembre il congresso

della FDGB decise lo scioglimento della vecchia FDGB per il 30 settembre. Con ciò si pose fine al passato RDT dei movimenti sindacali. Rimaneva ancora da scogliere il nodo dei beni della FDGB, ove il DGB Si trovava nel dilemma che, essendo finanziariamente bisognoso di appoggi, dinnanzi alle proprie casse svuotate per il fallimento dell'economia collettiva ed i propri scandali finanziari (coop, Neue Heimat) d'altra parte non valeva farsi dire di essersi ingiustificatamente arricchito dei beni FDGB. Senza contare il servizio vacanze della FDGE, i beni complessivi furono valutati dalla gestiòne amministrativa nell'ordine di 1 miliardo di marchi. Il DGB fece stimare i beni da una società indipendente per la revisione dei conti che rilevò una cifra di 400 milioni di marchi. Dopo la decisione sull'autoscioglimento della FDGB tutti i beni furono affidati alla Società di amministrazione dei beni sindacali "Mrkisches Ufer" (GvvG). Con questi beni furono innanzitutto sia pagati i debiti della FDGB, che finanziati i piani sociali e i piani di riqualificazione per ex collaboratori FDGB. Le case sindacali furono affidate alla Società fiduciaria e patrimoniale del DGB ed ai singoli sindacati, formatisi dopo lo scioglimento della vecchia FDGB, fu concesso un diritto di prelazione. I beni restanti, dopo una scadenza stabilita, furono egualmente dati, secondo criteri proporzionali, ai sindacati; come criterio di distribuzione fu fatto valere il numero dei membri dei sindacati di 117


categoria della FDGB al 1.10.89 e la loro parte nei contributi versati. Dopo lungo esitare ma soprattutto dopo che significativamente vi era stata la mancanza di un ampio dibattito organizzativo interno, con ciò i sindacati tedesco occidentali avevano trovato una via tecnocratica all'unità sindacale. Non ultima la logica della loro diplomazia tradizionale con la FDGB, rese difficile ai vertici del DGB il riconoscere che la FDGB non possedeva nella RDT un appoggio popolare e che già per la scorsa considerazione ed il suo ruolo nello stato SED, non poteva servire da base di partenza un'altra politica ed organizzazione culturale per il rinnovamento del movimento sindacale nella Germania orientale.

LA RIORGANIZZAZIONE DEI SINDACATI DOPO LA RIUNIFICAZIONE TEDESCA Già prima dell'unità tedesca la struttura organizzativa interna del DGB e la delimitazione delle sfere di competenza dei suoi sindacati di categoria era discussa. Il concetto per la riforma strutturale del DGB risalente al 1989 era soprattutto un programma di risparmi, fatto a spese della suddivisione interna del DGB e rispecchiava i fatti: cioè che i veri centri del potere finanziario e politico stanno nei più grandi dei sindacati di categoria3 . Questo vantaggio a favore dei sindacati IG Metali e ÒTV a sfavore del DGB e di sindacati più piccoli, non fu eliminato con la riunificazione tedesca. 118

Gli ex sindacati di categoria della RDT Si ristrutturavano secondo la futura unità sindacale o si formavano ex novo secondo il modello occidentale. Così il sindacato della RDT "Commercio, Beni Alimentari e Voluttuari" per esempio si suddivise in: commercio, banche ed assicurazioni (RDT) e alimentazione, beni voluttuari, alberghi (RDT), o la IG Transport e comunicazioni in Sindacato dei ferrovieri, Sindacato postale tedesco e IG Trasporti. Tra l'altro fu fondata una ÒTV/RDT ed un sindacato per l'educazione e le scienze/RDT. L'entrata nel sindacato partner tedesco occidentale avvenne poi mediante decisioni individuali, per alcuni sindacati anche collettivamente (per esempio IG Mass-Media); da nessuna parte i funzionari sindacali tedesco orientali furono incaricati automaticamente di nuovi compiti nei sindacati unitari tedeschi. Ciò non escludeva un riaffidamento di questi funzionari grazie all'elezione dei membri. Per quanto riguarda i rapporti di grandezza dei sindacati, l'unione sindacale significò che la IG Metail con circa 3,7 milioni di membri diventò il più grande sindacato mondiale: anche 1'ÒTv con ora 2 milioni di membri, ha potuto confermare la sua posizione decisiva in seno al DGB. Il contrasto sul peso relativo dei sindacati di categoria, ma anche sull'influsso dei sindacati DGB in Germania orientale in rapporto alla forza del DAG o della federazioné tedesca degli impiegati, portò nelle fasi iniziali dell'unità tedesca a un fenomeno che fu


detto "cannibalismò sindacale" 4 cioè la gara fra i sindacati per nuovi membri. Questo avvenne in parte anche senza riguardo per i deficit d'informazione dei corteggiati che portò, fra le altre cose, al fatto che i lavoratori tedesco orientali, secondo la vecchia tradizione statale della RDT, dall'entrata nel sindacato si attendevano garanzie per i posti di lavoro e prestazioni sociali. La gara per i nuovi iscritti portò inoltre ad un anarchico parallélismo di azioni sindacali e ad una radicalizzazione delle rivendicazioni fatte in simili azioni. Soprattutto però alcuni sindacati tentarono, senza successo, di far rientrare per la porta di servizio tedesco orientale, le loro ambizioni di ristrutturazione in seno al DGB. La IG mineraria ed energetica voleva per esempio riorganizzare l'intero settore energetico di contro alla resistenza dei suoi concorrenti oTv; il sindacato commercio, banche e assicurazioni sciogliere gli impiegati nelle casse di risparmio dall'ambito della ÒTV. Il fallimento dei loro intenti espansionistici fu preso come ragione dell'IG mineraria per annunciare nel dicembre 1991 che stava pianificando una fusione con l'IG chimica, carta, ceramica. L'ultima ha più di 800.000 membri, la prima circa 600.000 membri. Una fusione farebbe del nuovo sindacato il terzo per ordine di grandezza del DGB. In diversi modi si fece notare che il flusso di aderenti dall'oriente potrebbe portare ad una predominanza degli aderenti dell'est nei sindacati dell'ovest 5

poiché in occidente pensionati, casalinghe, scolari e studenti costituiscono il 22% degli aderenti al DGB. Sino ad oggi però non sono prevedibili segni di influssi particolari da parte dei nuovi membri tedesco orientali. Da un lato alcuni sindacati hanno preso misure organizzative per una dominanza strutturale dei funzionari occidentali e non solo, come il DGB stesso (con l'esclusione di Berlin-Brandenburg) hanno fondato sedi per i loro sindacati ad Est. La direzione !G-Metall nel dicembre 1990 decise di sottomettere la Turingia al distretto Francoforte sul Meno, SassoniaAnhalt al distretto Hannover, Meckienburgo-Pomerania anteriore al distretto Amburgo. Soltanto per la Sassonia il distretto Dresda fu fondato ex novo. D'altro cànto. la crescente disoccupazione nella Germania orientale ha portato come conseguenza che oggi ci sono sensibilmente meno occupati dalla Germania orientale di quanto non fossero nei sindacati. I disoccupati oggi vengono considerati nel sindacato un male necessario ed accettati per ragion di stato (il presidente della IG Metall Stein Kùhler ha detto riguardo a ciò nell'intervista allo «Spiegel» del 18.6.90 "poiché credo sia meglio che vi siano disoccupati nella IG MetaIl piuttosto che siano lasciati in balia di pifferai di destra o sinistra"); tra gli aderenti occidentali ai sindacati vi furono però proteste, quando da loro si pretesero ulteriori appoggi finanziari per la ricostruzione organizzativa nella Germania dell'est, ovvero quando te119


mevano un utilizzo unilaterale dei beni del sindacato. Le organizzazioni sindacali della Germania orientale hanno pur sempre bisogno di grandi somme. In tre anni, per esempio, il DGB con le sue associazioni, spendono 110 milioni di marchi per la formazione di funzionari sindacali della Germania orientale. Ciò corrisponde a circa la metà del bilancio annuale del DGB6 . Molto più pressante del problema circa la strutturazione degli aderenti è per il sindacato il fatto che, nonostante l'integrazione organizzativa degli aderenti tedesco occidentali, ancora per anni vi sarà un complesso di aderenti diviso rispetto alle aspettative che si hanno dell'attività sindacale, con una caratterizzazione socio-culturale diversa 7. Karlheinz Blessing, un tempo della direzione IG Metall, oggi amministratore federale dell'SPD, lo ha espresso in questi termini: "Mentre gli aderenti a ovest cominciano a parlare di un concetto ecologico del traffico, a pensare su come possa essere ridotto il traffico automobilistico, la tensione degli aderenti dell'est orientata ad ottenere possibilmente presto la proprietà di una macchina possibilmente veloce". Temi occidéntali come la salvaguardia ecologica, la parità della donna, l'integrazione di cittadini stranieri o lo sviluppo di una società multiculturale orientata all'Europa sono, secondo le prospettive degli aderenti dell'est, temi di lusso di cui il loro sindacato dovrebbe occuparsi solo allorquando fossero già state chiarite le domande, sala120

riali, abitative e sulla sicurezza dei posti di lavoro. Un simile riorientamento della politica sindacale significherebbe però l'alienazione del sindacato da gran parte degli aderenti occidentali e soprattutto provocherebbe quella del gruppo dei dipendenti che hanno la responsabilità economica, i cui risentimenti anti-sindacali, in passato, i sindacati DGB hanno faticosamente cercato di diminuire aprendosi ai temi dei nuovi movimenti sociali e delineandosi come organizzazione favorevole alla discussione, aperta, pluralistica con programmi orientati al futuro ed economicamente sicuri 9 .

SUL RUOLO DEI SINDACATI NELLA POLITICA TEDESCA DOPO LA RIUNIFICAZIONE

Diversamente da quanto in vari modi supposto da alcuni osservatori, i sindacati nella Germania orientale non si sono rivelati né un fattore d'ordine che rechi il suo contributo nello scambio politico per una collaborazione al processo organizzativo dell'economia della Germania orientale, portando i lavoratori a rivendicazioni salariali moderate, né, come si temeva, la desolata situazione economica nella Germania orientale ha talmente indebolito i sindacati rendendoli ricattabili, da non poter essi più giocare un ruolo nel processo decisionale economico della Germania orientale 10. Il governo Kohl già prima della riunificazione tedesca aveva un rapporto distaccato coi sindacati. A ciò


contribuirono in modo decisivo, oltre che generali differenze nelle teorie economiche, anche i tentativi del governo, con riforme del diritto lavorativo, e una politica sociale di ridistribuzione, unilateralmente a favore dei datori di lavoro i pesi nella politica economica. Da parte del governo cioè, oltre ai consueti riguardi verso i sindacati nei loro vecchi settori non vi sono stati sforzi di coinvolgerli nei processi decisionali riuardanti l'economia tedesco orientale. E vero che nel consiglio direttivo della THA responsabile della privatizzazione dell'economia tedesco orientale vi sono 4 rappresentanti sindacali aventi diritto al voto, ma costituiscono solo una minoranza. Sono richiesti, in primo luogo, quando si tratta di contrattare dei piani sociali per imprese minacciate di chiusura con i rappresentanti dei dipendenti. Per il resto invece, come per esempio si rivelò con la privatizzazione delle aziende chimiche orientali, sono spesso nella spiacevole situazione di dover prender parte a decisioni della THA, contro le quali poi contemporaneamente, come capi sindacali, organizzarono la resistenza dei coinvolti. La vera forza dei sindacati nella Germania orientale, sta nella loro politica locale attiva, che essi lì perseguono cioè in prima linea, nella loro resistenza contro una politica della privatizzazione senza riguardi alle ripercussioni sociali e regionali. Quasi nessuno si sarebbe aspettato che, quando le progno-

si ottimistiche sulla risalita economica nella Germania orientale si rivelarono sbagliate, la mobilizzazione sociale contro il disboscamento economico si sarebbe così unanimamente orientata sulla base sindacale, ove comunque rimane ancora non chiarito per quanto a lungo la protesta sociale continuerà a vedere nei sindacati un alleato adatto, e sufficientemente radicale. Spesso i sindacati sono stati più sospinti che non essi stessi guide. Sospinti dalla concorrenza di altre organizzazioni verso le grazie dei protestatari e dall'atteggiamento attendista dei loro aderenti che facevano valere un unico metro di paragone: il livello di vita occidentale. Quest'ultimo atteggiamento portò nella politica salariale ad un totale sganciamento degli accordi dalla produttività dell'economia tedesco orientale, che segue zoppicando e da molto lontano quelle della Germania occidentale, per cui economisti conservatori fecero responsabile la politica salariale anche della distruzione di posti di lavoro nella Germania dell'est. Per evitare tensioni nella propria organizzazione fra colleghi, dell'Est e dell'Ovest, i sindacati attribuirono importanza al fatto che si agganciassero gli stipendi dell'Est e dell'Ovest. Ciò da un lato avvenne facendo in modo che per gli stipendi tedesco orientali - di regola entro il 1994 con un aumento delle tariffe annuali del 30% - fosse contrattato con gli imprenditori il graduale raggiungimento del livello salariale occidentale. E d'altra parte col fatto che aumenti salariali 121


ad Ovest comportassero un aumento anche ad Est poiché questi non furono trattati in somme assolute, ma come parti in percentuale delle entrate dell'Ovest. A ciò si aggiungono altri accordi coi sindacati su una equiparazione dei tempi di lavoro settimanali ed altre prestazioni particolari. Nonostante violente critiche pubbliche non c'era alternativa all'equiparazione salariale nel medio periodo in tutta la Germania. Come avrebbero ad esempio potuto spiegare ai loro aderenti di Berlino, nello stesso ufficio di un'autorità, che colleghi tedesco orientali di questo ufficio a parità di lavoro avrebbero ricevuto un salario diverso anche se il costo della vita a Est fosse ancora sensibilmente inferiore di quanto non fosse ad occidente? Come sarebbe stato possibile rappresentare gli interessi degli aderenti al sindacato occidentale che risiedevano nei pressi del vecchio confine, quando essi dovevano cedere il loro posto di lavoro a pendolari sottopagati dall'Est? Le trattative sui salari e sulle retribuzioni non di rado avevano il carattere di guerre apparenti che imitavano i consueti rituali occidentali. La conduzione delle trattative era aggravata sia dall'inesperienza dei sindacalisti della Germania dell'Est come dal ruolo contradditorio del management delle imprese, i cui rappresentanti da un lato si vedevano accomunati nella barca orientale con i sindacati che, invece di trattare con questi, puntavano sulla capacità finanziaria dell'occidente, d'altra parte potevano intanto decidere senza molte re122

sponsabilità proprie in quanto le loro aziende erano comunque ancora di proprieta della THA che, in definitiva, avrebbe dovuto far fronte anche agli aumenti dei costi salariali. I sindacati si difendevano da modelli che volevano collegare la politica salariale con la logica della ricostruzione economica nella Germania orientale, come la costituzione, rivendicata in modo particolarmente acceso dal partito liberale, di una zona a bassa retribuzione nella Germania dell'est, l'idea di risparmio contrattuale o l'istituzione di un fondo di solidarietà. Quest'ultima proposta, introdotta nel dibattito da una considerazione marginale del presidente dell'IG Metall, Franz Steinkùhler ed elaborata da economisti vicini al sindacato 11 prevedeva di inserire una parte di aumenti salariali e contributivi contrattuali della Germania occidentale in un fondo con il quale fosse appoggiata la ricostruzione in Germania orientale. Dinnanzi all'opposizione degli aderenti occidentali e all'incremento delle tasse e dei contributi voluta dal governo per i redditi più bassi, giustificata con le necessità della ricostruzione economica nella Germania orientale, il vertice sindacale si distanziò abbastanza velocemente da questa proposta. Franz Steinkiihler reagì ad una domanda dello "Spiegel" (29.4.91) con la sdrammatizzante considerazione "Ho pensato a qualcosa si simile durante un congresso sindacale straordinario. Improvvisamente si attribuì ogni genere di significati alle mie parole".


L'idea di non pagare una parte degli aumenti salariali nella Germania orientale e al posto di ciò farli avere come risparmi contrattuali dei lavoratori, in forma di certificati azionari, alle loro aziende, aveva dal punto di vista dei datori di lavoro il vantaggio di diminuire la velocità degli aumenti salariali e contemporaneamente interessare il lavoratore al fatto di rispettare il benessere delle aziende che li impiegavano nel corso delle trattative salariali. Ma proprio questi due effetti portarono i sindacati a rifiutare la proposta. Non si sentivano né in grado di opporsi alle aspettative di guadagno nella Germania orientale, né erano pronti a indebolire la loro posizione nei negoziati salariali da conflitti d'interesse di singoli aderenti. Invece da parte dell'IG Metali fu risollevato il ricordo dell'imposta sugli investimenti del 1952 che, a quei tempi, obbligava le imprese ad impegnare parte dei loro investimenti per la ricostruzione delle regioni minerarie della Germania occidentale. Questo modello sviluppato dal governo guidato dal cristiano-democratico Adenauer, nel 1954 fu espressamente approvato dalla Corte Costituzionale Federale. La IG Metall pensa ora ad una simile imposta sugli investimenti per la ricostruzione nella Germania dell'est, per quanto non abbia avuto risonanza né presso i datori di lavoro, né trovi il sostegno del governo federale oggi guidato dai cristianodemocratici. Più successo ebbe l'idea sindacale delle società per l'occupazione meno, a dire il

vero, per la forza di convizione dei suoi propugantori o per la loro influenza politica, ma molto più invece come misura d'emergenza dinnanzi all'accellerarsi della decadenza dell'economia tedesco occidentale. Le società occupazionali, da lungo tempo richieste dai sindacati nella Germania occidentale come misura nella politica del mercato del lavoro, devono servire ad impedire la disoccupazione nel caso di chiusura di impianti. [disoccupati vengono presi in carico da una società finanziata dallo Stato ed eventualmente anche dalle imprese, dai sindacati e dalle banche (come per il caso dell'opera di ricostruzione nello stato autonomo di Sassonia) che ha la funzione principale di riqualificare professionalmente i lavoratori. Mediante l'impiego di mezzi statali nella politica del lavoro, questi possono così trovare nuovi impieghi, ovvero, se dovesse essere possibile modificare la produzione, addirittura continuare a portare avanti la vecchia azienda con una nuova forma. Quando era prevedibile che una privatizzazione rigida della THA avrebbe creato solo deserti industriali senza prospettive ed una disoccupazione in veloce aumento, il governo Khol afferrò il filo di speranza delle società di riqualificazione. Al sindacati non basta questo riorientamento politiCO della THA: chiedono che la TElA sia portata a livello di nocciolo di una holding industriale che, a lunga scadenza, produca una politica di strutturazione economica attiva, soprattutto mediante 123


il risanamento e la modernizzazione delle imprese tedesco occidentali.

PROSPETTIVE

Ad un convegno a porte chiuse della direzione DGB a Hatting nel gennaio del 1992 si decise che nel 1996 il DGB in occasione di un congresso straordinario si sarebbe dato un programma d'intenti rinnovato ed adatto ai tempi. L'IG Metali criticò il fatto che il DGB sia dinnanzi ai suoi sindacati di categoria, che di fronte all'opinione pubblica, non era più in grado di tener ferma la sua qualità politica e l'efficienza delle sue prestazioni. Il DGB sembra essere all'IG Metail un colòsso dai piedi d'argilla che ha già perso il contatto con la base dei suoi aderenti. Sarebbe tuttavia sbagliato ridurre il dilemma dei sindacati dopo la riunificazione al destino del DGB. Anche nei caso dei sindacati di categoria vi sono problemi simili. I sindacati hanno ancora una tendenza ad occuparsi soprattutto di questioni di potere legati all'organizzazione interna, ad esempio il loro peso relativo nel DGB o le strategie per il proselitismo in particolare nel settore dei dipendenti e in concorrenza con gli altri sindacati e associazioni di categoria. Nel frattempo vi sono marrestati processi di allontanamento dei

disillusi facitori d'opinione fra gli aderenti a occidente e degli aderenti radicalizzati delusi dall'attuale standard di vita a est. I sindacati non hanno ancora trovato una visione convincente dei loro ruolo nella nuova Germania, per tacere completamente di un progetto alternativo per l'ordinamento economico tedesco. Un'idea socialista moderata come base comune, non è più proponibile agli aderenti e alla società. Da ciò si origina un nuovo pericolo. La coesione sindacale che si fonda sull'idea comune che poteva pretendere atteggiamenti così come solidarietà, scompare. Le tendenze sociali all'individualismo comprendono anche i sindacati. Il principio del sindacato industriale viene sempre più messo in forse. Tendenze sindacali d'impresa a lunga scadenza si diffondono: la cosa più importante è che la propria azienda sopravviva, che il proprio posto di lavoro sia mantenuto. I sindacati liquidano attualmente queste tendenze tedesco orientali definendole "pragmatismo particolarista" 12 . Alla fine di questa evoluzione vi sarà un movimento sindacale frammentato e indebolito che unisce così poco quanto altri gruppi d'interesse? (Traduzione di Daniela Merella)

Note Hans-Hermann Hertle, Rainer Weinert: Die Ver• teilung des Verinàgens erhitzt die Gewerkschaftsgem 124

ter. Finf Thesen zur Zukunft der Einheitsgewer kschaft und der Auflòsung des FDGB, in: «Frankfur-


ter Rundschau», 14.9.1990, p. 22 2 Heinrich Tie,nann, Vorwtrts in die Vergangenheit? Pessimistische Spekulationen ùber die ZukunJi der Gewerkschaften in der neuen Bundesrepublik in Andreas Westphal, Hansjòrg Herr, Michael Heine, Ulrich Busch (Hg.), Wirtschaitspolitische Konsequenzen der deutschen Veremigun& Frankfurt am Main, New york, 1991, pp. 269-294. Hans-Jùrgen Arit, Karl Feldengut, Hans O. Hemmer Fùr den Dachverband ist die Spirale nach unten noch nicht gestoppt. Die Nòte des Deutschen Gewerkschaj tsbundes und die Notwendigkeinten einer grnd1ichen Refor,ndiskussion, in «Frankfurter Rundschau», 9.7.1991,p. 14. Hertle.., Die Verteilung..., op. cit. Klaus Armingeon, Ende einer Erfolgsstory? Gewerkschaften und Aebeitsbenhungesn ira Einigungsrpozeb, in «Gegenwartskunde» 40(1) 1991, pp. 29-42. 6 Klaus Armingeon, Gewerlschaftliche Politik ira Prozeb der deutschen Vere:ningung, in Ulrike Liebert,

Wolfagang Merkel, (i-fg.), Die Politik zue deutschen Einheit, Opladen, 1991, pp. 285-296. Birgit Mahnkopf, Vorwrts in die Vergangenheit? Pessimistische Spekulationen úber die ZukunJi der GewerkschaJien in der neuen Bundesrepublik, in Andreas Westphal, Hansjòrg Herr, Michael Heine, Ulrich Busch (Hg.), Wirtschaftspolitùche Konsequenzen der deutschen Vereinigung, Frankfurt am Main, New York 1991, pp. 269-294. Karlheinz Blessing, Eriebt die alte Moderne in Deutschland eine Renaissance?. Uber den Politikprozeb nach der Vereiningung. Zum Beispiel die Gewerischaften, in «Frankfurter Rundschau», 20.3.1991, p. 18. Armingeon, Ende einerErfolgsstory?..., op. cii IO Mahnkopft, Birgit, Vorwrts..., op. cii Reinhard Bispinck, Kònnen die Gewerkschaflen so tun, als sei nichts passiert? Ein Plàdoyerfùr eine tarzfpolitische Initiative: Solidaritcitsfonds 'Sozi4le Einheit", in «Frankfurter Rundschau» 25.2.1991, p. 8. 12 Mahnkopf, Birgit, Vorvts.., op. cii

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queste istRuzioni

Taccuino

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I nostri tèmi Continuando a ragionare di democrazia: fallita la cinà dègli atei? di Bernardino Casadei

Il resoconto del colloquio, organizzato dal Gruppo di Studio a Firenze, che Franco Sidoti, recentemente ritornato su questi temi nel volume Politeismo dei valori, ci ha offerto nel numero 83/84 di "Queste Istituzioni" è una prova di quanto sia ancora possibile un'analisi seria e rigorosa di un concetto così inflazionato come quello di democrazia. Eppure nel ragionare di democrazia non è più possibile nascondere una certa insoddisfazione. Si respira un'atmosfera di déjì vu, una più o meno stanca ripetizione di principi che male nascondono le contraddizioni e che sono spesso smentiti dall'esperienza pratica oltre che da più rigorose analisi teoriche. Di questa insoddisfazione bisogna ricominciare a parlare se non si vuole rischiare che la legittima reazione contro la retorica che ci affligge non si trasformi in una fuga nell'irrazionale. Basterà a tal proposito ricordare l'affermazione di Stuart Mill, secondo il quale l'aspetto più qualificante di un governo rappresentativo è <(la capacità di promuovere la virtù e l'eccellenza della gente». Ora, senza scomodare le riflessioni opposte di Tocqueville, è difficile affermare che 40 anni di governo rappresentativo in Italia siano stati, al di là della retorica, momento di effettivo progresso nella coscienza morale del paese. L'esaltazione della personalità democratica, modello di virtù e di solidarietà, oltre ad essere in contrasto con l'espe-

rienza storica, mal si concilia con l'affermazione contenuta nella presentazione del progetto di Dichiarazione dei diritti dell'uomo dell'abate Seys, uno dei padri dell'idea del governo rappresentativo, per cui «gli altri individui si presentano necessariamente, o come mezzi, o come ostacoli», espressione difficilemente ricondubile alla morale kantiana, la quale ci impone di considerare ogni uomo come fine e mai come strumento, seppure in vista di un benessere più generale. L'indubbio valore dei tanti studiosi impegnati nel lungo dibattito sulla democrazia indica che forse la ragione di questa situazione non debba essere cercata in limiti tecnici o logici interni alle singole ricerche, ma in una comune prospettiva ideale accettata aprioristicamente. Con ciò non si vuole ridurre il valore delle analisi effettuate, dato che necessariamente ogni paradigma scientifico contiene in sé un nucleo dogmatico che non viene confrontato con la realtà, ma domandarsi se proprio la sostanziale sterilità di analisi così serie e rigorose non imponga la critica del loro punto di partenza. Nasce così l'esigenza di studiare 'con spregiudicatezza e profondità i fondamenti stessi dell'idea democratica, a meno che non si voglia ricorrere a quei richiami al virtuismo e al moralismo che mal si adattano al pensiero politico e che sono spesso accompagnati dalle più 129


tragiche conseguenze. Infatti, considerare il regime democratico quale punto di partenza ineliminabile per ogni modello politico volto alla tutela della libertà e della dignità umana non sembra legittimo, soprattutto perché le critiche rivolte dal marxismo al formalismo borghese, critiche in verità svolte in primo luogo dal pensiero reazionario cattolico, non possono essere considerate confutate dalla fine dei regimi comunisti. Certo una tale analisi potrà poi concludersi con l'ennesima riaffermazione della democrazia quale «il peggior sistema di governo, ad eccezione di tutte quelle altre forme finora sperimentate», ma in ogni modo permetterà di far luce e di meglio definire un concetto forse eccessivamente ideologizzato. Mito senza dubbio praticamente utile quando si trattava di difendere l'Occidente dall'offensiva comunista, ma che oggi potrebbe risultare paralizzante per la rinascita dell'Europa, soprattutto se si considera che lo scontro che ha caratterizzato questo secolo non è stato fra sistemi antitetici, ma fra ipotesi opposte all'interno di una comune prospettiva materialistica o comunque volta a eliminare dalla riflessione politica ogni riferimento religioso considerato quale mitologico e dunque opposto al pensiero scientifico. Oggi tale prospettiva viene negata quando si riconosce che senza un presupposto teologico - è poco importante, nell'economia di questo discorso, stabilire se trascendentale o immanentistico - non possono essere fondate le idee di libertà, giustizia, verità, bene e male e dunque gli stessi principi che sono alla base della convivenza civile, ma poi non sempre se ne traggono le dovute conseguenze. Se esiste una verità essa deve essere la guida di ogni regime politico, altrimenti questo necessariamente sarebbe ingiusto, perché si fonderebbe sulla menzogna. Non si capisce però come la dottrina della maggioranza possa garantire 130

l'applicazione di questo principio. Parallelamente l'affermazione di una astratta uguaglianza formale non impedisce la prevaricazione e la strumentalizzazione da parte di chi ha maggiori mezzi di pressione; e poco valgono, da questo punto di vista, misure volte a una più ampia scolarizzazione, dato che comunque vi saranno sempre persone più informate e abili e dunque "più uguali degli altri". Infine, il tanto decantato rispetto dei diritti dell'uomo sembra identificarsi in una effettiva tutela della dignità umana, che è spesso costretta a reificarsi e a diventare merce di scambio. Sono ancora valide le denuncie contro l'ipocrisia e il carattere contradditorio delle tanto osannate dichiarazioni dei diritti che sia il giovane Marx che Simone Weil, pensatrice che diventò anticomunista in nome di quella esigenza di giustizia che il bolscevismo aveva tradito, svilupparono nelle loro riflessioni. La notorietà e la forza delle critiche al concetto di democrazia, di cui da lungo tempo sono stati individuati i possibili esiti totalitari non dimentichiamocj che Hitler è asceso al potere per via democratica e che sia il nazismo che il fascismo hanno avuto per lunghi periodi livelli di popolarità molto più alti di quelli ottenuti dai governi del secondo dopoguerra - ha spinto molti studiosi ad affiancare al termine democrazia quello di liberale, sperando così di tutelare la dignità e l'autonomia del singolo. È però opportuno chiedersi se tale unione sia effettivamente possibile o non si tratti di un eclettico accostamento di principi assolutamente incompatibili. La domanda appare legittima se si considera che un pensatore etico politico del calibro di Benedetto Croce nella sua "Storia d'Europa" riconobbe, malgrado le apparenti affinità, il contrasto di fedi religiose opposte fra democratici e liberali. Infatti «i primi, nel loro ideale politico, postulano una religione della quantità,

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della meccanica, della ragion calcolante o della natura, com'è stata quella del Settecento; gli altri, una religione della qualità, dell'attività, della spiritualità, quale si è levata ai primi dell'Ottocento». L'oblio in cui è stato confinato per diversi decenni il pensatore di Pescasseroli non deve far dimenticare il valore delle sue critiche, le quali devono essere confutate se non si pensa che la liberaldemocrazia non sia altro che una mera alleanza di fatto per affrontare il comune avversario comunista e che dunque ora non abbia più alcuna utilità. In realtà il concetto di democrazia ha un duplice significato: da un lato rappresenta uno strumento tecnico per il governo della cosa pubblica, utilizzato da tutti i generi di regime, e dunque anche da quello liberale, dall'altro si tratta di un vero e proprio principio ideale con presupposti logici che mal si conciliano, come aveva già individuato il Croce, con i valori liberali. Nel primo caso non si capisce cosa distinguerebbe un regime liberale da uno liberaldemocratico se non una particolare attenzione allo sviluppo degli istituti democratici senza che ciò abbia alcun significato ideale. In realtà questi non possono essere assolutizzati senza dar vita a conseguenze assurde ed infatti anche nei così detti regimi democratici si assiste a una sempre maggiore rilevanza di istituti che democratici non sono o lo sono in modo estremamente mediato, quali, ad esempio, la Corte costituzionale e il cosidetto governo dei giudici. Gli istituti democratici non sarebbero dunque considerati quali valori in s, ma quali strumenti utili per meglio affrontare particolari problemi tecnico organizzativi e coinvolgere nella ricerca della definizione del bene comune ogni cittadino. Se questa fosse la reale situazione, nessuno dovrebbe scandalizzarsi davanti alla proposta di reintrodurre, ad esempio, un istituto di

consolidata tradizione liberale quale il voto plurimo: le critiche riconducendosi a meri problemi di opportunità pratica e politica. Le petizioni di principio che ciò susciterebbe dimostrano invece che quando si parla di liberaldemocrazia si intende qualche cosa di profondamente diverso e che trova il suo fondamento ideale nel contrattualismo settecentesco. Il principio "un uomo - un voto" non nasce, come potrebbe apparire ad una prima analisi, dall'idea di pari dignità di ogni uomo, la quale è stata storicamente tutelata e difesa, anche in realtà autoritarie e comunque non democratiche, ma dalla totale identità di tutti gli uomini dello stato di natura al momento del patto sociale, la società riducendosi quindi alla somma delle singole volontà, peraltro autonome e indipendenti. La comunità umana non sarebbe altro che un'immensa società per azioni espressione dell'interesse e della convenienza dei singoli.' Tale visione potrebbe avere una parvenza di verità se questi interessi fossero sempre resi componibili da una razionalità capace di tutto armonizzare. Il male sarebbe così negato o identificato col semplice errore destinato ad essere un giorno dissipato dai lumi. L'esperienza storica e la riflessione hanno però dimostrato questa illusione impossibile. Inoltre la società non è composta dai soli individui presenti in un preciso istante,, ma anche da quelli che sono già morti come da quelli che verrano, nei confronti dei quali si hanno delle evidenti responsabilità. Gli azionisti possono sempre decidere di sciogliere la loro organizzazione, ma, se anche tutti gli uomini della terra fossero d'accordo, essi non potrebbero decidere di distruggere il mondo, cosa oggi possibile, senza commettere un'azione ingiusta, il che dimostra che alla base della convivenza umana non vi sia il mero interesse, ma anche e soprattutto un principio etico, uno 131


jus, senza il quale ci si trasforma, poco impor-

ta il grado di sviluppo tecnico organizzativo, in un'orda barbarica priva di ogni umanità. Per il liberalismo invece «gli individui sono persone, la loro eguaglianza quella sola della loro umanità, e perciò ideale o di diritto, libertà di movimento e di gara, e il popolo non è già una somma di forze eguali, ma un organismo differenziato, vario nella sua unità, con governati e governanti, con classi dirigenti, aperte bensì e mobili ma sempre necessarie a quest'ufficio necessario, e la sovranità è dell'intero nella sua sintesi e non delle parti nella loro analisi». Se dunque le due prospettive sono opposte proprio nei motivi fondamentali, diventa indispensabile cercare di capire per quale ragione si sia potuta ipotizzare da parte di insigni studiosi la creazione di un tale ibrido e se in ciò non si debba vedere il tentativo di temperare le pericolose conseguenze di un'assolutizzazione del principio democratico, dato come presupposto ineliminabile, con un'iniezione di anticorpi liberali. In realtà il principio democratico sembra fondarsi in modo inoppugnabile sull'idea che la sovranità appartenga al popolo. Ora, anche questa è un'affermazione che rappresenta un'evidenza a tutti chiara sin dall'antichità oppure esprime un assoluto non senso che può imporsi grazie all'ambiguità che circonda questi concetti. Che, in ultima analisi, ogni governo si fondi su un certo consenso popolare circa il suo principio fondamentale, sia esso la monarchia per diritto divino o il carisma del condottiero, e che quando questo cessi il regime crolla, è un'evidenza che nessuno ha mai pensato di contestare. Poco vale a differenziare le democrazie la presenza di un diritto di opposizione garantito, innanzitutto perché questa è una conquista liberale e non democratica. Già Tocqueville aveva dimostrato come proprio in un regime democratico la 132

pressione e la censura possano essere molto più forti che nella più tirannica delle dittature, perche' mentre il sovrano non può moltiplicare i suoi occhi all'infinito il popolo può riuscirci. In secondo luogo una certa possibilità di critica è sempre esistita e, se oggi questa sembra quantitativamente più sviluppata, gli strumenti di condizionamento e di pressione da parte del potere costituito sono tali che non si può garantire che qualitativamente essa sia realmente aumentata. Il fenomeno del terrorismo mostra come il problema non sia affatto risolto. Se invece si pensa che il governo democratico debba esprimere non solo un certo consenso, ma la volontà del popolo, nasce l'immediato problema di definire cosa essa sia. Questa necessità spinse Rousseau ad operare la distinzione fra volontà generale, la quale si identifica con il senso di giustizia in un determinato popolo e che può essere interpretata anche da un monarca e la volontà di tutti che, essendo espressione della somma di volontà particolari, non può essere identificata con la precedente. Nemmeno l'unanimità sarebbe dunque criterio sufficiente per indirizzare l'azione del governo. Ciò diventa chiaro e comprensibile se si considera come la volontà dei singoli possa essere sviata, spesso in modo relativamente facile, da abili demagoghi. L'obiettivo del governo non può dunque esser la realizzazione degli immediati desideri dei cittadini, bensì l'impostazione di una giusta politica. È chiaro che anche in questo caso la consultazione popolare è fondamentale, ma in un'ottica profondamente diversa dall'attuale e con modi che non possono essere assolutizzati nella realizzazione di un astratto modello, ma che devono essere espressione delle reali esigenze storiche. Questa identificazione fra giustizia e libera volontà potrà forse stupire qualcuno, data


l'attuale tendenza a distinguere i due termini, tendenza che sembra essere la giustificazione teorica dell'esistenza di partiti ispirati all'uno o all'altro di questi principi quali il socialista e il liberale. In realtà tutta la filosofia che da Platone percorre il cattolicesimo fino allo stesso storicismo crociano ha sempre considerato gli ideali di giustizia, libertà, verità un'unità indissociabile alla base di ogni comportamento umano. Ci si può dunque domandare se l'introduzione di principi liberali all'interno di una prospettiva democratica non abbia corrotto la stessa idea di libertà, ormai non più identificata nel fare ciò che è giusto e nel seguire le leggi, ma in un, seppure temperato, fare quello che ci pare. L'idea di libertà definita dal concetto di autonomia e di indipendenza nasce infatti con la teoria germanistica o feudal libertina e l'anglofilia che caratterizzò i pensatori europei del Seicento e Settecento - ricordiamoci la famosa frase di Montesquieu: «questo bel sistema è stato trovato nei boschi» - risponde alla concreta esigenza di resistere davanti all'assolutismo. Impostata su una mitizzaziofle dei popoli germanici, uomini liberi ed autonomi, svincolati da ogni potere centrale e uniti dalle sole esigenze militari, essa distrugge i fondamenti stessi del cives romano. Ci si può allora domandare se la nuova barbarie che tanti denunciano non sia che la logica conseguenza di un'errata impostazione teorica; esito allora non prevedibile nell'Inghilterra e negli Stati Uniti di quei tempi per l'enorme importanza che rivestiva il sentimento religioso. Era proprio questo sentimento a fornire il fondamento ideale e in qualche modo giuridico di quelle società garantendo così la tutela della dignità umana. È importante a questo punto riflettere sul carattere paradigmatico della Rivoluzione francese come descrizione a priori degli esiti ne-

cessari di ogni tentativo di tradurre tali principi in una logica democratica all'interno di una prospettiva laicista, senza disporre nemmeno di quegli immensi spazi che permisero agli Stati Uniti di superare più facilmente tanti conflitti e contraddizioni. La teoria feudal libertina ha in realtà un'origine doppiamente aristocratica, sia da un punto di vista politico come da quello morale. I libertini erano infatti definiti "les esprits forts", coloro cioè che, proprio per la loro eccezionale superiorità intellettuale, non avevano bisogno di farsi alcuna illusione e potevano convivere con un ateismo negativo, ateismo che difficilmente può raggiungere le masse. Si può riscontrare un'ulteriore prova di tutto ciò nella descrizione che Justus Mòser fece della .libertà dei Sassoni nella sua "Storia di Osnabruck", quadro di quella che doveva essere stata l'ormai mitizzata libertà dei popoli germanici. Si tratta in effetti di liberi agricoltori, veri e propri sovrani assoluti all'interno delle loro fattorie e contraddistinti da un fortissimo senso dell'onore e dal disprezzo del denaro. E dunque legittimo chiedersi se la sua traduzione in termini democratici fosse realmente attuabile o non sarebbe stata, al contrario, totalmente trasfigurata dando vita a un governo ancora più dispotico dell'avversato assolutismo. Interrogativo legittimato anche dalle critiche di Burke alla Rivoluzione francese, le quali possono essere ricondotte all'individuazione dei necessari sviluppi tirannici del liberalismo britannico quando fosse stato separato dalla sua tradizione aristocratica e religiosa. Non è certo possibile in questa sede andare oltre in questa riflessione, ma è opportuno domandarsi se l'idea democratica inserita nella prospettiva laicista propria dell'Illuminismo non possa dar vita che al Terrore, quando l'ideale morale ed eroico prevalga, o al Di133


rettorio, quando invece siano gli intéressi economici ad imporsi. Impostazioni senza dubbio opposte e destinate ad affrontarsi eternamente, ma entrambe figlie legittime dei principi delI'89; impostazioni che, confutandosi a vicenda in modo definitivo, senza che nessuna possa superare le critiche che l'altra le rivolge, devono essere riconsiderate criticamente a partire proprio dalle loro origini ideali. Il principio democratico si fonda indissociabilmente con la prospettiva illuminista, laicista e radicale quale si affermò durante la Rivoluzione francese, rivoluzione che proprio per questa ragione non può essere considerata un semplice evento, ma, come De Maistre aveva capito, una vera e propria epoca. Ideali che pochi pensatori sarebbero oggi disposti a sottoscrivere e che da lungo tempo sembravano definitivamente confutati, ma che vengono spesso accettati inconsapevolmente quali punto di riferimento obbligato per ogni riflessione politica. Per capire come mai ciò si sia reso possibile bisogna pensare al fatto che si videro in essi gli unici strumenti atti a combattere il fascismo, interpretato come male radicale e assoluta barbarie, e ciò malgrado l'opposizione del Croce il cui pensiero, non a caso, è stato quasi totalmente dimenticato negli ultimi decenni, ma anche di tanti altri antifascisti come, ad esempio, Vittorio Enzo Alfieri che nel '37 fu esonerato dalla cattedra e dall'impiego statale non perché, caso probabilmente unico in Italia, appartenesse a gruppi politici clandestini, ma solamente perché fedele alla "missione del dotto" e che però dalla contestazione in poi fu tra i professori più insultati, e tacciato di "fascista", in realtà proprio per la sua fedeltà all'antifascismo di allora e cioè l'avversione per i vari ismi: marxismo, positivismo, prammatismo, irrazionalismo, scientismo, sociologismo. Oggi, però, che la storiografia più recente e 134

sensibile sta smentendo queste interpretazioni del fascismo e che lo stesso mito rivoluzionario quale creazione di un uomo nuovo sta crollando inesorabilmente, si impone una riflessione che ci liberi da incrostazioni che sembrano paralizzare lo sviluppo del pensiero. Opera che non può essere in alcun modo considerata reazionaria o antipopolare se si pensa che fu impostata, anche se non conclusa, da un sincero demofilo quale fu il Mazzini. Non si tratta infatti di tutelare un astratto diritto d'azionista, fra l'altro spesso strumentalizzato da coloro che meglio sanno pesare le proprie azioni, ma di garantire la concreta, complessa e articolata libertà delle singole persone. Da queste brevi riflessioni possiamo trarre la convinzione che, dal punto di vista della teoria politica, il principio democratico non sembra fornire tutte quelle garanzie e certezze che una vulgata attualmente imperante sembra conferirgli. Esso è certamente un valore che però non può essere accettato senza beneficio d'inventano. Rimane allora la necessità di capire come mai abbia raggiunto una tale forza da apparire fondamento ineludibile per ogni discussione sulla legittimazione del potere politico, tanto da essere considerato il termine a quo per ogni studio comparativo delle forme di governo, siano esse dell'Africa australe o degli antichi imperi orientali. Altrimenti si rischia di dar luogo a una sterile discussione accademica, certamente necessaria, ma inutile se non riesce a identificare le ragioni profonde e non sempre teoriche, che costituiscono il fondamento delle nostre scelte. Possiamo ricondurre uno di questi motivi a quell'esigenza di giustizia che sembra essere indissolubilmente legata all'ideale democratico: da un lato la tutela dell'interesse dei più ed in particolare dei più poveri e demuniti i qua-


li sono stati troppo spesso sfruttati dalle classi dominanti; dall'altro l'affermazione della dignità umana e il conseguente rifiuto di ogni paternalismo. La democrazia fu considerata da tanti demofili e filantropi dell'Ottocento quale un potentissimo strumento educativo. Essa avrebbe permesso di allargare a parti sempre più ampie della popolazione gli ideali etici e politici dell'aristocrazia. Se non possiamo dubitare della buona fede e degli ottimi sentimenti che animavano, ad esempio, uno Stuart MilI, dobbiamo chiederci se la critica a cui li sottoponeva il marxismo non fosse esatta. A parte l'impossibilità logica di rendere tutti "i migliori", non nascondeva forse un malcelato senso di superiorità che obbligava gli altri ceti ad abbandonare la propria specificità per assorbire, male e in pillole, la cultura borghese considerata quale la Cultura tout court?

Il fallimento di questa prospettiva appare evidente nella scuola, nel luogo cioè dove per molti anni si concentrarono le speranze palingenetiche del laicismo borghese e radicale. Non solo non si è stati capaci di debellare piaghe quali l'analfabetismo, ma all'incremento del livello culturale si è dovuto preferire quello del numero dei diplomi: politica che Gramsci, pensatore che difficilmente potremmo considerare un aristocratico, temeva e che non ha certo favorito la nascita di quegli studiosi di gran nerbo di cui il nostro paese ha senza dubbio bisogno. La scuola ha poi operato uno sradicamento culturale distruggendo autentiche sensibilità popolari e sostituendole con falsificazioni e vuote semplificazioni del sapere dotto, primo passo verso quella massificazione che oggi tanto ci preoccupa. Paradossalmente, ma non troppo, il risultato di quest'opera educativa, che doveva fornire la nuova coscienza critica dei cittadini, ha fermentato quel politeismo che, al di là della re-

torica sul pensiero debole, ha minato le basi stesse della convivenza civile. Si provò poi l'esigenza d'individuare il soggetto sovrano. Inventato lo Stato e contestata la teoria del diritto divino solo il popolo considerato nella sua accezione più ampia, seppure con alcune eccezioni quali i minori, gli interdetti e gli stranieri, poteva fornire l'indispensabile legittimazione all'esercizio del potere. A questa esigenza teorica si aggiungevano motivazioni pratiche. Un sovrano assoluto quale Luigi XIV poteva bensì affermare «L'Etat c'est moi», ma si trattava di uno Stato dai poteri limitati sia dalla tradizione davanti alla quale anche il Re Sole doveva inchinarsi, sia dalle oggettive difficoltà dovute ai limitati mezzi che la tecnologia del Seicento metteva a disposizione del potere politico. I ripetuti fallimenti del Colbert nel tentativo di realizzare l'unione doganale dimostrano il grado di autonomia di cui godeva allora la società civile. Con la Rivoluzione francese, invece, lo Stato si libera dalla tutela della tradizione e sulla scorta di sempre nuovi strumenti tecnici appare nella sua onnipotenza. Solo il coinvolgimento di tutti poteva evitare che si trasformasse in un immenso Leviatano al servizio di specifici interessi particolari. La storia delle costituzioni e dei partiti politici ne è la prova. Purtroppo le garanzie costituzionali si sono spesso rilevate meri strumenti formali incapaci di impedire lo sfruttamento dei gruppi sociali più deboli e i partiti non solo non sono più quei club di notabili volti alla riflessione e all'individuazione di una politica organica e coerente che il Burke ipotizzava, ma nemmeno movimenti destinati ad organizzare e tutelare gli interessi delle masse: essi si sono trasformati in apparati costituiti da ben definire oligarchie con obiettivi propri e spesso poco nobili. La fotografia della realtà attuale che possiamo 135


leggere ogni giorno, malgrado le tante deformazioni a cui gli organi d'informazione ci hanno abituato, sulle colonne dei giornali sembra contraddire le speranze che hanno animato tanti idealisti e ci spinge a chiederci se la democrazia non abbia tradito le proprie promesse. Diventa sempre più comune il domandarsi se in fondo non si stesse meglio quando si stava peggio e se il rimedio non sia stato peggiore del male. Si può allora guardare con nostalgia all"Austria felix", a un regime diretto da gentiluomini illuminati e gestito da una burocrazia intrisa di senso dello Stato e sempre ligia al proprio dovere oppure al vecchio Stato liberale idealizzato dal Croce, Stato che avrà anche avuto i suoi "Ministri della malavita", ma in cui il senso dell'onore non avrebbe mai permesso gli scempi ai quali siamo, purtroppo, ormai abituati. A parte la fallacia di voler ristabilire una situazione che la storia si è già incaricata di confutare, rimane l'insolubile quesito di come trovare oggi una si fatta classe dirigente. A quei tempi lo Stato era infatti considerato quale la massima espressione della razionalità formale, di una razionalità che era imposta dallo stesso senso delle cose e che, come il Weber temeva, avrebbe tutto racchiuso in sé fino ad imprigionare lo stesso uomo. Ci si può però chiedere se questa razionalità non si sia dissolta come neve al sole tanto che, proprio come ricordava Bruno Dente su queste colonne, l'approccio logico funzionale non riesce più a spiegare nemmeno il funzionamento della Pubblica Amministrazione. E innegabile che l'opera di demistificazione di quest'ultimo secolo abbia distrutto l'evidenza e l'oggettività stessa della razionalità, ferendo così mortalmente quel senso dello Stato sul quale si fondava l'imparzialità e il buon operare dell'amministrazione. Ma la reale forza di parole quali democrazia, 136

maggioranza e tutti quei vocaboli che completano la vulgata alla quale siamo oramai assuefatti forse non deve essere cercata nei ragionamenti sopra abbozzati, ma nella semplicità, se non nel semplicismo di formule magiche capaci di risolvere ogni conflitto. Soprattutto in un momento di profonda diffidenza verso ogni ideale inteso quale mera sovrastruttura ideologica di interessi reali, la mancanza di un ben definito, sebbene opinabile, criterio per operare le scelte politiche rende irresistibile la tentazione di rifugiarsi in un criterio "oggettivo" quale il numero. Questa tendenza è stata poi fortificata dal mito della scienza positiva che ha percorso la seconda. metà del nostro secolo e che pone quale fondamento delle proprie ricerche il dato quantitativo. Esso è infatti semplice, apparentemente universale, ma soprattutto è da tutti verificabile o meglio falsificabile. Una volta però impostato il problema in questi termini e dimenticato il carattere divino dell'uomo, difficilmente riconducibile ad una mera somma algebrica, la ricerca di una realtà oggettiva ha dissolto ogni verità e ha dato vita ad un cinismo che considera l'individuo un mero oggetto. I rapporti politici si sono così trasformati in meri rapporti di forza nei quali i più deboli, non potendosi più appellare ad un principio di superiore giustizia, sono immancabilmente destinati ad essere schiacciati. Il recente dibattito sulla democrazia dei due terzi, secondo il quale vi sarebbe un terzo della popolazione che, a causa della sua povertà, è irrimediabilmente emarginato ed impossibil.itato ad inserirsi nel gioco democratico, ne è una prova. Inoltre questa vulgata è ben accettata anche dall'attuale classe dominante, perché, paradossalmente, proprio il principio democratico si è trasformato nel suo migliore baluardo. Una volta che tutti possono essere considerati


responsabili delle scelte effettuate nessuno lo è più, anche se poi la concreta possibilità di determinare il risultato del dibattito si concentra in un numero ben ristretto di mani. Agli altri non resta che la frode patita, senza però la possibilità di scoprirne il trucco. E questa un'evoluzione che nel '22 Piero Martinetti, uno dei rari professori universitari a rifiutare il giuramento al regime fascista perch: «Ho sempre diretta la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare questa esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere», aveva previsto, «Liberiamo l'uomo da tutti i vincoli: avremo la guerra di tutti contro tutti. Imponiamo solo il vincolo di non usare la violenza: l'uomo lotterà con la menzogna e con la frode: la libertà sarà il permesso dato agli uomini senza scrupoli di stabilire il loro dominio sulla moltitudine dei semplici». Dobbiamo allora rassegnarci all"homo bomini lupus" e compiacerci nella macabra descrizione della decadenza dell'Europa trasformata ormai in Occidente, ossia in terra del tramonto? La tentazione è grande e la fuga nel proprio particulare sembra ormai l'unica soluzione per chi non voglia rinunciare alla propria dignità. In realtà l'osservatore attento potrà forse scorgere in questa oscurità quello che non oserei neppure chiamare un barlume di luce, ma che pure esiste. La crisi dello Stato, sia di quello nazionale, come delle federazioni transnazonali, ci costringe a un ripensamento dell'intera teoria politica moderna che dovrebbe coinvolgere lo stesso Bodin, padre dell'idea di sovranità e forse addirittura Marsilio da Padova, la cui netta separazione fra temporale e spirituale, separazione ben diversa dall'indispensabile distinzione, è forse la ragione remota di tanti

dei nostri mali. Ciò aprirà nuovi orizzonti e soprattutto dovrebbe permettere un'analisi più spregiudicata di quella oggi corrente. D'altro canto stiamo forse vivendo, per lo meno in alcuni paesi occidentali, la fine del paradosso di Mandeville. Se effettivamente da un punto di vista economico i vizi privati si sono spesso trasformati in pubbliche virtù, l'utilità marginale di un ulteriore aumento nel benessere materiale sembra inferiore al prezzo che siamo costretti a pagare in termini di tensioni, conflitti, confusione, caos: in una parola in quello che oggi sia usa definire stress. Anche questa nuova sensibilità apre nuove prospettive che potrebbero apparire di grande rilievo per una reimpostazione della riflessione sulle tematiche politiche e sociali. Ma ciò che è forse più interessante è la fine della dicotomia fra un pubblico volto alla soddisfazione degli interessi comuni e un privato esclusivamente concentrato sul proprio conflitto personale. Dopo alcuni secoli 'd'eclisse, rispunta il collettivo che è stato subito ribattezzato "terzo settore". Si tratta di quell'universo in forte espansione quale, per fare l'esempio più appariscente, il volontariato, in cui singoli e organizzazioni agiscono senza scopo di lucro per soddisfare interessi comuni, anche se non necessariamente generali. Se l'espansione di questo settore dovesse continuare, come sembrano auspicare, seppure per ragioni di mero bilancio, gli stessi ambienti governativi, esso potrebbe fornire la fondamenta di una riforma dello Stato capace di restituire alla società civile, così riorganizzata, l'onere della soddisfazione dei così detti beni pubblici, concetto di cui è stata recentemente contestato il valore euristico, ma che comunque permea la sensibilità comune. È facile ipotizzare le numerose e senz'altro valide obiezioni che una tale ipotesi sembra comportare, bisogna però considerare che essa 137


permetterebbe una maggiore e più valida partecipazione dei cittadini, non su generali ed astratti principi, che troppo spesso essi non possono pienamente capire, con i rischi di stanchezza per la politica e di strumentalizzazione che già conosciamo, ma su concreti problemi ai quali sono personalmente interessati e di cui hanno una qualche competenza. Questa decentralizzazione che non sarebbe dunque soio geografica, ma espressione delle esigenze concrete che nascono in ogni istante nella società, libererebbe il massimo organo politico del paese dalle numerose pressioni che tanto favoriscono quel compromesso quotidiano giustamente stigmatizzato dallo Schmitt e gli permetterebbe di dedicare maggior cura alla politica e alla giustizia, tradizionali funzioni del potere sovrano. Infatti, sebbene le moderne costituzioni abbiano rifiutato l'idea del mandato imperativo e stabilito che ogni deputato rappresenta l'intera nazione e non i suoi elettori, e questo non per mere ragioni pratiche, ma per una fondamentale

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esigenza di giustizia, è invece sentimento comune che l'eletto esprime gli interessi di un particolare partito, ceto sociale, sesso o altro. È chiaro che un simile Parlamento non può che essere l'espressione di istanze particolaristiche incapaci di favorire lo sviluppo di un'organizzazione giuridica ed economica che possa stimolare la vita morale del paese e aiutare l'individuo ad affermare la propria eticità. Appare perciò indispensabile una riflessione preliminare sui fondamenti religiosi di ogni comunità umana e la presa di consapevolezza del fallimento ideale di quella "città degli atei" che Bayle, che pur ateo non era, prospettò alla fine del Seicento. Il diritto che sta alla base di ogni comunità, tanto da essere il fattore discriminante fra una società e un semplice agglomerato di persone, non può essere confuso con le troppo spesso ricordate regole del gioco, anche perché esse, nate appunto per disciplinare un gioco, non possono avere alcuna forza morale per coloro che a questo gioco non intendano partecipare.


Notizie dal Gruppo di Studio "Società e Istituzioni"

Revisione e controlli nel settore pubblico: esperienze europee a confronto (Residence di Ripetta, 29 gennaio 1992) Riprendendo il filone di dibattito sulle problematiche legate all'unificazione europea, alle quali il Gruppo ha già dedicato in passato dei momenti seminariali, e che intende trattare d'ora in poi con regolare assiduità, si è tenuta una giornata di studio, organizzata in collaborazione con la Deloitte & Touche, sui problemi che l'evoluzione dell'ordinamento comunitario da una parte, e lo stato di prostazione degli apparati pubblici sul piano dell'efficienza e della morale dall'altra, ci propongono: quale sistema dei controlli sull'uso delle risorse di tutti dobbiamo attivare? Cercando un rinnovamento vero e profondo di mentalità, capacità professionali e motivazioni, sapendo che il "rischio Italia" è anche dovuto alla mancanza di un moderno sistema di controlli. Porre cioè, all'attenzione del sistema, il problema di una collaborazione pubblico-privato in quest'area. Il problema è reale ed importante, ma per questa collaborazione c'è da creare un sistema serio di regole e di ruoli. Si tratta di un tema difficile su cui occorre studiare e discutere.

La questione della spesa sanitaria: definire le prospettive e i ruoli istituzionali (Istituto Superiore di Sanità, 22 giugno 1992)

Il gruppo di Studio, seguitando il dibattito sul tema della spesa sanitaria e farmaceutica già oggetto di un seminario nel dicembre 1989, ha organizzato una tavola rotonda centrata sul problema della spesa sanitaria nei suoi aspetti specifici legati alla particolare situazione del nostro Paese, e più in generale legati alla cosidetta "crisi del Welfare State", presente in tutti i paesi che hanno realizzato sistemi organici di sicurezza sociale. Nei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale, i paesi occidentali hanno sviluppato un complesso sistema di prestazioni sociali che ha conseguito alcuni risultati di grande rilievo. Un'indicazione del successo di queste politiche può essere tratta dalle modalità relativamente poco traumatiche, con cui i paesi occidentali hanno superato la fase recessiva degli anni Settanta. Nell'ultimo decennio, tuttavia, l'espansione delle spese si è scontrata con una flessione della crescita economica e con il connesso aumento dei disavanzi pubblici. Alle preoccupazioni riguardanti il livello della spesa e del prelievo si aggiungevano le perplessità riguardanti l'efficacia delle politiche sociali, per esempio nel ridurre effettivamente le diseguaglianze sociali e la loro capacità di adattarsi all'evoluzione delle esigenze dei cittadini. In questo clima si collocano le numerose proposte di riforma del sistema, dibattute e in alcuni casi attuate, negli anni più recenti in molti paesi dell'area occidentale (S'zii, 139

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Olanda, Francia, Gran Bretagna). In Italia questa linea di intervento va sotto il nome di "riforma della riforma", con il quale si indica l'intento di modificare profondamente le istituzioni definite con la creazione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978. Una tesi largamente diffusa nelle proposte avanzate è che i costi pubblici troppo elevati debbano essere ridotti attraverso la fuoriuscita dal sistema di sicurezza sociale di cittadini il cui reddito sia al di sopra di una certa soglia. Secondo questa linea di pensiero, attraverso lo sviluppo delle assicurazioni private, lo stato potrebbe essere alleggerito di parte anche cospicua dell'onere. In proposito va tuttavia rilegato che un contenimento del ruolo del settore pubblico non necessariamente provocherebbe un contenimento della spesa complessiva. Alla tavola rotonda hanno partecipato: Ernesto Basile, Enrico Boselli, Giuliano Cazzola, Bruno De Leo, Nicola Falcitelli, Andrea Monorchio, Giovanna Pedullà, Gabriele Renzulli, Sergio Ristuccia.

Il riassetto della pubblica amministrazionè: prospettive e ruolo delle amministrazioni tecniche. (Roma, Villa Hiigger, 15 luglio 1992) La tavola rotonda organizzata in occasione della pubblicazione del n. 89 della rivista ha affrontato il problema dei continui tentativi di riformare le amministrazioni pubbliche. E stato presentato lo studio relativo alla riorganizzazione del Ministero dei lavori pubblici. Per la riforma delle strutture amministrative ancora un volta, ci si trova nella condizione di un adeguamento ex-post della macchina amministrativa alle novità legislative che, suppur dopo un processo assai lentò, hanno 140

modificato fini e compiti di un'amministrazione o regole generali di comportamento. Non sono state ancora acquisite quelle culture e quelle tecniche della riforma che considerino temi e problemi dell'attuazione come parte integrante della progettazione stessa della riforma, ovvero, almeno, come azione parallela da pensare fin dall'inizio, cioè da quando si avvia un processo legislativo di riforma. Il circolo vizioso si muove intorno al dogma delle priorità della legge e si produce solitamente attraverso l'inerte attesa che trova giustificazioni nell'incertezza, sempre assai ampia,.che riguarda i tempi e gli esiti di ogni processo legislativo. Restituire all'amministrazione - nei principi e nei comportamenti gran parte di poteri e doveri per l'auto-organizzazione (i doveri innanzitutto di un'autoorganizzazione efficiente) è, dunque, la prima battaglia da vincere. E che non sembra, ancora, facile da vincere. Si è affermata in questi anni la la convinzione che le interrelazioni fra sistema amministrativo e sistema politico-istituzionale "dei rami alti" siano decisive al punto da impedire, senza la grande riforma istituzionale, ogni seria politica dell'Amministrazione. La mancanza di un sistema forte di governo ha fuor di dubbio un peso gravemente negativo nel senso che priva di orientamenti strategici o, almeno, di punti forti di aggancio con la pubblica amministrazione nelle sue molteplici articolazioni operative. Durante l'incontro è stato inoltre presentato un lavoro riguardante la riorganizzazione del Ministero dei lavori pubblici svolto dalla CIDS S.p.a. Alla tavola rotonda tra gli altri erano presenti Andrea Manzella, Sergio Ristuccia, Antonio Laurenti, Enzo Cardi, Roberto Mostacci, Fabio Angelico, Silvio Di Virgilio, Enrico Appetecchia, Ugo De Siervo, Cesare Pinelli, Carmelo Geraci.


Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali Ricordando Renato Treves di Massimo Corsale

Tanti anni fa conobbi un anziano funzionario ministeriale che mi raccontava antiche vicende dell'amministrazione, di cui erano stati protagonisti direttori generali sia del periodo fascista che del periodo post-bellico. Da quete storie emergeva un dato che mi colpì: i direttori in servizio durante il periodo fascista avevano avuto assai maggiore capacità di quanta ne avessero i loro successori, di resistere alle pressioni indebite e alle direttive particolaristiche impartite loro dai ministri dell'epoca. La spiegazione di ciò (abbastanza intuitiva del resto) era vista dal mio "testimone" nella formazione liberale ricevuta dai funzionari che erano in servizio in epoca fascista: formazione di cui non si sono potuti giovare i loro successori (oggi mi permetto di dubitare, peraltro, che non se ne siano realmente potuti giovare anche i funzionari appartenenti alle generazioni postbelliche). Con la morte di Renato Treves sparisce un altro degli ormai pochi superstiti dell'ultima generazione formatasi tra la fine dell'epoca liberale e la resistenza al fascismo nei primi anni della sua ascesa. Resistenza di cui la Torino degli anni '20 era un epicentro: per esempio con l'esperienza della "Rivoluzione liberale", con l'insegnamento di Gioele Solari (che fu maestro, fra gli altri, di Treves e di Bobbio), con il ruolo culturale e imprenditoriale della famiglia Einaudi.

Renato Treves, uomo di formazione profondamente liberale e di fede progressista, ebreo che il fascismo costrinse all'emigrazione per motivi politici oltre che razziali, è stato un tipico esponente di quella categoria di uomini di cultura e di personalità politiche cui l'Italia repubblicana ha tributato rispetto, ma che ha collocato in posizione sostanzialmente marginale al momento delle scelte decisive. LiberaIsocialisti e radicali à la Rossellini o à la Calamandrei non hanno mai avuto seguito di màssa in questo paese. Erano le masse a non capirli, o erano loro che non riuscivano a sintonizzarsi con la realtà sociale e politica del paese? Domanda cui evidentemente sarebbe ozioso cercare di dare qui una risposta. Sta di fatto che molti fra questi intellettuali si sono collocati relativamente in disparte rispetto alla politica, e hanno profuso il loro impegno nel contribuire all'ammodernamento di un paese che, forse, proprio nel difetto di modernità covava la causa del relativo distacco fra élites intellettuali europeizzanti e masse. Fra questi modernizzatori un ruolo particolare ha avuto Treves: uomo di "Giustizia e Libertà", intellettuale di formazione tipicamente centro-europea (come usava tra giuristi e filosofi almeno fino alla seconda guerra mondiale), ma arricchitosi poi di forti suggestioni anglo-sassoni e sopratutto ibero-americane durante la forzata emigrazione. 141


Al principio degli anni '50 egli traduce per la prima volta Kelsen in italiano per Einaudi (si trattava della prima versione della Reine Rechtslehre): e da quel momento la riflessione sulla teoria del diritto in Italia esce dal chiuso del vecchio imperativismo (di cui era ancora acritico portatore il Carnelutti della Teoria generale del diritto del 1950) per avviarsi stabilmente su sentieri europei e oltre. In un paese dominato per mezzo secolo dalla diffidenza ostile nei confronti delle scienze sociali, e della sociologia in particolare, egli assume fin dagli anni '50 e '60 un ruolo di propugnatore del riavvicinamento ai grandi filoni internazionali delle scienze sociali, specialmente di quelle di oltre-atlantico. Ciò gli varrà la conservazione fino all'ultimo di un seggio di primo piano tra i padri della rinascita sociologica in Italia negli ultimi decenni. Ma l'opera cui ha dedicato infaticabilmente gli ultimi decenni (almeno un quarto di secolo) della sua attività è stata la fondazione e l'istituzionalizzazione della sociologia del diritto in Italia e nel mondo. Tra le discipline sociologiche la sociologia del diritto ha avuto, storicamente, una sorte alquanto singolare: comprensibilmente, del resto, essendo collocata proprio sullo spartiacque tra due tipi di sapere sociale così fortemente caratterizzati, di cui uno soio ha dalla sua millenni di storia e di radicamento nelle strutture sociali di potere, ma di ambedue i quali l'uomo contemporaneo non può fare a meno. Nel Settecento, quando ancora i suoi cultori non erano pienamente consapevoli dell'autonomia della prospettiva sociologica, il diritto era al centro della loro attenzione: Montesquieu e Bentham ne sono testimoni. Nel primo Ottocento, da un lato i giuristi si attestano sulle posizioni più rigide del positivismo 142

giuridico ritenendo che la razionalizzazione formale appena realizzata avesse risolto una volta per tutte il problema dell'adeguamento del diritto allo sviluppo della società; dall'altro, i sociologi (pensiamo a St.Simon, ma anche a Comte) puntano a una scienza "naturale" della società e bollano i "legisti" di parassitismo. Tra la seconda metà dell'Ottocento e la grande crisi del '29 le diverse varianti della rivolta contro il formalismo apre spazi vastissimi alla sociologia all'interno stesso del mondo del diritto: e ne nascono le varie correnti della giurisprudenza sociologica e le varie teorie sociologiche del diritto. Nell'epoca del Welfare infine, il ruolo di guida che lo stato e la legge pretendono di assumere nel governare il cambiamento per realizzare la socialità finisce per deprimere tanto il ruolo della scienza sociale (ridotta a suggeritrice di ricette sistematicamente sbagliate per risolvere "problemi sociali"), e per aumentare a dismisura lo spazio lasciato al ceto politico, moderno demiurgo. La nuova sociologia del diritto, quella propugnata da Treves e dai suoi compagni di avventura intellettuale francesi, belgi, olandesi, norvergesi, polacchi ecc., parte proprio dal bisogno di verificare empiricamente gli effetti di una legislazione mirante a governare il cambiamento sociale. Parte quindi dall'idea di migliorare, se possibile, dall'interno dell'ideologia dello stato sociale e di un normativismo che considera il diritto come "variabile indipendente" rispetto al mutamento sociale. Sicché, mentre a tutta prima un accostamento fra Kelsen e la sociologia (i due grandi amori di Treves) potrebbe sconcertare i più, a meglio guardare la proposta trevesiana rivela una sua profonda coerenza interna. Non è necessario perciò, volendo recuperare la lezione di Treves, sforzarsi di dare a Kelsen


una patente (in verità, alquanto surrettizia) di sociologo a tutti i costi. E neppure sarebbe, a rigore, strettamente necessario continuare a credere (come appunto chi scrive assolutamente non fa) nel diritto come variabile indipendente, e nella capacità di governare il sociale e l'innovazione da parte dello stato. Si può infatti far tesoro del richiamo trevesiano a Kelsen per mettere a frutto il vasto spazio da quest'ultimo lasciato alla ricerca sociologica nella ricostruzione completa della Stufenbau. Se non ci si vuole limitare a descrivere come i passaggi da un "grado" all'altro dell'ordinamento escano dall'indeterminazione originaria, allora occorrerà utilizzare la teoria sociale elaborata dai sociologi per la comprensione (verstehn in senso weberiano) dell'agire dei concreti soggetti sociali coinvolti in questo processo. In questa prospettiva, la sociologia del diritto può da un lato collegarsi strettamente con l'analisi delle politiche pubbliche. E dall'altro lato, può recuperare gran parte del grande patrimonio potenziale della giurisprudenza sociologica, liberata dalle fumisterie degli antiformalisti fIn de siècle. In fondo, a un convinto sostenitore del relativismo e del prospettivismo filosofico di Ortega y Gasset quale era Renato Treves, anche questo modo di usate la sua lezione non dovrebbe dispiacere.

Processi decisionali. Obiettivi di politica estera e preoccupazioni di politica interna nei rapporti bilaterali tra Stati Uniti e Italia (Castelgandolfo, Villa Montecucco, 22/24 aprile 1992) Se fosse stata gestita con maggiore sensibilità e una più approfondita conoscenza degli interessi in gioco, la vicenda dell'Achille Lauro

(la nave da crociera italiana sequestrata da un commando palestinese nell'ottobre 1985) non avrebbe generato tra Italia e Stati Uniti quella crisi che, allora, rischiò di compromettere seriamente.i loro rapporti. Questa è stata una delle conclusioni cui è pervenuto un ristretto gruppo di alti funzionari ed esperti dei due paesi che si sono riuniti a Castelgandolfo, a fine aprile, per discutere l'attuale stato di salute e le prospettive future delle relazioni italo-americane. La discussione ha preso spunto da una ricerca promossa dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (CSS) e alla quale hanno contribuito esperti americani, coordinati da William B. Bader, già direttore della segreteria della Commissione per gli affari esteri del Senato americano. Alla riunione organizzata in collaborazione con l'Istituto Affari Internazionali (IAI), svoltasi a porte chiuse, ma aperta alla stampa nella giornata conclusiva, hanno partecipato Rozanne Ridgway, già Sottosegretario per gli affari europei al Dipartimento di Stato, e altri funzionari americani e italiani che, all'epoca del sequestro dell'Achille Lauro, occupavano incarichi al più alto livello nelle due Amministrazioni e che furono direttamente coinvolti nelle decisioni politiche e operative relative a quel caso e alle successive vicende che portarono, tra l'altro, al bombardamento da parte degli americani di Tripoli e Bengasi. La riunione di Castelgandolfo ha quindi rappresentato una sorta di "hearing", che ha permesso di raccogliere testimonianze importanti e di formulare valutazioni significative. Se ci fossimo resi conto che la principale preoccupazione italiana, nella decisione di non consegnare a Washington il leader palestinese Abbu Abbas, era di non compromettere la posizione di Mubarak e quindi i precari equilibri politici di quella prte della regione mediterranea, probabilmente ci saremmo 143


comportati diversamente, hanno osservato altermine della riunione alcuni partecipanti americani.

Indicatori per l'educazione: nuove tendenze di politica dell'educazione e di gestione delle istituzioni. (Roma, Isituto dell'Encilopedia Italiana, 19 maggio 1992) Il seminario di studio e di aggiornamento organizzato dal CSS, aperto ad amministratori e responsabili della gestione delle istituzioni educative ha avuto come oggetto la tematica degli "indicatori", che si collega ai nodi centrali della politica dell'educazione nel nostro

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come negli altri paesi sviluppati, quali la valutazione scolastica, l'efficacia della gestione del sistema, la verifica dell'impatto delle riforme scolastiche, la valutazione della burocrazia preposta al sistema scolastico nella sua interazione con le scuole e il personale, l'applicazione dei multimedia interattivi alla gestione delle politiche educative. In particolare sono stati illustrati i risultati della prima fase del progetto OCSE-CERJ sugli "indicatori per l'educazione", ed alcune esperienze straniere di valutazione scolastica e di valutazione della gestione del sitema. Hanno partecipato tra gli altri Noberto Bottani, Carla Fasano, Giorgio Alulli, Alberto Zuliani, Luciano Benadusi, Clotilde Pontecorvo, Renzo Bernardi.


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"BAILAMME" rivista di spiritualità e politica SOMMARIO DIZIONARI LA FASE LA PIETA

ESPERIENZE

SCENARI DEL SAPERE LETTURE MEDITAZIONI E PREGHIERE LETTERE E RECENSIONI

DE DOCTRINA SOCIALI ECCLESIAE di Edoardo Benvenuto LEVIATHAN IN INTERIORE HOMINE di Mario Tronti

. pag.

LA DOMENICA DELLE SALME di Giuseppe Trotta .......... RICORDANDO 12 - Un prete parla del prete di Romana Guarnieri ...................................... PRETE di Giuseppe De Luca .............................. MARGHERITA E IL SUO LIBRO di Luisa Muraro ...........

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IL TU DELLA PREGHIERA, L'IO DI PIGMALIONE di Enrica Salvaneschi ......................................

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«CIASCUNO SECONDO QUELLO CHE È CREDE CHE SIANO GLI ALTRI» dai 'Racconti di un pellegrino msso' .............

I DEMOCRATICI CRISTIANI ALLA COSTITUENTE: EGIDIO TOSATO di Enzo Balboni ......................... REALTÀ STORICA E PROBLEMI TEORICI DELLA DEMOCRAZIA NEL PENSIERO DI FRANCO RODANO di Vittorio Tranquilli ...................................... LUIGI PAREYSON (1918-1991) di Marco Ravera

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UN GOLEM DALLA TERRA E NEL TEMPO di Giacoma Limentani .....................................

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LA SAGGEZZA DEL GOLEM di Stefano Levi Della Torre .....

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N° DIECI - DICEMBRE 1991

Abbonamento a 4 numeri L. 60.000. Versamento da effettuare su C.C.P. N° 18735209 (specificare causale del versamento: Abbonamento a 4 numeri della rivista "BAILAMME") intestato a Editoriale Del Drago, Via Pascoli, 60, 20133 Milano. Ufficio abbonamenti tel. 0215393790.


democrazia e diritto trimestrale del centro di studi e di iniziative per la riforma dello stato

Cantaro, Questo numero

3

DENTRO LA POLITICA Barcellona, Lo spazio della politica fra nomos ephisis

AFFARI E POLITICA Terzi, Politica come tecnica o come progetto: alle radici del consociativismo Tocci, Per una critica del potere politico Cazzola, La dissoluzione del sistema Italia Barrera, I partiti in crisi: appunti disordinati per una terapia Rullani, Etica e regole per l'economia d'impresa Salzano, Deregulation urbanistica a Tangentopoli Fiasco, Appalti e criminalità de gli affari Bruti Liberati, Tangenti e ruolo della magistratura Grosso, I reati contro la pubblica amministrazione Pinelli, Responsabilità e irresponsabilità del potere amministrativo Turone, Stampa e potere: un breve excursus nella storia dell'Italia unitaria

QUESTIONE MORALE E CULTURE POLITICHE Tortorella, Il ((senso» della politica Landolfi, Tra morale e politica De Rita, «Affarpolitica»: gliff'etti di una prassi politica Bertinotti, I mali del sindacato

IL SAGGIO Serra, Fonti liberali e fonti tradizionaliste nella filosofia politica di

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i dirí«tti deiruom o cronache e battaglie organo dell'unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo direttore Mario Lana EDITORIALE

RUBRICHE.

Consiglio d'Europa

Mario Lana

a cura di Maurizio de Stefano

SAGGI

Lavoro

Maastricht e gli articoli 9 e 33 della Costituzione italiana

a cura di Silvana Arbia

Enzo Casolino

a cura di Umberto Randi

L'Europa di Maastricht dopo i referendum danese e irlandese

a cura di Mario.Lana

Giampiero Orsello

Anticronache delle nostre libertà

La Corte europea dei diritti dell'uomo e i paesi dell'Europa dell'Est Carlo Russo

Salute Lo straniero e la Pubblica Amministrazione a cura di Vito Mazza relli

Parlamento Italiano a cura di Salvatore Orestano

MINORI: GIORNALE A PIÙ VOCI

Ciò che manca nella Convenzione di New York Silvana Arbia

L'arruolamento dei bambini

MOVIMENTI E ASSOCIAZIONI

Associazione solidarietà rifugiati immigrati (ASRI) Movimento Gaetano Salvemini

Mariangela Cecere

Una convenzione internazionale sull'adozione dei minori. Questioni fondamentali Giuseppe Magno

L'utilizzazione dei minori in attività criminali Federico Palomba

Verso lo Statuto del minore Fausto Pocar

I minori e la pubblicità Lucia Tria

INTERVISTE

Con il Ministro degli Esteri delI'Uruguay Hector Gros Espieli a cura di Maria Cristina Fra Amador

Con il Ministro dell'Ambiente Carlo Ripa di Meana a cura di Andrea Di Porto

ATrUALITA

L'inquietante divorzio cecoslovacco Alberto Benzoni

LE

.Depenalizzazione: un appuntamento da non mancare Nicola Maria de' Angelis

Il GovernoAmato e i diritti dell'uomo Eugenio Ficorilli

DOCUMENTI

Un appello del Presidente della Repubblica Messaggio del Presidente della Repubblica alle camere del 28 maggio 1992 Risoluzioni n. 770 e n. 771 del Consiglio di Sicurezza sulla Bosnia Erzegovina Risoluzione straordinaria della Commissione dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite sulla situazione nella ex-Jugoslavia Risoluzione della Sottocommissjone sulla prevenzione della discriminazione e sulla protezione delle minoranze L'ONU sull'uso strumentale di bambini in attività delittuose Art. 24 del Patto sui diritti civili e politici: osservazioni generali Conferenza internazionale sul lavoro: Convenzione 171, Raccomandazione 178 e Protocollo sul lavoro notturno Carta dei diritti del cittadino malato Documento di trecentotrentasette Parlamentari Italiani sul regime degli Ayatollah Proposta del C.S.M. sulla depenalizzazione

Decreti anticrimine e crimini antidecreto Vito Mazza relli

i

Alcune considerazioni sul decreto "antimafia" Michele Saponara

In ricordo di Luigi Cavalieri

di Fernando Della Rocca di Umberto Randi


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queste. ìtìtuzìoni La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato.

I contenuti - Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di no stro interesse. - I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'»Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, sono gli argomenti trattati negli ultimi numeri. - Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers.

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E in preparazione un indice generale della rivista a testimonianza di-circa venti anni dicostante presenza nel panorama editoriale italiano.


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Jean Raynaud Le «Chambres Regionales des Comptes»: caratteri di una innovazione istituzionale volumi in preparazione: R.G. Penner, A.J. Abramson Le cinghie rotte della borsa (ovvero la storia del bilancio federale USA dal 1974 ad oggi)


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L. 30.000 Via Ennio Quirino Visconti, 8 - (scala Visconti,int. 5-6)- 00193 Roma


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