Queste istituzioni 94

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Anno XXI - n. 94 - Trimestrale (aprile-giugno) - spedizione in abb. postale gr. IV/70%

questeldituzioni Quale classe dirigente amministrativa è da salvare?

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Ragionare di democrazia Robert Putnam, Valerio Onida, Mattei Dogan, Alessandro Pizzorno, Antoni Kaminski, Jacques Vandamme, Peter Bogason, Maria Rosaria Ferrarese, Robert Leonardi, Gianfranco Bettin, Sergio Lariccia, Luciano Cavalli, Donatella Della Porta, Fabio Luca Cavazza, Francesco Sidoti, Bernardino Casadei, Girolamo Caianiello Ripensare l'urbanistica a cinquant'anni dalla legge Nicolò Sava rese, Paolo Urbani, Federico Cempella, Maurizio Coppo, Lorenzo Bellicini, Francesco Karrer, Federico Spantigati, Sandro A morosino, Gianluigi Nigro, Michele Talia Le scienze sociali e l'Europa Fondazione Europea della Scienza, Consiglio di Ricerca Economica e Sociale Taccuino

n. 1 14 1993 (

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questslituzuoi rivista del Gruppo di Studio Società e Istituzioni Anno XXI n. 94 (aprile-giugno 1993)

Direttore: SERGIO RIsuCcIÀ Vice Direttoré: FRANCESCO SIDOTI Comitato di reaazione- ANTONiO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, DANIELA FELISINI,

- GIIJLIA MARJÀNI GIoRGIo PAGANO, MARCELLO Roìi, CRISTIAÌsO A. RISTUCCIA,. STEFANO SEPE, VINCENZO SPAZIANTE

Res onsa bile redazione: BERNARDINO CASADEI Responsabile organizzazzoné: GIORGIO PAGANO Direzione e Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8 - 00193 Roma Tel.3916/3215319-Fax 3215283 Periodico iscrittoal registro della stampa del.Tribunale di Roma al n. 14.847(12 dicembre 1972) Responsabi/e:GIÒvANNI BECHELLON1 Editore: QUES.I.REsrl QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN: i121-3353 Stampa: L'ed srI. - Roma Finito di stampare nel mese di giugno 1993

Associato all'Uspi: Unioné Stampa Periodica Italiana•


N.94 1993

Indice

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Quale classe dirigente amministrativa è da salvare?

Ragionare di democrazia 3

Il futuro del modello democratico occidentale Robert Putnam, Valerio Onida, Mattei Dogan, Alessandro Pizzorno, Antoni Kaminski, Jacques Vandamme, Peter Bogason, Maria Rosaria Ferrarese, Robert Leonardi, Gianfranco Bettin, Sergio Lariccia, Luciano Cavalli, Donatella Della Porta, Fabio Luca Cavazza, Francesco Sidoti, Bernardino Casadei, Girolamo Caianiello

Ripensare l'urbanistica a cinquant'anni dalla legge 27

Pianificazione e valutazione Nicolò Savarese

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Riforma dell'urbanistica o attuazione della disciplina Paolo Urbani

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Il ruolo dell'amministrazione centrale Federico Cempella

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Piano, risorse, territorio Maurizio Coppo


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Piano o progetto: tra complessità, rapidità del mutamento e competitivita economica Lorenzo Bellicini

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La costruzione di scenari Francesco Karrer

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Il piano di interesse nelle periferie Federico Spantigati

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Urbanistica, cultura giuridica e prassi amministrativa Sandro Amorosino

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Il superamento della visione autoritativa della pianificazione Gianluigi Nigro

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Le prospettive di riforma della legislazione urbanistica tra il peso della tradizione e gli impulsi all'innovazione Michele Talia

Le scienze sociali e l'Europa 91

Le scienze sociali nel contesto delle Comunità Europee Fondazione Europea della Scienza Consiglio di Ricerca Econòmica e Sociale

Taccuino 131

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I nostri temi...! Gentile e il francobollo Umberto Serafini


Quale classe dirigente amministrativa è da salvare?

Tante volte questa rivista ha sostenuto l'idea che la "questione amministrativa", la questione cioè del buon andamento delle pubbliche amministrazioni e del radicale mutamento di molte sue parti e dei comportamenti burocratici, fosse questione cruciale. Lo abbiamo sostenuto - il lettore di lunga data ce ne darà atto - con profonda insofferenza, qualche volta con vero e proprio disprezzo, per la ripetizione meramente evocativa e conformista del tema. E nostra ripetuta convizione che risolvere la questione amministrativa non si. gnifica soltanto emanare norme, quand'anche queste riescano ad essere buone norme, com 'è sempre piu' raro. Significa avere una strategia dell'attuazione, cioè la capacità di far emergere energie sopite, ravvivare la percezione della realtà con metodi sperimentati di "educazione permanente", riconsegnare queste energie all'etica delle responsabilità. Si può continuare in varie direzioni, ma I enumerazione di cio che e necessario non e mai un discorso convincente quando si rimanga sulle generali. I fatti e gli uomini vanno sempre colti e giu. dicati nella loro concretezza. Che è concretezza di interessi ma anche di responsabilità. In una prospettiva di realistica ricognizione di problemi sorge ora imperiosamente, dopo le vicende di Tangentopoli, una ben precisa questione: c'è una classe dirigeue amministrativa da salvare? Intendo, beninteso, per classe dirigente aministrativa nòn solo l'insieme dei dirigenti amministrativi in senso stretto, ma anche l'insieme di tutti coloro che nell'ambito del servizio pubblico svolgo. no professioni che contano e pesano sull'andamento della pubblica amministrazione. Pensiamo ai magistrati contabili o a quelli amministrativi. La questione si pone inevitabilmente e senza facili vie d'uscita. Non solo per il grado di pervasività e di generale accettazione che le logiche spartitorie hanno avuto anche all'interno dell'amministrazione e della classe dirigente amministrativa, ma per la sostanziale disponibilità che questa classe e la sua cultura hanno dimostrato nel rendere servizi, consapevolmente e inconsapevolmente, ad una classe politica mediocre e prepotente. Tanto peggio se questi servizi sono resi nel mugugno, nella disistima a mezza voce, in una presa di distanza piú apparente III


che reale, nelle false dichiarazioni di impotenza e così via. Si pensi alla tradizionale mancanza d'iniziativa dei funzionari pubblici, alloro rimettersi alle "superiori determinazioni ", al porre problemi piz che a trovare soluzioni. Ovvero, per converso, alla normale arroganza dei non molti "decisionisti" e alla loro normale idiosincrasia a rendere conto del loro operato. E che dire di quegli "uomini del controllo" che difendono, per esempio, il controllo preventivo di leggittimità e, pretendendone magari un rafforzamento che condurrebbe all'assurda e antistorica condizione di un 'amministrazione pubblica trasformata stabilmente in un"amministrazione controllata" quasi minorile, in realtà non hanno fatto che offrire argomenti per mantenere intanto un lepido sistema di "omertà legale" come già altre volte l'abbiamo chiamato? Invece di impegnarsi nell'analisi seria dei modi concreti di esercizio dei compiti ammInistrativi e dell'uso concreto (costo per costo) delle risorse pubbliche. La partitocrazia, e in essa i partiti di governo, hanno insuperate e insuperabili responsabilità storiche. Ma non sono gli unici colpevoli. Era parso, per un po che la classe dirigente industrale potesse tirarsi indietro e scaricare tutto sulla classe politica. Il tentativo è stato ingenuo e talora assolutamente maldestro. Anche per la classe dirigente amministrativa lo scarico di responsabilità sarà difficile ed è ingenuo pensare di scamparvi. Al di là delle vicende giudiziarie. Non appena un nuovo sistema politico sarà costituito, la prima questione non sarà "la riforma amministrativa" ma "quale classe dirigente amministrativa ' Questo sara il banco di prova decisivo per dimostrare capacità di governo. Non si tratterà ovviamente di procedere ad epurazioni impossibili e senza senso, ma di verificare fino in fondo e senza timidezze la statura e la capacità delle classe dirigente amministrativa. C'è un testfondarnentale: si veda chi accetterà in pieno, senza reinventare facili coperture, le regole della responsabilità dirigenziale. Responsabilità per i risultati, che entro i limiti del possibile sPno da raggiungere entro tempi attesi e responsabilità per la correttezza dell'azione amministrativa. Dimostrando di avere l'umiltà di imparare .accapo un mestiere, tutte le volte che sarà necessario. Non è test per mediocri. Applicandolo seriamente le energie migliori potranno farsi avanti.

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queste istituzioni.

Ragionare di democrazia

Quale continuazione del colloquio diretto due anni fa da Giovanni Sartori sul tema Quarant'anni di democrazia dopo la seconda guerra mondiale, il Gruppo di Studio Societì e Istituzioni, con il sostegno della Cassa di Risparmio di Firenze e della Fondazione Europea della Cultura, ha organizzato a Cortona il 3 ottobre 1992 un seminario internazionale per cercare di individuare Il futuro del modello democratico occidentale. Con l'esaurirsi dell'entusiasmo che sembrava ben lecito dopo i grandi eventi del 1989, diventa sempre piì urgente cercare di individuare le sfide vere, quelle che ci toccano tutti e da vicino, con cui dovremo confrontarci nel prossimo futuro. Inoltre, al di lì delle accademiche dissertazioni su un 'eventuale fine della storia, è opportuno cercare di capire se il sistema democratico sia un modello universale, valido per ogni tempo ed ogni latitudine, o invece presupponga. quella "virti'i politica" di cui parlava, nel Settecenio, il Montesquieu e che sembra oggi essersi persa. L 'incontro di Cortona è servito a rafforzare la consapevolezza che sia necessario un forte spirito civico per garantire lo sviluppo della nostra societì. Lungo questa linea si arriva alla convinzione che. la societ€ì sia qualcosa di più di una


semplice somma d'interessi e che, dunquÊ, sia necessario confrontarsi con i fondamenti ultimi dell'idea di democrazia. Se infatti, come acutamente ha notato Girolamo Caianiello, il consenso dei governati non è sufficiente a scaricare le responsabilitLÏ dei governanti, chi garantisce, al di LÏ delle contingenze storiche, per le generazioni che verranno?

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Il futuro del modello democratico occidentale a cura di Bernardino Casadei

La democrazia tra sfiducia e disincanto

ROBERT PUTNAM

Il quesito a cui è urgente cercare di of frire una risposta è il seguente: perché, in un momento in cui in molte parti del mondo assistiamo ad una rinascita della democrazia e osserviamo un cresciuto interesse per i valori e le istituzioni elaborati dall'esperienza occidentale, proprio in questi Paesi c'è un senso sempre più profondo di disincanto nei confronti del funzionamento delle istituzioni democratiche? In particolare è ironico osservare come proprio negli Stati Uniti, Paese che è recentemente entrato nel terzo secolo di vita democratica, sia diffusa la sensazione che questo esperimento si stia alterando. Tale sensazione sembra però accomunare anche le nazioni del vecchio continente e, fra queste, l'Italia. Questa delusione, che è stata esémplificata dagli eventi insoliti accaduti durante l'elezione presidenziale americana dell'anno passato, con la candidatura, il ritiro ed infine la ricandidatura di strani personaggi quali Ross Perot, si inse-

risce in un processo di lungo periodo che risale a venti, trenta anni fa. A quell'epoca i sondaggi indicavano come la maggior parte degli americani avesse fiducia nell'operato del proprio governo. Oggi, al contrario, solo un quarto dei cittadini statunitensi condivide questa opinione. Ciò poi che è più grave è che tale sfiducia abbia coinvolto soprattutto i giovani, il cui interesse per la politica è notevolmente scemato. La militanza è diminuita e scarso è il livello di identificazione con i principali partiti. Un'analoga' evoluzione si è verificata anche in Italia e in Paesi, per altro così diversi, come Israele, la Svezia, la Gran Bretagna, la Germania e il Giappone. Indipendentemente dai valori assoluti dei vari indicatori, certamente diversi per ogni Paese, quel che importa è constatare che le linee di tendenza sono invece comuni a tutti. Si possono cercare cause specifiche, magari con nome e cognome, che giustifichino in ogni singola realtà tale evoluzione; è però importante segnalare come il livello di fiducia sia calato negli Stati Uniti, anche rispetto al momento culminante della guerra del Vietnam o in pieno scandalo Watergate. 3


VALERIO ONIDA

ALESSANDRO PI2zORNO

È opportuno però distinguere fra sfiducia nel governo in senso stretto, sfiducia nel sistema politico complessivamente considerato e sfiducia nella politica come strumento per migliorare le condizioni della gente. In Italia probabilmente non è crollata la fiducia nel governo, quanto quella nel sistema politico nel suo complesso. Non necessariamente poi questa sfiducia coinvolge la stessa politica. I referendum hanno mostrato un'accentuata partecipazionè, mentre l'insorgere di nuove forze politiche, come la Lega, indica che gli italiani credono ancora nello strumento politico per eleggere i propri rappresentanti e manifestare il desiderio di cambiare un sistema nel quale non hanno più fiducia.

In realtà vi sono tre problemi di fondo che il sistema democratico deve oggi affrontare: la governabilità, il grado di partecipazione e di manifestazione del consenso e l'equità del sistema. Per quel che riguarda il primo punto occorre considerare quella che comunemente viene definita "la miopia della democrazia". I regimi democratici tendono infatti a rispondere alle domande immediate e non hanno quella capacità di distacco indispensabile per riconoscere le conseguenze di più lungo periodo delle politiche intraprese. Così, ad esempio, negli Stati Uniti, durante l'anno delle elezioni, il governo in carica introduce artificiosamente nell'economia un'imponente massa monetaria allo scopo di ottenere un maggiore consenso. Le conseguenze sono però gravi sia sul piano nazionale, che su quello internazionale. L'inflazione degli anni Settanta, prima che della crisi petrolifera, è stata il frutto delle misure di Johnson nel '66 e di Nixon nel '72. Ciò dimostra come gli Stati Uniti soffrano per un eccesso e non per un difetto di democrazia e che questo induce a cercare di offrire un'immediata risposta ai desideri dell'elettorato, anche quando questi risultino essere in realtà ben miopi. Così la convinzione che si debba votare in funzione del proprio grado momentaneo di soddisfazione accentua al massimo i rischi di incompetenza che contraddistinguono il modello democrati-

MATTE! DOGAN

Non è poi necessariamente detto che una diminuzione della partecipazione elettorale sia un segno di debolezza e di decadenza del sistema politico. Essa infatti può essere frutto sia dell'apatia, che di un'indifferenza dovuta alla constatazione che in fondo tutto va bene e che, non essendoci grosse differenze fra i partiti in competizione, non vi sono rischi per la tutela delle libertà democratiche.

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Il singolo cittadino non è infatti in grado di valutare la situazione economica e gli effetti di una determinata politica, problemi che sono evidentemente estremamente difficili e complessi, anche per gli addetti ai lavori. Per questo proprio la dipendenza dei governi attuali dalle passioni dell'elettorato può essere considerata una delle distorsioni più gravi della democrazia. Un altro problema è quello della selezione delle competenze, selezione che si rivela sempre più ardua, dato che la dissociazione fra l'immagine e l'effettiva competenza non fa che ampliarsi. La competenza politica viene così sostituita dalla capacità di raccogliere denaro e dall'attitudine a saper sfruttare i mezzi di comunicazione di massa, evoluzione questa che è legata alla caduta del dibattito delle idee. Per queste ragioni, la funzione classica del partito politico, quella cioè di raccogliere un flusso regolare di competenze, diventa difficile. Oggi invece assistiamo all'emergere improvviso di nuovi leaders che sorgono dal nulla e i politici diventano, in realtà, degli imprenditori le cui caratteristiche fondamentali sono la capacità di raccogliere finanziamenti e di circondarsi di un gruppo di amici personali. I partiti vengono così sostituiti da dan, potenti sì, ma effimeri. Per questo la fiducia nel governo è un indicatore molto insufficiente: essa nulla dice sulla reale positività dei provvedimenti presi. Un ultimo aspetto che è importante notare è come in America le carriere politiche siano strettamente vincolate dalle ricCO.

chezze personali dei candidati: se non si è ricchi non si può entrare in politica. Per quel che concerne la disuguaglianza è opportuno ricordare che essa aumenta con l'incremento dell'istruzione. C'è molta più disuguaglianza tra i laureati che.non tra quelli che hanno un livello di studi inferiore. Ciò che invece funziona negli Stati Uniti è quella che potremmo definire la "microrappresentanza", l'alto livello di partecipazione nella politica locale e l'accesso individuale alla legge. Quest'ultimo è un aspetto molto importante perché è almeno parzialmente responsabile della trasformazione della rappresentanza collettiva. L'espansione dei diritti individuali, la trasformazione di istituti quale quello della famiglia, un tempo impermeabili ad influssi esterni, hanno permesso a molti di raggiungere il proprio scopo in modo individuale senza ricorrere a strumenti politici, con un aumento vertiginoso del potere del giudiziario. E questo un aspetto particolarmente rilevante in tutte le democrazie avanzate tanto che non è raro che il voto politico, in particolare negli Stati Uniti, sia in funzione delle nomine che il Presidente farà alla Corte Suprema.

ANTONI KAMINSKI

È importante cercare di definire quel che noi intendiamo con crisi dei partiti. Se essi sono in grado di far eleggere i propri candidati possiamo veramente 5


parlare di crisi dei partiti o non è forse più opportuno usare l'espressione crisi della democrazia? Penso che ciò sia legittimo dato che ormai in ogni Paese assistiamo al consolidarsi di forme oligarchiche veramente troppo preponderanti. Un altro punto su cui penso sia opportuno soffermarsi riguarda il problema della spesa pubblica e le responsabilità che essa impone. Se sono d'accordo con chi sottolinea che la rivoluzione keynesiana poteva giustificare la spesa statale in nome di un maggiore equilibrio nello sviluppo dell'economia, essa però imponeva di risparmiare nei successivi periodi di sviluppo. L'esperienza di questi ultimi decenni ha però mostrato una scarsa responsabilità dell'autorità statale che ha permesso che il bilancio pubblico aumentasse e non ha mai avuto il coraggio di ridurlo, anche quando ciò era necessario, con i risultati che oggi tutti possiamo constatare.

JACQUES VANDAMME

La crisi del nostro sistema politico è testimoniata anche dal distacco fra le scelte dei leaders e quelle della popolazione. I responsabili politici dei Dodici hanno firmato il trattato di Maastricht e la maggior parte dei Parlamenti lo hanno ratificato senza eccessive difficoltà. Ora, mentre una forte maggioranza nel Parlamento danese e tre quinti dei deputati e senatori francesi erano favorevoli all'approvazione del trattato, in realtà metà della popolazione si è dimo6

strata contraria durante i referendum. E possibile che questa dissociazione sia un mero frutto dell'ignoranza, ma rimane il fatto che i rappresentanti di queste nazioni non sono stati capaci di spiegare all'opinione pubblica le ragioni delle loro scelte. E opportuno ricordarsi anche come, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo assistito allo sviluppo del concetto di democrazia sociale ed economica come integrazione dei diritti politici conquistati nel secolo scorso. Questo ha però portato ad un enorme sovraccarico per lo Stato e le nostre istituzioni non sono oggi più in grado di rispondere in modo adeguato a queste aspettative.

PETER BOGASON

Nel mio Paese, la Danimarca, la crescita del settore pubblico è stata il frutto di due ragioni e mezzo. Da una parte lo Stato si è fatto carico di molti servizi. Anche se non vi sono state nazionalizzazioni, l'amministrazione pubblica ha finito per occuparsi dei giovani, dei vecchi, dei servizi, un po' come accadeva anche negli altri Paesi europei. Il secondo motivo che ha favorito tale crescita deve essere cercato nella disoccupazione. Dopo il '73 e il '79 c'è stato un aumento ditale fenomeno ed il governo ha sentito il dovere di risolvere il problema. 11 terzo fattore, o il mezzo fattore come l'ho definito all'inizio, è il problema di dover finanziare tutti questi interventi che hanno costretto il governo a


contrarre un debito pubblico enorme di cui oggi dobbiamo pagare gli interessi. Oggi, malgrado si stia sviluppando un movimento che cerca di opporsi alla crescita dell'influenza statale, tale crescita è in realtà aumentata, perché tutti si sono trovati concordi nella necessità di tutelare il reddito raggiunto. Così, finché ci sarà disoccupazione nella proporzione attuale, finche' ci sarà una struttura familiare che impone la presenza di imponenti servizi pubblici sarà impossibile ridurre l'incidenza dello Stato con tutti i problemi che ciò comporta.

MATTE! DOGAN

Questa nuova disoccupazione è in realtà frutto dell'evoluzione tecnologica e durerà per molti anni. Non si tratta di ùn fenomenociclico o temporaneo, ma di una realtà profondamente 'radicata che coinvolge tutti i Paesi democratici. Accanto a tale problema un'altra caratteristica comune a questi Paesi è la crisi finanziaria del sistema di assistenza statale. I costi dello stato sociale aumentano più rapidamente del PIL e di conseguenza la proporzione assorbita dal governo, per essere poi devoluta alle spese sociali della Nazione, aumenta. Infine diffusa è la sfiducia nella classe dirigente, sfiducia che è comune a tutti i Paesi. La maggior parte dei cittadini britannici, per esempio, non si fida, più della Camera dei Comuni, cioè della madre di tutti i Parlamenti.

MARIA ROsARIA FERRARESE

Nella crisi dei sistemi democratici è da tenere in conto anche la nuova sfida che oggi viene posta alle istituzioni politiche dalle esigenze dell'economia. La stessa unione europea, che era stata pensata e presentata come momento di solidarietà politica e ideale tra i popoli del vecchio continente, ha invece mostrato un nucleo duro di carattere economico, che determina esiti tutt'altro che solidaristici e procedure squisitamente tecniche ed élitarie, e che è causa di possibile accentuazione delle disuguaglianze sia negli Stati che tra gli Stati. Le esigenze del mercato configurano una grossa pressione sulle istituzioni democratiche, con conseguenze che potrebbero portare persino a qualche considerevole ridefinizione nell'ambito delle teorie costituzionali. Basti pensare al ruolo crescente di istituti quali le banche centrali, che erano ignorate nelle tradizionali geografie dei poteri, disegnate nei trattati di diritto costituzionale. Sebbene le esigenze della "razionalizzazione" economica siano un fenomeno non nuovo (basterà, a tal proposito, pensare all'influenza che il liberismo esercitò durante il secolo scorso) esse ci inducono a concentrare l'attenzione su problemi di filosofia sociale. Così, se per la teoria democratica la politica era il regno della libertà e della possibilità di forgiare. i fini di una società, per un'impostazione che accetti il predominio dell'economia occorre invece privilegiare la nozione di necessità: le leggi 7


dell'economia, come quelle della fisica, non possono essere modificate e devono essere accettate nella loro inesorabilità. Naturalmente non è difficile scor: gere dietro questa presunta necessità il gioco degli interessi. La crisi della rappresentanza, d'altra parte, oltre a toccare le istituzioni politiche, trova espressione anche rispetto al funzionamento di altre istituzioni statali. Buona parte delle trasformazioni che investono oggi la magistratura in Italia derivano dal tipo di problemi che vengono portati a risoluzione di fronte ai magistrati. Se una volta il processo era concepito in una dimensione strettamente individuale e privata, ora il tribunale è un luogo in cui si portano problematiche di grande rilievo sociale. I processi sulla corruzione politica o contro la criminalità organizzata hanno un significato assolutamente straordinario e trattano materie intrinsecamente politiche. Il potere giudiziario finisce così per svolgere funzioni parapolitiche che in realtà trascendono i suoi compiti istituzionali.

Potenzialitì e limiti delle riforme istituzionali

ROBERT PUTNAM

Gli scienziati politici troveranno naturale cercare in opportuni mutamenti istituzionali i rimedi per tali mali. Ed in realtà vi è un filo conduttore che acco8

muna tutti questi Paesi ed è la diminuita responsabilità proprio delle istituzioni. Per motivi diversi, i cittadini hanno la sensazione di non avere strumenti adeguati per punire i propri governanti degli errori da loro commessi. In Italia, ad esempio, si parla di partitocrazia e si cerca di combatterla attraverso opportune modifiche del sistema elettorale. Negli Stati Uniti, invece, il responsabile di questa situazione viene identificato nel cosiddetto governo diviso. Fino al 1950 la presidenza ed il controllo del Congresso era concentrata in un unico partito, il quale appariva chiaramente il responsabile delle politiche adottate, nel bene come nel male. Dal 1952, nella maggior parte dei casi, la presidenza e il Congresso sono stati gestiti da partiti diversi, diventa perciò difficile per l'elettore stabilire chi sia il vero responsabile della politica svolta. Si assiste così ad un vero e proprio "scaricabarili" in cui ognuno indica nell'altro il colpevole dei risultati negativi. Questo problema è stato aggravato da una perdita di leadership all'interno del Congresso e dall'introduzione di meccanismi di finanziamento delle campagne elettorali che favorisconò le ricandidature, generando così un tasso di ricambio fra il personale politico molto basso. Ciò spinge alcuni analisti a invocare delle riforme istituzionali le quali però potrebbero rivelarsi peggiori dei mali. Per esempio, la limitazione del numero dei mandati sposterebbe di fatto il potere dai rappresentanti eletti ai gruppi di


pressione e alla burocrazia. Tale meccanismo renderebbe senz'altro i primi meno esperti e potrebbe sfociare in un minore senso di responsabilità nei confronti dell'elettorato, dato che alla fine del proprio mandato la sanzione di quest'ultimo non avrebbe più alcun peso. In realtà, sebbene l'approccio istituzionale sia il più naturale per uno studioso dei sistemi politici, occorre capire che questo è necessariamente insufficiente se, malgrado le differenze dei vari sistemi, i problemi di molti Paesi sono in realtà comuni. Se in Israele, in Italia, in Svezia, in Germania, in Giappone o negli Stati Uniti assistiamo ad una comune diminuzione delle prestazioni del governo è improbabile che le defaillances delle istituzioni siano l'unica ragione, dato che da questo punto di vista questi Paei sono profondamente diversi gli uni dagli altri. Se in Inghilterra si discute sull'opportunità di introdurre la rappresentanza proporzionale, in Italia si propone la soluzione opposta: è però difficile pensare che medicine così diverse possano curare una malattia che è in realtà molto simile nei vari Paesi.

VALERIO ONIDA

Anch'io non credo che riforme istituzionali possano risolvere tali problemi, semplicemente perché non esistono istituzioni ideali. Come giustamente è stato fatto notare, mentre in Italia si vuole abolire la proporzionale, in Inghilterra si discute sull'opportunità di

introdurla. Ciò è naturale perché le istituzioni politiche e i sistemi elettorali non sono in realtà giudicabili buoni o cattivi in sé, ma devono rispondere ad esigenze contingenti per cui Paesi diversi possono sentire la necessità di perseguire obiettivi contraddittori e finanCO OppoSti. Così è opportuno capire che il localismo non è solo un problema di resistenza alla globalizzazione, esso è invece una ricchezza della democrazia. E opportuno che tutti imparino a vedere nelle istituzioni locali non un'impossibile alternativa al governo centrale, nazionale o comunitario, ma un complemento assolutamente necessario e sempre più importante. Occorre lavorare sui sistemi di decentramento che devono prevedere possibilità di decisioni di spesa, ma anche una forte autonomia finanziaria. Inoltre si impone un riaggiustamento delle attese. Molte disfunzioni della politica nascono proprio dal fatto che la gente si attende dalle istituzioni cose che queste non possono offrire. Se non si capisce che il governo non può risolvere problemi che lo sovrastano, ma deve spesso limitarsi ad offrire soluzioni parziali, si rischia di rompere quella corrispondenza fra attese e risùltati senza la quale la democrazia non può funzionare. Le stesse istituzioni europee, sebbene indispensabili, non possono certo sobbarcarsi il carico di tutte le attese della gente. Far maturare questa consapevolezza è il dovere fondamenta-

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le della cultura politica ed in particolare Francia è miracolosamente scampata da una situazione gravissima nel '68. dei partiti.

ROBERT LEONARDI

L'introduzione di riforme regionali in numerosi Stati europei indica come già si sia consapevoli di tale necessità. Queste infrastrunure istituzionali potranno creare nuovi livelli di governo e sostituire uno Stato che è chiaramente incapace di adempiere a tutte le aspettative. Inoltre io penso che la politica mantenga un suo ruolo, come dimostra l'impatto che stanno avendo i referendum.

MATTEI DOGAN

Non credo che il governo diviso sia necessariamente una debolezza, mentre ben più pericolosa sembra la presenza di un sistema presidenziale. Questa è a mio parere la vera debolezza del' sistema americano. Nella storia di questo secolo tutti i regimi presidenziali, tran ne quello statunitense e quello francese, sono spariti ed è forte la convinzione che i due permangono non grazie alle loro virtù intrinseche, ma alla forza delle rispettive società, le quali impediscono la nascita di un sistema tirannico. In realtà la guerra civile americana fu in buona parte dovuta proprio al sistema presidenziale. Gli Stati Uniti avrebbero probabilmente evitato il conflitto con un sistema parlamentare e la stessa 10

GIANFRANCO BETTIN

Rimedi di carattere istituzionale in realtà ve ne sono tanti: ad esempio, in Italia, basterà ricordare la riforma delle Regioni, quella che ha passato tante competenze ai Comuni, la legge sui consigli di quartiere, la 142. In quest'ultima, poi, c'è un articolo, il 33, molto interessante, perché permette ai cittadini eleggibili di essere chiamati ad assumere il ruolo di assessori, anche qualora non si fossero presentati alle elezioni. Questo è certamente un modo responsabile per incrementare lo spirito civico dei cittadini. Se però si domanda il significato reale di tale norma agli addetti ai lavori, questi ci spiegheranno che si tratta di un utile espediente per recuperare i cosiddetti "trombati". Ciò mostra come non basti mutare le istituzioni se non si cambiano le mentalità che le accompagnano. Per quel che riguarda il problema dei partiti mi sembra indispensabile ed urgente un intervento. Esiste infatti una sorta di tappo allo sviluppo della vita democratica e alla sua rivitalizzazione, e questo tappo è frutto dell'attuale configurarsi dei partiti, i quali hanno perso le loro funzioni originarie. Il partito dovrebbe essere il collettore della domanda politica espressa liberamente dai cittadini, ma oggi questa funzione è venuta a mancare, perché è diventato una


specie di polipo che interviene ovunque e assorbe una funzione soprattutto di tipo allocativo, preoccupandosi di collocare i propri uomini, in posizioni strategiche. Esso non opera più le funzioni di selezione, di competenza e di guida etica. La funzione allocativa diventa perciò un tappo che congela e irrigidisce la struttura istituzionale. Su 150.000 consiglieri comunali all'opera in Italia, il 98% è iscritto ad un partitò: gli indipendenti in pratica non esistono. Gli assessori in carica nei Comuni con più di 100.000 abitanti sono dei professionisti della politica, sono persone iscritte quasi tutte da almeno vent'anni ad un partitp, che non hanno altro destino professionale e che dunque non sono disponibili a lasciare il proprio posto se non per uno di maggiore prestigio e responsabilità. Così chi vuole partecipare, in una qualche forma, al governo della propria comunità si trova necessariamente la strada sbarrata da una professionalità che impedisce allo spirito civico di manifestarsi. Se certamente delle riforme istituzionali che limitino il mandato sono discutibili, occorre trovare però un modo capace di rompere tale cristallizzazione, la quale esclude da ogni responsabilità coloro che ancora sentono la politica in termini di servizio collettivo:

SERGIO LARICCIA

I problemi della democrazia non possono essere soltanto problemi di ingegne-

ria costituzionale, perché essi sono collegati al modo di vivere della gente. La democrazia è inoltre caratterizzata da una serie di contraddizioni di non facile composizione. Come coniugare, i valori della libertà con quelli dell'uguaglianza? Inoltre, non sempre favorire la libertà dei gruppi intermedi, significa tutelare gli interessi dei singoli individui che di tali gruppi fanno parte. I partiti sono certamente indispensabili per un corretto sviluppo delle istituzioni democratiche, ma non si può dimenticare che troppo. spesso essi operano in modo tale da accentuare il loro potere a scapito' dei diritti dei cittadini, specialmente quando appartengono a forma-. zioni politiche dotate di minor potere.

LUCIANO CAVALLI

Le istituzioni democratiche sono evidentemente invecchiate in tutto il mondo occidentale e la ragione per cui non sono state ritoccate in questi anni è stata la guerra fredda, che ha reso tutti estremamente cauti. Occorre mettere l'accento sulla ricerca di nuove istituzioni, tenendo 'conto sia dell'esigenza di non dimenticare l'importanza delle contingenze storiche che della miopia della democrazia (e dunque della sudditanza del sistema politico rispetto agli umori a breve termine dell'elettore). Se vogliamo istituzioni meno miopi occorre inventare strumenti che siano meno facilmente sottoposti alle pressio11


ni contingenti dell'elettorato e che quindi possano affrontare i grandi problemi internazionali, quelli della crisi produttiva e della conseguente ristrutturazione dell'economia, della caduta demografica e dell'immigrazione. Importante in tale scenario è la funzione del partito politico che è, in un certo qual modo, al centro di tutta la crisi istituzionale. E infatti il partito politico a selezionare la classe politica e a formarne la cultura; ha inoltre un peso estremamente incisivo nella partecipazione dei cittadini. La riforma del partito, vero centro del sistema democratico, è estremamente difficile perché dovrebbe essere fatta proprio dalla classe politica espressa dal partito stesso. Una delle possibili evoluzioni potrà consistere in una diffusa personalizzazione della politica con un peso sempre maggiore dei mass media.

DONATELLA DELLA PORTA

In Europa si stanno spostando poteri a livello comunitario, ma non verso gli organi rappresentativi. I partiti sembrano sempre più assumere caratteristiche lobbistiche volte alla soddisfazione degli interessi più piccoli e meschini. Si apre così il problema del controllo della rappresentanza: perché stiamo assistendo ad un'allocazione delle decisioni politiche a organismi sempre meno controllati da parte delle strutture rappresentative. Nello stesso tempo è però necessario essere consapevoli degli ef12

fetti disastrosi che ha avuto l'applicazione pura e semplice di criteri di rappresentanza in alcuni ambiti delle funzioni dello Stato. Essa ha portato ad un diffuso malgoverno in diversi settori di intervento statale come, ad esempio, la riforma sanitaria in Italia. Se dunque il criterio della rappresentanza si rivela controproducente è necessario escogitare possibili alternative che privilegino aspetti funzionali o corporativi.

ALESSANDRO PIzz0RN0

Io credo positivo che in certi momenti si spoliticizzino i problemi per i quali sia possibile elaborare soluzioni tecniche. E importante non illudersi e capire che la politica non può risolvere tutto: essa non è l'attività che trasforma la società. Tale visione è in realtà un'ipotesi sorta sotto la pressione delle ideologie e dei movimenti di massa. E dunque necessaria una politica che riconosca la partecipazione civica quale attività collettiva capace di superare le strategie individualistiche e di conservare le identità collettive.

Il nuovo contesto internazionale

ROBERT PUTNAM

Un'ipotesi alternativa consiste nel considerare responsabile di queste disfunzioni il nuovo contesto internazionale


e mondiale, contraddistinto da una forte interdipendenza. Ci troviamo a dover affrontare una situazione caratterizzata da una mancata corrispondenza fra la geografia dei nostri problemi e quella delle nostre istituzioni. Queste spesso hanno un ambito giurisdizionale troppo limitato o comunque inadeguato per affrontare le sfide del mondo di oggi. Se i confini politici sono netti e definiti come mai nella storia dell'umanità, quelli economici sono invece meno trasparenti e sostanziali rispetto ad epoche ormai trascorse. I Consigli di amministrazione fra i dirigenti delle multinazionali avvengono ormai a distanza ed esercitano la loro influenza indipendentemente dal luogo di residenza, i dati commerciali di tutto il mondo interagiscono ormai in tempo reale ed una scelta operata nel mercato di Stoccarda può comportare l'immediato acquisto di beni in Africa australe. Da un punto di vista economico i confini nazionali e politici sono perciò sempre meno importanti: il denaro, le merci, le idee, i. problemi, soprattutto quest'ultimi, esulano ormai da ogni contesto meramente statale. Le leve p0litiche, che risiedono a tale livello, risultano così sempre meno efficaci ed incapaci di affrontare la recessione economica mondiale, l'inquinamento, la lotta contro il traffico di droga e i fenomeni migratori. La notevole interdipendenza in cui vivono tutti gli Stati comporta poi che una scelta di un determinato Paese abbia gravi conseguenze in quelli limitro-

fi. Così' l'unificazione della Germania ha provocato dei mutamenti nell'economia interna tedesca, con un aumento nei tassi d'interesse che ha costretto gli altri Paesi europei ad aumentare il costo del denaro. Ciò mostra come non sia affatto raro che le decisioni assunte dalle autorità nazionali abbiano poi ripercùssioni sui cittadini di altre nazioni. Ciò sembra ledere un principio fondamentale dei regimi democratici: perché molti cittadini sono costretti a subire le conseguenze di una politica che non hanno contribuito a definire attraverso il voto. Il problema è molto acuto oggi in Europa, dove si assiste ad un certo deficit democratico, ad esempio, per quel che riguarda il governo della futura banca centrale. Questa maggiore interdipendenza internazionale ha anche delle conseguenze nella distribuzione del reddito all'intemo di ogni Paese. Dopo il 1975 vi infatti stato un aumento improvviso della disuguaglianza. Naturalmente le politiche del presidente Reagan o della signora Tatcher possono avere influito su quesW mutamento di tendenza, ma ben più probabile che una spiegazione plausibile di tutto ciò debba essere cercata nell'evoluzione del commercio internazionale. La competizione dei Paesi in via di sviluppo si è naturalmente concentrata nei confronti degli operai meno specializzati e dunque già sfavoriti rispetto alle classi più agiate dei Paesi qccidentali. Non credo che la soluzione pratica ai problemi che sorgono spontanei da 13


questa interdipendenza sia un governo remoti. Sin dalla fine del Settecento, mondiale. Penso che ci voglia un siste- cioè da quando i sistemi politici hanno ma più complesso di attribuzione delle incominciato ad essere fondati su rapresponsabilità, le quali devono essere presentanze territoriali, le misure gopragmaticamente distribuite a vari li- vernative incidevano su realtà che terrivelli, in funzione della concreta capaci- toriali non erano, quali, ad esempio, la tà di esercitarle. Studiando la storia de- Compagnia delle Indie o la corporaziogli Stati Uniti possiamo osservare che ne degli imprenditori tessili. le istituzioni di questo Paese sono cam- Oggi però questa rottura fra rappresenbiate molto nel primo decennio di que- tanza territoriale e interessi si è naturalsto secolo: vi fu infatti un importante mente approfondita, anche a causa dei spostamento di responsabilità, che primezzi di comunicazione di massa che ma erano dei singoli Stati, a livello fede- permettono che, eventi lontani ci tocrale. E dunque possibile prendere in chino anche emotivamente e condizioconsiderazione delle riforme strutturali nino le nostre esistenze. che possano rispondere, per esempio, alla europeizzazione dei problemi, senza per questo minare la necessità di go- FABIO LUCA CAVAZZA verni locali e regionali responsabili per le proprie azioni. Non bisogna dimenticare che questo allargamento dei confini della geografia economica è avvenuto perché sono diALESSANDRO PIZZORNO ventate disponibili a basso costo, nel giro di pochissimi anni, delle macchine All'origine di tutto lo svolgimento co- relazionali che tale evoluzione hanno stituzionale dell'ultimo millennio vi è permesso. Tali strutture hanno la caratun'espressione latina: «quod omnes teristica di non avere centro e di supetangit ab omnibus adprobetur» che è il rare i rapporti gerarchici. Ognuno è lifondamento dell'idea di rappresentan- bero di entrare od uscire da tali sistemi. za. Il problema di ogni studioso dei si- Essi poi si aprono anche alle piccole stemi democratici è dunque quello di imprese. Si sviluppa così un forte senticapire chi siano gli on'znes in oggetto. mento di libertà e di autonomia che è Essi infatti non sono dati una volta per cosa ben diversa dal modello che oggi tutte: .prima erano le corporazioni, poi impera nella politica, dove i rapporti algli aventi diritto al voto nei suffragi l'interno dei partiti sono disciplinati da elettorali. La discrasia fra confini politi- principi gerarchici. Diventa perciò difci e confini d'interessi non è dunque un ficile far sì che della gente, abituata a lafatto nuovo, come dimostra la presenza vorare con queste macchine relazionali, di gruppi di pressione anche in tempi si adatti ad un sistema politico in cui ta14


ormai in tutto il mondo si assiste ad una sempre maggiore divaricazione fra il livello in cui è possibile operare delle decisioni e quello invece delle sfide che si devono affrontare. Da un punto di vista istituzionale credo che questo sia un problema insolubile. Non esiste infatti una dimensione ottimale per riso1vere ogni tipo di problema. Non solo questi hanno ambiti e dimensioni diverse, ma lo stesso problema può variare considerevolmente nel corso della storia ed è impossibile adeguare le istituzioni a tali repentini cambiamenti. D'altro canto gli Stati nazionali, quali sono nati dall'esperienza moderna dal Cinquecento ad oggi, resistono alla mondializzazione della politica in quanto mantengono il monopolio della forza. Così, anche quando. le decisioni sono prese formalmente a livello interVALERIO ONIDA nazionale, come nel caso della Guerra Vorrei far notare come oggi sembra es- del Golfo, è in realtà evidente che quesere venuta meno la possibilità di ester- sta è maturata all'interno di quegli Stati nare i costi delle proprie scelte. Spesso che avevano la capacità militare di inle società politiche a più elevàto con- tervenire. senso sono state proprio quelle che riuscivano a far pagare agli schiavi, alle classi escluse dal suffragio o ai Paesi co- FRANCESCO SIDOTI lonizzati i costi delle proprie decisioni La dimensione internazionale introdue ciò permetteva di realizzare un consenso ed un'efficacia nelle decisioni che ce un altro aspetto problematico: il oggi manca. La maggiore mobilità, l'in- nuovo ordine mondiale, a causa della terscambio e le migrazioni,. che in qual- sua complessità ed interdipendenza, che modo rovesciano tale situazione, porta a livelli sempre più alti la vuinefanno sì che siano proprio questi ultimi rabilità e la fragilità dei nostri sistemi ad esportare i loro problemi nei Paesi sociali. Dopo la fine del comunismo, quel pericolo antidemocratico, che era del vecchio continente. Logica conseguenza di tutto ciò è che monolitico e concentrato, è diventato

li sistemi non operano. Occorre dunque chiedersi se sia possibile concepire delle nuove organizzazioni di partiti che lavorino in rete in questa geografia economica che non ha confini. Ciò permetterebbe il diffondersi di sistemi di sicurezza collettiva, i quali sono in rea!tà reti di coalizioni. La Guerra del Golfo ne è stata un esempio, ed è stato possibile aderirivi in modo operativo solo quando si avevano gli strumenti per farlo. Questo porterà a dei cambiamenti anche in politica internazionale, perché attraverso l'uso di tali sistemi a rete gli stessi Stati Uniti saranno costretti a cambiare il loro atteggiamento: dopo aver potuto comandare per 50 anni, essi dovranno imparare a convincere.

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policentrico e diffuso. Non c'è più il grande nemico esterno ai sistemi democratici, ma una molteplicità di rischi in parte del tutto prepolitici, o comunque apparentemente indipendenti dalla politica - basti pensare ai fattori tecnologici o a quelli di tipo ecologico.

ROBERT LEONARDI

È necessario non dimenticare che la costruzione della Comunità europea ha avuto un forte impatto sulle strutture sociali, sul benessere e sui processi politici del vecchio continente. Se è possibile rilevare una maggiore disuguaglianza in Paesi quali la Germania e l'Inghilterra, e necessario considerare che vi e stato un aumento dell'attività economica e del benessere nella periferia della Comunità. Tale impegno ha permesso di ridurre fortemente la disuguaglianza fra i Paesi CEE globalmente analizzati. E dunque possibile che la maggiore disuguaglianza, riscontrata nei vecchi Stati industriali, sia dovuta ai mutamenti nella struttura economica interna di questi Paesi.

JACQUES VANDAMME

La Comunità europea voleva essere uno strumento per risolvere proprio quei problemi concreti che i singoli Stati non erano capaci di affrontare da soli. Si è trattato di un tentativo di creare 16

un forum geograficamente ottimale per la soluzione dei problmi economici, senza dimenticarsi dellé implicazioni politiche. Oggi però anche questo livello non è forse più sufficiente ed è dunque necessario affiancare a organizzazioni continentali, come la Comunità, un'organizzazione a livello di Nazioni Unite. Oggi la comunità internazionale è estremamente debole da questo punto di vista, basti pensare che il G7 non è stato capace di trovare metodi per prevenire le crisi monetarie incombenti.

MATTEI DOGAN

Vorrei far notare che la globalizzazione non appare, in realtà, quale spiegazione essenziale e ciò è dimostrato dalla forza che mantengono le istituzioni nazionali.

Societì civile e capitale sociale

ROBERT PUTNAM

È opportuno domandarsi se, oltre a questi problemi di natura internazionale, il declino democratico non sia correlato alla crisi della società civile, rispetto a quella che aveva descritto Tocqueville in La Democrazia in America. Il segreto della democrazia americana era infatti fondato sulla. responsabilità civica, sull'impegno dei singoli cittadini i quali risolvevano autonomamente i loro problemi comuni. Non è infatti un


caso che lo sviluppo della democrazia vada di pari passo con lo sviluppo dell'associazionismo. A differenza di Schumpeter, che vedeva una profonda analogia fra democrazia e legge del mercato, Tocqueville non riduceva af fatto la vita democratica al voto o al mero scambio. Se ciò si rivelasse vero, dovremmo individuare nel diminuito senso civico la ragione dei problemi delle democrazie occidentali. Essi sono infatti dovuti ad un deficit di solidarietà, di responsabilità reciproca, di associazionismo che attraversa tutti gli strati sociali. A questo proposito è utile ricordare che i governi regionali che meglio funzionano in Italia sono quelli che dirigono comunità caratterizzate da una solidarietà che potremmo definire orizzontale, in cui sono presenti associazioni, cooperative ed un certo grado di impegno civico. Le strutture più verticalizzate, e cioè contraddistinte da sfruttamento e dipendenza, sono invece meno efficaci. Per questo si è ritenuto opportuno introdurre il concetto di capitale sociale. Analogicamente al capitale fisico e a quello umano, il capitale sociale indica le caratteristiche della struttura sociale di una collettività, che permettono di aumentare l'efficienza della collettività stessa. Questo capitale, proprio come quello fisico o umano, permette alla società di essere più efficiente e di meglio rispondere alle sfide del momento. Questo concetto si è rivelato utile anche per studiare la vita urbana negli Sta-

ti Uniti. Quando si vuole cercare di dare una spiegazione dei diversi livelli di incidenza dell'uso di droghe, della disoccupazione, ecc. sulla popolazione di colore delle città americane si può notare che, a parità di livello di istruzione, essa è molto più bassa fra coloro che hanno avuto la fortuna di vivere in un quartiere in cui la gente va in chiesa e vi sono organizzazioni sociali attive. Il contesto sociale ha dunque un'importante influenza sulla vita dell'individuo. Proprio in Italia i Comuni rinascimentali hanno dimostrato la forza e il vigore di una società fondata sull'associazionismo. Non è un caso che proprio in una realtà contraddistinta da numerose organizzazioni religiose e corporative abbia attecchito la rivoluzione capitalistica e siano stati inventati gli istituti di credito. Sono sviluppi che si sono basati su un tessuto sociale che ha consentito, per la prima volta, di avere delle forme di autogoverno e di crescita economica valide. Certo, non si trattava di realtà perfette, ma erano però le uniche istituzioni economiche e politiche in grado di funzionare in quei tempi prorio grazie alla loro struttura sociale. E dunque possibile che la perdita del consenso nei regimi democratici non sia tanto dovuta a particolari meccanismi istituzionali o ai problemi imposti dalla nuova congiuntura internazionale, ma ad un cambiamento avvenuto nello spirito civico delle singole comunità. Vi sono infatti numerosi segni che indicano come, negli ultimi 20, 30 anni, sia avvenuto un degrado del capitale so17


ciale e della solidarietà orizzontale, della fiducia e della cooperazione e che dunque molti nostri problemi siano in realtà notevolmente, anche se indirettamente, influenzati da tale degrado. Se ciò si rivelasse esatto il problema diventerebbe estremamente arduo. Se è infatti relativamente facile individuare delle operazioni di ingegneria istituzionale o stabilire nuove regole per la definizione del sistema elettorale, è certamente più difficile regolare con nuove norme i rapporti internazionali, ma può apparire financo impossibile rigenerare un tessuto sociale che si sia ormai degradato. Se l'efficienza di un governo risale ad eventi avvenuti centinaia di anni prima, questo potrebbe significare che coloro che vogliono rimediare a tale degrado hanno ben poche possibilità di successo.

ANTONI KAMINSKJ

Il peso della storia è senza dubbio alcuno rilevante. Témpo fa und storico mostrò come le città americane che erano corrotte nel diciannovesimo secolo lo erano rimaste nel secolo successivo, e viceversa per quelle che avevano avuto allora un'organizzazione efficiente. Se ciò è vero è opportuno chiederci come mai le capacità di autogoverno del popolo americano siano in decadenza e quali sono i fattori responsabili di questo declino. Uno di questi è senza dubbio la constatazione che l'America non è più un melting pot: le minoranze cre18

scono sempre di più, trasformandosi in un elemento di instabilità politica e sociale.

ROBERT LEONARDI

Anch'io credo che la storia sia un fattore molto importante, essa però non ha il carattere della necessità, può èssere infatti cambiata attraverso i processi politici, nel bene o nel male. E perciò possibile cambiare le strutture sociali e le culture politiche se si agisce su una base longitudinale e se si riesce ad avere una visione di ampio respiro.

FRANCESCO SIDOTI

Tale consapevolezza pone il problema della difesa, anche in senso tecnico, di istituzioni e di assetti politici. Proprio perché la storia non è affatto determinata: se in Toscana possiamo ancora scorgere gli elementi di continuità con la luminosa tradizione comunale, a Sibari e a Metaponto possiamo scorgere invece come altre illustri tradizioni (Pitagora, la Magna Grecia!) sono quasi scomparse senza lasciare traccia. Nella storia si può sia andare avanti, sia rimanere fermi, sia essere travolti.

SERGIO LARICCIA

Perché ciò sia possibile occorre collegare il valore della libertà a quello della


responsabilità, della solidarietà e dell'uguaglianza. E dunque indispensabile formare dei cittadini consapevoli e per questo è impossibile parlare di crisi della democrazia senza affrontare la crisi della scuola. Solo la cultura può evitarci di cadere in strumentalismi ed in facili illusioni.

JACQUES VANDAMME

Anch'io sono convinto che il sistema educativo debba essere orientato verso un sempre maggior senso di responsabilità civile. Inoltre vorrei ricordare che vi sono alcuni settori, quello pensionistico, ad esempio; nei quali c'è spazio per organizzare la solidarietà su fondamenti diversi da quelli pubblici. Non dimentichiamo che in molti Paesi, quali il Belgio, la Francia e la Danimarc, prima dell'introduzione del sistema previdenziale obbligatorio, esistevano dei modelli molto sviluppati di solidarietà privata, che si fondava sulle mu tuelles.

VALERIO ONIDA

Personalmente penso che per influire positivamente sui, tessuto sociale bisogna operare scelte capaci di modificarlo in profondità. Per questo la politica urbanistica potrebbe rivelarsi ben più importante delle decisioni finanziarie, economiche o monetarie.

GIANFRANCO BETTIN

Una sana trasformazione della democrazia può operare partendo dalla periferia e andando a ripescare alcuni valori fondamentali che contraddistinguono quello che è stato definito il capitale sociale delle comunità locali. Il problema delle dinamiche di partecipazione delle comunità locali ed il problema dei vincoli sociali (come quelli dovuti alla nuova struttura della famiglia) alla partecipazione possono essere superati trasformando struttura e funzioni dei partiti. Occòrre dunque cercare di riformare politicamente la periferia, magari inventando degli organismi, come delle assemblee quasi obbligatorie, simili alla giuria popolare, che, a livello di circoscrizione, permettano agli elettori di controllare periodicamente l'operato dei propri rappresentanti. E anche importante constatare che stiamo assistendo allo svilupparsi di una dinamica che dovrebbe aiutare a risolvere i problemi strutturali della democrazia: il processo di disurbanizzazione progressiva. Si sta oggi contraendo la popolazione che risiede nelle grandi città e si dilata, anche in maniera significativa, la popolazione che invece vive in insediamenti che hanno meno di 100.000 abitanti. Insediamenti in cui il problema dell'amministrazione può essere risolto abbastanza facilmente, perché è possibile gestire meglio le istituzioni e i'servizi che invece in una grande città vengono governati malamente. 19


Ciò spiega sia la vitalità che il desiderio di non abbandonare questi insediamenti, minori dal punto di vista demografico, ma dove la qualità della vita è senz'altro eccellente.

MATTE! DOGAN

A tal proposito basterà ricordare l'idea espressa da Schumpeter 50 anni fa, secondo la quale il sistema capitalistico sarebbe stato destinato a distruggersi: il futuro sarebbe perciò stato nelle mani LUCIANO CAVALLI del socialismo. Malgrado il crollo del comunismo, tale saggio è stato profetiÈ evidente che Stato, Regioni e Comu- co, perché, a parte Taiwan e la Corea ni abbiano un gran bisogno di spirito del Sud, oggi non esiste un solo Paese civico, ma è difficile identificare i sog- che possa essere veramente definito cagetti che possano rigenerarlo in un mo- pitalistico. Ciò che abbiamo oggi è una mento in cui le entità politiche 5Oflo. in specie di economia mista che potrebbe una così profonda crisi. evolversi vèrso forme più socialistiche, con un governo che raccoglie e distribuisce circa il 70% del P!L, o verso forMARIA ROSAR!A FERRARESE me più liberistiche in cui tale intervento sia ridotto al 25% del PIL. Ci si può chiedere però se questa pro- Un sempre maggior intervento dello spettiva non sia in realtà l'ammissione Stato potrebbe essere il frutto di una di una sconfitta. Se infatti intendiamo tendenza ormai comune nei Paesi deper politica innanzitutto una capacità mocratici e che fa sì che la spesa pubblidi modificare l'esistente, come è possi- ca sia elastica verso l'alto, ma non verso bile accettare l'idea che essa possa fun- il basso. Inoltre la presenza di movizionare solo dove già esiste una società menti socialdemocratici diffusi in tutti i civile forte? Su questa strada si ritorna Paesi europei potrebbe favorire il peralla teoria secondo cui le istituzioni po- petuarsi ditale tendenza. Così è anche litiche possono essere facilmente surroopportuno non dimenticare il ruolo gate, perché in gran parte riconducibili che potrebbero avere, soprattutto nelle a reti di rapporti interpersonali tra cit- imprese nazionalizzate, funzionari protadini. Anche la dimensione sovrana- venienti dalla burocrazia, la cui opera zionale di molti problemi induce a in- contribuisce notevolmente, soprattutto terrogarsi intorno ai limiti di una con- in Francia, all'ipertrofia dello Stato. cezione demiurgica della politica e del- Invecchiamento della popolazione, calo spirito civico. lo demografico e alti tassi di disoccupazione sono anch'essi fattori che potrebbero contribuire al rafforzamento di questa tendenza. 20


Se invece miriamo ad un rafforzamento della società civile sarà necessario, da un punto di vista economico, sviluppare il capitalismo popolare, la capitalizzazione delle pensioni, la partecipazione. dei dipendenti alla proprietà delle imprese. Importante, anche da un punto di vista culturale, sarà la scomparsa dello Stato quale autorità proprietaria di alloggi. Ciò permetterebbe l'incremento del numero dei piccoli proprietari che, come affermava il Tocqueville, sono normalmente migliori cittadini che i locatari. Inoltre la responsabilizzazione dei cittadini potrà anche avvenire attraverso la privatizzazione delle spese universitarie e la conversione, attraverso opportuni benefici tributari, dell'evasione fiscale in contributi filantropici per il benessere dell'intera comunità. Vorrei concludere ricordando che, benché i riferimenti a Tocqueville siano sempre utili e stimolanti, bisogna riconoscere che l'America descritta dallo studioso francese non esiste più. Si trattava di una società agricola, formata da piccole città, con una classe politica ricca, educata e di origine patrizia. La cultura civica è di fatto passata di moda e gli Stati Uniti hanno finito di essere un modello e sono ora afflitti da gravi problemi sociali, razziali, economici e culturali che difficilmente potranno essere risolti semplicemente riesumando tale cultura.

PE1ER BOGASON

Rispetto all'epoca di Tocqueville molto è cambiato, e questo mutamento ci impone di cambiare le nostre strutture istituzionali se vogliamo perseguire la sua idea di base, che è molto importante perché permette di riscoprire i valori di responsabilità, nei confronti delle comunità locali, e di ridar vita all'associazionismo e alla partecipazione nella società moderna. Non dobbiamo però dimenticare che oggi, nella maggior parte delle famiglie, i due coniugi lavorano ed è difficile trovare il tempo necessario anche per occuparsi dei bambini e della casa. Date queste condizioni è chiaro che le associazioni locali non possono avere il ruolo che avevano una volta: la partecipazione è cambiata, non solo per una mutata mentalità, ma perché il tempo è così scarso che si preferisce dedicarlo alla famiglia o al proprio lavoro piuttosto che ad impegnarsi in attività di responsabilità civile in favore della comunità.

ROBERT PUTNAM

Le questioni sollevate da Tocqueville sull'infrastruttura sociale necessaria per sostenere la democrazia sono tuttora valide, alla soglia del Duemila. E vero che Tocqueville parlava dell'America preindustriale, però il rapporto (da lui definito) tra Paese legale e Paese reale era valido allora come è valido oggi. Pensare che l'America oggi sia diversa a 21


causa della presenza di forti minoranze etniche sottintende che i problemi degli Stati Uniti siano dovuti agli immigrati. Naturalmente questo è un problema serio, soprattutto a causa del calo dell'impegno politico all'interno di queste comunità, però il calo del senso civico non dipende direttamente dalle difficoltà che nascono nei rapporti con le minoranze. Inoltre, questi problemi delle minoranze razziali toccheranno tutte le società industriali. Purtroppo dobbiamo ammettere che non vi sono oggi formule magiche capaci di ricreare il senso civico in una società postindustriale e multiculturale come la nostra.

BERNARDINO CASADEI

Si è parlato molto di spirito civico e si è ricordata la lezione di Tocqueville. Questi. pone. perlomeno due fattori quali fondamentali per la creazione di tale spirito: da un lato il proprio interesse ben compreso, dall'altro, molto importante nello studioso francese, quello che potremmo definire il sentimento religioso, i valori che creano una comunità, che fanno che tale comunità non sia una mera somma di interessi, ma qualcosa di più. Nell'ultima parte del secondo libro su La Democrazia in America, Tocqueville mostra con grande chiarezza come, quando manchi questo spirito, quando manchi questo legame culturale, questi valori, questo jus potremmo dire, anche le istituzioni 22

democratiche possono trasformarsi nel peggiore dispotismo. Ciò ripropone con grande urgenza il ruolo degli uomini di cultura e ci impone di chiederci se non vi sia stata una nuova trahison des clers. Così mi chiedo se, come fondamento della riflessione, non sia necessario considerare quale punto di partenza di questo dibattito la politeia, cioè il buon governo, per cercare poi di definire cosa in realtà la democrazia sia, visto che mi pare che essa stia diventando una specie di passepartout buono per ogni occasione. Ciò che importa non è la semplice tutela automatica dei singoli interessi, come Edmund Burke ben sapeva, ma il conseguimento di un ideale di giustizia da portare avanti utilizzando gli strumenti costituzionali che la contingenza storica ci imporrà.

ANTONI KAMINSKI

In effetti il terminè democrazia viene usato in modi molto diversi. Forse un p0' di chiarezza potrà venire dalla risposta che Burke diede ai cittadini di Bristol, i quali lo avevano eletto alla Camera dei Comuni per difendere gli interessi della loro città. Lo studioso inglese affermò invece che il suo compito doveva consistere nella tutela degli interessi di tutta la nazione, anche a scapito di quelli dei suoi elettori.


GIROLAMO CAIANIELLO

Stiamo oggi creando nuove strutture di governo ed è quindi attuale il problema di come connotarle della democraticità in cui crediamo. E perciò opportuno definire la democrazia con spirito critico e distinguere il rapporto governanti governati in due aspetti: il momento della scelta di chi deve governare, e qui la cosa è in realtà abbastanza semplice, perché esistono procedure partecipative ormai consolidate; e il problema della responsabilità: cioè, una volta eletto, in che modo e verso chi e di che cosa è responsabile chi è chiamato al governo. Una soluzione molto semplicistica potrebbe essere quella di liberare e scaricare il governante dalla sua responsabilità, rendendolo mero esecutore di quello che vogliono gli elettori. In realtà il divieto di mandato imperativo, eredità della Rivoluzione francese, ha svincolato il governante da tale forma così stretta di dipendenza nei confronti dei suoi elettori, ma lo ha anche collocato in una posizione di maggiore responsabilità. Il problema è difficile, perché a mio parere vi sono delle attese da parte degli elettori a cui i governanti non dovrebbero rispondere. Non si può fare come quel politico inglese del Settecento che affermava di non doversi occupare delle conseguenze delle sue scelte sui posteri, perché in fondo cosa avevano mai fatto questi posteri per lui? Infatti le generazioni future, nella dichiarazione dei diritti della Rivoluzione francese,

sono anch'esse identificate nel concetto di Nazione. Quindi, non sempre l'assoluzione dei governati scarica le responsabilità dei governanti. In realtà l'uomo politico è solo con se stesso davanti ad un foro che è trascendente, si identifica con la propria coscienza e non può essere evitato in nome dei principi democratici: egli infatti deve avere anche il coraggio di decisioni impopolari. Per questo credo che gli ordinamenti dovrebbero garantire colui che governa per consentirgli di assumere decisioni che possono non piacere ai più, senza essere immediatamente cacciato dal suo posto a furor di popolo. Soluzioni perfette non esistono, ma ciò che ho detto vale da un lato a porre in evidenza il significato essenziale della forma moderna della democrazia, che è quella delegata; dall'altro, a mettere in guardia dall'idea che il solo principio democratico possa garantire il governo migliore, se non accompagnato da temperamenti idonei ad evitare la "dittatura delle maggioranze", attraverso processi decisionali articolati che scongiurino la troppo facile e poco meditata compromissione di valori fondamentali e duraturi. Si tratta, del resto ; di istituti, e congegni previsti diffusamente nelle costituzioni dei nostri tempi (basti pensare al nostro sistema di revisione costituzionale).

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FRANCESCO SIDOTI

Nella letteratura classica l'uso del concetto di democrazia è stato accompagnato da una serie di annotazioni problematiche. Si esprimono in questo senso Socrate, Platone, Aristotele; nel linguaggio politico della latinità il regime ideale è repubblicano, caratterizzato non dal concetto di potere popolare, ma dal concetto di governo misto. Altre diffidenze furono denunciate dagli autori del «Federalist», che esplicitamente affermavano di non volere per gli Stati Uniti un governo di tipo democratico, perché era considerato turbolento, caotico, facile preda di mestatori e di demagoghi. Negli anni del confronto con il comunismo è diventata preminente nel linguaggio comune un'altra tradizione, altettanto classica e illustre, che contrappone democrazia e dispotismo. Questa tradizione è apparsa improvvisamente vincente su scàla planetaria: popoli di vari continenti hanno ritenuto che il termine democrazia fosse sinonimo di libertà e di abbondanza. Invece, una cultura autenticamente de-

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mocratica è per metà una cultura del realismo e del disincanto, consapevole che un sistema con limiti evidenti e desolanti è malgrado tutto preferibile ad ogni altro. In un certo senso chiamiamo democrazia un processo evolutivo di sistemi sociali caratterizzati da una certa crescita economica e da una certa cultura civica, in cui, accanto all'eredità propriamente democratica, c'è quella liberale, quella costituzionalista, quella federalista. Dietro la teoria e la pratica della democrazia esiste un itinerario storico complesso, delicato, vulnerabile, che è stato attraversato da avventure contrastanti e nefaste. Per un'altra metà una cultura autenticamente democratica ritiene che il meglio di questo itinerario evolutivo è un valore, fragile ma prezioso, che necessariamente deve essere difeso, contro gil hostes extranei e contro hostes domestici di non piccolo rilievo (com'è particolarmante chiaro per gli osservatori delle vicende italiane). La consapevolezza in merito a questi problemi ha costituito una caratteristica degli incontri sulla democrazia organizzati da <(Queste Istituzioni».


queste istituzioni

Ripensare l'urbanistica a cinquant'anni dalla legge

Concordi con Valerio Onidci, quando afferma che la politica urbanistica potrebbe rivelarsi ben pit'i importante delle decisioni finanziarie, economiche o monetarie per lo sviluppo di quello spirito civico e capitale sociale di cui le istituzioni democratiche hanno un grande bisogno (cfr. in questo numero il dossier Ragionare di democrazia), e approfittando del cinquantenario della legge sull'urbanistica, «Queste Istituzioni» e il CRESME hanno deciso di riprendere un 'analisi che li ha impegnati già da tempo (basti ricordare il numero dedicato a Governo del territorio e Riforma degli enti locali). Associare le tematiche dell'urbanistica con quelle della democrazia non dovrebbe stupire. Gli utopisti, almeno loro, hanno sempre sentito la necessità di dedicare una parte cospicua delle loro riflessioni proprio all'organizzazione del territorio. Anzi, è legittimo chiedersi se la crisi dell'urbanistica non sia profondamente legata alla crisi della politica e cioè all'incapacità di pensare valori. In ogni caso è diffusa convinzione che le dijfficoltà che stiamo vivendo non sono tanto dovute ai limiti di una legge, che, anche se pensata per un 'Italia molto di25


versa dall'attuale, si è rivelata ricca di spunti e prospettive, ma all'incapacità di attuarne le numerose potenzialità. La demiurgica illùsione di chi pensava fosse sufficiente stabilire una legge per modificare abitudini e comportamenti ha poi favorito quella separazione fra progetto normativo e realtà concreta, che ha finito per favori re i soggetti più forti ed intraprendenti, spesso a scapito degli interessi della collettività. L'incapacità di definire le direttive dello sviluppo urbanistico, e dunque di stabilire quel quadro di riferimento che desse sicurezza ai singoli operatori e permettesse alle forze private di conciliare le proprie esigenze con il benessere della collettività, non ha certamente favorito lo sviluppo ordinato delle nostre città. A tal proposito è necessario chiedersi se la complessità che sembra vanificare ogni sforzo di progettazione sia reale o, invece, non debba essere almeno parzialmente imputata all'assenza di criteri che ci permettano di distinguere l'effimero dalle tendenze più profonde efondamentali.

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Pianificazione e valutazione di Nicolò Savarese

Il cinquantenario della legge n. 1150/42 rappresenta una cornice ideale per numerose iniziative incentrate sull'adeguamento o addirittura la riformulazione del quadro legislativo nazionale in materia urbanistica. In questi anni la legge n. 1150 è stata sottoposta ad un processo critico più o meno sistematico e radicale, sulla base di valutazioni sia politico-operative che teoriche. E in effetti facile da constatare come essa rappresenti molto bene un deteiminato momento storico ed un determinato assetto istituzionale della funzione pubblica nel gestire gli equilibri del mercato immobiliare e nell'arbitrare i rapporti di forza tra rendita e profitto. E perciò agevole dirnostrarne la vetustà e l'inadeguatezza rispetto ai problemi nuovi che con il tempo si sono andati accumulando sui tavoli degli urbanisti: la gerarchizzazione delle procedure a fronte di poteri locali via via più articolati ed autonomi; l'incapacità di recepire altri strumenti settoriali di programmazione; l'assenza di ogni riscontro economico e finanziario rispetto alla fase attuativa dei piani; la mancanza di integrazione con altre discipline dotatesi di proprie politiche territoriali d'inter-

vento; la rigidità e l'inefficienza della strumentazione tecnico-giuridica, fino alla sua, talvolta totale, vanificazione operativa; e così via. Eppure, nonostante ciò, in questi stessi anni, non abbiamo visto proposte consistenti di riforma, neanche nell'ambito della legislazione regionale, peraltro dotata di ampi ed autonomi poteri in materia. 'I tre o quattro piani urbanistici regionali a tutt'oggi emanati, potrebbero, addirittura essere valutati al di sotto delle potenzialità assegnate ai piani territoriali di coordinamento dalla stessa 1150. Ma la cosa che, a dire il vero, potrebbe lasciare più perplessi è che le maggiori cautele al riguardo sembrano venire proprio dall'interno della cultura urbanistica democratica. E francamente difficile pensare che, per esempio, uno dei nodi centrali riguardo l'inefficacia delle politiche urbanistiche sia, nella situazione attuale, quello degli espropri; strumento la cui obsolescenza politicooperativa non dipende tanto dall'incertezza sui valori, quanto dalla certezza sui livelli di conflittualità indotta: E tuttavia proprio questa reticenza rimanda ad una riflessione sul ruolo che i poteri pubblici hanno o dovrebbero 27


avere nella pianificazione del territorio; riflessione resa difficile -- oggi nel nostro Paese - dall'esigenza di chiarificazione del rapporto tra funzione pubblica e funzione privata e di rilancio di entrambe su basi nuove e più trasparenti. Un punto di partenza per le successive riflessioni è che da anni, in Italia, gli unici piani regolatori elaborati sono in realtà programmi più o meno organici di progetti, che cercano di restituire alla pubblica amministrazione un ruolo "promotore", dando per scontato che l'attuazione di tali progetti dipendí da un rapporto di tipo "contrattualistico" con i privati ad essi interessati. E però chiaro che, in questo modo, si sancisce un rapporto di subalternità della funzione "normativa" rispetto a quella "promozionale". Tutto ciò ha due rischi: l'azione pubblica si motiva e si esplica in forma concorrenziale con la progettualità del settore privato; legittimandosi pienamente solo se è capace di esprimersi a livelli più elevati; la funzione normativa, comunque interpretata, acquista ampi margini di discrezionalità in rapporto al raggiungimento degli obiettivi progettuali. Questa condizione, estremamente equivoca e contraddittoria, traspare in maniera esemplare da molti dei grandi progetti urbani degli ultimi anni. Senza una chiara distinzione tra questi due piani - quello della "progettualità" e quello della "valutabilit" dei progetti - sarà ben difficile uscire da una tale situazione. 28

PIANIFICARE PER PROGETTI

La condizione necessaria (ancorch non sufficiente) per "programmare" è saper "prevedere". Il fallimento delle economie pianificate e di molte politiche di programmazione nelle economie di mercato, non dipende quasi mai da errori di programmazione, quanto piuttosto di previsione circa gli effetti prodotti. A partire dagli anni Sessanta, scienze regionali e scienze geografiche hanno gettato le fondamenta di nuovi indirizzi disciplinari, basati sull'analisi territoriale dei fenomeni economico-sociali e variamente definiti come economia dello spazio, geografia economica, ecc. Si sono aperte così prospettive enormi per lo sviluppo delle discipline urbanistiche (urbanistica quantitativa, geografia urbana, pianificazione settoriale, ecc.); prospettive ben lungi, peraltro, dall'essersi esaurite. Solo più tardi - dagli anni Settanta in poi - la Teoria dei Sistemi ha fatto intravedere la possibilità di un nuovo "paradigma" scientifico, per ricondurre ad unità approcci disciplinari e settoriali assai diversi tra loro. Taluno ha avuto allora l'illusione che l'aver messo a punto i concetti e gli strumenti teorici per la definizione e la delimitazione di sistemi complessi comportasse tout court la possibilità di risolverli in senso analitico (e quindi programmatico). Occorre invece rendersi conto che non esistono oggi metodi e tecniche che siano in grado di "analizzare" (nel senso


forte del termine) sistemi èomplessi, come quelli economico-sociali a dimensione territoriale; né quindi di prevederne il comportamento futuro; né tanto meno di ottimizzarne lo sviluppo. "Programmare", infatti, non significa altro che "ottimizzare" l'evoluzione 'o sviluppo di un sistema rispetto a prefissati obiettivi. Tuttavia - al di là della ricerca di metodi e tecniche di programmazione a livello settoriale - l'approccio sistemico ha fornito una prospettiva innovativa alla pianificazione del territorio: la "pianificazione per progetti". E questo l'unico modo, infatti, per affrontare scientificamente e risolvere un problema complesso di pianificazione territoriale: disarticolarlo cioè in sottosistemi più maneggevoli, tali da poter essere programmati in maniera autonoma o comunque con influenze minime e controllabili sull'intero sistema di appartenenza. Questa è una definizione schematica, ma sufficientemente rigorosa, di un approccio progettuale alla pianificazione urbanistica e territoriale. Qualsiasi altro approccio di tipo globalistico non è tecnicamente perseguibile; non può essere fondato su premesse scientifiche, ma solo politiche, con tutte le implicazioni ormai note sul problema dei rapporti tra "progettualità" e "potere politico La convinzione che la copertura o la matrice pubblica di una tale progettualità sia garanzia di obiettività e. di rispondenza ad un interesse collettivo su-

periore è una pura illusione, quotidianamente smentita dai fatti. In conclusione qualsiasi piano urbanistico reale, cioè fattibile o attuabile, non può essere oggi che un piano di progetti: lo dimostrano peraltro alcune delle più rilevanti esperienze degli ultimi anni, come i piani elaborati da Bernardo Secchi (vedasi in particolare quello per Siena).

LA VALUTAZIONE DEI PIANI

Fino a che il piano e le sue norme di attuazione tecnica hanno rappresentato 'le regole del buon edificare, valutando in base ad esse l'entità e la qualità degli interventi sulla città ed il territorio, la legittimità dell'urbanistica non è mai stata messa seriamente in dubbio. A ben vedere, i primi sintomi di crisi sono apparsi quando l'insoddisfazione per la capacità di controllo sulla qualità della progettazione urbana ha spinto verso l'introduzione, nello strumento pianificatorio generale, di categorie proprie della fase cosiddetta attuativa (piano particolareggiato). La normativa urbanistica - se intesa come insieme di regole che consentono di attuare un progetto, di tradurlo cioè in quantità, vincoli, standards, ecc. ovvero anche di codificare un progetto per poterlo attuare in tempo differito - viene ovviamente a dipendere dal progetto stesso ed è quindi soggetta alla contrattazione pubblico-privato, sulla base di una legge di scambio tra reciproche convenienze. ' 29


La normativa urbanistica, per poter essere più flessibile, tende ad essere discrezionale. Quando non lo è, come nel caso di normative specifiche a carattere nazionale, rischia di complicare la soluzione dei problemi (si consideri come esempio la legge Tognoli, per quanto riguarda il dimensionamento dei parcheggi urbani, i cui standards, se applicati a nuove aree direzionali centrali, possono divenire moltiplicatori di traffico). Occorre allora capire se, per il potere pubblico, esiste un livello d'azione che, pur essendo flessibile e adattivo, non sia né arbitrario né discrezionale. La risposta a questa domanda risiede nell'approccio valutativo al problema da cui dipende, a nostro parere, la possibilità di innovare la funzione normativa della disciplina urbanistica. Le tecniche di valutazione discendono dalle tecniche di programmazione, applicate ai fenomeni ed ai sistemi socioeconomici. Questi sistemi, come prima detto, non possono essere modellizzati in termini "analitici". La modellizzazione analitica di un fenomeno è infatti la condizione necessaria per poterne identificare le cause e, quindi, prevederne ed ottimizzarne gli effetti. La via che si può tentare di percorrere, in un sistema socio-economico a dimensione territoriale, una volta che sia stato articolato in sottosistemi funzionalmente indipendenti, è quella di un processo di sub-ottimizzazione. Si tratta, in altri termini, di costruire induttivamente delle ipotesi o scenari alternativi di assetto (i "progetti" appunto) e di vedere 30

quale sia il migliore tra di essi: Di qui le varie tecniche utilizzate (dalla costi-benefici alla multicriteria), giustamente definite non di programmazione, ma di valutazione. La sostituzione, concettuale e pratica, delle procedure di valutazione dei progetti in base alle attuali normative urbanistiche, con procedure di valutazione basate su criteri ed obiettivi predefiniti, può avere contenuti e implicazioni fortemente innovativi. Basti pensare, per esempio, alle possibilità di integrazione con altri tipi di normative, all'interno di procedure decisionali complesse quanto si vuole, ponderando diversamente i molteplici fattori che incidono sulla validità di un progetto. Una impostazione di questo tipo, in particolare, rende tra loro perfettamente congruenti le valutazioni urbanistiche ed ambientali. Ciò\ è tanto più notevole, in quanto la norma urbanistica tradizionale agisce quasi sempre a valle delle altre normative. Oltre all'integrazione in senso orizzontale o intersettoriale, appaiono di grande interesse le possibilità di integrazione in senso verticale; e cioè tra i diversi livelli di competenza amministrativa (comunale, provinciale, regionale, statale). C'è anzi da dire che si può individuare un terreno più corretto ed incisivo per l'intervento statale, senza che insorgano contraddizioni o conflitti: è il terreno dei criteri generali in base ai quali stabilire poi, a livello locale, le variabili utilizzate nelle procedure di valutazione. Peraltro, un'impostazione


normativa basata sulla rispondenza a criteri di valutazione interpreta meglio le esigenze, ormai ineludibili, di integrazione comunitaria ed europea.

UNA CONSIDERAZIONE PER CONCLUDERE

Forse prendere a pretesto il cinquantenano della legge n. 1150 può creare qualche equivoco, dando l'idea che s'intenda in qualche modo reclamare o proporre una nuova legge urbanistica. In realtà la richiesta, da taluni espressa, di un vero e proprio "codice urbanistico" risponde ad un'altra legittima esigenza: quella di armonizzare e coerentizzare una ormai vastissima produzione legislativa, nazionale e regionale, avente rilevanza per la gestione e la manutenzione del territorio. Ma non quello di cui stiamo parlando. Il nodo delle questioni poste e ormai fuori da un ambito disciplinare specifico. Si potrebbe anzi dire che non esiste più una dimensione disciplinare dell'intervento territoriale: ogni azione (economica, amministrativa, fiscale, sociale, ambientale ecc.) ha acquisito ormai una sua articolazione territoriale che concorre, in maniera complessa ed interrelata, a definire l'assetto finale del territorio. Si tratta perciò di adottare un approccio integrato alle politiche di intervento, utilizzando strumenti di programmazione che non rinviino ad un momento (presunto finale) di verifica

della compatibilità urbanistico-territoriale. Le questioni poste investono due problemi cui ci sembra particolarmente rilevante ed urgente rispondere: da una parte come costruire e dare veste giuridica a strumenti "ordinari" di investimento e di intervento sul territorio, attraverso l'unica strada oggi percorribile - quella della pianificazione per progetti integrati - superando così tutte le esperienze negative accumulate in questi anni a livello di intervento "straordinario" (dal FI0 alla legge n. 64 per il Mezzogiorno); dall'altra come dotare la Pubblica Amministrazione di procedure innovative per la valutazione-decisione-attuazione dei progetti di intervento. L'eccezionalità del momento storico che stiamo vivendo, e che va ben al di là della specifica situazione italiana, si genera e si riverbera nella profonda modificazione degli equilibri, delle istituzioni, delle strutture politiche ed organizzative in ogni campo di attività. Alla fine di questo processo, con molta probabilità, saranno proprio i principi e le regole che governeranno le città e il territorio ad esserne investiti; perché qui, in fin dei conti, che tendono ad accumularsi gli aspetti operativi di ogni problèma. Utilizzare un "anniversario" per iniziare un processo di revisione ben mirato è forse il modo migliore per celebrarlo.

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Riforma dell'urbanistica o attuazione della disciplina di Paolo Urbani

Il problema di una riforma legislativa dell'urbanistica non è così semplice come potrebbe apparire. Intanto perché non riesco più a vedere l'esigenza di una riforma complessiva della normativa. Più che ad una riforma sarei più sensibile alla costituzione di un osservatorio sulla legislazione per verificare quali siano in effetti i nodi giuridici sui quali necessario intervenire con correttivi direi interstiziali e non generali. L'impianto della legge n. 1150 del 1942, integrato dalla legge n. 765/67 e ancora dalla legge n. 10177, contiene istituti che mantengono ancor oggi intatta la loro validità1 : il piano urbanistico e la sua zonizzazione, lo strumentario dei piani attuativi, la disciplina dell'edificazione, il controllo e la vigilanza, il sistema delle sanzioni, più di recente la temporalizzazione dell'edificazione attraverso il programma pluriennale di attuazione. Anche i.1 sistema organizzativo articolato tra le Regioni, le Province, in base alla legge n. 42/90, i Comuni, e delineato dalle leggi vigenti - che affida alle Regioni il compito di indirizzo e di direttiva agli enti infraregionali, sia nella 32

redazione sia nella approvazione dei piani, ai fini del coordinamento tra livelli di pianificazione e tra i diversi interessi di diverso peso e dimensione appare in linea di principio contenere tutti gli elementi di disciplina necessari. Stesso discorso vale per il controllo dell'attività urbanistica ridisegnato dalla legge n. 47/85. Abbiamo così tre corpi legislativi: quello della pianificazione - i piani - ormai attribuito alla competenza delle regioni attraverso il complesso delle norme organiche regionali; quello della disciplina della attività di edificazione che risulta dal complesso delle disposizioni della legge n. 1150, della legge n. 10/77, emendata dalla legge n. 94/82; e infine quello del controllo di cui alla legge n. 47/85. Se il sistema normativo non funziona ciò dipende da inattuazione amministrativa, non da carenze di norme regolatrici generali. Vi sono tre versanti invece sui quali occorre concentrare l'attenzione: quello delle tutele parallele e degli oggetti del pianificare; quello dei procedimenti di pianificazione;


c) quello dei rapporti o meglio dei moduli convenzionali tra pubblica amministrazione e privati nella concreta attività di trasformazione del territorio.

nata, poiché assicura la cura d'interessi pubblici che spesso riguardano l'intera comunità nazionale e che comunque devono prevalere sugli interessi curati dagli enti esponenziali delle comunità locali. LE TUTELE PARALLELE Non altrimenti si spiegherebbe il prevalere della disciplina delle grandi opeSul primo punto è ormai dato acquisito re pubbliche sul sistema di pianificazioche nell'urbanistica non possano rien- ne degli enti primari, se non nel senso trare tutti gli aspetti relativi alle trasfor- della esigenza di soddisfare interessi mazioni del territorio. pubblici generali. Abbiamo assistito in questi anni ad un Che poi gli interessi pubblici possano precipitoso ritiro dell'urbanistica dai ter- essere in conflitto tra loro e che la loro ritori occupati2 : i profili di tutela am- soddisfazione passi necessariamente atbientale, sia essa considerata come am- traverso la ponderazione degli interessi biente-protezione sia come ambiente- in campo è principio legato alla multifiproduzione, o i profili di tutela storico- nalità dello Stato; principio messo in artistico-culturale seguono discipline luce da M.S. Giannini sin dalla fine deloro proprie che se sono destinate co- gli anni Trenta5 in contrasto con la teomunque ad interferire con la disciplina ria dominante, secondo la quale (<nello urbanistica di fatto ne prescindono, Stato dominava l'armonia, retta dal poiché alla loro cura e soddisfazione so predominio dell'interesse statale» e no preposti soggetti pubblici diversi ri- l'amministrazione, anche quando eserspetto a quelli cui competono i poteri cita il potere discrezionale, è nella posidi pianificazione urbanistica. zione di esecutrice, di dipendente 6 Gli oggetti delle tutele parallele 3 sono Di regimi giuridici di tutela speciale neaumentati e interferiscono continua- cessiterebbero oggi i centri storici 7, remente con la disciplina urbanistica, co- lativamente ai processi di trasformaziostituendo limiti all'attività di pianifica- ne del patrimonio edilizio esistente ed a zione. E qui mi riferisco anche a disci- quelli di riconversione delle attività pline spesso disattese in anni passati, commerciali al loro interno. come quelle legate all'imposizione di Così come sono fermamente convinto vincoli idrogeologici, sismici, di difesa che, anche riguardo alle zone agricole, del suolo4 che oggi acquistano impor- sia necessario intervenire prevedendo tanza determinante. regimi diversificati di tutela in rapporto Credo che quella delle tutele parallele alle vocazioni specializzate che esse masia una strada intrapresa dal legislatore nifestano, costituendo quindi limiti alche va incrementata e non ridimensio- l'edificabilità indiscriminata. .

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Sono tutti oggetti che devono costituire limiti al potere di pianificazione - in primo luogo - comunale ma anche ai livelli di governo superiore (provinciale e regionale): limiti oggettivi cioè alla discrezionalità amministrativa. Ne deriva di conseguenza che (e qui è necessario intervenire dal punto di vista legislativo, ma è compito delle Regioni) i contenuti urbanistici dei piani generali - PRG, PTCP, PTR - vanno ridisegnati e tassativamente determinati proprio perché la legge del 1942 è ed è rimasta legge sui procedimenti e non sui contenuti dei piani.

possono fin da ora trovare spazio nel procedimento urbanistico. Se poi si estendesse, come in qualche legge regionale si è fatty, il procedimento di valutazione dell'impatto ambientale non solo alle grandi opere pubbliche ma anche al piano regolatore, nella sua articolazione per zone, ed ai piani attuattivi, specie quelli produttivi - al cui interno possono essere previsti non solo insediamenti industriali ma anche turistici e artigianali -, si eviterebbero molti degli inconvenienti ai quali assistiamo nel momento della concreta attuazione dei piani urbanistici.

I RAPPORTI FRA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE I PROCEDIMENTI DI PIANIFICAZIONE

E PRIVATI

Quanto ai procedimenti di pianificazione è certamente vero che il sistema delineato dalla legge n. 1150 dcl 1942 è rimasto praticamente intatto, si.i sotto il profilo del "giusto procedimento" che attiene ai rapporti tra amministrazione e privati, sia sotto quellò della ponderazione degli interessi tra i vari soggetti pubblici, preposti alla cura ed alla soddisfazione di interessi plurimi e differenziati, che in qualche modo mcidono sulla pianificazione urbanistica. Eppure qui gli innesti sono possibili poiché da un lato la legge n. 241/90, sul procedimento amministrativo, prevede forme di partecipazione applicabili anche ai procedimenti urbanistici 8, nonostante le restrizioni dell'art. 13, mentre istituti come la conferenza dei servizi

Infine gli strumenti convenzionali tra pubblica amministrazione e privati nella realizzazione di complessi di opere o di interventi rilevanti sul territorio. Orbene anche qui i detrattori della legislazione urbanistica vigente se, da un lato, criticano la rigidità del PRG in quanto astratto, più legato agli aspetti strutturali dell'urbanistica che agli aspetti funzionali, trovano - tuttavia - nella legislazione attuale ampia possibilità di ricorso a moduli convenzionali con la pubblica amministrazione, in sede di attuazione delle previsioni del piano regolatore. Alludo non solo alle convenzioni di lottizzazione, ma a quelle previste nei PIP, a quelle di cui ai piani per i parcheggi, nei piani di recupero, nella legge n. 10/77 artt. 7, 8, ove

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si instaura un rapporto di collaborazione quasi paritaria tra attori privati ed amministrazione nel concretarsi dell'attività edificatoria. E quella che oggi viene chiamata urbanistica contrattata, ove all'autoritatività della p.a. tende a sostituirsi il contratto. Lo stesso contenuto delle convenzioni estremamente diversificato e. non si limita più all'accollo delle opere di urbanizzazione da parte dei privati in cambio della cessione di aree all'amministrazione. Si introdotto quindi un criterio di differenziazione, in rapporto alle attività edificatòrie specie nei piani di recupero del patrimonio edilizio esistente, che negli anni Setianta era impensabile. La difficoltà di procedere nella realizzazione di forme di convenzionamento non risiede quindi nelle carenze legislative - pensiamo, ad es., al recepimento nella legge sul procedimento amministrativo degli accordi sostitutivi di provvedimento - semmai nelle difficoltà organizzative e funzionali delle amministrazioni locali. La stessa difficoltà si incontra anche nella realizzazione di forme di accordo tra gli attori pubblici (accordi di programma), ma questa non è imputabile alla inefficacia degli istituti introdotti bensì alle strutture della pubblica amministrazione ed al suo modo di agire. Ritorna così il problema della discrezionalità amministrativa dell'amministrazione che da più parti è stata considerata tra le più ampie 9 ed alla quale so-

no state attribuite le cause delle disfunzioni dell'attività di pianificazione. E sulla discrezionalità il legislatore della controriforma della legge n. 10177 ha inciso attraverso la disciplina del silenzio-assenso dapprima introdotto temporaneamente ed ora generalizzato in virtù dell'art. 23 della legge n. 179/90, credendo di risolvere un aspetto patologico - comune peraltro a tutti i settori della p.a.' ° - con una terapia, quella del silenzio-assenso, che sta producendo effetti negativi sul controllo delle attività edilizie.

DEROGHE E LOBBIES

Non credo sia attuale pensare ad una riforma complessiva dell'urbanistica, ma occorre pensare all'attuazione di una legislazione, in gran parte inattuata, su cui s'innestano peraltro continuamente ampie deroghe legislative. E non credo neppure sia opportuno affidare a questo legislatore il compito di riformare l'attuale corpus legislativo in materia. A mio avviso suile questioni urbanistiche e. dell'edilizia il parlamento mostra di non avere le idee chiare, confermando almeno in questo settore la sua natura di organo di teatro" espressione degli interessi plùrimi dello Stato pluriclasse, nel quale gli interessi privati in questo caso delle lobbies degli imprenditori - riescono sempre più ad imporre la tutéla d'interessi parziali rispetto a quelli generali. 35


Valgano due esempi recenti. Il primo la proposta di estensione del silenzio-assenso anche all'approvazione dei PRG da parte delle Regioni, in assenza di decisione entro 180 giorni, contenuta in un decreto legge più volte reiterato assieme a numerose disposizioni di proroga di termini in varie materie. Il secondo esempio è costituito dai contenuti dell'art. 16 della legge n. 179/92 sull'inserimento nel nostro ordinamento di un nuovo istituto: i programmi integrati d'intervento, che incidono proprio sull'impianto generale della legge urbanistica introducendo gravi e profonde deroghe al sistema di pianificazione urbanistica, su cui la Corte Cost. con sent. n. 393/92, depositata alla fine dello scorso anno, ha dichiarato incostituzionali ben cinque commi. Il programma, bonne a tout faire, è caratterizzato dalla presenza di una pluralità di funzioni, dalla integrazione di diverse tipologie d'intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione di una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana, e dal possibile concorso di più operatori e risorse finanziarie, pubblici e privati. Soggetti pubblici e privati possono presentare programmi integrativi relativi a

zone in tutto o in parte edificate (quindi con riferimento particolare ai centri storici) o da destinare a nuova edificazione (nelle zone di espansione) al fine della loro riqualificazione ambientale ed urbana. Ma il procedimento di approvazione dei programmi da parte del consiglio comunale - censurato dalla Corte prevedeva addirittura che questa equivalesse al rilascio delle concessioni edilizie per le opere previste nei programmi stessi, eliminando la differenziazione tra il momento della pianificazione urbanistica e quello della sua attuazione, ed introducendo così «una grave deroga al principio di distinzione tra programmazione territoriale, come diretta a regolare la destinazione e l'uso del territorio, e la legittimazione all'esecuzione delle opere conferita al soggetto ointeressato con il rilascio dell'attò amministrativo, senza il controllo di coerenza dell'intervento specifico con gli indirizzi programmatici, controllo particolarmente necessario per l'osservanza che esso consente del precetto dell'an. 4, comma primo, della legge n. 10/77 secondo il quale la concessione è data in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi»' 2 .

Note Sia consentito rinviare alla mia voce «Urbanistica», in Enciclopedia del Diritto, voi. XLV, 1992, pp. 868 ss. Vedi anche G. M0KBIDrLLI, «Pianificazione

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territoriale e urbanistica» in Enciclopedia giurul:ca Treccani, 1991 2 Un esempio è la sentenza n. 359/1985


Vedi la legge n. 43 1/85 in materia di tutela paesistica e la legge n. 394/91 in tema di aree protette. La legge n. 183/89 in materia di difesa del suolo introduce tra l'altro il piano di bacino, sulla cui natura giuridica e sui suoi effetti sul territorio pianificato si è resa necessaria una interpretazione della Corte Cost. (sent. n. 85/1990). Si pongono comunque problemi di coordinamento con i piani urbanistici di estremo rilievo, anche perché il legislatore continua ad introdurre tipologie di piani settoriali che hanno natura giuridica di dubbia collocazione M . S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano 1939, pp. 73 ss. 6 G. ZANOBINI, Scritti vari di diritto pubblico, Milano 19SS,p.2O3

Non esiste una legislazione specifica a tutela dei cen tri storici, se si eccettuano norme sparse nella legislazione regionale, e l'applicazione di una legislazione "di confine" come la legge n. 1089/39 e la più recente legge «Mammì» n. 15/87 che affida tuttavia alla discrezionalità dei comuni di diniegare le autorizzazioni

commerciali per attività incompatibili con le esigente di tutela delle attività tradizionali e delle relative aree. Mentrè la giurisprudenza amministrativa continua ad avere atteggiamenti altalenanti sul tema, vedi sul punto positivamente la sent. Cort. Cost. n. 118/90 e da ultimo la sent. n. 388/92. Ma vedi anche l'art. 6, 2 e 3 co. della legge n. 142/90 che affida allo statuto comunale il compito di prevedere forme di partecipazione ai procedimenti amministrativi. M.S. GIANNIN!, Diritto amministrativo, 1988; STELLA RICHTER, Profili funzionali dell'urbanistica, Milano 1984. IO Basta osservare le enòrmi difficoltà di attuazione della legge n. 241/90 nella parte relativa all'accesso ai documenti amministrativi. La definizione è di M.S. GIANNINI, L'amministrazione pubblica nello Stato contemporaneo, in Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, voi. I, p. 138. 12 Così testualmente dalla sent. n. 393/92 in G.U. Spec. n. 44 del 21 ottobre 1992.

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Il ruolo dell'amministrazione centrale di Federico Cempella

PROBLEMI DELLA DISCIPLINA URBANISTICOTERRITORIALE

Non vi è dubbio che le amministrazioni centrali e locali, come gli operatori pubblici e privati, hanno necessità di esplicare in un terreno solido la loro azione, specie quando questa ha, comunque, riferimento, per così dire, attivo o passivo, al territorio: e perciò sono favorevolmente orientati verso l'attribuzione di un ruolo strategico al soggetto pubblico specificamente competente in materia di coordinamento delle attività connesse con l'assetto territoriale. Ciò coerentemente, anche, con il dibattito che, in materia di territorio, già da tempo è in corso a livello internazionale e comunitario, nonché con le scelte che il Consiglio d'Europa e la Comunità Europea vanno• concretamente adottando e che rivestono fondamentale0 importanza per lo sviluppo dei Paesi aderenti. Lo Stato, pertanto, diventa credibile se individua responsabilmente uno scenaio strategico nel quale le linee dell'assetto del territorio nazionale si inquadrano in quello, più ampio, della Comunità europea con riferimento, ove 38

necessario, a più estesi ambiti extracomunitari e internazionali. Si tratta, ov viamente, di un ruolo che, intanto, è necessario in quanto lo Stato assume la relativa responsabilità, nel senso che l'azione di coordinamento deve essere intesa ad armonizzare le diverse competenze e, perciò, i vari livelli di decisione e gli interessi eventualmente contrapposti in termini di composizione avendo come obiettivo unificante e di riferimento l'interesse generale, di cui è portatore e garante 1' Stato medesimo. E pur vero che nel passato si sono verificati attriti e sono state rivendicate competenze, quasi con pretese di esclusività, specie da parte delle Regioni: ma ciò appariva comprensibile quando ancora tali enti dovevano affermare la propria autonoma identità e il proprio ruolo. Oggi, invece, l'esperienza ha dimostrato quanto la mancanza di una visione organica in un ordinamento così articolato, quale è quello previsto dalla Costituzione, pregiudichi anchè l'azione delle singole amministrazioni e degli enti locali, che, invece, necessitano di una adeguata conoscenza del territorio e di un centro di riferimento e di coordina-


mento dell'attività ad esso connessa. Cosicché l'esigenza di uno Stato capace di costituire non solo il momento di valutazione unitaria di tali competenze, ma anche di valorizzarle, consentendo loro di esprimere tutta la relativa potenzialità è generalmente avvertita. D'altra parte l'ordinamento vigente in materia urbanistica già prevede - da ultimo con l'art. 81 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 - che lo Stato svolga questa azione identificando, nell'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento, le linee fondamentali dell'assetto del territorio, con particolare riguardo all'articolazione degli interventi statali, nonché alla difesa del suolo e alla tutela ambientale ed ecologica. La stessa disposizione prevede il controllo dell'attività urbanistico-edilizia delle amministrazioni statali e degli enti istituzionalmente competenti a realizzare opere pubbliche di interesse statale. Il "sistema" dell'art. 81 prevede, pertanto, da una parte di indirizzare l'intera attività in materia urbanistica e, dall'altra, di realizzare un coordinamento anch'esso di carattere generale, ma basato, in particolare, sul controllo della attività di infrastrutturazione svolta dallo Stato. Il disposto dell'art. 81 ha formato oggetto, ormai, di una vasta giurisprudenza che ha riconosciuto il ruolo dello Stato ed, in esso, del Ministero dei Lavori Pubblici, nel cui ambito opera la Direzione Generale del Coordinamento Territoriale; ed, in particolare, ha riaffermato - a livello costituzionale -

che il territorio non può essere interpretato come la sommatoria di interessi parziali e settoriali dovendo, invece, essere considerato unitariamente, posto che una disfunzione che si verifichi in un settore o la errata utilizzazione o sistemazione di una zona possono creare riflessi negativi o situazioni di pregiudizio nei confronti di altre aree. Il ruolo che allo Stato viene riconosciuto comporta, pertanto l'obbligo per il Ministero dei Lavori Pubblici di muoversi sia sul versante normativo, che su quello dei concreti interventi, al suo livello di competenza. Quanto al primo appare necessario approfondire il dibattito, e lo studio di una nuova disciplina della materia urbanistica - materia questa per la qùale ha preso iniziative anche la Commissione Ambiente, Territorio e Beni Ambientali del Senato - alfine di pervenire alla introduzione nell'ordinamento di nuovi principi generali intesi a superare quelli vigenti, posti oltre cinquant'anni fa con la legge fondamentale n. 1150/1942, di cui, peraltro, non si possono disconoscere i grandi meriti. Si tratta, in particolare, di superare, da una parte, un sistema di pianificazione, a livello locale, estremamente rigido e gerarchizzato - adatto ai tempi in cui fu pensato, caratterizzati da uno sviluppo urbano piuttosto lento e contenuto - e che risulta incapace di corrispondere con sufficiente tempismo alle esigenze di trasformazione, uso e conservazione del territorio in una società in evoluzione continua e rapida. D'altra 39


parte, devono individuarsi - partendo dal principio sancito dal comma 1 dell'art. 81 del d.P.R. n. 616/1977 - modi nuovi per l'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento, che rendano più agevole la collaborazione fra tutti i soggetti interessati (Stato, Regioni, Province, Comuni, operatori pubblici e privati) all'uso del territorio. Anche sul piano, degli interventi concreti, al suo livello, lo Stato - e per esso, il Ministero dei Lavori Pubblici - si sta muovendo in questa direzione. In particolare, è già stata concretamente avviata la formazione di un "Osservatorio permanente per il monitoraggio delle trasformazioni territoriali", inteso come strumento e sede per la raccolta e la elaborazione dei dati concernenti il territorio, che assicurerà una conoscenza quanto più possibile completa della "realtà", necessaria per l'identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio, di cui all'art. 81. Si tratta, in concreto, di fornire un servizio - oggi mancante - a tutti coloro che operano avendo come oggetto del loro operare il territorio (amministrazioni statali, enti locali, operatori pubblici e privati); si tratta, cioè, di dare la possibilità, a detti operatori, di evitare, appunto, sulla base della "conoscenza", i ritardi, le diseconomie, le inefficienze, gli sprechi che troppo spesso hanno caratterizzato l'attività, soprattutto della Pubblica Amministrazione e che sono addebitabili alla mancanza di uno strumento quale quello che si intende realizzare. 40

Il Ministero dei Lavori Pubblici inoltre è intenzionato a dare un'attuazione più incisiva al comma i ,dell'art. 81, mediante un più coerente esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento, che finora ha, sostanzialmente, rincorso emergenze - che, peraltro, sono state anche la dimostrazione della indispensabilità dell'esercizio di quella funzione - e non è stata in grado di precorrere gli eventi. Insieme a questo, il Ministero intende dare una.più esatta applicazione ai commi 2, 3 e 4 dello stesso art. 81, concernenti il controllo urbanistico edilizio delle opere delle amministrazioni statali e degli enti istituzionalmente competenti a realizzare opere pubbliche di interesse statale rientrante pure nell'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento mediante un'ampia ed incisiva circolare. Questa, infatti, si è resa necessaria non solo per dare una più omogenea e corretta applicazione alla normativa, ma anche per adeguare i comportamenti sia del Ministero, che delle amministrazioni statali e degli enti locali interessati; ciò anche in relazione ad una giurisprudenza che, proprio negli ultimi tempi, si è enormemente arricchita e che, oltre a ribadire nella materia la centralità del Ministero dei Lavori Pubblici, ha esplicitato ed affrontato taluni aspetti delle disposizioni dell'art. 81, ed ha dato una interpretazione estremamente significativa di nuove, recenti disposizioni, che hanno integrato la normativa in materia di controllo urbanistico edilizio delle opere statali. Il riferi-


mento è in particolare alle "conferenze. creto, esercitata. Si illustrano inoltre i di servizi" in ordine alle. quali una re- modi con cui il Ministero dei Lavori centissima sentenza della Corte Costi- Pubblici affronta e intende risolvere i tuzionale (n. 62/1993) ha delineato - problemi del territorio, così come-oggi in relazione alla grande valenza che l'I- appaiono nella loro complessità e constituto può avere come metodo per la sistenza. soluzione di problemi nei quali confluiscano diverse competenze .- un proce-' dimento atto a rendere l'istituto coe- LA LEGGE 17 AGOSTO 1942, N. 1150 ELE rente, da un lato, con i principi generali INTEGRAZIONI APPORTATE DALLA LEGGE 6 dell'ordinamento vigente in materia di AGOSTO 1967, N. 765. coordinamento e, dall'altro, con quelli più specifici del rispetto sostanziale del- La fondamentale legge 17 agosto 1942, le singole competenze di cui i vari sog- n. 1150, ha introdotto, 'come è noto,' getti partecipanti sono portatori. per la prima volta in via generale (sia Con altra sentenza, anche recente, (n." pure limitatamente ai "centri abitati" 150/1992) la stessa Corte ha precisato i ed alle "zone di espansione" dei piani limiti entro i quali è legittimo sottrarre regolatori) l'obbligo, per l'esecuzione al controllo ex art. 81 le opere destinate di opere edilizie da parte dei privati, di. alla difesa militare. La problematica, munirsi della licenza da parte del Sindacome è evidente, è vasta e gli obiettivi, co (art. 81). pur se ambiziosi, debbono essere rag- La stessa legge attribuiva al Sindaco giunti; o, quanto meno, deve tendersi (art. 32) la vigilanza sùlle costruzioni da costantemente al loro perseguimento, eseguire nell'intero territorio comunapur nella consapevolezza del fatto che, le, per assicurarne la rispondenza alla nella materia, non esistono traguardi fi- 'normativa vigente. nali, ma traguardi per fasi, al di là dei Quella legge stabiliva un sistema norquali si intravede ancora una lunga stra- mativo tendenzialmente inteso a conda da percorrere. trollare l'intera attività urbanistico edi La circolare di cui si è fatto cenno è in- lizia, in rapporto alla pianificazione fitesa, appunto, a indicare un traguardo sica ai vari livelli. In quel sistema non oggi possibile ed i mezzi per conseguirlo. poteva sfuggire, pertanto, al controllo' Per un migliore inquadramento della dell'attività delle amministrazioni staproblematica in questione si propone, tali, così rilevante - sia pure in tempi nei punti che seguono, una sintesi stori- di minore ingerenza dello Stato nel setca dei modi in cui il ruolo dello Stato tore dell'economia - per la infrastrutnella trasformazione del territorio si è turazione e, perciò, per lo sviluppo del affermato e come la funzione di indiriz- territorio. La disposizione riguardante, zo e di coordinaménto è stata, in con- in quella legge, le opere delle ammini41


strazioni statali era, come è noto,' l'art. 29, che attribuiva al Ministero dei Lavori Pubblici il compito di «accertare che le opere - di quelle amministrazioni - non siano in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore e del regolamento edilizio vigenti nel territorio del Comune in cui esse ricadono». L'ultimo comma del menzionato art. 32 della stessa legge integrava, poi, il sistema, attribuendo al Sindaco (cioè all'autorità locale preposta alla vigilanza sulle costruzioni nel territorio comunale) il potere-dovere di informare il Ministero dei Lavori Pubblici delle inosservanze della normativa urbanistico edilizia imputabili ad amministrazioni dello Stato. La normativa sul controllo urbanistico edilizio delle opere statali si inquadrava peraltro in un sistema, che attribuiva allo Stato - e per esso al Ministero dei Lavori Pubblici - un esteso potere di indirizzo e coordinamento delle attività di trasformazione del territorio. L'art. 5 della legge n. 1150/1942 prevedeva la formazione, a cura di quella amministrazione, dei piani territoriali di coordinamento, che dovevano essere elaborati per ampie parti del territorio nazionale (di norma una Regione), d'intesa con le altre amministrazioni interessate, per «orientare e coordinare l'attività urbanistica». I Comuni erano «tenuti ad uniformare - al piano territoriale - il rispettivo piano regolatore comunale». Attraverso lo strumento statale poteva, pertanto, indirizzarsi l'attività urbanistica comunale, sulla 42

base dello strumento urbanistico al corrispondente livello. Ma allo Stato non mancavano altre possibilità di intervenire per assicurare l'inserimento, nei piani comunali, di previsioni relative al soddisfacimento di interessi che travalicassero quelli locali in termini di utilizzazione del territorio. Infatti, in sede di approvazione, da parte del Ministero dei Lavori Pubblici, dei piani regolatori, sia generali che particolareggiati, potevano essere introdotte - prassi riconosciuta legittima anche dalla giurisprudenza - modifiche a detti strumenti con diverse finalità e varia incisività. Tale prassi fu, successivamente, disciplinata e codificata con gli artt. 3 e 5 della cosiddetta legge ponte in materia urbanistica (6 agosto 1967 n. 765), con la quale l'introduzione di modifiche fu esplicitamente prevista in relazione non solo al generale potere di vigilanza sulla attività urbanistica, attribuito al Ministero dei Lavori Pubblici dall'art. 1 della legge n. 1150/ 1942, ma anche alla necessità della «razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato»; alla tutela del paesaggio; alla osservanza dei limiti e rapporti da osservare nelle zone destinate alla edificazione residenziale.

IL D.P.R. 24 LUGLIO 1977, N. 616

Questa normativa è restata in vigore fino all'attuazione dell'ordinamento regionale, quando è stata radicalmente


modificata dall'art. 81 del d.P.R. n. 616/1977. La norma delegata riafferma l'attribuzione allo Stato - anche nella nuova situazione creata dall'art. 117 della Costituzione repubblicana che attribuisce alle Regioni la materia "urbanistica" della funzione di indirizzo e coordinamento nella detta materia: e ciò nel più ampio quadro sancito dal menzionato articolo, che assegna alle Regioni potestà legislativa «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e sempreché non vi sia contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni». Ma, essendo venuti a mancare gli strumenti in precedenza usati per esercitare tale funzione (piani territoriali e modifiche ai piani comunali) la disposizione ha affidato allo Stato, in via generale, il compito della «identificazione... delle linee fondamentali dell'assetto del territorio con particolare riguardo all'articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ... ». In questo contesto, la disposizione ha ribadito la competenza dello Stato a controllare l'attività urbanistico edilizia delle amministrazioni statali; ma ha stabilito che il provvedimento con il quale si esercita tale controllo è emanato sulla base di una intesa tra Stato e Regione. Attraverso tale attività "concordata" il potere statale non si limita, però, all'accertamento della "conformità" dell'opera alle prescrizioni urbanistico edilizie locali, ma può spingersi sino a pren-

dere in considerazione, ai fini dell'autorizzazione a costruire, opere delle amministrazioni dello Stato progettate in contrasto con tali prescrizioni. La normativa ora vigente, invece, non comporta alcuna innovazione in ordine alla vigilanza sulle costruzioni, che continua ad essere attribuita, per intero, al Sindaco; il quale deve informare il Ministero dei Lavori Pubblici ed il Presidente della Giunta Regionale degli abusi eventualmente commessi (o che si presume siano stati commessi) da amministrazioni dello Stato.

L'ART. 81 DEL D.P.R. 24 LUGLIO 1977 N. 616 ED I POTERI DELLO STATO NELLA MATERIA "URBANISTICA" Per una corretta soluzione dei problemi derivanti dall'applicazione dell'art. 81 del d.P.R. n. 616/1977 è opportuno fare un breve esame della ripartizione delle competenze in materia "urbanistica", come risulta a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione repub-, blicana e delle disposizioni che le hanno dato attuazione; con particolare riguardo, ovviamente, ai compiti ed ai poteri attribuiti allo Stato. E noto - e risulta dagli atti parlamentari - che il precetto costituzionale dell'art. 117, in linea con il significato allora corrente del termine, faceva dell"urbanistica" una materia di livello locale, essenzialmente comunale, che aveva per oggetto l'espansione dei centri abitati e non considerava lo sviluppo del 43


territorio nel suo complesso. E ciò anche perché non aveva avuto neppure un tentativo di attuazione la fondamentale legge urbanistica del 1942, che aveva, fra l'altro, introdotto lo strumento della pianificazione territoriale di coordinamento, e si poneva come obiettivo «l'assetto e l'incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio dello Stato». Ma la complessità dei fenomeni che interessano il territorio (e questo era già vero al momento dell'approvazione della legge urbanistica) tale da non consentire, nella materia, rigide ripartizioni di competenze o addirittura esclusioni. Gli "enti locali" - dal Comune alla Provincia ed alla Regione, insieme allo Stato, che pure ha il territorio come elemento costitutivo e caratterizzante - non possono evidentemente affermare una competenza esclusiva alla disciplina ed all'uso di uno "spazio" che non ammette "appropriazioni" totalizzanti, essendo interessato da una "stratificazione" di competenze. Il territorio, in realtà, identifica soltanto l'estensione spaziale dei p teri che, nella materia, spettano a ciascun ente locale, compreso lo Stato; la superficie territoriale, in altri termini, segna il limite di competenza entro il quale l'ente può esplicare la sua potestà, in relazione ai compiti istituzionali. Cosicché sullo stesso territorio possono e debbono "convivere" DiÙ ooteri intesi alla sua conservazione e difesa, come alla sua trasformazione urbanistica ed edilizia; ciascuno esercitato per l'assolvi44

mento, appunto, dei compiti istituzionali ai vari livelli. Questa molteplicità di poteri e competenze senza una norma unificante risulterebbe sicuramente conflittuale ed impedirebbe un corretto assetto del territorio. D'altra parte, tale inconveniente non potrebbe essere eliminato attraverso soluzioni e strumenti di tipo "gerarchico" (quali quelli previsti dalla legge urbanistica del 1942), inammissibili in relazione al sistema delle autonomie sancito dalla Costituzione. Il legislatore, sia costituzionale sia ordinario, non ha ignorato il problema; cosicché - sulla base anche del precetto costituzionale, posto dall'art. 117, che attribuisce, in determinate materie, competenza legislativa sulle Regioni «nei limiti dei principi fondamentali delle leggi dello Stato» - ha lasciato agli enti locali la formazione degli strumenti di pianificazione del territorio di tipo per così dire "tradizionale", ma ha assegnato allo Stato la funzione di indirizzo e di coordinamento dell'attività amministrativa delle Regioni. E ciò, per quanto riguarda la materia "urbanistica", è stato esplicitamente affermato dall'art. 9 del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 e ribadito dal co. i dell'art. 81 del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616. Questa ultima norma non afferma che tale funzione viene esercitata mediante la formazione di strumenti urbanistici, sia pure di tipo nuovo e specifico, come pure sarebbe ipotizzabile: ma assegna allo Stato il compito della «identificazione... delle linee fondamentali dell'as-


setto del territorio nazionale con particolare riguardo all'articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ... ». La formula è assai ampia e pertanto consente una pluralità di modi di esercizio della funzione: fermo restando che l'ambito spaziale, per lo Stato, coincide con il territorio nazionale. Nel sistema così delineato il limite della potestà statale è l'interesse dello Stato inteso non solo con riferimento ai singoli interventi di competenza, ma come interesse che - per essere diffuso oltre gli ambiti locali, per essere "generale e percio di grado superiore ad ogni altro interesse - deve prevalere su tutti gli altri, anche quando non si manifesti attraverso la realizzazione di opere. Questo è appunto il significato del comma i dell'art. 81 quando fa rifèrimento alla identificazione di "linee" intese a fornire l'indirizzo e ad attuare il coordinamento ai fini dell'<assetto del territorio nazionale>' ivi compresa «la tutela ambientale ed ecologica... nonché la difesa del suolo». E ciò comporta che tali linee, a livello di indirizzo e di coordinamento, debbono riguardare anche le attività non statali, ivi comprese, tendenzialmente, anche quelle private. In definitiva, lo Stato ha una competenza piena ed esclusiva - da esercitare nei modi stabiliti - sulle opere di proprio interesse (cioè nel suo ambito di competenza) specie per quanto riguarda l'ubicazione e l'articolazione territoriale dei singoli interventi; ma è tenuto, per contro, a conoscere e tener conto del

quadro di riferimento costituito dalle dette «linee fondamentali», degli interessi, delle previsioni, delle indicazioni degli altri soggetti cui compete ai vari livelli di disposizione l'uso del territorio, alfine di un loro globale coordinamento.

LA FUNZIONE DI INDIRIZZO E DI COORDINAMENTO NELLA MATERIA "URBANISTICA " E IL MINISTERO DEI LAVORI PUBBLICI

Come si è detto, la funzione di indirizzo e di coordinamento in materia urbanistica è di esclusiva competenza dello Stato. Essa si esercita, come pure si è detto, in vari modi, alcuni già previsti dall'ordinamento vigente, altri da individuare in relazione alle esigenze così come si manifesteranno; tra quelli, il primo riferimento è al controllo urbanistico edilizio delle opere statali, di cui ai commi 2, 3 e 4 dell'art. 81; tra questi, all'individuazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio prevista al primo comma dello stesso articolo. Deve ulteriormente precisarsi che tale funzione, per sua natura, può essere esercitata solo unitariamente: non può, cioè, non far capo ad un unico "centro" cui il compito sia stato conferito in rapporto alle sue competenze istitu zionali. Tanto più che, l'appartenenza alla Comunità europea - che, pure, ha il compito di promuovere e finanziare interventi strutturali negli Stati membri - comporta l'esigenza di un coordinamento non solo tra i soggetti che 45


operano all'interno dello Stato per l'assetto del territorio, ma anche con le autorità sovranazionali, sulla base di rapporti che possono far capo soio allo Stato. Nel nostro Paese, l'organo preposto si potrebbe dire, naturalmente - all'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento nella materia è il Ministero dei Lavori Pubblici, come risulta inequivocabilmente dalla tradizione, dai fatti, dalle norme vigenti. Innanzitutto, il Ministero dei Lavori Pubblici - che realizza le grandi opere pubbliche ed in particolare provvede all'attuazione dei cosiddetti "sistemi a rete" - è l'organo preposto alla infrastrutturazione del territorio, cioè alla sua organizzazione spaziale. Ma, soprattutto, il Ministero ha una lunga tradizione in materia di esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento delle attività connesse all'uso del territorio, sancita da norme di legge: basta ricordare l'art. 5 della legge urbanistica che gli attribuì la formazione dei piani territoriali di coordinamento, le varie forme di intervento finalizzato all'inserimento della pianificazione comunale in quella territoriale, utilizzate fino all'attuazione dell'ordinamento regionale; il controllo dell'attività urbanistico edilizia delle amministrazioni statali, disciplinata dall'art. 29 della stessa legge. E vero che oggi il d.P.R. n. 616/ 1977 si limita ad attribuire allo Stato competenze nella materia, senza indicare uno specifico organo per il relativo esercizio, ma è anche da tenere presen46

te che il d.P.R. n. 617/1977, emanato contestualmente a quello prima citato, muta la denominazione della Direzione Generale dell'urbanistica in quella di Direzione Generale del Coordinamento Territoriale: così individuando nel Ministero dei Lavori Pubblici, e nel suo competente servizio, l'organo deputato. Ma anche alcune leggi successive, relative a settori specifici di intervento, richiamano la competenza del Ministero dei Lavori Pubblici, quale titolare della funzione o, comunque, come «centro di riferimento». Ad esempio, la legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (8 luglio 1986, n. 349), pur attribuendo al nuovo Dicastero la materia precisa all'art. 2, co. 6, che quel Ministero «adotta l'iniziativa necessaria per assicurare il coordinamento.., delle funzioni di tutela dell'ambiente..., d'intesa col Ministero dei Lavori Pubblici»; e, soprattutto, al co. 7 dello stesso articolo, stabilisce che «fino alla riforma della amministrazione dei Lavori Pubblici le funzioni - di cui alla lett. a) del primo comma dell'art. 81... - sono esercitate di concerto con il Ministero dell'Ambiente». Ciò ribadisce che la funzione di indirizzo e coordinamento fa capo all'Amministrazione dei Lavori Pubblici; anche se il suo esercizio non ha carattere, per così dire, autoritativo, ma si esplica attraverso l'intesa, il concerto, l'accordo. Un'altra circostanza, che ha contribuito a fare del Ministero dei Lavori Pubblici il punto di riferimento per ciò che concerne l'assetto del territorio, nel


suo complesso, è l'ampliamento ed il continuo affinarsi dell'azione degli organismi internazionali (quali ONU, OcSE, ecc.) e, segnatamente, della Comunità europea, nel settore. Stiamo assistendo, infatti, al perfezionamento di una organizzazione internazionale attraverso la creazione di comitati e di gruppi di lavoro, con il compito di effettuare ricerche e studi o di adottare determinazioni in materia di sviluppo territoriale, di infrastrutture, di trasporti, di insediamenti e di affari urbani, ecc. Il Ministero dei Lavori Pubblici è chiamato, in relazione ai suoi compiti di istituto, a far parte di tutti gli organismi internazionali che, comunque, si occupano del territorio alfine di attuare in Italia le direttive o le determinazioni sovraregionali, le quali, anche quando riguardano parti limitate ed individuate del territorio nazionale, ovvero specifici settori, non possono non trovare pratica applicazione se non sono trasformate in determinazioni statali e coordinate con le altre iniziative e con tutti gli altri interventi riguardanti il territorio. D'altra parte, la normativa è la prassi vigente hanno avuto una, per così dire, "interpretazione autentica" in relazione a quanto affermato dalla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei Deputati che, nella seduta del 15 ottobre 1992, ha chiaramente individuato nel Ministero dei Lavori Pubblici il soggetto chiamato ad esercitare un ruolo di indirizzo, di coordinamento e di promozione de-

gli investimenti, quale titolare delle funzioni in materia di territorio, infrastrutture e di edilizia abitativa.

L'ASSETTO DEL TERRITORIO E IL CONTROLLO DELL'ATTIVITÀ URBANISTICO EDILIZIA DELLE AMMINISTRAZIONI STATALI

Come si è accennato, il controllo in senso lato dell'attività urbanistico edilizia delle amministrazioni statali, ai fini di un razionale assetto del territorio, si esplica in due momenti diversi, ambedue aventi la medesima finalità: quello della identificazione delle «linee fondamentali», previsto dal co. i dell'art. 81, e quello del controllo dei progetti dei singoli interventi sul territorio, che ha natura di autorizzazione alla realizzazione dei progetti medesimi (co. 2, 3 e 4 della medesima disposizione). Si tratta di due fasi successive e complementari, che, insieme, costituiscono il "metodo" per la soluzione dei problemi che, a regime, dovrà trovare applicazione per quanto riguarda la competenza dello Stato. Tuttavia la novità del metodo in questione, la complessità delle azioni necessarie per adeguare ad esso le strutture esistenti, la carenza o la contraddittorietà di alcune norme in materia di assetto del territorio, la imperfetta coscienza, da parte di molti, della necessità di un rigoroso e nazionale approccio ai problemi del territorio e, soprattutto, l'esigenza di un accordo nelle sedi istituzionali impongono un rinvio dell'applicazione integrale del 47


metodo ma anche di una regolamenta- di opere pubbliche non possono essere zione globale della materia. realizzati o debbono essere modificati Ciò non significa, peraltro, che la ratio perché risultano in contrasto o incomdella disposizione - che non ha biso- patibili con altri progetti statali o di engno di interpretazioni - non debba ti locali; che si 'progettano, e talvolta si guidare l'azione della Pubblica Ammirealizzano, opere che appaiono scarsanistrazione. Dovrà, soltanto, proceder- mente utili in quando doppioni di altre si per successivi approfondimenti, fino esistenti; che una mancata programmaa definire strutture e procedure atte alla zione dell'intervento statale sul territopiena applicazione del "metodo" che rio, in rapporto alle disponibilità di bil'art. 81 delinea. lancio, comporta l'impossibilità di portare a termine i lavori intrapresi, nei tempi previsti, ecc. E anche noto che IL COMMA i DELL'ART. 81 esami, anche approfonditi, di determinati progetti (quale, ad esempio, la vaSi è già detto che - a differenza dei lutazione di impatto ambientale) possocommi successivi - il co. i dell'art. 81 no non essere esaustivi, se non sono banon dà alcuna indicazione circa i modi sati su una conoscenza del territorio attraverso i quali lo Stato deve perveni- estesa ad ambiti abbastanza vasti. re alla identificazione delle linee fonda- In definitiva, si tratta di indirizzare e mentali dell'assetto del territorio. Non coordinare gli interventi, al fine di renvi è dubbio, tuttavia, che detta "identi- derli efficaci nella misura maggiore posficazione", da effettuare nell'esercizio sibile, evitando sprechi non solo di ridella funzione di indirizzo e coordina- sorse economiche ma, soprattutto, di mento della materia "urbanistica", quella risorsa scarsa e preziosa che è il comporti l'esigenza di individuare un territorio. A questo fine, è necessario, momento o un «punto» nel quale le esi- innanzitutto, avere una sufficiente cogenze e gli interessi relativi all'assetto noscenza del territorio e dei "fatti" che del territorio si incontrino per "cono- 'lo riguardano, sulla base di tale conoscersi" e armonizzarsi. Si tratta, come è scenza indirizzare la programmazione evidente, non solo e non tanto di assi- degli interventi e coordinare l'esecuziocurare un armonico assetto del territo- ne dei programmi. rio, quanto di porre le basi per bilancia- Il Ministero dei Lavori Pubblici, pér sore correttamente risorse (economiche, stenere adeguatamente il ruolo che ma non solo) e necessità in relazione al- come già si è detto - gli compete, sta la finalità da perseguire. E noto,. infatti, passando, quanto alla conoscenza del che troppo spesso amministrazioni di- territorio, da una fase, per così dire, verse replicano gli stessi studi rispetto episodica e frammentaria ad una fase ad un medesimo territorio; che progetti che, a regime, assicurerà alle ammini48


strazioni dello Stato (ma anche a tutti coloro - enti pubblici e privati - che potranno averne la necessità) la possibilità di accedere ad una serie di informazioni e di elaborazioni nèlla materia. E già stato dato il via ad un progetto di "Osservatorio per il monitoraggio..." che, integrandosi nell'analogo osservatorio eurqpeo, costituirà uno strumento nuovo e decisivo per l'azione dello Stato sui territorio.

Quanto alla funzione di indirizzo e di coordinamento, il. Ministero è già in grado di assicurarne l'esercizio, sia pure a livelli non ottimali, sulla base dei dati in suo possesso e di studi ed elaborazioni già effettuati o da effettuare nonché - e soprattutto - attivando il coordinamento degli interessi settoriali, nei modi che saranno circostanzialmente illustrati nella circolare di cui si è fatto cenno.

Epí


Piano, risorse, territorio di Maurizio Coppo

PIANIFICAZIONE URBANISTICA E TRASFORMAZIONI TERRITORIALI

Sulla scarsa capacità di governo dei rispetto alle grandi trasformazioni territoriali e ai processi di riorganizzazione e rilocalizzazione della popolazione e delle attività economiche, mi sembra che si possano nutrire pochi dubbi. La storia recente dello sviluppo industriale diffuso e della formazione dei nuovi distretti industriali del Nord Est Centro, l'ingente abusivismo edilizi0, il basso coordinamento con i programmi e gli interventi di infrastrutturazione espressi dai centri di spesa nazionali o comunque esterni alle amministrazioni locali, il ricorso sistematico a varianti di piano parziali e scarsamente raccordate tra loro, la necessità di adeguare sistematicamente le previsioni di PRG ai processi di trasformazione reali e non viceversa sono le condizioni ricorrenti della pianificazione urbanistica. Per una serie di motivi gli strumenti urbanistici indicati dalla legge n. 1150/42 si sono tradotti in un corpo di vincoli che, nelle migliori delle condizioni, riescono a imporre un buon livello di cdiPRG,

1i

ficazione e una adeguata forma urbana nelle nuove espansioni o il rispetto dell'impianto tipologico originario negli interventi sulla città costruita. Ciò che invece gli strumenti urbanistici non riescono a fare - o fanno male - svolgere in modo compiuto una funzione di governo e orientamento dei comportamenti economici e localizzativi. La legge n. 1150, nata per regolamentare la forma fisica delle espansioni e la equa ripartizione del processo di valorizzazione immobiliare tra i diversi proprietari, assolve con grande difficoltà a funzioni di governo dello sviluppo economico e sociale locale e di tutela delle qualità ambientali e, comunque, solo laddove il contesto amministrativo risulta essere particolarmente equilibrato e attrezzato. Appare dunque più utile ed efficace recuperare ed esaltare le valenze di controllo dell'edificazione e della forma urbana, che sono il carattere strutturale del PRG, escludendo da tale strumento valenze improprie, relative al governo e all'indirizzamento delle grandi trasformazioni territoriali; trasformazioni che, a nostro avviso, debbono essere governate in altri modi e


con strumenti diversi da quelli tradizionali. V'è cioè un discrimine tra trasformazioni fisiche, forma urbanistica, standards, ecc. e struttura territoriale dei processi di sviluppo economico che occorre tenere ben presente per non riproporre pericolose confusioni, che giovano solo ai fautori della deregolamentazione come strumento per acquisire plusvalenze a spese della collettività. Una grossolana indicazione quantitativa del rapporto tra interventi governati dallo strumento urbanistico e interventi che invece si sviluppano all'interno di processi decisionali estranei alla pianificazione urbanistica, e da questa scarsamente governati, può essere desunta da un sommario esame degli investimenti in opere infrastrutturali e attrezzature di servizio. Nell'ultimo triennio in questo settore sono stati investiti circa 140.000 miliardi (lire '85). Di queste risorse circa 40.500 miliardi (il 29% del totale) è stato gestito direttamente da Comuni e Province; circa 25.500 miliardi (il 18% del totale) sono stati gestiti da enti di livello locale (come le USL, le aziende municipalizzate, etc), mentre i restanti 74.000 miliardi (il 53% del totale) sono stati gestiti da enti e aziende di livello nazionale che hanno generalmente operato con scarso o assente coordinamento rispetto agli strumenti di pianificazione urbanistica, ricorrendo spesso all'art. 81, obbligando le amministrazioni locali a varianti di piano di natura palesemente strumentale, ecc.

Occorre inoltre considerare la qualità di tali investimenti: trattandosi di grandi opere infrastrutturali e grandi attrezzature di servizio, tali investimenti condizionano pesantemente le linee di sviluppo territoriale, ben di più di quanto non facciano gli investimenti in infrastrutture e attrezzature minute. In altri termini, un investimento in grandi opere infrastrutturali scarsamente coerente con l'assetto di previsione del PRG ha un effetto "distorcente" che riverbera• su molti altri comparti di investimenti. Tutto ciò non significa affatto che si debba auspicare una subordinazione degli interventi di scala nazionale, o comunque sovracomunale, alle logiche dello sviluppo locale, più semplicemente evidenzia come lo scarso coordinamento tra governo urbanistico e grandi programmi di infrastrdtturazione abbia dimensioni di assoluto rilievo e costituisca uno dei fattori fondamentali dello scarso controllo sui processi di trasformazione del territorio.

PIANIFICARE PER PROGETTI?

Gli evidenti limiti della pianificazione urbanistica tradizionale (o, più precisamente, il ruolo impropri o che si è' cercato di attribuire alla pianificazione urbanistica) sono all'origine di una diffusa e marcata tendenza a proporre il superamento del piano (da alcuni giudicato eccessivamente lungo, astratto, oneroso, incapace di assicurare un effettivo controllo, ecc.) attraverso un sistema di 51


progetti che devono essere definiti utilizzando apposite tecniche di valutazione. Una variante di tale posizione è quella che interpreta il piano come scenario di fondo, come strumento di verifica della compatibilità e della coerenza complessiva di progetti di intervento e interpreta il progetto come strumento di determinazione e attuazione delle trasformazioni territoriali. E una posizione che si ritrova parzialmente espressa anche in alcuni provvedimenti normativi e che tenderebbe a dare dignità e sistematicità ad una pratica che, come argomentiamo di seguito, ha strutturalmente il carattere della straordinarietà ed episodicità e viene utilizzata invocando la straordinarietà e l'urgenza dell'intervento. Occorre anzitutto notare che la pianificazione per progetti tende a formalizzare e legittimare una delega sostanziale del governo delle trasformazioni territoriali ai grandi gruppi economico-finanziari. Questi, singolarmente o per raggruppamenti, esprimono il sistema di convenienze che si traduce in un progetto di intervento. Su tale progetto, e dopo la sua definizione, vengono applicati strumenti di valutazione che consentono, nel migliore dei casi, la verifica e messa a punto della soluzione di progetto e, nel peggiore, costituiscono unicamente uno strumento per la costruzione di consenso. Parallelamente il progetto viene presentato, proposto, veicolato in vari modi e forme alle amministrazioni locali com52

petenti che, generalmente prive di adeguati strumenti di controllo e verifica e non in grado di competere con la strumentazione di corredo della proposta, si limitano a recepire il progetto, eventualmente apportando modifiche non sostanziali, contrattando una manciata di benefici accessori e variando il piano per ricostituire - ma solo in termini formali - la coerenza tra strumento urbanistico e progetto di intervento. Che i grandi gruppi economico-finanziari definiscano i loro progetti e ne propongano la realizzazione non è di per sé negativo; tuttavia che tali progetti costituiscano la sostanza o buona parte dell'azione di indirizzo dei processi di trasformazione-sviluppo del territorio appare decisamente non auspicabile in quanto: la mancanza di una solida e consistente pianificazione territoriale non permette di valutare se vi siano alternative di fondo meno vantaggiose per gli interessi che esprimono il progetto (o comunque non esaminate dai soggetti proponenti il progetto) che, tuttavia, rientrano ancora all'interno delle condizioni di fattibilità e, soprattutto, risultano piti favorevoli agli interessi dif fusi della collettività locale e allo sviluppo economico e sociale di periodo mediolungo; lo sviluppo del territorio per progetti, al di là degli schieramenti di accademia e delle scuole, implica il trasferimento: della propositività, della progettualità, degli strumenti di controllo, degli indirizzi di sviluppo, dalle amministrazioni


locali - istituzionalmente e politicamente deputare a tali funzioni - ai grandi gruppi economico-finanziari e agli staff di progettazione e pro grammazione dì questi, e tale esautoramento è assolutamente preoccupante; c) si verifica sistematicamente che le risorse finanziarie del Paese non vengono allocate secondo una gerarchia di priorità definita in base all'urgenza, alle ricadute complessive degli investimenti, alle prospettive di sviluppo economico e civile del Paese e delle collettività locali ma in base alla forza espressa dai raggruppamenti economico-finanziari e dai loro "alleati". Tale quadro è chiarito in modo esemplare da recenti dichiarazioni dei Servizi Tecnici Nazionali, che evidenziano come alcuni interventi di difesa del suolo, necessari ed urgenti, non siano stati eseguiti o siano stati eseguiti in ritardo (e ciò avrebbe determinato i disastri ambientali a Genova e in Toscana) mentre si sono eseguiti (adottando procedure straordinarie) interventi di irregimentazione se non inutili, certamente molto meno urgenti. In sostanza la pianificazione per progetti non consente di confrontare soluzioni alternative per definire un assetto di investimenti, interventi, realizzazioni complessivamente efficace, sia rispetto al sistema delle convenienze dirette, sia rispetto alle linee di sviluppo economico e sociale del Paese; e non consente di fare questo perché manca dei necessari strumenti di controllo: la individuazione delle diverse alternative, la valuta-

zione preventiva degli effetti attesi e delle implicazioni intersettorialj per ciascuna delle alternative ipotizzate, ecc. Qualora poi si ritenesse necessario e possibile che tutti i progetti comprendano tali verifiche e analisi si arriverebbe, da un lato, a duplicare elaborazioni spesso molto onerose, che potrebbero invece essere svolte unitariamente (e senza rischiare pericolose subordinazioni a gruppi di interessi consolidati) nell'ambito degli strumenti di pianificazione territoriale, e dall'altro si determinerebbe un inaccettabile spreco di risorse per definire progetti tra loro' dichiaratamente alternativi e da scartare (tutti meno uno). In altri termini: se svolta senza verifiche, la pianificazione. per progetti, è arbitraria e inefficace, se svolta con le necessarie verifiche è inutilmente ridondante ed eccessivamente costosa.

PIANIFICAZIONE, PROGETTI E PROGRAMMAZIONE

Al progressivo incremento di peso di interventi e progetti dichiaratamente straordinari e settoriali che', si pongono a lato del piano, quando non in diretto contrasto con questo, non corrisponde un progressivo rafforzamento degli strumenti di analisi e valutazione dei risultati conseguiti. Né le note tecniche di valutazione della compatibilità o della fattibilità di un determinato intervento o gruppo di interventi possono essere considerate un adeguato momento di 53


verifica, poiché costituiscono solo uno strumento di affinamento di soluzioni già determinate nelle caratteristiche fondamentali (quando non svolgono un più umile ruolo di costruzione di consenso) e non di supporto alla definizione delle scelte di assetto territoriale. La Direzione Generale per il Coordinamento Territoriale del Ministero dei Lavori Pubblici ha definito la configurazione di un Osservatorio permanente sulle trasformazioni territoriali. Credo tuttavia opportuno segnalare come le riflessioni e gli studi che si stanno conducendo in questa fase iniziale mostrino, al di là di ogni specifica denuncia o preoccupazione contingente: l'enorme spessore e le gravissime implicazioni della mancanza di forme di reale coordinamento tra le diverse amministrazioni, tra i diversi programmi, tra i diversi livelli del governo del territorio; l'assoluta mancanza di un sistema di verifica sui risultati conseguiti e sulla resa economica e sociale di questi; i gravissimi rischi che in termini di sprechi e di scarsa trasparenza si celano dietro alla mancanza di una adeguata pianificazione e programmazione delle trasformazioni territoriali. E a proposito dell'ultimo punto non può certamente sfuggire il fatto che gran parte dei gravi episodi di corruzione, che hanno pesato sullo sviluppo economico e civile del Paese, si annidano all'interno della realizzazione di grosse opere infrastrutturali e più in generale di trasformazione territoriale. 54

Ebbene, la settorialità degli interventi, dei progetti e programmi straordinari ed urgentissilni, la mancanza di una rea-. le verifica dei, risultati da questi determinati sui piano dello sviluppo economico e civile e su quello delle modificazioni dell'ambiente naturale e di quello costruito, la virtuale assenza di una progettazione territoriale, che confronti alternative di diversa natura e ne valuti gli esiti attesi, costituiscono altrettante manfestazioni della mancanza di una solida e matura pianfìcazione di livello territoriale. I fattori appena indicati e la mancata pianificazione territoriale costituiscono due facce della stessa medaglia: l'assenza di un reale controllo e di un efficace indirizzo sulle linee di sviluppo del Paese e sugli impieghi più efficaci delle sempre più scarse risorse disponibili. Rispetto a questo tema anche la individuazione di forme più efficaci e trasparenti di appalto appare obiettivo doveroso ma, per molti aspetti, parziale.. A cosa serve infatti mettere a punto un efficace meccanismo che consenta di realizzare grandi opere (o piccoli interventi) attraverso procedure rigorose e trasparenti, e nel pieno rispetto dei tempi e dei costi, se non si è in grado di valutare preventivamente l'utilità economica e sociale dell'intervento rispet to alle diverse alternative possibili e in relazione all'assetto e alle linee evolutive della collettività nazionale e locale? A cosa serve rendere efficaci i singoli interventi sul territorio quando non vi sono strumenti adeguati per ottimizza-


re e coordinare tra loro gli interventi e i programmi settoriali promossi da molti soggetti diversi? Quanto è utile snellire le procedure, ridurre tempi e costi se non v'è la possibilità di determinare la configurazione complessiva dell'azione di trasformazione e tutela del territorio, eliminando quanto c'è di ripetitivo e ridondante o di non essenziale ai fini del conseguimento degli obiettivi?

LA FILIERA STATO-REGIONE-PROVINCIA COMUNE

Tenendo dunque conto dei limiti della pianificazione urbanistica, definita dalla legge n. 1150/42, e degli effetti non desiderabili determinati dalla pianzjìcazione per progetti, resta da determinare attraverso quali modi e strumenti siano governabili in modo coerente ed efficace le grandi trasformazioni territoriali. L'esigenza di nuovi strumenti formativi, di nuove procedure e di nuove tecniche, dedicati a questo specifico livello di trasformazione territoriale è presente in modo del tutto esplicito nella recente riforma dell'ordinamento delle autonomie locali. La legge n. 142/90 affronta il problema della pianificazione territoriale distinguendo tra due livelli di pianificazione: quello urbanistico, affidato ai Comuni, e quello territoriale, affidato alle Province, in funzione di raccordo tra programmazione economica nazionale e regionale e trasformazioni fisiche del territorio.

Il Piano Territoriale di Coordinamento, indicato dalla legge n. 142/90 come strumento cardine della pianificazione territoriale, si pone dunque non come uno dei tanti strumenti di pianificazione settoriali (come possono essere considerati per alcuni aspetti i Piani di Bacino della legge n. 183 o i Piani Ambientali della legge n. 392), ma come uno strumento originale che tende a governare i processi di sviluppo e riorganizzazione del territorio componendo interventi, programmi, piani di diversa natura e provenienza in un corpo unitario e organico attraverso una procedura affatto nuova che prevede la complementarità degli enti e la composizione delle scelte e non pii'i lo sviluppo lungo una sequenza lineare gerarchica che procede in modo meccanico dal generale al particolare, dall'ente sovraordinato all'ente subordinato, negando intimamente lo stesso concetto di Stato delle autonomie. Sembrerebbe dunque opportuno partire dai principi fissati dalla legge n. 142/ 90 per sviluppare una innovazione efficace in, termini di normativa riferita al governo del territorio. Non si dimentichi infatti che nel nuovo ordinamento delle autonomie locali la Provincia salda competenze economico-pianificatone con competenze di tutela ambientale e di indirizzo dell'azione comunale in materia, e che, per questa via, è possibile superare un settorialismo che fino ad oggi ha gravemente nuociuto alla tutela ambientale: quello che distingueva tra governo delle trasformazioni territoriali e tutela delle qualità ambienta55


li, affidandole a strumenti e leggi diverse quasi fossero problemi che non riguardano lo stesso oggetto (il territorio) e che non provengono dagli stessi fattori (i processi di trasformazione dell'ambiente naturale e di quello costruito).

forniscono oltre il 50% del gettito fiscale locale, l'assetto delle imposte e la istribuzione della pressione impositiva diventano indiretti ma importanti strumenti per l'attuazione della pianificazione territoriale. La questione è tanto più importante se teniamo conto del fatto che nel recente convegno dell'ARDEL è PIANI, PROGRAMMAZIONE FINANZIARIA, IM- emerso che 1.250 Comuni (il 15% del POSTE LOCALI totale) segnala gravi difficoltà finanziarie e che oltre 200 Comuni sono uffiSe la pianificazione territoriale è gover- cialmente dissestati (poco meno del 3% no dei processi di trasformazione e del totale). riorganizzazione del territorio, se l'as- In altri termini riteniamo che occorra setto delle attività, le condizioni di prolegare la pianificazione territoriale alla duttività media dell'area, le tendenze capacitì di intervento e questa al gettito e alla riorganizzazione e alla rilocalizzaalla manovra fiscale locale e, infine, che zione di attività e residenti sono deteril dimensionamento del gettito non minate dalla rete di infrastrutture e serdebba prescindere da una attenta valuvizi e dalle condizioni di accessibilità, tazione della distribuzione della presallora il governo delle trasformazioni sione impositiva e da una efficace politerritoriali è anche (forse soprattutto) tica di incentivi/disincentivi fiscali colpianificazione e programmazione di ope- legati, anche, all'attuazione del Piano re infrastrutturali, di attrezzature di ser- Territoriale. Ciò consentirà anche di vizio, di atti vitLì di servizio. ottimizzare la configurazione dei serviSe è così, tutta la questione della auto- zi (trasporti, energia, ecc.). nomia finanziaria e impositiva delle au- Se infatti assumiamo la pianificazione tonomie locali (altro principio fondati- territoriale come momento di integravo della legge n. 142/90) non si risolve zione di risorse e investimenti, secondo in uno strumento per consentire più una configurazione che risponda a criampi margini di manovra finanziaria teri di efficienza e di efficacia rispetto allo Stato, riservando alle amministra- ad un dato sistema di obiettivi, allora il zioni locali un ruolo di mero esattore, complesso bilancio che si viene a detercosì come non può ridursi ad uno stra- minare nel rapporto tra: tagemma per ripianare gli esausti bilangettito locale (e quindi ammontare dei ci degli enti locali, ma diventa articola- servizi erogabili e degli interventi infrazione organica della politica territoriale strutturali realizzabili); e della pianificazione territoriale. In altri pressione impositiva e sua distribuzioPaesi europei, dove le imposte -locali ne tra i diversi soggetti (e quindi com56


posizione dei benefici assicurati da tale pressione); non riguarda solò la finanza locale ma le stesse prospettive di sviluppo del territorio, inteso come sistema complesso di opere, di servizi e di qualità ambientali. Se cioè il Piano Territoriale none solo la prefigurazione e il disegno di ciò che potrebbe diventare un determinato territorio in assenza di condizionamenti e disponendo di risorse infinite, ma uno strumento per comporre in modo efficace, le scarse risorse complessivamente presenti in una detenninata area, allora tale strumento deve necessariamente comprendere anche: la valutazione del gettito necessario; le scelte riguardanti la composizione, la quantità e la qualità delle opere infrastrutturali e delle attività di servizi che possono essere assicurate a fronte del gettito conseguito; il dimensionamento della pressione impositiva e i suoi effetti sui processi localizzativi, sulle condizioni di produttività delle imprese, sui redditi delle famiglie. Ecco dunque che le imposte locali non assumono il senso di strumento per il ripi'anamento dei bilanci locali, per consentire la conservazione di uninsieme di spese che altrimenti sarebbe destinato a ridursi proporzionalmente alla contrazione dei trasferimenti sociali. Le imposte locali possono piuttosto diventare strumento di governo dello sviluppo locale e non uno dei tanti, ma, pro-' babilinente, lo strumento piìi importante. Trasferire il governo delle imposte lo-

cali dal bilancio alla pianificazione significa comporre la logica della capacità contributiva (mirata sul perseguimento di fini redistributivi) con quella della controprestazione (mirata sulla verifica dei benefici ottenuti in cambio dei tributi), secondo una impostazione certamente più vicina a quella di molti Paesi, europei con i quali dobbiamo confrontarci in termini sempre più diretti. E sembra importante segnalare che una più stretta corrispondenza tra imposte e servizi (quale quella prefigurata, sia pure in modo parziale e imperfetto, dai nuovi dispositivi normativi) appare' condizione tra le più importanti per conseguire una maggiore trasparenza nell'amministrazione della cosa pubblica. Imposte locali e pianificazione territoriale sono due fattori fortemente interrelati dello sviluppo locale: l'eventuale scarsa efficienza della spesa pùbblica si traduce direttamente in una secca riduzione dei servizi e degli investimenti' possibili, a parità di pressione impositiva; il Piano Territoriale potrà comprendere tante più opere quanto maggioré sarà il gettito assicurato alle amministrazioni locali competenti; l'equilibrio tra tutela ambientale e sviluppo economico, tra chi inquina e i costi da sostenere per contrastare l'inquinamento non e più questione di schieramenti ideologici, diventa scelta di politica impositiva e di politica territoriale che incide direttamente sulla qualità di vita dei residenti e sulla produttività media delle imprese. Infine, vorrei chiudere queste brevi e 77


schematiche considerazioni notando che i problemi che occorre affrontare per ridefinire i termini della pianificazione territoriale si collocano ad un livello molto alto: riguardano direttamente il rapporto tra Stato e cittadini, tra poteri pubblici e sviluppo economico, tra sistema di convenienze particolari che determinano singoli comportamenti e condizioni di benessere collettivo che non sono esprimibili come mera sommatoria di interessi e vantaggi particolari ma possono essere tutelate e rafforzate solo attraverso la mediazione e la composizione degli obiettivi particolari, la costruzione di un progetto di sviluppo condiviso da parte dei poteri pubblici.

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Certamente tutto ciò comporta la messa a punto di nuove tecniche e di nuovi strumenti, la definizione di piÚ accurate procedure di valutazione, ma non v' dubbio che la questione da risolvere riguardi anzitutto le forme, i contenuti e gli strumenti dell'azione di governo che lo Stato, a livello centrale e locale, esercita sul territorio inteso come sistema di opere, attività e qualità ambientali. Solo successivamente si potrà impostare in termini adeguati la questione delle tecniche. Partire oggi da queste ci sembra una concessione eccessiva al mito di una ratio neutrale che risolverebbe conflitti e settorialismi attraverso il computo e la conoscenza tecnica.


Piano o progetto: tra complessità, rapidità del mutamento e competitività economica di Lorenzo Bellicini

Le riflessioni che seguono hanno per oggetto il problema della crisi del Piano Regolatore Generale nelle grandi aree urbane e la soluzione, percorsa in molte realtà europee negli anni Ottanta, dell'agire per progetti (in sostituzione dell'agire per piani). Le riflessioni sono ancorate ad un lavoro di ricerca condotto tra il dicembre 1990 e il dicembre 1991 su diciannove grandi città europee', e per questa stessa ragione il campo dell'analisi è ristretto nell'ambito tipologico della grande città.

COMPLESSITÀ, RAPIDITÀ E COMPETITIVITÀ

Due forti caratteri segnano, per la nostra lettura, il processo di cambiamento delle grandi città europee degli anni Ottanta; il primo è la crescita della complessità della società, il secondo è la rapidità con cui avviene il suo mutamento. Sono fenomeni noti. La crescita della complessità è sostanzialmente dovuta alla crescita della frammentazione degli interessi, alla scomposizione della società sulla base di interessi sempre più individuali2 che rendono sempre difficile qualsiasi opera di composizione e di

sintesi. Questa realtà così frammentata, come gli avvenimenti economici, sociali e politici degli ultimi anni Ottanta e dei primi anni Novanta hanno mostrato, è soggetta a rapidi e repentini cambiamenti. Così la forma stessa della complessità tende rapidamente a mutare nel tempo breve. Vi è un altro carattere che segna le grandi città degli anni Ottanta nel contesto europeo (ma ciò vale anche a livello mondiale 3 ): la crescita della competizione economica tra le diverse nazioni e il ruolo assunto in questa competizione dalle grandi città. Gli anni Ottanta sono stati gli anni nei quali si è assistito ad una fortissima rilocalizzazione delle attività economiche, a un processo di ricentralizzazione delle funzioni che è derivato dal processo di dispersione geografica delle attività che aveva interessato, su scala nazionale e su scala mondiale, l'economia degli anni Settanta. Le grandi città sono tornate, negli anni Ottanta, ad essere di nuovo aree di concentrazione degli investimenti, aree all'interno delle quali localizzare nuove funzioni. Tutti e tre questi caratteri: complessità, rapidità del mutamento, competitività, costituiscono oggettive condizioni di 59


difficoltà per un agire urbanistico definito sulla base dei fondamenti del Piano Regolatore Generale; ma allo stesso tempo possono costituire, più che in passato, le principali ragioni della sua necessità. E evidente come una situazione caratterizzata da.complessità, rapidità del mutamento e coinpetitività sia una situazione difficile. Difficile perché la complessità rende difficile la sintesi e l'individuazione delle strategie politiche; la rapidità del. mutamento rende obsoleto il tempo dell'analisi e lo stesso pensiero della sintesi; la competitività esaspera, come sempre accade, i risultati positivi e negativi, e contribuisce alla creazione degli squilibri. Possiamo dire che gii anni Ottanta sono stati caratterizzati da una crescita generalizzata degli squilibri.

IL PROBLEMA DEL TEMPO

In questa situazione il problema del tempo diventa di primaria rilevanza nell'ambito dell'attività urbanistica, della decisione urbanistica e della definizione del piano. Alla base della decisione urbanistica c'è sempre, ci dovrebbe essere sempre, una dettagliata descriziòne della realtà, alla quale segue una interpretazione della realtà (che spesso implicita nella sua descrizione) ed una formulazione progettuale e normativa di quello che dovrà essere di lì a poco il modo in cui cambia l'uso dello spazio di quella realtà. Alla formulazione progettuale si accompagna, e segue, in via

preliminare e in via definitiva, la decisione politica di adozione dello strumento urbanistico. Le varie fasi di definizione della politica piano si sommano alle varie fasi della definizione dello strumento tecnico. I tempi tecnici del piano (lo strumento Piano Regolatore Generale), in Italia, si aggirano per le città maggiori in un tempo variabile tra i due e i tre anni; i tempi delle decisioni politiche, sia in relazione al preliminare di piano, prima, che alla adozione poi, si allungano imprevedibilmente: tre, quattro, cinque, dieci anni... Proprio per la necessità di operare e decidere nell'ambito dei processi di trasformazione della città, nel corso degli anni Ottanta (caratterizzati da complessità, rapidità del mutamento e competitività) ha preso piede un modo di operare che tende a delimitare dei problemi urbani specifici e ad attuare la decisione urbanistica (tecnica e politica) non attraverso il PRG, ma attraverso, mi si consenta il gioco, la pianificazione di grandi progetti. Il tempo del progetto così veniva ad essere interpretato come più breve •rispetto a quello del piano. La logica, in fondo, non è altro che quella delle varianti parziali alla quale si è aggiunta, nel corso degli anni Ottanta, l'individuazione, nell'ambito della densità dei problemi urbani che sono il risultato della complessità della società (e della rapidità del suo cambiamento), di singoli problemi ai quali dare risposta. Singoli problemi che assumessero, nelle intenzioni politiche, la funzione di problema strategico da af-


frontare, sul quale concentrare le risorse e le energie. Ma, nel momento stesso in cui il grande progetto veniva ad essere considerato strategico, si sarebbe dovuto elaborare un contesto di valutazioni che ne motivassero il ruolo. Una politica urbana.

IL RILANCIO DELLA CITTÀ

La rassegna dei grandi progetti che hanno trasformato le città europee degli anni Ottanta è una rassegna che ha alcuni significativi elementi comuni. In particolare sono tutti risultato di una interpretazione comune della fase congiunturale che le città andavano svolgendo nel passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. La chiave di volta per tutti i grandi progetti di trasformazione della città europea degli anni Ottanta sta nel rilancio delle funzioni centrali della città, nell'accettazione del processo di terziarizzazione e nell'affermazione della città come luogo di localizzazione di nuovi investimenti. A ben vedere il passaggio dalle politiche di piano alla politica del progetto si accompagna al passaggio da un obiettivo di riequilibrio sociale della città ad un obiettivo di rilancio econòmico della città. E la cittì economica, la città competitiva nel contesto nazionale e internazionale che prevale sulla città sociale. La descrizione dei grandi progetti di trasformazione urbana degli anni Ottanta, che qui tralasciamo 4, sancisce la scelta di concentrare in alcuni determi-

nati, concreti obiettivi degli interventi di nuova costruzione della città (anche quandei si tratta di opere di recupero), tutti finalizzati alla localizzazione sul territorio urbano di nuove funzioni terziarie. La scelta del grande progetto è, in fondo, una scelta del tempo breve per la realizzazione di una strategia di rilancio della città. Il grande progetto vince sul piano, in questa logica, per la sua capacità di concretezza, per la sua possibilità realizzativa in tempi relativamente brevi.

L'IRRAGIONEVOLE INCONGRUENZA

Ma è proprio sul tema del grande progetto urbano e, più in generale, su1 rapporto tra tempi della definizione dei problemi e della progettazione della loro soluzione, e dell'attuazione delle soluzioni, che si evidenzia la particolarità della situazione italiana nel contesto europeo. Anche in Italia, come nelle altre nazioni europee, è possibile leggere per gli anni Ottanta un passaggio da politiche di piano a politiche di progetto, e ancora da politiche di vincolo a politiche di liberalizzazione dell'attività di investimento in costruzioni. Ma a differenza di quanto accaduto nelle altre città europee, dove la scelta del grande progetto è una scelta che viene adottata per accelerare i tempi della realizzazione delle solùzioni ad alcuni problemi, individuati come prioritari (il rilancio economico della città e quindi il favorire politiche di investimento tese 61


ad accentrare attività lavorative in ambito terziario), le città italiane sono andate caratterizzandosi per un ràpporto tra progetto e realizzazione, tra idea e cosa, quanto meno contraddittorio. La storia dei grandi progetti delle città italiane è una storia dai tempi lunghi, è prevalentemente una storia di intenzioni e di cose non fatte, è una storia di parole alle quali non sono corrisposti i fatti. La storia della città europea fatta sulla base dei progetti non si discosta di molto dalla storia delle opere realizzate; vi è in fondo una ragionevole congruenza tra progetto e realizzazione, tra progetto e opera. La storia della città italiana degli anni Ottanta è la storia di una ii-ragionevole incongruenza tra progetto e opera, tra parole e fatti. La storia della città italiana nell'ultimo decennio è fatta di due grandi racconti: la storia mostrata, descritta e parlata dai grandi progetti; la storia nascosta delle realizzazioni, la storia taciuta. Non vi è relazione tra i due racconti, anzi, potremmo dire, senza forzare poi molto la nostra lettura, che si è realizzato tutto quello di cui non si è parlato, tutto quello che non è diventato pubblico. Ma a ben vedere proprio il rapporto tra pubblico e privato costituisce la chiave di volta del grande progetto europeo. Tutti i grandi investimenti terziari, tutte le grandi opere edilizie della nuova città europea degli anni Ottanta hanno alla base non solo agevolazioni pubbliche, ma un cospicuo ammontare di risorse che hanno reso conveniente anche l'investimento privato. 62

PROGETTI SENZA PROGETTO

La faticosa ricerca di quello che è stato realizzato in Italia nel corso degli anni Ottanta mostra alla fine due tipologie prevalenti: una ampia parte di territorio urbano e non urbano costruito attraverso minute iniziative individuali; importanti progetti privati realizzati senza che fosse necessario nessun dibattito pubblico, senza progetto pubblico. Grandi progetti dei quali si è parlato poco e che alla fine sono sorti, individualmente, come oggetto fisico finito. Grandi progetti nati quasi "di nascosto". Il territorio italiano è storicamente caratterizzato da un processo di trasformazione che avviene attraverso la piccola dimensione e l'ampia diffusione (basterà pensare all'industrializzazione diffusa, all'abusivismo, al recupero, ecc.), per cui grande parte di ciò che cambia in Italia va cercato sul territorio, va cercato nella provincia, va cercato fuori dalla città. Ma allo stesso tempo non possiamo tralasciare che l'altro carattere originale del processo di trasformazione del nostro Paese è quello per cui ciò che diviene pubblico è, per così dire, perduto. O meglio ciò che è stato al centro del dibattito negli anni Ottanta non è stato realizzato, non è stato compiuto. Una prima ragione per questo stato di fatto sta certamente nell'estrema conflittualità che è andata maturando nel contesto politico italiano degli anni Ottanta. Una conflittualità basata molto spesso su filiere di interessi di carattere


individuale ancor più che di partito (si pensi alle conflittualità tra le diverse correnti ... ). Una conflittualità di carattere ostativo, più che propositivo. Basterà ricordare, per mostrare una differenza, la conflittualità parigina tra Mitterand e Chirac, giocata sulle cose fatte e non sulla produzione di ostacoli alle iniziative dell'avversario. Una seconda ragione sta nella qualità tecnica di molta progettazione realizzata in Italia negli anni Ottanta. Una progettazione che molto spesso era consapevole di mantenere un ruolo esterno alla produzione concreta delle opere. Potremmo dire una progettazione consapevole di essere romanzo oppure pretesto. Ma, certo, se proviamo a scendere ancor più in profondità, ci rendiamo conto che, forse, il vero problema del modello italiano è un altro. La ragione profonda va cercata nel sistema pubblico della gestione delle risorse (finanziamenti e decisioni) che è 'andato strutturandosi e sempre più ramificandosi nel corso degli anni Ottanta. Il caso delle opere pubbliche, che molto si avvicina ai problemi che abbiamo sin qui toccato, è certo embiematico. In questo contesto infatti, nel corso degli ultimi dieci anni, si è andata determinando una situazione nella quale non era importante realizzare delle opere in grado di funzionare, non era importante far corrispondere ai progetti, in tempi certi, in tempi ragionevoli, nei tempi previsti, le opere finite. Il progetto era una condizione necessaria per innescare flussi di finanziamento, ma non era importante

trasformare rapidamente il progetto in• cosa. Vi è una forte razionalità in questa logica. Infatti è proprio la difficoltà alla realizzazione dell'opera, il grado di entropia nel processo di realizzazione dell'opera, che consente la trasformazione di una determinata occasione (quel progetto, in quei tempi, per quel prezzo) in una successiva catena di opportunità (un altro progetto, un'altra opera, altri tempi, altri prezzi ... ). Il sistema dei finanziamenti per le opere pubbliche è caratterizzato da una elevata difficoltà iniziale di accesso alle risorse; ciò che conta è il flusso di spesa al quale è possibile accedere, tutto il resto non conta è presupposto strumentale da un lato (il progetto) e condizione di riproduzione del vantaggio raggiunto dall'altro (l'opera non realizzata). Le stesse difficoltà realizzative sono condizione per poter far fruttare nel tempo il fatto di aver superato lo scoglio iniziale dell'ingresso al gioco. Per aver superato la conflittualità estremamente elevata del sistema. Ora, se pensiamo che i grandi progetti di trasformazi9ne urbana degli anni Ottanta sono, come dicevamo più sopra, opere nelle quali sono state investite ingenti risorse pubbliche, in un ambito di interessi e di conflittualità ancora più complesso di quello di una singola opera pubblica, ci rendiamo conto del determinarsi di una situazione caratterizzata da profonda difformità tra le parole pubbliche e i fatti.


TRASPARENZA E RESPONSABILITÀ

Il quadro delle profonde novità, che dall'aprile del 1992 sembrano muovere sul territorio italiano proprio in questo ambito, pone però problemi che vanno al di là di questa caratterizzazione. Pone infatti, di nuovo, l'esigenza di confrontarsi da capo con le condizioni di complessità, rapidità del mutamento e competitività alle quali abbiamo posto attenzione in precedenza. E, in questo contesto, mi sembra che sia necessario operare innanzitutto sui problemi del tempo della realizzazione dei progetti e delle opere e della verifica della corrispondenza fra progetto e cose, fra parole e fatti. Potremmo dire che l'agire urbanistico ha necessità di un tempo lento per il pensiero, e che quindi è sempre più necessario "fissare il tempo" del mutamento. E questo un compito che pesa in gran parte sulla descrizione e sull'analisi della realtà. L'analisi deve essere in grado di definire i problemi sulla base di una loro intrinseca temporalità. L'analisi deve essere in grado, ripren•dendo l'insegnamento di un grande storico come Braudel, di individuare i diversi tempi dei problemi attraverso le

categorie della lunga, media e corta durata. L'analisi stessa deve, nel corso del suo svolgersi, fissare gli obiettivi raggiungibili e i tempi dell'attuazione. E sulla base di questa nuova temporalità definita nell'analisi che il progetto e il piano prendono corpo. È nell'ambito di un agire fattibile che il piano e il progetto perdono la loro inutile contrapposizione e che le diverse tecniche possono trovare collocazione. Ma a questo punto è necessario controllare che il risultato segua alle intenzioni progettuali, il che vuol dire che ognuno: politico, tecnico, operatore economico sia riportato nell'ambito della propria trasparente responsabilità. Il disegno del futuro5 e la voglia di piano, che gli squilibri sociali e la crisi economica sembrano aver generato all'inizio degli anni Novanta nelle principali città europee, può trovare un suò nuovo spazio anche nel contesto italiano solo a partire da un profondo mutare delle condizioni alle quali abbiamo accennato prima. E in particolare a partire da una determinazione delle condizioni di trasparenza e di responsabilità dei diversi attori che intervengono nella determinazione del piano.

Note L. BELLICINI, (a cura di) La costruzione della città europea, Roma 1991. 2 Cfr. M. CAccIARI, Metropoli nella mente, in «Casabella», aprile 1986; B. SECCHI, Domanda sociale, in «Casabella», dicembre 1986 e P. BARCELLONA, L'individuali-

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smo proprietario, Torino 1987. 35•

SASSEN,

The global city. New York, London, Tokio,

Princeton, NewJersey 1991. L. BELLICINI, 0,0. nt.. A. BALDUCCI, Disegnare ilfuturo, Bologna 1992.


La costruzione di scenari di Francesco Karrer

Vorrei osservare che l'ipotesi di valorizzare lo strumento della valutazione, e quindi della conseguente validazione della domanda e della risposta progettuale, è interessante; del resto ci abbiamo già lavorato, anche se forse non bene. Ci ha lavorato la stessa Pubblica Amministrazione italiana. Si è però rivelata una ipotesi difficilmente commestibile al nostro ordinamento ad "atto amministrativo": è uno strumento funzionale soprattutto ai Paesi a "diritto comune". Questo è un punto che non possiamo dimenticare, perché una valutazione puntuale, ma a valenza generale, si può effettuare compiutamente solo in quella situazione. Nel nostro caso la valutazione finisce conl'essere sempre e soltanto "di rispondenze" e non "di efficacia". A conferma di ciò è sufficiente osservare l'andamento dell'applicazione degli strumenti valutativi che sono stati introdotti nel nostro ordinamento. Di fatto non aiutano a scegliere il meglio, rimangono allo stadio di Strumenti di rassicurazione interna al procedimento decisionale. Non sono applicati alla ricerca di efficacia, e quindi non hanno una grande utilità. La vicen-

da dei controlli amministrativi, prima ancora che quella delle valutazioni, è andata allo stesso modo. Ricordo quando Massimo Severo Giannini discuteva sui controlli amministrativi nel sistema francese, rispetto agli stessi controlli nel sistema italiano: quelli italiani sono tutti controlli ex ante, mentre quelli francesi sono prevalentemente controlli ex post, cioè di efficacia. Ci si domanda perché la Francia, che è un Paese ad atto amministrativo più o meno come lo è il nostro, utilizza la valutazione di efficacia. Una delle risposte sta nel fatto che la Francia ha forti istituzioni pubbliche dell'economia contrattata: negoziati, concertazioni, "permessi" negoziabili, ecc. Sono d'accordo sulla esigenza di dare un nuovo e certo statuto a molti degli strumenti che utilizziamo: tra i primi strumenti urbanistici a dover essere ripensati ci sono quelli della "urbanistica operativa" (varianti ad hoc e piani attuativi); più in generale gli strumenti di raccordo tra piano ed opera. Il "progetto urbano" è lo strumento leader in questa prospettiva (né piano particolareggiato né progetto di architettura a scala urbana). 65


Non voglio ricordare qui la natura disciplinare di questo strumento, bensì le funzioni di rassicurazione sociale, di validazione della domanda, di certificazione della qualità che tale strumento svolge.

LA FUNZIONE RASSICURATI VA

Sono d'accordo sull'ipotesi interpretativa che il piano urbanistico è in . risalita; io è in tutta Europa, ma nella dimensione del piano di area vasta, e in particolare in Italia, anche se qui forse per un motivo contingente. L'investitore ha bisogno di rassicurazioni ed in proposito vi è una novità rilevante, che poi è alla base della spiegazione della crisi vera del piano urbanistico. Bisogna ricordare che il piano urbanistico in Italia va in crisi soprattutto perché viene meno la sua funzione sociale di rassicurazione della proprietà. La filiera pianificatoria, inventata dalla legge del '42, è una filiera che ha soio la funzione rassicurativa, per mezzo del giusto procedimento, della proprietà chiamata a subire l'esproprio. Il piano territoriale di coordinamento è un piano territoriale per modo di dire; è un coordinamento di processo e non di obiettivo. In quella logièa che cosa significava? Significava che la qualità del procedimento era garanzia astratta di qualità del prodotto, perché il prodotto non era il piano bensì la funzione rassicurativa dell'atto espropriativo (alla fine della catena).

ZI

Perché viene meno la funzione di rassicurazione? Perché cade la domanda di trasformazione e quindi non è più necessaria questa funzione sociale di rassicurazione. Il piano diviene superfluo. Si cerca di sostituirlo con il progetto, ma soio quello che ha una referenzialità certa. In ciò si risolve la funzione di rassicurazione dell'investitore. La nuova crisi fa cadere anche questa domanda. Il piano senza referenzialità torna ad essere più funzionale. Questo è il punto di discussione fondamentale. La risalita del piano certamente c'è, ma questa è la chiave di spiegazione. Sono d'accordo che in Italia si è fatto un uso da "potere negativo" del piano urbanistico, un po' come si fa con il diritto ambientale, che spesso finisce per divenire strumento d'esercizio del "potere negativo". Il nostro Paese è tra i pochi nei quali i diritti di edificazione non sono commercializzabili. Non so se vi avete mai pensato: per avviare una attività è pressoché obbligatorio essere proprietari fondiari; e poi ci si lamenta della speculazione immobiliare. Ma è implicito che avvenga, dato questo meccanismo. Se non esiste un vero mercato dei diritti di costruire è evidente come non esista alcuna possibilità di svincolare attività da immobili. Non vi è possibilità di fare economia urbana ma solo immobiliare. Nessuno dei meccanismi che rendono possibile altrove il "fare urbanistica" è impiantabile da noi senza alcune modifiche di questo ordine.


LE INTERFACCE

Vengo ora alle considerazioni personali che volevo introdurre nel dibattito. La prima considerazione riguarda la validità o meno, oggi, della legge del 1942. Miglioramenti vanno certamente apportati a questa legge. Ritengo però che il problema non stia solo nel diritto urbanistico quanto, e piuttosto, nelle interfacce: la prima interfaccia è quella assolutamente fondamentale della politica dell'ambiente. Un solo esempio: la vicenda dei vincoli ricognitivi e dichiarativi. A mio modo di vedere tale distinzione non tiene più: pensiamo alla funzione ecologica che assegnamo al cosiddetto vincolo ricognitivo, quello teoricamente non indennizzabile. Oggi a quel vincolo chiediamo di svolgere una funzione socialmente ed economicamente forse più importante di quella che richiediamo alla quota di terreno soggetta al vincolo dichiarativo, cioè quello espropriativo. Al bosco, ad esempio, chiediamo di svolgere un ruolo fondamentale nel processo di purificazione dell'aria, gli chiediamo una funzione igienico sanitaria che ha risvolti sociali ed economici. Ma non indennizziamo la proprietà gravata dal vincolo. La nuova funzione ecologica del vincolo ricognitivo mette sicuramente in crisi completamente quello che già, per altri aspetti, è assolutamente discutibile di questa questione. Tutta la vicenda della 431 andrebbe rivista. L'altra interfaccia fondamentale è quella con le politiche della città. Solo

in presenza di queste, le leggi urbanistiche possono essere mere leggi di procedimento. Sono strumenti per realizzare missioni che appartengono ad altri contenitori: il contenitore fondamentale è quello della politica della città. In Francia, ad esempio, si può discutere quanto si vuole d'un piano urbanistico, ma quel piano è comunque in qualche modo frutto di direttive di politica della città. Politiche di questo genere sono rilevabili in Inghilterra e perfino negli Stati Uniti. Noi abbiamo fatto un Ministero per le Aree Urbane che purtroppo ha prodotto solo iniziative modeste e per di più poco operabili: non è stato in grado di impostare neanche concettualmente un riferimento, in termini di missioni e di significati, alla politica urbana. La questione delle reti di città, la competitività internazionale delle città, ecc., sono lasciate al gioco del mercato, la cui natura, in questo caso, tende a creare l'isteresi; così come si è creata l'isteresi dei progetti urbani. Occorrono indubbiamente delle decisioni di politica a carattere centrale. Maastricht da questo punto di vista chiede che si facciano politiche della città, perché la politica della città è funzionale all'economia molto iù di quanto si creda. E evidente che la decisionalità sulla politica urbana appartiene al livello centrale. Mi spiace per tutti i tentativi in atto di aumentare i poteri regionali, anche per fronteggiare l'impatto della Lega, ma di fatto, oggi, il governo dell'economia urbana, in rapporto alla sua 67


necessaria. Il diritto dell'espropriazione può benissimo essere ricostruito al di fuori dell'urbanistica. Superando così un'altra anomalia del nostro caso: non v'è un caso al mondo in cui il diritto dell'esproprio coincida con il diritto urbanistico. Sono dei diritti separati anche se hanno, naturalmente, fortissime connessioni; ma sono diritti autonomi. Questo consentirebbe, per esempio, di fare davvero urbanistica volontaria. Consentirebbe davvero di "disegnare" la città, di lavorare per la città. LA FISCALITÀ TERRITORIALE Noi, nei casi migliori, abbiamo fatto inFino al 1973 avevamo alcuni microstru- vece "urbanistica per le case", non abmenti per utilizzare la leva fiscale in biamo mai fatto "urbanistica per la citfunzione dell'obiettivo di portare l'ur- tà". Tutto l'intervento pubblico in mabanizzazione dove pensavamo che fos- teria di edilizia residenziale ci ha portase giusto; dal '73 in poi questi tipi di to a fare urbanistica per le case, non abstrumenti sono stati aboliti, addirittura biamo mai fatto urbanistica per le città. tutti gli strumenti di oggi sono contro Questa dimensione va assolutamente riproposta. l'ùrbanistica, perché il piano è svincolato dalla determinazione dei valori im- Un'altra questione centrale è quella mobiliari. Ci si è ritornati solo per una delle semplificazioni delle procedure e esigenza congiunturale: per la determi- del numero dei piani, facendo funzionazione dell'Ici si è utilizzato il piano nare bene quello che già esiste - perché in assenza dei valori catastali certi. Vale ci sono sicuramente dei miglioramenti a dire per una via non funzionale, ma da apportare - ma di cose buone ce ne per superare comunque una carenza co- sono già tante. Il problema maggiore è noscitiva. I modelli sono due e molto di ingegneri zzazione. Lo ricordava distanti fra loro: la land tax e la property Coppola relativamente alla 142. Io pentax. Bisogna decidere da che parte stia- so anche alla 183: un'ingegnerizzazione mo e bisogna capire, di conseguenza, se di quella legge, chiarirebbe molto in il piano ha funzione di determinazione termini di gerarchia degli interessi e dodi questi valori o se il piano ne è svinco- ve stanno i momenti reali del concerto tra soggetti pubblici; ma soprattutto ci lato. Se il piano è svincolato ne consegue, ad consentirebbe di stabilire, una tantum, esempio, che l'identificazione tra pote- la prevalenza del piano ambientale rire di piano e potere di esproprio non è spetto al piano urbanistico o la concor-

funzione strategica nel complesso dell'economia, deve essere forte e centralizzato. L'altra interfaccia è quella sulle procedure di decisionalità pubblica, nel complesso delle procedure naturalmente. Rilevante è anche l'interfaccia con la città usata come piatto imponibile, perché noi abbiamo un sistema di fiscalità territoriale che, a questo punto, è contro l'urbanistica.

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renza e in che modo si determina. Allora, se ne siamo capaci, inseriamo pure i modelli ecologici e/o i bilanci ambientali di area, i piani regolatori ambientali (o ecopiani), ecc. tra i nostri strumenti di pianificazione. Se non ne siamo capaci, miglioriamo i diversi procedimenti e procedure, armonizzandoli, operando una convergenza verso un piano che sia il piÚ possibile unico. Realizziamo un processo di semplificazione. Queste mie sono soltanto delle ipotesi; ovviamente le questioni aperte sono molte di piÚ. A me sembra che qualche ipotesi, non dico risolutiva, ma almeno di individuazione dei nodi chiave, è stata avanzata.

In questo momento la cultura deve fornire al decisore politico soprattutto "scenari" rispetto ai quali portarlo a decidere: si vuole il modello del piano autoritativo?, del piano che è anche impositivo?, del piano negoziale?, ecc.: questi sono i percorsi da fare. Ho cercato di essere coerente con questa impostazione indicando i punti nodali e non altri: sono questi i punti sui quali sono convinto si debba lavorare. Altrimenti rimarremo prigionieri di strumenti quali l'accordo di programma, inevitabilmente utilizzato solo in chiave deregolativa, e della conferenza dei servizi che vale quanto la conferenza stampa, ecc.!


Il piano di interesse nelle periferie di Federico Spantigati

«L'attenzione torna a concentrarsi, in tutta Europa, sulle periferie». Questa affermazione di Bernardo Secchi («Casabella», n. 583, ottobre 1991, pp. 2022) fa portare attenzione sulla scienza giuridica. La tesi che sostengo in questo articolo che la disciplina giuridica delle periferie non può essere la stessa dei piani urbanistici usati fino a ieri. Il piano urbanistico è oggi uno strumento giuridico del tutto obsoleto. Ho con altri la responsabilità di avere accreditato a suo tempo l'utilizzabilità del diritto urbanistico per regolare lo spazio, pubblicando il Manuale di diritto urbanistico da Giuffrè nel 1969. Urbanisti e architetti devono essere consapevoli che quel libro e gli altri analoghi che descrivono le norme per disciplinare lo spazio sono oggi ferri vecchi.

URBAN1ZZAZIONE E DIRITTO

Il processo di urbanizzazione nell"800 e '900 ebbe per strumento e modello il piano. Urbanisti e architetti dovettero prendere dai giuristi modi di ragionamento e terminologie per dare guida al70

la espansione delle città attraverso i piani. La legge urbanistica italiana del 1942 fu il prodotto completo della cultura giuridica dei piani. Urbanisti e architetti lavorarono nelle loro discipline sul presupposto che l'ordinamento giuridico avrebbe modellato lo spazio secondo i piani. «Ciò che propongo - scrive Secchi di guardare ai 'grumi', alle parti più solide e dure, dal punto di vista della enòrme estensione apparentemente omogenea delle casette su lotto». Guardando in questo modo lo spazio: a) si cancella l'idea che lo spazio sia stato in passato e potrà essere mai modellato dal diritto; b) lo strumento di intervento sullo spazio con il diritto diventa la rappresentazione degli interessi ai poteri pubblici; c) il modello per la composizione degli interessi nello spazio con il diritto diventa la composizione degli interessi nell'organizzazione della amministrazione pubblica. In linguaggio tecnico-giuridico i concetti che esprimono queste tre conseguenze giuridiche (non applicabilità dei piani, rilevanza della rappresentazione degli interessi, centralità della organizzazione) sono: a) lo svaporamento del


dominio; b) la distinzione fra piano del potere e piano di interesse; c) la rappresentazione nella gestione.

Lo SVAPORAMENTO DEL DOMINIO "Svaporamento del dominio" è progressivo venir meno nella società, senza tracce visibili e sottraendo invisibilmente vigore di efficacia al comando del dover essere, della fiducia nell'interesse generale espresso, rappresentato e incorporato nel diritto. Il diritto resta identico, i suoi effetti restano immutati, le norme sono le stesse, eppure cambia l'efficacia dell'ordinamento giuridico: da totalità del giuridico diventa struttura del potere. I destinatari dei còmandi dell'ordinamento non si oppongono ad esso, tuttavia regolano diversamente da come è previsto e prevedibile in diritto il loro comportamento. Il comportamento che era regolato dal diritto ora è regolato autonomamente dall'agente mirando al risultato. Il fine particolare del singolo agente in diritto non è esaurito nell'interesse generale. Il senso del dover essere - l'obbligazione giuridica - è dato oggi dal destinatario del comando normativo - l'obbligato nell'obbligazione - che determina il risultato pratico di efficacia della norma. Ciò si esprime con la formula giuridica: «l'obbligazione dipende dall'obbligato». La definizione "svaporamento" vuol rendere evidente che non cambia nulla nella materialità del diritto ma cambia lo "stato fisico" della giuridicità del di-

ritto. Inoltre, la definizione segnala che viene meno qualcosa, l'automaticità dell'efficacia del diritto, perché "cambia stato" qualcosa, la percezione del diritto come realtà .giuridicamente incontrovertibile. L'interese dell'agente prima aveva il parametro oggettivo della sua valutazione nel diritto, ora ha il parametro soggettivo nella valutazione che l'agente stesso dà del proprio interesse nell'esprimerlo.

PIANO DEL POTEREE PIANO DINTERESSE

"Distinzione fra piano del potere e piano di interesse". Questo concetto è ben descritto, nella operatività, da Secchi nei seguenti termini: «Una elnancipazione attraverso il privato che ambiguamente si oppone all'ipotesi di un'emancipazione attraverso il collettivo, che connota il programma di ricerca e gli esperimenti dell'urbanistica moderna»; «Chi visiti oggi in modo consapevole la città storica europea rimane perplesso: le popolazioni che risiedono nella città diffusa o nella periferia amano questi spazi unitari ed al contempo complessi, ne colgono il carattere 'collettivo' e vi si riversano in massa... Tutto ciò genera un rapido scivolamento di questi luoghi verso qualcosa che è 'altro'». Mentre il diritto prescriveva certi usi e certi sviluppi dello spazio, lo spazio è stato ed è modellato dagli interessi che lo vivono (il privato, la massa della periferia) in altri modi. Occorre, dunque, distinguere ciò che prescrive il pia71


no del potere, il diritto che è "norma statuita", dal modo in cui la norma statuita è utilizzata nel piano di interesse che è proprio dell'agente, il diritto che è "norma statuente". Una cosa è il diritto che prescrive (piano del potere, contenuto dell'obbligazione), altra cosa è il diritto che viene creato (piano di interesse, determinazione dell'efficacia della norma statuita da parte dell'agente secondo il proprio piano di interesse). L'agente che esprime il piano di azione in diritto per il proprio interesse ("piano di interesse") è oggi concretamente norma statuente del diritto. Tracciare la distinzione fra piano del potere e piano di interesse è tenere presente che il potere può solo porre la norma statuita, mentre la norma statuente appartiene oggi al piano degli interessi che con la loro espressione determinano l'efficacia del diritto. La struttura di potere, ovvero l'ordinamento giuridico, deve fare i conti con l'autonoma capacità di espressione che è «emancipazione attraverso il privato», «popolazioni che risiedono nella città diffusa... amno questi spazi unitari... e vi si riversano in massa». La distinzione ora esposta, nella teoria giuridica (si veda per questo il mio Diritto urbanistico, Cedam 1990) e nella operatività delle pressioni di fatto degli interessi sulla città, trasforma lo strumento dell'intervento del diritto sullo spazio. Lo strumento diventa non più il piano, ma la rappresentazione degli interessi ai poteri pubblici per l'uso del potere 72

pubblico. Alla radice, al posto della determinazione della norma che il piano urbanistico si illudeva potesse dare regola alla città, è l'organizzazione del potere pubblico nella singola amministrazione pubblica. Il piano urbanistico è sostituito in diritto dalla rappresentazione nella gestione.

RAPPRESENTAZIONE NELLA GESTIONE

"Rappresentazione nella gestione" è organizzazione dei poteri pubblici per recepire l'espressione degli interessi che attribuiscono efficacia al diritto come norma statuente. La legittimazione all'esercizio del potere viene pur sempre oggi dalla rappresentanza ("governabilità"), mentre la legittimazione all'efficacia del diritto viene, oggi, da tutt'altra parte: dalla rappresentazione. La rappresentazione è ben diversa dalla rappresentanza, perché è presenza dell'interesse, non nel momento dell'esercizio del potere (rappresentanza: decisione), ma nel momento dell'efficacia del risultato (presenza dell'interesse nel risultato di fatto, compatibilità delle soddisfazioni: rappresentazione). «La speranza di modificare i caratteri dello spazio abitabile della città contemporanea attraverso tasselli di opinabile 'alta qualità', distribuiti nello spazio fisico e sociale un po' a caso ed un p0' secondo le logiche aziendali o politico-amministrative, è vana», scrive Secchi. Il motivo l'ho esposto: la mutazione giuridica che ho descritto, "sal-


to" oggettivo e "faglia" soggettiva nel diritto, rende impossibile usare i piani urbanistici come strumenti di diritto per modellare, lo spaziò. «Occorre immaginare interventi che 'completino il frame, lentamente modificandolo, pie-

gandolo fino a fargli assumere nuovi significati, sino a costruire un nuovo spazio abitabile», scrive Secchi. L'elemento giuridicamente morfogenetico è oggi l'organizzazione della rappresentazione, non è più la norma o il piano.

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Urbanistica, cultura giuridica e prassi amministrativa di Sandro Arnorosino

Cerco di andare per enunciati. Il primo riguarda l'approccio che si è seguito: si parla di legge urbanistica del '42, ma forse il titolo più esatto sarebbe "50 anni dileggi urbanistiche" (e nei settori confinanti con l'urbanistica). Secondo punto: dato che si parla dileggi, bisogna vedere se queste leggi hanno dato luogo a un sistema o ad un non sistema, collegato o meno ai sistemi delle materie confinanti (l'ambiente, il paesaggio, l'edilizia pubblica). Ancora: l'approccio attraverso la lente di un solo istituto, sia pure importantissimo, quale è il PRG, è, come dire, un po' a mezz'aria e non tiene conto della complessità delle cose. Ancora: per quanto riguarda il sostrato di politiche pubbliche della legge del '42 è da fare un'integrazione, nel senso che la legge accanto alle regole sulla utilizzabilità delle proprietà (e quindi alle norme "di arresto", nel senso che subordinano le trasformazioni a provvedimenti amministrativi) aveva un altro tipo di meccanismi, che tutti dimenticano perché sono rimasti del tutto inattivati: le trasformazioni obbligate. Ha ragione Karrer a rilevare che nel nostro Paese si sono sempre legate le trasformazioni urbanistiche alla pro74

prietà, ma negli artt. 20 e 23 della legge urbanistica sono previsti dei meccanismi per i quali chi vuole rimanere proprietario deve operare le trasformazioni urbanistiche: la proprietà è legittimata a costruire per il fatto di essere proprietà, ma se non chiede di costruire non è più legittimata ad essere proprietà. In sintesi, un meccanismo sanzionatono: «se non fai le trasformazioni ti posso espropriare». E un meccanismo ancora più potente del meccanismo ordinario («puoi fare solo quello che io ti consento») perché è fondato sulla regola: «se non fai quello che il piano prevede vieni espropriato». Altre due notazioni sul contesto in cui fu discussa e approvata la legge urbanistica. Non è esatto che l'urbanistica negli anni Trenta e negli anni Quaranta non fosse importante. Le ricerche sulla formazione della legge del '42, cui ho avuto modo di partecipare intervistando Araldo di Crollalanza che fu Ministro dei Lavori Pubblici negli anni Trenta, mostrano che su questo progetto di legge urbanistica, pronto dai primi anni del decennio ci fu un fortissimo scontro, che dura quasi 10 anni, soprattutto a causa di conflitti con il Ministero degli interni.


Seconda notazione: la legge del '42 è importante per un altro profilo, che interessa chi si occupa di diritto amministrativo, in quanto è, forse, il punto di massima espressione - per l'epoca della configurazione del potere amministrativo come potere che agisce per provvedimenti. I provvedimenti di pianificazione sono i più forti rinvenibili nel nostro ordinamento amministrativo tradizionale, nel quale si agiva solo per atti autoritativi. Su questo s'innesta una notazione storica: la legge arriva in quegli anni non in maniera casuale, ma perche' è figlia della cultura urbanistica dell'epoca e - al contempo - della necessità di ordinare lo sviluppo urbano, ormai assai intenso. Il regime si trovò di fronte ad un problema comune a tutte le società contemporanee: quello di regolare le città. Quale che fosse il regime politico era ormai urgente fare una legge urbanistica. Il regime l'ha fatta compatta e coerente perché nel rapporto tra decisione politica e tecnocrazia lo spazio per le mediazioni tra interessi era ridotto.

LIMITI ED OSTACOLI ALL'IMPLEMENTAZIONE

Venendo ad un bilancio critico di questi 50 anni, il nodo centrale mi sembra sia il rapporto fra règole giuridiche e implementazione. E il problema dell'effettività del diritto. Poiché la legge definisce essenzialmente le procedure per la formazione dei piani bisogna analizzare gli atti amministrativi - piani urbanistici. La sequenza logica può

essere la seguente: innanzitutto quanti piani sono stati approvati; quale ne è stata la qualità; se, quanto e come sono stati attuati. Il problema è, dunque, quello degli effetti dell'applicazione della legge mediante i piani. Donolo ha scritto pagine interessantissime sugli effetti perversi che talvolta l'applicazione di schemi normativi mediante piani ha nella realtà. Nell'esperienza storica italiana è accaduto che i piani regolatori generali, essendo unico strumento urbanistico veramente diffuso, sono stati sovraccaricati di contenuti. Più un atto amministrativo si sòvraccarica di contenuti più diventa difficile, per un'amministrazione che non ha sufficiente "portanza", gestirne l'attuazione. In sintesi: la legge prevedeva che ci fosse una certa gerarchia dei piani, ma l'effettività della funzione di regolazione è dipesa dal contenuto dei piani e dalla misura (scarsa, in genere) in cui sono stati attuati. Qui ha giocato un ruolo decisivo il divario tra la forza potenziale degli strumenti, data dalla legge, e la capacità amministrativa di darsi e di gestire strumenti adeguati. Quando si parla in termini di ascesa del piano regolatore è da precisare che è stata una ascesa molto controversa e dimezzata, perché ha avuto a che fare con amministrazioni con una "tenuta" - in tutti i sensi -. inadeguata. A ciò, negli ultimi anni, s'è aggiunto il declino della decisionalità, a causa dell'indebolimento delle classi amministrative. Se negli anni Cinquanta non si facevano i piani (perché limitavano i costrut75


tori) e negli anni Sessanta si è incominciato a capire che attraverso di essi si poteva dirigere l'espansione, dall'inizio degli anni Ottanta non si è più riusciti nemmeno ad approvare i piani delle grandi città. Nelle classi amministrative è mancata qualsiasi visione strategica, qualsiasi progettualità, carenza contrappuntata, spesso, da "visioni appropriative". Oggi siamo al punto di svolta inferiore del declino, perché a fronte di qualsiasi piano o progetto urbanistico è sufficiente qualsiasi tenuissima opposizione per bloccare tutto, sia i disegni speculativi che i progetti di trasformazione: le nostre città sono immote, mentre in Spagna, in Francia, in Inghilterra e ora a Berlino sono state operate grandi trasformazioni. Non essendovi in Italia né una classe amministrativa, né strutture amministrative degne di questo nome l'urbanistica è finita nel pantano. A quanto accaduto sul versante amministrativo si è accompagnato un impasticciamento del quadro normativo. In 50 anni il quadro normativo si è destrutturato, perché abbiamo avuto una stratificazione di leggi (settoriali, speciali, di contingenza, statali e regionali). La divisione dei poteri urbanistici tra Stato, Regioni ed enti locali ha comportato una moltiplicazione di istituti giuridici al punto che qualcuno sostiene che non esiste più un sistema dei piani urbanistici, ma tanti tipi di piani urbanistici, tendenzialmente specializzati per funzione. Il risultato è che noi oggi

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abbiamo un "paniere" di strumenti che è un po come le bancarelle di Porta Portese. E spesso la scelta fra gli strumenti è abbastanza indifferente. Ad esempio, a Venezia, una volta adottato il piano territoriale regionale di coordinamento, invece che il piano territoriale provinciale si è adottato il piano della Laguna di Venezia. Questo perché è arrivata prima la Regione e ci ha messo la bandiera. In realtà piano provinciale e piano della Laguna sono assolutamente identici quanto a funzioni. Come nelle bancarelle di Porta Portese tutte le pezze di stoffa sono confuse così i diversi piani sono, in certa misura, intercambiabili. In sintesi: oggi si sommano la. confusione normativa, la crisi della decisionalità e della visione strategica nelle classi amministrative, la debolezza delle amministrazioni e l'obsolescenza degli strumenti. Come se ne esce? Credo che se ne esca soltanto a tre condizioni: in sede culturale, prima di tutto, ripensando agli strumenti urbanistici (non più piani pesanti, piani sovraccarichi). Bisogna, poi, che si realizzi un forte recupero di qualità, di legittimazione e di visione strategica nelle classi amministrative. In assenza di ciò continuerà l'imbastardimento fra affari e amministrazione. E quindi necessario il ricambio delle classi amministrative. Da ultimo: occorre la revisione/razionalizzazione/modernizzazione del coacervo di norme stratificatesi in questi cinquant'anni.


Il superamento della visione autoritativa d&lla pianificazione di GianluigiNigro

Prediligo un atteggiamento modesto e professionale rispetto ai problemi che stiamo trattando e perciò non posso nascondere di provare un certo disagio nel sentire tanti, molti, parlare di urbanistica e pianificazione avendo l'impressione che sono pochi quelli che veramente le sperimentano nelle situazioni reali delle nostre amministrazioni, a contatto con coloro che in qualche modo devono governare quotidianamente le trasformazioni fisiche e funzionali della città e del territorio, applicando comunque una disciplina che, vogliamo chiamarla piano regolatore generale o meno, esiste e non può non esistere. Il mio intervento non ha l'obiettivo di aderire a una delle posizioni in difesa o contro il piano. Voglio solamente esprimere alcuni convincimenti che ho maturato trovandomi professionalmente accanto ad amministrazioni che gestiscono l'urbanistica ogni giorno e che si trovano a far ricorso, in forme più o meno regolari, a strumenti formalizzati di legge. Intanto devo dire che, se è vero che si è praticamente persa l'idea del Piano Regolatore Generale come monumento, e cioè come atto tecnico-amministrativo unico, fondativo, ecc., an-

che perché ormai quasi tutti i Comuni hanno fatto il primo PG della loro storia, è anche vero che ciacun Comune deve disporre di una disciplina urbanistica generale, e che di fatto ciascun Comune ha finito per darsi una disciplina di tal genere, che appunto chiapiiamo PRG, costruita per pezzi, per parti, più o meno organicamente. Probabilmente essa non è frutto di un unico atto tecnico, politico, amministrativo, ma è frutto di atti diversi, a partire dal PRG orginano, forse fatto a suo tempo appunto come "monumento" e quindi quasi vissuto come unico e irripetibile. Ciò mi porta a dire che la domanda da parte dei Comuni di una disciplina aggiornata per regolamentare i comportamenti di trasformazione del territorio c'è comunque, anche se ad essa spesso non si risponde con la formazione di un PRG o di una sua variante generale secondo i canoni classici. Certo una risposta di tal genere si può dare in modo congruente solo ad alcune condizioni: che esista qualche brandello di perizia tecnica, di volontà politica e di autorevolezza decisionale nell'amministrazione e che ci sia in qualche modo la capacità di mettere in rapporto i processi di 77


trasformazione fisico-funzionali dello spazio con i processi strutturali del contesto. Però devo dire ancora che queste condizioni sono rare ed è dunque diffuso in vaste aree del Paese un modo di vivere l'urbanistica di basso profilo, e che le difficoltà che si incontrano per migliorare la situazione dipendono anche dai limiti giudirici e culturali imposti alla prassi pianificatoria dal corpus legislativo dell'urbanistica: non tanto e non solo dalla legge fondamentale del '42, ma anche dalla legge n. 765/67, la legge ponte. Vorrei ricordare a tutti che è stata la legge ponte, attraverso l'attribuzione ai PRG della capacità di vincolo preordinato all'esproprio ai fini del rispetto degli standards, ad attribuire allo strumento urbanistico generale un contenuto giuridico che prima non aveva, caratterizzandolo sempre più come piano capace di costituire diritti reali in merito alla edificabilità dei suoli: per diciotto metri quadrati riservati ad uso pubblico, si sono riconosciuti diritti reali privati, di fatto inamovibili, per tutto il resto del territorio comunale. Di più, mentre prima, nella legge originaria del 1942, il piano regolatore era uno schema direttore la cui attuazione comportava il ricorso ai piani particolareggiati esecutivi (PPE) considerati lo strumento principe della definizione contemporanea del disegno della città (planivolumetrico) e dei diritti reali per i privati e per il pubblico (solo il PPE aveva capacità di esproprio e di imposizione, attraverso il comparto, della ri78

fusione fondiaria), dopo la legge ponte, che ha per di più limitato alle densità inferiori a 3 mc/mq l'obbligatorietà del ricorso al PPE e che ne ha banalizzato la portata abolendo l'obbligatorietà della relativa relazione finanziaria, il PRG diventato uno strumento di distribuzione di diritti edificatori; diritti praticamente irreversibili data la legislazione nazionale sul regime degli immobili, a fronte di un indebolimento crescente del piano quanto a contenuto di disegno e di definizione morfologica della città: il trionfo dello zoning. Il modello di urbanistica autoritativa proposta dalla legge fondamentale del 1942 si è dunque fortemente consolidato con la legge ponte, con gli standards di PRG, con la estensione delle responsabilità di intervento della pubblica amministrazione attraverso l'istituto dell'esproprio, non sostenuto da adeguate politiche finanziarie ne' da un adeguato regime giuridico e fiscale degli immobili. Questo modello mi appare superato non solo e non tanto per la indisponibilità, anche nel medio periodo, di risorse economico-finanziarie pubbliche adeguate alle necessità, quanto perché la complessità e spesso anche la conflittualità degli interessi generali, il mutamento del significato sociale della proprietà e, da non sottovalutare, i limiti della capacità gestionale dell'attuale pubblica amministrazione impediscono di considerare l'esproprio come lo strumento unico o comunque principe per assicurare l'affermazioiie, contemporanea ed al massimo grado possibile, dei


i benefici delle operazioni di trasformazione e dunque di stabilire quanto e come debba essere di pertinenza pubblica e quanto e come di pertinenza privata - si potrebbe liberare il Piano Regolatore Generale dalla necessità di essere LA VISIONE NEGOZIALE un cieco, se non corrotto, distributore Ritengo, perciò, che sia arrivato il mo- ovvero un velleitario negatore di rendimento di passare da una visione esclusi- ta, consentendogli di assolvere, più reavamente autoritativa ad una visione an- listicamente, il ruolo appunto di "regoche negoziale, concertata della pianifi- latore", alla luce del sole, della rendita, per perseguire il complesso degli intecazione. In effetti, se si vuole che il processo di ressi generali coinvolti nello sviluppo pianificazione porti a disporre di una della città e del territorio. disciplina urbanistica sensibile ai diver- Si potrebbe dunque aprire una nuova si tempi delle trasformazioni, concepita stagione per la pianificazione ed il Piaper regolare efficacemente ed equamen- no Regolatore Generale. E ciò a mio te la trasformazione dell'esistente e avviso sarebbe auspicabile per le nostre l'impianto del nuovo, le trasformazioni comunità locali: non dobbiamo infatti diffuse e quelle concentrate, l'attuazio- dimenticare e perdere di vista il profonne diretta e quella indiretta occorre spe- do ed insostituibile significato di crescirimentare figure pianificatorie ed istitu- ta civile, culturale e politica che rappreti giuridici in forme, anche nuove, che senta il processo formativo di un PRG; consentano di registrare il rapporto processo che resta una delle massime pubblico-privato in modi più articolati espressioni istituzionali dell'esercizio e più mirati, rispetto alle finalità pub- della partecipazione e della democrazia bliche perseguite, di quanto non sia della comunità locale, dal momento possibile attraverso il ricorso generaliz- che ha per oggetto la definizione di uno zato al vincolo di esproprio ed al trasfe- dei contenuti principali dell'interesse rimento coatto, al pubblico, della pro- collettivo - l'assetto del proprio futuro ambiente di vita - e che si coprietà immobiliare. Se, in effetti, si disponesse di un venta- struisce attraverso le forme più comglio di possibilità legittime per costrui- plete della partecipazione, ivi comre, alla luce del sole, diverse forme di presa quella dell'intervento, nella fase rapporto pubblico e privato - regolato delle osservazioni, a titolo addirittura e valutato facendo anche ricorso, come individuale. nelle migliori tradizioni dell'urbanisti- In questa prospettiva potrebbero essere ca operativa, a precisi quadri economici riattribuiti al piano una serie di conteche consentano di apprezzare i costi ed nuti progettuali, volti a porre al centro

diversi interessi collettivi legati alle trasformazioni dell'assetto e all'uso del territorio e della città.

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dell'attenzione gli aspetti ambientali sia di tipo ecologico che di tipo culturale (rapporto tra costruito e non, sistema del verde, definizione morfologica della cittĂ e delle sue parti, coerenze morfotipologiche e funzioni, qualitĂ della definizione e dell'assetto dello spazio pubblico, ecc.) e quant'altro la sperimenta-

1.1101

zione e l'innovazione disciplinare degli ultimi anni hanno consentito di mettere a punto. Potremmo non essere lontani da una nuova forma di piano per una nuova stagione di pianificazione urbana che potrebbe anche essere favorita dalle riforme istituzionali in itinere.


Le prospettive di riforma della legislazione urbanistica tra il peso della tradizione e gli impulsi alla innovazione di Michele Talia

Il decennio che ci siamo lasciati alle Non spetta certo a me stabilire quali spalle ha costituito, anche per la disci- siano state le motivazioni più profonde plina urbanistica, un periodo di revisio- che hanno condotto a questa situazione, ma è certo che la contrapposizione, ne particolarmente difficile e controverso. Nel corsà di esso le istituzioni, le che a molti è sembrata insanabile, tra procedure e la strumentazione tecnica piano e progetto non è stata certamente della pianificazione sono stati al centro il frutto di speculazioni e competizioni di una riflessione critica che, in molti accademiche, ma ha rispecchiato alcuni casi, ha finito per mettere in dubbio la cambiamenti significativi avvenuti nel stessa opportunità di proseguire lungo processo di costruzione delle strutture la strada che era stata tracciata durante insediative. gli anni Sessanta e Settanta, e che si era A tale proposito è sufficiente pensare al caratterizzata per la ricerca di modelli rallentamento dei fenomeni di urbanedi governo della città e del territorio simo, alla esplosione della competizione urbana anche a scala internazionale, sempre più articolati e pervasivi. Per l'effetto congiunto dell'impulso al- alla transizione verso forme di sviluppo la "de-regolamentazione" e della ten- post-industriale ed infine al venir meno denza al riconoscimento di un primato del grande disegno riformista, sostenuassoluto alle leggi del mercato, la fase to dagli urbanisti fino agli inizi del depiù recente ha visto assegnare al proget- cennio precedente, per accorgersi che to, e soprattutto alla "prògrammazione tali eventi non solo sono stati in grado di segnare un'epoca, ma hanno rappreper progetti", un compito particolarmente impegnativo, che coincideva sentato gli agenti di trasformazione in base ai quali la pretesa del "progetto" nientemeno con il tentativo di far uscire la società contemporànea dallo stato di rappresentare un modello alternatidi paralisi decisionale nel quale si era vo e autosufficiente nei confronti del improvvisamente trovata, dopo l'esau- "piano" (e non semplicemente la sua rimento della spinta propulsiva iniziata necessaria integrazione) è riuscita ad ottenere un vasto credito tra una platea di negli anni della Ricostruzione. 81


soggetti sempre più ampia. Per questi ultimi il progetto interpretava infatti le istanze espresse da un periodo di transizione che, almeno in parte, non sembra ancora essersi concluso e che ha trovato nel piano urbanistico, ereditato dalla tradizione della prima metà del secolo, uno strumento che si rivelava sempre più rigido nei confronti di una società in continuo cambiamento. E accaduto così che tra l'impianto formale del piano e i processi di riconversione funzionale, che hanno caratterizzato la città dello scorso decennio, si è determinata una sorta di circolo vizioso, per effetto del quale ha finito per trovare giustificazione la tesi che assegnava alla urbanistica la responsabilità di aver fallito nella ricerca di un modello di governo delle trasformazioni insediative realmente efficace ed armonico.

CLIMA GENERALE E PROSPETTIVE DI RIFORMA DEL QUADRO NORMATIVO

Anche se, come si è detto, il bilancio negativo, che si è soliti effettuare rispetto ai risultati raggiunti dalla disciplina urbanistica, dipende in misura rilevante da una crisi diffusa della capacità di decisione e di progetto della società contemporanea, non si può fare a meno di notare che lo stato di degrado in cui versa la città italiana e, più in generale, il territorio del Paese, essendo di dominio pubblico, comporta l'attribuzione di responsabilità specifiche alla cultura 82

tecnica e professionale da parte dell'insieme dei cittadini. Ne consegue, pertanto, che a noi tutti non dovrebbe sfuggire l'incertezza del momento, e, al tempo stesso, la difficoltà di procedere in tale contesto alla costruzione di un nuovo modello di riferimento, il quale richiede invece, per essere portato a termine, la permanenza in uno "stato di grazia" nel quale il legislatore e l'opinione pubblica dovrebbero potersi confrontare a lungo e proficuamente. Ma se invece dovesse accadere - come è già avvenuto nel caso della legge n. 142/90, del tentativo di riformare il regime degli immobili e di altre leggi "cornice" - che la ricomposizione degli interessi dovesse determinare la formazione di condizioni di conflittualità estrema, allora l'iter parlamentare di un nuovo codice urbanistico rischierebbe di essere estremamente lungo e defatigante. In questi casi, anzi, vi sarebbe il pericolo concreto di una approvazione della nuova legge in un clima politico e culturale ormai completamente diverso da quello in cui è avvenuta la sua stesura originaria, con il conseguente pericolo di mettere a punto un nuovo quadro normativo di cui non sarebbe quasi certamente possibile attuare i principi costitutivi. Ciò risulta poi particolarmente evidente se si considera che, nel caso in oggetto, il decentramento alle Regioni delle competenze in materia urbanistica ha fatto sì che per lungo tempo si rinunciasse ad affrontare le tematiche relati-


ve allo studio, all'indirizzo e al coordinamento dei quadri normativi elaborati dai governi regionali, spogliando di competenze e di capacità tecniche le strutture centrali dello Stato, le quali hanno finito per adattarsi ad occupare un ruolo di fatto marginale nel processo di pianificazione, almeno per quanto riguarda le politiche esplicite. Ma c'è di più. Anche nei casi in cui i governi regionali si sono impegnati nella predisposizione di nuovi codici urbanistici, le difficoltà incontrate dalla Pubblica Amministrazione si sono riprodotte, ovviamente a scala inferiore, in tali contesti; nel senso che gli apparati tecnici non sono riusciti quasi mai a stabilire un rapporto corretto tra gli indirizzi contenuti nel testo unico, il più delle volte notevolmente innovativi, e la prassi urbanistica corrente, che risentiva al contrario di un appiattimento eccessivo sulle necessità quotidiane manifestate non solo in sede gestionale, ma anche nella attività svolta da quadri professionali caratterizzati da modesti livelli di qualificazione e di aggiornamento. Se si concorda con questa valutazione critica circa la possibilità di adeguare sostanzialmente, e in tempi brevi, la legislazione urbanistica, dovremo soffermarci allora su ipotesi di più corto respiro, concernenti singoli correttivi e parziali integrazioni. Si tratta di ridimensionare notevolmente il progetto riformatore, ma, anche in questo caso, necessario sviluppare la riflessione su alcune questioni preliminari connesse

al processo di revisione legislativa e ai principali elementi di "scenario" al cui interno il nuovo quadro normativo sembra destinato ad operare. In linea di massima conviene richiamare l'attenzione su almeno quattro aspetti rilevanti: anche se notevolmente rallentato nel corso degli ultimi anni, il processo di urbanizzazione che ha "segnato" il Paese ha lasciato dietro di sé "lutti e rovine", di cui si stenta oggi a valutare le effettive dimensioni. Più in particolare, sembra ormai evidente che l'attuale sistema insediativo ha perso contatto con i tre principi ordinatori fondamentali della città e del territorio, ispirati rispettivamente alla bellezza, alla giustizia e alla efficienza, ed è solo a partire dal recupero di tali rapporti che potrà prendere slancio nel nostro Paese un movimento per la rifondazione urbanistica; laddove le nuove tecnologie si sono dimostrate realmente pervasive nei confronti della economia e della società, le strutture territoriali hanno manifestato pienamente la propria "vischiosità" néi confronti del cambiamento, al punto che l'impatto delle innovazioni sui sistemi insediativi è stato quanto mai variegato (vedi il caso limite delle strutture tecniche dello Stato, tra cui il Catasto, in cui il processo innovativo sembra essersi arrestato prima di poter incidere sui reali processi di costruzione e di razionalizzazione del territorio); per effetto della sfiducia determinata dalle recenti iniziative giudiziarie sulla 83


possibilità di proseguire con successo disfare al fine di evitare che una nuova gli esperimenti in corso in materia di legge "quadro" passi di fatto inosservata. collaborazione tra soggetti pubblici e Sul piano normativo, ovviamente fonsoggetti privati, tende ad affermarsi l'e- damentale per l'argomento che affronsigenza di una maggiore trasparenza dei tiamo in questa nota, si rivela essenziale processi decisionali, anche se ciò potrà impedire che la ricerca di nuove regole, comportare la rinuncia ad un impor- introducendo complicazioni aggiuntive tante patrimonio tecnico e procedurale di carattere procedurale, fornisca un ulaccumulato nel corso degli anni. A tale teriore impulso alla corruzione di amriguardo sembra opportuno evitare in ministratori e funzionari pubblici (veparticolare che si disperda quanto è sta- di, tra i tanti possibili esempi, il caso to sperimentato nel campo del confron- del Mezzogiorno) o al congelamento to e della valutazione dei progetti, e degli impulsi vitali che comunque attranella possibilità di privilegiare, nel go- versano la società meridionale. verno del territorio, quegli orientamen- Sul piano finanziario, è necessario esseti strategici in grado di favorire la mo- re pienamente consapevoli dei rigidi bilitazione delle risorse; condizionamenti che gravano sull'oped) a seguito dell'inevitabile protrarsi rato degli enti locali, e che postulano il degli attuali andamenti recessivi sarà passaggio da politiche urbane che privinecessario orientare il soddisfacimento legiano investimenti a lungo termine, della domanda inevasa di riforme verso come nel caso della costituzione di rimodelli di intervento in grado di pratiserve pubbliche di aree, alla rivalorizzacare il ri-orientamento, anziché l'espan- zione di investimenti fatti in passato e sione della spesa (come nel caso della ai quali non hanno corrisposto finora Sanità, ma anche del Mezzogiorno e del esiti adeguati; recuperando cioè le plusgoverno del territorio), sperimentando valenze accumulate nel corso di una procedure e comportamenti ispirati al lunga stagione di grandi progetti e di contenimento delle forme di spreco cattiva gestione urbanistica. delle risorse che, nel nostro Paese, sem- Sul piano amministrativo, infine, acbrano addirittura inediti. quista una evidente priorità la ricerca del massimo coinvolgimento di quadri e strutture non solo in vista di una apLA DOMANDA DI INNOVAZIONE plicazione, formalmente corretta, della legge, ma anche per superare il tradizioSe questi sono. gli elementi maggior- nale gap tra programmazione, pianifimente problematici, evidenziati dal cazione e gestione. Quest'ultima condicontesto nel quale la riforma urbanisti- zione di successo per una, eventuale, rica dovrebbe essere concepita, è possibi- forma urbanistica prevede il conseguile indicare altresì le condizioni da sodmento di tre ulteriori presupposti, che 84


in questa sede dovremo limitarci a richiamare, ma che meriterebbero una trattazione ben diversa: superamento del conflitto tra tendenze federaliste e tendenze neo centraliste che, in una situazione di possibile collasso delle istituzioni rappresentative quale è quella attuale, si rivelerebbe assai pericoloso; sostituzione del modello verticistico, tipico della urbanistica autorizzativa, con un modello integrato e orizzontale; assegnazione al piano degli obiettivi riguardanti il recupero di parte almeno degli effetti perversi, determinati dalle politiche esplicite nel corso di una prolungata e dissennata fase di investimenti pubblici nel campo della dotazione infrastrutturale del territorio. A tale proposito si può concludere pertanto che, dopo l'ondata neopositivista degli anni Ottanta, nel corso dei quali si era pensato di affidare l'efficacia del piano alle "sinergie" e ai circoli virtuosi che solo la fortunata coincidenza di un considerevole numero di fattori avrebbe potuto determinare, la disciplina urbanistica è costretta a confrontarsi con il compito, tutt'altro che agevole, di recuperare gli effetti perversi o inadeguati (se non addirittura disastrosi) che il governo pubblico della città e del territorio ha riprodotto senza sosta nel passato decennio.

LA RIFORMA DELLA LEGISLAZIONE URBANISTICA NELLA LOGICA DEI PICCOLI PASSI

Dalle riflessioni che abbiamo sviluppato in precedenza si possono trarre alcune considerazioni conclusive che vorrei offrire al dibattito, poiché da esse è possibile ricavare utili indicazioni per continuare l'attività di riflessione e di proposta su questa complessa materia. In linea di massima queste considerazioni ruotano intorno alla categoria di "innovazione" e alla difficile esistenza che quest'ultima ha avuto nei processi di pianificazione ispirati dalla legge urbanistica del 1942. Conviene notare, a questo proposito, che il quadro normativo su cui si basa tuttora il governo della città e del territorio deve la sua resistenza al mutamento proprio al suo carattere anodino, disponibile ad ogni uso, e quindi tale da passare attraverso le diverse fasi che hanno caratterizzato la nostra storia urbana più recente senza rinunciare ai propri elementi più significativi. Naturalmente questa "impermeabilità" nei confronti delle dinamiche fisiche e degli orientamenti politici non è stata priva di conseguenze per la evoluzione della disciplina urbanistica, il cui sviluppo è apparso il più delle volte troppo incerto e contraddittorio. Quale che sia il destino del nostro attuale apparato normativo è necessario che i vincoli, che hanno finora impedito di adattare il quadro legislativo alla domanda espressa dalle strutture insediative, vengano rapidamente rimossi. 85


In questo modo si consentirebbe di un sufficiente elemento di rassicurazioorientare le decisioni urbanistiche semne per l'insieme degli operatori, e se pre più decisamente verso la tendenza a questo giudizio negativo può essere sfuggire all'intrico procedurale deter- esteso senza un particolare rischio di minato dalla enfatizzazione dei conteerrore anche al progetto, allora è giusto nuti amministrativi del piano, restipensare che questa crisi della fiducia netuendo a quest'ultimo le finalità più gli strumenti e nelle politiche del gopropriamente progettuali che rappreverno urbano possa essere affrontata sentano l'autentica garanzia di successo potenziando l'apparato strumentale delle politiche pubbliche. della valutazione, se non altro nei limiti E evidente che l'affermazione di questo in cui quest'ultima riesce a correggere nuovo modello di pianificazione coin- la frammentazione e il carattere "retovolge molteplici aspetti, relativi al ruo- rico" che l'hanno caratterizzata finora. lo svolto nel nostro Paese dalla funzio- Se si concorda con questa puntualizzane pubblica e a quello prevalentemente zione si può allora ritenere che la proassegnato ai soggetti privati, la cui com- grammazione per progetti possa forniplessità supera ampiamente la capacità re realmente un contributo sostanziale di analisi e di approfondimento che al processo di piano, ma.a condizione, e può essere raggiunta con una riflessione non è una limitazione da poco, che le non programmata. Eppure, nonostante politiche di piano e i singoli progetti queste limitazioni, alcune sollecitazioni siano valutabili sulla base di una serie di possono essere effettuate già in questa obiettivi che consensualmente, e in via sede, soprattutto per quanto riguarda il convenzionale, siano definiti da uno tentativo di stimolare il confronto di- strumento di pianificazione generale. sciplinare su tre questioni di notevole Altrimenti l'obiettivo di validare le sinimportanza. gole iniziative, facendo riferimento ad Quanto al primo aspetto che si intende una verifica rigorosa dell'impatto di richiamare, esso riguarda il conflitto tra ciascun progetto sul sistema urbano, si piano urbanistico e progetto al quale presta inevitabilmente alle deviazioni abbiamo fatto cenno in precedenza, e fin troppo note, le quali fanno della vache può essere superato almeno in par- lutazione uno strumento di persuasiote mediante la revisione del sistema di ne che è utilizzato in alcuni casi dalla formazione delle decisioni e l'affina- Pubblica Amministrazione, ma molto mento delle tecniche di valutazione di più spesso dai promotori degli intercui attualmente disponiamo. venti di trasformazione urbana. Alla base di questo nuovo punto di vi- Passando ora ad analizzare la seconda sta vi è una considerazione apparente- questione a cui si faceva riferimento, è mente ovvia, riassumibile nella ipotesi necessario riprendere le tematiche afche se il piano attuale non costituisce frontate subito prima in relazione al86


l'apparato tecnico-strumentale della pianificazione e ricordare che la crisi del piano risulta ascrivibile soprattutto alla sua incapacità di prevedere le trasformazioni future, e quindi ad una manifesta inesperienza nella costruzione di scenari previsionali. Se però si ricorda che l'urbanistica, come tutte le discipline sociali, non ha la possibilità di prevedere il futuro in senso stretto, ma possiede, come si è detto, una capacità che, soprattutto nell'ultimo decennio, è stata sovente trascurata - di valutare in modo preventivo gli effetti perversi delle politiche pubbliche di pianificazione, sia esplicite che implicite, si attribuirà a queste ultime un ruolo e una funzione che nell'assetto più tradizionale si erano progressivamente offuscati. Ne consegue in altri termini che l'efficacia del piano può essere valutata anche a partire da questa visione, nel senso che la ricognizione e la valutazione delle conseguenze delle politiche pubbliche possono condurre alla individuazione degli "effetti perversi" ditali politiche, al fine di correggerli ove possibile, e di ricondurli comunque all'interno di un quadro di razionalità. Per quanto riguarda infine la terza delle questioni annunciate, essa comporta la riconquista di una cultura più avanzata della trasformazione che né il piano n lo stesso progetto sembrano possedere ancora. E sufficiente guardare ciò che abbiamo lasciato alle spalle per accorgersi che la disciplina urbanistica è stata sovente incapace di governare la trasformazione

nei suoi aspetti fondamentali e più strategici, proponendosi al contrario come ambitò di pura "regolazione" e arbitrato tra le parti sociali. Non è difficile immaginare le conseguenze che un diverso approccio avrebbe determinato, utilizzando ad esempio il progetto anche come strumento di comunicazione (non solo tecnica), se non addirittura come merce di scambio, in una situazione dominata da processi diffusi in cui erano spesso gli operatori più parcellizzati e dispersi ad assumersi l'onere del cambiamento. Come si vede le questioni che attendono una risposta dal contesto legislativo non sono poche né semplici, ma sarebbe un gravissimo errore affidare la loro soluzione unicamente all'adeguamento del quadro normativo, o peggio alla formulazione di una nuova legge urbanistica generale. In attesa che il Parlamento (o i parlamenti regionali) affronti nuovamente questa complessa materia, c'è la possibilità per ognuno di fornire il proprio contributo, sia in sede amministrativa, applicando con chiarezza e trasparenza gli strumenti esistenti, sia in sede imprenditoriale, accettando fino in fondo la sfida del mercato e della competizione, sia infine in sede tecnico-progettuale, sperimentando nuove forme di compatibilità tra il disegno strategico dello sviluppo urbano, che non ha bisogno di alcun prov vedimento normativo per essere proposto, e gli strumenti analitici con cui valutare la capacità che i singoli interventi hanno di partecipare a tale prospettiva. 87



questeisiduzioni

Le scienze sociali e l'Europa

Il rapporto di cui pubblichiamo la traduzione ha riaperto, qualche tempo fa, un discorso sul ruolo delle scienze sociali nell'elaborazione delle politiche pubbliche a livello comunitario. Sulla questione bisogna insistere affinché; come pure è ben possibile e facile, il discorso non si chiuda frettolosamente e con risultati modesti. Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, pèr suo conto, intende muoversi con proprie iniziative per un maggiore coinvolgivmento delle scienze sociali nel disegno e nella realizzazione delle politiche europee e per una significativa presenza della comunit€ì scientifica italiana. Naturalmente sappiamo che non basta predicare una maggior presenza delle scienze sociali. Occorre creare il contesto non semplicemente operativo, ma intelletivo per rapporti utili fra scienziati sociali e decision makers. Luciano Gallino ricorda giustamente nell'introduzione del suo bel libro L'incerta alleanza, Modelli di relazioni tra scienze sociali e scienze naturali, (Einaudi, 1992) un caso.tipo che spesso si ripete: 89


«Un ente territoriale che debba decidere se procedere o no alla realizzazione di una grande opera pubblica, e al caso con quali modalitì, richiede ormai, di norma, a un gruppo pluridisciplinare di esperti una valutazione preventiva. dell'impatto socio-ambientale che essa, potrebbe avere. Il prodotto, ancora di norma, è un rapporto di migliaia di pagine che comprende una relazione sugli aspetti ingegneristici dell'opera, 'una relazione idro geologica, una relazione sull'ecosistema, una relazione economica, una relazione sociologica, una relazione sui beni culturali interessati, ecc. Con un tratto peculiare: ciascuna relazione, a ben leggerla, porta il lettore-decisore a conclusioni differenti, sia per quanto attiene alla opportunitì di realizzare l'opera, sia per quanto riguarda il rapporto costi/benefici di varie modalitì di realizzazione. » «Di conseguenza il decisore decide come crede, il che significa, il pii'i delle volte come avrebbe comunqué deciso se non avesse mai'ri chi esto il responso degli specialisti. Si suole dire, in tali casi, che è bene che così avvenga, perché in ultimo cotali decisioni han da essere "politiche"; che è un atteggiamento, e una prassi, i quali riescono a compendiare in un intreccio inestricabile: a) la rinuncia alla razionalitì di una qualsiasi policy, b) un alibi che evita agli specialisti di riflettere sulle proprie azioni e interazioni cognitive, c) un alibi parallelo e complementare che solleva il decisore dalla responsabilitì di badare alle proprie strategie cognitive - le strategie cui ricorre per raccogliere e strutturare conoscenze ben fondate - nonché d) un contributo complessivo al regime di irresponsabilità organizzata - congrua definizione di Ulrich Beck - sul quale pare reggersi, finché dura, la società industriale». Non c'è che dire: il lavoro da fare è duro.

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Le scienze sociali nel contesto delle Comunità Europee a cura della Fondazione Europea della Scienza e del Consiglio di Ricerca Economica e Sociale

Sezione 1: Considerazione strategica delle scienze sociali in Europa

PANORAMICA DELLO SVILUPPO SCIENTIFICO IN EUROPA Le scienze sociali sono un prodotto dell'Illuminismo Europeo. I suoi padri fon4atori furono tutti europei: Rousseau, Smith, Marx, Durkheim, Weber, Pareto, Marshall e Freud. Tuttavia le scienze sociali europee moderne siedono scomodamente sulle spalle di questi "giganti". Durante l'ultima metà del ventesimo secolo, il lavoro più importante è stato intrapreso sempre di più in altri Paesi, soprattutto negli Stati Uniti. La qualità delle scienze sociali europee rimane alta, ma vi sono un numero di aree che hanno bisogno di rafforzamento. Gli studiosi delle scienze sociali europee sono spesso ancora nella posizione di guida nello sviluppo teoretico e concettuale, ma l'Europa dovrebbe fare un maggiore uso dei metodi di ricerca e delle tecniche analitiche più avanzate. Nei confronti del carattere internazionale inerente le scienze naturali, le

scienze sociali hanno bisogno di diventare più orientate verso un'òrganizzazione di livello europeo. Per la grande maggioranza degli studiosi di scienze sociali c'è un effettivo confinamento nelle istituzioni e/o nei problemi nazionali. La mobilità internazionale tra i ricercatori, specialmente all'interno dell'Europa, è limitata a pochi fortunati. Mentre le Comunità Europee hanno mostrato un certo interesse, anche con azioni, per questi problemi (per esempio: attraverso il Programma di Stimolo per le Scienze Economiche e l'Istituto Universitario Europeo), l'assunto di questo rapporto è che c'è ancora molto da fare prima che il potenziale delle scienze sociali d'Europa possa tener fede ai contributi forniti in passato dai fondatori europei delle nostre discipline e farli progredire.

PANORAMICA DEL CONTRIBUTO DELLE SCIENZE SOCIALI ALL'EUROPA La ricerca delle scienze sociali può essere giustificata solamente in termini dei benefici culturali dell'avanzamento dell'il


le frontiere della conoscenza umana. Mentre, naturalmente, sottoscriviamo questo concetto, crediamo che vi siano ragioni ulteriori, più pratiche, che spiegano il perché sia tempo di potenziare la ricerca europea nel campo delle scienze sociali. COMPETITIvITÀ: c'è un crescente riconoscimento che, per rafforzare «le basi scientifiche e tecnologiche dell'industria europea», sia necessario non solo accrescere la creatività delle scienze naturali, ma anche lo studio del contesto economico e sociale in cui scienze ed innovazioni hanno luogo. PROCESSI DECISIONALI: le scienze sociali forniscono una migliore informazione ai policy makers e aiutano la formazione di decisioni evidenziando le opzioni alternative, i costi e i benefici delle scelte fatte e le previsioni delle probabili conseguenze, sia volute che non volute. Per diverse ragioni, che spiegheremo in seguito, chi prende le decisioni nelle Comunità Europee non ha accesso a quella conoscenza di base delle scienze sociali, rigorosa e ricca di dati, che invece è disponibile a chi prende decisioni a livello nazionale. DEMOCRAZIA: incrementando la nostra comprensione dell'attività sociale umana, gli studiosi di scienze sociali rendono un importante contributo alla creazione di un pubblico informato, capace di far valere i suoi diritti democratici sulle autorità pubbliche. Queste ultime, a loro volta, non possono che trarre beneficio da una discussione pertinente dei loro ruoli. L'Europa dell'Est 92

ci ricorda ciò che può accadere senza questo tipo di apertura. Le attuali conferenze intergovernament ali stanno mettendo in evidenza che l'unione economica e politica aipende dalla coesione economica e sociale: le scienze sociali contribuiscono direttamente a far capire ciò, come vedremo più avanti. Il tema di questa relazione è che, praticamente e scientificamente, c'è molto da guadagnare da uno sguardo nuovo allescienze sociali nelle Comunità Europee. I benefici potenziali si dimostreranno considerevoli, non solo in termi ni di politica tecnologica e scientifica (Sezione 3),,ma anche su una vasta gamma di problemi di importanza vitale per lo sviluppo della Comunità (Sezione 4). Comunque, un certo numero di barriere che attualmente inibiscono la realizzazione di questo potenziale vengono identificate nélla Sezione 5. La relazione si conclude, con la Sezione 6, con le nostre raccomandazioni su come queste barriere potrebbero essere superate.

Sezione 2: Background, definizione e illustrazione dei possibili contributi delle scienze sociali all'Europa QUESTIONI

Tre domande sono state poste dal Gruppo Interservizio della Commissione Europea, Interface Social Sci ences/Technology: a) perché la disciplina stessa non è in


grado di offrire una immagine migliore? (ciò include il problema della definizione delle scienze sociali); perché la Comunità sembra non essere consapevole dei benefici delle scienze sociali? qual è il ruolo delle scienze sociali in relazione alla scienza e alla tecnologia nel Giappone e negli Stati Uniti, rispetto al contesto della Comunità? La Fondazione Europea delle Scienze (E5F) e il Consiglio di Ricerca Economico e Sociale del Regno Unito (EsRc) hanno preparato questa relazione per rispondere a queste domande. Per la preparazione della relazione hanno avuto luogo due incontri del Comitato Permanente per le Scienze Sociali della ESF e il suo Core Group, che consiste di membri preminenti della Comunità delle Scienze Sociali Europee. Questi incontri hanno riunito quattordici esperti di otto nazioni europee con esperienza di interazione tra scienze sociali e politica .a livello comunitario e nazionale. Le scienze sociali forniscono le spiegazioni e la comprensione dell'azione umana individuale e collettiva. Esse includono una vasta gamma di discipline: economia, studi ambientali, scienze politiche, geografia, psicologia, sociologia, studi nanziari e di management, antropologia sociale, studi socio-legali e sull'istruzione. Coloro che non hanno familiarità con le scienze sociali qualche volta le equiparano alla sociologia (forse perché in molte lingue le parole hanno un suono

fi-

simile). In realtà, le scienze sociali sono molto più estese della sociologia e includono discipline con una vasta gamma di metodi di ricerca e di sviluppo teoretici. Le scienze sociali sono perciò caratterizzate dalla loro pluralità, ma proprio questa pluralità è uno dei punti di forza delle scienze sociali contemporanee e non dovrebbe, quindi, essere vista come una debolezza (vedi Sezione 5 per una discussione su questo punto).

IL CONTRIBUTO DELLE SCIENZE SOCIALI E UNA TIPOLOGIA

Alle scienze sociali viene spesso richiesto di dimostrare la loro "utilità". Ciò viene spesso associato con un modello di ingegneria sociale, secondo il quale le scienze sociali possono fornire "soluzioni" ai "problemi sociali" direttamente, immediatamente e su richiesta. Questo modello, comunque, è obsoleto. E stato ed è applicabile in circostanze molto limitate. La ragione di ciò è che i "problemi" di policy sono altamente contestuali e contingenti: essi vengono definiti e inquadrati in determinate circostanze e configurazioni storiche. Qualsiasi "soluzione" deve, quindi, tenere conto di questo dato, che include il modo in cui i "problemi" vengono percepiti, interpretati e anche manipolati dai diversi protagonisti dei processi decisionali. Presumere che i "problemi" siano trasparenti e non equivocabili significa scambiare la società per una macchina costruita ad ar93


te, con parti funzionanti chiaramente progettate e controllabili. Un approccio più moderno al contributo delle scienze sociali è quello di considerare i modi in cui le scoperte della ricerca permeano diversi livelli del dibattito sui temi di policy. Nella figura i identifichiamo quattro livelli del dibattito e selezioniamo solo tre problematiche chiave per la Comunità. Queste illustrano la portata dei contributi che gli studi delle scienze sociali possono dare ai processi decisionali. La ricerca delle scienze sociali può ispirare il buon senso comune (il giudizio più corrente su come funziona la società), l'agenda (le problematiche che vanno affrontate) e gli strumenti attraverso cui le risorse possono essere effettivamente impiegate per raggiungere i risultati desiderati. Ad un altro livello, le scienze sociali possono contribuire alla valutazione di programmi e iniziative, che dovrebbe essere integrata in tutti i moderni processi di decision-making. Sottolineare la gamma di ricerche delle scienze sociali che può guidare il dibattito sulla politica europea non significa che il processo decisionale debba essere sospeso, per aspettare i risultati e il conseguente dibattito della ricerca delle scienze sociali. Piuttosto una Comunità che ha accesso alle scienze sociali europee di alta e rilevante qualità è in una posizione migliore per sviluppare nuove politiche rispetto ad una che non lo ha. Un esempio utile è il modo in cui i dibattiti sull'unione monetaria europea hanno raccolto il lavoro dallo SPES (Sti-

pr

mulation Pro gramme for Economics Sci ence). Tuttavia lo SPES Si occupa soltanto di una delle dieci discipline summenzionate, e, in effetti, non si dedica alle sempre più importanti ricerche multi-inter-disciplinari.

CONCLUSIONE

Un policy-making informato richiede: lo sviluppo di una vasta conoscenza e di una banca dati delle scienze sociali. La disponibilità di informazioni e di conoscenze rilevanti. Questi argomenti sono stati accettati e compresi a livello nazionale da lungo tempo, ma, a mano a mano che le Comunità si sviluppano, chiaramente bisognerà sviluppare una simile capacità a livello europeo. Le questioni di policy europee non sono e non saranno una semplice aggregazione di questioni nazionali. Le richieste poste al sapere e ai dati delle scienze sociali europee non saranno soddisfatte da sforzi nazionali individuali e frammentati. La desiderabilità di ricerche sociali europee rilevanti ai fini del policy-making non dovrebbe essere messa in dubbio. Tuttavia, come dimostreremo nelle Sezioni 4 e 5, vi sono barriere che devono essere superate prima che questa capacità possa essere sviluppata e sostenuta. Prima di dedicarci a questi problemi dobbiamo considerare la terza domanda posta dall'Inter-Service Group.


Figura I

ESEMPI DI PROBLEMI CHIAVE PER LA COMUNITÀ EUROPEA E POTENZIALE CONTRIBUTO DELLE SCIENZE SOCIALI

Competitività dell'industria europea

Coesione sociale ed ecònomica

Unione monetaria europea

Saggezza convenzionale

Studi sul relativo. dinamismo dell'industria europea

Metodologie per valutare consistenza e persistenza delle ineguaglianze regionali

Studi del ruolo dell'EMs nella riduzione dell'inflazione

Agenda politica

Studi per investigare se il . dinamismo promosso dalla, concorrenza o dalle sponsorizzazioni

Probabile efficacia dell'aumento dei trasferimenti di pagamenti e/o dell'aumento della mobilità

Implicazioni della moneta comune nella politica fiscale degli Stati membri

Strumenti alternativi

Studi del regolamento delle fusioni, ruolo dei programmi europei R&D .

Come espandere meglio i fondi strutturali? Inter-relazione dei fondi strutturali e programmi nazionali

Controllo democratico o banca centrale indipendente?

Contributi disciplinari e interdisciplinari

Economia, diritto, management, scienze politiche, politica della scienza

Economia, geografia, scienze politiche, sociologia

Economia, diritto, scienze politiche

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Sezione 3: 11 ruolo delle scienze sociali in ciò, comunque, tenteremo di riassumerelazione alla scienza e alla tecnologia re lo stato esistente delle conoscenze, nel Giappone e negli Stati Uniti, e corri- usando le tre categorie sopra indicate. parazioni con il contesto comunitario Le scienze sociali possono contribuire alla gestione del cambiamento tecnico nei seguenti modi: possono chiarire i fattori che determinano l'emergenza di nuove tecnologie ed innovazioni tecnologiche; possono informare ed aiutare a definire le opzioni politiche, così come a valutare i risultati di una scelta politica; possono valutare complessivamente le conseguenze volute e non volute, i risultati e ifeedbacle dello sviluppo tecnologico. Già da tempo le scienze sociali si occupano di questi problemi. Il ruolo delle aziende, dei governi, delle risorse umane e di altre variabili ìn relazione alla crescita economica, alla competitività industriale e alle strategie di sviluppo tecnologico è stato in primo piano nella ricerca empirica. In generale, le ricerche sono andate avanti per mezzo di studi di casi dettagliati costruendo, così, degli indicatori aggregati per la tecnologia. Gli studi dei casi hanno fornito un certo numero di importanti approfondimenti empirici, ma questi sforzi di ricerca non sono sempre stati accompagnati dall'integrazione dei risultati, da un approccio comparativo sistematico né da una crescita cumulativa di teoria. E qui, crediamo, che la Commissione potrebbe avere un ruolo specifico da giocare. Prima di sottolineare 96

FATTORI CHE FORMANO L'INNOVAZIONE TECNOLOGICA

Permane la credenza diffusa che la scienza di base, lo sviluppo tecnologico e la competitività industriale siano legati in modo diretto e lineare. La ricerca delle scienze sociali ha dimostrato che questo modello non è solo obsoleto ma pericolosamente fuorviante. E più giusto sostenere che il rapporto tra la scienza di base, il cambiamento tecnologico e la competitività industriale è interattivo in ciascun caso. Quindi la tecnologia non è sempre fondata sulla scienza di base: invero, la scienza è notevolmente valorizzata e accelerata dall'evoluzione tecnologica (e della strumentazione). In modo simile, il grado e la direzione dell'innovazione tecnologica sono determinati in gran parte dalle condizioni del mercato e dalle competenze e conoscenze integrate nell'economia. Proprio come l'innovazione tecnologica promuove una economia competitiva, così le risorse umane sono cruciali nel determinare la velocità del tecnology transfer e dell'interscambio tecnologico. Il "modello interattivo" ha iniziato a influenzare il modo in cui gli economisti interpretano la relazione tra l'innovazione tecnologica e la competitività industriale. Nel passato molti economi-


sti hanno considerato l'evoluzione della tecnica un fattore importante ma esogeno alla crescita economica. Attualmente, comunque, lo sviluppo tecnologico si trova al centro di molte analisi economiche. La concorrenza viene vista come guidata dalla varietà tecnologica, la quale, a sua volta, viene continuamente valutata - e quindi formata - dall'ambiente del mercato prevalente. Un esempio potrebbe essere quello della "cultura dell'impresa" che appare come un elemento attivo e variabile che forma ed è formato dallo sviluppo tecnologico. Ciò significa che la politica tecnologica non può e non dovrebbe essere limitata alla "implementazione economica" del cambiamento tecnologico. Piuttosto quest'ultimo è esso stesso formato dal più largo contesto, per esempio, dei valori sociali, delle normative legislative e fiscali e, in modo cruciale, dalle circostanze prevalenti del mercato. Questa complessa interazione è stata riassunta nel concetto di "traiettorie tecnologiche". Questo concetto tenta di identificare i livelli di crescita che caratterizzano modelli di innovazione e di diffusione. C'è una fase iniziale, di vulnerabilita , dove la concorrenza e aspra e dove i fattori casuali esercitano una forte influenza nel determinare la direzione di ulteriore crescita e diffusione. Quindi, una volta raggiunto uno slancio sufficiente, viene stabilita, appunto, una "traiettoria". Questa è capace di esercitare una influenza sempre più grande nel coinvolgere settori con-

nessi, portando a crescenti pressioni per la standardizzazione, e contribuendo a formare i mercati. Attraverso una simile traiettoria, l'evoluzione tecnologica viene guidata tra i modelli irregolari e non prevedibili, delineati dall'innovazione scientifica, e le regolarità, delineate dal comportamento strategico delle aziende, dei governi e dei mercati. Quindi, la nozione di "traiettorie tecnologiche" sottolinea l'importanza di prendere in considerazione il contesto. Il Giappone, per esempio, ha "raggiunto" gli Stati Uniti durante uno specifico periodo della sua industrializzazione, traendo vantaggio dalle opportunità offerte agli ultimi arrivati (in opposizione ai primi che le hanno adottate) all'interno di una particolare traiettoria tecnologica. Questi punti sono stati esemplificati in un certo numero di studi che hanno cercato di comparare Giappone, Stati Uniti ed Europa in termini di innovazione tecnologica e competitività industriale. Per esempio: a) il recente studio del MIT (Made in America, Dertouzos e altri, Cambridge, Mass., 1989) sulla produttività industriale negli USA e nel Giappone ha evidenziato l'importanza delle strutture organizzative e dei comportamenti sociali, che sono indipendenti dai tassi d'investimento, di risparmio e dai costi del capitale. Per capire la performance industriale comparata del Giappone e degli USA, lo studio ha isolato la cultura manageriale delle due nazioni, i loro rispettivi sistemi educativi, la natura del97


le relazioni di lavoro e il rapporto tra governi e aziende come se fossero le quattro principali variabili. Ha anche chiarito che l'alto tasso di risparmio nel Giappone significava bassi tassi d'interesse e più alti livelli d'investimento, particolarmente nei programmi a lungo termine. Un recente studio di Jean Claude Derian (La lotta dell'America per la leadership nella tecnologia, Cambridge, Mass., 1990) ha evidenziato i fattori contestuali che sostengono l'innovazione tecnologica, mettendo a paragone ie nazioni con culture "esposte", dominate da attività commerciale competitiva, con quelle con culture "difese", dove la crescita di imprese ad alta tecnologia viene assicurata dalla protezione che esse hanno attraverso commesse militari e spaziali, monopoli pubblici o un vasto mercato interno. Derian dimostra che, mentre il Giappone è molto competitivo nella cultura "esposta", le capacità dell'Europa e dei suoi assetti sono concentrate nella sua cultura "difesa", dove ha prodotto un certo numero di tecnològie altamente valide. L'Europa è stata, invero, una dei leaders nell'alta tecnologia di punta all'interno di una cultura "difesa"; gli USA, d'altra parte, possono ancora unire i talenti sia della cultura "esposta" sia di quella "difesa Uno studio di Edquist e Jacobsson (Automazione Flessibile, Oxford 1988) ha cercato di determinare i fattori che stanno dietro al modello e alla velocità della diffusione tecnologica prendendo 98

come esempio certi tipi di automazione nell'industria ingegneristica del Giappone, della Svezia, degli Stati Uniti, dell'allora Germania Ovest e del Regno Unito. Essi dimostrano che le differenze nel grado di diffusione sono molto grandi tra queste cinque nazioni. La densità dei robot è, per esempio, 14,5 volte più alta in Giappone che nel Regno Unito, Stati Uniti e Germania Ovest. La Svezia è, in altre parole, la sola vecchia nazione industriale a tenere il passo con il Giappone in relazione alla diffusione dell'automazione nell'industria ingegneristica. Tra le nazioni europee il Regno Unito e, Sorprendentemente, la Germania Ovest sono molto indietro rispetto ai leaders. Questi tre studi suggeriscono molti temi per ulteriori ricerche, non ultimo uno studio comparativo in profondità del modo in cui le intuizioni delle scienze sociali hanno influenzato la performance competitiva, e hanno implicazioni molto importanti per la politica tecnologica. Quindi, è a questa che ora volgeremo la nostra attenzione.

SCIENZE SOCIALI E POLITICA TECNOLOGICA

Interventi del governo possono essere giustificati dal mancato funzionamento del mercato. Tuttavia, riconoscere che il mercato non ha funzionato non dice nulla su come intervenire o se l'intervento sarebbe efficace. Un'analisi delle cause ditale mancato funzionamento e dei probabili effetti dell'intervento è


precondizione importante per la formulazione e la realizzazione di politiche pubbliche. Tali analisi possono indicare quale strumento usare e se l'intervento è appropriato. Nel campo della politica tecnologica, ad esempio, molte nazioni-Stato, e la stessa Comunità, hanno stabilto aree di priorità nella forma di programmi dove la scienza strategica e di base sia fondata su un'attenzione verso l'accelerazione delle applicazioni tecnologiche e della competitività industriale. Tuttavia, studi come quelli riferiti nella Sezione precedente hanno indicato che la crescita economica può essere realizzata e sostenuta senza che ciò comporti, necessariamente, diventare un science leader, anche se con questo non si vuole sottovalutare l'importanza del risultato scientifico. Il significato delle strutture organizzative e dei comportamenti sociali del tasso di risparmio e del costo del capitale e, soprattutto, del comportamento degli affari a livello d'impresa sono importanti almeno allo stesso modo, se non più importanti, ai fini della performance complessiva, dell'eccellenza della scienza di base e dei risultati delle scoperte scientifiche. Ciò che emerge inoltre è l'importanza vitale di essenziali funzioni progettuali a valle: come il design e la verifica, la valutazione del controllo di qualità e i continui sforzi per migliorare la qualità del prodotto. Molti ostacoli all'innovazione sono stati identificati a livello di impresa, evidenziando ancora una volta quanto il successo dell'eyoluzione tec-

nologica dipenda da fattori esterni al contesto della politica scientifica e tecnologica considerata in senso stretto, come si fa tradizionalmente. Molti studi delle scienze sociali sulla politica scientifica e tecnologica si accentrano quindi direttamente sui problemi relativi al miglioramento della competitività. In larga parte essi hanno messo in evidenza le scelte tecnologiche strategiche aperte ai protagonisti principali aziende, governi, istituzioni intergovernative - e i risultati empirici delle scelte fatte. Attenzione crescente e stata portata all'interazione tra risorse umane e risorse tecnologiche. La tecnologia è prodotta e usata dagli uomini. Nella sfera della produzione questo significa che gli uomini devono possedere la giusta combinazione di competenze per sviluppare, produrre, usare e mantenere le tecnologie. Con le crescenti preoccupazioni ambientali, l'innovazione tecnologica si trova di fronte anche la sfida di assicurare il suo contributo a una crescita sostenuta e a lungo termine. Paradossalmente, l'importanza delle capacità e dell'istruzione umane aumenta con l'intensità di capitale. La crescente complessità della produzione fa crescere anche il fabbisogno di competenze per certe categorie di lavoratori. Il rnulti-skilling sta diventando un prerequisito importante in un numero di alte ed anche medie industrie tecnologiche, ed esige l'integrazione di diverse componenti quali l'ingegneria meccanica e quella elettrica. In aggiunta, c'è una cre99


scente consapevolezza che l'introduzione di nuove tecnologie nei posti di lavoro deve essere accompagnata da altri tipi di cambiamenti organizzativi. In altre parole, l'innovazione tecnologica, gli atteggiamenti culturali e l'organizzazione sociale devono essere commensurati all'obiettivo di sostenere la competitività e l'efficenza economica. Ciò è riassunto in nozioni come "cultura tecnologica" o "cultura di impresa". E qui, quindi, che gli interventi politici possono essere decisivi. La letteratura della scienza sociale sul ruolo della scienza e della tecnologia nel rafforzare competitività mette abbondantemente in evidenza che le politiche tecnologiche possono avere tanto più successo quanto più si prendono misure di supporto dirette ad accrescere le "culture tecniche" o le "culture impresa", le quali sono fondate su un largo livello di accettazione pubblica. In Europa, per ragioni che sono legate alla sua storia, cultura e creatività, il futuro sviluppo della scienza e della tecnologia sarà, in modo cruciale, dipendente dagli atteggiamenti pubblici e dall'accettazione pubblica dell'innovazione. E segno della maturità politica dei cittadini europei il fatto che abbiano iniziato a chiedere maggiore partecipazione ai processi decisionali che guidano lafutura direzione della politica tecnologica. Gli iniziali coinvolgimenti di scienziati sociali nei programmi scientifici e tecnologici potrebbero delucidare l'importanza di creare maggiori opportunità per la partecipazione di cittadini e contribuire al100

l'espansione generale della cultura scientifica e tecnica.

VALUTAZIONE TECNOLOGICA

Fino ad ora il campo della valutazione tecnologica in Europa è andato avanti su una base costi-benefici piuttosto stretta, mettendo eccessivamente in evidenza il problema metodologico a discapito dell'apprendimento sociale. Senza dubbio, molto lavoro nel campo della valutazione tecnologia ha avuto un carattere occasionale. Guardando all'Europa nel suo insieme, questo campo sta iniziando soltanto ora ad essere istituzionalizzato e a coinvolgere scienziati naturali, ingegneri e. scienziati sociali. Queste debolezze sono dovute in larga parte ai modi in cui lo studio della valutazione tecnologica è istituzionalizzato. Alcuni, ma certamente non la maggior parte, hanno luogo nelle Università. Poiché la maggior parte dei problemi rifiutano una chiara divisione lungo linee disciplinari, molte discipline scientifiche nell'ambito universitario e molti dipartimenti non sono preparati a sostenere questo tipo di ricerca. Nel mondo accademico, il campo degli studi relativi alla scienza e alla tecnologia è quindi soltanto precariamente istituzionalizzato, poiché mettere insieme le scienze sociali e le scienze naturali e ingegneristiche è ancora considerato troppo radicale per essere tradotto in pratica più estesamente. Quindi, molto


del lavoro di ricerca è condotto fuori dalle Università, qualche volta in gruppi di ricerca privati o da società private di consulenza. Mentre questo tipo di organizzazione ha il suo legittimo posto nelle ricerche e indagini delle scienze sociali, esistono chiari pericoli quando questa ricerca non può attingersi al tipo di lavoro strategico e a lungo termine usualmente intrapreso nel settore universitario. Quindi, dati i limiti dei dipartimenti universitari tradizionali nel condurre ricerche transdisciplinari, sarebbe necessario considerare nuove combinazioni. All'interno della Commissione, il programma MONITOR di analisi, previsioni e valutazioni strategiche, ha sperimentato per primo una linea di approccio. Tuttavia, come gli stessi funzionari responsabili rilevano per primi, MONITOR ha per scopo di identificare nuove direzioni e priorità per la politica di ricerca e di sviluppo tecnologico della Comunità, non è quindi un programma di ricerca di base e strategica. Sono quindi richiesti passi ulteriori, per esempio commissionare ricerche specificamente multidisciplinari e interdisciplinari tra scienziati sociali, scienziati naturali e ingegneri. La situazione è urgente. Come indicato sopra, gli standards educativi relativamente alti dei cittadini europei conducono a richieste di un accesso migliore all'informazione relativa ai rischi potenziali dei nuovi sviluppi scientifici e tecnologici così come dei problemi ambientali. Attualmente è richiesto un

nuovo tipo di valutazione tecnologica che non sia condotta solo da esperti, ma che comporti anche la partecipazione di cittadini interessati e competenti. Queste richieste non hanno una natura temporanea o casuale. Fino ad ora, i responsabili della politica scientifica e tecnologica hanno adottato spesso un atteggiamento difensivo o hanno tentato di ignorare tali domande. Tuttavia, un nuovo approccio sarà necessario, per affrontare il più largo contesto politico e culturale nel quale vanno poste l'accettazione e la comprensione pubblica delle opzioni pubbliche prescelte. In rapporto al Giappone e agli USA, l'Europa ha un'opportunità unica di andare oltre gli attuali sistemi di valutazione tecnologica e promuovere un approccio pionieristico, inserendo i valori e i bisogni sociali nella definizione e progettazione delle politiche tecnologiche. Ciò offrirà anche una stimolante sfida intellettuale; un'impresa veramente• interdisciplinare che attinga alle scienze sociali e naturali in tutta l'Europa.

CONCLUSIONE

Le scienze sociali hanno contribuito alla comprensione dei fattori della competitività industriale, ma c'è bisogno di uno sforzo più rafforzato e sistematico. Le scienze sociali hanno molto da offrire in relazione agli indirizzi scientifici e tecnologici. La Comunità ha un ruolo da giocare 101


nel promuovere e sostenere i contributi delle scienze sociali europee. Se le scienze sociali potessero essere associate ai programmi scientifici e tecnologici fin dal primo stadio, potrebbe seguirne un più costruttivo dibattito pubblico. La situazione riguardo alla valutazione tecnologica è particolarmente urgente poiché occorrono i meccanismi istituzionali efficaci ed europei per inserire le scienze sociali nelle procedure di decision-making. Ritorneremo a questi temi nelle Sezioni 5 e 6. Tuttavia, prima desideriamo considerare altre importanti aree di politica della Comunità, dove le scienze sociali hanno un ruolo importante da giocare e dove la consapevolezza dell'importanza delle scienze sociali appare, invece, alquanto mancante. Il contributo delle scienze sociali va ben al di là dei problemi delle questioni di politica scientifica e tecnologica.

Sezione 4: La mancanza di attenzione della Comunità per la ricerca delle scienze sociali. Nella precedente Sezione abbiamo riassunto il contributo potenziale delle scienze sociali allo studio dell'innovazione tecnologica, della politica tecnologica e della valutazione tecnologica. Abbiamo concluso che la Comunità ha fallito nello sfruttare pienamente le intuizioni e l'informazione offerte dai recenti sviluppi delle scienze sociali e che 102

quindi necessario compiere passi per integrare la ricerca delle scienze sociali in ambito di policy-making a livello europeo. • Queste conclusioni non si applicano soltanto allo specifico caso della politica tecnologica ma hanno un valore generale. C'è una diffusa tendenza nella Comunità ad usare l'esperienza delle scienze sociali soltanto quando sono richiesti studi a breve termine per sviluppare particolari strumenti di indirizzo. La Comunità, quindi, non è completamente ignara delle scienze sociali. Piuttosto, appare ignara di come la ricerca delle scienze sociali possa essere utilizzata più efficacemente e come una capacità di ricerca europea possa essere sostenuta alfine di trarne le competenze, informazioni e conoscenze necessarie. In questa Sezione illustriamo tale tendenza riferendoci a quattro "esempi di lavoro", due dei quali selezionati dagli attuali "mandati" della Comunità (agricoltura e sviluppo regionale) e due da "mandati" in prospettiva (networks transeuropei e sanità pubblica) in discussione alla Conferenza Intergovernamentale sull'unione politica. Un esame complessivo dell'uso delle scienze sociali in tutte le istituzioni della Comunità è chiaramente oltre lo scopo di questo rapporto. Parimenti è possibile soltanto un breve riassunto dei quattro soggetti scelti.


LA POLITICA DELL'AGRICOLTURA COMUNITARIA

È appena il caso di ricordare che la politica dell'agricoltura comunitaria non è soltanto una delle politiche della Comunità messa in opera da più lungo tempo, ma anche la più costosa. I seguenti paragrafi descrivono il ruolo potenziale della ricerca delle scienze sociali nel migliorare la progettazione e l'implementazione della decisione di politiche agricole e rurali nella Comunità europea. L'approccio adottato è di riassumere le attuali linee di politica agricola e rurale nella CE e indicare per ognuna di queste "linee" dove la ricerca delle scienze sociali può provvedere a migliori informazioni per future opzioni politiche. La prima questione concerne il desiderio di portare i prezzi della CE in stretta relazione con i prezzi mondiali a causa del GATT, delle pressioni sul bilancio e delle continue difficoltà che il PAC (Politica Agricola Comunitaria) incontra nel far fronte a un certo numero di altri obiettivi economici. Qui la Comunità è intralciata dalle sue attuali incapacità nel valutare l'impatto delle proposte di riforma del PAC se non in termini nazionali molto generali. Essa è incapace di valutare quali tipi di nuclei familiari agricoli lasceranno la terra, rinunciando completamente al lavoro agricolo, o prendendo impieghi alternativi nelle differenti aree rurali della Comunità. Ciò perché la maggior parte dell'infdrmazione su tali nuclei a livello della

Comunità si riferisce soltanto ad una parte, e spesso una piccola parte, delle loro attività, cioè la produzione agricola e il reddito. Non è possibile, a livello comunitario, rapportare il livello e la natura delle loro attività non agricole al circostante contesto sociale ed economico. Eppure è stato dimostrato che la natura del contesto è molto importante per le decisioni dell'agricoltore. Tali questioni sono quindi vitali per la valutazione degli effetti dei differenti scenari di riforma sui nuclei familiari, la produzione, la disponibilità della terra per la produzione non alimentare (incluse la forestazione, i parchi naturali, ecc.). Le scienze sociali danno un maggior contributo riguardo questa area attraverso le analisi dei processi di decisionmaking degli agricoltori nei differenti contesti economici e sociali, degli effetti di tali decisioni sull'uso della terra, la produzione agricola, gli schemi demografici e la società e l'economia rurale. Una seconda questione è il desiderio di conservare le "aziende familiari", deviando gli aiuti comunitari da grandi a piccole aziende agricole. Qui l'attenzione sui redditi agricoli, piuttosto che sui redditi delle famiglie, continua a portare ad errori e misconoscimenti. Per esempio, la recente "carta di riflessioni" sulla riforma del PAC, dà per scontato che i proprietari di piccole aziende hanno bisogno di essere compensati per le cadute dei prezzi. In realtà ricerche mostrano che, in molti casi, i proprietari di piccole aziende agricole sono gia compensati da uno o piu 103


membri della famiglia che lavorano fuori dall azienda dove cio e possibile. Tali famiglie hanno spesso redditi più alti di quelle che rimangono dipendenti dal lavoro agricolo, sia per scelta o perché non possono accedere al lavoro esterno. La ricerca delle scienze sociali può migliorare le circostanze nelle quali i proprietari di aziende possono venire influenzati dai cambiamenti dei prezzi indotti politicamente in modi che potrebbero indurli ad abbandonare l'attività agricola, e quindi migliorare i targets di politiche che per qualsiasi motivo cercano di mantenere i nuclei familiari agricoli nelle aree rurali. La PAC desidera anche incoraggiare il lavoro agricolo "sensibile" all'ambiente e controllare i danni ambientali causati da sistemi agricoli intensivi. Tuttavia, ciò che còstituisce i "beni ambientali" differisce marcatamente all'interno della Comunità, ed esso è definito culturalmente quanto scientificamente. Anche la loro valutazione, quindi, differisce marcatamente. Tuttavia, gli strumenti di compensazione agli agricoltori per tale produzione "non di mercato" non sono stati studiati affatto, sebbene i diversi atteggiamenti nei confronti di tali misure stanno già conducendo a differenti gradi di comprensione e ad alcune conseguenze involontane. Se tali politiche saranno generalizzate, come sembra probabile, allora le scienze sociali daranno un contributo non soltanto alla complessa questione dell'identificazione e valutazione dei "beni ambientali" nelle differenti re104

gioni della Comunità, ma anche ai fattori determinanti la comprensione nelle differenti circostanze, relativamente all'azienda, alla famiglia e al contesto circostante. La PAC cerca anche di ridurre le disparità regionali e di promuovere lo sviluppo regionale in aree rurali nell'interesse della coesione. Questo parimenti richiede più grande attenzione da dare alla diversa e complessa natura di aree rurali nelle differenti parti della Comunità. Sebbene recentemente si sia iniziato a lavorare per preparare una più dettagliata e comprensiva tipologia, delle aree rurali, è già chiaro che tale lavoro è intralciato dalla mancanza di significativi e comparabili dati economici e sociali e di analisi ad appropriati livelli, ed anche dalla mancanza di criteri che potrebbero essere appropriati per tale tipologia. In conseguenza, i tentativi di predire le tendenze future nelle diverse aree rurali della Comunità sono carichi di difficoltà, e c'è considerevole disaccordo circa l'impatto sull'agricoltura del Mercato Unico, della ristrutturazione nei mercati manifatturieri, dello sviluppo dell'Europa dell'Est, o dei maggiori investimenti nei trasporti e nelle infrastrutture delle telecomunicazioni. Insomma, per la politica agricola c'è bisogno di un'attenzione più grande sulle questioni concernenti il livello comunitario, e per il miglioramento dei mezzi di sostegno e di incoraggiamento di ricerche comparative. Fino a recentemente, i programmi di ricerca del DG xvi, hanno prodotto ricerche essenzial-


mente a livello nazionale, scarsamente rilevanti rispetto ai problemi centrali dell'Europa come un tutto, o alla neces L sità di costruire una coerente ricerca europea su questioni agricole. Più recentemente, offerte per programmi di ricerca probabilmente coinvolgeranno ricercatori di almeno tre Stati membri, e alcuni tentativi sono stati fatti per affinare le aree in cui le ricerche saranno finanziate. Comunque, in pratica, una vera ricerca comparativa con una chiara attenzione su questioni di interesse comunitario rimane l'eccezione piuttosto che la regola.

SVILUPPO REGIONALE DELLA COMUNITÀ

La Commissione Europea ha una lunga tradizione di avvicinamento alla ricerca delle scienze sociali sulle cause e conseguenze dell'ineguale sviluppo regionale. Questo interesse origina dall'importanza del Fondo per lo Sviluppo Regionale Europeo (ERDF) come uno dei maggiori fondi strutturali della Comunità. L'esistenza di questo Fondo si riferisce a problemi politici circa potenziali minacce per la coesione éuropea che potrebbero derivare da alcune estensibili disparità regionali associate con la crescente integrazione economica. Il completamento del Mercato Unico Europeo, i progressi verso l'unione economica e monetaria e lo sviluppo in Europa dell'Est, quando presi insieme, suggeriscono che le questioni delle disparità regionali sono probabilmente

persino più importanti nell'agenda politica di una Comunità impegnata per il «rafforzamento della coesione economica e sociale». C'è ora il riconoscimento che, a causa della crescente gbbalizzazione dell'industria, le cause delle disparità regionali non possono più a lungo essere considerate soltanto a livello nazionale. In dettaglio: la DG XVI, la quale ha la responsabilità dell'amministrazione. del Fondo per lo Sviluppo Regionale Europeo, commissiona molti studi importanti per il Fondo. Tuttavia, essa non ha la responsabilità di sostenere la ricerca comparativa internazionale a lungo termine sulle cause e conseguenze di disparità regionali. Comunque, le priorità della DG XVI si sono progressivamente spostate dal finanziamentodi studi di problemi regionali a livello nazionale richiesti dagli Stati membri alla sponsorizzazione di ricerche che aiutino l'elaborazione di politihe specificatamente nitarie. Più recentemente, sono stati varati studi di alcune delle maggiori quesioni strutturali econòmiche paneuropee; questi includono dinamiche locali dell'industria in Europa, l'impatto regionale dell'agenda 1992 e il futuro delle città in Europa. E stato riconosciuto anche che il processo di gbobalizzazione è affiancato parallelamente da un processo di localizzazione nel quale le condizioni particolari delle differenti aree (es. specializzazioni, infrastrutture fisiche e istituzionali) hanno un peso importante sulla performance di aziende e sull'intera economia europea. La 105


nuova enfasi riflette anche una crescente comprensione che le disparità regionali europee, possano essere composte da un irregolare impatto di politiche europee, che non hanno avuto un'attenzione regionale specifica, ivi inclusa la politica scientifica e tecnologica. Tuttavia, questa emergente agenda politica non è ancora stata affiancata da nuove risorse per sostenere ricerche su questioni caratteristicamente europee e transnazionali. Il sostegno per le scienze sociali di base, sulle quali possono essere costruite ricerche applicate e orientate verso il policy-making, è rimasto a livello nazionale. Ci sono reti di studiosi aiutati dalla Fondazione Europea della Scienza, come l'attuale programma sulla Ristrutturazione Urbana e Regionale in Europa (RURE), ma non sono disponibili congrui finanziamenti per la creazione di nuove conoscenze a livello europeo. Gli studi di politica regionale europea della DG xvi sono stati completati in breve tempo (usualmente circa diciotto mesi) ed essenzialmente contando su dati già disponibili e su conoscenze messe insieme da gruppi di accademici e consulenti dei diversi Paesi. Un ulteriore problema concerne la struttura politica istituzionale in cui gli studi di politica regionale sono attualmente impegnati. Il ERDF è la maggiore fonte di finanziamenti per gli Stati membri, e la Commissione è inevitabilmente sotto pressione per finanziare studi che giustificheranno priorità già determinate in singoli Paesi o nel Consiglio dei Ministri. In altre parole, la riILir'1

cerca risponde più ai bisogni a breve periodo dei politici che non a quelli di un'agenda per il futuro. Inoltre, nella sua struttura interna, la Commissione riproduce abbastanza naturalmente strutture dipartimentali di governo nazionale (es. le questioni del mercato del lavoro nella DG v, scienza e tecnologia nella DG xii), mentre il problema regionale è essenzialmente multiforme. Ma, come i governi nazionali, la Commissione non può ancora attingere ad un bacino di ricerca indipendente e possibilmente critica sulle disparità regionali. A livello nazionale ci sono molti esempi di ricerca sociale le cui conclusioni possono migliorare i processi decisionali. Nel Regno Unito, ad esempio, gli studi del ruolo del cambiamento tecnologico nello sviluppo regionale hanno concluso che molte delle barriere alla riuscita adozione di nuove tecnologie sono economiche, sociali e culturali, piuttosto che tecniche. Quindi queste barriere non sono fisse, ma altamente contingenti a condizioni attuali. E necessaria, quindi, per influenzare queste condizioni, una dimensione regionale di ricerca e di politica tecnologica, così come è necessaria una dimensione di ricerca e di politica tecnologica per la politica regionale. L'argomento è sul terreno dell'efficienza e dell'equità: assicurare l'ampia diffusione di nuove tecnologie ed economie di scala, e prevenire crescenti disparità regionali dovute a irregolare adozione e accesso. Recenti ricerche italiane sono andate più lontano


nell'indicare che i fallimenti della politica regionale non sono, come l'opinione corrente è portata a ritenere, il risultato di ragioni strutturali (instabilità economica) o istituzionali (la mancanza di un governo dell'economia unitario o gerarchico), ma il risultato d'un uso acritico di ipotesi correnti da parte dei policy-makers. Quindi, non soltanto necessario per altre politiche - quali la politica te.cnplogica e la competizione politica - avere una dimensione regionale, ma sono necessari anche nuovi modelli analiticamente più forti di sviluppo regionale che prendano in considerazione i meccanismi di mercato, l'interdipendenza fra i soggetti e il ruolo di istituzioni sociali private, quali le associazioni industriali e il settore del volontariato. Tradizionali rapporti con le politiche delle autorità pubbliche, locali e nazionali, sono così soltanto una parte, e neanche la più importante, di un modello forte per la comprensione dello sviluppo regionale. Concludendo, nonostante una lunga storia di studi a breve termine su questioni regionali e l'indubbia importanza di tali questioni per lo sviluppo della Comunità, non c'è nessun ente con la responsabilità dello sviluppo di una necessaria rete europea di centri per le scienze sociali con specializzazioni geografiche e sostanziali. •

POLITICHE DEI TRASPORTI DELLA COMUNITÀ

La Conferenza intergovernativa sta discutendo la proposta di estendere dei "mandati" per permettere alla Comunità di contribuire alla creazione e allo sviluppo di reti di trasporto transeuropei. Tradizionalmente, la politica dei trasporti negli Stati membri è stata fortemente dominata dai punti di vista ingegneristici sull'uso e lo sviluppo dei trasporti; ma in anni recenti, punti di vista orientati dalle scienze sociali hanno iniziato a partecipare alla discussione sull'andamento e l'infrastruttura dei trasporti e su come la politica dei traporti si trovi di fronte, in modo crescente, al dilemma tra potenziale economico/tecnologico e vincoli ambientali/sociali. La politica dei trasporti, quindi, non richiede soltanto soluzioni ingegneristiche, ma deve essere disegnata e implementata tenendo ben presenti fattori sociali ed economici. In anni recenti, nei singoli Paesi europei che hanno fatto fronte in modo crescente ai fattori esterni negativi del settore dei trasporti, la ricerca delle scienze sociali è stata di importanza critica per la formulazione di questioni che avevano bisogno di essere affrontate nelle analisi politiche. L"indesiderabile" esito di una società altamente mobile è - quasi paradossalmente - il risultato di azioni razionali e plausibili di un gran numero di individui. La ricerca delle scienze sociali ha dimostrato che la mancata considerazione dei costi sociali in singole prese di decisione non 107


può che condurre a un macrorisultato che è lontano dall'essere ottimale. Ciò spiega il deterioramento nella qualità della vita in molte della maggiori città europee. La serie di azioni politiche che può essere considerata nel settore dei trasporti è vasta. Una sfida maggiore sarà nel formulare piani che ingiobino in modo convincente strategie con risultati diversi da zero, con guadagno di tutte ie parti in causa. Risultati valutabili da progetti di ricerche nazionali potrebbero essere utilmente messi insieme e studiati prima della formulazione di tali piani. Per esempio, scienziati sociali in vari Paesi europei stanno studiando il principio dell'user charge. Esso ha avuto un maggior successo in quei Paesi dove fornitori e utenti delle infrastrutture dei trasporti erano tutti beneficiari di vantaggi (per es. i fornitori dal ricevere maggiori entrate dalle cure delle strade, e gli utenti dall'aumento della velocità negli spostamenti). Questa ricerca ha avuto un significativo impatto sulla direzione della politica dei trasporti in alcuni Paesi - ne sono testimonianza gli attuali piani nei Paesi Bassi, in Scandinavia, e nel Regno Unito per l'introduzione di autostrade e binari ferroviari. Un altro esempio concerne la maggiore efficacia dei sistemi di trasporto dovuta alla riduzione di un largo numero di regole protezionistiche per specifici soggetti. La ricerca sui principi di deregulation (per es. in Grecia, Germania e Regno Unito) ha avuto un importante effetto sul pensiero poli. 108

tico e sociale riguardo al ruolo del governo nella politica dei trasporti. La politica europea dei trasporti è diversificata e non, diverrà uniforme e su base europea di propria volontà. Inoltre l'implementazione di politiche nei settore dei trasporti non è, in primo luogo, una semplice applicazione di strumenti, ma richiede una precisa sintonia fra scopi, misure e accettazione sociale. La politica dei trasporti europea potrebbe essere più efficiente, se il suo contesto sociale e politico venisse considerato prima, piuttosto che dopo la formulazione di politiche strategiche. Le strategie dei trasporti richiedono una politica creativa e ricerca sociale, integrate a studi ingegneristici di nuove tecnologie dei trasporti. A questo riguardo fa piacere notare che recentemente altri enti internazionali, quali lo IEcD, hanno mostrato un accresciuto interesse nella ricerca delle scienze sociali nel campo dei trasporti. Ugualmente, il recente rapporto Missing Networ/es Europe pubblicato dalla Tavola Rotonda Europea degli Industriali ha incluso i risultati del contratto di ricerca sottoscritto dal ESF, la Rete per le Comunicazioni Europee e la Ricerca per le Attività Trasporti (NECTAR). Le questioni dei trasporti, e il loro diretto rapporto con la competitività industriale e la politica energetica e am-, bientale richiedono, quindi, un uso più integrato dell'esperienza tecnologica e ingegneristica e della ricerca delle scienze sociali nell'elaborazione del processo.di policy-making europeo.


LA SANITÀ

Il costo della sanità nei Paesi della Comunità Europea, rappresenta il 5-10 per cento del prodotto interno lordo. E un settore nel quale c'è un interesse sociale e politico considerevole, che in parte spiega l'ampio coinvolgimento del governo in molti Paesi. L'armonizzazione di sistemi sociali e politici nella Comunità concerne anche la sanità, che insieme con il possibile nuovo "mandato" per la Comunità di aiutare ad assicurare «un più alto livello della salute umana», suggerisce che potrebbe esserci un'agenda di ricerca europea, così come una nazionale. I Paesi possono anche imparare uno dall'altro comparando gli aspetti dei sistemi sanitari. Almeno due Paesi della Comunità, il Regno Unito e la Germani, stanno attualmente riformando i loro sistemi sanitari. Poiché è spesso difficile intraprendere esperimenti prima di tali cambiamenti, le esperienze di altri possono essere informative. Ciò è tanto più vero proprio in questo caso poiché gli aspetti medici della cura prevedono e potrebbero includere aspetti strettamente correlati alla ricerca delle scienze sociali, tali come i sistemi di finanziamento e di conduzione dei servizi sanitari e le interazioni tra gli utenti dei servizi e gli operatori professionali nei differenti sistemi. L'agenda delle questioni per la ricerca delle scienze sociali riguardo i servizi sanitari è descritta nella figura n.2. In primo luogo si può vedere (A) che la

cura della salute è soltanto uno dei fattori che possono influenzare potenzialmente la salute e che è importante comprendere e configurare altri fattori, quali l'educazione, l'impiego, lo status socio economico e il reddito. Gli effetti di questi fattori sulla salute ricoprono un interesse maggiore per la ricerca delle scienze sociali. Questa può anche contribuire grandemente alla nostra comprensione del concetto di salute, al di là del modello medico. Per esempio, economisti, psicologi, sociologi e statisti hanno sviluppato gli indici e i profili dello stato di salute. Alcune misure sono state sviluppate come parte di un tentativo europeo, per esaminare se le differenze culturali conducono a differenti atteggiamenti verso la salute. I riquadri C, D, E, F, sono principalmente di stretta competenza degli economisti, sebbene la discussione sulla richiesta di cura della salute (C) dovrebbe chiaramente coinvolgere sociologi che hanno esaminato la natura del rapporto dottore-paziente. In aggiunta, nel valutare i singoli trattamenti di cura (E) gli economisti e altri ricercatori di servizi per la salute dovrebbero lavorare strettamente con clinici e epidemiologi. Ci sono molti esempi ditali studi nazionali negli Stati membri della Comunità. La ricerca su questi soggetti sarebbe complementare alle attuali attività di ricerca sulla salute coordinate dal Quarto Programma di Ricerca sulla Salute (1987-9 1) dal C0MAC-HSR. Sebbene condotto sotto gli auspici della "ricerca medica", il più recente programma 109


A COSA INFLUENZA LA SALUTE? (OLTRE ALLA CURA DELLA SALUTE)

9 COS'È LA SALUTE? QUAL È IL SUO VALORE?

Rischi occupazionali: Modelli di consumo: Istruzione: Reddito: ecc.

Attributi della Salute: Indici dello stato di salute: valore della vita: Scala di utilità della salute:

ci VALUTAZIONE MICRO-ECONOMICA A LIVELLO DI TRATTAMENTO Efficacia dei costi e analisi costo-beneficio di vie alternative per l'assistenza sanitaria (per es. scelta del modo, del luogo, del tempo e del costo) in tutte le fasi (indagine, diagnosi, trattamento, convalescenza, ecc).

F

DOMANDA DI ASSISTENZA Influenze di A + B sul comportamento del richiedente assistenza sanitaria; barriere all'accesso (prezzo, tempo, psicologiche, formali); rapporto con gli intermediari; bisogno.

FORNITURA DI ASSISTENZA Costi di produzione; tecniche' alternative di produzione; sostituzione di input; mercati per gli input (manodopera, attrezzatura, medicine, ecc.) metodi di rimunerazione e incentivi

1G

EQUILIBRIO DI MERCATO Costi monetari, costi di tempo, liste d'attesa e sistemi razionalizzanti senza costi come meccanismi equilibrati e loro effetti differenziali

i

PLANNING, BILANCIO PREVENTIVO MECCANISMI DI MONITORAGGIO

VALUTAZIONE A LIVELLO DI SISTEMA GLOBALE

Valutazione dell'efficacia degli strumenti a disposizione per l'ottimizzazione del sistema; incluse le correlazioni tra bilancio preventivo, allocazione della manodopera, norme, regolamenti, ecc. e le strutture incentivanti che essi generano

Criteri di equità e di efficienza allocativa porta a sostenersi su D + F; comparazioni di performance interregionali e internazionali

Figura 2: Presentazione schematica di alcune questioni riguardanti le scienze sociali nel campo della salute.


coin.volge ricerche di discipline di mento, potrebbero essere cambiate le scienze sociali. Tre punti possono esse- remunerazioni dei medici o i sistemi di re messi in rilievo per la formazione di rimborso ospedalieri? più alte priorità da dare alla ricerca del- Come agiscono i differenti sistemi di le scienze sociali sui servizi sanitari: a) organizzazione di servizi sanitari sulla distribuzione degli stessi, sul rapporto il fatto che il COMAC-HSRha anche intrapreso progetti in quest'area, come dottore/paziente e la qualità della cura? parte del programma di ricerca medica, Come saranno formate dalla società e , indica che c e gia qualche riconosci- quale impatto su di essa avranno le mento del valore dei servizi sociali per nuove possibilità di tecnologie riprola Comunità Europea; b) i risultati dei duttive? progetti fino ad oggi sono stati rilevanti Come possono le organizzazioni fare il per le decisioni politiche in campo sani- miglior uso di nuove informazioni e di tario così come per i laboratori ovvero tecnologie della comunicazione per mii normali utenti della ricerca medica; c) gliorare i provvedimenti sanitari? l'azione concertata nell'approccio al fi- Tali questioni richiedono l'input di una nanziamento della bio-medicina e dei o più discipline delle scienze sociali così programmi sanitari richiede un preesi- come quelle, quali la medicina, più trastente sforzo di ricerca nazionale. Ov- dizionalmente associate con la ricerca viamente non può essere dato per scon- sui servizi sanitari. Un nuovo "mandatato che i programmi nazionali prenda- to" per la sanità richiede un ulteriore no in considerazione il vantaggio per la investimento e un nuovo orientamento degli studi delle scienze sociali sulla saformazione di programmi europei. All'interno di quest'ampia agenda ci so- nità. no molte specifiche opzioni politiche che sono affrontate attraverso la ricerca delle scienze sociali, che sono poten- CoNcLusioNi zialmente valide per lo sviluppo della Questi quattro esempi tratti da problepolitica comunitaria. Per esempio: come può la politica fisca- mi agricoli, regionali, dei trasporti e le essere usata per promuovere la salu- della sanità evidenziano un numero di te? (specialmente date le iniziative per temi comuni inerenti al ruolo reale e una "approssimata" tassazione indiret- potenziale della ricerca delle scienze sociali sostenute dalla Commissione: ta, con il Mercato Unico). Quali sarebbero le conseguenze, per La Commissione finanzia un considerel'efficenza e l'equità, dell'incoraggiare vole numero di ricerche delle scienze forze competitive all'interno del siste- sociali, la maggior parte delle quali sono legate a esigenze politiche e di breve ma sanitario? Per incrementare l'efficenza del tratta- periodo. '

.'

111


Gli aiuti a queste ricerche, tuttavia, sono frammentari e non coordinati. Come risultato, la Comunità non beneficia della ricerca delle scienze sociali come potrebbe - e dovrebbe - in relazione alla propria agenda politica. La Comunità fa poco per garantire e accrescere una base di ricerca delle scienze sociali a livello europeo, dalla cui capacità essa dipende per ottenere ricerca di alta qualità. La Comunità fa poco o nulla per rimediare allo sviluppo ineguale delle scienze sociali in Europa. Una conseguenza di ciò è che di alcuni Paesi si conosce molto meno che di altri, spesso a detrimento della qualità del decision-making. Nella Sezione che segue analizzeremo in dettaglio queste lacune.

Sezione 5: Le barriere ad un 'effettiva mobilitazione delle scienze sociali nella Comunita Nelle precedenti Sezioni, abbiamo dato un sommario dei vantaggi potenziali della ricerca delle scienze sociali per la comprensione di questioni correntemente di fronte alla Comunità, e per le prospettive date dalla ricerca comparativa sulla scienza e la tecnologia. Data l'estensione e l'importanza di questi vantaggi, la domanda da porsi : perché la Comunità non mobilizza in modo più effettivo le risorse delle scienze sociali? Ovviamente ci sono ragioni interne alla CEE che non sono oggetto di questo studio. A nostro parere, i fattori 112

esterni imputabili ad alcune di queste barriere, sono: l'ancora dominante attenzione riservata dalla ricerca delle scienze sociali allo Stato-nazione, a detrimento della dimensione europea; l'attuale divario tra la qualità della maggior parte dei dati nazionali e ciò che è disponibile su scala europea; la debolezza dei legami tra istituzioni di ricerca; il bisogno di promuovere e sviluppare le risorse umane; la correzione della falsa immagine delle scienze sociali.

LA PRIMA BARRIERA: L'ANCORA PREDOMINANTE ORIENTAMENTO DELLA RICERCA DELLE SCIENZE SOCIALI VERSO LO STATO-NAZIONE E LA SCARSA ATTENZIONE PER L'EUROPA Almeno dalla seconda guerra mondiale, i governi nazionali hanno accettato una responsabilità nel perseguire politiche nazionali per: il pieno impiego, la crescita degli standards di vita, il sostegno ai poveri, provvedimenti per la cura della salute e l'educazione, ecc. In parte, essi hanno dato seguito alle conquiste teoriche delle precedenti generazioni di scienziati sociali. Nel realizzare queste politiche, hanno creato una domanda di scienziati sociali professionisti per il lavoro nel governo nazionale, di informazione pertinente, specialmente dati (es. contabilità del reddito nazionale), e di una capacità nazionale di ricerca delle scienze sociali per l'ela-


borazione di politiche a breve e lungo periodo. La maggior parte delle ricerche delle scienze sociali, attualmente, opera all'interno del contesto nazionale e provvede a validi input all'interno di dibattiti di policy-nzaking a livello nazionale. Tuttavia, gli ultimi due decenni hanno visto l'emergenza di una dimensione sovranazionale di policy-making di cui la Comunità Europea è l'esempio guida nel mondo. Sfortunatamente, questo fare politica sopra-nazionale non è stato accompagnato da un aumento e riorientamento delle risorse delle scienze sociali. Lavoro utile e di alta qualità è stato prodotto dal OECD, dalla Banca Mondiale, e, naturalmente, dalla Comunità stessa, ma a parte poche eccezioni, questo è stato possibile soltanto attingendo a scienze sociali preesistenti, finanziate (e orientate) a livello nazionale. La Comunità ha ora raggiunto un livello del suo syiluppo in cui ciò non è più sufficiente. Nel contesto della Comunità Europea ciò significa in particolare:

sono stati richiesti generalmente attraverso contratti di breve durata con limitati orizzonti di tempo e scarsa coordinazione complessiva. I governi nazionali, al contrario, spesso hanno avuto accesso a programmi di ricerca pianificati con cura per far fronte a bisogni di medio e lungo termine.

Raccogliere i frutti dell'esperienza europea Un noto sociologo spagnolo ha recentemente richiamato l'attenzione sul modo in cui gli studi dell'esperienza del suo Paese permettono una maggiore comprensione di più ampie questioni chiave, ivi inclusi: la transizione dai regimi autoritari alla democrazia; i problemi delle società multilinguistiche e multinazionali; il cambiamento di sistemi di valore tra generazioni; e la transizione dalle società agrarie a quelle industriali in un periodo breve. Se questo è vero nel caso di un singolo Paese membro, si pensi alle opportunità per studi comparativi di problemi essenziali per il futuro dell'Europa. E stato detto che l'Europa rappresenta per le scienze sociali il miglior "laboratoa) Rafforzare gli "studi" Come abbiamo visto (Sezione 4), le di- rio" del mondo per la comprensione rezioni generali della Commissione dei cambiamenti sociali ed economici. hanno attinto all'esperienza e ai risulta- Ciò oggi è rafforzato dai processi di ti raggiunti dai programmi e dai centri transizione che hanno luogo tra l'ecodi ricerca nazionali. Tuttavia, quasi nomia dell'Ovest ed Est europei, le losempre, ciò riguarda soltanto lo stadio ro istituzioni politiche e le loro società di sviluppo di strumenti di policy, non civili. ci sono stati tentativi sistematici di serAffrontare la barriera della lingua, vizi delle scienze sociali ad altri livelli di discussione. I consigli degli esperti della cultura e della tradizione 113


Queste riguardano sia le scienze sociali europee, così come la società europea. Nei primi decenni dopo la guerra 1" importazione" delle scienze sociali americane tese a dominare la maggior parte dei campi delle scienze sociali in Europa. In quel periodo, gli scienziati sociali europei divennero spesso familiari con la ricerca dei loro colleghi americani piuttosto che con quella dei loro colleghi degli altri Paesi europei. Le barriere linguistiche giocavano in ciò un ruolo importante, naturalmente, e continuano ad averlo (in termini di lavoro accademico e di pubblicazioni commerciali). Ma oggi, abbiamo iniziato a beneficiare dei frutti del lavoro svolto nei Paesi europei e della sua integrazione con il dialogo internazionale sui più importanti campi di ricerca. Una parte sostanziale di questa eredità delle scienze sociali nei vari Paesi europei rimane, tuttavia, nascosta. Ma essa ha un grande potenziale a livello europeo e dovrebbe essere coordinata e utilizzata nell'azione della Comunità.

forzano, non creano, il bisogno di scienze sociali orientate in senso europeo.

LA SECONDA BARRIERA: L'ATTUALE DIVARIO TRA LA QUALITÀ DELLA MAGGIOR PARTE DEI DATI NAZIONALI E CIÒ CHE È DISPONIBILE SU SCALA EUROPEA

Gli esempi dell'agricoltura e dello sviluppo regionale, discussi nella Sezione 4, illustrano un importante punto generale: i vantaggi delle scienze sociali per la Comunità sono limitati dalla mancanza di dati delle scienze sociali in una forma idonea. A livello nazionale, l'Europa è ricca di dati. Nella maggior parte dei Paesi vi è un sistema consolidato di istituti di ricerca di mercato e di opinioni, uffici statistici, istituti accademici di ricerca sociale e - in diversa misura a seconda dei casi - di infrastrutture di servizio di dati delle scienze sociali. In più, la Pubblica Amministrazione contribuisce alla propria banca dati con un enorme numero di dati amministrativi. d) Riconoscere che le scienze sociali non Malgrado questa grande quantità di dapossono pii a lungo essere lasciate agli ti, la ricerca con prospettive europee è Stati nazionali per il principio di sussi- seriamente handicappata: i dati di base diari età europei non sono ben integrati; la riCi sono già importanti mandati della cerca su larga scala praticamente non è Comunità (es. sulla ricerca scientifica e coordinata, gli strumenti di misuraziotecnologica, sull'agricoltura, sul com- ne e i dati non sono compatibili, l'acmercio internazionale) che necessitano cesso ai dati e le norme di protezione di accedere alla ricerca delle scienze sodei dati differiscono, e persino l'inforciali europee. La prospettiva di nuovi mazione circa la disponibilità di dati mandati della Comunità sull'educazio- non è sempre facile da ottenere. In brene, la sanità e le reti transeuropee rinve, il criterio per un'efficente organiz114


zazione di dati di base è stato definito finora in una prospettiva nazionale, e, perfino all'interno delle nazioni, la gestione dei dati è scarsamente coordinata. Cionondimeno, la ricerca sociale ha iniziato a trarre profitto da un numero di iniziative che mettono l'accento su una prospettiva europea. Queste includono sforzi da parte degli archivi di dati diretti a integrare le banche dati di base europee, con raccomandazioni per l'armonizzazione della protezione di dati, progetti europei per analisi secondarie (es. il programma ESF «Opinioni nel Governo») e programmi di raccolta dati come 1'EUROBAROMETERES e l'International Social Survey Programme (Issp). La priorità deve essere data alla gestione del controllo delle risorse di dati a livello europeo. Inoltre è necessario stabilire banche dati adeguate sui problemi più urgenti che occuperanno coloro che prendono le decisioni e i cittadini. Investire nei dati di base, nel loro mantenimento e arricchimento, è la conditio sine qua non per portare avanti una valida ricerca empirica. Ciò non può essere lasciato interamente agli Stati nazionali. Se la Comunità Europea si evolve come una complessa organizzazione sovranazionale, essa deve avere a sua disposizione tutti i dati necessari che si riferiscano ad essa come a una tale entità. Ciò comporta anche un lavoro concettuale di sfoltimento delle banche dati esistenti e il costruirne di nuove, l'armonizzazione di dati e una migliore comparabilità in più di un senso. L'effettivo controllo dei dati è di vitale

importanza j3er il policy-making a livello europeo. Le nostre raccomandazioni in merito si trovano nella Sezione 6.

LA TERZA BARRIERA: LA DEBOLEZZA DEI LEGAMI ISTITUZIONALI

La Comunità ha bisogno di essere cosciente delle debolezze e delle forze intrinseche alla natura dello sviluppo delle scienze sociali in Europa. Generalmente parlando, la tradizionale alta qualità del lavoro individuale non è stata accompagnata da un alto livello di organizzazione. Ciò riflette il fatto che la ricerca delle scienze sociali della Comunità è molto più dispersa di quella delle scienze naturali e che il suo sviluppo è proceduto in maniera ineguale. Nei Paesi europei è facile trovare scienziati sociali che lavorano in isolamento nei dipartimenti universitari, non meno di quanto non sia facile trovarne nei gruppi di ricerca nei centri e istituti. Naturalmente, esistono molte associazioni raggruppate attorno a specifiche discipline che sono organizzate a livello nazionale per controbilanciare questo isolamento. E senza dubbio, abbiamo potuto constatare con piacere, una crescita delle associazioni professionali a livello europeo, iniziando dal Consorzio Europeo per la Ricerca Politica (EcPR) - un'associazione pionieristica con i suoi comitati di ricerca e programmi di ricerca comparativa -, che altre discipline stanno iniziando a imitare. Nonòstante questi importanti sviluppi, il 115


punto essenziale è che la mancanza di organizzazione della ricerca delle scienze sociali è più pronunciata a livello europeo che a quello nazionale. Le scienze naturali sono più avanzate nella loro istituzionalizzazione a livello europeo, non ultimo a causa del fatto che la Gomunità ha incoraggiato ciò per mezzo di propri programmi di ricerca e sviluppo.

LA QUARTA BARRIERA: LA NECESSITÀ DI PROMUOVERE E SVILUPPARE LE RISORSE UMANE

Se fosse "soltanto" necessario dare maggiore attenzione alle preoccupazioni europee, fornire migliori dati e più forti istituzioni, la realizzazione da parte della Comunità dei vantaggi delle scienze sociali sarebbe ragionevolmente semplice, anche se non facile. Tuttavia, c'è un ulteriore problema a causa dei limiti dello sviluppo di capitale umano: profilo demografico: negli anni Sessanta, diversi Paesi europei hanno avuto un boom nel reclutamento di ricercatori nelle scienze sociali, seguito da vent'anni di vincoli della spesa pubblica e da poca espansione. Immissioni in ruolo/contratti a breve termine: sarebbe stato possibile superare il profilo delineato in a) se fosse stato possibile fare posto a nuovi entrati. Ma troppo spesso le posizioni dei ricercatori senior erano, di fatto, permanenti. Quindi le prospettive di avanzamento di carriera per i nuovi arrivati 116

erano molto ridotte o confinate a successivi contratti a breve periodo, e ciò inibiva seriamente il loro sviluppo professionale. In questo modo, sono stati sprecati talenti considerevoli. Opportunità ineguali: da una prospettiva europea sarebbe stato possibile controbilanciare i problemi a) e b), se quei Paesi che non avevano partecipato al primo boom (es. i Paesi, allora, con regimi non democratici) fossero stati poi capaci di offrire ai giovani ricercatori l'opportunità di sviluppare le loro qualità. Tuttavia, i vincoli economici, in passato, e la mancanza di un'adeguata formazione hanno impedito a questi Paesi di sviluppare opportunità di carriera nelle ricerche. Questi fattoii hanno portato all'emigrazione negli USA di alcuni fra i migliori scienziati sociali europei (fu questa una delle ragioni per l'inizio del Programma di Promozione per le Scienze Economiche della Comunità SPES) e alla deficienza nello sviluppo di capacità professionali in grado di sfruttare le opportunità offerte da nuove tecnologie e nuove aree interdisciplinari. La posizione del capitale umano delle scienze sociali è tale che un rinnovato impegno deve essere selettivo per quanto riguarda la richiesta e positivo nel promuovere l'offerta.

LA QUINTA BARRIERA: CORREZIONE DELLA FALSA IMMAGINE DELLE SCIENZE SOCIALI

Alcuni policy-makers hanno una falsa


immagine delle scienze sociali: queste sono viste come non scientifiche, inclini a dispute ideologiche e mancanti di rigore. Cerchiamo di discutere ciascuna di queste percezioni e la realtà ad esse sottesa. Le scienze sociali sono scientifiche nel senso che, come le altre scienze, offrono spiegazioni e previsioni di fenomeni, basate su una razionale, logica e sistematica considerazione dei fatti. Ci sono, però, differenze tra le scienze sociali e le opinioni popolari sulle scienze naturali. Le scienze sociali non procedono per tentativi per scoprire leggi fisse, immutabili: gli uomini non interagiscono fra loro con la regolarità di un prodotto chimico in una provetta; la casualità non è deterministica, ciò che è già accaduto non prefigura ciò che accadrà; e le azioni hanno significati che spesso vanno oltre le stesse azioni. Le scienze sociali sono, quindi, necessariamente interpretative. Le differenze tra le scienze sociali e le reali (piuttosto che popolari) percezioni delle scienze naturali stanno diminuendo. Nuove emergenti e stimolanti aree delle scienze naturali, come la modellistica non lineare, la fisica non computazionale e la teoria del caos pongono limitazioni al metodo sperimentale per le scienze naturali simili a quelli delle scienze sociali. Il riduzionismo scientifico è sempre più contestato; le analisi di larga scala, sistemi complessi e dinamici divengono sempre più attuali. Questo tipo di sviluppo implica che le scienze sociali necessitano non di essere

artificialmente separate, ma di un dialogo (multidisciplinarità) e legami di lavoro (interdisciplinarità) tra scienziati sociali, e scienziati naturali. L'esame di questioni diverse: dalla sanità all'agricoltura, suggeriscono che questo tipo di interfaccia non solo è possibile ma anche altamente auspicabile. Le scienze sociali condividono inoltre con le scienze naturali un dibattito tra i differenti approcci. Tuttavia, mentre il dibattito delle scienze naturali è spesso polarizzato tra un "paradigma" maggioritario e pochi dissidenti, i differenti approcci nelle scienze sociali comportano più eguaglianza, sia nel numero che nella qualità della elaborazione intellettuale. Le scienze sociali non portano alla chiusura del dibattito: i riscontri obiettivi sono difficili se non impossibili, i risultati sono spesso condizionati dal contesto (e ciò deve essere ricordato quando le scienze sociali sono collegate alla politica). La competizione tra i differenti approcci, in realtà rafforza lo sviluppo delle scienze sociali dando, al tempo stesso, l'impressione ai profani di contraddizione piuttosto che di discussione. Le scienze sociali progrediscono attraverso questo vigoroso dibattito: un consenso generalizzato all'interno delle scienze sociali non sarebbe segno di vitalità ma di cattiva salute. Il rigore delle scienze sociali è migliorato enormemente negli ultimi venti anni, grazie, in parte, all'avvento dell'informazione e tecnologie di comunicazione (IcT). Dall'uso di queste è possibile raccogliere collegare, analizzare e dif117


fondere informazioni sui cambiamenti della società, cosa che non sarebbe stata possibile venti anni fa. Adesso abbiamo la possibilità di sentire il polso del cambiamento in Europa. Tuttavia, per gli scienziati sociali la disponibilità delle informazioni e delle tecnologie di comunicazione e la formazione sul loro uso, varia considerevolmente all'interno dell'Europa, con gravi conseguenze per lo stato delle nostre conoscenze di alcune società. Infine, un'accusa spesso rivolta alle scienze sociali è quella di essere arroganti, di produrre soluzioni a problemi sulla base di alcuni modelli di "ingegneria sociale". Tuttavia, come abbiamo visto, le scienze sociali NON offrono soluzioni ai policy-makers nel modo in cui le scienze naturali contribuiscono alla tecnologia ingegneristica. Senza dubbio, il credere alla possibilità di una ingegneria sociale è stato uno dei fattori che negli anni Settanta ha portato una cattiva fama alle scienze sociali. Le scienze sociali offrono una migliore informazione, compre.nsione (e migliori opzioni),da cui il policy-maker può trarre decisioni migliori. Ma ciò non significa che le scienze sociali formano soltanto i policy-makers. Esse possono anche aiutare a creare un'Europa che non sia conosciuta soltanto da un 'autorità centrale, ma anche da gruppi sociali e di interesse e, non in ultimo, dai singoli cittadini europei. Le moderne e piì qualificate scienze sociali europee verificano le ipotesi contro tutte le prove disponibili; esse hanno prontamente colto le opportunità offerte 118

dai progressi nell'informazione e nelle tecnologie della comunicazione; possono dare rilevanti contributi a molte importanti questioni europee e hanno già accantonato le pretese di ingegneria sociale. Tuttavia, la pratica delle scienze sociali va sviluppata in tutta l'Europa, al pii alto livello qualitativo.

CONCLUSIONI

Abbiamo visto nelle precedenti Sezioni che la Comunità non beneficia come essa dovrebbe della ricerca delle scienze sociali. Queste le ragioni identificate dalla presente Sezione: ci sono barriere significative a una maggiore effettiva scienza sociale europea; ma sono superabili; e la Comunità nella posizione di affrontarle.

Sezione 6: Una via verso ilfuturo POLICY-MAKING

Abbiamo notato che ci sono molti studi di scienze sociali commissionati da Direzioni generali per assistere l'implementazione di politiche. E possibile argomentare che nel contesto di processi decisionali sovranazionali, in un significativo numero di aree, sia degli attuali che dei potenziali mandati della Comunità, occorre trasformare questi studi nel genere di programmi di ricerca politica a medio termine, tipici della maggior parte dei governi degli Stati mem-


bri nazionali. Problemi di politica europea richiedono ricerche europee. A lungo termine, gli scambi di personale tra le Direzioni generali e la comunità dei ricercatori condurranno a più efficaci mezzi di trasferimento di conoscenze delle scienze sociali. Pur rappresentando un passo avanti rispetto a studi di breve periodo, i programmi di ricerca delle Direzioni generali cionondimeno continueranno ad attingere a programmi di ricerca di base e strategica finanziata a livello nazionale. Per queste ricerche è necessario sviluppare un'azione comunitaria.

LA RICERCA DI BASE E STRATEGICA: CONTENUTO

A questo livello, c'è una necessità di azioni su due fronti. Prima di tutto, la ricerca sociale dovrebbe essere integrata con i programmi di ricerca «delle scienze esatte e naturali». Mentre «la valutazione dell'impatto sociale e/o economico» è adesso richiesta in tutte le parti del terzo Framework, ciò potrebbe essere interpretato, rispettivamente, come un'esigenza per una valutazione tecnologica "tradizionale". Ci sono buone ragioni per perseguire una integrazione più a monte delle scienze sociali alle "questioni delle scienze esatte" (vedere la Sezione 3). Questo tipo di interdisciplinarità tra le scienze sociali e naturali è molto difficile a crearsi, ma immensamente ricca di potenziali vantaggi. Va riconosciuto

che la Comunità ha fatto alcuni limitati passi, per esempio con i programmi ESPRIT e Bio-Medicina, che implicano la partecipazione attiva di alcuni scienziati sociali. La Comunità ha aggiunto un sottoprogramma di «Ricerca su Aspetti Economici e Sociali delle Questioni Ambientali>' all'interno del nuovo Programma Ambiente, e ha aumentato la presenza delle scienze sociali nei nuovi programmi di Telematica e di Bio-Medicina. Sosteniamo che in futuro tutti i programmi di ricerca della Comunità debbano considerare i vantaggi delle scienze sociali come "aiuto alla scienza". Come minimo la valutazione tecnologica dovrebbe essere integrata in tutti i programmi, ma spesso sarà opportuno fare molto di più. Tuttavia, il ruolo della Comunità nel promuovere competitività non dovrebbe implicare che soltanto le scienze sociali pertinenti alla politica scientifica e tecnologica necessitino di essere promosse. Ci sono molte altre questioni rilevanti in cui le scienze sociali possono offrire importanti intuizioni. Quindi, per la prima volta la Comunità ha bisogno di adottare nelle scienze sociali un programma separato ma coordinato di ricerca di base e strategica. Mentre non è specifico compito di questo rapporto dare dettagliati consigli su un futuro programma delle scienze sociali, anche se saremmo lieti di farlo se richiesti, sottolineiamo che il ricorso alle competenze delle scienze sociali, nell'affrontare questioni di importanza per l'Europa del XXI secolo, beneficierebbe gran119


demente la Commissione. Uno studio comparativo delle fonti della competitività dovrebbe essere affrontato. A titolo di esempio, sottolineiamo tre altre aree altrettanto importanti: Le questioni della competitività industriale europea sono direttamente e indirettamente legate alle questioni della coesione sociale. L'opportunità per le scienze sociali è di chiarire questi processi offrendo informazioni e analisi su basi sistematiche che saranno utilizzate dalla prossima generazione di decision-rna/eers della Comunità.

IL MIXING DELLE POPOLAZIONI

Una questione si riferisce al mescolarsi delle popolazioni e di gruppi di differenti backgrounds nazionali, etnici, rurali e urbani. E facile prevedere che l'Europa continuerà a subire importanti movimenti migratori, sia all'interno della Comunità che, in misura anche maggiore, attraverso onde migratorie provenienti dall'Est e dal Sud. Sebbene probabilmente l'Europa non diverrà quel crogiuolo di razze caratteristico degli USA, però essa sperimenterà, per la prima volta, alcuni dei problemi che gli USA hanno affrontato per l'immigrazione di differenti gruppi etnici, spesso con basse qualificazioni di lavoro. Ciò solleva la questione di come i sistemi economici ed educativi saranno capaci di affrontare le nuove diversità. Al fine del mantenimento e dell'ulteriore espansione di standards educativi 120

relativamente alti - ivi inclusi quelli raggiunti nella formazione professionale, che hanno rappresentato un ovvio contributo alla produttività economica - dovranno essere prese misure intensificate e in parte innovative. Esse toccano anche altri, affini, problemi di integrazione, che nascono da una più grande varietà di bac/egrounds etnici e dal mixing di popolazioni, quali l'apprendimento della lingua e i'uso della lingua, la crescita del regionalismo come risposta per preservare o ottenere nuove identità per far fronte alla perdita di tradizionali identità nazionali, e così via. Negli USA, una risposta alla diversità di backgrounds etnici, all'interno del sistema educativo, è consistita nel mettere maggiore enfasi sulle tecnologie educative. La crescita relativa di forza lavoro non qualificato nell'economia viene identificata come uno dei fattori del declino della competitività industriale degli USA ed, inoltre, ha condotto negli anni recenti a una crescita marcata delle ineguaglianze sociali. Per prevenire simili problemi, i policy-makers europei, se dovranno prendere misure adeguate, avranno bisogno di risultati di ricerca rigorosi da parte degli scienziati sociali europei.

IDENTITÀ EUROPEE

Il processo di integrazione verso una più alta e completa forma di organizzazione sociale, come quella che si verificherà aprendo, il Mercato Unito, va


molto al di là dei processi economici di ristrutturazione. Tuttavia, l'identità sociale non può essere considerata come un genere di lusso ed essere concessa soltanto in certe occasioni rituali che necessitano di un senso di coesione sociale. Essa è al cuore della formazione di gruppi sociali. Poiché essa comporta non soltanto livelli di comportamento e di attitudini aperti alla valutazione razionale, ma tocca anche i più profondi livelli emozionali di lealtà e di appartenenza, potrebbe essere trascurata da coloro che desiderano trattare soltanto con la solida realtà delle materie economiche. Ma, se lasciata fuori, essa probabilmente esploderà in forme di grossa conflittualità, minacciando quella coesione sociale sulla quale deve necessariamente fondarsi un'Europa industrialmente competitiva.

IL CAMBIAMENTO DELLA FAMIGLIA EUROPEA E LE IMPLICAZIONI PER L'EUROPA. Un'altra serie di questioni direttamente rilevanti per il futuro della competitività industriale europea e per la coesione sociale emerge da un'altra istituzione sociale che sta subendo considerevoli cambiamenti, in direzione di una più grande diversità e molteplicità di forme. I modelli di famiglia tradizionali si sono erosi drasticamente negli ultimi decenni, ed oggi la famiglia "normale" statisticamente chiaramente una minoranza. Fattori demografici, come l'invecchiamento della popolazione in

Europa, contribuiscono all'aumento d i nuclei familiari di singie già in misura notevole in alcune città europee. Ciò ha implicazioni per l'uso dell'energia e del territorio, i modelli di trasporto e il mercato della casa. Nuovi modelli di impiego e di consumo si intrecciano con la formazione di nuclei familiari e i cambiamenti nella composizione di nuclei. A causa dei rapidi cambiamenti nelle strutture della famiglia oggi le nostre conoscenze empiriche sono inferiori a quelle di un decennio fa. E anche giusto dire che i politici, e non soltanto quelli in contatto con la politica sociale, hanno una immagine superata della "famiglia" e faticano a comprendere la portata degli attuali cambiamenti. Ciò che gli esempi delineati hanno in comune. sono gli effetti sinergici che legano insieme questi processi, decisioni e prospettive che si occupano dell'apparente nocciolo duro dell economia e delle precondizioni e conseguenze trovate nel tessuto cosiddetto "morbido" della società. Se gli effetti sinergici non sono percepiti e controllati propriamente, probabilmente si verificheranno conflitti e serie ostruzioni. Mentre l'importanza di questi temi di ricerca europei e indubbia, dobbiamo dire chiaramente che la dimensione del programma che noi prevediamo è relativamente modesta. Ciò a causa della necessità di tener conto del problema delle risorse per la ricerca. E evidente che un livello d'impegno modesto sottolineerebbe la necessità di meccanismi 121


che assicurino che il sostegno vada a ricerche di alta qualità.

LA RICERCA DI BASE E LA RICERCA STRATEGICA: RISORSE DELLA RICERCA Come abbiamo visto nella Sezione 5, in un certo senso l'Europa è ricca di dati, mentre la ricerca con prospettive europee è seriamente handicappata. Produrre i dati necessari designati appositamente a tal fine, piuttosto che costruirli ex post, si rivelerà essere la strategia più economica e affidabile per future ricerche. Queste banche dati integrate non potranno essere realizzate né con decreto di un'autorità né dagli sforzi esclusivi di singoli ricercatori. Dato l'alto grado di divisione del lavoro, gli interventi con il minimo sforzo otterranno probabilmente il massimo effetto se mirati a: a) Armonizzare e promuovere standards per strumenti di misurazione, rappresentazione di dati e documentazione La ricerca sull'Europa implica la comparazione di una serie di dati nazione per nazione. Ma studi incrociati, comparati, non saranno più le sole unità logiche per l'indagine sociale. I contesti sociali ed economici diverranno sempre più importanti per le comparazioni fra nazioni e regioni d'Europa, in molti casi indipendenti dagli Stati-nazione. La combinazione e la messa in comune di dati beneficierà significativamente da una coordinazione a priori, una stan122

dardizzazione e armonizzazione a cominciare dalla fase di raccolta dati. Coordinare gli esperimenti per uffici statistici, istituti di ricerca, ricercatori singoli, archivi di dati e di enti finanziatori di ricerche faciliterà enormemente la ricerca sociale su scala europea. Mentre gli istituti di ricerca di mercato sotto la copertura dell'ESOMAR hanno iniziato a coordinare il loro lavoro, dai codici di condotta ad accordi sperimentali sugli standards demografici, manca l'armonizzazione degli uffici statistici, malgrado gli sforzi di coordinamento di EUROSTAT. In alcuni Paesi, sforzi promettenti sono diretti a standardizzare le variabili demografiche tra gli uffici statistici e la ricerca accademica. Precedenti tentativi di costruire serie temporali da dati già esistenti, mostrano che le variabili attitudinali sono raramente misurate in una forma direttamente comparabile. Spesso questo accade anche quando le serie di dati sono generate da uno stesso istituto e in periodi diversi. Questa òvvia mancanza di standardizzazione non fa divenire cumulativa la ricerca sociale. Dovrebbe essere data maggior enfasi a indicatori di ricerca sensibili a specifiche culturali e alla equivalenza funzionale di indicatori. Ciò porterebbe a una maggiore coerenza nell'uso di variabili identiche per la misurazione degli stessi fenomeni nel tempo e nei diversi Paesi. A causa della mancanza di standardizzazione, le banche dati devono essere armonizzate per arricchire la ricerca in Europa. Questo è un compito concettualmente, tecno-


logicamente e metodologicamente molto arduo. Poiché le strutture contemporanee della ricerca sociale sono finalizzate ai bisogni nazionali, queste sfide aggiunte possono essere difficilmente affrontate con le risorse disponibili.

standardizzazione per la catalogazione di dati - possibilmente con la creazione di un Numero Internazionale di Serie di Dati (CID5Ns) - dovrebbero essere portati più avanti. Le descrizioni negli studi, inclusi gli abstracts dei contenuti, l'informazione sul bac/eground b) Incoraggiare l'accesso e l'uso di reti di metodologico e tecnologico per i riistituti europei di servizio dati spettivi archivi, necessitano di essere inNei tre decenni passati, la maggior partegrati nell'Euroguida ai Dati di Ricerte delle comunità di ricerca europee ca Sociale usando la moderna tecnolohanno creato un archivio nazionale di gia delle comunicazioni per l'accesso e dati delle scienze sociali. L'accesso a dala distribuzione. ti stranieri è facilitato dalla cooperazio- I progetti di ricerca europei basati su ne internazionale fra archivi. Il CESSDA, analisi secondarie, se condotti in stretta il Comitato degli Archivi Europei dei cooperazione con gli archivi, possono Dati delle Scienze Sociali e l'IFDO, la Fe- attivare il potenziale di ricerca esistente derazione Internazionale delle Orga- ad adattare i servizi ai bisogni della nizzazioni di Dati per le Scienze Socia- clientela europea. li, furono fondati negli' anni Settanta per sostenere la cooperazione fra gli ar- c) Fornire supporto per. laricerca collachivi e lo scambio internazionale di da- borativa e il lavoro di archivio in reti ti. Mentre fino ad oggi gli archivi han- (networks) attivate sulla base di progetti no concentrato i loro sforzi sullo svi- La creazione di banche dati, comparatiluppo delle loro risorse nazionali e su ve e unificate è stata maggiormente posaccordi per la creazione di procedure sibile nel passato, quando era guidata ordinarie per lo scambio dei dati, ades- da un interesse sostanziale. Studiosi di so stanno lavorando per integrare le diversi Paesi interessati alla ricerca coobanche dati europee. Al di là dell'acqui- perativa hanno unito i loro sforzi a tale sizione e dell'archiviazione dei dati, de- fine. Come mostrano gli esempi di rivono verificare, documentare e pubbli- cerca elettorale non è sufficiente avere cizzare i dati. L'accessibilità e l'uso dei ben documentate raccolte nazionali dei dati saranno accresciuti dalla messa a maggiori studi sulle elezioni. Occorre disposizione di una serie di strumenti e la familiarità con specifici eventi storici procedure integrate che colleghino la nazionali al fine di documentare la coricerca di dati e la loro analisi statistica. noscenza necessaria per la giusta interVersioni prototipo di questi strumenti pretazione dei risultati. Idealmente, per sono state sviluppate. Costruendo sul- evitare lo spreco di già scarse risorse, la l'esperienza disponibile, gli sforzi di gestione dei dati e le attività di docu123


Adesso si stanno attuando mezzi per il miglioramento dello sviluppo di ambienti informatizzati e dello sviluppo di reti informatiche nazionali per la ricerca sociale (es. il SONAT). Un'integrata Rete Europea per le Scienze Sociali (EUSONAT) potrebbe significativamente promuovere le condizioni per l'integrazione e l'accesso a una banca dati europea. Ciò potrebbe essere un importante obiettivo per il sostegno della Commisd) Rafforzare le infrastrzature per la ri- sione alle scienze sociali, tale da offrire un servizio permanente. cerca sociale La ricerca delle scienze sociali è normalmente condotta da individui in piccoli gruppi, che raramente superano le INCENTIVAZIONE PER I FINANZIAMENTI ALLE 5-10 persone. In più, i contratti di lavo- RETI ro per i membri dello staff sono spesso limitati a quatto O Otto anni. Queste re- Abbiamo sottolineato che le competenstrizioni difficilmente permettono di ze delle scienze sociali sono molto più concentrare e preservare l'esperienza disperse di quelle delle scienze naturali. richiesta per la ricerca comparativa al- Necessitano risorse perÒ migliorare la l'interno di un singolo istituto. I pro- circolazione del capitale intellettuale in getti di ricerca complessa, quando sono Europa tra ricercatori (sia quelli che complessi (es. grandi studi di gruppo e fanno parte di gruppi in centri di ricerulteriori diversificazioni nell'uso della ca che ricercatori individuali nei dipartecnologia), rendono impossibile man- timenti universitari) e per assisterli neltenere alti standards in tutti i campi. la messa in comune delle loro compeQuesta situazione può essere migliorata tenze, nella collaborazione su questioni se i gruppi di ricerca potessero avvalersi europee. Le reti della Fondazione Eudi consulenze esterne di istituti di ropea della Scienza hanno promosso un scienze sociali, quando ciò si renda ne- eccellente meccanismo per raggiungere cessario per particolari attività del pro- ciò, e particolarmente per introdurre cesso di ricerca. La cooperazione tra giovani ricercatori e incoraggiare una gruppi di ricerca in vari Paesi e tra gli prospettiva europea nel loro lavoro. istituti può beneficiare molto da stru- Per quelle ricerche che affrontano menti di comunicazioni di gruppo. obiettivi della Comunità, il meccaniQuesti sono essenzialmente già dispo- smo della rete può facilitare la ricerca nibili sulle attuali reti di .computers. collaborativa su temi maturi per essere

mentazione dovrebbero essere coordinate con gli archivi fin dall'inizio dei progetti di ricerca. Le imprese collaborative di questo tipo aiuteranno a rifornire la matrice dei dati, elemento per elemento. La cooperazione internazionale di gruppi di ricerca dispersi geograficamente può essere efficacemente sostenuta dalla moderna tecnologia dei computers e delle telecomunicazioni.

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incoraggiati a livello europeo, e rafforzarne coesione attraverso l'aumento della mobilità per i ricercatori e la loro attività in gruppi multinazionali per uno scopo comune. I vantaggi del finanziamento di reti sono già stati ampiamente dimostrati, nel senso che le costose duplicazioni tra gli sforzi di ricerca dei Paesi vengono così evitati. Attraverso i contatti presi. e lo scambio fecondo di idee tra le discipline, i ricercatori genereranno molte promettenti nuove idee per ulteriori collaborazioni multilaterali di ricerca, sia all'interno che fuori del contesto della Comunità. Si raccomanda che il supporto per le reti nelle scienze sociali sia immediatamente incluso nelle misure adottate con l'articolo 6 (Capitale Umano e Mobilità) dell'attuale (Terzo) Programma Quadro (Framework Programme) e in alcune continuazioni di questo articolo nel Quarto Programma. Questo dovrebbe provvedere per un numero di scienziati sociali più ampio di quello messo insieme da SPE5, previsto per il Secondo Programma. Il finanziamento delle reti, naturalmente, comporta principalmente un sostegno per la mobilità - generalmente costi dei viaggi e del mantenimento non per i salari. Mentre l'accresciuta mobilità è certamente essenziale per il superamento del problema della natura dispersiva delle comunità di ricerca delle scienze sociali, e per massimizzare il loro contributo e l'efficacia della ricerca, rimangono bisogni reali che vanno affrontati in termini di ricerca finanzia-

ria e di capitale umano, se vogliamo beneficiare di tutti i potenziali vantaggi della ricerca delle scienze sociali nel contesto della Comunità.

IL CAPITALE UMANO: BORSE DI STUDIO, CONFERENZE DI FORMAZIONE E DI RICERCA

Il "Capitale Umano e la Mobilità", elemento dell'attuale Programma Quadro e del Quarto Programma, dovrebbe includere anche borse nelle scienze sociali, dirette a stimolare la ricerca comparativa relativa al policy-making europeo. Questi borsisti (di durata biennale o triennale) dovrebbero idealmente lavorare in ambienti interdisciplinari interessati ai bisogni, attuali e in prospettiva, della politica della Comunità e in Stati membri diversi dai Paesi d'origine. Potrebbero essere previste due tipi di borse: a) per ricercatori con meno esperienza all'inizio delle loro carriere e b) per studiosi già affermati che desiderino sviluppare i loro interessi in un particolare campo della politica europea nelle loro proprie discipline. La prima categoria di borse aiuterebbe il processo di nuovo personale di ricerca formato in una prospettiva europea, e la seconda categoria dovrebbe rispondere al bisogno di incoraggiare l'ulteriore integrazione di approcci europei (comparativi) nei quadri di ricerca delle scienze sociali. La disponibilità di borse di ricerca per reti, quali quelle gestite dalla Fondazione Europea della Scienza, potrebbe offrire importanti legami

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tra le due forme di sviluppo di capitale umano. Il valore e l'efficacia dei programmi e delle borse della Comunità nelle scienze sociali dovrebbe essere massimizzata dal lancio di attività complementari di ricerca, quali corsi estivi e conferenze di ricerca. I corsi estivi dovrebbero occuparsi esenzialmente di dati e di questioni metodologiche. Ad esempio, potrebbero accentrare l'attenzione sullo sviluppo di capacità di gestione dei dati europei, tali come l'accesso alle banche dati esistenti e lo sviluppo di analisi secondarie, e/o incoraggiare i legami teoretici e concettuali tra le discipline (particolarmente nel dialogo con le scienze naturali) e quindi lo sviluppo di una maggiore capacità interdisciplinare. Le conferenze di ricerca offrirebbero un forum europeo nel quale giovani ricercatori informalmente presentino le loro ricerche in corso, e discutano il loro lavoro e nuove idee con un gruppo di studiosi affermati. La scelta dei temi, naturalmente,, dovrebbe cadere all'interno del contesto del futuro sviluppo della politica europea, e i partecipanti potrebbero includere anche dei professionisti e policy-makers della sfera pubblica e privata. Infine, e questo è importante, i corsi estivi e le conferenze di ricerca dovrebbero avere una dimensione veramente internazionale con alcuni qualificati ricercatori non europei, in modo da ottenere una più ampia gamma di conoscenze scientifiche e una più ampia diffusione. Queste attività dirette a sviluppare "ca126

pitale umano" devono essere viste Come componenti essenziali della costruzione di una capacità di ricerca in Europa, che affronti le questioni e le preoccupazioni dei prossimi decenni.

LA CREAZIONE DI ISTITUZIONI

nostro giudizio non è necessario creare nuove istituzioni per l'implementazione di questi indirizzi per il futuro. Per esempio, le singole Direzioni Generali della Commissione hanno già sistemi per condurre studi a breve periodo. Questi devono essere sviluppati per produrre programmi di ricerca di policy di medio termine. E necessario che siano prese disposizioni per il coordinamento tra le Direzioni. Bisogna sviluppare l'integrazione tra il policy-making a livello di Direzione e la Comunità delle Scienze Sociali Europee. In alcune aree ciò è già parte del lavoro svolto dalla Fondazione Europea per le Condizioni di Vita e di Lavoro, potrebbe essere esteso, reso più esplicito e più largamente conosciuto. Le attività della Fondazione Europea della Scienza hanno recentemente attratto la crescente partecipazione dello staff della Commissione, ma anche qui si potrebbe fare di più. In modo simile, riconosciamo che la Commissione manca di esperienza di gestione delle ricerche di base e strategiche delle scienze sociali nelle Direzioni generali interessate. In tali circostanze, la Commissione beneficierebbe dell'esperienza e del consiglio di

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altri enti. Nel prendere in considerazione una piena integrazione delle scienze sociali in tutti i programmi multidisciplinari, sarebbero assai appropriati i consigli degli organismi nazionali di finanziamento della ricerca che hanno una esperienza considerevole di tali questioni. Per la definizione del programma di scienze sociali, dovrebbe essere sollecitato il parere di associazioni professionali europee, e non nazionali. Per la selezione delle proposte, potrebbero essere stabiliti dei gruppi di esperti delle scienze sociali, secondo le linee adottate dal Comitato per l'Economia del CODEST; o, ancora, si potrebbe attingere all'esperienza unica della Fondazione Europea della Scienza nel commissionare programmi che rispondano agli standarcis richiesti di eccellenza scientifica. Mentre tutte queste attività implicano il cercare all'esterno della Commissione, sarebbe necessario anche costruire una capacità interna di ricevere e coordinare questi input. Ci sono stati dibattiti sulla necessità per nuove istituzioni a livello europeo indirizzanti problemi di policy,, ad es. istituzioni europee sul modello della Brookings Institution degli Stati Uniti e del National Bureau of Economic Research. Dal nostro punto di vista, l'enfasi dovrebbe essere posta sul creare un migliore legame e cooperazione tra le istituzioni esistenti, inclusi i dipartimenti universitari, gli istituti e i centri di ricerca. Cambiare gli strumenti, in modo da incoraggiare una maggiore cooperazione e legame tra le discipline e i confini na-

zionali, è probabilmente di maggior aiuto che non nuove istituzioni. Questi strumenti potrebbero includere, per esempio, nuove procedure di contratto che potrebbero includere incentivi per la collaborazione interdisciplinare tra dipartimenti di scienze naturali e di scienze sociali, e quindi incoraggiare l'aumento di approcci integrati a temi prioritari.

CONCLUSIONI

Riconosciamo che non è possibile creare istantaneamente programmi della Comunità che comprendano le scienze sociali, che devono essere comparative e interdisciplinari. Per la cooperazione e i finanziamenti a livello europeo, devono essere costruite alcune basi fondamentali. Alcuni elementi essenziali di queste fondamenta esistono già, grazie al lavoro di altri enti: la Fondazione Europea della Scienza, le associazioni professionali, i Consigli di ricerca nazionali.e le accademie e i loro accordi a doppio e multiplo livello, fondazioni private, autorità pubbliche e organizzazioni commerciali. La Commissione dovrebbe costruire su queste istituzioni prendendo sue iniziative nel campo delle scienze sociali, come essa ha fatto nel suo precedente sviluppo di programmi per le scienze natùrali e la ricerca tecnologica. Noi crediamo che questa opportunità esista e che la Comunità Europea delle Scienze Sociali sia pronta a rispondere alla sfida. 127


I passi che stiamo proponendo sono prati- qualità di scienze sociali e riconquistare ci ed efficaci dal punto di vista dei costi. la preminenza dell'Europa in un 'impresa La Commissione, ora, dovrebbe cogliere intellettuale centrale alla sua storia cultul'opportunità di migliorare la sua capaci- rale e al suo futuro destino. (Traduzione di Saveria Addotta) tà decisionale, promuovere la più alta

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Taccuino



I nostri temi Gentile e il francobollo di Umberto Serafini

È stato proposto da alcuni parlamentari e da alcuni uomini di cultùra di emettere un francobollo in onore di Giovanni Gentile, personaggio di grande rilievo nella storia recente dell'Italia politica e culturale. La proposta ha trovato risposte favorevoli e contrarie dagli ambienti più diversi: queste risposte sono forse più interessanti della proposta, perché risultano un sintomo della moralità corrente e per il giudizio storico di una larga parte della cosiddetta classe dirigente. Sono ormai diverse notti che, quando mi sveglio, non riesco più a prendere sonno: è la storia del francobollo che mi tormenta. Dico il francobollo per Giovanni Gentile. Per? Non ho capito bene: sarebbe in onore di Gentile, figura esemplare, o in memoria di Gentile, personaggio che ha comunque occupato uno spazio rilevante della storia recente d'Italia? Credo piuttosto per il primo motivo, poiché altrimenti dovremmo pensare, anche prima che a lui, a tanti altri personaggi; che so? naturalmente a Mussolini, e poi a Badoglio, a Vittorio Emanuele III, a Primo Carnera, eccetera. Nell'ultima insonnia mi sono orientato a scartare un giudizio astratto, a priori: è senza dubbio meglio riandare alla mia personale esperienza in merito - e ai sentimenti provati via via sul momento -, lasciando ad altri di

cavarne un giudizio per l'oggi; insomma un verdetto etico-filatelico. Correva l'anno 1935 ed eravamo nel mese di luglio: io stavo dando gli esami di maturità classica al "Tasso" di Roma, e la commissione esterna, mi ricordo, era presieduta dallo storico Pontieri, dell'Università di Napoli: Per la composizione italiana scelsi stranamente quella che mi era meno congeniale, l'analisi "estetica" di una poesia di D'Annunzio: ma ero di cattivo umore, l'addio al liceo mi sembrava l'addio alla giovinezza ed io avevo fretta di sfogarmi con una inequivoca conclusione. D'Annunzio mi dava fastidio, lo analizzai frettolosamente; smaniavo di sparare, alla fine, così: «Oggi viviamo in tempi di tirannide, ci batteremo per un avvenire migliore)). I professori, fascisti o no, erano gente perbene, personalmente venni ignorato, e il fatto che il 9 in italiano con cui ero stato ammesso agli esami diventasse un 7 era indubbiamente dovuto alla mediocrità del mio pezzo. Ma ci fu un codicillo semi-privato: il professore di greco, Silvio Ferri (che poi diventò professore di archeologia all'Università di Pisa), mi fermò per un corridoio del "Tasso", con un troppo stentoreo «ecco il nostro antifascista» (lo dovetti ammonire sorridendo, perché c'era a due passi il poliziotto di Vittorio e Bruno Mussolini, un simpaticone che senza dubbio sapeva come la pensavo: ma non gli si poteva 131


sbattere così in faccia): Ferri mi rivelò che c'era a Pisa una Scuola Normale Superiore, dove si entrava con un difficile concorso, e che a suo avviso andava utilmente movimentata da giovanotti con la lingua lunga. Fu in tal modo che cominciai a pensare all'avventura normalista, spintovi in tutt'altro senso, qualche giorno dopo, anche dal professore di filosofia, certamente non antifascista: forse lui pensava a incrementare l'innocua, se non ambigua, fronda dei seguaci pisani di Bottai - definito più tardi, a torto, fascista critico -. Vinto il concorso per la Normale, giurai a me stesso che dovevo studiare, studiare a fondo, per combattere alle sue radici culturali il fascismo. Lascio da parte il mio impegno in campo storico (il mio primo "colloquio" alla Normale - si teneva a metà anno - fu in sostanza contro Spengler e l'idea di nazione come monade senza finestre, con un suo chiuso destino organico) e vengo alla filosofia. Guido Calogero svolgeva un corso sulla Teoria generale dello Spirito come atto puro di Gentile, il quale insegnava a Roma, ma era il direttore a Pisa della Normale: mi proposi, con la baldanza non priva di presunzione frequente in gioventù, di individuare le ragioni teoriche dell'errore pratico (fascismo) di Giovanni Gentile. Il Gentile storico e saggista politico lo evitai per lungo tempo programmaticamente: sentivo di dissentire dalle sue impostazioni, io che venivo dall'insegnamento liceale dell'inflessibile socialista riformista Aldo Ferrari (il docente che mi aveva fatto conoscere il materialismo storico e mi aveva indotto, dopo il commento alla Pace perpetua di Kant, a sposare la causa del federalismo e a prendere posizione, già al liceo, contro la guerra e il nazionalismo), ma volevo affrontare senza pregiudiziali le famose "ragioni teoriche". Mi dedicai, dunque, per mesi alla riflessione sulla riforma gentiliana della dialettica hege132

liana, con la distinzione tra pensiero pensato e pensiero pensante. In questi giorni di polemica sul francobollo, non ha interamente torto Gennaro Sasso quando afferma che "l'attualismo gentiliano" ha un aspetto libertario. In effetti è un Gentile neo-hegeliano, che mostra per altro una interessante sintonia con la filosofia anti-intellettualistica francese ispirata dall'Action di Bionde!; e offre una affascinante via d'uscita all'implacabile determinismo positivista. Ne fui colpito anch'io, che venivo da una posizione prevalentemente empirista. Ma, accanto alla speranza di liberazione dal determinismo, si profilava il problema tutt'altro che semplice del soggetto dell'attualismo. Non pretendo di costringere lettori estranei alla tecnica di certe costruzioni filosofiche a seguire il campo, ove l'attuaiismo sembrava chiedere un chiarimento fondamentale: mi basti dire come qui l'idealismo attualistico imboccava, a mio avviso (e non certo solo ad avviso di questo giovane allievo), la strada pericolosa di un soggetto assai vago, che non si sapeva a chi facesse capo, ai singolo uomo-cittadino o alla Storia, impersonata dallo Stato etico. C'era - come cominciai a sostenere allora e più sostenni dopo una riflessione, l'anno dopo, sulla gentiliana Filosofia dell'arte un rapporto equivoco tra io trascendentale (un soggetto, diciamo così, astratto) e io empirico (l'io degli uomini realmente esistenti): per gli addetti ai lavori ricorderò che una critica dei genere fu rivolta una ventina di anni dopo, ne! 1957, dai filosofo di mestiere, tra gli allievi migliori di Banfi, Giulio Preti, nel libro Praxis ed empirismo. Insomma per dirla con le parole di un pubblicista non filosofo di mestiere, ma intelligente e spregiudicato, l'ordinovista Umberto Calosso, in quel bellissimo libro - pubblicato l'anno dell'assassinio di Matteotti - che lessi fra il 1936 e il '37, L'anarchia di Vittorio Alfie-


ri - nel quale ironizzava affettuosamente col suo amico Gobetti, sedotto dall"atto" gentiliano -, la libertà dell'attualismo era priva di soggetto responsabile e ci ricordava le famose vacche, che di notte risultano tutte grigie. Mi era necessario (chiedo scusa) ricordare succintamente tutto questo, per spiegare la mia eroica decisione di abbandonare la Normale e correre a Roma, ove Gentile aveva la cattedra di filosofia teoretica, e chiedergli già al terzo anno di Lettere e filosofia una tesi di laurea sul "problema dell'esperienza", confidando (figuriamoci!) di metterlo alle strette sulla questione delle libertà e quindi delle responsabilità individuali, di fronte allo Stato etico (e quindi.., al fascismo). E qui avvenne la prima avvisaglia sul mio dissenso, non più solo teorico, dalla stessa moralità di Gentile: oserei dire con mia grande sorpresa. Certamente io mi esprimevo con una certa parsimonia o timidezza sul mio problema, ma credo che fosse comprensibile per il docente il mio piccolo dramma psicologico, l'abbandono della Normale - con tutti i danni conseguenti T pur di andare a fondo in quel che mi angustiava nel profondo dello spirito. Gentile mi ascoltò a lungo, pazientemente e sorridendo: poi sembrò scuotersi e, quasi ammiccando, mi lanciò: «Dimmi la verità, tu hai perso il posto alla Normale?»; Dio mio, un'esigenza dello spirito e un desiderio di coerenza non potevano mai giustificare per Gentile l'incredibile messa in crisi della propria carriera e del proprio avvenire: più che sdegnarmi ebbi un tuffo al cuore. Non desistetti comunque dall'impresa e iniziai l'improbo tallonamento di Gentile, cercando di affrontare anche tutto il terreno di cultura dell'attualismo (ricordo che mi dedicai, per cominciare, allo studio sul "pragmatismo nella filosofia contemporanea" di Ugo Spirito). Era ormai l'anno accademico 1937-1938. Vi-

sto che non potevo sottrarmi a un Gentile intensivo, frequentavo regolarmente le sue lezioni di teoretica nell'aula prima di Lettere della Città, universitaria, molto ampia e sempre affollata. Le lezioni non avevano un grande interesse scientifico, sembravano i quaresimali di un padre domenicano: per questo piacevano a molti - mi dicevo - senza vera stoffa filosofica. Ma a un certo punto si ebbe una svolta. Era nell'aria la possibilità di una campagna razzista da parte del Regime, ma con avversioni o incertezze che filtravano anche da parte di ambienti fascisti e di personalità di "provata fede": Gentile scattò e per settimane, dall'alto della sua cattedra e con severità che non ammetteva repliche, tuonò contro una campagna razzista, anzi contro lo stesso razzismo, irridendo a una falsa filosofia "biologica" che attentava alle fondamenta di uno Stato etico, quello cioè che si cercava di realizzare. Si vedeva che Gentile giuocava tutto se stesso; che delineava dei confini oltre i quali un regime, al quale egli potesse dare il suo consenso e partecipare, non poteva più essere tollerato. Era un grido di battaglia che, pur nel perdurare del mio dissenso teorico sul rapporto fra io trascendentale e io empirico, mi dava un indubbio conforto: il Maestro era lì, ad assicurarci la barriera morale che avrebbe posto e difeso, qualora ci si volesse prostituire al nazismo. Terminò l'anno accademico e andai d'estate, come d'abitudine, al mare diSanta Marinella, ove campavo di lezioni private: quell'estate ne davo, fra gli altri, a due ragazzini ebrei, fratello e sorella. Nel mese di settembre come la folgore vennero i decreti di Bottai, Ministro dell'Educazione nazionale, (il "fascista critico" di Giordano Bruno Gueri!), che introducevano il "razzismo" nella scuola. Io rimasi annichilito, incapace come mi sentivo di intervenire subito uccidendo il tiranno; la ma133


dre dei due bambini ebrei esprimeva, prima ancora dell'angoscia, lo sdegno: la loro era una famiglia "risorgimentale", che aveva un nonno garibaldino, che aveva difeso nel 1849 la Repubblica romana di Mazzini, e uno zio repubblicano interventista, mutilato in seguito alla "grande guerra" combattuta per "completare il Risorgimento italiano". Comunqùe ora - pensavo io - ci sarebbe stato lo scontro all'interno dello stesso fascismo e certamente Gentile, il filosofo dello Stato etico, sarebbe statò in prima fila, con le responsabilità pratiche che l'attualismo giudicava inscindibili dal pensiero. Filosofare «non è pura speculazione, ma anche azione», aveva scritto Gentile tanti anni prima recensendo Laberthonnière: quel Laberthonnière che recentemente egli mi aveva citato nel nostro incontro privato sul "problema dell'esperienza". Aspettai, aspettai, aspettai: Gentile tacque. Aiutava sottobanco qualche ebreo, continuò a far tutto il possibile per Paul Oscar Kristeller - mio lettore di tedesco alla Normale che egli aveva accolto assai prima in Italia esule dalla Germania di Hitler: ma commetteva anche le viltà spicciole di accettare, dopo aver osato proporre compromessi assai meschini, le discriminazioni di uomini di valore della stessa "corporazione" degli studiosi (inutile citare fra i tanti, i casi di Fubini o Attilio Momigliano). Fu allora - e non adesso in vista del francobollo - che decretai la morte morale di Giovanni Gentile, oltretutto non solo vile (c'è chi ora dice «testardo per non sconfessare se stesso», cioè il suo argomentato fascismo), ma anche traditore di se stesso, del se stesso più profondo. Qui mi potrei fermare, ma mi preme aggiungere che non è l'adesione successiva alla Repubblica di Salò che mi scandalizza: è stato un atto, in qualche modo, di coerenza - di

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automatica coerenza formale - con quel Gentile ormai 'incapace di seguire la ragione e disperatamente prigioniero dell'attaccamento irrazionale a un regime, che gli stava dimostrando - con Mussolini - l'errore profondo della sua filosofia e l'ispirazione ambigua e contraddittoria di tutta la sua opera culturale. In quest'ultima, certamente, ci sono momenti e costruzioni importanti e perfino positivi: ma tutto ciò si perde, perché vi campeggia la storia di un'Italia opportunista di fronte al principe e al principio di autorità, inteso mevitabilmente come il diritto del più forte. Insomma l'Italia che 'non era riuscito a riformare quel Giuseppe Mazzini, di cui Gentile non aveva mai capito niente, fraintendendone la stessa religiosità. L'uccisione di Gentile? Contrariamente ad altri, penso che sia stato per lui un regalo, anche se per noi è fonte ulteriore di confusione. La "coerenza" di Gentile suscitava e suscita - come spero di aver fatto capire - la mia perplessità, perché penso che abbia rappresentato piuttosto un atto di orgoglio, copertura di un possibile rimorso di fronte al suo duplice fallimento, teorico e morale: ma morto così, Gentile si è risparmiato il processo, a cui avrebbe dovuto dare risposte convincenti nel momento della restaurata libertà. Viceversa questa morte è quel che ci voleva per quegli storici, filosofi, politologi, per i quali tutta la storia è positiva, non ne va sprecato nulla, è un'ingenuità dare il voto morale ai suoi protagonisti: questi "pensatori" leggono Seneca senza darsi la pena di decifrare il suo senso sereno di accettazione dell'ordine di suicidarsi. Ma noi vogliamo davvero continuare a ghettizzare il fascismo? Il fascismo che vinse due campionati mondiali di calcio e ci dette un impero? E poi, suv'via, da bravi italiani, tante storie per un francobollo.


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EDITORIALE Mario i2aa

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Il problema naturalistico dei diritti umani' Eliore Gallo Osservazioni sui diritti dei popoli nella comunità i O te rnaziofla le Riccardo Monaco NUOVA NORIMBERGA: GIORNALE A PIÙ VOCI

Con Pasquale Bandiera, Presidente della L.I.D.0 a cii 1(1 di Corrado Valguia ,,iera

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ATTUALITÀ XXV anniversario dell'Unione Forense e tavola rotonda su "Le minoranze in Europa oggi" Matteo Ca rho,ielli

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Anticronache delle nostre libertà a cura di Vito Mazzarelli Minori a cura di Sebastiano Ferlito

Associazione per la Difesa e t'Orientamento dei Consumatori - ADOC Amnesty International: campagna per la libertà religiosa DOCUMENTI La proposta italiana per un l'ribunale sui crimini di guerra e contro l'umanità nella cx Jugoslavia Proposta di Amnesty International per un Alto Commissario per i diritti umani Discorso del Segretario Generale delle Nazioni Unite al Senato Carta di Treviso e protocollo aggiuntivo: informazione e minori Carta dei doveri dei giornalisti italiani

La Conferenza di Taormina sui diritti dell'uomo nel Mediterraneo. L'Unione forense propone una Commissione permanente Sili'ana A rbia

D.L. 10711993 su trattamento penitenziario ed espulsione di cittadini extracomunitari e Circolare del Ministero di grazia e giustizia

Parlamento a sovranità limitata Alfredo Biondi

Consiglio Regionale dell'Emilia Romagna: Risoluzione per il popolo Saharawi

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Lo Straniero e la Pubblica Amministrazione a cura di Mario Lana

MOVIMENTI E ASSOCIAZIONI

Con B6utros Bouti'os-Ghali, Segretario generale delle Nazioni Unite a cura li Ma,'io Lana

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Comunità Europea a cura di Giorgio Recchia

Salute a cura di Umberto Randi

INTERVISTE

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RUBRICHE Consiglio d'Europa a cura di Maurizio de Stefano

Prcmièies observations sur la création du Tribunal Pcrmanint international de la résolution 808 du Conscil de Sécurité des Nations Unies Robe ri Clia rei li

Diritti dell'uomo e diritto internazionale penale Giuliano Vassalli

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Uno spiraglio per Silvia Baraldini Guido Calvi

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Quale mandato per la pace nella ex Jugoslavia? Paolo Raffone

Il 'Tribunale penale internazionale' per la (ex) Jugoslavia: considerazioni giuridiche Aldo Ber,ia,di,o

Alcune riFlessioni su un Tribunale ad lioc per la cx Jugoslavia Flai'ia Laiici,izi

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Convegno italo-stoveno delle ACLI sulla protezione dei rifugiati Walter Citti

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queste istituzioni La rivista Queste Istituzioni

fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato.

I contenuti - Il corsivo editoriale, con.il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. - I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'<clstituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, sono gli argomenti trattati negli ultimi numeri. - Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società .e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers.

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È in preparazione un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano.


La collana Maggioli - Queste Istituzioni La società QUES.I.RE. sri, editrice di Queste Istituzioni, ha da qualche anno avviato un progetto ambizioso che oggi vede finalmente raggiunti gli obiettivi iniziali. Nel 1992, in collaborazione con Maggioli editore, sono stati pubblicati tre volumi collegati ai temi solitamente trattati sulle pagine della rivista. Sono i primi titoli di.una collana mirata a trasferire nel settore pubblico le motivazioni e le esperienze che nel settore privato vengono definite cultura dell'innovazione.

volumi già pubblicati: Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miiler, J.P. Nioche, J. Slof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000

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