Queste istituzioni 98

Page 1

Anno XXII - n. 98 - Trimestrale (aprile-giugno) - spedizione in abb. postale - 500J, Roma

queste 1Stitu Zioni L'Europa di loannina: l'Unione fra allargamento e Regioni Regioni, questioni nazionali, Europa Chris Moore, Paul Hainsworth, Duncan Morrow, Adele Magro, Francesco Sidoti

Risorse europee per le Regioni Maria Teresa Salvemini, Antonio Di Majo, Giuseppe Cogliandro, Maurizio Meloni, Marco Cimini, Girolamo Caianiello, Bartolomeo Manna, Giancarlo Salvemini, Francesco De Filippis, Alessandro Minuto Rizzo, Giuseppe Carbone

Costituzione d'Europa dopo Maastricht Massimo Ribaudo

Taccuino

t il 01

n.98 1994


uestetu.

-

rivista del Gruppo di Studio SocietĂŹ e Istituzioni Anno XXII n. 98 (aprile-giugno 1994)

Direttore: SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore: FRANCESCO S1DOTI Comitato di redazione' SAVERIA ADDOTrA, ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, ROSALBA CORI, DANIELA FEUSIN1, GIoRGIo PAGANO, MARCELLO ROMEI, CRISTIANO A. RISTUCCIA; STEIANO SEPE, ANDREA SPADETrA, PAOLA ZACCHINI Responsabile redazione: SAVERIA ADDOTFA Responsabile organizzazione: GIORGIO PAGANO Direzione e Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8- 00193 Roma Tel. 39/6/32 15319- Fax 3215283 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847(12 dicembre 1972) Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE Sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN: 1121-3353 Stampa: Policrom 2000 Roma Finito di stampare nel mese di giugno 1994

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


N.98 1994

Indice

L'Europa di loannina: l'Unione fra allargamento e Regioni

III

Regioni, questioni nazionali, Europa 3

Il governo regionale nel Regno Unito: proposte e prospettive ChrisMoore

24

L'Unione Europea e il Nord Irlanda. Oltre la divisione? Paul Hainsworth e Duncan Morrow

41

I rapporti Stato-Regioni secondo la Commissione bicamerale Adele Magro

64

Passato e presente della questione settentrionale Francesco Sidoti

Risorse europee per le Regioni 77

I livelli di governo della finanza pubblica: ragionando di fondi strutturali europei Maria Teresa Salvemini

87

Una finanza pubblica federale per l'Europa Antonio di Majo

92

Il costo dell'inefficienza nei rapporti finanziari con la CEE Giuseppe Cogliandro I


96

Con l'Unione Europea senza malessere amministrativo? Un dibattito in redazione Interventi di Maurizio Meloni, Marco Cimini, Girolamo Caianiello, Bartolomeo Manna, Giancarlo Salvemini, Francesco De Filippis, Alessandro Minuto Rizzo, Giuseppe Carbone

Costituzione d'Europa dopo Maastricht 117

L'Unione Europea: verso quale federalismo? Massimo Ribaudo

Taccuino 137

I'

Notizie dalla Fondazione Italiana per il Volontariato


L'Europa di Toannina: l'Unione fra allargamento e Regioni.

Che succede nell'Unione Europea? Come sta funzionando la macchina del post-Maastricht e c'è un traguardo verso il quale ci si muove? A quesiti del genere è inutile cercare risposta nella stampa e nella televisione. La cronàca europea, come sembra sempre piii evidente, non interessa alcuno. Figuriamoci il dibattito intorno alla politica da fare in Europa e per l'Europa. Può allora avvenire che passaggi importanti della vicenda europea si svolgano senza averne neppure notizia. E il caso, da ultimo, del cosiddetto "compromesso di loannina" (dal nome della località greca dove si è svolta la riunione difine marzo dei Dodici). Il tema era, ancora una volta, le regole del decidere entro il Consiglio, cioè entro l'organo legislativo dell'Europa dei governi. Almeno dal momento che l'allargamento da 12 a 16 sarà effettivo a tutta la conferenza intergovernativa del 1996.

Vediamo di che si tratta. Ogni paese dispone in Consiglio di un "pacchetto" di voti grosso modo proporzionale alla sua popolazione: dieci voti ciascuno per Italia, Germania, Gran Bretagna e Francia; Otto per la Spagna; cinque per il Belgio, Olanda, Grecia e Portogallo; quattro per Austria e Svezia; tre per Danimarca, Irlanda, Norvegia e Finlandia; due per il Lussemburgo. Un totale di 76 voti nell'Unione a dodici e di 90 in quella a sedici. Nel corso dei vari successivi ampliamenti della Comunità europea la maggioranza necessaria per la maggior parte delle decisioni è stata mantenuta intorno al 70 per cento dei voti; per converso, la cosiddetta minoranza di blocco era finora fissata a quota 23. Passando a 90 voti la minoranza dovrebbe salire a 27. Ma a questo si sono opposte la Gran Bretagna e la Spagna. Il compromesso di loannina prevede che d'ora innanzi la minoranza di blocco passi da 23 a 27, ma, non appena gli oppositori raggiungeranno quota 23 il Consiglio si asterrà dal decidere, continuando a negoziare, per un periodo di tempo "ragionevole". III


In qualsiasi momento, per evitare un blocco prolungato, uno Stato membro potrcì chiedere che si passi al voto e in questo caso la minoranza necessaria per impedire la votazione sarebbe di 27 e non di 23. Tutto come prima, dunque? No, spiega Peter Koozjmans, il ministro degli Esteri olandese: "Non c'è nessun automatismo; per uscire da una situazione di stallo prolungata, uno Stato membro deve assumersi la responsabilitì politica di sollecitare il voto. Non è un 'iniziativa semplice ed ha sempre un costo politico ". Così riferiva inizialmente "News Europa" dell'Ufficio per l'Italia della Commissione. Secondo l'agenzia "Europe", in un editoriale del suo direttore Emanuele Gazzo (18 e 19 aprile 1994), la versione definitiva del compromesso è risultata peggiore del previsto. "Non solo la soglia della maggioranza qualificata è fissata a 64 voti invece dei 63 previsti, ma l'obiettivo da cercare in tempi 'ragionevoli' è di riunire almeno 68 voti, il che significa ridurre a 22 la soglia della minoranza del blocco. Inoltre, il riferimento al Regolamento del Consiglio è assolutamente ambiguo " Giunti a questo punto, va sottolineata la coerenza dimostrata da Giscard d'Estaing quando dichiara che non voterà afavore dei trattati d'allargamento finché la procedura di riforma istituzionale non sarà aperta. E aggiunge che il Parlamento europeo "non raggiungerì la maturitì che il giorno in cui avnì creato una tensione e dimostrato la necessiti del suo accordo politico' C'è da dire che il compromesso di loannina ha voluto a Londra una riunione ad hoc del Gabinetto Major ed aspri dibattiti ai Comuni. Il che forse signfica poco rientrando l'episodio nella crisi della leadership del premier inglese. Sta di fatto - ha ragione Gazzo - che Major tuttavia ha vinto. Nel commentare le decisioni dello scorso marzo si è fatto richiamo al precedente "compromesso del Lussemburgo" del gennaio 1966 quando gli allora sei membri della CEE constatarono in una dichiarazione comune che uno di essi (la Francia) riteneva che, nel caso di una decisione suscettibile di esser presa a maggioranza su proposta della Commissione, quando interessi "molto importanti" di uno (o pii'i) partner fossero in gioco, il dibattito in seno al Consiglio doveva proseguire fino a raggiungere un accordo unanime (quindi eventualmente mai). Gli altri cinque, pur ammettendo che il Consiglio si sarebbe sforzato di giungere a una decisione entro un tempo ragionevole, non erano d'accordo con la tesi francese. Dunque si sarebbe dovuto votare. Tuttavia eper concludere, i Sei constatarono allora che esisteva una divergenza, il che non avrebbe però impedito di riprendere i lavori (l'attività del Consiglio era stata nel frattempo "congelata "). Non si trattò dunque di un "compromesso", ma della constatazione di un "diIv


saccordo". Il che ebbe tuttavia conseguenze disastrose per la vita comunitaria, perché per oltre vent'anni il Trattato fu allegramente violato attraverso il "tacito consenso" dei governi degli Stati membri: le norme chiari ssirne che regolano l'attività dell'istituzione che legifera non furono applicate. Di fatto, la complicità fra le burocrazie e le diplomazie nazionali ha avuto libero gioco: ciascuna di esse temeva di essere, un giorno o l'altro, messa in minoranza e quindi si asteneva dal mettere in minoranza uno qualsiasi dei partners. Il risultato piz evidente - proprio quello ricercato dagli avversari del processo d'integrazione, per i quali tutto quel che ricordava di lontano la "sopranazionalità" o l"integrazione" era da mettere al bando —fu quello di "tagliar le ali" alla Commissione, svuotando di efficacia e tempestività il suo solo vero potere: quello di sottoporre al Consiglio proposte sulle quali questo deve pronunciarsi secondo precise modalità. Ultimo commento di Gazzo: La "constatazione del disaccordo" di Lussemburgo ha avuto conseguenze nefaste perché i governi ne hanno fatto un comodo pretesto; ma sarebbe bastato che un governo si fosse ribellato sul serio perché il Consiglio cambiasse registro. Ora invece si tratta di un "impegno" firmato dai Dodici (e dai quattro candidati). A Lussemburgo l'oggetto della controversia era limitato: si trattava di "un interesse molto importante". Ora, qualsiasi pretesto può essere utilizzato. Concludiamo. L'allargamento che è un obiettivo fondamentale sul piano politico significa per ora una sostanziale interruzione dei processi d'integrazione istituzionale? Se ciò signifi casse soltanto il riconoscimento della necessità di far maturare ipotesi fondate e realistiche di assetti istituzionali pensati appositamente e poi da sperimentare per un 'Europa allargata non ci sarebbero ragioni di preoccupazione. Anche perché - occorre ripeterlo - il modello federale applicato a una realtà di larghissima scala e comprendente società e popoli caratterizzati da profonde diversità culturali e storiche non può ridursi alla ripetizione di formule conosciute (e in crisi) e alle loro possibili variabili. Ma nessuno ha proposto ancora qualcosa di adeguato ai nuovi orizzonti. Il fatto è che comunque l'allargamento inteso come mera e compiaciuta ricerca delle minime comuni utilità senza fare neppure distinzione fra problemi maggiori e grandi interessi, da una parte, e ordinaria amministrazione, dall'altra, pare destinato a far compiere una grande svolta nel percorso dell'Europa: quella verso il ritorno all'indeterminazione dei legami integrativi di base. Con ri-

v


sultati che sarebbero alla fine in contraddizione con gli stessi obiettivi politici dell'allargamento. Nelle polemiche contro l'Europa intergovernativa sembra spesso che si abbiano di fronte dei governi autoritari o soltanto dei governi rappresentativi delle burocrazie. Ciò è sbagliato. Il fatto è che comunque l'Europa dei governi e delle diplomazie da sola non può farcela. Fuori da euro-pessimismi ed euro-ottimismi, queste considerazioni vogliono riproporre ancora una volta la difficoltì e la complessitì del tessere in Europa una tela di intese fattive ed in ragione di queste difficoltrì e complessiti vogliono rilanciare l'invito a studiare, approfondire, proporre, comunicare e diffondere idee e messaggi costruttivi. In questo senso riteniamo che debba essere ripresa e mantenuta permanentemente nell'agenda politica europea la questione delle Regioni. Il termine va preso per quel che è: l'equivalente, in Europa, di quel che sono negli Stati Uniti gli "stati", cioè unitì geo-istituzionali di maggiore o minore spicco sul piano dei compiti legislativi e amministrativi. In Europa la parola stato è riservata alle realtà maggiori che possono identificarsi con l'idea di nazione. Immaginare che la questione regionale sia al centro della questione Europa può sembrare un abbaglio proprio partendo da quanto si è appena detto a proposito di allargamento. La domanda che c'è da aspettarsi è se attraverso le regioni non si verrebbe a realizzare, ancora una volta, un allargamento, sia pure d'altro tipo e d'altra dinamica. La domanda è legittima, più che legittima. Le ipotesi che si cominciano a sondare riguardano, da una parte, le regioni d'Europa come uno statuto speciale di appartenenza all'Unione e, dall'altra, una generale riorganizzazione istituzionale dei paesi facenti parte dell'Unione che si articoli appunto intorno ad una organizzazione.territoriale di tipo regionale (piccole regioni, grandi regioni, laander e così via). La prima ipotesi è stata immaginata come risposta a problemi di conflitto sociale e/o etnico non risolubili in ambito nazionale (nelle pagine seguenti è af frontato in questa prospettiva il caso Nord Irlanda). Si è cominciato a studiare quali possono esserne i fondamenti economici: interessante al proposito il saggio di Jacques Drèze Regions of Europe: a feasible status to be discussed pubblicato su "Economic Policy" (ottobre 1993). La seconda ipotesi è quella del federalismo cooperativo e/o fiscale dove il passaggio all'entitRegioni di buona parte del potere fiscale si accompagna ad una riorganizzazione degli Stati fondata su processi ben disegnati, si potrebbe dire ben "ingegnerizzati ", di cooperazione fra i vari livelli di governo. Il fine è quello di adempiere bene izlle funzioni pubbliche e di raggiungere certi risultati VI


piuttosto che di ripartire competenze e poteri perpetuando una logica possessiva dei medesimi, che spesso non porta a nessun risultato. Il nesso che corre fra Europa e Regioni è quello un tempo intravisto, almeno sul piano teorico dalla scuola di pensiero del "federalismo integrale" e che oggi, invece, è suggerito alla fantasia creatrice della politica dalla necessitì di tante linee di cooperazione imposte dalla complessitì dei rapporti sociali e istituzionali da governare, regolare o promuovere. In questo senso, una buona misura di pragmatismo sperimentale sarc assolutamente necessaria entro un 'architettura istituzionale che abbia alcune sicure linee portanti. A questo pragmatismo sperimentale possono ben ascriversi due principi o criteri recentemente suggeriti: quello della devoluzione differita e quello della variet'ì e competizione delle politiche. Ne ha fatto cenno Alberto Martinelli su "Terziaria" (Un po' di chiarezza sui federalismo, marzo 1994). Il primo significa che "si possono ammettere regimi diversi di autonomia per le diverse Regioni, a seconda che risultino piii o meno attrezzate ad assumersi una parte maggiore o minore di funzioni decentrate. Tale devoluzione differita dovrebbe consentire ai cittadini delle diverse Regioni di scegliere, attraverso referendum o delibere delle loro assemblee regionali, di decidere quale parte di competenze e responsabilitì assumersi direttamente e subito ". Il secondo vuole che si incoraggino "soluzioni diverse per i diversi tipi di politiche pubbliche in virtii sia della oggettiva diversitì delle realtì sociali, sia della diversificazione dell'offerta politica, sia dell'opportunitì della sperimentazione di soluzioni politiche altern4tive dato che non si può conoscere a priori la risposta ottimale a un dato problema " Dalla rapidissima ricognizione dei criteri con cui affrontare la questione regionale si possono trarre forti elementi critici nei confronti della proposta di riforma costituzionale fatta nell'ultima legislatura dalla Commissione bicamerale. Ribaltare la logica di attribuzione delle competenze quale è stata seguita in Costituzione identificando nelle Regioni e non nello Stato i soggetti a competenza generale può essere un punto di partenza ma non una soluzione sufficiente e convincente. E poi: è possibile identificare le funzioni statali senza aver ripensato a fondo cosa dev'essere lo Stato, come l'amministrazione pubblica debba realmente articolarsi nella logica - altre volte segnalata su queste pagine dello "Stato moderno, Stato modesto"? È stato pronosticato (a qualche anno da quando si era diffusa l'idea della 'fine della storia ') che stiamo per precipitare in un nuovo Medioevo. Ne parlano autori come Alain Mmc e Norman Stone. Per l'Italia si pronostica (lo fa Stone in un 'intervista al "Corriere della Sera" del 28 aprile) che "vi spaccherete in tante VII


cittì -Stato, unite solo da una formale fedeltì a un fantomatico governo centrale" e per l'Europa che "se il progetto di Maastricht va avanti, creeremo l'equivalente del Sacro Romano Impero, cioè una finzione dove a comandare davvero sono i signorotti regionali". Può ben condividersi l'idea di Stone che se continueremo a credere nelle virtù rniracolose del progresso tecnologico (senza un 'idea forte di governo di questo progresso) continuererno a raccontarci frottole. Ma perché, continuando nel rimpianto dello stato-nazione (senza tuttavia crederci più molto), dovremmo venire meno all'impegno di creare progetti e valori per il Continente lasciando alla deriva la questione regionale e gli aggiustamenti istituzionali che dovranno derivare a breve da una riflessione sulla realtì europea che rimetta a nuovo e riprenda le questioni profonde del "fare Europa"? L'appuntamento è per la conferenza del 1996 che dovnì continuare il lavoro di messa a punto del Trattato per l'Unione Europea. Che questa volta non sia, come è avvenuto per Maastricht, un appuntamento dei soli governi. Altrimenti dopo Maastricht ci sarì sempre una loannina. Che ci si metta a studiare e a prendere la parola per far circolare buone idee, ovunque ciò sia possibile.

VIII


questeistduzieni 'I

Regioni, questioni nazionali, Europa L'articolo di Chris Moore, una versione aggiornata di un articolo gicì apparso sulla rivista 'Regional Politics and Policy", presenta ed analizza le proposte sul regionalismo britannico poste dai maggiori partiti politici (il Partito Conservatore, il Partito Laburista e quello Liberaldemocratico) a partire dagli anni Ottanta. L 'autore ha scelto deliberatamente di non parlare delle proposte riguardo la Scozia e il Galles se non in quanto poste all'interno di piiì ampie riforme per l'intero sisema statale del Regno Unito; così come non viene affrontata la questione nordirlandese, che è quanto invece viene fatto nell'articolo di PanI Hainsworth e Duncan Morrow. La tesi di base contenuta nell'articolo su1 regionalismo britannico è che la Gran Bretagna ha una struttura statale estremamente centralizzata, particolarmente difesa dai vari governi conservatori che si sono succeduti. Moore definisce l'atteggiamento del Partito Conservatore nei confronti del regionalismo come un 'opposizione di principio" ricordando che tale posizione è gie.ì enunciata dallo stesso nome del Partito il cui titolo originale era Partito Conservatore e Unionista. L'impegno dei conservatori è stato ed è tuttora per uno Stato-nazione unitario motivato da una serie di ragioni che Moore presenta nella sua rassegna. Per quanto riguarda, invece, i partiti di opposizione (il Laburista e il Liberaldenocratico), vengono descritte le forme di regionalisrno da loro proposte sulla base delle diverse posizioni dei due partiti definite di "evoluzione pragmatica" (quella laburista) e di "impegno di principio" (quella liberaldemocratica). L'autore sottolinea anche le analogie tra le due posizioni ricordando una dichiarazione politica


laburista in cui si afferma che entrambi i partiti riconoscono che la Gran Bretagna si muove in senso opposto rispetto agli altri paesi europei, vivendo un periodo di "centralizzazione intensificata", mentre essi vedono positivamente gli sviluppi di un'"Europa delle Regioni". Allo stesso contesto di un"Europa delle Regioni" sifa riferimento anche nell'analisi sulla questione del Nord Irlanda nell'articolo di Hainsworth e Morrow. Gli autori accentrano l'attenzione sul come la Comunità europea sia stata utilizzata in quanto contesto all'interno del quale situare, per una possibile soluzione, i problemi nordirlandesi. In particolare, viene analizzata la possibilità di definire un "ruolo europeo"per il Nord Irlanda diverso da quello avuto dal Regno Unito e dall'Irlanda, correlando gli sviluppi nordirlandesi ai contemporanei sviluppi dell'integrazione Europea. Il regionalismo italiano è invece il tema dell'articolo di Adele Magro. L'autrice esamina, in particolare, le riforme del rapporto Stato-Regioni proposte dalla Commissione bicamerale, sottolineando come tale progetto rappresenti un 'importante risultato nel tentativo svolto negli ultimi anni di dare concretezza all'idea di una maggiore autonomia delle Regioni. A tale analisi, l'articolo premette delle valutazioni sul modello regionale recilizzatosi in Italia a parti re dagli anni Settanta. Legato a1 discorso sulle regioni italiane, intese non in senso amministrativo ma in quello geografico e storico, è l'articolo di Francesco Sidoti, svolto sulla base della recente pubblicazione del testo di Robert D. Putnam: "La tradizione civica nelle regioni italiane" (Mondadori, 1993). Il tema affrontato è, quindi, quello della cosiddetta "questione settentrionale", ritenuta altrettanto importante della piii nominata "questione meridionale ":facce, entrambi, della stessa medaglia. Sidoti esamina le tesi di fondo sostenute da Putnam, (l'importanza del senso civico e della lezione della storia per le istituzioni), ritenendo necessario aggiungere a queste altre argomentazioni che ritiene utili nel porre in rilievo l'importanza, appunto, di una "questione settentrionale". Egli mostra la validità di alcune considerazioni, ovvero: che il senso civico sia una parte della storia di ogni paese ma che esso possa essere ritenuto secondario rispetto agli "obiettivi della potenza e della ricchezza" e che l'influenza del passato, generalmente, possa essere determinata soprattutto dai rapporti rilevanti esistenti nel presente. Per tale dimostrazione, Sidoti ripercorre sinteticamente alcune tappe della storia - non solo del nostro Paese -, giungendo, infine, afare riferimenti ai paesi che stanno emergendo economicamente negli ultimi anni. E proprio l'esperienza di quest'ultimi sembra meglio provare 1a validità della considerazione dell'autore riguardante il "senso civico": in paesi, ad esempio, come il Giappone, la Cina, il civic engagment sembra non essere presente o di esserlo in una forma completamente diversa da quella conosciuta nella cultura occidentale.


Il governo regionale nel Regno Unito: propost.e e prospettive di ChrisMoore

In un interessante resoconto sul regionalismo britannico del ventesimo secolo, Garside e Hebbert introducono la raccolta di saggi da loro curata sottolineando che: «Dalle sue origini in Gran Bretagna all'inizio del secolo fino al momento attuale, il regionalismo è stato interessante argomento di dibattito per scettici e per entusiasti senza, per questo, lasciare alcun segno durevole sul sistema» 1 Alla fine, il regionalismo riuscirà a lasciare il suo segno? Lo scopo di questo articolo è riassumere e analizzare le proposte per il governo regionale del Regno Unito sviluppate dai maggiori partiti politici durante gli anni Ottanta. Lo scopo della rassegna è, in primo luogo, quello di esaminare le proposte per il governo regionale all'interno del contesto del Regno Unito. L'articolo non si occupa, specifictamente, delle proposte per la Scozia e per il Galles se non nella misura in cui esse sono poste all'interno di programmi per la riforma del sistema statale britannico nel suo insieme. In secondo luogo, e in conseguenza di ciò, il termine "maggiori partiti politici" si riferisce ai tre partiti nazionali britannici: .

il Partito Conservatore, il Partito Laburista e il Partito Liberaldemocratico. In modo specifico, sono esclusi i partiti politici regionali/nazionalisti della Scozia e del Galies, i cui interessi prioritari consistono nel cercare di assicurarsi specifiche disposizioni costituzionali per i loro propri territori piuttosto che per l'intero territorio britannico. In terzo luogo, l'articolo esclude qualsiasi considerazione dello status dell'Irlanda del Nord a causa delle speciali circostanze di tale territorio. L'articolo tenterà, quindi, di fornire un contesto di dibattito sulla questione del regionalismo nel Regno Unito rispetto agli sviluppi in Europa occidentale. L'argomento fondamentale basato su una rassegna del dibattito politico e della letteratura accademica è che il Regno Unito è eccezionalmente centralizzato. L'articolo procede esaminando gli atteggiamenti politici verso la questione regionale dei principali partiti. Il rilievo viene dato alle proposte dei partiti di opposizione (Laburista e Liberaldemocratico) dal momento che la posizione del governo conservatore è contro qualsiasi forma di regionalismo. La posizione dei conservatori potrebbe esse3


re definita come opposizione di principio, sebbene i principi su cui tale posizione è basata sono qualche volta contradditori. La posizione del Partito Laburista potrebbe essere vista come un'evoluzione pragmatica, con lento progresso verso lo sviluppo di un impegno politico al regionalismo. La posizione liberaldemocratica viene definita come un impegno di principio per il governo regionale che riflette sia un forte interesse storico per il decentramento che un più attuale interesse per la ristrutturazione costituzionale del governo del Rcgno Unito. La sezione conclusiva dell'articolo riflette sulle prospettive per gli anni Novanta alla luce dei cambiamenti di politica interna e degli sviluppi europei. L'argomento è che lo status quo, probabilmente, sarà mantenuto soltanto se sarà rieletto il governo conservatore. Qualsiasi altra combinazione di formaziòne governativa aumenterebbe le prospettive di un'introduzione del governo regionale.

IL CONTESTO DELLA CENTRALIZZAZIONE

Secondo un punto di vista si può dire «Fra le nazioni occidentali, la Gran Bretagna ha una posizione inusuale avendo invertito quello che negli ultimi anni è stata la tendenza al decentramento»2 . Anche per Crouch e Marquand: «Il Regno Unito è adesso il solo fra i più grandi stati-nazione a negare risolutamente qualsiasi parvenza di espressione di politica regionale. Attualmente ci 4

sono forti indicatori che ciò possa essere uno dei fattori che stanno dietro la continuità economica e la debolezza democratica del Paese» 3 . Tale recente commento accademico sull'esperienza britannica suggerisce che la tendenza verso la centralizzazione del potere governativo, e che ciò contrasta fortemente con le tendenze nella maggior parte della democrazie liberali europee occidentali. La tesi del centralismo viene messa ancora più in rilievo dall'attuale frammentazione dell'Europa delMolta letteratura inglese sulle politiche territoriali rientra nel contesto delle relazioni governo centrale-governo locale, dell'amministrazione regionale o del governo settoriale delle comunità 4 Ciò, naturalmente, mette in evidenza l'assenza di un livello regionale di governo nel senso di strutture elette democraticamente e responsabili. C' un'amministrazione regionale nel Regno Unito, ma essa è basata su una decentralizzazione funzionale del governo centrale in uffici regionali di dipartimenti di servizio pubblico o in organizzazioni non governative semi-autonome. La posizione del GaIles e, in particolare, quella della Scozia sono diverse a causa dell'esistenza di un senso di identità nazionale, opposto alla identità semplicemente regionale, e di una infrastruttura istituzionale basata su disposizioni amministrative diversificate per realizzare la politica del governo. Ciò può condurre ad un grado di policy-making differenziato a seconda della .


configurazione delle forze sociali, economiche e politiche che operano in specifiche aree di governo. In altre parole, la comprensione del modo di governare nel Regno Unito richiede di andare al di là dell'asserzione che uno Stato unitario è sinonimo di uniformità di effetti politici malgrado vi siano costrizioni fondamentali alla produzione di risultati effettivamente differenti 5

stabilisce l'eguaglianza politica formale e i diritti civili comuni. Nel contesto del Regno Unito questa dimensione formale di unificazione è stata stabilita, ma c'è un grado di divergenza nel modo in cui tali diritti sono implementati con la continua esistenza di un corpo di leggi e un'amministrazione scozzesi separate.

.

Il regionalismo ha un più generale significato storico e politico nel Regno Unito, come idea e tema di dibattito. Storicamente, molto del dibattito e delle idee da esso provenienti è stato la sfera d'azione di professionisti quali planners economisti6 . Il significato politico del regionalismo è essenzialmente radicato nelle periodiche sfide allo Stato unitario da parte del nazionalismo celtico fin dalla fine degli anni Sessanta. Molti commentatori del governo britannico partono dall'assunto che essi parlano di uno Stato unitario ma, come sostiene Rose, basato su un sistema territorialmente differenziato 7. La Scozia e il Galles si distinguono al riguardo. Potrebbe essere utile considerare il processo di integrazione/differenziazione in un più ampio contesto teorico. Il modello di Tarrow di relazioni centroperiferia è un approccio che offre una comprensione delle forze in gioco nella formazione dello Stato 8 . Egli identifica tre tendenze di base nel processo di modernizzazione. La prima è l'uguaglianza normativa che

In secondo luogo, Tarrow identifica la riforma tecnocratica, che è essenzialmente il processo di modernizzazione economica che accentua l'efficienza. Ciò viene allargato, principalmente, attraverso lo sviluppo dei mercati. Mentre tale sviluppo è visto, generalmente, come una forza progressiva nel processo di modernizzazione esso ha generato non soltanto una divisione geografica della produzione nel Regno Unito ma modelli ineguali di sviluppo9. Nel tempo, l'autonomia economica di Regioni, come la Scozia, che in altri tempi ebbe un relativo alto grado di proprietà e di controllo locali, è stata ridotta progressivamente 10. Ma io sviluppo ineguale pone problemi per la gestione territoriale del governo dal centro. Nel Regno Unito, sono le politiche regionali di sviluppo economico e industriale a dare una risposta fondamentale alla dislocazione e al cambiamento economico e sociale. Ciò ha portato all'espansione del ruolo dell'amministrazione territoriale in Scozia e in Gailes, incluse nuove forme di gestione economica attraverso la creazione di agenzie di sviluppo. L'assenza di simili progetti nelle re5


gioni inglesi ha soltanto messo in luce aspetti di differenziazione territoriale all'interno del Regno Unito e ha generato anche un certo risentimento. La terza tendenza di base identificata da Tarrow è il benessere distributivo. Esso riguarda programmi di politica sociale che in parte compensano la dislocazione economica e riflettono anche l'ampia definizione di eguaglianza normativa che si è sviluppata in molti sistemi capitalistici liberaldemocratici durante il ventesimo secolo. Nel Regno Unito il welfare state ha compreso una serie di agenzie, di politiche e di programmi creati dal governo centrale nel periodo successivo al 1945 e ha rinforzato la centralizzazione del governo britannico. Tale processo di centralizzazione è illustrato in altri modi fondamentali. Nel Regno Unito, non ci sono salvaguardie costituzionali per il governo al di sotto del livello nazionale, a differenza di ciò che avviene in molti altri Stati liberaldemocratici. La dottrina della sovranità parlamentare viene vista come il potere del governo centrale attraverso una maggioranza parlamentare per definire e ridefinire la struttura, i poteri e il finanziamento del governo al di sotto del livello nazionale. Questo potere fu chiaramente esercitato per tutti gli anni Ottanta ma mentre tale decade può aver rappresentato il culmine nei conflitti tra governo centrale e locale nel Regno Unito, il processo di ristrutturazione e di ridefinizione nel ruolo del governo locale nell'ordinamento è di

più lunga genealogia storica 11 . Il governo locale ha perduto diverse importanti funzioni negli anni Trenta e Quaranta' 2 . Il Regno Unito, attualmente, è posto in una posizione isolata se si considera l'equilibrio tra governo centrale e regionale in comparazione con altre liberaldemocrazie europee occidentali. Hebbert sostiene che il Nord Europa ha visto un rafforzamento dell'autonomia delle autorità locali, mentre nell'Europa meridionale l'accento è stato posto sulla creazione di governi regionali potenti 13 .

LA RISPOSTA POLITICA AL PROBLEMA DELLA GESTIONE TERRITORIALE

La risposta dei partiti d'opposizione del Regno Unito a tale centralizzazione dovrebbe essere considerata sempre più nel contesto di un cambiamento nella linea di pensiero di gruppi attivi di pressione. Verso la fine degli anni Ottanta, diversi gruppi hanno presentato idee inerenti costituzioni scritte e dichiarazioni dei diritti. Per esempio, Carta 88, un'ampia coalizione di cittadini di orientamento liberale ha sottoposto una richiesta alle Nazioni Unite per una riforma costituzionale centrata su presunte violazioni di diritti definiti internazionali. Inoltre, nel dicembre 1990, l'Istituto di Ricerca di Politica Pubblica, - un gruppo di ricerca di sinistra -, ha pubblicato una "Carta dei diritti" a cui seguì nel settembre 1991 una proposta di


costituzione scritta contenente129 articoli. Entrambi i gruppi ritengono la decentralizzazione del potere politico elemento essenziale di una costituzione britannica riformata' 4 . Né tali preoccupazioni sono appannaggio solo dell'intellighenzia liberale anti-establishment. I sondaggi di opinione sembrano indicare un livello crescente di sostegno popolare per le riforme chiave. In Scozia, le votazioni hanno mostrato costantemente il sostegno della maggioranza per forme di decentralizzazione/indipendenza tali da superare il sostegno elettorale del Partito Nazionale Scozzese (Srs). Un commentatore, analizzando la forza del sentimento popolare in Scozia su tale tema, ha osservato che verso la fine del 1990 il sostegno per l'indipendenza aveva raggiunto il 39%, il doppio del sostegno ottenuto dal Sr'w, e che il 44% preferiva l'autogoverno' 5 . Al di là della questione del decentramento, recenti sondaggi hanno anche indicato il sostegno per riforme costituzionali quali una "Legge per la libertà di informazione", la rappresentanza proporzionale e i parlamenti a termine. Il caso del decentramento regionale include molti degli stessi argomenti posti in difesa del governo locale. Goldsmith racchiude questi in termini ditemi normativi,funzionali e politici'6 .

Il termine norrnativo si riferisce ai valori della democrazia liberale che sostengono la diffusione del potere all'interno dell'ordinamento e considera il governo locale autonomo in parte come

un controllo sul potere del governo centrale. Le difese funzionali del governo locale riguardano il perseguimento dell'efficienza e della programmazione e distribuzione di un valido servizio pubblico. Il governo locale viene visto come più vicino al fruitore dei vari servizi e come più sensibile alla comunità. Tale caso funzionale in sé stesso non favorisce una particolare forma strutturale di governo locale, sebbene la tendenza nel Regno Unito negli anni Settanta andasse verso una razionalizzazione della struttura del sistema complessivo per ridurre la frammentazione organizzativa. Più di recente, sembra esserci un crescente consenso fra i partiti politici per la creazione di autorità locali unitarie onnicomprensive' 7. Il governo regionale può rientrare in questo dibattito, particolarmente quei governi regionali che credono nella necessità di una più ampia visione strategica della programmazione dei servizi a cui le autorità locali esistenti non provvedono. Infine, la ragione politica per il governo locale è associata all'efficace gestione territoriale dell'ordinamento. Bulpitt, nella sua analisi delle relazioni centro-periferia, sostiene che nel tempo è emerso un accordo sulla divisione di potere nel Regno Unito per cui il centro ha preservato il suo controllo sulle questioni sostanziali di politica identificate come "politiche alte" e ceduto alle élites locali il controllo sulle "politiche basse" 18 . La storia politica del regionalismo nel Regno Unito può rientrare in tale tema. Come sostiene Keating, i governi VA


centrali nel Regno Unito hanno manifestato un interesse al decentramento regionale in primo luogo come mezzo per confondere il nazionalismo periferico quando esso era percepito come una potenziale minaccia allo stato-nazione Regno Unito' 9 . Il Regno Unito, anche tenendo conto delle esperienze della Scozia e del Galles, ha sviluppato un sistema di gestione territoriale e non di autonomia territoriale. Durante gli anni Ottanta, l'idea del territorio era concepita in primo luogo non come uno spazio politico ma come uno spazio economico. Quindi, possiamo presentare tre modelli di come, nel tempo, il problema del territorio è stato gestito (vedi schema infra). Questa è una classificazione di tipo ideale e gli approcci possono, quindi, non essere reciprocamente incompati-

bili. Tuttavia, possiamo sostenere che la risposta dominante de1l'lites politiche centrali fino al 1980 era, fondamentalmente, di tipo strumentale. Il territorio era considerato come uno spazio amministrativo funzionale i cui confini e scopi erano definiti dai bisogni dello Stato centrale. Le élites regionali potevano entrare in qualche relazione burocratica e corporativista con il centro per ottenere concessioni e amministrare funzioni decentralizzate. Mentre ciò non è scomparso durante il periodo thatcheriano del governo conservatore negli anni Ottanta, l'anti-statalismo e l'anti-corporativismo di questo periodo hanno prestato maggiore attenzione ai mercati come principali mezzi di allocazione delle risorse e di decision-making. Il territorio, nella misura in cui esso ha avuto qualche significato, era considerato come un'entità economica

Le risposte politiche alla gestione del territorio

Scopo

Strumentale

Funzionale

Normativo

LIMITAZIONE DEL TERRITORIO

Centro

Mercati

Negoziato tra centro e periferia

CARATTERISTICHE DOMINANTI

Amministrativo

Economico

Programmatico

Divisione della produzione

Rappresentanza politica

DEL TERRITORIO

Burocratico! corporativistico

Competitivo

Aperto

Chiuso

8

Democratica! partecipazione

PERIODO STORICO

Anni Sessanta e Settanta

Anni Ottanta

Anni Novanta

SOSTEGNO POLITICO

Laburisti

Conservatori

Liberaldemocratici


che doveva adattarsi ai mercati e competere per gli investimenti senza significativo sostegno e sussidio del govcrno centrale. Gli anni Novanta vedono una nuova accentuazione del modello normativo in cui le proposte per il decentramento regionale sono adottate in termini di valori politici della riforma liberaldemocratica.

PRECEDENTI PROPOSTE PER IL GOVERNO REGIONALE

Prima di considerare in dettaglio l'attuale dibattito sui governo regionale utile inserirlo nel contesto di una breve storia della proposte precedenti. Ciò serve a illustrare la strumentalizzazione dominante dell'élites politiche centrali nei riguardi del decentramento. Garside e Hebbert tracciano, nella loro rassegna, la storia del regionalismo nel Regno Unito dalla fine del diciannovesimo secolo quando emerse come proposta per l'autogoverno irlandese 20 Durante la seconda guerra mondiale furono delineati piani per l'amministrazione regionale civile e militare nell'eventualità della disgregazione dello Stato centrale. I governi del periodo del dopoguerra focalizzarono in modo crescente l'attenzione sulla politica economica e sui problemi industriali a livello regionale. La Commissione Barlow, nel 1940, ne la "Distribuzione della popolazione industriale" ha posto argomenti in favore di una forma di amministrazione regionale per realizzare program.

mi di sviluppo industriale. Durante gli anni Settanta la pianificazione regionale si sviluppò come un elemento di pianificazione economica nazionale. Furono create nuove sedi istituzionali in forma di consigli e comitati di pianificazione economica regionale per discutere problemi e delineare piani. I consigli erano corpi consultivi non eletti, chiaramente inseriti in un modello amministrativo di regionalismo di tipo strumentale. Tuttavia, nel 1968, il governo laburista, sotto la pressione di un rinnovato nazionalismo scozzese, approntò ciò che divenne noto come la "Commissione Kilbrandon sulla Costituzione", per esaminare gli argomenti per il decentramento regionale 21 . Mentre questa mossa può essere vista come parte dei tentativi del centro di gestire una periferia sempre più inquieta, la rassegna offre argomenti per una formulazione più normativa del caso del regionalismo. Kilbrandon identificò diversi problemi inerenti il sistema politico che rinforzavano la tesi per il decentramento regionale. Molti di questi problemi furono ridefiniti dai proponenti politici del regionalismo venti anni più tardi, come vedremo brevemente quando esamineremo le più recenti proposte per il decentramento. Le debolezze identificare da Kilbrandon includevano la centralizzazione del governo che portava ad un sovraccarico di funzioni al centro e che, quindi, contribuiva ad un'amministrazione e ad un policy-making inefficaci. Kilbrandon identificava anche un 01


evidente indebolimento del controllo e della responsabilità democratica attraverso la crescita di corpi pubblici ad hoc spesso operanti sotto il livello nazionale ma controllati dal governo centrale. La rassegna propone tre opzioni nel contesto della decentralizzazione del potere del centro. La prima è il separatismo, che condurrebbe éffettivamente alla rottura dello stato-unione trasferendo la sovranità parlamentare a nuovi governi regionali in Scozia e in Galles. La Commissione rifiutò tale opzione. La seconda: il federalismo, che trasferirebbe certe funzioni a nuovi governi regionali. Di nuovo, la Commissione ha rigettato tale opzione sostenendo che essa aveva poca pertinenza col sistema del Regno Unito e sembrava avere poco sostegno popolare persino nelle nazioni celtiche. In ultimo: il decentramento, che riporterebbe la sovranità al parlamento del Regno Unito ma in cui certi poteri sarebbero delegati dal centro alle assemblee regionali. Kilbrandon osservò che il decentramento avrebbe potuto prendere forme differenti. Dal rapporto furono proposte tre forme di rapporti centro-periferia. Una includeva un decentramento legislativo che era visto come la massima forma possibile in uno Stato unitario. Ciò includeva il dare ad assemblee legislative poteri su una definita gamma di questioni. Il secondo modello di decentramento era il decentramento esecutivo in cui il centro avrebbe trattenuto per sé i 10

poteri legislativi, ma questi sarebbero stati usati, principalmente, per stabilire una struttura di politiche che sarebbero state realizzate nei termini della loro esecuzione dettagliata da parte di assemblee regionali creando così la possibilità per la differenziazione e la diversità di risultati politici. In ultimo, la forma più debole di decentramento era il decentramento consultivo. Ciò in effetti era un'estensione dei consigli di pianificazione dell'economia regionale. Idee simili per consigli regionali consultivi erano state sostenute dal "Comitato Redcliff-Maud" sulla riforma del governo locale 22 . Kilbrandon sostenne il decentramento legislativo per la Scozia e il Galles e il decentramento consultivo per l'Inghilterra. Tali raccomandazioni, tuttavia, non furono accettate unanimamente dai membri della Commissione23 . Seguendo il rapporto della Commissione del 1973, e l'aumento del sostegno per i partiti nazionalisti nelle elezioni del 1974, il nuovo governo laburista si impegnò a realizzare il decentramento legislativo in Scozia e quello esecutivo nel Galles. Quanto all'Inghilterra, nessuna assemblea consultiva ma solo un documento. Dopo alcune battaglie parlamentari, i disegni di legge per le assemblee in Scozia e nel Galles furono approvati, ma l'esecuzione fu fatta dipendere dal grado di sostegno popolare quale fosse risultato dai referenda nelle nazioni periferiche. Una maggioranza semplice dei


votanti non avrebbe portato alla creazione di assemblee: fu stabilito un limite del 40% di sostegno dell'elettorato che né il referendum gallese né quello scozzese raggiunsero. Tale breve storia del regionalismo ci porta alla sconfitta del governo laburista nel 1979 e all'inizio del periodo dei governi conservatori della Thatcher. Quanto lontano è il problema del decentramento nell'agenda politica di fine decennio? Analizzeremo ora le attuali ipotesi dei tre partiti principali su tali questioni, per misurare la loro rilevanza.

OPPOSIZIONE DI PRINCIPIO: LA RISPOSTA DEI CONSERVATORI

Sono necessarie poche parole per esporre la risposta politica del Partito Conservatore al governo regionale. In realtà, il titolo originale del partito era Partito Conservatore e Unionista. Il Partito Conservatore è fortemente contrario a tale ristrutturazione dello Stato unitario del Regno Unito. Hall ha sostenuto che il "thatcherismo" rappresentò un curioso paradosso dell"autoritarismo popolare", intendendo che sotto la guida di Margaret Thatcher il partito conservatore accentuò la necessità di un forte Stato centrale unitario insieme alla promozione della libertà individuale24 . Tale libertà fu definita principalmente in termini di economia di mercato, ma anche attraverso un determinato sostegno per le associazioni

di volontariato (la famiglia e un pluralistico universo di gruppi di interesse). Piuttosto che il governo regionale era il governo locale a formare il centro di qualsiasi considerazione di struttura costituzionale. Il tradizionale accento conservatore sull'evoluzione pragmatica quando si confrontano questioni costituzionali, può essere contrastato dalla spinta ideologica della Thatcher verso la riduzione del ruolo e dei poteri di ciò che Cochburn definì lo "Stato locale', specialmente nella sua forma eletta di governo locale 25 . In pratica, ciò condusse a tentativi di ristrutturare il governo locale trasferendo funzioni al settore privato o a enti parastatali direttamente responsabili verso il governo centrale 26 Verso la fine degli anni Ottanta, e sull'agenda degli anni Novanta, si verificò il disgregarsi di servizi chiave, quali l'educazione e la salute, attraverso il processo di "opting out", che frammentava sostanzialmente il nesso istituzionale del welfare state. Tali mosse riflettono i motivi politici e ideologici connessi con l'anti-collettivismo, la riduzione della spesa pubblica e una sfiducia nel governo come tale. La fondamentale contraddizione consiste nel fatto che ciò implicava un'estensione del potere centrale soprattutto sul governo locale attraverso una varietà di controlli strutturali, fiscali e funzionali. Dall'inizio degli anni Novanta, il governo conservatore del successore della signora Thatcher, John Major, sta proponendo un nuovo modello "patchwork" di governo locale con l'obiettivo .

11


di procedere verso una precisa gerarchia i livelli di governo27 . A ciò non si sono opposti fermamente né il Partito Laburista né i liberaldemocratici che hanno visto la ristrutturazione del governo locale come una probabile conseguenza delle loro stesse proposte per il governo regionale. Ma nel caso dei conservatori, quest'ultima proposta (per le regioni) non è stata avanzata. La posizione conservatrice può così essere caratterizzata come un'opposizione politica e di principio al regionalismo. Il principio è un'impegno ad uno stato-nazione unitario basato sulla definizione esistente del Regno Unito, su1 liberalismo individuale, sulla libertà economica piuttosto che sulla libertà politica come base dello sviluppo sociale e sull'anti-statalismo che vede un ruolo limitato del governo cioè il provvedere e il proteggere una struttura di legge e ordinamenti, inclusi i diritti di proprietà privata. L'opposizione politica al .regionalismo ha origine da un decennio di conflitti con il governo locale simbolizzati nella decisione di abolire i consigli delle contee metropolitane e il Greater London Council (nel 1967): strutture che in Inghilterra più si avvicinavano ad una gerarchia di governo regionale. La dichiarazione della posizione del Partito Conservatore che riassume il suo antiregionalismo è contenuta nel documento per la campagna politica dell'elezioni del 198728. Significativamente, la dichiarazione è contenuta in un paragrafo sul governo locale. La 12

maggiore attenzione del documento posta sulle politiche dei partiti laburista e liberaldemocratico. I conservatori rifiutano le proposte per la riforma del governo locale e, per estensione, del governo regionale poiché: 1 0 il governo regionale sarebbe interventista; 2°) p0liticizzerebbe questioni quali la ricostruzione urbana che è stata, invece, "depoliticizzata" dalla creazione delle Urban Development Corporations; 30) sarebbe costoso; 4°) sarebbe burocratico e distante; 5 0) disgregherebbe il governo locale; 6 0 ) condurrebbe a conflitti con le priorità del governo centrale, specialmente sulla spesa pubblica. Quest'ultimo punto è un argomento critico poiché il conflitto fiscale ha dominato le relazioni centro-periferia negli anni Ottanta. In realtà, dal riconoscimento di una crisi fiscale dei governi laburisti negli anni Settanta, - quando il governo locale era percepito come il maggiore problema in termini di controllo della spesa pubblica -, la classica divisione funzionale nella politica del Regno Unito identificata da Bulpitt nella forma di alte politiche (governo centrale) e basse politiche (governo locale) è stata fondamentalmente intaccata29 . Nell'analizzare la posizione del Partito Conservatore nei riguardi del regionalismo, è importante riconoscere che uno degli assenti benefici del decentramento, cioè la dispersione del potere politico ed economico lontano dal centro, non necessita di assumere la forma del governo regionale. Ciò risulta più evi)


dente dall'idea di decentramento che ha il governo conservatore e che implica l'estensione di forme di mercato e di decision-inaking, che frammentano l'erogazione pubblica di servizi al fine di aumentare la competizione, la scelta e la promozione di attività privatizzate indipendenti dallo Stato.

L'APPROCCIO LABURISTA: L'EVOLUZIONE PRAGMATICA

Il Partito Laburista ha lentamente proceduto verso lo sviluppo di una politica coerente sul governo regionale, principalmente a causa di una continua pressione da parte dei bastioni del laburismo nella periferia celtica, specialmente in Scozia. Qui, il Partito Laburista ha mantenuto un debole dominio mantenendo costantemente la maggioranza della rappresentanza politica regionale ma non raggiungendo la vittoria elettorale a livello del Regno Unito. Ciò solleva serie questioni riguardo alla possibilità che il partito possa sopravvivere come entità politica unionista nel caso perda un'altra elezione a Westminster. In Scozia ciò è stato nominato lo 'scenano finale", sollevando preoccupazioni riguardo la legittimità dell'unione 30 L'ostacolo per il partito laburista fin dal Devolution Bili del 1978, - che proponeva un'assemblea legislativa scozzese -, stato l'opposizione da parte dei membri laburisti del parlamento inglese. Tale opposizione è stata particolarmente significativa nel nord-est e nel .

nord-ovest dell'Inghilterra dove i problemi economici e sociali sono simili e quelli della Scozia, ma dove non ci sono infrastrutture istituzionali analoghe per rallentare il declino. In particolare, non ci sono Agenzie regionali per lo sviluppo economico 31 Il partito, alla fine degli anni Ottanta, iniziò a porre le sue proposte per il decentramento scozzese all'interno del contesto di una più ampia politica per la ristrutturazione dello Stato del Regno Unito. Il Partito Laburista si trova di fronte ad interessanti problemi politici e ideologici derivanti da tali proposte. Esso ha sviluppato un forte attaccamento allo Stato-unione, specialmente dal dopoguerra, da quando cioè ha goduto di incarichi governativi. Il partito ha perseguito, essenzialmente, i suoi obiettivi di riforma economica e sociale attraverso l'apparato dello Stato centrale. Ritenere che un futuro governo laburista possa avere un chiaro programma che accentui obiettivi di politica economica e sociale nazionale accrescerebbé la potenzialità per conflitti con governi regionali creati di recente. Ideologicamente, se non in pratica, la tendenza laburista verso un programma nazionale con gli obiettivi di ridistribuzione e di eguaglianza, non si adatta alle variazioni locali e regionali. Tuttavia, dati i passi compiuti sotto la leadership di Neil Kinnock verso una piattaforma socialdemocratica molto debole che implichi la libertà individuale e l'economia di mercato, la probabilità di conflitto ideologico è ridotta. .

13


La recente dichiarazione politica laburista: "Decentramento e democrazia"32 delinea la posizione del partito sui governo regionale in Gran Bretagna. Ci sono forti somiglianze con la posizione liberaldemocratica. Entrambi i partiti vedono la Gran Bretagna non al passo con le tendenze europee e considerano gli anni Ottanta come un periodo di centralizzazione intensificata in Gran Bretagna. Entrambi vedono gli sviluppi in Europa, e in particolare il concetto di un'"Europa delle Regioni", come combustibile che si aggiunge alla pressione per la riforma in Gran Bretagna. Entrambi vedono un legame tra cosa potrebbe essere definito il caso politico o normativo per il decentramento, espresso in termini di potere decentralizzato e di partecipazione dei cittadini e un caso economico o strumentale in termini di un'accresciuta capacità delle Regioni di fare tentativi direttamente (per esempio: istituzioni e politiche di sviluppo economico regionale) e indirettamente (decentralizzazione dell'amministrazione di governo e di spesa pubblica con impatti moltiplicatori sulle economie regionali). Entrambi i partiti riconoscono che il decentramento politico e lo sviluppo economico non sono assiomatici. Entrambi enfatizzano un approccio gradualistico, sebbene una delle differenze maggiori è che i liberaldemocratici vedono il decentramento come parte di una più grande ristrutturazione costituzionale mentre il Partito Laburista tende a considerarlo come una questione separata. 14

Entrambi propongono una gerarchia elettiva di governo regionale per l'Inghilterra e di assemblee per la Scozia e il Galles ed entrambi propongono una simile varietà di poteri decentralizzati. L'accento viene posto sulla flessibilità. La Scozia viene vista come una priorità, seguita dal graduale sviluppo di una struttura regionale per l'Inghilterra con la possibilità di una progressione differenziale dipendente dall'intensità delle domande regionali. Entrambi sottolineano che il governo regionale assicurerà potere alla spesa del governo centrale, non di quello locale, sebbene entrambi riconoscano anche che il governo locale deve essere ristrutturato come conseguenza della creazione di un governo regionale. Ciò può generare conflitti, specialmente per il Partito Laburista, nel caso in cui le autorità locali laburiste si sentano minacciate dal governo regionale. Il Partito Laburista riconosce che il governo centrale continuerà ad avere un ruolo chiave nel provvedere ad un livello di benessere e di uniformità economica con la distribuzione eguale delle risorse. Esso, in particolare, riconosce la tensione tra «desiderio di vedere uniformi standard minimi nel servizio pubblico é la decentralizzazione del processo decisionale» 33 Le fasi di sviluppo che il Partito Laburista identifica nel suo approccio gradualista sono, in primo luogo, la costruzione di "necessarie strutture amministrative regionali". La principale priorità in tale fase è costituire Agenzie di Svilup.


po Regionale sul modello scozzese (e laburista. Va notato che il modello originale creato dai governi laburisti negli anni Settanta è stato sostanzialmente modificato durante il periodo conservatore degli anni Ottanta) 34 . La prima fase vedrebbe anche il decentramento dell'amministrazione del governo centrale agli uffici regionali, creando in ciascuna regione inglese l'equivalente di un governo scozzese o gallese. Questi governi formeranno il nucleo del governo regionale. Le discussioni sugli appropriati confini regionali si verificheranno in tale fase. Ciò potrebbe presentare dei problemi, data la mancanza di qualsiasi chiara identità e fedeltà regionale in molte parti dell'Inghilterra. Quali sono le regioni del nord est e del nord-ovest? La Cornovaglia è una regione a sé o un parte di un più ampio sud-est? Né le proposte laburiste né quelle liberali hanno alcun piano definito su tale questione, la cui soluzione potrebbe richiedere del tempo. L'identità regionale non significa l'assenza di divisioni geografiche all'interno di uno spazio definito. La Scozia ha nette divisioni tra est ed ovest, Highlands e Lowlands, tra terraferma e isole, ma in gran parte queste possono essere comprese all'interno di una struttura i identità nazionale. Lo stesso non può essere detto delle regioni inglesi. La seconda fase del programma laburista è la creazione di assemblee regionali che dovrebbero assumere la responsabi-

lità dell'amministrazione e del governo regionale. Il documento politico del partito laburista vede il ruolo principale ditali assemblee in una programmazione strategica implicante lo sviluppo economico, i trasporti, l'ambiente e le relazioni esterne nel contesto di legami con la Comunità Europea. Infine, la terza fase riguarda lo sviluppo a lungo termine di ulteriori funzioni e poteri decentrati. Ciò includerà la considerazione di disposizioni finanziarie. Inizialmente, il finanziamento sarà nella forma di trasferimenti da parte di Westminster, ma con il tempo, dovrebbe essere dato alle regioni il potere di variare le tasse. Tuttavia, le proposte sono tentativi per mettere in luce le preoccupazioni sull'equiparazione e l'impatto delle variazioni delle tasse regionalizzate sulla politica fiscale nazionale. E previsto che l'elemento del grant in blocco formerà la parte centrale dei fondi regionali per il futuro prossimo. La dichiarazione del Partito Laburista mette in evidenza in vari punti il bisogno di proteggere il governo locale da qualsiasi perdita di potere. Infatti, il documento propone che al governo vengano dati i poteri della "competenza generale" sul modello europeo. Tuttavia, ci sarà una riorganizzazione del governo locale per favorire la gerarchia regionale. Ciò in parte per neutralizzare l'affermazione dei conservatori secondo i quali queste proposte creeranno soltanto un'altro livello di burocra15


zia e di governo. La proposta è quella di abolire gli attuali livelli gerarchici superiori l'autorità locale, i consigli di contea di Inghilterra e di Gailes e i consigli regionali in Scozia e di sostituirli con un un'unico livello di governo.

IMPEGNO DI PRINCIPIO: I LIBERALDEMOCRATICI E LA RISTRUTTURAZIONE COSTITUZIONALE DELL'ORDINAMENTO BRITANNICO

I liberaldemocratici e i partiti che li hanno preceduti hanno un impegno di principio storico verso il decentramento che riflette la mancanza di fiducia in uno stato centralizzato potente, un impegno verso la libertà individuale e per il governo della comunità. Il governo regionale è collocato fermamente all'interno di un sistema costituzionale che include la rappresentanza proporzionale, una dichiarazione dei diritti scritta e una riforma del parlamento. Questo impegno verso il potere decentrato che, a volte, ha suggerito esplicitamente un accordo costituzionale federale può riflettere, in parte, una esclusione a lungo termine dal potere centralizzato dello Stato, ma si colloca anche all'interno di molti dei valori normativi della filosofia liberale e delle politiche radicali. Come il Partito Laburista, i liberaldemocratici pongono il rilievo sulla decentralizzazione del potere vista in termini di valori di una democrazia pluralista. Questa posizione è espressa nel Federal Green paper: "We The Peo-

pie' Questo documento rappresenta il culmine di un impegno a lungo termine verso il governo regionale ma insieme a interessi più attuali per la ristrutturazione costituzionale. L'insieme è creato per porre vincoli al potere centrale. Specificamente sul governo regionale, il documento propone un "home ride" per Scozia e Gailes con la creazione di parlamenti eletti e la decentralizzazione delle regioni inglesi dove verrebbero create assemblee elette. Il documento ha molte affinità con le proposte del Partito Laburista nei termini degli argomenti proposti per il regionalismo, però i liberaldemocratici collocano questo particolare aspetto della riforma nel contesto di un cambiamento radicale del modo in cui la Gran Bretagna e governata. Per esempio, la proposta per trasformare la Camera dei Lords in un Senato che includa la rappresentanza regionale sui modello federale di diversi Stati europei mette in evidenza i legami tra le proposte per la regionalizzazione della politica del Regno Unito e quelle per un più ampio cambiamento costituzionale e politico. Fondamentalmente, il documento è un modello di governo federale. La creazione di un governo regionale non viene vista come perdita di potere per il governo locale. Il legame tra argomenti politici ed economici per il regionalismo viene espresso esplicitamente. Il documento fa anche riferimento ai tradizionali valori liberali del pluralismo. Come per i laburisti, la priorità consi-


sterebbe nel legiferare per il decentramento scozzese e gallese e quindi andare nella direzione di un governo regionale inglese. Più esplicitamente di quelle laburiste, comunque, le proposte liberaldemocratiche prevedono la possibilità di un quadro di sviluppo irregolare all'interno dell'Inghilterra simile al modello spagnolo, con alcune regioni che hanno più autonomia di altre. Tuttavia, i liberaldemocratici dichiarano che i principi di base sui quali svilupperà il modello di tipo evolutuvo includono: la rappresentanza proporzionale; la specificazione di funzioni decentralizzate e poteri legiferanti attraverso la Costituzione; limiti sull'interferenza del governo centrale con funzioni decentralizzate e la risoluzione di dispute tra gerarchie di governo da parte di una Corte Suprema. Il parlamento nazionale britannico definirà i livelli di base dell'offerta di servizi vincolanti il governo regionale. Come il Partito Laburista, anche per i liberaldemocratici la disposizione dei confini regionali in Inghilterra è considerata problematica. I liberaldemocratici propongono di creare una commissione parlamentare per determinare confini appropriati secondo le ultime decisioni prese dal parlamento. E proposta la verifica dell'opinione popolare attraverso i referendum, benché non sia chiaro se questi vincolino il parlamento. I poteri sarebbero presi dal governo centrale, non da quello locale. Le funzioni principali del governo regionale

riguarderebbero lo sviluppo economico e una serie di servizi sociali. Sarebbero inclusi nelle funzioni campi attualmente di competenza del governo locale, tali come l'alloggio, l'educazione e la pianificazione, ciò significa che il governo locale interagirà in tali campi più frequentemente con il governo regionale che non con il governo centrale. Così, per esempio; nel capo della politica dell'alloggio, le autorità locali riceverebbero finanze e prestiti dal governo regionale. Così, a differenza delle proposte laburiste, i liberaldemocratici prevedono che il governo centrale giochi un ruolo indiretto in relazione al governo locale. I liberaldemocratici sono anche molto più espliciti sul finanziamento del governo regionale e, in maniera specifica, propongono un'imposta sul reddito regionale determinata dai governi regionali. I grant dal governo britannico continuerebbero a formare la parte maggiore del finanziamento, ma questi permetterebbero al governo regionale una considerevole discrezione nel determinare le priorità di spesa. Per prevenire distorsioni degli scopi di politica macroeconomica del governo centrale, sarebbero posti dei limiti sulla capacità dei governi regionali a prendere in prestito denaro e verrebbe richiesto loro di equilibrare i bilanci. Così, viene sostenuto, tale decentralizzazione sarebbe "fiscalmente neutrale", con nessun aumento del carico totale delle tasse. Non è chiaro, tuttavia, come un governo centrale garantirebbe 17


tale obiettivo senza assumere più ampi poteri per limitare i redditi raggiunti dalla tassazione regionale. I liberaldemocratici rigettano l'accusa che il governo regionale genererà un'aumento di burocrazia, sostenendo che la decentralizzazione trasferirà, semplicemente, le burocrazie dell'amministrazione centrale a quella regionale lasciando un servizio pubblico centrale molto più ristretto. Il governo locale sarà riorganizzato in autorità di un'unica gerarchia, ma sarà il governo regionale a decidere sui dettagli della struttura dei governo locale ed è lasciata aperta la possibilità, in alcune aree, per una struttura di governo locale ed è lasciata aperta la possibilità, in alcune aree, per una struttura a tre livelli gerarchici. Il significato preminente delle proposte per il governo locale è che la relazione primaria per le autorità locali non sarà più centrale-locale ma regionale-locale, e includerà il rapporto fiscale. In questo modo, i conflitti sul finanziamento del governo locale che sono stati la caratteristica principale della politica britannica dalla metà degli anni Settanta, saranno spostati ad un nuovo livello di interazione fra gli Stati. Ciò costituisce la differenza maggiore con le proposte laburiste per al difesa del governo locale dal controllo regionale sulle finanze. Il Partito Liberaldemocratico abbraccia l'idea del federalismo come un modello guida piuttosto che come una specifica forma costituzionale. Tale intendimento risale a molti anni fa. Nel 1974 il partito libera18

le dichiarò: «La rivoluzione liberale consiste nel creare una Gran Bretagna federale» 36 .

PROSPETTIVE PER IL CAMBIAMENTO

Un'eminente autorità nel campo del regionalismo, scrivendo sul Regno Unito ha osservato: "L'avvicendamento al potere è divenuto per quarant'anni un sostituto della distribuzione del potere, permettendo ad ogni partito una condivisione di responsabilità nel futuro governo senza, contemporaneamente, ridurre l'autorità centrale" 37 . Può essere ancora ripetuto il modello del passato identificato da Keating? Gli sviluppi nel Regno Unito possono essere posti nel contesto degli sviluppi europei. Il concetto di un"Europa delle Regioni" suggerisce un disperdersi o almeno, una significativa ristrutturazione, degli stati-nazione esistenti. La pressione dal basso è chiaramente più evidente in Europa centrale e nell'est, ma può anche essere vista in Spagna e non è assente nel Regno Unito, come mostra la posizione della Scozia. Accanto a tali pressioni sta il più significativo Stato-nazione in Europa, cioè la Germania, che è uno Stato federale. Ci sono altre pressioni provenienti dal livello dello Stato-nazione nella forma di movimenti verso una più grande unità nella Unione Europea. Allo stesso modo, il capitale multinazionale con la sua mobilità rende i confini nazionali e il controllo dello Stato-nazione sul fu-


turo dell'economia altamente insicuri. Altri problemi che prescindono i confini, quali l'inquinamento ambientale, indicano nuove forme di policy-making dove gli Stati-nazione uniscono le proprie sovranità in cambio dell'efficacia. La tradizionale forza politica della "nazione" (come identificata nello Statonazione del Regno Unito), può così essere divisa. Questo processo può anche essere posto a fianco di altre dimensioni di cambiamento politico come, ad esempio, il declino di una forte identificazione di classe e l'emergere di nuove formazioni sociali, di cui il regionalismo e il "nazionalismo periferico" possono essere una parte 38 . Il declino economico del Regno Unito e l'apparente incapacità dello Stato centrale di invertire tale processo si aggiunge anche alle tensioni cui e sottoposta la coesione sociale e geografica. L'impatto della frammentazione territoriale sui principali partiti politici può essere differente. Cochrane suggerisce che il Partito Conservatore con meno legami con le regioni può essere meno direttamente influenzato, certamente in termini elettorali, rispetto al Partito Laburista che ancora trae molto del suo sostegno dalle nazioni periferiche e dalle regioni 39 Tale analisi sembra sminuire l'impegno del Partito Conservatore all'unione. Mentre questi sviluppi indicano direzioni differenti e contraddittorie, essi iniziano anche a sgretolare la rilevanza dello Stato-nazione come effettiva entità politica economica e sociale. All'interno del Regno Unito soltanto i .

liberaldemocratici sembrano non ambivalenti nel loro impegno per un'Europa federale. I conservatori, in generale, sono ostili e i laburisti equivoci. In termini di politica interna, una rielezione del Partito Conservatore sembrerebbe promettere una attenzione focalizzata sul governo locale come arena per la ristrutturazione istituzionale. Un governo laburista cercherebbe di risolvere in primo luogo la questiòne scozzese, ma poi affronterebbe il problema del governo regionale in Inghilterra e nel Galles. I liberaldemocratici farebbero pressione sul governo regionale come parte di una più grande ristrutturazione costituzionale. Il risultato di qualsiasi coalizione di governo dipenderebbe dai suoi termini e dal contesto. Una coalizione tra conservatori e liberaldemocratici suggerirebbe che il consenso sulla rappresentanza proporzionale sarebbe l'obiettivo centrale dei liberaldemocratici. Data l'ostilità conservatrice ad una più ampia riforma costituzionale che includa il governo regionale, qualsiasi ipotetico governo conservatore-liberaldemocratico, presumibilmente, si concentrerebbe su politiche economiche e sociali. Una coalizione Partito Laburista-Partito Liberaldemocratico terrebbe ferma molto più la promessa di rivolgersi verso una riforma costituzionale che includa il governo regionale, dato l'impegno di entrambi i partiti per il decentramento scozzese e per le assemblee regionali. L'interesse dei laburisti per la rappresentatività proporzionale, inoltre, indi-

19


cherebbe una chiara possibilità di accordo con la politica dei liberaldemocratici. Nel processo di allontanamento del Partito Laburista da una programmazione economica dirigista e dalla proprietà pubblica si può vedere una piccola ragione obiettiva del perché una coalizione laburista-liberaldemocratica potrebbe non funzionare adeguatamente. Il fattore di complicazione si può individuare nell'azione dei partiti nazionali e se essi avessero un'influenza significativa all'interno di un parlamento senza maggioranze. Lo SNP è quello che probabilmente presenterà ai partiti unionisti una sfida su questo scenario, date le sue attuali quotazioni nei sondaggi e la sua forza organizzativa. Lo SNP accetterebbe una Scottish Assembly con poca indipendenza? Una tale proposta genererebbe, a dir poco, un dibattito all'interno dei ranghi nazionalisti. Dati questi cambiamenti la maggior garanzia per un futuro del Regno Unito come Stato unitario è quella di un governo conservatore. Qualsiasi altra combinazione apre la strada a qualche forma di governo regionale. In certe circostanze perfino la rielezione del governo conservatore potrebbe non precludere considerazioni di decentramento territoriale in maniera da mantenere l'impegno verso l'unione all'interno della Scozia dove potrebbe essere in forte pericolo se il partito ottenesse dei cattivi risultati. In altre parole: la gestione territoriale del Regno Unito sarà 20

uno dei problemi politici salienti degli anni Novanta. Se la risposta strumentalista e l'ammorbidimento delle politiche economiche e funzionaliste degli anni Ottanta sarà sufficiente a contenere il dissenso è questione aperta. I maggiori partiti di opposizione pensano di aver bisogno di andare oltre. Mentre il dibattito in Gran Bretagna, probabilmente, verrà condotto in termini di politica e di scadenze interne, gli sviluppi in Europa non saranno ininfluenti. Non è chiaro, comunque, se questi sviluppi rafforzeranno il regionalismo come alcuni sembrano pensare o lo sminuiranno. Hebert invita alla cautela quelli che credono che le richieste di poteri più ampi a li- Vello comunitario incoraggeranno un processo di regionalizzazione40. Mentre alcuni aspetti dello sviluppo europeo hanno dato sostegno all'articolazione regionale di interessi, in particolare attorno ai fondi dello sviluppo regionale europeo, rimane il fatto che le decisioni chiave circa lo sviluppo dell'Europa rimangono bloccate all'interno di un processo che opera attraverso gli Stati-nazioni esistenti. Non c'è quindi nessun chiaro legame causale tra l'europeizzazione e il regionalismo europeo. Le considerazioni di politica interna rimangono quelle chiave per il futuro del dibattito regionale nel Regno Unito. Nell'aprile del 1992 il Partito Conservatore ha vinto le elezioni per la quarta volta consecutiva, a dispetto di una maggioranza parlamentare ridotta in


maniera significativa. Durante la campagna John Major, successore di Margaret Thatcher alla guida del partito e Primo Ministro, prese un deciso impegno per l'unione del Regno Unito, tralasciando qualsiasi cambiamento costituzionale di rilievo nel sistema di governo. In qualche modo questa strategia sembrò raccogliere consensi per il Partito Conservatore, ribaltando un decennio di declino elettorale in Scozia. Cosicché le prospettive per nuove forme di governo regionale appaiono remote. Tuttavia, politicamente, l'amministrazione conservatrice appare fragile. Dal punto di vista economico, il governo è visibilmente in difficoltà. Esso ha affrontato problemi politici molto difficili durante il voto per il Trattato di Maastricht, per la chiusura delle miniere di carbone e ultimamente per le proposte di privatizzazione delle ferrovie britanniche. Dal punto di vista del regionalismo è interessante notare che il governo ha iniziato a fare cambiamenti amministrativi marginali in Scozia, nell'intento di creare una serie di uffici localizzati. Ciò riflette l'impegno di John Major di rivedere il modo con cui la Scozia era governata in risposta alle preoccupazioni circa la popolarità dell'amministrazione conservatrice in questa regione. Il punto nodale della riforma governativa, comunque, continua ad essere quello del governo locale. Il processo di riorganizzazione, seguito alla pubblicazione di una serie di docùmenti consultivi governativi, sta gradualmente por-

tando alla creazione di un singolo livello di autorità locali. La gerarchia superiore del governo locale, i consigli di contea in Inghilterra e le autorità regionali in Scozia, verranno aboliti. In questo modo, qualsiasi base strutturale per un livello di governo regionale nel Regno Unito verrà cancellata. Ciò, logicamente, completerà una politica iniziata alla metà degli anni Ottanta con l'abolizione dei consigli di contea metropolitani inglesi, la forma più prossima di autorità locale ad una città/regione nel Regno Unito. Accanto a questa riorganizzazione della struttura del governo locale, le politiche di ristrutturazione statale come servizi pubblici forniti da autorità locali elette vengono frammentate. Nell'istruzione, le scuole vengono incoraggiate a mettersi al di fuori del controllo dell'autorità locale, con una diretta responsabilità verso il governo centrale in cambio di finanziamenti e di poteri gestionali. Altri servizi forniti dalle autorità locali vengono progressivamente assoggettati a contrattazione, per cui gli interessi commerciali privati forniscono il servizio sotto contratto con l'autorità. Qualsiasi concessione ad un'autorità regionale a livello politico è marginale. Per esempio, il governo è stato d'accordo a nominare rappresentanti eletti dall'autorità locale al "Comitato delle Regioni" che verrà creato secondo gli accordi di Maastricht. Questa concessione, comunque, riflette la debolezza politica del governo nell'assicurare l'ap21


provazione delle necessarie leggi da parte del parlamento, e non un impegno per un forte regionalismo. L'agenda politica britannica rimane dominata da preoccupazioni tradizionali sul declino economico, sul futuro del welfare state e della gestione dei servizi pubblici. Il regionalismo continua a suscitare l'interesse di gruppi di pressione liberali. Nell'ottobre del 1992, ad esempio, una conferenza a Manchester, organizzata da un'alleanza ditali gruppi, ha discusso del governo regionale nel contesto dello sviluppo economico41 . Mentre tali dibattiti continueranno, sembra

non esserci prospettiva immediata per un regionalismo tradotto in forza politica significativa. L'idea che circola all'interno degli ambienti governativi di creare Agenzie di Sviluppo Regionale per stimolare la crescita economica (un vecchio interesse dell'attuale ministro dell'industria Michael Heseltine), sembra fortemente bloccata nel paradigma tecnocratico-funzionale basato su logiche amministrative ed economiche definite dal centro e totalmente separate da preoccupazioni politico-normative. (Traduzione di Saveria Addotta)

Note P. GARSIDE, M. HEBRERT, Introduction, in P. Garside and M. Hebbert, British Regionalism 1900-2000, Manse!!, Londra 1989. 2 M. GOLDSMITH, K. NE\VFON, Centralisation and De-

centralisation: changing patterns of intergovernamentai reiations in advanced Western soci eties, «European Journal of Politica! Research», n. 4, luglio 1988. C. CROUCH, D. MARQUAND, The New Centralism.Britain out of step in Europe?, Basi! B!ackwell, Oxford 1989. 4 Vedere, per esempio, il lavoro di RHODES in R. Ri-ioDES, Beyond Westminster and Whitehaii: the sub-central governament of Britain, Allen and Unwin, Londra 1988. Vedere, per esempio, M. KEATING, A. MIDWINTER, The Government of Scotiand, Mainstream, Edinburgo 1983. C. MOORE, S. BOOTH, Managing Competition:

Meso-Corporatism, Piuralism and the Negotiated Order in Scotland, Claredon Press, Oxford 1989. 6

Vedi i contribibuti in GARSIDE e HEBBERT, op. cit.

R.RosE, Understanding the United Kingdom: the ter ritoriai dimension in Government, Longman, Londra 1982. S. TARROW, Between Centre and Peripher-y: grossroots poiiticians in Italy and France, Yale University Press, New Haven 1977. Vedere, per esempio, i diversi lavori D. MAs5EY, CO8

22

me D. MASSEY, J. ALLAN, Uneven Redeveiopment: cities and regions in transition, Hodder and Stoughton, Londra 1989. '° J. Scorr, M. HUGHES, TheAnatomy of Scottish Capi. tal, Croom Helm, Londra 1980. Vedere, per esempio, G. STOCKER, The Politics of Lo cai Government? Macmi!!an, Basingstoke; C. MOORE,

Reflections on the nw iocal politicai economy; resignation, resistance and reform, «Policy and Po!itics», Vol. 19, n. 2, 1991. 2 T. BYRNE, Locai Government in Britain, Penguin, Harmondsworth. M. HEISBERT, Britain in a Europe of Regions, in P. GARSIDE e M. HEBBERT, op. cit. Setto rights, «The Guardian», 24/9/199 1. ° R. MCCREADIE, Scottish Identity and the C'onstitution in B. CRICK National Identities: the constitution of the United Kingdoin, B!ackwel!, Oxford 1991. 16 M. GOLDSMITH, LocalAutonomy. theory andpractise, in D. KING, J. PIERRE, Challenges to Local Government, Sage, Londra 1991. Le proposte del governo conservatore contenute nel documento del Dipartimento dell'Ambiente: The Structure of local Government in England, (aprile 1991), sebbene abbastanza provvisorio, ha indicato il sostegno per l'opzione unitaria. Entrambi i partiti, La-


burista e Liberaldemocratico hanno espresso un ampio sostegno per questa idea sebbene nel contesto di proposte per una gerarchia regionale di governo che i conservatori non propongono. IS j• BULPITT, Territory and Power in the United Kingdom, Manchester University Press, Manchester 1983. M. KEATING, Regionalism, devolution and the State 1969-1989, in P. GARSIDE, M. HEBBERT, op. cit. 20 Vedere il contributo di M. BURGESS: The Roots of

British Federalism. 21

Commissione Reale sulla Costituzione 1969-73 (è disponibile un rapporto). 22 REDCLIFFE-MAUD, Report o/the Royal Commission on Local Government in England and Wales (The Redcliffe-Maud Report), Londra 1968. 23 Due membri firmarono un rapporto che chiedeva una forma di decentramento consultivo. La maggioranza della Commissione era divisa su diverse specifiche proposte. 24 S. HALL, The Great Moving Right Show in S. HALL, M. JACQUES The Politics of Thatcherism, Lawrence and Wishart, Londra 1983. 25 C. COCKBIJRN, The Local State, Pluto, Londra 1977. 26 G. STOKER, The Politics ofLocal Government? Macmillan, Basingstoke 1988. 27 Dipartimento dell'Ambiente 1988, The structure of Local Government in England, Department of the Environment Local Government Research Team, Londra, 1991. 28 Partito Conservatore, Campaign Guide, Conservative Research Department, Londra 1989.

29

j BULPITr, Territory and Power in the United Kingdom? Manchester University Press, Manchester 1983. 30

Vedere, per esempio, R. MCCREADIE, op. cit., o M. KEATING, State and Regional Nationalisrn: territorial politics and the European State, Harvester Wheatsheaf, Hemel Hempstead 1988. 31 C. M00RE, S. BOOTH, Regional Economical Develop-

ment in the North East: critical lessons from Scotland, «Northern Economic Review», autunno 1986/7. Partito Laburista, Devolution and Democracy, Partito Laburista, Londra luglio 1991. 33 Ibid. u C. MOORE, The Hughes Initiative: the blueprintfor enterprise?, «Local Economy n. 4, febbraio 1989, pp. 237-44. 31 Partito Liberaldemocratico, We The People: towards constitution. Federal Green Paper n. 13, Hebden Royd Publications, Hebden Bridge, West Yorkshire 1990. 36 Partito Liberale, Power to the People: the machinery ofgovernment, Partito Liberale, marzo 1974. 37 M. KEATING, op. cit. 38 Vedere il volume edito da A. COCI-IRANE e J. ANDERSON, PoI itics in Transition, Sage, Londra 1989. n A. COCI-IRANE, Britain's political crisis, in A. CoCHRANE e J. ANDERSON, op. cit. 40 M. HEBBERT, O/i. cit. A. ROBERTS, Power to the People?: Economic Self Determination and the Regions, risultato di una conferenza organizzata da "European Dialogue" e dalla Fondazione Friedrich Elbert a Manchester nell'ottobre 1992. 32

23


L'Unione Europea e il Nord Irlanda. Oltre la divisione? di Paul Hainsworth e Duncan Morrow

Quando la Gran Bretagna e la Repubblica di Irlanda aderirono alla Comunità Europea nel 1973, il Nord Irlanda si trovava nel suo periodo di maggiore malcontento sociale di questo secolo. In un periodo di tre anni, dal 1972 al 1975, il governo britannico tentò diverse iniziative politiche, compresa la sospensione del parlamento locale di Stormont e l'istituzione di un'assemblea che condividesse il potere powersharing soltanto per ritornare ancora al governo diretto quando l'esperimento di power-sharing fu costretto ad un'interruzione prematura a causa dello sciopero dell'Ulster Worker's Council. Di conseguenza, in Nord Irlanda fu data poca attenzione a ciò che Edward Heath chiamò: "il grande dibattito" sull'Europa. Invece, il Nord Irlanda discusse il suo proprio status costituzionale come parte della Gran Bretagna e i problemi relativi: dall'intimidazione e il terrorismo, all'internamento e la ghettizzazione. Il dibattito sull'Europa, sicuramente fino alla fine degli anni Ottanta, fu sempre secondario rispetto alle più immediate realtà della vita del Nord Irlanda. La giustapposizione di eventi compor24

tò che il dibattito pubblico sulle questioni europee avesse luogo, in gran parte, soltanto all'interno di un contesto locale: un processo che altrove è stato definito come legame politico (political linkage). Tale processo implica, a sua volta, un processo a due direzioni che contiene in sé una certa "europeizzazione" del dibattito politico locale. Come afferma Juliet Lodge, le questioni della Comunità Europea non possono più essere considerate semplicemente come esterne. Questo articolo tratterà della natura di tale connessione e valuterà fino a che punto la dimensione europea abbia mutato il contenuto del dibattito. In particolare, accentreremo l'attenzione sul livello in cui l"Europa", come realtà e come ideale, è stata utilizzata come contesto all'interno del quale i problemi del Nord Irlanda potessero essere indirizzati e attenuati. Così facendo,. valuteremo l'attuabilità di recenti approcci al Nord Irlanda in Europa e la possibilità per un "ruolo europeo" in Nord Irlanda che differisca sostanzialmente da quello avuto dalla Gran Bretagna e dall'Irlanda. Allo stesso modo, cercheremo di correlare gli sviluppi in


Nord Irlanda ai contemporanei sviluppi dell'integrazione Europea. Nell'esaminarc questo periodo faremo riferimento all'Europa, variamente come Europa, Comunità Europea e, eventualmente, come Unione Europea, secondo l'uso più appropriato del periodo.

I PARTITI POLITICI: UN'ALTERNATIVA EUROPEA?

Tutti i partiti politici in Nord Irlanda hanno guardato alla Comunità Europea come ad una fonte di risorse economiche. Tuttavia, sotto la guida di John Hume, il Partito Laburista e Socialdemocratico (SDLP), - costituzionale e nazionalista -, in particolare si è convertito all'Europa, o almeno al concetto di Europea, per un'innovazione politica e costituzionale nell'area locale. Hume, molto più che qualsiasi parlamentare unionista, ha trovato una comoda nicchia all'interno del Partito Socialista Europeo del Parlamento europeo di Strasburgo dove egli è considerato come lo "statista" della politica del Nord Irlanda. Naturalmente la personalità dello stesso Hume è divenuta uno dei più importanti veicoli di comunicazione tra Nord Irlanda e altre aree politiche estere. Sempre più, il partito di Hume in Nord Irlanda ha presentato il contesto della Comunità Europea come un nuovo punto di partenza e come un potenziale punto di convergenza per la lealtà di unionisti e nazionalisti. Secondo le analisi del SDLP, il Nord Ir-

landa potrebbe imparare dalle esperienze dell'Europa continentale, quali la cogestione di potere, il compromesso, la rappresentanza proporzionale e così via. Tale approccio era già chiaro con le prime elezioni dirette europee nel 1979, e il processo accelerò dopo la firma dell'Atto Unico Europeo. Inoltre, secondo Hume, lo stesso processo di integrazione europea, emerso dalla riconciliazione di Stati precedentemente antagonisti come la Francia e la Germania, era un esempio per l'isola d'Irlanda. Allo stesso modo, le iniziative europee come l'Atto Unico e il Mercato Unico implicano il superamento dei confini internazionali e l'incoraggiamento della mobilità internazionale dei servizi, dei beni, dei capitali e delle persone. Malgrado sia stato etichettata come una carta molto consumata, nel 1989 il SDLP ha continuato a sorprendere ed a irritare i partiti unionisti con il suo presentare la Comunità Europea come un "nuovo contesto" in cui considerare il futuro del Nord Irlanda. In apparenza, l'Europa è divenuta la grande speranza del SDLP che il nazionalismo-unionismo venga superato. Tuttavia, come persino un editoriale proSDLP dell"Irish New" ammette, il partito non vede l'unificazione come un'alternativa al precedente nazionalismo irlandese ma come un meccanismo per rinconciliare l'unionismo alla unificazione de facto dell'Irlanda: «Il filone centrale del pensiero del SDLP è la riunificazione dell'Irlanda all'interno del 25


contesto di un'Europa unita» (Irish News, 6/11/92).

Ciò ha ampliato una precedente lettura della politica del SDLP secondo la quale: «Per l'Irlanda in particolare, il 1992 significherà l'effettiva scomparsa dei confini per scopi pratici e commerciali». Inoltre, è stata data considerevole attenzione alle più recenti manifestazioni di questo orientamento politico. Nel 1992, durante la più recente serie di colloqui tenuta tra i più grandi partiti costituzionali in Nord Irlanda e i governi britannico e irlandese, il SDLP ha proposto un maggior ruolo della Comunità Europea nelle strutture di politica interna del Nord Irlanda. Sebbene i colloqui fossero ritenuti confidenziali, le proposte furono fatte trapelare alla stampa (Irish Times, 13/5/1992). Il SDLP propose che l'effettivo potere in Nord Irlanda fosse tenuto da sei commissari: tre direttamente eletti dal Nord Irlanda, uno nominato dal governo irlandese, e gli altri due rispettivamente dal governo britannico e dalla Comunità Europea. Ciò rappresentava un ruolo accresciuto per il governo irlandese e un "sensazionale allargamento" dei parametri da assumere presso la Comunità Europea. Inoltre, una nuova Assemblea del Nord Irlanda, sarebbe stata modellata sulle strutture, le pratiche e i poteri del Parlamento europeo, mentre si sarebbe andati verso un Consiglio dei Ministri del Nord-Sud, non dissimile dall'attuale Conferenza Angb-Irlandese. Alcune notizie di stampa hanno persino affermato che sarebbero 26

stati consultati funzionari della Comunità Europea in merito allo sviluppo della politica: «Alcuni funzionari hanno abbozzato progetti per il leader del SDLP, John Hume, mentre sono stati consultati e incoraggiati, non ufficialmente, anche alcuni commissari CEE, secondo alcune fonti di partito» (Irish Times, 10/7/92). In modo non sorprendente, l'entusiasmo del SDLP alla prospettiva di confini aperti in Irlanda non è stato molto condiviso tra gli unionisti. Questi sono rimasti per lo più euro-scettici malgrado il fatto che gli interessi economici del Nord Irlanda siano stati spesso rappresentati in modo più forte a livello europeo dalla Repubblica di Irlanda piuttosto che dalla Gran Bretagna, maggiormente per quanto riguarda la protezione dei prezzi agricoli e le quote di produzione. Inoltre, i due maggiori partiti unionisti hanno considerato gli inviti del SDLP a prendere insegnamenti dall'esperienza europea come una cortina fumogena che nasconde una non mutata agenda nazionalista. In realtà ciò viene ampiamente considerato come il più recente tentativo di sottrarre il Nord Irlanda al Regno Unito. Come mostra un recente documento politico dell'Ulster Unionist Party (Uu): «l'Ulster Unionist Party rimane contrario a quegli sviluppi all'interno della CEE che eroderebbero ulteriormente il ruolo del nostro parlamento nazionale a Westminster». Risulta, comunque, abbastanza chiaro


che i partiti unionisti hanno combinato la negativa retorica anti-europea con una politica fortemente pragmatica rispetto alla questione CEE, e specialmente riguardo ai finanziamenti europei. Nel 1991, i politici unionisti erano tra quelli che sostenevano la creazione di un "Centro Nord Irlanda" a Bruxelles. I politici unionisti a Strasburgo e a Westminster hanno anche fatto forti pressioni per favorire lo status "Obiettivo Uno" della politica regionale CEE, che era già stato concesso alla Repubblica di Irlanda e che doveva essere esteso al Nord Irlanda, ma unicamente all'interno del Regno Unito. Inoltre, c'è stato un sollievo generale quando lo status CEE del Nord Irlanda fu confermato nel 1993, data l'esclusione del Regno Unito dai fondi di coesione concessi invece ai paesi più poveri, - inclusa la Repubblica di Irlanda -, come parte del prezzo per il loro sostegno al Trattato di Maastricht. La rete di sovvenzioni CEE all'economia del Nord Irlanda, sia attraverso il Fondo per lo Sviluppo Regionale (ERDF), il Fondo Sociale (EsF) che con i meccanismi di supporto dei prezzi associati alla Politica Agricola Comune (FEOGA) fu stimata di 845.900.000 sterline tra il 1974/5 e il 1986/7 e di quasi 600.000.000 di sterline dal 1989 in poi secondo le intese relative all' "Obiettivo Uno". Nonostante la crescente controversia sull"addizionalità", i contributi CEE sono divenuti importanti per l'economia locale, integrando la rete di sovvenzione britannica con più di 3 miliardi di sterline

per anno, malgrado il fatto che, in misure diverse, il Nord Irlanda manchi dei criteri materiali posti dalla CEE per essere qualificati idonei per interventi d'assistenza. È interessante notare che, malgrado la continua ostilità all'Unione Europea, l'Uup non è stato contrario all'accumulo di capitale per il consumo locale e internazionale da parte del suo unico deputato che ha aderito al gruppo cristiano-democratico nel parlamento europeo. «Sottolineamo che noi siamo il solo partito del Regno Unito alleato al principale movimento di centro-destra in Europa - il People's Party - del Parlamento europeo, il quale comprende i democratici-cristiani: un'alleanza di politici protestanti e cattolici». Come tali, gli unionisti hanno cercato, a volte, di cancellare l'immagine strettamente settana o negativa, non aiutati in ciò nei primi anni Ottanta dalla figura del deputato John Taylor che ha aderito al gruppo di estrema-destra del Parlamento europeo. Ciononostante, mentre gli unionisti sono stati ansiosi di procurare sussidi e investimenti da parte della CEE, a livello di ideologia e di retorica sono rimasti profondamente sospettosi. Ciò a partire dalla retorica anti-cattolica di Jan Paisley, testimoniata più recentemente nel dibattito su Maastricht alla Camera dei Comuni, fino al sospetto di base,'diffuso in tutti i partiti unionisti, verso qualsiasi cosa intacchi l'Unione. I partiti unionisti sono stati a lungo pubblicamente preoccupati di 27


quegli elementi che trascendessero i confini attraverso l'Unione Europea. Nel 1988, allora membro del Parlamento europeo dell'Uup per il Nord Irlanda proclamò: «Credo che la Signora Thatcher perderà il dibattito sull'Europa e che gli Stati Uniti di Europa possano essere evitati con l'abbandono della CEE da parte del Regno Unito». E interessante notare che, l'analisi secondo cui è stata ceduta troppa sovranità nazionale all'Unità europea è condivisa da Jan Paisley e dai radicali repubblicani. Neanche la crescente europeizzazione del commercio ha ancora significativamente modificato la retorica unionista dei partiti. I partiti unionisti si sono opposti al Trattato di Maastricht a Westminster in contrasto con il SDLP. L'esistenza del confine rimane sacrosanta. Sostiene William Ross, il parlamentare unionista dell'Ulster per Londonderry est: «Come, allora, la CEE influenzerà la frontiera del Regno Unito?... L'aumento del commercio non significa che il Regno Unito cesserà di esistere e quindi il confine rimarrà: sulla carta geografica così come nelle idee» (Belfast Telegraph, 17/3/93). La critica dell'uso della questione europea da parte del SDLP non ha riguardato solo i partiti politici. Il recente 'Grupp0 Cadogan', formato da accademici e personalità pubbliche in gran parte unionisti, inclusi Paul Bew e Denis Kennedy (fino a qualche tempo fa rappresentati della Commissione Europea in Nord Irlanda) hanno attaccato dura28

mente il SDLP e l'ossessione nazionalista per "una soluzione in Europa" e "la costante politica nazionalista di spostare il problema del Nord Irlanda in un più ampio contesto". Secondo il 'Gruppo Cadogan': «John Hume ha combinato il suo nazionalismo irlandese con un progressivo atteggiamento pro-integrazione alla scena europea... In questo modo lo scopo strettamente nazionalista dell'unità irlandese può essere 'abbellito' come parte della progressiva spinta verso l'Unione eùropea». Sebbene il Gruppo si dichiari "realista" sembrerebbe esserci poco che possa distinguere alcune delle sue analisi dall'unionismo classico. Allo stesso tempo, il Gruppo mette in rilievo alcune delle reali implicazioni delle proposte dell'SDLP. Criticando la proposta assemblea parlamentare modellata sui Parlamento europeo, essi commentano: «L'assemblea è un corpo ampiamente consultivo senza un ruolo legislativo e con nessun effettivo controllo sull'esecutivo». La critica di Hume va oltre i circoli tradizionali unionisti e include intellettuali liberali come Edna Longley che ha scritto: «Il linguaggio apparentemente flessibile di Hume trae in inganno diverse audience che vedevano in lui un onesto mediatore e un accurato testimone: un liberale piuttosto che un abile propagandista di partito». Il SDLP Si è trovato così a confronto con una considerevole opposizione da diverse parti. Essenzialmente, le proposte dell'SDLP precludono qualsiasi discorso


di decentramento per il Nord Irlanda all'interno del contesto del Regno Unito, ma esse sembrano anche condizionare qualsiasi trasferimento di potere, con o senza il coinvolgimento europeo, con l'imposizione di tre commissari esterni e la privazione di potere dei parlamenti locali. Senza valutare pienamente l'effettivo merito delle proposte in relazione al futuro del Nord Irlanda, c'è certamente un notevole gap tra il tanto vantato sostegno di Hume a favore di un intervento CEE, usualmente confinato all'interno di una retorica fiducia in un Europa delle Regioni, e le attuali proposte dell'sDLP che sembrano congegnate per assicurare che il potere effettivo rimanga fuori dal Nord Irlanda e nelle mani di Londra, Dublino e (forse) Bruxelles, ovvero nelle mani degli Stati membri e della Commissione Europea. In effetti, il SDLP richiede ancora che ci sia sufficiente peso in qualsiasi istituzione del Nord Irlanda per ostacolare la dominazione unionista e promuovere una graduale crescita dell'importanza delle istituzioni non britanniche nelle questioni del Nord Irlanda. Al di là di un fronte dell"europeismo con regionalismo", la fondamentale speranza dell'SDLP: il raggiungimento di un"Irlanda concordata" (an agreed Irelanci) rimane apparentemente immutata. Inoltre, le proposte per coinvolgere la Comunità Europea si basano su alcune affermazioni piuttosto speculative. Non solo esse provocano l'opposizione fra gli unionisti, ma sembrerebbero andare in dire-

zione opposta all'attuale politica britannica in Europa. Mentre l"Irish Times" (13/5/93) considera le proposte dell'SDLP come "pensiero fresco su un soggetto logoro", la considerazione non è condivisa né dal governo britannico né dagli unionisti. Non c'è, comunque, nessuna prova che la CEE voglia o possa avere un ruolo in tali questioni senza l'espresso desiderio dei governi inglese e irlandese insieme. La Commissione Europea non ha modificato la sua posizione da quando Christopher Tugendhat ha affermato che: «In Europa, il desiderio di aiutare esiste, ma le persone fuori dal Nord Irlanda sono molto coscienti del costante rischio di causare danno, di essere considerati come schierati o di intromettersi» (Irish News, 28/1/1983). Dieci anni fa, durante una visita in Nord Irlanda, Jacques Delors, Presidente della Commissione Europea, sottolineò che non ci sarebbe stata nessuna interferenza con i problemi interni. Richiesto di esprimersi, in particolare, sulle proposte del SDLP, Delors replicò: "Conosco questa soluzione alternativa ma non credo che la Commissione Europea abbia il compito di interferire nei problemi interni di un paese, di una provincia. La Commissione Europea seguirà con amicizia ed enorme interesse l'evoluzione degli eventi nella provincia e siamo pronti ad aiutare ma non ad essere sostituti di coloro che sono i responsabili per la provincia" (Irish News, 4/11/92). 29


Come tale la CEE, malgrado tutto il valore retorico dato alle politiche locali, non sembra avere nessuna personalità politica al di fuori dei punti di vista dei governi inglesi e irlandese. La CEE, come appare nelle proposte del SDLP, può essere sia un attore politico forte con poteri del tutto comparabili con quelli del governo federale degli Stati Uniti, sia un palliativo per tentare di diminuire il colpo di una proposta di sovranità congiunta. Il solo fatto che il SDLP abbia adottato questa posizione di alto profilo in favore dell'integrazione europea può aumentare i sospetti unionistici che la CEE, lontana dall'essere uno strumento di cura, sia in realtà un ulteriore "cavallo di Troia". L'ovvio pericolo qui è che la CEE, lungi dall'essere un contesto neutrale e "nuovo" in cui le questioni del Nord Irlanda possono essere considerati, effettivamente risulti alleata con una parte delle divisioni settarie tradizionali: ovvero, la CEE soggiace di rapporti locali piuttosto che il contrario. La connessione, per quello che è successo tra i partiti politici, è a senso unico. Come tale, qualsiasi potenzialità a lungo termine che la CEE abbia per emergere come un comune oggetto di lealtà per unionisti e nazionalisti è in realtà indebolita dal modo in cui la questione europea è usata dal SDLP.

30

AL DI LÀ DELLE FRONTIERE: UNA REGIONE EUROPEA?

Se i partiti politici hanno cercato di usare l'Europa per i loro scopi politici, toccato ad altri, fuori dai partiti, tentare di associare le questioni del Nord Irlanda ai più ampi sviluppi in Europa. All'inizio del 1993, è stata istituita una commissione d'inchiesta indipendente sulle questioni relative al presente e al futuro del Nord Irlanda, sotto gli auspici dell'iniziativa della comunità locale conosciuta come Iniziativa 92. Sotto la presidenza di un attivista dei diritti umani norvegese, Torkel Opsahl, la commissione ha raccolto suggerimenti, scritti ed orali, da un'ampia varietà di gruppi e individui. La commissione ha relazionato nel 1993. I suggerimenti si sono accentrati sul ruolo potenziale di una Comunità Europea allargata nel rifocalizzare e riarticolare il dibattito politico interno. Molte ditali analisi hanno trovato una conferma negli eventi del 1989/90. L'improvviso rivolgimento politico della mappa politica europea sembra offrire nuove e dinamiche possibilità oltre l'immobilismo che ha caratterizzato la guerra fredda. Di contro, il Nord Irlanda sembra impantanato nell'immobilità della politica, producendo una crescente impazienza, specialmente tra la classe media dei professionisti. Tra i fatti più importanti del periodo 1990-92 andava segnalato l'apparente inarrestabile movimento verso l'Unione Europea. Molti dei contributi alla


Commissione Opsahl hanno tentato un'analisi di questi cambiamenti per applicarli alla crisi costituzionale nel Nord Irlanda. Hugh Logue, un anziano funzionario CEE e, in precedenza, consigliere locale del SDLP ha usato il modello comunitario del Consiglio dei Ministri, della Commissione e del Parlamento come base per un possibile rimodellamento delle istituzioni politiche del Nord Irlanda. Egli pensava ad un consiglio esecutivo per il Nord Irlanda composto da nove membri (tre nominati dal governo britannico, tre da quello irlandese e tre dal parlamento del Nord Irlanda o rappresentanti eletti direttamente), un'assemblea consultiva composta da membri della Gran Bretagna, dell'Irlanda e del Nord Irlanda, con poteri simili a quelli del Parlamento Europeo e a una Commissione composta da dieci membri, eletta localmente, con potere di supervisione sui vari dipartimenti di governo. Il periodo di carica di tale commissione avrebbe dovuto coincidere con il periodo del mandato di cinque anni del Parlamento europeo. Logue non era il solo a vedere nella Comunità Europea un'opportunità per un'innovazione istituzionale. Labour 87, un piccolo gruppo di socialisti unionisti-democratici, propose la costituzione di un governo regionale in Nord Irlanda avente rapporti diretti con i poteri britannico, irlandese ed europeo. Esso proponeva che i più ricchi Stati della Comunità sostenessero la ricostituzione di una base economica locale nel

Nord Irlanda. Bernard Conion, un giornalista di base a Bruxelles, vedeva la possibilità di un'unità politica completamente nuova: l"area di speciale interesse europeo". Ciò riconoscerebbe le difficoltà di applicare semplici nozioni di sovranità ad aree come il Nord Irlanda e renderebbe possibile un'organizzazione su politiche comunitarie già stabilite che riconoscano le speciali circostanze del Nord Irlanda, ovvero lo status di "Obiettivo Uno". L'ovvia obiezione a tutte le proposte che contengono innovazioni costituzionali a livello paneuropeo è l'assunto che gli Stati che attualmente non hanno responsabilità politiche in Nord Irlanda sarebbero disposti a farsene carico di alcune nel futuro soltanto per "un bene maggiore". Ciò sembra, però, una proposta fondamentalmente improbabile, date le difficoltà sperimentate sia in Gran Bretagna che in Irlanda nel risolvere le tensioni interne nel Nord Irlanda. Il meccanismo attraverso il quale tali proposte potrebbero essere realizzate, quindi, rimane comprensibilmente poco evidente. Delors ha parlato chiaramente a nome di tutti gli altri governi europei. Per di più, l'esperienza del coinvolgimento europeo in BosniaHerzegovina ha probabilmente già reso impossibili queste improbabili proposte. Ciò non ha dissuaso un numero di influenti intellettuali irlandesi, al di là e al di quà dei confini, dal guardare all'Europa per trovare ispirazione. Tra i più radicali, Richard Kearney, Robin Wilson, Tom Hadden e Kevin Boyle han31


no visto nel movimento europeista una possibilità di sfuggire al nazionalismo come forza meramente politica. Nell'accettare le tesi della Commissione Opsahl, Wilson e Kearney hanno sviluppato il pensiero, presentato per la prima volta nel libro di Kearney: Accross the Frontieres, che afferma in maniera decisa un'Europa federale delle Regioni come un nuovo contesto potenzialmente decisivo per la politica irlandese. Kearney sostiene che: «L'Irlanda non può più essere contenuta a lungo all'interno dei confini di un'isola. Dalla firma dell'Accordo Anglo-Irlandese e dell'Atto Unico Europeo, ci troviamo impegnati in una nuova "totalità di relazioni che si estendono ben al di là dei limiti dello stato-nazione». Kearney identifica con il fine di un'Europa delle Regioni qualcosa che condivide con scrittori di altre regioni, le quali possono vedere un considerevole vantaggio nello sgretolarsi dell'attuale struttura degli Stati (Scozia, Catalogna, Fiandre, Paesi Baschi). Il meccanismo attraverso il quale questo processo si svilupperà è già in atto, secondo questi commentatori. La modernità sta sfidando lo stato-nazione in due direzioni, portando contemporaneamente alla sua perdita di potere a vantaggio, - verso l'alto -, della Comunità Europea e, verso il basso -, delle Regioni. «Ciò di cui stiamo parlando non è la liquidazione delle nazioni ma la loro abolizione a favore di una rete di comunità post-nazionali in cui le identità possano sopravvivere nei rispettivi luo32

ghi di appartenenza - nelle lingue, sport, arti, costumi, memorie e miti e, contemporaneamente, favorendo l'espressione delle minoranze e delle culture regionali all'interno di ogni Stato». L'Idea di un'Irlanda unita non è più una questione di nazionalismo trionfante sull'unionismo, ma è una questione di superamento di entrambi da parte di una nuova struttura sovranazionale e di una costellazione europea di Regioni. In questo nuovo mondo, la differenza culturale è valorizzata e ogni identità è compresa all'interno della "totalità delle relazioni". L'Europa delle Regioni rappresenta, quindi, l'essenziale background dell'accettazione di Kearney e di Wilson della tesi della Commissione Opshal. Un'emergente Europa federale fornirà una più appropriata struttura politica per un nuovo Nord Irlanda. In definitiva, tale versione di Europa federale non sarà limitata dai confini attuali della Comunità Europea ma comprenderà tutti gli Stati europei che sono attualmente parte della Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa (CscE) e del Consiglio di Europa. Il risultato sarà che essa verrà ad implicare la completa estensione alla legislazione interna della Convenzione Europea sui Diritti Umani (ECHR) e il concetto di cittadinanza contenuto negli accordi di Helsinki del 1975. «E nostra opinione che una ricollocazione del Nord Irlanda nell'insieme del contesto europeo, - garantendo la par-


tecipazione democratica e i diritti delle minoranze, lo sviluppo economico e la diversità culturale - offra una via di uscita all'attuale i7npassex'. La visione di Kearney e Wilson di un'emergente Europa regionalizzata e unita radicata in una particolare considerazione della direzione della politica europea sostenente certe tesi sul pluralismo e il fondamentale impegno alla "sussidiarietà". Ma è proprio qui, tuttavia, che si rivelano alcune delle più forti contraddizioni. Essi danno per chiarita l'affermazione di Neal Ascherson secondo la quale il processo d'integrazione europea ha veramente aperto problemi reali sulla continuazione dello stato-nazione. Secondo Ascherson, il regionalismo è la forma del futuro. «Non molto tempo fa 'regionalismo' era una parolaccia, intesa come reazione, arretratezza, ignoranza e probabilmente povertà... Adesso è improvvisamente divenuta il 'sale' del futuro europeo: una realtà in crescita e una prospettiva molto dibattuta». La visione delle Regioni avanzata da questi autori e aperta all'esterno, radicata nel pluralismo e impegnata nella democrazia locale. In ciò, tuttavia, sta una delle più forti contraddizioni del caso. C'è molto poco nella storia del Nord Irlanda che indichi che la democrazia locale sia radicata nel pluralismo e nell'apertura verso l'esterno. In effetti, si può affermare che ci troviamo di fronte proprio al caso opposto: il pluralismo è garantito

soltanto dalla volontà di una forza esterna che lo impone. Piuttosto ottimisticamente, Kearney e Wilson sembrano presumere che la creazione di un accordo politico sullo sviluppo politico dell'Europa intera creerà o consoliderà le condizioni per la stabilità locale. Tuttavia, al di là di tutte queste elucubrazioni e malgrado i migliori sforzi di Kearney e Wilson, il Nord Irlanda sembra non superare il test richiesto da Mient Jan Faber della 'Helsinki Citizens Assembly': «L'integrazione europea deve essere un'azione della società civile e non soltanto una reazione a nuove strutture statali sovranazionali». Inoltre, prima che ciò diventi una reale opzione politica, il futuro sviluppo della Comunità Europea dovrebbe essere veramente molto chiaro, e l'autonomia dello Stato europeo nell'agire all'interno del Nord Irlanda dovrebbe essere sostenuta da tutti gli Stati o almeno dalla Gran Bretagna e dall'Irlanda. Alla luce delle difficoltà del processo di ratifica del Trattato di Maastricht, - la crisi monetaria dell'autunno 1992 e, ancora più importante, l'incapacità di alcune organizzazioni sovranazionali, per non parlare del potere nazionale, nel controllare gli eventi nell'ex-Jugoslavia -, questa visione di una soluzione armoniosa appare evidentemente troppo ottimistica. Certamente, se il progresso nella politica locale è fondato su un'attiva e sicura Europa delle Regioni avremo ancora del tempo da aspettare. Bernard Conlon spiega questo punto succintamente, sostenendo che il mo33


dello europeo sarà utile al Nord Irlanda soltanto se essa potrà ricorrere, al di là delle lealtà nazionali, ad un ampio numero di gruppi nella società civile. «Un movimento bottom-up della comunità e dei gruppi di interesse locali potrebbe essere una fonte di iniziative fantasiose capaci di ottenere vantaggi da alcune delle risorse e delle opportunità favorite dalla Comunità>'. Comunque, permangono ovvii problemi: come minimo, la mancanza di qualsiasi chiaro meccanismo attraverso il quale questi ideali astratti possano essere tradotti in un'azione politica concreta. In un contributo anonimo alla Commissione Opsahl, un nordirlandese residente a Bruxelles ha commentato: «L'integrazione europea funziona ad un livello tale per cui non c'e possibilità di influenzare concretamente l'evoluzione dei conflitti regionali.... Proporre una soluzione della Comunità Europea ai problemi del Nord Irlanda significherebbe mettere la sussidiarietà al primo posto e nella situazione presente c'è poca probabilità che ciò accada». In un altro contesto, Bernard Cullen, un'accademico della Queen's University ha indicato le stesse difficoltà: «L'Europa e l'identità europea non sono la panacea dei problemi dell'Irlanda... (ma) una convergenza delle nazioni europee può fornire una struttura all'interno della quale la nostra piccola contesa può essere vista in un più ampio contesto... Tuttavia l'onere di trovare i 34

modi di vivere insieme ricade certamente su di noi». D'altra parte, possono esserci dei modi di usare la struttura europea emergente per consentire libertà di azione per l'innovazione istituzionale. Adrian Guelke, un importante scrittore che si occupa dell'Irlanda del Nord all'interno del contesto internazionale, vede una speranza nell" internazionalizzazione" del Nord Irlanda, come un'entità quasi indipendente all'interno della Comunità Europea. Comunque, questo vale nel contesto non tanto di un'Europa delle Regioni immediatamente potente, ma nell'ambito di un accordo delle attuali nazioni, Gran Bretagna e Irlanda, al fine di usare le loro forze congiunte per sviluppare una politica comune in Nord Irlanda. Nel quadro di Guelke, la Comunità Europea agisce come un specie di garante sovranazionale dell'azione comune di Gran Bretagna e Irlanda, offrendo coerenza istituzionale e un modello di potenziale sviluppo futuro ma lasciando l'attuale formulazione della politica agli stati-nazione, così come accade attualmente secondo l'Accordo Anglo-Irlandese. Il dibattito sull'europeizzazione del Nord Irlanda, comunque, rimane astratto, particolarmente dove esso conta sull'inesorabile tendenza alla fine dello stato-nazione. In maniera più chiara, Guelke indica che il presente gap tra la teoria e la pratica, che spesso appare spalancarsi in alcune delle più fantasiose proposte tende a renderle sostanzialmente non inte-

ressanti per i policy-rnakers.


«È abbastanza facile evocare una visione di un'Europa economicamente integrata in cui una larga parte di potere viene decentrata politicamente alle regioni e in cui il Nord Irlanda avi'ebbe il suo posto come una regione. Ma è molto più difficile prevedere in termini concreti la realizzazione di tale visione». Altri opinionisti, come ad esempio David Coombes, hanno anche considerato la difficoltà di tradurre tale visione in realtà. Secondo la sua analisi, molto del dibattito sull'Europa delle Regioni è caratterizzato da una tendenza a sollevare false aspettative. Inoltre, per diversi motivi, Coombes vede il Nord Irlanda come una regione più difficile di molte altre rispetto all'applicazione di teorie di regionalismo decentralizzato. «Le comunità regionali che hanno già ottenuto un alto grado di progresso e di autonomia politica (come la Fiandre e la Catalogna) potrebbero considerare favorevolmente tali prospettive di integrazione europea; mentre altre, meno pronte (come il Nord Irlanda e Creta), potrebbero avere una considerazione meno ottimistica delle loro prospettive in un più ampio mercato in cui i governi nazionali avrebbero meno interessate ad adottare misure protettive». Senza voler neanche accennare al Gruppo Cadogan, che ha respinto l'idea di un'Europa delle Regioni come "mito", è chiaro che quando viene applicata al Nord Irlanda ci sono numerosi ostacoli. La crescente importanza dell'identità

regionale e l'avanzamento verso ampie strategie economiche comunitarie sono chiari indicatori della sua importanza presente e futura. All'interno del Nord Irlanda, al di là di una stretta cerchia, c'è finora poca evidenza di un entusiasmo spirituale o civico per l'Europa, n c'è alcuna evidenza del potere trasformativo di tale ideologia. Qualsiasi sviiuppo futuro sarà probabilmente reattivo ai cambiamenti a livello interstatale piuttosto che emergente dalle radici. In ogni caso, rimane vero che se anche il Nord Irlanda raggiungesse lo status regionale europeo, la questione della distribuzione del potere al suo interno non sarebbe automaticamente risolta. Quelli che credono che l'avvento dell'Europa farà apparire meno rilevante la storia della Comunità forniscono poche spiegazioni del meccanismo attraverso il quale ciò accadrà. Il tentativo di alterare le relazioni interne in Nord Irlanda, collegandole ad una visione di relazioni integrate nel resto d'Europa, rimane attraente ma fondamentalmente, non convincente. Come ha notato Joe Lee, il concetto di un'Europa delle Regioni è premessa all'attuale esistenza di regioni identificabili e basate sulla nozione di un'accettata diversità culturale. La celebrazione di una cultura del Nord Irlanda, tuttavia, è tradizionalmente oggetto di profonda divisione della comunità. Più convincente è l'idea che l'Europa e il concetto d'integrazione, possano fornire la legittimità internazionale necessaria agli attuali Stati membri (Gran 35


Bretagna e Irlanda) per fare accettare qualsiasi futuro cambiamento di status per il Nord Irlanda

L'Accolwo ANGLO-IRLANDESE E LA TADINANZA EUROPEA

CIT-

Mentre l'integrazione della Comunità Europea può non aver portato la riconciliazione in Nord Irlanda, è più sostenibile la tesi che i contatti comunitari hanno fornito un utile struttura per le relazioni intergovernative tra Gran Bi iagna e Irlanda. Incontri bilaterali si sono svolti regolarmente ai margini degli incontri del Consiglio dei Ministri della Comunità. Questo sviluppo ha integrato e incoraggiato altri incontri dell'ambito della Conferenza Anglo-Irlandese. Infatti, si può dire che il confine tra la Conferenza Anglo-Irlandese e la relazione dei due Stati membri è poco chiaro. Sia il Consiglio dei Ministri che il Parlamento europeo hanno formalmente ben accolto l'Accordo Anglo-Irlandese del 1985 e la Comunità Europea ha dato 15mila ECU al Fondo Internazionale per l'Irlanda nel 1989. Secondo Moxon-Browne, il sostegno del Parlamento europeo all'Accordo Angb-Irlandese rimane un accordo interstatale in cui non è fatta nessuna mensione significativa della Comunità o di altre istituzioni europee. Boyle e Hadden sostengono che questo adesso costituisce una debolezza nell'Accordo: «Un'eventuale riconoscimento di una dimensione europea a qualsiasi futura 36

sistemazione, in aggiunta alle dimensioni interne Nord/Sud e Britannico/Irlandese può difficilmente essere evitato negli anni Novanta. Costruire una dimensione europea può anche aiutare a risolvere alcune questioni che possono causare più grandi difficoltà all'interno di una struttura esclusivamente britannica, quali la salvaguardia dei diritti umani, il monitoraggio delle attività di sicurezza e della protezione delle minoranze e la rappresentanza del Nord Irlanda all'interno delle istituzioni europee». Boyle e Hadden, quindi, estendono l'ambito dell'Europa al di là dell'Unione, comprendendo il Consiglio d'Europa e l'ECHR. La loro idea è che un interesse internazionale legittimo può essere riconosciuto in materia di diritti umani e di protezione della comunità. Quindi vorrebbero vedere una "Carta dei diritti" applicata in Nord Irlanda sottoscritta dal ECHR, una proposta per cui c'è un considerevole sostegno locale. Il rispetto dei diritti, all'interno di un costituzione del Regno Unito non scritta, rimane materia controversa. Tuttavia, Boyle e Hadden affermano che una struttura europea può consentire qualche spazio di manovra: «Uno dei mezzi per ottenere ciò sarebbe quello di coinvolgere la Comunità Europea o il Consiglio d'Europa come parte di qualsiasi Accordo Angbo-Irlandese, aggiungendo eventualmente uno specifico protocollo al Trattato di Roma o al Trattato di Maastricht o a un'appro-


priata convenzione del Consiglio d'Europa». Ipoteticamente, essi affermano che ciò potrebbe permettere, quindi, lo sviluppo di organismi interstatali in rappresentanza di comuni interessi in aree quali l'agricoltura o lo sviluppo economico. Ciò dipende ancora da cambiamenti considerevoli nell'approccio degli Stati membri a questioni di sovranità, specificamente quello del Regno Unito. Ciononostante, mentre la Gran Bretagna potrebbe essere ansiosa di evitare le precedenti situazioni, rimane vero che una dimensione europea potrebbe fornire un'utile copertura per i cambiamenti nella politica della sovranità relativa al Nord Irlanda. Consci di tali reali problemi, Boyle e Hadden ammettono: «Il migliore approccio può essere quello di concedere il riconoscimento del Nord Irlanda come regione particolare all'interno di programmi comunitari stabiliti e di sviluppare strutture per la rappresentanza del Nord Irlanda all'interno di strutture comunitarie stabilite». Queste più modeste proposte sembrano coincidere con alcune riflessioni di Guelke secondo cui l'europeizzazione del Nord Irlanda potrebbe, in definitiva, essere valida per i governi britannico e irlandese per ragioni che vanno al di là dell'impegno alla piena integrazione e all'Unione Europea. Un'Europa delle Regioni potrebbe incorporare misure valide per il Nord Irlanda come 10 status di osservatori a vari livelli ufficia-

li lungo le linee dei lnder tedeschi: un ufficio del Nord Irlanda a Bruxelles, migliorato e. ufficiale, o la diretta rappresentanza nel Comitato delle Regioni previsto dal Trattato di Maastricht. Inoltre, qualsiasi assemblea delegata potrebbe essere dotata di capacità di valutazione sulle questioni europee, come le applicazioni e il controllo dei fondi strutturali. Tutto ciò rappresenta un'interpretazione della sussidiarità più radicale di quanto il governo del Regno Unito ha contemplato finora. Comunque, tali proposte vanno nella direzione di restaurare e sviluppare la democrazia locale e correggere il "deficit democratico". Inoltre, operando a livello locale, viene aumentata la possibilità che i movimenti civili possano emergere in relazione all'Europa e ad altri istituzioni non nazionali. Come sostiene Elizabeth Meehan: «Il potenziale della Comunità per contribuire ad una nuova politica in Nord Irlanda è indiretto ma significativo. Invece di imporre nuove strutture al vertice, deve essere alimentato ciò che sta accadendo ai livelli più bassi, nella speranza di politiche di sostegno. Qui, come altrove, le persone che sperimentano nuove istituzioni e forme di azione hanno capito che le semplici certezze che legano la nazionalità legale, lo stato-nazione e i diritti politici, sono troppo semplicistiche nella realizzazione della piena partecipazione nelle sfere privata, civile e pubblica. Per Meehan, essendo la Comunità Europea un nuovo e pluralistico spazio 37


pubblico, essa fornisce la possibilità che le identità multidimensionali dell'Ulster possano essere conciliate. A questo riguardo, ella segue la tradizione espressa chiaramente dal poeta dell'Ulster John Hewitt: "Sono un uomo dell'Ulster. Sono nato nell'isola dell'Irlanda, prima della divisione dell'isola. Quindi, legalmente e sentimentalmente, sono un'irlandese. La mia lingua è l'inglese. Le mie convinzioni letterarie e i miei entusiasmi politici sono inglesi. Quindi, sono dell'Ulster, irlandese e britannico. E, dal momento che vivo in una regione di un isola in un'arcipelago al largo dell'Europa, sono un'Europeo". Naturalmente, la prospettiva di accordi locali, sia legali che istituzionali, che correlino il Nord Irlanda a istituzioni non nazionali, è la migliore per gettare le basi per un effettivo cambiamento delle relazioni a livello locale. Inoltre, essi potrebbero fornire la base per un sostegno civile a favore del regionalismo europeo. Tuttavia, ciò è piuttosto diverso dal concetto di cittadinanza europea legata alla libertà di movimento. La libertà di movimento, tra Gran Bretagna e Irlanda, è esistita per tutto il ventesimo secolo ed è dubbio se una cittadinanza europea di valenza concettuale altererà da sola, il paesaggio politico.

QUALCHE CONCLUSIONE

La connessione delle questioni europea e nordirlandese adesso fa chiaramente parte dell'agenda politica del Nord Ir38

landa. Ciò è vero sia nella sfera politica, che in quella economica e sociale. Tuttavia, risulta evidente che i partiti politici in Nord Irlanda hanno tentato di usare gli sviluppi nella Comunità Europea come parte della contesa nazionalista-unionista piuttosto che essere trasformati da questa nuova dimensione. Al di là dei partiti politici, l'Europa è stata considerata come un modello a cui aspirare soltanto da un piccolo gruppo di intellettuali, frustrati dall'interminabile localismo dei partiti politici. In ogni caso, allo stato attuale delle cose, la dimensione o il modello europeo offrono un ambito limitato per alleviare le tensioni della comunità. Se da una parte l'approccio a un'Europa delle Regioni offre possibilità a lungo termine, dall'altro appare limitato da numerosi problemi. Come prima cosa, bisogna considerare la continua determinazione degli Stati membri a mantenere la presente struttura. Inoltre, non risulta chiaro se il potere trasferito alla regione Nord Irlanda verrebbe esercitato in maniera diversa rispetto a poteri delegati in qualsiasi altra sfera. Ironicamente, il SDLP Si opporrebbe fermamente al trasferimento di potere al Nord Irlanda come regione europea autonoma. C'è, comunque, una logica emergente, riconoscibile attraverso l'Europa, che vede lo stato-nazione incapace di comprendere tutto il policy-ma/eing all'interno delle sue strutture. Il SDLP ha usato questa logica per affermare che i suoi piani per il Nord Irlanda sono al passo con la moderna realtà europea, in im-


plicito contrasto con altri approcci che rimangono radicati in un arcaico mondo di sovranità nazionale. Dovremmo stare attenti a non confondere la retorica con la sostanza. Il modello regionale proposto dal SDLP è in sintonia con l'abituale interpretazione di ciò che si intende per trasferimento del potere alle regioni. Infatti, il SDLP, lungi dal desiderare il trasferimento di potere alle regioni, cerca di restringere tale potere riducendo i tre livelli di potere (locale, nazionale e sovranazionale) ad un solo livello istituzionale. Rimane vero che il modello del SDLP può essere compreso solo come un sofisticato rafforzamento del ruolo della Repubblica d'Irlanda e di altre istituzioni non britanniche, in linea con la politica tradizionale dei partiti. L'esistenza della Comunità Europea, comunque - l'Unione Europea del dopo Maastricht -, e i cambiamenti potenziali insiti nell'integrazione euroea hanno aperto diverse possibilità. A livello di politiche strategiche, l'esistenza di un dibattito sull'integrazione fornisce un contesto internazionale per l'azione dei governi britannico e irlandese. Come Guelke, Boyle e Hadden hanno illustrato, ciò potrebbe fornire un contesto all'interno del quale intraprendere maggiori riforme: dai cambiamenti interni legali e istituzionali alle riforme costituzionali. Senza un'enorme innovazione costituzionale, lo sviluppo di progetti pratici europei sul terreno e l'estensione dell'EcI-IR al Nord Irlanda come parte di una "Carta

dei diritti" sembrerebbe fornire possibili aree di progresso. L'adozione formale di standard concordati a livello internazionale nelle leggi nazionali, potrebbe essere d'aiuto nel ridurre l'entusiasmo attorno al nazionalismo senza suscitare richieste di interferenze esterne. Come suggerisce Moxon-Browne: «di tutte le implicazioni dell'appartenenza alla Comunità Europea per il Nord Irlanda, alla lunga sarà probabilmente l'aspetto legale a mostrarsi decisivo)>. Ciò potrebbe includere il primato della legge europea nella legislazione sociale ed economica e il ricorso agli accordi internazionali per sostenere la legittimità delle disposizioni. L'Unione Europea può fornire anche una struttura all'interno della quale i politici nazionalisti e unionisti possono procedere verso la creazione di istituzioni reciprocamente accettabili, basate su forti interessi senza necessariamente rinunciare ai principi. John Darby cita l'esempio della creazione del 'Centro Nord Irlanda" a Bruxelles con il sostegno di tutti i partiti. Allo stesso modo, la riuscita lobbying per un Ufficio della Commissione della Comunità Europea a Belfast e la cooperazione tra membri del parlamento su questioni economiche, - come la politica del governo britannico sull'addizionalità o il mantenimento dello status di "Obiettivo Unico" -, forniscono simili opportunità. L'Unità Europea non è , comunque, e mai potrà essere, una soluzione istantanea ai problemi del Nord Irlanda. Certi concetti, attualmente parte del dibatti'1J


to della Comunità Europea, tali come la sussidiarietà, il partenariato, il regionalismo e la cittadinanza possono consentire, infatti, un nuovo linguaggio politico all'interno del quale formare nuove relazioni. Ma la connessione è , come abbiamo notato, un processo a due direzioni. Un reale accordo tra la Gran Bretagna, l'irlanda e le loro comunità in Nord Irlanda che continuano a contare

su di loro per un sostegno internazionale, potrebbe fornire un concreto modello per la risoluzione di conflitti politici per una vasta gamma di situazioni. Di per s, l'Unione Europea può infatti fornire mezzi per mutare in qualche modo e sottilmente la questione, ma ciò non significa necessariamente che le risposte saranno differenti nella sostanza. (Traduzione di Saveria Addotta)

Bibliografia N. ASCHERSON, Europe for the Regions in M. CR0zIER ed., Cultural Traditions in Northern Ireland, Institute oflrish Studies, Belfast 1991. AIJGHEY, P. HAINswoRm, M. TRIMBLE, Northem

Ireland in the European Community: an economic and politica1 analysis, Policy Research Insitute, Belfast 1989. K. BOYLE, T. HADDEN, Building a Democratic Future contributo alla Commissione Opsahl, febbraio 1993.

Cadogan Group, Northern Limits, Boundaries of the Attainable in Northern Ireland Politics, Cadogan Group, Belfast 1992. J. COOMBES, Europe and the Regions in Crick B. Natio-

nal identities. The Constitution of the United Kingdom, Londra 1988. CULLEN, in M. CROZIER, Cultural Traditions in Northern Ireland, Cultura Traditions Group/Institute of Irish Studies, Belfast 1991. J. DARBY, Regionalism, New Allegiances and Identifica. tion in Northern Ireland, Relazione distribuita alla Conferenza di Oslo, febbraio 1993. J.M. FABER, in HCA No 2, Helsinki Citizens Assembly, Praga 1992. A. GUELKE, Northern Ireland: self.determination and the New World Order, Relazione letta alla Conferenza di Oslo, febbraio 1993. P. HAINSWORTH, D. MORROW, Northern Ireland: European Region - European problem, «Etudes Irlandaises», primavera 1994. J. HUME, Europe of the Regions, in R. KEARNEY, Accross the Frontiers, Londra e Dublino 1988. Irish Social and Economic Research Unit (ISERU),

40

1992: what it rneans for Ireland, Irish Social and Economic Research Unit, Belfast 1990. R. KEARNEY, Accross the Frontiers: Ireland in the 1990s, Londra e Dublino 1988. R. KEANEY, R. WIL50N, Submission to the Opsahl Com. mission 1993 (non pubblicato). M. LnGH, Linkage Politics: the French Referendum and the Paris Summit of 1972, «Journal of Comnion Market Studies», Vol. 14, 1975/6. J. LODGE, 1989: Edging towards genuines Euro-elections in J. LODGE, The 1989 Election of the European parlia. ment, Macmillian, Londra 1990. J. LOGUE, European Modelfor Institution for Northern Ireland: The trialogue contributo alla Commissione Opsahl 1993. E. LONGLEY, Challenging Complacency, «Fortnight», marzo 1993. E. MOXON-BROWNE, Northern Ireland and the European Community: an extended platform? «L'irlande Politique et Sociale» 1992, pp. 61-71. E. MOXON-BROWNE, The impact of the European Com. munity in E. Hadfield The Constitution of Northern Ireland, Belfast 1992. J. OsMOND, The Divided Kingdom, Constable, Londra 1988. A. POLLAK, T. OPSAHL, A Citizens Inquiry: The Report o/the Opsahl Commission, Lilliput Press, Belfast 1993. Partito Socialdemocratico e Laburista, 1992: The Implications of the Single Market for Northern Ireland, Belfast 1988.

Ulster Unionist Party, Policy Signposts to the Future, Belfast 1990.


I rapporti Stato-Regioni secondo la Commissione bicamerale di Adele Magro

Il dibattito che negli ultimi anni va svolgendosi, con sempre maggiore intensità, in ordine a una revisione organica e complessiva del nostro sistema politico e istituzionale, ha di recente concentrato una nuova attenzione, critica e propositiva sul versante regionalistico dell'ordinamento. Già sul finire della X legislatura, la Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati aveva fornito un primo contributo in ordine alla revisione costituzionale dell'ordinamento regionale, mettendo a punto un progetto organico di modifica del Titolo V, parte seconda della Costituzione. Il relativo articolato era stato, poi, trasmesso all'Assemblea e su di esso si era anche aperto il dibattito parlamentare, repentinamente interrotto dal concludersi della legislatura. È opportuno evidenziare che l'iniziativa di revisione costituzionale trovava le sue principali spinte propulsive, oltre che nel tentativo di 'riassorbire' contestazioni e pressioni separatiste, anche nella forte richiesta delle regioni, espressa con plurime prese di posizione dei Presidenti dei Consigli e delle Giun-

te regionali, per un più ampio e stabile riconoscimento di spazi e di autonomia. Pertanto, successivamente, nella XI legislatura il testo unificato licenziato dalla 1a commissione permanente della Camera dei Deputati è stato riproposto come disegno di legge costituzionale di iniziativa parlamentare (Camera n. 120, Labriola e altri). Contemporaneamente, anche la Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali ha elaborato e approvato (L'Aquila, 8/5/1992) un disegno di legge poi recepito e votato, talora con alcune varianti, da singoli Consigli regionali (per primi l'Abruzzo, Camera n. 1455; il Veneto, Senato n. 567; il Piemonte, Senato n. 568) che hanno, così, anch'essi esercitato l'iniziativa legislativa. Infine, la Commissione Parlamentare per le riforme istituzionali istituita con deliberazione della Camera e del Senato del 23 luglio 1992, sulla base dei poteri ad essa attribuiti dalla legge costituzionale n. i del 1993, ha elaborato un progetto organico ed articolato di revisione della parte TI della Costituzione comprendente un'ampia riforma del rapporto Stato-Regioni, comunicato al41


le Presidenze della Camera e del Senato l'il gennaio 1994. Tali rapide indicazioni cronologiche ci consentono di osservare come la spinta verso il "neoregionalismo", ovvero la spinta verso l'ormai improcrastinabile ridefinizione degli ambiti, delle forme e dei limiti assegnati all'autonomia regionale, nonché delle condizioni necessarie alla sua effettività, abbia abbandonato la sede della speculazione e dell'elaborazione scientifico-dottrinale, per intraprendere la strada dei procedimenti formali preordinati alle decisioni politico legislative. In particolare, proponendo un superamento dei tratti del modello regionale segnalatisi come punti di sofferenza del rapporto Stato-Regioni, il progetto di riforma predisposto dalla Commissione bicamerale si pone come tappa fondamentale nel perseguimento dell'obiettivo di dar corpo, nel nostro ordinamento, ad un regionalismo effettivo e maturo. Il presente lavoro si propone, pertanto, di analizzare gli aspetti maggiormente significativi delle proposte della Bicamerale, premettendo, tuttavia, alcune considerazioni critiche sulle vicende e sulle ambiguità del modello regionale finora realizzato nel nostro ordinamento.

IL MODELLO DI AUTONOMIA REGIONALE TRA DETTATO COSTITUZIONALE E SUA ATTUAZIONE

È noto a tutti come il discorso sulle Re42

gioni non sia mai stato facile nel nostro Paese e come la realizzazione dell'autonomia regionale abbia sempre percorso una strada irta di ostacoli, in forte distonia con il disegno costituzionale sul sistema autonomistico, in base al quale la nuova articolazione dei pubblici poteri avrebbe dovuto ispirarsi al principio dell'unità nazionale conciliato con la prospettiva dinamica della promozione del decentramento e delle autonomie locali (art. 5 Cost.). Nelle intenzioni del Costituente si sarebbe dovuto attuare, attraverso le autonomie territoriali, non già un mero decentramento di funzioni pubbliche, ma una figura completa di autogoverno mediante una redistribuzione del potere politico dal centro alla periferia. Si osserva in dottrina (Cuocolo) che quando il Costituente decise la regionalizzazione dello Stato, la scelta fu non tanto nel senso di istituire un nuovo livello di amministrazione locale nel nostro Paese: la finalità era di costruire uno Stato nuovo nel quale i modelli accentrati - in larga misura mutuati nell'800 dall'esperienza francese - potessero sostituirsi con modelli nei quali a un reale pluralismo istituzionale, fondato su autonomie territoriali dotate di ampi poteri, si accompagnasse un forte decentramento del potere statale, attraverso un cospicuo spostamento di competenze dal centro alla periferia. L'istituzione delle Regioni, dunque, rappresentava, in questo disegno, non un ampliamento quantitativo dei momenti di autonomia, ma un vero e pro-


prio salto di qualità, soprattutto per la potestà normativa primaria loro conferita e per il potere che esse avrebbero avuto, in virti'i della riconosciuta autonomia e politicità di compiere le grandi scelte della politica regionale in termini 'strategici' e non di puntuale gestione amministrativa. L'avvio del processo di regionalizzazione dello Stato avvenuto, con ventennale ritardo, nei primi anni Settanta, doveva costituire l'occasione perché il modello costituzionale fosse portato a compiuta attuazione; tuttavia, nella 'costituzione reale' del Paese il prevalere di logiche centralistiche e di accentramento politico-istituzionale ha comportato che il modello della Regione investita della rappresentanza generale degli interessi collegati al suo territorio e perciò dedita alla legislazione di principio e alla attività di programmazione, si sia trovato sostituito da un modello di Regione "amministrativa": l'ampio intervento dello Stato - e non solo con funzione di indirizzo - nella disciplina e nella gestione dei settori trasferiti, ha spinto inevitabilmente le Regioni a ritagliarsi a loro volta spazi di gestione operativi nella sfera dell'amministrazione puntuale. Non è purtroppo possibile, nell' economia del presente scritto, ripercorrere le varie fasi della storia politico-istituzionale del nostro regionalismo, tuttavia si può per lo meno osservare come l'incompletezza della prima e seconda regionalizzazione (scandite essenzialmente dagli undici decreti del '72 e dal

d.P.R. n. 616 del '77), l'uso distorto del limite dell'interesse nazionale e della funzione di indirizzo e coordinamento (per lo più avallati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale), abbiano fortemente attenuato le caratteristiche costituzionali dello Stato regionale, relegando le Regioni entro lo stesso spazio in cui si collocavano le autonomie comunali e provinciali (Cheli). Parallelamente, si è rivelata fallita l'idea della Regione come momento e strumento di riforma dello Stato, essendo prevalsa invece una realta in cui 1 ordinamento regionale è stato inserito quasi come un corpo estraneo nelle vecchie strutture dello Stato accentrato rimaste per gran parte immutate, determinando persistenti fenomeni di rigetto" (così la relazione della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, c.d. Commissione Bozzi, IX legislatura). Solo dalla seconda metà degli anni Ottanta paiono emergere in alcune leggi fondamentali tendenze orientate nel complesso ad una lettura maggiormente autonomista del nostro modello di Stato regionale: la legge n. 400 del 1988 istituzionalizza, all'art. 12, la Conferenza Stato-Regioni, mirando ad accentuare il coinvolgimento delle Regioni nelle grandi scelte della politica nazionale; la legge n. 86 deI 1989 (c.d. legge La Pergola) configura una potestà d'intervento regionale nelle procedure di adeguamento del diritto interno al diritto comunitario; la legge n. 142 del 1990 individua nelle Regioni il perno coordinante dell'intero sistema delle 43


autonomie territoriali. Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale tende a divenire maggiormente 'regionalista' ponendo l'esigenza di una "leale cooperazione" fra Stato e regioni e valorizzando l'adozione da parte del legislatore ordinario di strumenti (quali i pareri obbligatori o le intese) volti a realizzare il c.d. regionalismo cooperativo.

IL PROGETTO DI REVISIONE COSTITUZIONALE

Considerate, dunque, le incertezze che hanno finora caratterizzato il regionalismo italiano, sempre oscillante tra l'esigenza di dare compiuta attuazione al principio autonomistico e le resistenze e le preoccupazioni di stampo centralistico, le istanze e le proposte di neoregionalismo avanzate negli ultimi tempi vanno sostanzialmente interpretate come richiesta di una riforma che consenta il superamento delle ambiguità e delle distorsioni del modello istituzionale finora realizzato. A riguardo, appare ormai pacifico in dottrina il convincimento che il potenziamento e la valorizzazione dell'autonomia regionale debbano seguire una strada diversa dalla mera ridefinizione quantitativa dell'ambito di competenza materiale spettante alle Regioni, per perseguire, invece, l'obiettivo di una vera e propria 'rifondazione' dello Stato. Predominante, infatti, è l'opinione che l'attuale forma di Stato debba essere sottoposta a incisivi mutamenti, per co44

struire un 'nuovo' modello di Stato nel quale, per rispondere pii prontamente alle domande politiche del corpo sociale sia necessario assicurare e garantire dalle ingerenze statali l'autonomia delle Regioni, sia sul piano normativo-amministrativo, sia sul piano organizzativo, sia soprattutto sul piano finanziario. Il nuovo regionalismo, dunque, non può derivare da una disputa quantitativa sulla ripartizione dei pubblici poteri tra Stato e Regioni, ma deve piuttosto basarsi su un 'ripensamento' generale dello Stato e delle Regioni. E certamente la prospettiva della riforma dello Stato e non quella della semplice costruzione dell'ordinamento regionale, pare essere stata prescelta dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali nella riscrittura della parte seconda della Costituzione. Nella relazione conclusiva dell'On. Labriola, relatore per "la forma di Stato" in seno alla bicamerale, si legge infatti che preoccupazione primaria della Commissione è stata innanzitutto la riconsiderazione "della questione dei poteri dello Stato e la necessità di rivederne radicalmente la dislocazione ( ... ) Il percorso logico di politica istituzionale, indicato nell'alveo delle proposte relative alla forma di Stato, non si è dunque ispirato alla opportunità di riallineare il confine tra poteri dello Stato e pòteri delle Regioni, in virtù di un più generoso criterio di applicazione del principio del decentramento politico della Repubblica, ma ad altre e più generali vedute ( ... ) Si è trattato di un'opera com-


plessa ma indispensabile, consistente nel riportare lo Stato nel suo proprio dominio, liberandolo dal peso di compiti impropri, accumulatisi nel primo mezzo secolo del regime repubblicano". Corrisponde a questo intento una delle più rilevanti innovazioni proposte dalla Commissione bicamerale, ovvero il c.d. 'rovesciamento' del criterio di riparto delle competenze tra Stato e Regioni previsto nell'art. 117 Cost.: il sistema attuale, basato sulla definizione specifica delle materie di competenza regionale, viene completamente capovolto, prevedendosi che la competenza dello Stato sia enumerata e tassativa e quella delle Regioni generale e residuale. L'art. 70 della Costituzione (che nella formulazione vigente recita "La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere") è stato, pertanto, riscritto comprendendo un'elencazione delle competenze statali che "ruota intorno alla quadruplice, essenziale determinazione della bandiera (politica estera), della spada (politica militare), della toga (politica della giustizia) e della moneta (governo della finanza)", demandando le altre materie all'intervento legislativo, di tipo esclusivo o concorrente, della Regione. L'enumerazione tassativa delle attribuzioni dello Stato (che non consente altre integrazioni che non siano disposte da ulteriori interventi di revisione costituzionale) deriva, come già osservato, dalla volontà di "assicurare argini adeguati allo straripamento della sfera delle competenze statuali": il carattere

residuale delle attribuzioni regionali implica certamente un forte e qualitativamente significativo allargamento dei poteri regionali e, pur essendo, questo, un effetto indotto e non voluto in via principale, pur tuttavia si traduce nel rafforzamento delle competenze delle Regioni rispetto alle tendenze invasive ed abusivamente occupatrici da parte dello Stato. Già durante le prime fasi di redazione del progetto della Commissione bicamerale, la più attenta dottrina (Elia) invitava a considerare il rovesciamento del criterio di ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni non come un fine, bensì come uno strumento per la realizzazione del principio di sussidiarietà, che impone, in sostanza, di allocare al livello superiore un certo insieme di funzioni solo per ragioni di necessità. Sarebbe stato, pertanto, necessario elaborare, accanto all'affermata tassatività delle competenze enumerate dello Stato, altre griglie di garanzia che preservassero effettivamente il riordino delle competenze tra Stato e Regioni da possibili tendenze riaccentratrici. La Commissione bicamerale ha ritenuto di muoversi in questa direzione elaborando una diversa disciplina costitutiva della legislazione statale di principio, che prevede la sostituzione delle leggi cornice, attualmente previste dall'art. 117, con 'leggi organiche'. Non si tratta, afferma la relazione Labriola, "di un mutamento solo nominale, poiche muta radicalmente il contenuto di principio ditali leggi, e quindi dei limi45


ti che attraverso di esse si costituiscono in concreto per l'attività legislativa regionale di tipo concorrente". A differenza della legge cornice, infatti, la legge organica è espressione di un potere il cui esercizio è facoltativo e non necessario, nel senso che nelle materie in cui le regioni non hanno la competenza legislativa esclusiva lo Stato 'può' (non 'deve') intervenire per fissare i principi. Anche il contenuto delle leggi organiche è diverso da quello delle leggi cornice, estrinsecandosi non più nei 'principi dell'ordinamento', ma solo nei 'principi fondamentali delle funzioni che attengono alle esigenze di carattere unitario'. Questo significa che i principi contenuti nelle leggi organiche dovranno, poi, essere puntualmente giustificati dal rapporto con esigenze di carattere unitario, aprendosi così, eventualmente, la via per un intervento di accertamento di legittimità da parte della Corte costituzionale. E da questo punto di vista, è prevista una specifica possibilità per le Regioni di impugnare la legge organica dinnanzi alla Corte costituzionale, entro trenta giorni dalla sua pubblicazione. Infine, un ulteriore tratto saliente della disciplina della legge organica consiste nel fatto che essa ha per destinatarie le regioni, non i cittadini, il che dovrebbe scoraggiare ogni tentativo di 'incursione' del legislatore ordinario negli ambiti in cui e prevista la competenza della Regione. Altre importanti novità, sempre in ordine al merito della potestà legislativa regionale, riguardano le nuove compe46

tenze della Regione nel settore delle relazioni esterne dello Stato, innovazione assoluta nella tradizione costituzionale repubblicana. L'art. i 17-ter, infatti, configura la fattispecie degli accordi tra le Regioni ed enti territoriali di altri Stati, mentre l'art. i 17-quater rafforza notevolmente il ruolo costituzionale delle Regioni in rapporto all'ordinamento comunitario sia prevedendo l'intervento delle stesse nelle procedure di formazione della volontà dello Stato in relazione agli atti comunitari che incidono sulle materie di loro competenza, sia statuendo che esse diano attuazione alle direttive comunitarie (sempre nelle materie di propria competenza), senza l'interposizione di alcun atto dello Stato (fermo restando, però, il potere sostitutivo statale, essendo sempre lo Stato l'unico soggetto obbligato sul piano internazionale). In effetti, si può osservare come una più accentuata presenza regionale nel 'circuito istituzionale' sia del tutto coerente con le linee di sviluppo della costruzione europea, considerato che il Trattato di Maastricht ha istituito il Comitato delle Regioni (composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali della Comunità, con funzioni di consulenza del Consiglio e della Commissione) proprio a dimostrare l'importanza della rappresentanza regionale nel processo decisionale comunitario. Modifiche all'attuale disegno costituzionale sono previste, inoltre, nel progetto della Bicamerale, con riferimento


alla funzione amministrativa e al suo propagarsi nel sistema complessivo dell'amministrazione locale. Il nuovo testo dell'art. 118 ripartisce la potestà amministrativa (nelle materie non riservate alla competenza dello Stato) fra Regioni, province e comuni in modo sostanzialmente diverso dalle vigenti norme costituzionali, prevedendo che alla regione spettino le funzioni di indirizzo e coordinamento e le funzioni amministrative di carattere unitario regionale, tutte le altre essendo riservate alle province e ai comuni. E "la legge regionale che provvede al riparto", si legge nella relazione Labriola " atto a contenuto vincolato, poiché provvede ad una ricognizione di accertamento, non costitutiva". Tale disposizione, privilegiando nell'allocazione delle funzioni amministrative la dimensione locale in quanto più vicina al cittadino e quindi più adatta a interpretarne e soddisfarne i bisogni, si pone come corretta applicazione del principio di sussidiarietà, nel rispetto della legge n. 142 del 1990 (che pone le autonomie locali come il punto di partenza per la ricostruzione del sistema delle funzioni pubbliche), ma anche della Carta europea delle autonomie locali (che ha definito l'autonomia locale come "il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di disciplinare e gestire, nell'ambito della legge, sotto propria responsabilità e a favore delle proprie popolazioni, una parte importante delle funzioni pubbliche"). Tuttavia, la norma in questione pare

anche rivalutare la posizione costituzionale della Regione quale ente tendenzialmente privo di una burocrazia tradizionale e dotato di compiti non rientranti nella sfera dell'amministrazione puntuale. Pertanto, è evidente come la realizzazione di un tale disegno implichi una rinuncia sostanziale da parte delle Regioni alla gestione delle funzioni per dedicarsi alle grandi scelte di indirizzo e allo svolgimento del proprio ruolo di coordinamento e supporto (attraverso lo strumento legislativo e programmatorio) del sistema delle autonomie, secondo il disegno tracciato dalla sentenza n. 343/9 1 della Corte costituzionale, in riferimento allo spirito della legge n. 142/90. Se già le disposizioni relative alla potestà legislativa ed amministrativa delle Regioni accrescono il valore costituzionale e politico dell'autonomia regionale, le modifiche proposte in relazione all'autonomia finanziaria e all'autonomia politica completano il profilo della riqualificazione costituzionale del maggiore ente territoriale. Circa il primo aspetto, si può sicuramente affermare che la mancata attuazione dell'art. 119 della Costituzione, dedicato alla finanza regionale, rappresenta uno dei punti nevralgici del processo di regionalizzazione nel nostro Paese, dal momento che il sistema di finanza derivata (divenuto prevalente per le Regioni in luogo dei previsti "tributi propri") oltre a costituire un vuinus per lo stesso concetto costituzionale di autonomia regionale e a determi47


nare una forte deresponsabilizzazione dei centri di spesa regionali, ha, in aggiunta, favorito la formazione di una parte assai consistente del deficit pubblico. A riguardo, la Commissione bicamerale, nel nuovo testo del'art. 119, rende irreversibile il principio della finanza propria, partendo dall'assunto che "non può esservi alcuna veritiera autonomia politica della Regione se non si realizza compiutamente un sistema di finanza propria" e sostenendo ancora che "quando ad un soggetto titolare di potestà di governo, compresa quella di fare le leggi, si sottrae il munus forse principale, e cioè l'onere di raccogliere le risorse finanziarie per l'esplicazione di quelle potestà, non è poi concettualmente possibile misurarne l'idoneità pratica nell'azione quale soggetto di governo della comunità interessata". Pertanto, il primo comma del nuovo testo dell'art. 119 definisce l'autonomia finanziaria e l'autonomia dell'imposizione tributaria come "parte costitutiva" dell'autonomia di Regioni, province, comuni. Il secondo comma, rinvia poi ad una legge organica la determinazione delle norme di coordinamento tra la finanza dello Stato e quella degli enti autonomi territoriali: si tratta, nelle intenzioni della Commissione, di "un coordinamento tra fattispecie che restano reciprocamente e rigorosamente separate, e il coordinamento ha proprio il contenuto di assicurare l'integrità di tale separatezza, oltre a prevenire il pericolo immanente nella distribuzione tra più centri di imputazione del48

la potestà tributaria, che è la duplicazione dell'imposizione e l'eccesso di gravosità ai danni del soggetto passivo del rapporto fiscale". Viene, poi, aggiunto un articolo, il 119bis, secondo il quale spetterà alla legge organica stabilire i principi che regolano le entrate delle Regioni, tripartite in: a) tributi propri, istituiti e regolati dalle leggi regionali; b) sovraimposte e addizionali su tributi erariali; c) proventi dalla vendita di beni e di servizi e quote di partecipazione al gettito prodotto nelle singole Regioni da tributi erariali, con particolare riferimento alle imposte indirette. In particolare, quest'ultima previsione, introduce una tematica di notevole delicatezza e, secondo le intenzioni della Commissione, dovrà essere sottoposta ad una corretta lettura che dovrà tenere conto della necessità di assicurare un ragionevole equilibrio tra la diversità delle ricchezze prodotte e detenute nelle singole aree territoriali dello Stato, e l'accesso del cittadino al godimento paritario dei benefici derivanti dall'attività dei pubblici poteri, dovunque essa sia esplicata. L'art. 119-bis prevede, ancora, ipotesi di trasferimenti di risorse dallo Stato alle Regioni, tuttavia si tratta di ipotesi tassativamente enumerate e rigorosamente delimitate (in modo da evitare il riprodursi del sistema di finanza indiretta) e relative ai finanziamenti per la tutela di quelle che vengono definite "Regioni economicamente svantaggiate": è prevista la creazione di un fondo perequativo che, in omaggio al princi-


pio di solidarietà, servirà ad integrare le risorse delle Regioni più deboli, e quote di un ulteriore fondo potranno essere devolute alle Regioni di minore dimensione demografica. In ogni caso, tali trasferimenti dovranno essere fissati d'intesa con le Regioni e non potranno avere vincoli di destinazione. L'ultimo profilo da menzionare concerne il principio dell'autonomia politica delle Regioni, in ordine al quale, afferma la Commissione "deve parlarsi di vera e propria innovazione, anziché di accrescimento". Per la prima volta, infatti, "ad un soggetto diverso dallo Stato si riconosce, nella tradizione unitaria dell'Italia moderna, il potere di fissare le regole del proprio autogoverno, compresa la legge sulla rappresentanza". La riscrittura dell'articolo 122 (che attualmente individua i tratti fondamentali in ordine all'organizzazione del governo regionale), comporta che la Regione possa adottare una diversa disciplina della forma di governo (individuata peraltro nello stesso articolo nello schema c.d. parlamentare di tipo razionalizzato) con disposizioni statutane approvate con la maggioranza dei 2/3 del Consiglio. Con la stessa maggioranza, la Regione potrà adottare anche un sistema elettorale diverso da quello previsto dalla legge dello Stato. La previsione ditali possibilità permetterebbe di procedere verso il superamento dell'uniformità del modello attuale, consentendo alla Regione di conformare e calibrare l'assetto dei propri poteri in funzione del miglior assolvi-

mento delle competenze ad essa spettanti. Nella relazione introduttiva (riportata in allegato) del Presidente della Commissione bicamerale, On. Nilde Jotti, si afferma che la proposta di modifica costituzionale elaborata dalla Commissione "èsalta l'autonomia politica, legislativa e finanziaria delle regioni fino al limite del federalismo In realtà, considerando che i sistemi federali si basano in primo luogo sull'eguaglianza di status costituzionale fra il Governo centrale e le unità periferiche e considerando, in parallelo, il riferimento alle leggi organiche nazionali suscettibili di riprodurre, secondo taluna dottrina, vecchi schemi centralizzatori, si nota quando grande sia la distanza fra i due modelli di Stato. Tuttavia, la trasformazione proposta e importante, collocando il nostro sistema vicino a quelli regionali fortemente accentuati, come quello spagnolo. Ingente è, infatti, il trasferimento delle funzioni: le Regioni acquisiscono competenza 'esclusiva' in materie quali l'agricoltura, il commercio, l'industria, il turismo, la trasformazione professionale, i trasporti locali e regionali, la navigazione e i porti lacustri; e competenza 'concorrente' con lo Stato in materie quali la finanza locale, l'assistenza, la sanità, l'edilizia, gli investimenti nel Mezzogiorno, etc. In termini di nuovi obblighi di spesa, poi, la trasformazione è drastica: secondo i dati riportati da Piero Giarda e da Gianfranco Cerea' la spesa delle Regioni diverrebbe circa la 49


metà della spesa statale, mentre oggi es- con un sistema di prezzi o di imposte sa è circa un quarto. La stessa dottrina, più efficiente, meglio di quanto ciò postuttavia, (in particolare: Giarda) ha sa avvenire se le funzioni pubbliche sempre raccomandando di evitare la vengono svolte a livello nazionale". A spaccatura tra aspetti istituzionali e questi fini, le proposte della Commisaspetti finanziari, osservando come la sione bicamerale che sanciscono l'autoreale portata del processo di decentra- nomia della imposizione tributaria remento sia pesantemente condizionata, gionale (prevedendo, come già osservase non definita, dalle caratteristiche che to, tributi propri istituiti e regolati dalverrà ad assumere l'ordinamento finan- le leggi regionali) e che vanno, dunque, nel senso del c.d. federalismo fiscale, ziario. In altre parole, se in Italia si vorrà real- dovrebbero polarizzare i consensi nemente intraprendere la strada di un re- cessari per la loro approvazione, onde gionalismo accentuato, da contrappor- evitare di ripercorrere le strade del pasre alle spaccature federaliste invocate sato e ritrovarci di fronte a un livello di da alcune forze politiche, si dovrà tener governo regionale del tutto privo di riconto (pur considerando le evidenti di- sorse proprie e dunque vincolato e deversità tra il contesto italiano e quello responsabilizzato. dei Paesi stranieri) dell'esperienza dei sistemi federali in tema di relazioni finanziarie tra il centro e la periferia, ov- IL RAPPORTO TRA REGIONI ED ENTI LOCALI vero della dimensione fiscale-finanziaNella considerazione del rapporto tra ria del federalismo. Il principale insegnamento che si ricava Regione e minori enti territoriali, ocda tali esperienze è quello dell'autofi- corre innanzitutto prendere le mosse nanziamento delle entità periferiche: dalle disposizioni contenute nella vinella maggior parte dei sistemi federali, gente Costituzione che configura, sulla la quota di entrate finanziate con pro- base del principio autonomistico conteprie imposte supera il 50%, laddove in nuto nell'art. 5, Regioni, province e coItalia, attualmente, le Regioni sono di- muni come ordinamenti autonomi (in pendenti dal centro per più del 90% e le quanto enti esponenziali delle comuniloro imposte contribuiscono per meno tà territoriali a ciascuno di essi sottese) e come enti politici a fini generali (dodel 10%. Un regionalismo più autonomo, capace tati cioè della capacità di perseguire fidi maggiori iniziative nei settori strate- nalità e interessi propri della collettivigici dello sviluppo e della qualità della tà rappresentata, secondo un proprio vita, richiede tributi propri, per con- indirizzo politico amministrativo disentire, rileva Giarda, "il finanziamen- stinto da quello dello Stato). La parivato della produzione di beni pubblici lenza qualitativa dell'autonomia degli 50


enti territoriali, porta a scartare la possibilità di instaurare, tra i medesimi, rapporti di natura gerarchica, piramidale, dovendo invece procedersi alla costruzione di strategie e procedure di interazione, affinché i diversi centri autonomi non siano 'monadisticamente' intesi, ma possono raccordarsi nei loro obiettivi e gestire in forma coordinata funzioni interdipendenti. Tuttavia, entrando nel dettaglio delle disposizioni costituzionali contenute nel Titolo V, è lecito osservare come, a riguardo, esse non siano prive di una certa ambiguità. Infatti, procedendo per grandi linee, si può affermare che, da un lato, vengono poste le premesse per una stretta integrazione del sistema amministrativo locale con quello regionale, prevedendo che nelle materie di competenza regionale gli enti minori esercitino in proprio le funzioni di interesse esclusivamente locale loro demandate dalla legge statale, e prevedendo inoltre che le Regioni si avvalgano normalmente degli enti locali, mediante delega o attraverso l'utilizzazione dei loro uffici, per l'esercizio delle proprie attribuzioni (art. 118, 1,111 Cost.). Dall'altro lato, però, il timore della realizzazione di un sistema 'regionocentrico', ha indotto a stabilire degli elementi di separazione fra ordinamento regionale e ordinamento degli enti locali: le Regioni, salvo quelle a statuto speciale, non hanno competenza diretta sull'ordinamento locale, e la legge dello Stato interviene ad attribuire direttamente

funzioni agli enti minori (artt. 128 e 118, I Cost.). Si osserva in dottrina (in particolare, Onida), che di fatto, poi, la tradizione di tutela esercitata dallo Stato sugli enti locali, l'interesse degli apparati centrali e della classe politica nazionale a collegarsi direttamente con la periferia, 'saltando' il livello regionale e l'antica diffidenza delle amministrazioni locali verso la Regione, vista come 'padrone', hanno fatto si che nonostante le strette connessioni tra Regioni ed enti locali, questi ultimi abbiano privilegiato, sostanzialmente, i rapporti col centro, inibendo, così, la possibilità di costruire, nel nostro ordinamento, un vero e proprio 'sistema di autonomie territoriali', caratterizzato da una visione integrata e cooperativa, e non separatista o conflittuale delle autonomie di diverso livello. A queste esigenze ha tentato di dare soddisfazione la legge 8 giugno 1990 n. 142, volta in via primaria a dettare una nuova e organica disciplina per l'ordinamento delle autonomie locali, sino ad allora rimasto ancorato ad una normativa precostituzionale (il Testo Unico del 1934). La portata e le novità della 1. 142 non possono essere esaminate in questa sede, tuttavia giova ricordare come essa miri a valorizzare (quantitativamente e qualitativamente) l'autonomia dei minori enti territoriali, procedendo al riordino della relativa dotazione funzionale (prevedendo, tra l'altro, al riguardo un'incisiva potestà d'intervento regionale anche in senso 'attribu51


tivo' di funzioni) e statuendo forme di integrazione e cooperazione con il livello di governo regionale al fine di creare un sistema di autonomie locali in grado di rispondere alle esigenze di sviluppo civile, sociale ed economico (art. 3 1. 142). Il nuovo testo dell'articolo 128 della Costituzione predisposto dalla Commissione bicamerale, si pone proprio nel senso di costituzionalizzare i principi sanciti nella legge di riforma delle autonomie locali: in base alla nuova formulazione, le provincie e i comuni sono enti autonomi rappresentativi delle comunità locali, ai quali viene riconosciuta autonomia statutaria e sono attribuite funzioni proprie nel quadro della comunità nazionale e regionale; il loro ordinamento, inoltre, è disciplinato dalle leggi regionali secondo i principi fissati dalla legge organica, che determina altresì le forme di autonomia statutaria. La natura concorrente della competenza regionale offre un'importante garanzia nei confronti di eventuali, nuove, tendenze regionocentriche volte a comprimere l'autonomia dei minori enti territoriali e nella stessa direzione pare muoversi la prescrizione specifica che vincola la legge organica a riaffermare il potere statutario degli enti locali. Nelle intenzioni della Commissione, infatti, la potestà statutaria prescritta in Costituzione, limiterebbe "dal basso" la potestà legislativa regionale, già limitata "dall'alto" dalla legge organica in materia di ordinamento 52

delle funzioni delle province e dei comuni. Le organizzazioni rappresentative delle province e dei comuni (Ui, ANcI) che hanno seguito con particolare attenzione, critica e propositiva, lo svolgimento dei lavori della Commissione, ritengono che le proposte da essa approvate possano essere, nel complesso, condivise. Tuttavia, nel Documento dell'Unione delle Province d'Italia del 18 novembre 1993 si afferma che, nonostante le novità che certamente qualificano positivamente il progetto della Bicamerale, il testo constituzionale andrebbe arricchito e perfezionato, al fine di introdurre più specifiche disposizioni di garanzia perché il rappcio Regione-Enti locali non venga concepito in modo piramidale, ma equiordinato, in una dimensione che valorizzi, sulla base dei principi di sussidiarietà, solidarietà e cooperazione ciascun livello di governo territorale. Esempi di tali garanzie aggiuntive potrebbero essere la previsione, in sede di disciplina finale e transitoria, di un termine entro il quale si dovrà realizzare il nuovo assetto istituzionale e la riallocazione da parte delle Regioni delle funzioni proprie dei comuni e delle province, con le connesse risorse organizzative e finanziarie nonché di un potere sostitutivo statale in caso di inerzia regionale; o anche la previsione di un diretto diritto di accesso alla Corte costituzionale da parte di comuni e province, nei confronti delle leggi statali o regionali che ne limitino le sfere di autonomia proprie.


UN REGIONALISMO FORTE SENZA IMPUNTATURE TEORICHE

Il progetto di riforma del Titolo V della Costituzionale elaborato dalla Commissione bicamerale va, palesemente, nel senso di un regionalismo forte, potenziato, che esalta tuttavia l'idea unitaria dello Stato. Il rilancio della politica regionalistica, dopo momenti di stagnazione e di calo di tensione dell'idea regionale (nonché di 'crisi di identit.' delle stesse regioni), dimòstra pertanto come l'ordinamento regionale sia un connotato irreversibile del nostro Stato. Di certo non è stata assente, dai lavori della Bicamerale, la questione del rapporto tra la nozione di Stato regionale e quella di Stato federale, anche se bisogna osservare come la Commissione abbia ritenuto superfluo soffermarsi su questioni puramente teoriche, condividen-

do l'opinione - peraltro prevalente anche nella dottrina italiana - secondo cui la distinzione in questione appare fondata "più su elementi quantitativi che qualitativi e partecipe maggiormente di una tradizione storico-politica che di una qualificazione di stretto diritto positivo, di teoria formale dello Stato" (così la relazione Labriola). La conclusione anticipata della XI legislatura ha impedito che il progetto di legge costituzionale proseguisse il suo iter, a norma dell'art. 138 Cost. Tuttavia, si può ragionevolmente presumere e auspicare, vista l'ampia convergenza di forze politiche in sede di Commissione bicamerale in ordine alla sua approvazione e vista anche la ormai indefettibilità della riforma del nostro Stato, che tale proposta possa essere riconsiderata dal nuovo Parlamento.

Note 'Si veda P. GIARDA e G. CEREA, I contenuti finanziari

di recenti proposte di riforma dell'ordinamento regionale, in «Economia Italiana», n. 2, 1992.

RELAZIONE DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE

Nilde Jotti Relazione La presentazione del progetto di riforma costituzionale da parte della Commissione bicamerale è avvenuta circa un mese prima della data stabilita dalla legge istitutiva della Commissione medesima, esattamente il 7 febbraio 1994. Il testo prevede:

53


una ampia riforma del rapporto Stato-Regioni; nuove regole in materia di formazione del governo con la creazione della nuova figura del Primo Ministro, eletto a maggioranza assoluta del Parlamento, e l'accentuazione del suo ruolo di guida dell'esecutivo; la cosiddetta sfiducia costruttiva; nuove regole in materia di bilanci, decretazione d'urgenza, delegificazione e potere regolamentare del governo, organizzazione della pubblica amministrazione; la durata quadriennale della legislatura e l'ampliamento del potere di inchiesta delle Camere. Il progetto si presenta quindi organico (coglie infatti i punti fondamentali della seconda parte della Costituzione) ma non compiuto, anche rispetto allo schema approvato nella prima parte del lavoro della Commissione sotto la presidenza dell'onorevole De Mita. I motivi di questa incompiutezza sono molti. In primo luogo, per quanto riguarda la riforma del Parlamento, la difficoltà di trovare soluzioni tali da ottenere il consenso del maggior numero di forze poltiche. Va comunque rilevato che si era vicini ad un accordo per quanto riguarda la diminuzione del numero dei membri dèlla Camera da 630 a 400 e del Senato da 315 a 200 e per una certa distinzione dei compiti fra le due Camere. Non si è invece manifestato alcun accordo su una ipotesi di composizione mista del Senato, per metà eletto a suffragio universale e diretto, per metà costituito dai presidenti delle giunte regionali e in caso di grandi regioni anche da consiglieri di maggioranza e di minoranza eletti dal consiglio regionale. Non vi è chi non veda come all'interno di una proposta di modifica costituzionale che esalta l'autonomia politica, legislativa e finanziaria delle regioni «fino al limite del federalismo», la presenza delle regioni in uno dei due rami del Parlamento avrebbe costituito insieme una ragione di unità del Paese e di forte riaffermazione della autonomia delle regioni elevate a concorrere alle decisioni del Parlamento nazionale. Si è preferito perciò non affrontare il tema della riforma del Parlamento se non nella sua interezza. Modifiche parziali avrebbero potuto infatti apparire monche e contraddittorie. Hanno anche pesato le difficoltà di riunire la Commissione in questa fase affannosa della legislature impegnata a discutere e approvare le nuove leggi elettorali per la Camera e per il Senato, e successivamente le leggi finanziarie e di bilancio. Nel testo non è compresa la parte relativa alle garanzie. Giustamente il relatore Acquarone ha insistito per lasciare alla fine, quando il quadro fosse compiuto e le nuove linee tracciate, la definizione delle nuove garanzie. La Commissione è stata d'accordo. Infine l'atmosfera inquieta e carica di minacce, il sempre maggiore numero di inquisiti che ha tolto prestigio al Parlamento, le sempre più accentuate incertezze della situazione politica, ci hanno indotto a presentare il progetto al punto in cui esso è giunto, perché possa restare come documento per il futuro lavoro. La Commissione continua la sua attività per quanto riguarda la nuova legge elettorale regionale. Nilde Jotti, Presidente della Commissione. 54


Progetto di legge Costituzionale

Art. 1. 1. Il primo comma dell'articolo 60 della Costituzione è sostituito dal seguente: «La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per quattro anni».

MMA I. L'articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente: «An. 70. La funzione legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni. Lo Stato ha la competenza legislativa nelle seguenti materie: politica estera, commercio con l'estero e relazioni internazionali; rapporti regolati dagli articoli 7 ed 8; difesa nazionale; sicurezza pubblica; diritti pubblici soggettivi previsti dagli articoli da 13 a 22, 29, 30, 31, 33, 39, 40, 49 e 51; ordinamento giudiziario e degli organi ausiliari previsti dagli articoli 99 e 100; ordinamento della giustizia civile, penale, amministrativa, tributaria e contabile; ordinamento civile e penale e sanzioni penali; contabilità dello Stato; moneta; attività finanziarie e credito sovraregionali; tributi statali; programmi economici generali e azioni di riequilibrio; partecipazioni dello Stato; politiche industriali; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; trasporti e comunicazioni nazionali; disciplina generale della circolazione; grandi calamità naturali e condizioni essenziali dell'igiene pubblica;

tutela dell'ecosistema; beni culturali e naturali di interesse nazionale; ricerca scientifica e tecnologica; tutela della proprietà letteraria, artistica ed intellettuale; previdenza sociale; assicurazioni; ordinamento generale della tutela e della sicurezza del lavoro; ordinameiti e programmazione generale dell'istruzione; ordinamento universitario; materia elettorale, salvo quanto disposto dall'articolo 122; disciplina generale dell'organizzazione e del procedimento amministrativi; opere pubbliche strettamente funzionali alle competenze riservate allo Stato; ordinamento delle professioni; statistica nazionale; pesi e misure; determinazione del tempo; armi ed esplosivi; poste e telecomunicazioni; ordinamenti sportivi di interesse nazionale. È comunque riservata allo Stato la definizione del contenuto essenziale dei diritti riconosciuti nella parte prima della Costituzione. La Regione ha la competenza legislativa, esclusiva o concorrente, in ogni àltra materia. Lo Stato, nelle materie in cui le Regioni non hanno la competenza legislativa esclusiva, può fissare con leggi organiche i princìpi fondamentali delle funzioni che attengono alle esigenze di carattere unitario. Le leggi organiche vincolano le Regioni e non hanno come destinatari i cittadini. I progetti di legge organica sono presentati al Senato della Repubblica e sono approvati a maggioranza dei componenti, previa consultazione con le Regioni. Può essere promosso referendum abrogativo, totale o parziale, di una legge organica solo con il consenso pre55


ventivo di cinque Consigli regionali su un quesito successivamente sottoscritto da cmquecentomila cittadini. Il quesito sottoposto a referendum è approvato se hanno partecipato alla votazione i due terzi degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. Le leggi organiche possono essere derogate solo con espressa previsione. Le Regioni possono ricorrere alla Corte costituzionale perché sia dichiarata l'illegittimità di una legge organica entro trenta giorni dalla pubblicazione della legge stessa».

diata applicazione e di carattere specifico ed omogeneo. Le Camere sono tenute a deliberare sulla conversione in legge dei decreti entro sessanta giorni dalla pubblicazione e non possono modificarli salvo che per quanto attiene alla copertura degli oneri finanziari. I regolamenti parlamentari attribuiscono ai Presidenti i poteri necessari. I decreti perdono efficacia fin dall'inizio se entro sessanta giorni non sono convertiti in legge. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti».

Art.3. Art. 4. 1. L'articolo 77 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 77. Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Il Governo può adottare provvedimenti provvisori con forza di legge, in casi di necessità ed urgenza concernenti la sicurezza nazionale, calamità naturali, l'introduzione di norme finanziarie che debbano entrare immediatamente in vigore o il recepimento e l'attuazione di atti normativi delle Comunità europee, quando dalla mancata tempestiva adozione dei medesimi possa derivare responsabilità dello Stato per inadempimento di obblighi comunitari. Il Governo deve, il giorno stesso, presentare il decreto alle Camere chiedendo la conversione in legge. Le Camere, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. Il Governo non può, mediante decreti, rinnovare disposizioni di decreti non convertiti in legge, né ripristinare l'efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale. I decreti devono contenere misure di imme-

01

1. L'articolo 81 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 81. Le Camere approvano ogni anno i bilanci di previsione, pluriennale e annuale, e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. I bilanci dello Stato devono rispettare il pincipio dell'equilibrio finanziario della parte corrente. Gli emendamenti al disegno di legge di approvazione del bilancio e agli' altri disegni di legge che costituiscono la manovra annuale di finanza pubblica sono ammessi nell'ambito dei limiti massimi dei saldi di bilancio previamente fissati. Disposizioni recanti nuove o maggiori spese o minori entrate possono essere stabilite solo con legge. La legge deve indicare i mezzi per


farvi fronte con riferimento all'intero periodo di efficacia della legge medesima e nel rispetto dei limiti per il ricorso all'indebitamento autorizzati con la legge di approvazione del bilancio. Le norme per l'attuazione dei precedenti commi sono stabilite con legge. Le disposizioni di tale legge non possono essere abrogate né derogate dalle leggi di approvazione o di variazione del bilancio, né dalle leggi di spesa o di entrata».

Art. 5. 1. L'articolo 82 della Costituzione è sostituito dal seguente: «An. 82. Ciascuna Camera dispone inchieste su materie di pubblico interesse su proposta di ciascuno dei suoi componenti. Si procede comunque all'inchiesta, se la proposta è sottoscritta da un quinto dei componenti la Camera. Per lo svolgimento di una inchiesta ciascuna Camera nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione d'inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria. Le Camere possono acquisire, secondo le modalità stabilite dai propri regolamenti, atti, documenti o informazioni, con i soli limiti derivanti dalla legge penale».

Art. 6. 1. L'articolo 92 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 92. Il Governo della Repubblica è com-

posto dal Primo Ministro, dai ministri e dai viceministri. Il Primo Ministro e i ministri costituiscono il Consiglio dei ministri. Il numero dei ministri non può essere superiore a diciotto. La legge determina il numero e le attribuzioni dei viceministri. Le funzioni di ministro e di viceministro sono incompatibili con il mandato parlamentare. Il Primo Ministro è eletto dal Parlamento a maggioranza dei suoi componenti. A tale fine il Parlamento procede per appello nominale, anche con successive votazioni, su candidature sottoscritte da almeno un terzo dei suoi componenti. Se entro un mese dalla prima riunione del Parlamento nessun candidato abbia ottenuto la maggioranza di cui al comma quinto, il candidato è designato dal Presidente della Repubblica. Se il candidato designato dal Presidente della Repubblica non è eletto, il Parlamento è sciolto».

Art. 7. 1. L'articolo 93 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 93. I! Presidente della Repubblica nomina con proprio decreto il Primo Ministro eletto, il quale, prima di assumere le funzioni, presta giuramento nelle sue mani. Il Primo Ministro nomina con proprio decreto i ministri e i viceministri. Allo stesso modo può revocarli. Prima di assumere le funzioni, i ministri prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica e i viceministri prestano giuramento nelle mani del Primo Ministro». 57


Art.8. 1. L'articolo 94 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 94. Il Parlamento può esprimere la sfiducia al Primo Ministro solo mediante l'approvazione di una mozione motivata, contenente l'indicazione del successore, con votazione per appello nominale a maggioranza dei suoi componenti. La mozione di sfiducia deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei componenti il Parlamento e non può essere messa in discussione prima che siano trascorsi tre giorni dalla presentazione. La nomina del nuovo Primo Ministro da parte del Presidente della Repubblica comporta la revoca del Primo Ministro e la decadenza dei ministri in carica. In caso di dimissioni del Primo Ministro, di morte o di impedimento permanente all'esercizio delle funzioni, il Parlamento elegge il successore secondo le procedure dell'articolo 92. L'impedimento permanente del Primo Ministro è dichiarato congiuntamente dal Presidente della Camera dei deputati, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Corte costituzionale, previo accertamento da parte di un collegio medico dagli stessi designato. Il Primo Ministro dimissionario non è immediatamente rieleggibile».

Art.9. 1. L'articolo 95 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 95. Il Primo Ministro dirige la politi58

ca generale del Governo e ne è responsabile. Promuove e coordina l'attività dei ministri. Il Primo Ministro ed i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri. I ministri sono individualmente responsabili degli atti dei loro dicasteri. La legge provvede all'ordinamento del Governo e determina le attribuzioni e l'organizzazione dei ministeri. I ministeri possono essere istituiti solo nelle materie riservate alla competenza dello Stato».

Art. IO. 1. Dopo l'articolo 95 della Costituzione è inserito il seguente: «Art. 95-bis Il Governo esercita la potestà regolamentare nelle materie di competenza statale non riservate dalla Costituzione alla legge. L'esercizio della funzione regolamentare è disciplinato dalla legge, che determina il procedimento, la pubblicità e l'efficacia dei diversi tipi di regolamento. Le norme di attuazione delle leggi e degli atti con forza di legge sono riservate alla fonte regolamentare. Nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge, il Parlamento determina con legge le linee fondamentali della disciplina del settore stabilendo principi e criteri direttivi nel rispetto dei quali il Governo esercita la potestà regolamentare. La Corte dei Conti, ove nell'esercizio del controllo preventivo di legittimità riscontri violazione della riserva di legge o delle norme di principio di cui al comma precedente, sottopone la questione di legittimità del regolamento al giudizio della Corte costituzionale. La questione può essere sollevata anche da un quinto dei componenti di ciascuna Camera».


Art. 11.

Art. 13.

1. L'articolo 97 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 97. I pubblici uffici sono organizzati con regolamenti sulla base di principi stabiliti dalla legge, in modo che siano assicurati l'imparzialità, la trasparenza e l'efficienza dell'amministrazione. La legge assicura il diritto di accesso agli atti ed ai procedimenti dell'amministrazione e ne disciplina le forme ed i limiti. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti in via generale e preventiva dalla legge».

1. L'articolo 117 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 117. La Regione ha la competenza legislativa nelle materie che non sono riservate allo Stato. La Regione ha la competenza esclusiva, in armonia con la Costituzione e con i princìpi generali posti dalle leggi di riforma economicosociale dello Stato, nelle seguenti materie: agricoltura e foreste; commercio; industria; artigianato; assetto urbanistico del territorio; turismo; formazione professionale; polizia urbana; musei e biblioteche di enti locali; trasporti locali e regionali; navigazione e porti lacustri; cave e torbiere; pesca nelle acque interne. Nelle altre materie, la legge regionale rispetta i principi fissati dalle leggi organiche. Le norme della legge regionale non devono essere in contrasto con l'interesse nazionale o con quello delle altre Regioni. Le relative controversie sono definite dal Parlamento. Le leggi dello Stato possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione».

Art 12 I. L'articolo 116 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 116. Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d'Aosta sono attribuite, con legge costituzionale, forme e condizioni particolari di autonomia con competenze esclusive nelle materie non riservate allo Stato. Gli statuti speciali sono adottati con legge costituzionale su proposta di ciascuna Regione e previa intesa della medesima Regione sul testo approvato da entrambe le Camere nella prima lettura. Gli statuti speciali possono indicare materie nelle quali Stato e Regioni esercitano competenze concorrenti. Gli statuti speciali definiscono forme ed istituti di cooperazione tra Stato e Regioni».

Art. 14. i . Dopo l'articolo 117 della Costituzione è inserito il seguente: «Art. 117-bis. Le Regioni, in singole materie di propria competenza, possono stipulare accordi fra di loro ed istituire organismi comuni. 59


L'accordo è stipulato dal Presidente della Regione previa autorizzazione del Consiglio o della Giunta regionale secondo le rispettive competenze. Lo Stato disciplina con legge organica le relative procedure».

Art. 15. 1. Dopo l'articolo 117-bis della Costituzione è

inserito il seguente: «Art. 117-ter. La Repubblica promuove, nelle relazioni internazionali, la stipulazione di trattati che consentano accordi tra le Regioni ed enti territoriali di altri Stati. La legge dello Stato disciplina le relative procedure».

Art. 16. 1. Dopo l'articolo 117-ter della Costituzione è inserito il seguente: «Art. 117-quater. La Regione partecipa, nei modi previsti dalla legge, alle procedure di formazione della volontà dello Stato in relazione agli atti comunitari che incidono sulle materie di competenza regionale. La Regione dà attuazione alle direttive della Comunità europea nelle materie di propria competenza. Lo Stato esercita il relativo potere sostitutivo. Le Regioni designano i componenti degli organi comunitari destinati a rappresentarle, secondo modalità stabilite con legge dello Stato ed in conformità agli accordi comunitari». 1.101

Art. 17. 1. L'articolo 118 della Costituzione è sostituito dal seguente: «An. 118. Le funzioni amministrative nelle materie non riservate alla competenza dello Stato spettano alle Regioni, alle Provincie e ai Comuni. La legge regionale riserva alla Regione le funzioni di indirizzo e di coordinamento e le funzioni amministrative di carattere unitario regionale. La legge regionale attribuisce alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali tutte le altre funzioni amministrative. Lo Stato può con legge delegare alla Regione l'esercizio di altre funzioni amministrative».

Art. 18. 1. Dopo l'articolo 118 della Costituzione è inserito il seguente: «Art. 118-bis. Nell'esercizio delle funzioni di eminente valore sociale, la Regione garantisce a ciascun cittadino la prestazione minima prevista dalla legge organica. La legge organica prevede le procedure per l'esercizio dei poteri sostitutivi dello Stato in caso di inadempienza della Regione dopo motivato richiamo».

Art. 19. 1 . L'articolo 119 della Costituzione è sostituito dal seg.iente: «An. 119. L'autonomia finanziaria e l'autonomia della imposizione tributaria sono parte costitutiva dell'autonomia di Regioni, Provincie e Comuni. La legge organica detta norme per il coordinamento tra la finanza dello Stato, la finanza delle Regioni e la finanza di Provincie e Comuni».


Art.20. 1. Dopo l'articolo 119 della Costituzione è inserito il seguente: «Art. 119-bis. Alle Regioni competono, secondo i principi stabiliti da legge organica: tributi propri istituiti e regolati dalle leggi regionali; sovraimposte e addizionali su tributi erariali; proventi derivanti dalla vendita di beni e servizi; quote di partecipazione al gettito prodotto nelle singole Regioni da tributi erariali con particolare riferimento alle imposte indirette. L'assunzione di prestiti e di impegni di spesa in annualità può essere disposta dalle Regioni nei limiti stabiliti dalla legge organica. Per la tutela delle Regioni economicamente svantaggiate lo Stato istituisce un apposito fondo perequativo il cui ammontareuè definito in misura non superiore a quanto necessario per compensare la minore capacità di produrre gettiti tributari e contributivi rispetto alla media nazionale per abitante. Quote di un ulteriore fondo possono essere devolute alle Regioni di minore dimensione demografica per compensare le maggiori spese per abitante cui queste sono soggette per l'erogazione di servizi. I trasferimenti sono fissati d'intesa con la Regione. I trasferimenti dello Stato derivanti dai fondi perequativi non possono in ogni caso avere vincoli di destinazione. Per provvedere a scopi determinati lo Stato può intervenire con finanziamenti aggiuntivi, d'intesa con le Regioni interessate. Le leggi dello Stato che attuano delega di funzioni alle Regioni adeguano i mezzi finanziari a disposizione delle medesime, attraverso una corrispondente ridefinizione delle quote di partecipazione al gettito di tributi erariali.

Le Regioni hanno un proprio demanio e patrimonio secondo le modalità stabilite con legge dello Stato',.

Art.21. 1. L'articolo 121 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 121. Sono organi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente. Il Consiglio regionale esercita le potestà legislative attribuite alla Regione e ogni altra funzione conferitagli dalla Costituzione e dalla legge; determina con legge i limiti e le modalità di esercizio della potestà regolamentare del Consiglio, della Giunta e del Presidente della Regione. Può presentare proposte di legge alle Camere. La Giunta regionale è l'organo esecutivo della Regione. Il Presidente della Giunta rappresenta la Regione; promulga le leggi ed i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative, incluse quelle delegate dallo Stato alla Regione per le quali si conforma alle istruzioni del Governo centrale. I pubblici uffici della Regione sono organizzati con regolamenti sulla base di princìpi stabiliti dalla legge regionale, in modo che siano assicurati il buon andamento, il diritto di accesso, la trasparenza e l'imparzialità dell'amministrazione»

Art. 22. 1. L'articolo 122 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 122. Il sistema di elezione, il numero e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali sono stabiliti con legge 61


dello Stato, approvata secondo il procedimento fissato per le leggi organiche. Nessuno può appartenere contemporaneamente a un Consiglio regionale e ad una delle Camere o al Parlamento europeo o ad un altro Consiglio regionale. Il Consiglio elegge nel suo seno un presidente e un ufficio di presidenza per i propri lavori. I consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Il Presidente della Giunta è eletto a scrutinio palese dal Consiglio tra i suoi componenti, e nomina e revoca i componenti della Giunta medesima. L'ufficio di consigliere regionale è incompatibile con quello di componente della Giunta. Il Consiglio revoca il Presidente della Giunta con votazione a maggioranza dei propri componenti, su mozione che indica contestualmente il nome del nuovo presidente della Giunta. La Regione può adottare una diversa disciplina della forma di governo con disposizioni statutarie approvate con la maggioranza dei due terzi dei consiglieri assegnati al Consiglio regionale e, con la stessa maggioranza, può adottare con legge regionale un sistema di elezione dei consiglieri regionali diverso da quello stabilito dalla legge dello Stato. Un quinto dei consiglieri regionali o un ventesimo degli elettori della Regione possono chiedere che le disposizioni statutarie o legislative di cui al presente articolo vengano sottoposte a referendum popolare entro tre mesi dalla pubblicazione delle disposizioni medesime nel Bollettino Ufficiale della Regione. Le disposizioni sono approvate se ottengono il consenso della maggioranza degli aventi diritto».

62

Art. 23. 1. Nell'articolo 123 della Costituzione, il primo comma è sostituito dal seguente: «Ogni Regione ha uno statuto il quale, in armonia con la Costituzione e con le leggi dello Stato, stabilisce le norme relative all'organizzazione interna della Regione. Lo statuto regola l'esercizio del diritto di iniziativa e dei referendum abrogativi, confermativi o consultivi, su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione. Al referendum si applicano i limiti stabiliti dall'articolo 75 in relazione a materie di competenza regionale. Lo statuto regola inoltre la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali».

Art. 24. 1. Nell'articolo 125 della Costituzione, il primo comma è sostituito dal seguente: «Il controllo di legittimità sugli atti amministrativi della Regione è esercitato, nei casi, nei limiti e con le modalità stabiliti con legge dello Stato, da sezioni decentrate della Corte dei conti».

Art. 25. 1. L'articolo 126 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 126. Il Consiglio regionale può essere sciolto quando compia atti contrari alla Costituzione o gravi e persistenti violazioni di legge e quando si verifichino dimissioni o decadenza di oltre la metà dei consiglieri ovvero sia accertata l'impossibilità di formare una maggioranza. Lo scioglimento è disposto con decreto motivato del Presidente della Repubblica, sentita


una Commissione di deputati e senatori costituita, per le questioni regionali, nei modi stabiliti con legge dello Stato. La stessa Commissione esprime altresì parere per la decisione della questione di merito per contrasto di interessi promossa dal Governo davanti al Parlamento. Con il decreto di scioglimento è nominata una Commissione di tre cittadini eleggibili al Consiglio regionale, che indìce le elezioni entro tre mesi e provvede all'ordinaria amministrazione di competenza della Giunta e agli atti improrogabili, da sottoporre alla ratifica del nuovo Consiglio».

Art.26. Nell'articolo 127 della Costituzione, il primo comma è sostituito dal seguente: «Ogni legge approvata dal Consiglio regionale è comunicata al Commissario il quale deve vistarla nel termine di quaranta giorni dalla comunicazione, sempre che nel medesimo termine il Governo non promuova la questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale o quella di merito per contrasto di interessi davanti al Parlamento. Sulle questioni di merito, le Camere decidono nei modi e nei termini stabiliti dai regolamenti parlamentari». 2. Nel medesimo articolo 127 della Costituzione i commi terzo e quarto sono abrogati.

Art27 1. L'articolo 128 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 128. Le Provincie e i Comuni sono enti autonomi rappresentativi delle comunità locali. Ad essi è riconosciuta autonomia statutaria e sono attribuite funzioni proprie nel quadro della comunità nazionale e regionale. L'ordinamento e le funzioni delle Province e dei Comuni sono disciplinati dalle leggi regionali secondo i princìpi fissati dalla legge organica, che determina altresì le forme di autonomia statutaria».

Art. 28. Nell'articolo 130 della Costituzione, il primo comma è sostituito dal seguente: «Sezioni decentrate della Corte dei conti esercitano, nei limiti e con le modalità stabiliti da leggi dello Stato, il controllo di legittimità sugli atti delle Provincie, dei Comuni e degli altri enti locali». Nel medesimo articolo 130 della Costituzione il secondo comma è abrogato.

Art. 29. 1. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, e in ogni caso fino a quando entro questo stesso termine non sia stata approvata la legge organica, la Regione può legiferare nelle singole materie nel rispetto dei princìpi stabiliti dalle leggi statali gia vigenti e organizza il conseguente trasferimento delle strutture amministrative dello Stato, previa intesa con lo Stato.

63


Passato e presente della questione settentrionale A partire da un libro di Robert D. Putnam di Francesco Sidoti

Affronteremo il problema relativo alla "questione settentrionale" in Italia a partire dal dibattito suscitato dal recente volume 1 di Robert D. Putnam, scritto con la collaborazione di Robert Leonardi e Raffaella Y. Nanetti, che ha riscosso uno straordinario successo internazionale. In una recensione dell"Economist"2 Si afferma che l'opera in questione può stare a fianco dei classici di Tocqueville, Pareto, Weber. Il giudizio è condiviso da molti osservatori; tuttavia, proprio come avviene per i classici, alcune cose possono essere aggiunte e altre precisate in riferimento alle tesi sostenute da Putnam e dai suoi collaboratori. Le due idee preminenti del volume sono relative l'una all'importanza del senso civico, fondato sulla fiducia e sulla cooperazione spontanea, e l'altra alla profonda influenza che la storia può esercitare sul funzionamento delle istituzioni anche a molti secoli di distanza. Attraverso una complessa ricerca quantitativa e una brillante analisi qualitativa, Putnam mostra che esiste una correlazione tra il funzionamento odierno delle istituzioni in Italia meridionale e in Italia settentrionale con le loro ri64

spettive tradizioni di senso civico. A due tradizioni molto diverse corrisponde un rendimento molto diverso. La storia (e in particolare la storia del senso civico) condiziona il funzionamento delle istituzioni. La vicenda del Mezzogiorno italiano è una lezione obiettiva per molti Paesi del Terzo Mondo, dell'America Latina e della ex-Unione Sovietica. Se manca il senso civico, la strada della democrazia è tutta in salita. Vorrei riferirmi soltanto ad alcuni aspetti (tralasciando varie altre annotazioni che potrebbero essere fatte, in merito ad esempio alle valutazioni del cattolicesimo italiano e del comunismo italiano), e mi propongo di mostrare la plausibilità di tre argomentazioni: il senso civico è un segmento della storia di ogni Paese: pezzi diversi del passato possono esercitare un'influenza considerevole in un senso o in un altro; l'influenza esercitata dal passato sul presente dipende da molti fattori, e innanzitutto dai rapporti preminenti nel presente (non da quelli del passato); il senso civico è un classico ideale umanistico, che protrebbe essere considerato secondario se fossero ritenuti preminenti gli obiettivi della potenza e


della ricchezza, che sono conseguenze dei rapporti di forza esistenti tra aree geopolitiche conflittuali. Tutte e tre queste argomentazioni sono aggiuntive rispetto a quelle sostenute da Putnam nel suo volume, e convergono nel mettere in rilievo un problema di fondo: insieme alla questione meridionale c'è in Italia come in tante altre parti del mondo3 una questione settentrionale che non dovrebbe essere trascurata al momento di fare il bilancio dei problemi esistenti nei vari contesti nazionali.

TANGENTOPOLI, UNO SPARTIACQUE

Nella ricerca di Putnam esistono limiti inevitabili derivanti dalla stesura del rapporto finale di ricerca in data anteriore all'esplosione di Tangentopoli; ora, sulla base dei documenti di riflessione offerti dalla magistratura, è più problematico celebrare la superiorità del senso civico del Nord rispetto al Sud del Paese (il punto è sottolineato ironicamente anche da "Foreign Affairs" 4, che nonostante questo cenno critico usa termini elogiativi simili a quelli usati dall" 'Economist"). Nonostante i meriti della ricerca di Putnam, per molti motivi puù risultare discutibile il punto d'arrivo: la netta dicotomia tra il cambiamento velleitario dall'esterno e il buon cambiamento dall'interno attraverso dosi massicce di impegno civico. Il volume rimarrà come un'impareggiabile dimostrazione

delle benefiche conseguenze plurisecolan dell'associazionismo e del civismo, ma alcuni problemi rimangono aperti alla discussione - in particolare quelli relativi al peso dei rapporti di forza e di potere. E importante non dimenticare che le società sono almeno in parte una continuazione delle guerre vinte o perdute, così come le guerre sono in parte una continuazione della politica mentre, nei due secoli dal 1789 al 1989, la politica è stata intesa per alcuni versi come un'attività simile alla guerra 5 Sul piano della interpretazione di avvenimenti recenti della cronaca italiana il volume di Putnam non sempre ha molto da dire, e alcuni suoi critici si affannano inutilmente a fare le pulci a questa o quella affermazione (come spesso avviene, un grande successo attira anche commenti pregiudizialmente ostili). Ad esempio, tutta la ricerca di Putnam si regge sulla contrapposizione netta tra Nord e Sud, ma i risultati elettorali possono a volte confermare e altre volte no questa contrapposizione, per il semplice motivo che sui risultati elettorali influisce un'ampia serie di fattori causali. In un certo senso, le elezioni sono più condizionate da fattori strettamente politici, mentre altre forme di consultazioni popolari riflettono la differenza tra Sud e Nord in maniera meno mediata. Dunque, non dovremmo meravigliarci se nelle elezioni del 1994 le due Italie non vengono allo scoperto e troviamo affinità nei risultati elettorali dell'Emilia e della Calabria, che nella speciale graduatoria di Put.

65


nam sarebbero le due regioni più diverse d'Italia; è più interessante notare che nel referendum del 1992 le differenze tra le due Italie sono risultate nette: nel Nord le percentuali medie del voto per il "si" erano state del 70 per cento, mentre nel Sud le percentuali medie del "si" erano state del 50 per cento. Anche dal punto di vista di Tangentopoli, poi, Nord e Sud non sono affatto una realtà omogenea. Il problema della criminalità organizzata fa la differenza: negli anni finali della prima repubblica, nel Nord sono avvenute prevalenten . storie di ordinaria corruzione; nel Mezzogiorno il rapporto tra imprenditori e politici ha visto anche la partecipazione della criminalità organizzata, e infatti nei confronti di molte imprese è scattata l'incriminazione per associazione a delinquere.

LE DIFFERENZE TRA

Noiw E SUD

Nei confronti del Mezzogiorno, Putnam per certi versi è stato troppo buono, e per altri versi non lo è stato affatto. Nello stesso libro, troppo e troppo poco. E stato troppo buono perchè non ha infierito come avrebbe potuto nel sottolineare le differenze tra le due aree del Paese. Di recente, è stato di moda deprecare le vecchie letture dualistiche dell'Italia (secondo alcuni studiosi sarebbero smentite, ad esempio dallo sviluppo a macchia di leopardo); giustamente Putnam le ha riprese. Ma non fino in fondo; si potrebbe compilare una T.

carta statistica dell'Italia costruita soltanto su queste differenze: le aree meridionali risultano diverse rispetto a quelle settentrionali in riferimento a quasi tutti i parametri che contano per valutare la modernità o la vivibilità di un sistema. Dal prodotto lordo all'analfabetismo, dai parcheggi ai metri quadrati di. verde per abitante, dalle percentuali di assistenti sociali a quelle di donatori di organi, dal numero di omicidi al numero di epatiti virali, dal numero di quotidiani venduti per abitanti al numero di istituti in cui è possibile studiare lingue straniere, dal numero di giocatori di calcio in serie A al numero di segnalazioni sulle guide gastronomiche. Dal punto di vista giornalistico è stato sostenuto che il Sud è un inferno; dal punto di vista sociologico si può tranquillamente dimostrare che si tratta di un'area molto diversa da quella settentrionale. Non solo in riferimento al 1993: punto per punto, per quanto è possibile andare indietro nel tempo, le differenze sono notevoli e inoppugnabili. In questo senso Putnam è stato troppo buono, quando si è limitato a mettere in rilievo le differenze nelle tradizioni di impegno civico. Un aspetto è decisivo per intendere a pieno lo spessore della diversità tra Sud e Nord del Paese: il Mezzogiorno d'Italia appartiene al Mediterraneo sotto molti profili, dalla temperatura agli stili di vita quotidiani; il Settentrione d'Italia, invece, non appartiene all'Europa in maniera generica, ad esempio per quanto riguarda la vicinanza geografica, o la nebbia, o l'o-


ra preferita per la cena; appartiene (o, per meglio dire, è parte costitutiva) della storia migliore dell'Europa capitalistica e borghese. Il divario non è tra una parte economicamente sviluppata e una parte economicamente meno svilluppata, ma tra un'area geografica che non ha sperimentato uno sviluppo capitalistico e un'area geografica che è stata nientemeno la culla dello sviluppo capitalistico. Tra Genova e Venezia, tra Firenze e Milano, nascono la mentalità e gli strumenti di base del capitalismo: dalla partita doppia alla banca, dalla lettera di cambio all'impresa propriamente moderna, dall'arte rinascimentale alla separazione di politica e morale. Milano era nel XIII secolo la città più popolosa e più ricca d'Europa, mentre di lì a qualche anno Firenze diventa una nuova Atene, e Venezia da piccolo protettorato bizantino diventa capitale di un prodigioso impero commerciale che stende i suoi intrecci fino all'India e alla Cina. Nello stesso periodo Napoli "era più simile a una città orientale che alle altre sue consorelle italiane" 6 Purtroppo, per i meridionali, per alcuni secoli tutto il Mezzogiorno attraversa a rotta di collo una spaventosa parabola discendente, che seguita passo dopo passo sembra una sorta di persecuzione del destino. Putnam condivide l'interpretazione di quegli specialisti secondo i quali il momento di svolta è costituito dal feudalismo centralizzatore dei Normanni, che impedì l'autonomia delle città e bloccò i primi esperimenti .

di sviluppo comunale e capitalistico. Secondo altri studiosi, sulla scia delle tesi di Henry Pirenne, il declino iniziò quando il Mediterraneo diventò a partire dal VII secolo "un lago mussulmano", con conseguenze enormi in termini commerciali, economici, demografici, civili. La crisi del Mezzogiorno sarebbe tutta intera dentro il declino e le tensioni del Mediterraneo, che notoriamente continuano ancor oggi, mantenendo una situazione di precarietà per. quasi tutti i Paesi che gravitano nell'area. Come la storia dell'Italia del Nord va vista dentro la storia dell'Europa, così la storia del Mezzogiorno va vista dentro la storia del Mediterraneo. Comunque, e anche su questo punto ha certamente ragione Putnam, il risultato finale della dominazione dei Normanni (non ultimi "uomini del Nord" che ebbero la meglio grazie alle armi contro gli uomini del Sud) fu che il Mezzogiorno rimase impigliato negli aspetti deleteri del sistema feudale, e non conobbe quella alacre e sontuosa fase di sviluppo cittadino che è palpabile ancora oggi da Bergamo a Cremona, da Parma a Verona; in tal modo si consolidò una netta differenza, tra due Italie, che fu poi aggravata ed esasperata da un'altra serie di fattori nefasti. Dalla fine del XVI secolo il centro del capitalismo si spostava verso l'Europa settentrionale: anche l'Italia del Nord si confronta con il problema di una ralativa marginalità; ma il Sud accumula questo ulteriore ritardo con quello precedente e lo somma in una lista lunga, e che continuerà a infit67


tirsi paurosamente. Quando sull'Europa meridionale si abbatte la politica repressivo-inquisitoria di Filippo 11, il Mezzogiorno diventa un'area dominata dal modello controriformistico, e destinata a rimanere imprigionata nell'occupazione straniera più inetta e predatoria, dunque nella stagnazione, nella povertà, nella instabilità politica e sociale, nella illegalità che assume forme endemiche e di massa. Nel Settecento non avviene nel Mezzogiorno colonizzato l'incontro tra cultura illuministica e riforme promosse dai poteri pubblici (ni Settentrione di Maria Teresa, invece sì); all'inizio dell'Ottocento le leggi eversive della feudalità vengono applicate nella maniera peggiore; nella seconda metà dell'Ottocento l'arrivo degli eserciti piemontesi (secondo la nota requisitoria di Francesco Saverio Nitti) diede corso a una nuova forma di occupazione coloniale. E così via. Se questa interpretazione coglie nel segno, allora il cambiamento o il non cambiamento sono anche, almeno in certa misura, una conseguenza dei rapporti di forza. Dopo aver ripercorso la triste storia dell'Italia meridionale (e dopo avere ricordato vari altri episodi negativi rispetto al quadro per molti versi meno fosco dipinto da Putnam), il primo aspetto che salta agli occhi è la sequenza di sconfitte militari e di occupazioni straniere. Per quanto si possa considerare tragica l'eredità storica del Mezzogiorno e luminosa quella del Settentrione, non risulta comunque convincente l'idea che i guai attuali del Mezzogior68

no, a cominciare dal cattivo funzionamento delle sue istituzioni, sono una conseguenza delle differenti tradizioni di senso civico. La mancanza di senso civico dipende a sua volta da molti fattori, e non per ultimo da una lunga serie di sconfitte militari.

TRAPASSATO REMOTO E PASSATO PROSSIMO

In una precedente pubblicazione sullo stesso tema7, Putnam, Leonardi e Nanetti avevano sottolineato che lo sviluppo socio-economico è correlato con il rendimento istituzionale, anche se in termini eteroschedastici. In generale, l'analisi empirica conduceva alla conclusione che il livello della performance istituzionale nelle regioni italiane era condizionato dall'intreccio di tre variabili: sviluppo socio-economico, stabilità sociale, cultura politica. Continuando e approfondendo la ricerca gli autori sono giunti a conclusioni diverse, e hanno dato preminenza alla continuità storica della cultura politica. Forse per sottrarsi alle critiche tipiche nei confronti delle spiegazioni monocausali, Putnam, in un certo senso, prima tira la pietra e poi nasconde la mano. Prima mette in gran rilievo il peso del passato, e in pagine cospicue e incisive sottolinea sia che Palermo potrebbe essere il futuro di Mosca, sia che la lezione è valida anche per altri contesti, come l'America Latina. Ma in altre pagine lo stesso Putnam dice che il Sud è quello che è perché intrappolato in una


struttura che rende la cooperazione dif ficile e in un certo senso addirittura irrazionale. Questa argomentazione assomiglia molto, in estrema sintesi, ad una vecchia critica di Pizzorno a Banfield; ma viene ripresa soltanto in parte: Putnam non se la sente di dire che non c'è niente da fare, e che questa periferia, disgraziata è condannata a rimanere più o meno dov'è adesso. Afferma che c'è speranza, di fatto però sembra molto vicino all'interpretazione pessimistica, tanto è vero che dopo tanta diagnosi non presenta altrettanto sul piano della terapia (tranne delle brevissime aperture a favore di quel cambiamento che tùtti si augurano, ognuno a modo suo). Nelle pagine finali Putnam mette in evidenza la disperazione di un politico meridionale, a sentire di essere "condizionato" da ciò che è accaduto molti secoli prima. Ammettiamo pure che il passato sia importante come sembra a quel politico meridionale. Il peso della storia può esere considerevole, ma non schiacciante. Se fosse schiacciante, cadremo vittime di un determinismo inverosimile, per il quale ognuno sarebbe condannato a rimanere sempre al punto in cui si trova. La storia è ovviamente molto importante, ma il determinismo storico è un controsenso. Anche Braudel, che meglio di ogni altro ha argomentato l'importanza della longue durée e della tesi secondo la quale "il passato rivive in noi, e a nostre spese", non era una determinista 8 . Putnam esplicitamente rifiuta il determinismo,

ma un lettore distratto potrebbe incorrere in un fraintendimento. Nel caso specifico è sicuro che un sistema ritagliato su misura degli interessi nazionali più forti (che non erano altruisti, né inerti, né residenti nel Mezzogiorno) ha favorito l'emergere e l'affermarsi di quel che c'era di peggio nella storia meridionale. Un diverso sistema politico, economico, istituzionale, avrebbe potuto favorire l'affermarsi di quel che c'è di meglio nella società meridionale e nei meridionali. Quel profondo contrasto di esperienze storiche tra Sud e Nord esiste certamente ma avrebbe potuto esercitare un peso inferiore ifl un contesto diverso. Qui Putnam è stato ingeneroso nei confronti del Mezzogiorno: perché ha sottovalutato i vincoli esercitati dal quadro politico-istituzionale nazionale. Il libro è stato scritto prima di Tangentopoli; adesso dobbiamo rileggere la storia recente dell'Italia meridionale non meno della storia remota. Buona parte della vecchia classe dirigente nazionale è imputata per i reati più turpi (dall'associazione a delinquere di stampo mafioso alla concussione aggravata). E possibile non chiedersi quanto è colpa del trapassato remoto e quanto è colpa di un sistema politico che fra l'altro ha permesso il proliferare di reati siffatti? 9. Putnam ha trovato importanti correlazioni tra networks di impegno civico e rendimento delle regioni, ma mi sembra difficile non integrare la spiegazione di queste correlazioni con altri riferimenti (anche perché lo stesso Putnam in altre 69


parti del volume dà molta importanza ai fattori istituzionali). Il tema dei condizionamenti esercitati dai rapporti di forza è rilevantissimo nell'analisi dell'associazionismo, che merita varie precisazioni su un piano strettamente storiografico. E vero che l'associazionismo non si sviluppa nel Mezzogiorno in maniera paragonabile con quanto avveniva nel Settentrione, ma è bene apprezzare insieme alle connessioni con una storia secolare anche quelle con gli avvenimenti specifici della storia unitaria del Paese. Sul punto mi pare che sia assolutamente degno di considerazione quanto da più parti viene sottolineato, e cioè che associazionismo, cooperativismo e mutualismo non crebbero nel Mezzogiorno anche perché i meridionali dovettero confrontarsi con la tariffa doganale del 1887 e con la successiva crisi agraria, che stroncò l'esportazione dei prodotti agricoli mediterranei. Il contesto nazionale del mancato sviluppo dell'associazionismo è: impoverimento crescente dell'agricoltura meridionale, flussi migratori biblici, disinteresse dei poteri pubblici nei confronti dell'analfabetismo, rete viaria inadatta persino a sostenere gli scambi tra le varie località del Mezzogiorno, che era tagliato fuori dal commercio nazionale ed internazionale. Gli interessi della borghesia agraria del Sud e quelli dei gruppi industriali del Nord ebbero buon gioco nel condurre una gestione rapace del Mezzogiorno anche sotto il profilo della mancata crescita dell'associazionismo. Il fa70

scismo fece poi il resto, scegliendo un orientamento centralizzatore, e dunque contrario agli sviluppi di quell'associazionismo che si sviluppò poco nel Mezzogiorno perché poco favorito e molti ostacolato dalle politiche decise a livello nazionale. Se non si vuole essere troppo buoni nei confronti delle classi dirigenti del Nord, si deve percorrere anche questa strada interpretativa (pur senza giungere a nessuna conclusione di tipo vetero-meridionalista sullo "sfruttamento del Sud", né a nessuna assoluzione per le classi dirigenti del Sud, che hanno una responsabilità enorme, tanto più grave quanto più ci si avvicina agli anni recenti).

LE RAGIONI DELLA DISTANZA CULTURALE

Nell'argomentazione di Putnam il pregiudizio a favore del senso civico trascura alcuni aspetti istituzionali e organizzativi della massima importanza. Per fare funzionare la democrazia, egli dice, ci vuole il capitale sociale. Ma dove andare a prenderlo, se fra l'altro è una cosa che non può venire dall'esterno? Nel Mezzogiorno è esistito un enorme ritardo in riferimento a varie dimensioni, e ad una in particolare: l'istruzione, che e 1 esempio piu chiaro di investimento in capitale umano", come affermò l'autore che introdusse tale concetto nella teoria dello sviluppo economiccY °. Putnam insiste molto sul concetto di capitale sociale, che è costituito innanzitutto dalla fiducia recipro-


Ca, e inevitabilmente rinvia al concetto di capitale umano, dunque ai processi di istruzione e di alfabetizzazione. Nella storia della questione meridionale le differenze di alfabetizzazione caratterizzano il rapporto tra Sud e Nord, e tra l'Italia e gli altri Paesi europei. Intorno al 1820 in Svezia oltre il 90 per cento degli adulti era alfabetizzato mentre in Italia la stessa percentuale di adulti era analfabeta. Nel 1884, in Italia la percentuale di analfabetismo tra i soldati di leva era del 47,22 per cento. Nello stesso anno la percentuale di analfabeti tra i soldati di leva era in Germania dell'1,27 per cento, e in Svizzera del 2,10 per cento; Paesi come la Danimarca e la Svezia avevano percentuali di analfabetismo inferiori all'l%. E necessario sottolineare che la situazione dell'Italia era disastrosa, ma era tale anche perché assai aggravata dalla situazione specifica del Mezzogiorno, dove le percentuali di analfabetismo erano astronomicamente lontane da quelle dell'Europa continentale, ed erano invece simili a quelle di altre aree preindustriali e premoderne come la Spagna o la Serbia o la Russia zarista, dove le percentuali si aggiravano intorno all'80 per cento. Se il dato italiano viene scorporato regione per regione, la differenza con il resto d'Europa rimane considerevole, ma meno sconfortante. Ad esempio, si nota che nel Piemonte c'era una percentuale di analfabetismo non molto differente da quella della Francia, che era il Paese europeo

con una percentuale fra le più alte: 12,29 per cento. Dal punto di vista dell'alfabetizzazione in Italia le differenze tra le due parti del Paese sono state spaventose. Sono notevoli anche oggi. Nel 1901 le percentuali di analfabetismo in Piemonte e in Lombardia erano circa del 20 per cento, ma in Calabria erano quasi dell'80 per cento; nel 1951 le percentuali di analfabetismo in Piemonte e in Lombardia erano circa del 2 per cento, ma in Calabria erano circa del 30 per cento. Oggi queste differenze in un certo senso si sono aggravate, perché dietro un'apparente alfabetizzazione di massa ci sono aree del Mezzogiorno dove i tassi di inadempienza, abbandono, bocciature, e così via superano il 30%, con punte di dispersione scolastica che in alcuni quartieri arriva al 60 per cento di dispersione scolastica 11 . Da Secondigliano a Librino, dal San Paolo allo Zen, l'analfabetismo è ancora una spaventosa e specifica piaga sociale del Mezzogiorno 12 . Putnam prende in considerazione questo aspetto, ma lo sottovaluta in pieno perché si affida a dati in questo caso del tutto fuorvianti. Il punto è invece rilevante sotto vari profili: nella storia di un Paese non c'è soltanto il senso civico; altri fattori, come l'istruzione, possono essere preminenti, fino a condizionare la nascita e la crescita del senso civico. Dunque, le scelte della classe dirigente hanno una grandissima importanza. Se nel Mezzogiorno non c'è senso civico, tra le cause ci sono sia una indubbia eredità storica, 71


sia la politica insipiente dei pubblici poteri negli anni della prima repubblica.

nam, è stato troppo buono con il Nord dell'Italia. Egli vede nel Settentrione innanzitutto gli splendori del passato e la ricchezza del presente; altri osservatori UN PREGIUDIZIO IDEOLOGICO potrebbero vedere tutta un'altra vicenda dentro quel passato. Un altro problema è relativo ad un for- Per stare solo a questo secolo, è difficile te pregiudizio ideologico nell'analisi di non trovare le tracce di un associazioniPutnam Tocqueville è esplicitamente smo incivile nelle peraltro civilissime indicato come un modello per la impo- terre del Nord Italia. Dall'invenzione stazione teorica della ricerca; ma il del fascismo all'adesione entusiasta allo Tocqueville che esalta i rnores e la virtus stalinismo, dal terrorismo degli anni degli Americani discende in linea diretSettanta fino al leghismo "alla Miglio", ta dal Montesquieu delle Considérations è possibile ritrovare nel Settentrione e dal Machiavelli dei Discorsi. Se c'è un d'Italia vicende precipuamente carattetopos ideologico quanto paradigmatico rizzate dall'anti-civic-ness: un insieme nel pensiero occidentale è proprio quedi guerre civili e di fanatismi a volte sto: l'apoteosi del civis romano attra- belluini, che non sono altrettanto speversa i secoli e le culture fino a diventa- cifici nel Mezzogiorno. Anche da quere il modello ideale dei Founding Fa- sto punto di vista la storia del Nord delthers e di Tocqueville. Non è vero che l'Italia va vista dentro quella più ampia un'ideologia vale un'altra, e questa può storia del tremendo conflitto politico essere benissimo preferita alle altre; ma che si è aperto. in Europa con la Rivoluforse è troppo pretendere che contenga zione francese del 1789 e si è concluso contemporaneamente oltre che la meta con la caduta del muro di Berlino nel anche il metodo: il civismo come meta 1989. Da questo tragico e tempestoso e l'associazionismo come metodo. percorso dell'Europa moderna, durato Il primo ad essere consapevole dei pro- per due secoli tra lager e gulag, il Mezblemi connessi ad una ripresa dell'esal- zogiorno è rimasto in gran parte fuori tazione tocquevilliana della comunità e per sua buona fortuna. dell'associazionismo è proprio Putnam, dove scrive che non l'associazionismo in quanto tale è un fattore positi- ETNOCENTRISMO E DECLINISMO vo (perché altrimenti anche il Ku Klux Klan e i nazisti, in quanto campioni di Infine, ci sono alcune deformazioni di associazionismo dovrebbero essere tipo etnocentrico nel ragionamento di considerati campioni di civicness). Putnam, connesse a quel particolare Come per certi versi è stato troppo aspetto della questione settentrionale buono con il Sud, per altri versi Put- che è l'angoscia del declino politico ed 72


economico. Sul tema c'è una letteratura enorme, che va dal fortunato volume di Paul Kennedy sul declino delle grandi potenze alle recenti tesi di Zbigniew Bzrezinski sul mondo "fuori controllo"; anche testi importanti come quello recente di Luttwak sul rischio di una "terzomondizzazione dell'America" appartengono a questo filone di analisi. Dagli Stati Uniti all'Italia, dai successi elettorali di Ross Perot a quelli di Berlusconi, c'è nei grandi sommovimenti elettorali (mai nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti il candidato di una terzo partito aveva raccolto quella percentuale di voti) una dimensione comune a tanti fenomeni che avvengono in varie parti del mondo occidentale: il senso forte di un declino e una forma di reazione che nel linguaggio sociologico classico si potrebbe definire la contromobilizzazione di ceti sociali che cercano di opporsi ad una minaccia di forte perdita di status. Se alla frontiera dell'Italia gli avvenimenti jugoslavi confermano il peso di conflitti secolari che riemergono intatti da un remoto passato, altri avvenimenti mettono in rilievo la capacità di molti Paesi di liberarsi dal loro passato e di avanzare in maniera spettacolare verso un futuro differente. Prima gli straordinari successi del Giappone, poi quelli di Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore, infine quelli di un'area enorme, da Canton a Giakarta, suggeriscono che è possibile liberarsi da un passato di miseria e prendere la strada di uno sviluppo sbalorditivo - che inevitabil-

mente interagisce con i livelli di potenza e di ricchezza delle aree occidentali. Il confronto tra Sud e Nord avviene su scala planetaria, e sconvolge abitudini e certezze consolidate. Stretti nel confronto con le economie emergenti, mQlti gruppi sociali reagiscono in maniera che ha qualche analogia con quanto avveniva negli anni Venti e Trenta, quando si affacciò il problema della contromobilitazione delle classi medie, minacciate dalla mobilitazione dei ceti popolari. La "questione settentrionale" oggi è anche la questione del cambiamento dei rapporti di potere economico su scala internazionale, e della difficoltà di adattarvisi da parte di gruppi sociali che grazie a spciali rapporti di forza ereditati dal passato avevano una posizione di privilegio, e ora non si rassegnano a fare un passo indietro - n trovano la formula per fare un salto in avanti. Davanti all'impetuosa affermazione dei nuovi capitalismi asiatici nel corso degli anni Ottanta, questo almeno si può dire: nella storia di ciascun Paese c'è il bene e il male, e il punto è capire che cosa permette la prevalenza dell'uno o dell'altro. Le tigri ed i giganti dell'Estremo Oriente si sono inseriti prepotentemente nel mercato mondiale (nel 1960 il prodotto lordo asiatico era il 4% del totale mondiale, oggi è al 25%) e sfidano, oltre che le vecchie capacità di produrre, anche le vecchie maniere di pensare. Putnam è partito dal problema hobbesiano dell'ordine; e da democratico 73


conseguente giunge ad una soluzione che si può riassumere nella formula "networks più interesse-ben-inteso". Ma in Giappone, a Giacarta, a Singapore, a Pechino il civic engagement o non preminente o non viene ottenuto attraverso una logica di tipo democratico-utilitarista: la disciplina, il conformismo, la gerarchia sono principi organizzativi vincenti rispetto alla tradizione del secolo socialdemocratico. La cultura degli Stati confuciani è estranea al-

la classica impostazione umanistica; sembra difficile non riconoscere la sfida totale che da questo fronte (come da quello islamico, anche se in maniera molto diversa) viene nei confronti della nostra maniera di essere e di pensare: dalla celebrazione della civicness alla diminuzione del reddito nazionale, dall'aumento dei disoccupati all'aumento dei problemi ecologici connessi con una crescita colossale dei mercati e dei consumi.

Note R.D. PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993. 2 Pro bono pubblico, in «The Economist», 6 febbraio 1993, p. 88. Per un confronto tra il dualismo italiano e quello spagnolo, cfr. J.J. LINz, La sociedad espagnola: presente passado yfuturo, in Espagna: un presente para elfuturo, vo!. I, Institudo de Estudios Economicos, Madrid 1984, p. 60. "Foreign Affairs", estate 1993. 5J. KEEGAN, A History of Warfare, Knopf, New York 1993. 6 G. PRocAcci, Storia degli Italiani, Laterza, Bari 1969, p.98. Cfr. R.D. PUTNAM, R. LEONARDI, R.Y. NANETFI, La pianta e le radici. Il radicamento dell'istituto regionale nel sistema politico italiano, Bologna, 11 Mulino 1985,e la mia recensione in "Rassegna Italiana di sociologia", n. 1, gennaio-mano 1987. 8 F. BRAUDEL, Ecrits sur l'Histozre, Flammarion, Paris 1969, pp. 4 1-83.

74

Cfr. F. SID0TI, The Italian Politica1 Class, in "Government and Opposition", vol. 28, n. 3, estate 1993, pp. 339352 10 J.W. SCHULTZ, The Economic Value of Education, Columbia University Press, New York 1963, p. VIII. E il caso del quartiere di Settecannoli, a Palermo; cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, seduta di martetil 3 agosto 1993, p. 2559. 12 Secondo un rapporto del Ministero dell'interno, il 76 per cento della popolazione minorile ai margini della legalità è analfabeta o al massimo ha raggiunto il diploma di scuola elementare; il 90 per cento della dispersione scolastica avviene nell'Italia meridionale; cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, relazione sullo stato dell'edilizia scolastica a Palermo, doc. XXIII, n. 6, p. 16. Debbo anche dire che nonostante la percezione dell'importanza del fenomeno, anche la Commissione antimafia ha lavorato poco in proposito, e ha preferito specializzarsi sugli aspetti piò propriamente polizieschi del problema della criminalità organizzata.


questo istituzioni

Risorse europee per le Regioni

Negli ultimi anni, nella maggior parte dei paesi sviluppati, i poteri e i compiti tra i diversi livelli di governo sono stati ripartiti in modo diverso. Vi è stata, e vi è ancora adesso, un'ampia discussione e spesso una relativa modifica anche dei compiti finanziari. Ciò provoca quel cosiddetto "stress fiscale" che è sicuramente accresciuto negli Stati membri della Comunità per la probabilità che la stessa CEE diventi un concreto livello di governo dal punto di vista tributario. E ciò mentre, nel nostro paese, diviene sempre pi ù palese la tendenza a decentralizzare le entrate pubbliche e quindi a creare un sistema difinanza pubblica basato sull'autonomia dei livelli inferiori di governo. Nell'articolo di Maria Teresa Salvemini viene affrontato il tema dei fondi strutturali della CEE dopo la recente riforma dei regolamenti che li disciplinano. Secondo l'autrice, la prospettiva è quella del federalismo secondo le valutazioni degli economisti, le quali non coincidono con quelle prevalentemente giuridiche concernenti la divisione dei poteri ai vari livelli di governo. Appartiene, infatti, alla convinzione degli economisti l'idea, in particolare, che responsabilità di spesa e responsabilità fiscale debbano corrispondere in ampia misura. 75


Nell'articolo, inoltre, sono state toccate alcune questioni aperte quali il modo in cui affrontare, da una parte, lo spostamento degli interventi verso i programmi multiregionali e, dall'altra, la logica amministrativa di Bruxelles dalla quale le amministrazioni italiane sono molto lontane (talora avendo ragione di discostarsene). Su quest'ultimo punto, una questione è, ad esempio, come introdurre la logica della variabile tempo nell'azione amministrativa e negli obiettivi del monitoraggio. Su questi temi vertono anche i contributi di Antonio Di Majo e Giuseppe Cogliandro e il dibattito in redazione con interventi di: Maurizio Meloni, Girolamo Caianiello, Bartolomeo Manna, Giancarlo Salvemini, Marco Cimini, Francesco De Filippis, Alessandro Minuto Rizzo e Giuseppe Carbone.

76


I livelli di governo della finanza pubblica: ragionando di fondi strutturali europei di Maria Teresa Salvernini

Il tema del federalismo come forma dello Stato è fortemente legato al tema dell'Europa per due ragioni: perché in Europa ci sono dei modelli esistenti di stati federali a cui comincia ad ispirarsi il dibattito più avvertito, quello cioè che vuol fare del federalismo una issue sulla quale svolgere una approfondita riflessione sia per riformare lo Stato nazionale, sia per costruire un'Europa che non sia una banale somma di stati nazionalisti, ma sia una costruzione originale e complessa; perché il disegno dei poteri delle Regioni non può essere semplicemente la copia in piccolo del disegno del vecchio stato centrale. Tra l'altro di uno stato centrale come quello italiano che è considerato ampiamente da riformare, anche dal punto di vista dell'assetto amministrativo. E quindi abbastanza superficiale ricondurre (come sembra trasparire dai dibattiti della bicamerale) il problema del regionalismo ad un problema di spartizione di poteri. Su questo terreno serve una elaborazione culturale sulla quale appoggiare un'iniziativa politica. C'è innanzitutto il problema dell'autonomia finanziaria. Noi economisti sia-

mo all'idea che una vera autonomia finanziaria di spesa debba avere corrispondenza in una vera autonomia di risorse. Siamo convinti che l'esperienza fatta in Italia di separare responsabilità della spesa e responsabilità dell'entrata sia una delle non ultime cause di mal funzionamento del sistema delle autonomie locali. Bisogna vedere se poi questo sarà ancora vero una volta che i livelli di governo diverranno articolati e complessi come quelli che si vanno o si potrebbero disegnare in un'Europa costruita secondo le ambizioni degli ultimi processi d'integrazione. Vi è poi il problema di come si decide nei vari livelli di governo (e certamente anche qui c'è una difficoltà ad accettare i processi di decisione esistenti) e c'è un problema molto serio di attuazione delle decisioni e di controllo. Siccome questo è un tema sul quale si può ragionare per ore, partendo da schemi astratti diversi, io ho pensato che potesse essere utile avere come spunto di riflessione un'esperienza che ho avuto in questi mesi davanti agli occhi e che mi ha fatto vedere quali e quanti problemi possano sorgere, nonché quali e quanti esiti diversi possano venir fuori. Credo che 77


possa essere interessante vedere come possano funzionare i rapporti nell'interno dell'Europa guardando alla questione dei fondi strutturali europei. I fondi strutturali europei sono tre: il fondo di sviluppo regionale; il fondo sociale; il fondo di orientamento per programmi agricoli.

POLITICA COMUNITARIA E REGIONI

Il più importante è il primo, non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche perché è uno degli strumenti di coesione nell'Europa, quindi lo strumento della politica che dovrebbe accompagnare in positivo gli stimoli negativi indotti da tutte le regole che sono state poste (per esempio: sul piano monetario, sul piano dei deficit di bilancio). Inoltre, non solo è una politica dichiarata, ma una politica che si va facendo da diversi anni e che quindi ha mostrato già tutti i suoi problemi. Tanto vero che in materia di gestione dei fondi strutturali, erano stati fatti dei regolamenti nel 1988 e, a distanza di cinque anni questì regolamenti sono stati modificati. I fondi di sviluppo regionali vengono stabiliti, innanzitutto, come volume complessivo, e su questo c'è un livello di trattativa politica. Come in tutte le ripartizioni di risorse ci sono dei conflitti; ma, non mi fermerò su questo livello perché, in verità, è quello che conosco meno. Mi sembra interessante ricordare invece che, nei passati 5 78

anni, la ripartizione del fondo di sviluppo fu fatta al 50% fra le Regioni e al 50% fra i programmi non gestiti delle Regioni ma gestiti al livello multiregionale (che può significare sia Stato centrale, sia imprese pubbliche, sia aziende autonome). Il fondo regionale implica una attivazione di risorse nazionali nel senso che la Comunità funziona con il principio di addizionalità. In altri termini, se la Comunità mette una lira lo Stato deve mettere una lira (la percentuale in realtà è variabile). La ripartizione è nel concreto un po' diversa ma il principio è questo, perché non si vuole che i fondi comunitari sostituiscano semplicemente la spesa nazionale. Nel periodo passato i fondi nazionali furono quelli della legge 64, che serviva per lo sviluppo del Mezzogiorno. Dopodiché abbiamo assistito a una lunga e penosa pantomima di italiani che non adempiono e non realizzano i programmi che hanno scritto, sottoscritto, firmato e giurato di attuare; di una minaccia di perdite di risorse da parte della Comunità e di continue (soprattutto negli ultimi mesi) attività di riprogrammazione in sede CIPE, cioè di modifica delle decisioni che sono state prese: tali modifiche sono andate, principalmente, nella direzione di togliere fondi da quanto destinato alle Regioni e di passarli ai programmi multiregionali. Questo significa che sostanzialmente quasi tutto o , almeno, una gran parte di quello che era stato dato dalla CEE al-


le Regioni è stato loro tolto poiché non sono state in grado di spendere. Un'altra cosa che ho osservato in questo processo di ridestinazione di risorse la ripartizione di poteri tra la Comunità e lo Stato nazionale. Quest'ultimo fa delle proposte di riprogrammazione, ma i poteri di scegliere effettivamente sono in mano alla Comunità. E la Comunità che sceglie che cosa e quanto ef fettivamente togliere ad ogni Regione. Il curioso è che, quando fa le sue proposte il Governo italiano non consulta le Regioni il che è molto sorprendente. In realtà, una volta fatta la verifica amministrativa sul grado di avanzamento delle spese, non c'è nessun problema; tutt'al più le Regioni saranno consultate direttamente da Bruxelles per vedere, nei singoli programmi, che cosa si deve togliere e che cosa si deve lasciare. Vi dunque una situazione ancora assai imprecisa nei rapporti tra le Regioni, il Governo centrale e la Comunità, con tentazioni di rapporti diretti tra: - le Comunità e le Regioni, che il Governo nazionale non ama; le Regioni e il Governo nazionale che la Comunità non ritiene di dover riconoscere; - il Governo nazionale e la Comunità di cui le Regioni sostanzialmente sono tenute all'oscuro. Quindi è evidente che vi sono delle dif ficoltà di funzionamento.

IL PIANO '94 299

L'attuale preparazione del nuovo piano 1994-1999 è stata un'occasione per riflettere su tutte queste questioni e per vedere in che modo affrontare i problemi a cui ho accennato. Si tratta di un piano che, per quanto riguarda il fondo di sviluppo regionale, prevede in 6 anni 19.000 miliardi di fondi comunitari ripartiti: - un terzo per il sostegno alle imprese; - un terzo per i programmi multiregionali; - un terzo alle Regioni. La prima lezione, tratta dal passato, dunque quella che le Regioni non sono in grado di spendere più che un certo ammontare di risorse per cui, invece di dar loro da spendere la metà dei fondi nazionali, si dà loro da spendere un terzo dei fondi. Devo dire che da quando si iniziò a parlare di questo, subito fu detto: «a Bruxelles non saranno assolutamente d'accordo perché ci tengono molto che la metà delle risorse siano spese dalle Regioni». Osservai subito che in Italia le Regioni non hanno una capacità di spesa adeguata per spendere la metà dei fondi regionali nel senso che, la quota di finanza pubblica che passa attraverso i bilanci regionali (in particolare la quota di spesa in c/capitale) è troppo piccola, è sproporzionata rispetto a questa ripartizione di fondi comunitari. Se guardiamo ai trasferimenti in c/capitale dallo Stato alle Regioni, si vede che sono meno di 5.000 miliardi l'anno; è quindi wj


evidente, ricordando che sono enti a finanza derivata e a competenze ben definite, che non possiamo immaginare che le Regioni abbiano progetti realizzabili in tanti settori. Però è anche vero che un terzo di queste risorse, comunque, sono 1.000 miliardi l'anno. E se consideriamo che le risorse vanno sostanzialmente solo alle Regioni meridionali, questi 1.000 miliardi si aggiungono a circa 2.500 mld (secondo l'ipotesi che alle Regioni meridionali vada il 50% dei fondi di bilancio); non è che siano tanto poco, anzi può essere una cifra molto rilevante per le Regioni interessate. E curioso il fatto che le Regioni, in realtà, non avevano mostrato grande interesse per i fondi comunitari: forse erano soprattutto interessate ad ottenere i fondi dello Stato centrale. Personalmente non credo che questo sia vero e comunque si avrà modo di verificano con opportune indagini analitiche. Nel piano c'è poi l'idea che le Regioni possano essere anche in parte portatrici di progetti fatti dagli Enti locali. Il concetto di Regioni, in senso stretto, è un p0' riduttivo perché moltissime cose, in Italia, vengono fatte invece dai Comuni: sarebbe un peccato escludere i Comuni e rimettere tutta la ripartizione delle risorse tra Regioni, Stato e programmi multiregionali.

NE

PERCHÉ LE REGIONI NON SPENDONO?

Torniamo sulla questione dell'incapacità delle Regioni a spendere e anche di un disinteresse delle Regioni a spendere questi fondi. Quando si parla con i rappresentanti delle Regioni, questi rigettano fermamente l'accusa; quando rimproveriamo loro di non fare progetti perché stanno litigando tra partiti su come ripartirsi i vantaggi degli interventi dicono che non è affatto vero e che è tutta colpa del Tesoro che non dà loro i soldi. E se si dice: «ma fateci vedere le delibere che avete preso, le decisioni per la attivazione di questa spesa», di nuovo rispondono: «era inutile prendere delle delibere visto che il Tesoro non ci aveva dato i fondi». Ho controllato se era vero che questi fondi non erano stati dati dal Tesoro, e in effetti, le Regioni avevano totalmente ragione. L'assurdo meccanismo del cofinanziamento sulla legge 64, legge che attivava in 10 anni 140.000 miliardi di risorse, metteva infatti nella discrezionalità del Tesoro decidere quanto nell'anno di questi fondi dovesse essere dato all'Agenzia; per cui soltanto se voleva l'Agenzia venivano dati i fondi alle Regioni, soltanto se voleva il Tesoro venivano dati i fondi all'Agenzia. L'Agenzia, stretta fra le varie esigenze, ha finito per non dare i fondi alle Regioni tanto che nel 1992 è stata fatta una legge che imponeva di dare alle Regioni (se ben ricordo) in un triennio quasi 1.200 mldche dovevano avere in


ragione dei cofinanziamenti comunitari e imponeva che il Tesoro li versasse su conti delle Regioni senza passare più attraverso l'Agenzia. I primi fondi sono stati distribuiti alle Regioni nella primavera del 1993. Quindi, devo ammettere che francamente le Regioni qualche ragione l'hanno avuta in quanto non hanno avuto molte disponibilità da spendere; si spiega quindi, probabilmente, anche perché negli anni passati esse non si sono date seriamente da fare: certamente non avevano molte colpe se avevano pensato che questi soldi non glieli avrebbero mai dati, e che quindi era inutile starsene troppo a preoccupare e prendere misure necessarie. Un altro problema molto serio è che il sistema di utilizzo dei fondi comunitari è un sistema amministrativamente molto complicato. Si giustappongono due meccanismi contabili-amministrativi molto diversi tra loro anche come linguaggio: quello italiano e quello europeo; per cui io mi sono chiesta con quanta facilità le Regioni meridionali, che già hanno difficoltà a gestire i normali meccanismi amministrativi, potessero adattarsi ai meccanismi amministrativi che impone loro la Comunità. Meccanismi, ripeto, molto complicati perché introducono una serie di procedure programmatorie, di procedure di monitoraggio e di procedure di verifiche di stati di avanzamento dei programmi e dei progetti, che sono quanto di più lontano dal sistema amministrativo italiano ci possa essere. Chiunque

si avvicina a questi problemi comunitari nei primi tempi "si mette le mani nei capelli", perché non capisce che cosa significhi questo meccanismo, tanto che si sono creati degli esperti di settore; e poiché nelle Regioni di esperti di questi problemi non ce ne è un numero sufficiente, si è finito per far fare queste attività amministrative (per esempio: piani-progetti-monitoraggi) tutte a società esterne, con una specie di "circolazione extra-corporea" per cui il Presidente della Regione e la Giunta quasi non sapevano di ciò che questo meccanismo stava producendo.

UN NUOVO METODO PER L'ADDIZIONALITÀ

La prima cosa che è sembrato necessario fare, è chiedere che il cofinanziamento avvenisse su fondi già nella disponibilità dei bilanci delle Regioni. Le Regioni non hanno fondi propri, evidentemente, hanno fondi che vengono loro dallo Stato; è necessario allora che li blocchino dicendo fin da oggi che quei fondi in parte saranno destinati al cofinanziamento e che non chiedano altre risorse addizionali. E molto facile per una Giunta regionale dire: «vogliamo avere non 1.000 dalla Comunità ma 2.000, così lo Stato Nazionale ci darà non 1.000 ma 2.000» e su questa base fare programmi di impegno più ambiziosi. Imporre invece una destinazione vincolata a certe risorse che stanno nel bilancio delle Regioni, modifica radicalmente l'approccio dell'uso dei fondi 81


regionali e quindi anche la dialettica politica su che cosa fare. Ma rende anche tali decisioni effettivamente abnormi rispetto al modo di essere dello Stato centrale. E vero che le Regioni, probabilmente, se non sono efficienti a spendere i fondi comunitari non sono forse neanche molto efficienti a spendere quelli nazionali; però certamente questa efficienza è possibile se vi è un forte legame con i trasferimenti dello Stato. Purtroppo si tratta di un approccio del tutto innovativo tanto è che le Regioni stanno mostrando una forte resistenza ad accettarlo. Il cofinanziamento in questi termini si lega a quel concetto di addizionalità che la Comunità desidera che sia la struttura portante del rapporto tra ai fondi CEE ed i fondi nazionali. Addizionalità vuol dire che non ci deve essere sostituibilità, non certo che, arrivati questi 19.000 miliardi comunitari, allora immediatamente facciamo una legge finanziaria che disponga per i prossimi 6 anni 19.000 miliardi di nuove spese nel bilancio italiano. Questo non sarebbe possibile nella situazione dei nostri conti pubblici e non sarebbe coerente con l'approccio della Comunità al problema del risanamento dei bilanci e dell'espansione della spesa pubblica. Tanto che i nuovi regolamenti dicono che non si vuole questo: per l'addizionalità basta dimostrare che rispetto alla spesa storica c'è un incremento, il quale giustifica il fatto che i fondi comunitari non saranno sostitutivi. 82

CoivIE ADAUARE i

sismìvii

vu1smjrvI?

Sono curiosa peraltro di sapere se l'aver concepito in termini così stretti il concetto di addizionalità andrà bene agli uffici di Bruxelles: questi sono sempre un po' temuti dagli uffici italiani perché sono burocraticamente molto più forti, molto più strutturati. Questa soluzione pone ancora una serie di problemi perché, come ho già detto, le Regioni non hanno ancora accettato questo meccanismo, e nessuno ancora garantisce sul fatto che non vogliano giocare sul tavolo del negoziato fra Stato e Regioni la carta dell'autonomia per non accettare questa soluzione, per non accettare di dover viicolare i loro fondi, per non accettare che sia una destinazione sottoposta al potere di indirizzo del Ministro del Bilancio, o per non accettare che i loro progetti debbano essere trasmetti a Bruxelles via Ministero del Bilancio. Si tratta di una partita ancora aperta ed interessante e sulla quale non è affatto chiaro quale sarà la posizione della Comunità in quanto la Comunità è più filo-regionale dello Stato italiano. Ama il contatto diretto con le Regioni, si fida forse di più di quanto fa lo Stato nazionale della capacità di realizzare le cose che queste devono fare e ha impressione di "comandare" di più avendo degli interlocutori più deboli. Mi sono chiesta e ho discusso in questi ultimi mesi se non fosse una pretesa sbagliata quella della burocrazia di Bruxelles, di imporre soluzioni ammini-


strative disegnate seguendo l'esperienza francese, con qualche aggiustamento ma certamente non guardando precisamente al modo di funzionare delle Regioni e del sistema amministrativo italiano. Mi sono chiesta come potevamo inglobare nel nostro sistema dei meccanismi di programmazione per progetti quando noi questi meccanismi non li conosciamo, né a livello di Stato centrale né a livello di Regioni; e se questa pretesa non fosse da rifiutare chiedendo che fosse Bruxelles a tener conto del fatto che noi abbiamo delle particolari regole contabili e di bilancio il che non è irrilevante dal punto di vista del pro cesso di realizzazione. Gran parte del malfunzionamento deriva dal fatto che sono due sistemi completamente diversi che si giustappongono: il sistema amministrativo italiano, in particolare quello regionale e il sistema europeo che, avanzato o meno, è completamente diverso. Riflettendo bene, però, mi sono convinta che è meglio utilizzare questo scontro come fattore di cambiamento nel nostro sistema; le nostre Regioni non funzionano, ma non possiamo neanche immaginare di farle funzionare secondo il nostro modello di Stato centrale: un modello che noi stessi non condividiamo, che non ci sembra molto efficiente.

A QUALI MUTAMENTI PUNTARE Le regole comunitarie sull'uso dei fondi regionali impongono innanzitutto

che ci sia una gestione per progetti; cosa che viene richiesta come necessaria da tanto tempo e che non si è ancora riusciti a fare nel bilancio dello Stato centrale italiano, ma che potrebbe essere fatto in un bilancio regionale. Basterebbe immaginare una riforma di quella contabilità; in realtà, quando con Giuseppe Carbone, in un tempo lontanissimo, scrivevamo il disegno di legge di contabilità regionale pensavamo che tra programmazione delle risorse e impegni contabili, il rapporto avrebbe dovuto essere molto più stretto di quanto poi non sia stato successivamente; e questo è un approccio che il modello europeo impone necessariamente. Ho conosciuto Presidenti di Regioni ed assessori che non sapevano nulla del Piano comunitario, che cosa c'era dentro, a che fase di avanzamento fosse l'attuazione; alcuni non sapevano in mano a chi stavano i documenti. La seconda cosa che chiede la Comunità, ed è un fattore formidabile di modifica, è il monitoraggio interno. Tutti i regolamenti comunitari, tendono a privilegiare il fattore tempo, il rapporto tra i costi e i risultati, l'accertamento dei costi e l'accertamento dei risultati. Onestamente, tutte cose alle quali le amministrazioni regionali italiane sonci totalmente indifferenti; talmente indifferenti che la stessa faccenda della riprogrammazione non sembra loro così grave. Può sembrare strano che si siano tolti loro dei fondi senza proteste. Ho scoperto che per esse era importante 83


soltanto che quei fondi venissero ridati. Come a dire: il tempo è indifferente, prima o poi spenderemo quelle risorse. A questo punto verrebbe da suggerire una regola per cui chi non ha speso i fondi difficilmente perde. Ma siccome ci siamo opposti a Bruxelles per l'Italia nel suo insieme e un po difficile opporsi per una singola Regione. Ma per il futuro va visto con forza il problema dei tempi: l'azione amministrativa che deve avere orizzonti temporali certi, scaduti i quali non può essere più realizzata. Bisogna poi dare evidenza ai costi, cioè alla dimostrazione che è vantaggioso fare un dato programma o progetto, per far vedere che quell'intervento è stato realmente fatto ed ha portato i risultati che erano stati scritti nel documento sottoposto alla Comunità. Tutto questo certamente impone la creazione di nuove funzioni amministrative dentro le Regioni che nessuno di noi può pensare non siano necessarie, Europa o non Europa. Quindi io ritengo che sia tino stimolo assolutamente da cogliere, evitando anche che lo Stato centrale svolga compiti di supplenza. Lo Stato.potrà fare i programmi, seguire le realizzazioni, potrà stare dietro le Regioni, chiamarle ogni settimana per vedere cosa hanno fatto. Potrà essere necessario per un certo periodo, una fase didattica: ma non dovrebbe esserci alcuna supplenza da parte degli uffici o delle strutture che faranno politica regionale a livello cen84

trale. Probabilmente per fare tutte queste cose ci vorrà una riforma politicoelettorale nel senso che se si vuole un nuovo e diverso modo di agire delle Regioni non è possibile che si selezioni il personale politico e amministrativo come si è fatto fino ad ora o che i governi regionali abbiano il grado di instabilità che hanno avuto nel passato. Solo una volta che avremo discusso di queste cose, allora veramente si potrà parlare di quanti dei poteri di spesa delle Stato debbano passare alle Regioni. Mi sembra che senza aver risolto il modo di gestire da parte delle Regioni, ogni spostamento non sarebbe che una ennesima ridistribuzi me dei poteri tra persone.

LA BUROCRAZIA DI BRUXELLES: COME CONIFRONTARSI

Però anche la burocrazia comunitaria sembra in qualche modo da mettere sotto osservazione. La burocrazia comunitaria ha la tendenza ad imporre modelli uniformi su tutto il territorio: essendo una burocrazia molto organizzata, le piacciono i modelli molto complessi, (è complessa essa stessa al suo interno). Ci sono funzioni che si richiamano le une alle altre, che si controllano, però non si sa a chi si deve fare riferimento. La burocrazia comunitaria non è molto flessibile: ha una tendenza alla rigidità come le burocrazie molto complesse possono avere; però è molto


amante della discrezionalità, tende a usare i suoi poteri (per esempio, in materia di adempimenti formali) non per spogliarsi delle discrezionalità ma per accrescere la propria discrezionalità avvantaggiandosi della superiorità tecnica che spesso ha sui suoi interlocutori (almeno nel caso italiano, non so se altri Paesi subiscono nella stessa materia il meccanismo dei rapporti con i funzionari, i dirigenti della Comunità). Un problema rilevante emerso nella discussione sui Fondi strutturali, è quello degli indicatori. Sono previsti molti indicatori per vedere come si distribuiscono i Fondi, come si usano, i vantaggi e svantaggi di usarli in un modo o nell'altro. Questi indicatori, alcuni Paesi, li hanno sostenuti molto come strumenti per limitare la discrezionalità comunitaria. Nel caso di una struttura povera come la nostra questi indicatori diventano un dramma perché bisogna aver qualcuno che li fa, visto che le nostre amministrazioni non sono in grado di costruirli. Bisogna fare una serie di valutazioni ex ante, riempire una serie di schede complicatissime. C'è il rischio che si riempiano queste schede di numeri a caso. Non è così che deve essere affrontato il problema. La soluzione è che dobbiamo attrezzarci; francamente mi pare una cosa molto buona, che ci sia una scheda che richiede che venga indicato quanta spesa di sviluppo di investimenti si fa nelle varie Regioni. Credo che un Paese come il nostro, che ha problemi di dispersione regionale

intorno alla media, avrebbe dovuto attrezzarsi da tempo per sapere quanta spesa si fa ncllc varie Regioni. E invece questa è una delle domande alle quali è più difficile dare una risposta. Sapere quanto si spende complessivamente nella Regione Calabria è una delle domande senza risposta da anni. Perché a nessuno interessa! Perché nessuno si ritiene obbligato a fare questo calcolo, perché se qualcuno ha tentato di farlo si è trattato di enti privati o di studiosi ai quali nessuno ha dato ascolto. A questo punto la Comunità vuole che si faccia tale calcolo ed io spero bene che ora qualcuno si attrezzi per rispondere. Nessuno ha mai misurato nel nostro sistema politico gli indicatori fisici: si sa soltanto quanto si spende, quanti migliaia di miliardi per questo o quello, ma non si è mai saputo il valore unitario di quello che si fa; e poi si devono fare tutti gli indicatori di risultati, di costi, benefici o quant'altro. Tutti questi indicatori vanno scritti nelle schede, nei modelli, nei moduli, nelle procedure. Tutto ciò può essere considerato certamente un sovraccarico per la burocrazia italiana, che non sarà molto felice di dover fare queste cose. Invece lo Stato dovrebbe crederci molto e cominciare ad insegnare a tutti i livelli di governo come affrontare questo problema. C'è infine il problema dei controlli e delle valutazioni ex post. I controlli nella Comunità sono innanzitutto controlli formali molto dettagliati. Nei re85


golamenti si evoca poi anche il problema dei controlli ispettivi. Mi sembra che sia necessario interiorizzare un processo di controllo ispettivo nelle nostre amministrazioni altrimenti risulta un meccanismo semplicemente "cartolare". Ci sono dei monitori che fanno delle statistiche che poi chiamano controlli. Evidentemente queste cose fanno parte di una cultura per noi ancora molto parziale: abbiamo messo su qualche nucleo ispettivo ma non facciamo controlli a tappeto, ne campionari seri su quello che la pubblica amministrazione fa nei vari livelli. Dalla Comunità viene dato uno stimolo a farlo, (ad andare a controllare, ad esempio, il cantiere di

86

cui si chiede come stia andando avanti ma che in realtà non è stato mai aperto). Infine, c'è la necessità di valutare il grado di soddisfacimento della domanda di servizi, perché anche questo fa parte dei risultati globali che a Bruxelles vogliono avere: è importante dare una risposta al quesito "a che cosa serve" complessivamente questa azione di intervento e di spesa anche in termini di soddisfacimento di alcune grandi esigenze che potrebbero essere ricondotte ad alcune funzioni della vita civile. Questo si riconduce direttamente al tema del federalismo fiscale e dei livelli di governo, e ci riporta al nostro tema generale.


Una finanza pubblica federale per l'Europa di Antonio Di Majo

Vorrei esprimere qualche breve considerazione su alcune questioni connesse alla finanza pubblica dei diversi livelli di governo, nella prospettiva aperta dalla creazione del Mercato Unico europeo che dovrebbe condurre, in seguito alla istituzione dell'Unione europea, a qualche forma di integrazione politica, anche formalmente meglio definita rispetto alle previsioni del Trattato di Maastricht. Attualmente la Comunità (o meglio, l'Unione) non è, dal punto di vista della finanza pubblica, un vero e proprio livello di governo, se si trascurano i compiti esercitati in materia di politica agricola e quelli, ricordati esaurientemente da Maria Teresa Salvemini, di politica regionale. Non lo è dal punto di vista istituzionale, e non lo è neppure dal punto di vista finanziario, come dimostra l'esiguit (rispetto al complesso delle economie dei Paesi membri dell'Unione) del bilancio comunitario, che è più simile a quello delle organizzazioni internazionali (entrate costituite principalmente da trasferimenti degli Stati membri, anche se calcolate su qualche entrata tributaria; uscite esaurite, oltre che dalle

esigenze del mantenimento delle strutture burocratiche, dai limitati compiti specificamente precisati) che non a quello di un livello "statuale". Il Trattato di Maastricht fa pieno riferimento al principio di sussidiarietà: questo principio non consente di stabilire staticamente una divisione di compiti tra i diversi livelli di governo presenti nell'Unione, ma può dinamicamente attivare un processo che faciliti anche la formazione di un vero e proprio livello europeo di governo. Come ha ricordato Francesco Papadia in altra occasione, i principi economici che possono giustificare, in linea di principio, l"ottimalità" (dal punto di vista dell'allocazione delle risorse) della distribuzione dei compiti tra i diversi livelli di governo trovano fondamento nella distribuzione dei benefici delle spese per beni "pubblici" (così definiti dal punto di vista economico, cioè della natura di beni caratterizzati dalla "non rivaiita nei consumo e aaua non appilcaDilita aei principio ai esciusione a chi non ne paga il costo di produzione). Quanto più estesi, rispetto al territorio, sono i benefici, tanto più conviene che l'offerta di tali beni venga assicurata da 1•

i •1•

i

i

I..............''

li

i•

i

.

,'

87


livelli più elevati di governo, con finanziamento a carico dei relativi bilanci; si evitano, così, i cosiddetti effetti di spillover. Questo approccio richiede, però, che il funzionamento della spesa avvenga con un prelievo tributario distribuito sulla base del cosiddetto principio del "beneficio", affinché le condizioni che assicurano l"ottimalità" siano rispettate (tendenzialmente, ogni contribuente deve pagare in modo che l'utilità della spesa corrisponda alla perdita di benessere causato dall'imposta). Questa possibilità richiede naturalmente, e preliminarmente, che si accetti l'istituzione di un vero sistema tributario a livello dell'Unione. Non si tratta semplicemente di "armonizzare" le imposte esistenti negli Stati membri, ma di "passarne" alcune al livello superiore (L'IvA? le imposte sulle società'?). E chiaro che siamo ancora lontani da questa possibilità: il Trattato di Maastricht non sembra lasciare spazio all'ottimismo, ma, come si è detto, potrebbero mettersi in modo processi dall'esito per ora non prevedibili, almeno nel medio termine. Comunque, l'applicabilità del principio del "beneficio" sembra molto lontana, i sistemi tributari dei Paesi europei sono basati molto più estesamente sul principio opposto, quello del "sacrificio", o della "capacità contributiva" che non è compatibile con un principio di "ottimalità statica". Tuttavia, se il principio di sussidiarietà riuscirà a favorire un "processo" di estensione dei compiti del livello eu88

ropeo di governo, il suo funzionamento potrà avvenire anche con tributi non basati sul principio del beneficio, come del resto avvenne, ad esempio, nella formazione di Stati federali come gli USA.

RICORDANDO ALTRE ESPERIENZE: IL CASO DEL BELGIO E QUELLO DEGLI STATI UNITI La finanza dei vari livelli di governo è attualmente ridiscussa in molti paesi, europei ed extraeuropei, federali ed unitari. Sono in discussione tanto la distribuzione dei compiti (e, di conseguenza, l'entità della spesa pubblica riservata ai vari livelli), quanto il tipo di finanziamento (chi può o deve prelevare i tributi trasferendo una parte del gettito agli altri livelli?) E piuttosto sorprendente, almeno in prima approssimazione, il caso del Belgio. Il paese che ospita la maggior parte delle strutture centrali dell'Unione europea si è "diviso" in una complicata struttura federale che, oltre ai livelli di governo connessi con il territorio, prevede quelli delle Comunità linguistiche. La separazione dei compiti si è spinta talmente da comportare una ripartizione dello stock del debito pubblico preesistente. Naturalmente queste separazioni non implicano necessariamente pericoli, di tipo economico, per l'unità se le finanassicurano meccanismi ze compensativi (di tipo redistributivo); tuttavia, il finanziamento tributario dei livelli inferiori di governo può arrecare


minacce al mantenimento dell'Unione, a meno che non si basi principalmente su imposte su fattori "immobili" e su consumi fiscali. Un problema importante per la futura evoluzione dell'Unione è rappresentato dalla tassazione dei frutti delle attività finanziarie. La mancata armonizzazione di questa forma di tassazione può avere esiti .particolarmente negativi; in tutti i paesi dell'Unione i percettori non-residenti nel Paese di produzione del reddito finanziario sono di fatto esenti o poco tassati. Questo trattamento dei non-residenti, con la libertà di movimento dei capitali, favorisce delocalizzazioni del risparmio; Paesi come l'Italia (il maggiore "produttore" di risparmio dell'Unione), al fine di contrastare l'uscita dei capitali, possono essere costretti ad accettare una concorrenza fiscale verso la detassazione generalizzata dei frutti delle attività finanziarie, con pesanti conseguenze sui gettito e, quindi, sul bilancio pubblico. In queste condizioni potrebbe diventare accettabile, almeno per alcuni Paesi membri, non nel breve periodo, trasferire al livello comunitario questo tipo di tassazione (se si superano le obiezioni di alcuni paesi membri, è possibile nel frattempo un'armonizzazione, con ritenuta e scambio di informazioni, sulle linee di proposte avanzate dalla Commissione). Se si considera, quindi, lo spazio unico europeo nel campo dei capitali, la tassazione dei loro rendimenti (realizzati anche attraverso i movimenti trans-

frontali consentiti dall'esistenza dell'Unione) dovrebbe avvenire al livello più elevato possibile, rispettando così anche il ricordato criterio del "beneficio". Voglio dire che i possibili inconvenienti della mancata armonizzazione della tassazione dei redditi di capitale possono paradossalmente rappresentare una spinta verso un prelievo, non solo organizzato, ma anche prelevato da un livello superiore di governo (europeo). Del resto il definitivo rafforzamento dello Stato federale, dal punto di vista della finanza pubblica, avviene negli Stati Uniti d'America al tempo della prima guerra mondiale; è la necessità, condivisa da tutti gli stati membri, di finanziarie lo sforzo bellico che consente di introdurre l'imposizione federale sul reddito, attraverso un emendamento della costituzione; negli stessi anni si definisce il sistema della Riserva federale (Banca centrale degli USA). La eventualità di un sistema di finanza "federale", che vada oltre l'attuale entità del bilancio comunitario (il livello di spesa della CE è attualmente pari all'1,2 per cento del Pii dell'intera Unione), comincia ad essere preso in considerazione, per sottolineare la necessità nelle fasi ulteriori dello sviluppo dell'Unione economica e monetaria 2 ovvero per scongiurarne, entro certi limiti, il "pericoio '3 1

89


da un gruppo di economisti indipendenti «la solidarietà interregionale doPersonalmente la mia aspirazione e per vrebbe essere realizzata attraverso le fil'esistenza di una finanza pubblica fedenanze pubbliche centrali (dell'Uniorale, anche perché penso che altrimenti ne)... Negli Stati federali esistenti, traapparirebbero spinte dissolutive dell'U - sferimenti di risorse interregionali avnione. vengono attraverso la divisione del getL'esigenza di un livello più elevato di tito tributario e grant, generali e specifinanza non è in contraddizione con fici. La spesa pubblica federale e la sicul'altra esigenza, avvertita nel nostro rezza sociale assicurano implicitamente Paese, di un decentramento, special- (insieme all'impatto regionale della tasmente dal lato dei tributi, verso livelli sazione) flussi addizionali di trasferiinferiori. I livelli intermedi di governo menti... Questo Rapporto sostiene che (le Regioni) mostrano in Italia una quo- questo tipo di flussi di risorse dovrebta esigua di finanziamento tributario bero anche realizzarsi attraverso la fidelle spese, a differenza di quanto acca- nanza pubblica dell'Unione. Ciò è coede negli altri Paesi europei. L'accetta- rente con l'obiettivo della coesione ecozione del principio del "beneficio" (al- nomica e sociale, fortemente enfatizzameno a livello di circoscrizioni territo- ta dal Trattato di Maastricht» 4 . riali) richiede sia un maggiore decentra- Mi sento di condividere queste opiniomento del prelievo tributario nazionale ni e, quindi, anche per questa via, ritensia qualche forma di prelievo sovrana- go che il passaggio graduale verso un zionale (UE); come si è osservato, i fi- "vero" bilancio federale sia auspicabile nanziamento di certi beni "pubblici" e che sarebbe auspicabile che avvenisse il (la protezione dal "buco dell'ozono", più presto possibile, anche prima dell'aad esempio) può richiedere addirittura dozione della moneta unica. Non mi naun prelievo da parte di un organizza- scondo, ovviamente, le difficoltà (forse zione mondiale (ad esempio ONU), l'impossibilità) di decisioni politiche al mentre la pulizia delle strade dovrebbe momento apparentemente così drastiche. essere assicurata da tributi prelevati al In tema di trasferimenti tra le diverse livello minimo possibile. aree di una federazione, bisogna ricordare l'esperienza tedesca. In un quadro Com'è noto la funzione economica del di rapporti chiaramente definiti (evenbilancio pubblico non si esaurisce in tualmente dalla Costituzione) è possibiquella allocativa (l'offerta di beni "pub- le adottare trasferimenti orizzontali, blici"), ma è ormai quantitativamente senza passare sempre attraverso livelli più rilevante, nei moderni Paesi indu- verticali di governo. Se ciò avviene con strializzati, nel campo redistributivo. regole precise, con parametri rinegoziaSecondo il Rapporto, redatto per la UE bili periodicamente, si possono evitare PER UNA FINANZA PUBBLICA FEDERALE

áM


gli inconvenienti derivanti dall'azione, spesso complicata, di troppe burocrazie, perdendo il meno possibile in termini di flessibilità. Evito, in questo contesto, di occuparmi delle implicazioni per le politiche di regolazione macroeconomica, che pure sarebbero interessanti, poiché tra l'altro connettono la politica di bilancio con quella monetaria e per le quali sono state rilevate alcune contraddizioni nel Trattato di Maastricht 5 .

In conclusione, credo che all'Europa non basti una semplice unione doganale (opinione peraltro rispettabile); per ragioni connesse con aspirazioni ideali, ma anche con calcoli di convenienza economica mi pare che il passaggio a una "vera" finanza pubblica dell'Unione europea sia auspicabile, forse addirittura indispensabile, per evitare una "crisi" nel processo di integrazione economica e politica dell'Europa.

Note Si veda A. MAJOCCHI e G. TREMaNTI (eds.), Le imposte del 1992, F. Angeli, Milano, 1990, che riporta le relazioni a un convegno tenuto a Pavia nel 1989, neI cor-

delle Direzioni Affari economici e monetari della Commissione pubblicato su «European Economy», n. 53 deI 1993.

so del quale sono state tentate alcune risposte. 2 Si veda, ad esempio, il recente Rapporto su "Community publicJ'znance in the perspective 0/ EMu", redatto da un gruppo di esperti indipendenti su iniziativa

CEPR, Making Sense of Subsidiarity: How much Centralization in Europe?, Annual Report 1993. "Community" cit. pag. 5. CEPR,

cit. capitolo 6.

91


Il costo dell'inefficienza nei rapporti finanziari con la CEE di Giuseppe Cogliandro

Anche se per il galateo comunitario il termine è sconveniente, l'Italia è stata pure nel 1992 un "contribuente netto". Ha versato cioè alla Comunità una somma maggiore (13.102 miliardi) di quella ricevuta in finanziamenti (11.320 miliardi), con un saldo negativo di 1.782 miliardi (2.244 nel 1991, contro un saldo positivo nel 1990 di oltre 1.280 miliardi). L'opinione corrente attribuisce la causa principale del deteriorarsi dei rapporti finanziari con la CEE alla scarsa utilizzazione dei fondi comunitari, determinata, a sua volta, dall'inefficienza delle Regioni. La diagnosi è corretta, ma parziale. La critica di incapacità di spesa, mossa tradizionalmente alle Regioni, con particolare riguardo a quelle che utilizzano il Fondo europeo di sviluppo regionale, è certamente fondata, e ne ho avuto una conferma personale in occasione dell'applicazione del Programma triennale per la tutela dell'ambiente 1989-9 1, che destinava 1.300 miliardi al finanziamento di interventi ambientali (smaltimento di rifiuti, depurazione delle acque, disinquinamento dell'aria, ecc.) proposti dalle Regioni. 92

Il finanziamento era concesso dal Ministero dell'ambiente sulla base di intese programmatiche stipulate con le Regioni attraverso un confronto dialettico, improntato a informalità ed oralità, volto a verificare tre condizioni: coerenza delle azioni con i documenti di programmazione, fattibilità dei progetti, apprestamento di meccanismi per la verifica dei risultati. Si è trattato, come riconosce la Corte dei conti (Relazione 1992, lI, p. 112), di una procedura "tormentata e defatigante". Basti dire che il trasferimento dei fondi alle Regioni ha richiesto l'impegno assorbente del Ministero per un intero anno, speso per superare mancanza di scenari programmatici, inerzie degli apparati, deficienze tecniche dei progetti, contese istituzionali e ricorrent-i crisi politiche. Esiste però una corresponsabilità dello Stato, che, da un lato, non dà alle Regioni le risorse necessarie per il cofinanziamento delle azioni decise dalla Comunità, e dall'altro, stanzia fondi nazionali per settori assistiti dal contributo CEE, ostacolando nel primo caso e disincentivando nell'altro le Regioni ad


attivare i meccanismi di finanziamento comunitari. Proprio la complessità di questi meccanismi, basati sulla programmazione per progetti, di derivazione francese, costituisce secondo Maria Teresa Salvemini, - responsabile dell'Osservatorio per le politiche regionali - un'ulteriore causa delle nostre difficoltà ad utilizzare adeguatamente i fondi comunitari. Certamente lavorare con procedure eteronome, e pensate in una lingua diversa costituisce un obiettivo svantaggio. Al riguardo desidero però fare due considerazioni. La prima è che i meccanismi di finanziamento sono disciplinati da atti (legislativi) comunitari, alla cui approvazione concorre l'Italia. Ed in questa sede, nella cosiddetta fase ascendente, nella fase di formazione del diritto CEE, che gli Stati membri, attraverso la partecipazione di qualificati esperti alle riunioni di lavoro e presentazione di ben argomentati dossier, esercitano il loro potere di influenza per far sì che i sistemi di finanziamento decisi dalla Comunità siano compatibili, sotto i profili procedurale, organizzativo e contabile, con quelli interni (e, più in generale, per far sì che la decisione comunitaria favorisca gli interventi nazionali). Provvedendo, in caso contrario, ad adeguare tempestivamente il sistema nazionale a quello comunitario. Che l'Italia quindi imputet sibi, se continua ad avere procedure interne difformi da quelle comunitarie.

La seconda considerazione è di merito, e riguarda la programmazione per progetti, che fu introdotta in Italia con la legge finanziaria 1982, istitutiva del Fio: il fondo per gli investimenti e l'occupazione, destinato al finanziamento di interventi immediatamente eseguibili (per i quali cioè l'apertura del cantiere doveva intervenire entro 120 giorni) nell'agricoltura, nell'edilizia, nelle infrastrutture e nella tutela dei beni ambientali e culturali. Il finanziamento di questi progetti era condizionato dall'esito favorevole dell'istruttoria tecnico-economica effettuata dal Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici del Ministero del Bilancio; che utilizzava per l'analisi costi-benefici schede non dissimili da quelle previste della CEE. Questa tecnica di valutazione degli investimenti pubblici si irradiò nella seconda metà degli anni Ottanta in numerose altre amministrazioni. Nuclei sorsero presso il Dipartimento per il Mezzogiorno e i Ministeri dell'ambiente, degli esteri, della sanità, dei trasporti. L'istruttoria del Nucleo di valutazione del Ministero del bilancio doveva tener conto, tra l'altro, dell'attitudine dei progetti a contribuire all'attuazione della normativa comunitaria e ad attivare il relativo cofinanziamento, nonché ad inquadrarsi nei campi di intervento della Banca europea degli investimenti. Il Nucleo, inoltre, aveva la missione di far circolare nelle amministrazioni pubbliche le tecniche e le proce93


dure di valutazione economica degli interventi. L'esperienza Fio si è conclusa ingloriosamente qualche anno fa. Essa non solo non ha saputo assicurare al Paese la scelta di investimenti produttivi, ma non è stata neanche capace di diffondere tra i funzionari pubblici i rudimenti tecnici necessari per la compilazione delle schede che in base alla normativa CEE devono corredare i progetti di cui si chiede il finanziamento. Per non parlare della verifica dei risultati, anch'essa prevista dalla normativa sul Fio e del tutto latitante nella prassi. Se questo è lo stato dell'arte della nostra funzione pubblica, quali sono i possibili rimedi? Uno è certamente quello dell'oculata programmazione finanziaria, che dovrà anzitutto evitare per il futuro gli inconvenienti prima evidenziati, che hanno in alcuni casi impedito e in altri dissuaso l'accesso da parte delle Regioni al finanziamento CEE. Occorrerà inoltre migliorare il monitoraggio dell'esecuzione degli interventi per rilevare tempestivamente inerzie, lentezze, ostacoli operativi e adottare le conseguenti misure adiuvanti, sollecitatorie o sostitutive. Negli ultimi tempi per scongiurare il pericolo di un taglio dei fondi assegnati dalla CEE, il governo ha effettuato una "riprogrammazione" delle risorse comunitarie, dirottando i finanziamenti delle Regioni inefficienti al settore multi-regionale. 94

Trattandosi di decisioni necessitate, esse si sottraggono ad ogni giudizio di valore. Non può sfuggire però che, se la cosiddetta riprogrammazione ha salvato i fondi, essa nondimeno vuinera la funzione redistributiva della politica regionale, pregiudicando le Regioni più bisognose. Il solo rimedio risolutivo consiste, quindi, nell'elevare gli standard di efficienza delle strutture pubbliche. La panoplia degli strumenti è nota: distribuzione delle competenze per aree omogenee (evitando duplicazioni e sovrapposizioni), semplicità procedurale, flessibilità organizzativa, formazione continua, attivazione di meccanismi competitivi all'interno dell'amministrazione, responsabilità dei dirigenti per il mancato raggiungimento dei risultati, controllo di gestione. Il fatto che l'armamentario concettuale sia noto, non significa però che sarà facile darvi effettiva e appagante realizzazione. Considerazione che tuttavia non può costituire un alibi per desistere. Anche perché, secondo me, la situazione è destinata ad aggravarsi. In primo luogo, il Trattato di Maastricht rinforza il ruolo delle Regioni: l'art. 146 consente la partecipazione al Consiglio di rappresentanti degli Stati membri non appartenenti necessariamente al Governo purché di rango ministeriale, status che spetta solo a esponenti regionali; l'art. 198-A prevede poi la costituzione di un Comitato delle Regioni con compiti consultivi. Le Regioni che non saranno in grado di cor-


rispondere a questa crescita di peso decisionale saranno inevitabilmente svantaggiate. Ancora più gravi saranno le conseguenze derivanti dalla recente modifica della normativa sui fondi strutturali. La prima riguarda le Regioni ammissibili al finanziamento. Quelle italiane passeranno da 8 a 7 (l'Abruzzo perderà questo requisito fra tre anni). Per contro, aumentano le Regioni "ammissibili" degli altri Paesi (Belgio, Germania, Francia, Regno Unito, Spagna e Paesi Bassi). Una seconda penalizzazione per l'Italia deriverà dalla sua esclusione dal Fondo di coesione per l'erogazione di contributi a progetti in materia di ambiente e di trasporti (art. 130-D). La penalizzazione è duplice: mancato accesso al Fondo di coesione (riservato a Spagna, Grecia, Irlanda, e Portogallo) e possibilità dei Paesi riservatari di ottenere contributi dai Fondi strutturali in misura elevata (sino all'85%). Altro svantaggio sarà costituito dai criteri di ripartizione degli stanziamenti. In qualche caso si terrà conto - oltre che della prosperità regionale, del tasso demografico, degli indici socio-economici - anche del grado di utilizzazione delle risorse nel precedente periodo di programmazione. Con la conseguenza che l'incapacità di spesa non solo è un inconveniente in sè, in quanto determi-

na perdita di contributo, ma comporterà anche una riduzione dei fondi nella successiva manche programmatoria. C'è ancora da considerare le iniziative comunitarie, le iniziative cioè riservate alla scelta della CEE, alle quali è destinato il 9% degli stanziamenti d'impegno dei Fondi strutturali nel periodo 19941999. Considerato che nelle intenzioni della Commissione queste azioni assumeranno il sigrificato di modelli di riferimento per gli Stati membri, è sin troppo facile prevedere che per la loro realizzazione saranno scartate a priori le "inaffidabili" Regioni italiane. Infine, diventerà, con la recente riforma, più stringente l'onere di corredare le richieste di contributi con convincenti analisi costi-risultati. Ciò significa che le amministrazioni pubbliche dovranno dimostrare alla Comunità che i risultati attesi dalla realizzazione degli interventi - risultati che dovranno essere stimati sulla base della situazione socio-economica, debitamente documentata, e di cui dovrà essere provata la coerenza con gli indirizzi programmatici di settore - siano superiori ai costi, quantificati secondo criteri di congruità. L'acquisizione da parte delle Regioni delle technicalities necessarie per soddisfare le richieste della Comunità è un obiettivo irrinunciabile di cui dovranno farsi carico anche gli osservatori e le osservatrici delle politiche regionali.

95


Con l'Unione Europea senza malessere amministrativo? Un dibattito in redazione

Maurizio Meloni ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA E UTILIZZAZIONE DI FONDI COMUNITARI

Va posto in luce, in via preliminare, il nesso intenso che lega - abitualmente - l'utilizzazione dei fondi comunitari al concreto assetto organizzativo sia delle Regioni che dell'amministrazione centrale statale (quest'ultima in quanto interattiva e nei relativi limiti). Colpisce, in proposito, la ricorrente affermazione della "i,, intesa a modellare su di sé le amministrazioni regionali che avviano le procedure riguardanti i fondi, in considerazione poi - di una percepibile superiorità tecnica degli uffici della Comunità lo Stato centrale rimane, spesso, sullo sfondo e non riesce a svolgere appieno quelle funzioni di apprezzamento generale, di corretto e lato coordinamento, nonché di disamina interna delle compatibilità con l'intero "sistema-Paese", che pure - a livello effettuale - non possono disconoscersi. In conseguenza le Regioni si conformano alle impostazioni di Bruxelles per necessità proprie, talora non valutando, in maniera adeguata, più ampi sce96

1•

nari; e cio pure in presenza ai una eurocrazia" che porta avanti modelli complessi, non flessibili, caratterizzati da discrezionalità, e che impongono indicatori. Altro profilo di interesse si rinviene nella maggiore facilità con cui, di norma, la burocrazia comunitaria intrattiene rapporti con le Regioni, e qui riemerge, ancora, 'l'accennata posizione "sullo sfondo" dello Stato centrale. Questa posizione peraltro rivela, chiaramente, una permanenza di difficoltà nel rapporto Stato-Regioni, che però un buon funzionamento della relativa Conferenza dovrebbe, pur se in modo gradato, superare e risolvere. Un'ultima osservazione si riconnette alla cosiddetta "circolazione extracorporea" che si ravvisa nell'ambito del circuito fondi comunitari - realizzazione delle finalità dell'ente richiedente. La definizione è assolutamente giusta, ma c'è da formulare qualche seria riserva: e questo proprio nell'interesse delle Regioni. Sempre più, infatti, le Regioni portano avanti la loro progettualità attraverso società esterne, sempre meno le stesse Regioni possono effettuare una valida interpretazione della realtà del territo-


rio (anche di un territorio vasto come può essere quello di una Regione molto estesa con proprie peculiarità). Questa interpretazione dovrebbe, invero, rimanere radicata nell'Ente Regione, nei suoi rappresentativi, nelle sue potenzialità e forze interne. L'elaborazione progettuale di una società esterna, che può anche non esistere fisicamente in una certa area territoriale, dovrebbe essere ricondotta a livelli di ausiliarietà e di supporto strumentale nei confronti di linee programmatiche, di scelte strategiche, di risultati economico-sociali sempre autonomamente valutati e decisi.

Girolamo Caianiello DECISIONI FISCALI E LIVELLO DI GOVERNO COMPETENTE

Non è la prima volta che mi capita di osservare che nella nostra normativa costituzionale in tema di bilancio ci sono principi che si ricavano abbastanza facilmente, come le riserve di competenza stabilite dal 3° e dal 4° comma dell'art. 81, nel senso che il legislatore di bilancio decide sui mezzi, e invece le altre leggi, cosiddette sostanziali, decidono sui fini, sugli interessi pubblici da curare ("decisioni reali", per dirla col linguaggio di Brancasi). Però c'è un'altra cosa ricavabile, dal sistema 3°-4° comma, c'è più implicito un altro aspetto, quello di una tendenziale autonomia delle decisioni di entra-

ta, rispetto alle decisioni tanto di bilancio che di spesa. Mi pare che nel secolo scorso sia stato detto - credo in Francia -, che nella finanza moderna sono le entrate che dovrebbero determinare le spese e non correre invece affannosamente dietro queste. Il nostro ordinamento costituzionale sembra ispirarsi proprio a questo concetto. Una tendenziale, non dico assoluta autonomia, e cioè globalità, organicità e sufficiente stabilità nel tempo delle decisioni d'entrata, rispetto alle decisioni d'impiego. Nel senso che tanto il legislatore di bilancio che quello di spesa trovano di fronte a loro un quadro già prestabilito, limitatamente flessible (la manovra delle aliquote anno per anno): un quadro al quale debbono adeguare le loro decisioni d'impiego. Questo profilo non è solamente di organizzazione contabile delle decisioni finanziarie, ma si connette al fatto che le decisioni di entrata sono rivolte a procacciare i mezzi, e sono anche decisioni di carattere "reale", perché i cosiddetti scopi extra-fiscali presuppongono la determinazione di certe politiche che non sono finanziarie, ma di ordine economico-sociale, che vengono attuate anche attraverso la decisione di entrata. Questa dimensione "reale" dell'oggetto delle decisioni di entrate giustifica ulteriormente che esse, sempre tendenzialmente, vengano adottate separatamente dalle altre. Ciò significa che, nel momento in cui

97


parliamo di livelli di Governo (a parte le frangie articolate), per impostare giustamente il problema dovremmo trovare - rispetto al nocciolo fondamentale delle decisioni fiscali -, il livello di Governo competente, sul terreno della politica economico-sociale che si avvale dello strumento tributario.

Bartolomeo Manna L'ELEFANTIASI BUROCRATICA DI BRUXELI

N lATTORE DI CRISI

Partendo dalla mia esperienza professionale presso il Ministero di Bilancio, soprattutto dal disagio provato per non sapere quale orientamento prendere nel campo dell'utilizzazione di fondi cofinanziati, - (stante l'atteggiamento delle Regioni che non riescono ad operare nel modo dovuto con approcci in sintonia con la burocrazia europea) -, mi pongo un dubbio rilevante: la burocrazia europea è così necessaria, almeno nella preponderante presenza che sta assumendo? La burocrazia europea non è l'Europa, non sono i Trattati che stiamo sottoscrivendo ed applicando, non è ciò che veramente ci aspettiamo dal futuro dell'Europa. La burocrazia europea è un'invenzione pura che ci stiamo trascinando avanti da tempo, che stiamo alimentando ed enfatizzando noi stessi. Ma potrebbe anche non esistere nella dimensione che va assumendo per gestire, fondamentalmente, caPR

pacità, risorse e mezzi che sono quelli di ciascuna nazione. Mi sembra che la burocrazia europea, così elenfatiaca, sia fine se stessa e che si sviluppi per potenziare se stessa: è un potere che si sta gonfiando enormemente, in modo deformato. L'Europa forse è nata peggio di come sono nate le Regioni italiane, ma noi stiamo perseguendo il modello peggiore, fondato su una burocrazia autoenfatizzante, che ci sta costringendo a fare cose assolutamente inutili. In particolare lo Stato italiano si sta facendo imporre meccanismi giuridicoamministrativi estranei alla cultura nazionale, oltrettutto per cose che non interessano. Se analizzassimo bene tali meccanismi ci accorgeremmo che portiamo alla Comunità le nostre risorse per sentirci dire come bisogna gestirle; spesso soltanto una parte delle stesse risorse ci viene assegnato come contributo e perciò il differenziale è minimo. Se l'operazione è quella di livellare l'Europa, perché tutte le Regioni operino allo stesso livello e perché ci sia il maggior grado di uniformità possibile, allora basta fare un'operazione di tipo orizzontale e di tipo verticale. La burocrazia bruxellese serve soltanto se preserverà questo tipo di interscambio che va dal basso verso l'alto, per ricadere poi a pioggia su alcune Regioni. Ciò che potrebbe essere utile, oggi, è trovare il modello di come operare perché ad esempio, la Calabria si adegui agli standard europei: per questo, però,


non occorre adattarsi alle vessazioni della burocrazia bruxellese. Gli ultimi due modelli che stanno nascendo in Italia in questa fase di transizione, tesi a razionalizzare i rapporti con l'Europa, potrebbero essere: 1) la riforma del Ministero dell'agricoltura in atto e 2) la riforma del Ministero del bilancio, già espressa in forma avanzata mediante l'emanazione di un'apposita normativa. La riforma del Ministero dell'agricoltura, a mio avviso, non ha privilegiato questa necessità di modellarsi a struttura intermedia tra Regioni e Comunità ed ha scelto la strada protettiva delle prerogative dell'alta burocrazia esistente: così ha immaginato tante nicchie dove mettere i dirigenti come santini. Si sarebbe dovuto operare in modo diverso: creare una task force, una nuova burocrazia intelligente che parli francese correntemente per dialogare con Bruxelles alla pari e riportare in Italia il nuovo modello da far seguire alle Regioni. Un'altra parte della rinnovata dirigenza statale dovrebbe saper intervenire convincentemente sui calabresi, sui serbi, sui siciliani per indurli ad operare fattivamente. Il modello prescelto dell'Agricoltura invece è poco utile a questa nuova visione e non serve, né sul versante Europa, né sul versante Regioni. Spero che al Bilancio non si ripeta lo stesso errore nel fare la riforma del Ministero. Manchiamo di una cosa; proba-

bilmente di una burocrazia ancora più intelligente ed intellettuale. Questo potrebbe essere un ruolo da assegnare all'Osservatorio delle Regioni: un ruolo di organismo pesante per indirizzare la politica e dare spunti ai politici che vanno a Bruxelles per trattare immaginando già il "piano di intervento comunitario" prima che il piano si faccia, anticipando l'approfondimento dei problemi prima che diventino "emergenze". Occorrerebbero "uomini di programma", ovvero uomini che concepiscano il programma adeguato per l'Italia pur tenendo conto delle impostazioni della burocrazia di Bruxelles. Ciò fino a quando saremo costretti a seguire questa burocrazia, fin quando non arriveremo a un sistema di raccolta di fondi compensati con il quale raggiungere l'obiettivo di disporre di tale burocrazia in modo nuovo e più positivo. A tale "staff di programma" dovranno seguire altre scelte, quali un Nucleo di Attuazione che faccia valutazione e monitoraggio. Supereremo in questo modo la crisi dell'europeismo, essendo quest'ultima una crisi che va risolta sul piano politico cercando di trovare, con lungimiranza da parte italiana, una soluzione per contrastare il potere di Bruxelles: a partire da quello egemonizzante della lingua, per proseguire con quello delle procedure. RE


Giancarlo Salvernini L'UTILITÀ DEL METODO DI COFINANZIAMENTO Il problema che mi pongo riguarda il cofinanziamento dei progetti di investimento regionali tra Comunità e Paesi membri, nonché i conseguenti rapporti triangolari tra Comunità, Stato e Regioni. Il cofinanziamento deve essere visto non semplicemente come una modalità di ripartizione (al 50 per cento) dei costi dei singoli progetti. La logi, dovrebbe essere quella di porre in rapporto, da un lato, una entità finanziatrice che mette parte delle risorse, dall'altro, l'ente che tende ad avere il beneficio dell'opera e, quindi, mette risorse proprie. Se questa è la logica, mi sembra che sia particolarmente importante che queste risorse siano proprie delle Regioni, vincolate a queste opere, e non delle risorse dello Stato o derivanti da trasferimenti indifferenziati. Per esaltare il legame tra costo e beneficio è importante che almeno parte delle risorse siano delle Regioni. Una volta che fosse così, quale dovrebbe essere il giusto rapporto, tra Comunità, Stato e Regioni? Se le risorse nazionali sono delle Regioni, è giusto che vi siano rapporti diretti tra la Comunità e le Regioni; vi è un rapporto simile a quello tra un ente finanziatore e l'impresa che partecipa al suo investimento con le sue risorse: i legami di controllo tra l'ente finanziatore e l'impresa devono essere diretti. 100

La ragione dell'intervento dello Stato, in questo caso, non la vedo: è possibile che vi sia solo in caso di progetti interregionali, di progetti di finanziamento non specificatamente regionali. E chiaro che un intervento in cui sono parte in causa le Regioni da sole rischia, in un Paese come l'Italia, di funzionare solamente per quelle che sono capaci di portare avanti sia la fase di progettazione e di controllo e sia la fase dei rapporti con la Comunità. Altre Regioni potrebbero restare più indietro. Questo è un problema che può essere in parte risolto con quella che è stata chiamata "circolazione extra-corporea". Cioè, se un ente non ce la fa da solo, chiede l'intervento di qualcuno che però opera a beneficio dell'ente stesso. Tra questi interventi "extra-corporei" possiamo considerare anche l'intervento dello Stato: se c'è un'amministrazione pubblica centrale che può coadiuvare l'opera delle Regioni, ben venga. Non sono però sicuro che questa espertise ci sia nell'amministrazione pubblica centrale. Gli interventi "extra-corporei" che vanno a beneficio del corpo sono ben accetti. Ma, nel.caso in cui il beneficio non c'è (ad esempio, per quel che riguarda i programmi di formazione cofinanziati, è stato detto che alcuni di questi servivano ad altri scopi), non mi preoccuperei molto se le risorse comunitarie non sono utilizzate. In questi casi si ha comunque spreco di risorse: meglio non ricevere i fondi della Comunità, che richiedono un altro 50 per cento


a carico del Paese, piuttosto che sprecare inutilmente anche fondi della collettività nazionale. Veniamo al problema dei controlli. Se chi riceve i fondi, per conseguire un proprio beneficio, partecipa con sue proprie risorse, sarebbe logico che internalizzi i controlli, sviluppi una sua capacità di controllo. Per realizzare ciò, ci vuole un po' di tempo. All'inizio si può essere aiutati dall'esterno, però chiaro che è necessaria una base culturale condivisa, in cui chi opera dall'esterno abbia una controfaccia, all'interno, che capisca lo stesso linguaggio. Splo in questo caso l'operazione di controllo non si traduce in un'operazione burocratica di riempimento dei moduli richiesti dalla Comunità, ma si capisce il significato di questi moduli. Lo stimolo che viene dalla CE è terribilmente importante: anche in questo caso la CE ci sta chiedendo delle cose alle quali siamo interessati noi stessi. Sarebbe auspicabile che il metodo del cofinanziamento fosse utilizzato già all'interno del sistema italiano, nei casi in cui si fa un intervento con fondi dello Stato a favore di una Regione in generale, i controlli dei costi, e i controlli dei benefici che ne ricavano, sono importanti per s, e non perché richiesti dalla CE. Se l'amministrazione pubblica italiana non è capace di farli, ben venga lo stimolo di Bruxelles che ci impone di farli. Problemi simili si sono verificati in sede di rilevazione comunitaria degli aiuti di Stato alle imprese; anche in que-

sto caso alcuni funzionari italiani si opponevano al controllo. La Commissione CE chiedeva delle cose normalissime: chi concede dei fondi alle imprese dovrebbe sapere a che cosa servono e per quale motivo ha deciso di darli; quindi piuttosto di porsi in posizione critica nei confronti di Bruxelles, che chiedeva tali informazioni, era semplicemente da riconoscere la "stranezza" del fatto che le amministrazioni pubbliche italiane non sentissero autonomamente il bisogno di avere queste informazioni per il loro operare.

Marco Cimini I DILEMMI DEGLI AMMINISTRATORI PUBBLICI

Credo si debba anche spezzare una lancia a difesa degli amministratori pubblici, che nella concreta gestione dei fondi comunitari si trovano ad affrontare delicati problemi di compatibilità e congruenza tra il sistema amministrativo e contabile nazionale, all'interno del quale devono operare, e i meccanismi comunitari di finanziamento, di valutazione e di rendicontazione, che sono fondati su un impianto concettuale totalmente differente. Questa mancanza di raccordo tra i meccanismi che governano i fondi comunitari e le norme che disciplinano la gestione amministrativa e contabile delle nostre amministrazioni pubbliche si scaricano tutti, in definitiva, su chi ha la concreta responsabilità della realizza101


zione dei progetti e quindi della gestione dei fondi. Bisogna dire quindi che un amministratore pubblico deve avere una certa dose di coraggio, e molta determinazione, per riuscire a spendere i fondi comunitari in modo tempestivo ed efficace, nelle condizioni in cui è costretto ad operare. Innanzi tutto la gestione dei progetti multiregionali assegnati dalla Comunità ad enti nazionali sarebbe dovuta avvenire sulla base di convenzioni tra questi e l'Agensud, e sulla base delle regole in esse definite. Ebbene, a fronte di progetti assegnati nel 1990 l'Agenzia non è mai riuscita a definire e stipulare queste convenzioni, che sono state infine firmate dal Ministro del bilancio solo nell'estate del 1993; il problema era però che per la Comunità quelle assegnazioni erano pienamente valide ed operanti, ed anzi i fondi avrebbero dovuto essere totalmente impegnati entro il 1993, a pena di decadenza, ed i relativi progetti avrebbero dovuto essere comunque completati entro il 1995. Gli enti assegnatari dei progetti si sono trovati così di fronte ad un dilemma tra non operare o operare senza regole certe. Attendere che si definisse il quadro delle certezze formali, rinviando a tale momento ogni decisione di spesa, avrebbe infatti comportato la mancata realizzazione del progetto, la restituzione dei fondi della Comunità e l'essere considerato da questa come un assegnatario certamente poco affidabile. L'alternativa era quella di iniziare a rea102

lizzare e a spendere sulla base della sola lettera di assegnazione comunitaria, ma senza alcuna garanzia contrattuale e senza conoscere le regole e le procedure che la successiva convenzione, quando mai fosse stata firmata, avrebbe introdotto. Ciò che appariva quindi possibile e anche doveroso nei confronti della Comunità trovava scarsi riscontri, in termini di sussistenza dei presupposti di legittimità della spesa, nei regolamenti di contabilità degli enti. Ciò che è importante considerare, è che questa contrapposizione non può essere considerata un mero accidente di avvio dei progetti, pur deprecabile ma tutto sommato frutto di vicende contingenti. In realtà la stessa effettiva gestione dei progetti è contrassegnata da questa difficoltà di contemperare e far convivere, all'interno delle pubbliche amministrazioni nazionali, una filosofia comunitaria di valutazione dei progetti, che guarda essenzialmente all'efficacia degli interventi ed ai concreti risultati raggiunti, con un sistema amministrativo nazionale tutto imperniato su una disciplina delle procedure di spesa che considera prevalenti gli aspetti di legittimità formale. Poiché, inoltre, in ogni progetto concorrono fondi comunitari e fondi nazionali, il contrasto incide subito sulla stessa certezza circa l'entità effettiva dei finanziamenti complessivi: infatti mentre, come è noto, gli stanziamenti nazionali sono rigidamente fissati dalle leggi di bilancio e dagli atti amministrativi che impegnano la spesa e questa


viene riconosciuta sulla base di un mero esame di legittimità, i finanziamenti comunitari vengono riconosciuti a posteriori sulla base dei risultati conseguiti secondo parametri di efficacia predeterminati. Per di più sui versante delle regole comunitarie esistono dei margini di discrezionalità abbastanza ampi circa i criteri di riconoscimento di alcuni costi, quali quelli figurativi di organizzazione e gestione dei progetti e quelli incrementativi dell'attività ordinaria. Per questi ultimi si dice infatti che ove il progetto rappresenti un ampliamento delle attività già in precedenza svolte istituzionalmente dall'ente assegnatario, i relativi costi verranno riconosciuti nella misura in cui siano incrementativi dell'attività ordinaria. E chiaro quindi che qui si inserisce un elemento di rischio collegato alla valutazione di questo carattere incrementativo del progetto, tanto più in un contesto in cui il contenimento della spesa pubblica nazionale determina una riduzione delle attività ordinarie e quindi il carattere incrementativo non è dimostrabile sulla base di una semplice serie storica, ma va interpretato come "mancata riduzione dell'attività ordinaria". Analoga incertezza si determina in relazione alla misura del riconoscimento dei costi figurativi, cioè in quei costi generali di organizzazione (impiego del personale e delle strutture dell'ente assegnatario), pur correlati alla realizzazione del progetto, ma non documenta-

ti, al pari dei cosiddetti "costi esterni", da specifici giustificativi di spesa: anche in questo caso la concreta misura del futuro riconoscimento è fortemente correlata alla qualità dei risultati e caratterizzata da un certo margine di discrezionalità da parte di chi valuta il progetto. C'è quindi una forte incompatibilità tra le esigenze di certezza e di formalismo che caratterizzano la gestione amministrativa e finanziaria dei nostri enti pubblici e le caratteristiche dei finanziamenti comunitari, molto più orientati al risultato. Allora, si capisce che un'amministratore pubblico che anche abbia voluto superare il problema iniziale della mancanza di una convenzione, giudicandolo solo un dato formale ma assumendosi comunque un certo rischio, comincia però a chiedersi come e da chi saranno eventualmente ripianati i costi che la Comunità dovesse non conoscere, costi comunque non coperti dagli stanziamenti nazionali. Ed anche se per caso il mancato riconoscimento di tali costi per valutazioni attinenti al mancato conseguimento degli obiettivi non possa, interpretato nel linguaggio della giustizia amministrativa nazionale, tradursi in una imputazione per danno erariale. Spesso, d'altra parte, il mancato conseguimento degli obiettivi non dipende soltanto dalla capacità dell'ente assegnatario, ma anche da fattori esogeni al di fuori delle sue possibilità di controllo, tra cui ritroviamo talora altri pro103


blemi di carenza di raccordo tra norme comunitarie e legislazione nazionale. Ciò avviene, ad esempio, quando la Comunità richiede che un certo progetto sia realizzato non soltanto con una compartecipazione finanziaria da parte dello Stato nazionale, ma anche, in una certa quota, da parte dei privati. La misura di questa compartecipazione privata è, tra l'altro, uno dei criteri di valutazione della riuscita del progetto stesso: ebbene, spesso noi troviamo contemporaneamente una legislazione nazionale o regionale che finanzia progetti analoghi senza richiedere alcuna compartecipazione privata o con quote di compartecipazione molto inferiori a quelle richieste dalla Comunità. Ci troviamo così di fronte ad una sorta di "concorrenza sleale" degli interventi finanziati con fondi nazionali rispetto a quelli che sono oggetto di un finanziamento comunitario, ad un altro caso in cui "la moneta cattiva scaccia la buona". Esistono quindi difficoltà oggettive, al di là dei limiti soggettivi delle singole amministrazioni, che si frappongono alla realizzazione efficace e nei tempi previsti di questo tipo di misure comunitarie, molto spesso a causa di un sistema amministrativo nazionale superato e comunque non sufficientemente raccordato con quello delle istituzioni comunitarie. La disciplina del rapporto di impiego pubblico, ed in genere le norme che disciplinano l'impiego del personale nella pubblica amministrazione, rappresentano da questo punto di vista la discra104

sia più rilevante. Bisogna rendersi conto del fatto che in quasi tutte le misure comunitarie il compito degli enti assegnatari, sotto il profilo tecnico-economico, è quello di trasformare gli stanziamenti finanziari in servizi di terziario avanzato. Se vogliamo che le pubbliche amministrazioni possano produrre esse stesse, con le proprie risorse, questo valore aggiunto, senza quindi ridursi a meri subappaltanti di commesse comunitarie, - come da più parti è stato giustamente raccomandato - dobbiamo però capire come il fattore critico sia rappresentato della disponibilità all'interno delle amministrazioni di risorse professionali adeguate e ben definite, che l'ente pubblico deve essere in grado di poter acquisire: nella misura e per i livelli di specializzazione necessari; in tempi brevi, e quindi con processi decisionali e attuativi la cui durata sia compatibile con le scadenze dei progetti; anche per periodi determinati e comunque correlati alle esigenze ed alla durata del progetto. Da questo punto di vista non soio abbiamo un disciplina generale del rapporto di pubblico impiego che non consente il soddisfacimento di queste esigenze, ma le stesse norme più recenti, in particolare i provvedimenti di accompagnamento alla finanziaria, operano una vera e propria regressione, laddove, accanto al blocco delle assunzioni


ed alla reintroduzione del limite dei tre mesi per i contratti a termine, rendono di fatto inapplicabile anche la formula delle collaborazioni continuate e coordinate che, pur con tutti i suoi limiti, rappresentava l'unica alternativa al subappalto dei progetti. Se è infatti pur comprensibile che ci si preoccupi di contenere l'aumento del numero dei dipendenti pubblici e della relativa spesa, non si può pensare che le uniche deroghe meritevoli di considerazione siano quelle che riguardano la giustizia e l'ordine pubblico: altrimenti la eccessiva generalizzazione dei provvedimenti e la mancata considerazione di esigenze particolari conduce a risultati contrari a quelli considerati. È infatti evidente che se un ente deve moltiplicare il proprio intervento in un dato settore e non può acquisire direttamente le risorse professionali necessarie, - non solo in quantità, ma anche in qualità -, il ricorso ad esterni diventa, di fatto, inevitabile. Se non vogliamo che, per l'impossibilità di spendere i cento milioni per la collaborazione di un tecnico o di uno specialista si finisca per affidare ad una agenzia esterna un'intera commessa da un miliardo, occorre rendere più flessibili le possibilità e le regole di reclutamento del personale, troppo dominate tra l'altro dalla preoccupazione di garantire l'equità piuttosto che l'efficienza.

Francesco De Filippis RIMUOVERE LE DIFFICOLTÀ ENDOGENE

Desidero iniziare puntualizzando una situazione particolare: il ruolo dell'Italia quale contribuente netto a favore delle finanze CEE non si è verificato la prima volta lo scorso anno ma risulta di vecchia data: si può dire che risale all'istituzione della Comunità, anche se non è stato sempre evidenziato, in quanto le contabilizzazioni sono eseguite in termini di versato/impegnato. Ora, sul piano degli impegni sono parecchie le somme che risultano impegnate a favore dell'Italia (per un arco di tempo che va dagli anni Ottanta-Novanta è risultata beneficiaria). Se però andiamo a vedere proprio la gestione di cassa, cioè facendo riferimento non agli impegni ma ai programmi, val dire a quanto è stato erogato in moneta, allora la realtà è diversa nel senso che l'Itaha risulta contribuente netto a favore delle finanze dell'Unione. Questo sta a significare che i contribuenti nazionali pagano per quelli dell'Unione europea. Il differenziale versato impegnato evidenzia un risultato positivo a favore dell'Italia di guisa che la stessa risulterebbe beneficiaria nei confronti della Comunità europea. Al livello di cassa però, l'Italia versa a favore degli altri Stati, in quanto conferisce alla Comunità più di quello che la Comunità ritorna: non c'è il cosiddetto "giusto ritorno". Un altro profilo concerne il modo con 105


cui i problemi italiani sono trattati a Bruxelles. In tale ambito la nostra carenza è macroscopica, perché manca da noi una politica, un quadro di riferimento di come ci si deve comportare. In via generale, è lasciata all'iniziativa personale dei partecipanti che operano e il più delle volte impegnano il nostro Paese senza alcuna istruzione governativa ed al di fuori di un coordinato quadro operativo. L'Italia gioca di rimessa, ve.nendosi a trovare in una posizione di grave sfavore perché gli altri Stati e la Commissione conoscono benissimo questa debolezza italiana. Accade sovente che le soluzioni accolte in sede europea troveranno in Italia una difficilissima e sicuramente tardiva attuazione. Si può discutere se gli altri Stati membri debbano far prevalere il proprio egoismo perché consapevoli che le decisioni prese in sede comunitaria saranno di difficile attuazione proprio da parte di un Paese, portatore di un gap culturale, finanziario e tecnologico, di notevoli dimensioni specie nei confronti degli Stati fondatori. La Comunità non dovrebbe tendere ad approfittare delle debolezze altrui, quanto invece mirare alla presa di coscienza dei problemi dei Paesi più deboli alfine di risolverli, nel senso di far migliorare il processo unitario. Un ulteriore profilo concerne la perdita dei fondi CE in caso di mancata realizzazione dei programmi e dei progetti. Questo sembra un procedimento razionale sul piano sanzionatorio, però l'o106

biettivo per cui questi soldi sono stati impegnati si concreta nell'esigenza di voler diminuire le disparità e di voler conseguire l'omogeneità; cioè di voler diminuire le differenze tra Regioni, tra Stati, tra diverse aree etc. Se i soldi si perdono vuol dire che queste differenze rimarranno, anzi si accresceranno. Poiché le Regioni più sviluppate andranno sempre più avanti e le altre, per una serie di circostanze, rimarranno sempre più indietro. Invece, i trattati delle Comunità europee (in particolare quello di Maastricht) vogliono che si vada verso una certa compatibilità tra le economie e le socio-culture degli Stati membri. Questo obiettivo è frustrato e l'azione comunitaria s'appalesa incoerente con la finalità dell'azione del programma. Sono state indicate le cause endogene ed esogene. Confesso che di cause esogene ne vedo poche: quelle che potrebbero essere imputate a Bruxelles etc. sono, a mio avviso, di secondario rilievo. Se riusciamo a risolvere tutte le cause endogene, allora possiamo presentarci ben diversamente armati per fare un discorso a Bruxelles nel senso migliorativo degli interventi. A parte la carenza culturale di concepire l'azione nel senso di proficuità dei risultati nonché di armonia e di compatibilità con quelli che sono gli obiettivi comunitari, la posizione italiana si caratterizza per il compimento di azioni ispirate alla "politica di competenze", in una visione strettamente localistica, secondo cui la richiesta di contribuzioni provvede alla


realizzazione di campi sportivi piuttosto che di altre iniziative protese a colmare, nell'ambito comunitario, il nostro divario. Quindi, sussiste un problema culturale a cui bisogna porre rimedio altrimenti tutto diviene più difficile. A mio avviso occorre prevedere ed assicurare agli operatori interessati una costante assistenza, direi quasi una "tutela", nei confronti delle Regioni meno sviluppate nel senso di curarle, di condurle per mano al fine di dare loro l'organizzazione, la struttura, la capacità, le competenze professionali per la realizzazione dei programmi che sono meritevoli di finanziamento. Naturalmente questa carenza culturale determina una differenza di omogeneità ed una mancanza di coordinamento tra l'azione nazionale, quella regionale e quella comunitaria; il nostro ordinamento regionale riproduce un modello costituzionale che sicuramente inadeguato per quanto riguarda i rapporti con la Comunità. Il potere estero delle Regioni viene contestato, disconosciuto e reso difficile anche quando è esercitato dalle Regioni più sviluppate. La progettazione è carente. Non si possono fare discorsi di principio e teorici quando poi, all'atto pratico, gli organismi che dovrebbero operare sono incapaci di agire. E bene sfruttare le energie dove esistono, naturalmente attraverso un controllo preliminare indicando bene gli obiettivi, i tempi, le procedure. Necessita porre in essere una minuziosa ed efficiente rete di monitoraggio per evitare il processo

di sviamento che permette di conseguire facili arricchimenti oppure altri obiettivi non sempre utili o consentiti. In parole povere, in Italia si rinviene una carenza quasi totale delle strutture nazionali e regionali. Le azioni sono palesemente incongrue e quindi noi dobbiamo fare lo sforzo per adeguare, laddove è possibile, gli interventi nazionali, ma soprattutto quelli regionali, alle finalità comunitarie. Laddove gli organismi regionali non rispondono (penso soprattutto alle regioni meno sviluppate del Meridione: Calabria, Campania, Puglia, Sicilia), occorre creare delle task force che vanno a pilotare, ad ammaestrare, a dare cultura, sia pure "a latere" -, perché questi interventi strutturali, in particolare quelli del Fondo regionale, possano essere realizzati. In conclusione, in Italia è stato creato quello che a Bruxelles viene chiamato il "paradosso italiano". Quando si tratta di parlare di Europa noi siamo in testa in tutte le statistiche. Il 90% degli Italiani è favorevole allo Stato federale, se non allo Stato addirittura Unico, nel senso di creare una sola Europa; l'Italia conferisce l'elettorato passivo agli stranieri ecc. Sul piano delle enunciazioni filosofiche e dei principi siamo i primi della classe; quando però si passa all'azione, il quadro è veramente desolante perché, mentre negli altri Stati si sente l'uso del tempo presente ("facciamo") oppure passato ("abbiamo fatto", "facemmo"), in Italia quello che ho sem-

107


pre sentito è "faremo", "analizzeremo", "studieremo", "vedremo", "indagheremo". Tutto è proiettato verso il futuro, laddove le azioni avrebbero dovuto essere realizzate da anni. E questo il paradosso che abbiamo: uno scollamento totale e assoluto tra quello che è una professione ideale di fede e ciò che è l'azione concreta. Condivido l'impostazione di partire settorialmente senza fare grandi discorsi perché altrimenti poi non si risolve niente, si va a finire in una specie di dogmatismo accademico che non risolve i problemi. Occorre vedere quello che si deve fare ed eventualmente contestare anche la sanzione, cioè la perdita dei fondi, perché in quel modo il problema resta irrisolto. Va riconosciuta la necessità di assistere e pilotare gli operatori (anche la Commissione sarebbe felicissima di mandare i suoi tecnici che sono molto più preparati dei nostri), affinché su1 piano dell'organizzazione, della progettazione, dell'amministrazione, delle finanze, della contabilità, degli indicatori, delle valutazioni, del monitoraggio etc., si possa acquisire capacità professionale tecnica che permetta all'Italia di utilizzare i fondi CE e quindi di soddisfare le finalità comunitarie tendenti a colmare le lacune tra varie Regioni.

108

Alessandro Minuto Rizzo STRUTTURE INTERNE PIÙ FORTI Qualcuno, in questa sede, parlando sulle politiche regionali si è posto il problema se sono al cuore del sistema europeo o meno. Vorrei precisare che si tratta della seconda politica comunitaria dopo quella agricola, in ordine di importanza. Dal 1994 ci sono per i prossimi sei anni, 160 mld. di unità di conto per le politiche regionali; ciò chiarisce bene perché dopo la PAC la politica regionale sia la più importante. Parlando poi dei modelli di comportamento (il modello nordico, il modello italiano, ecc.) sul piano dei principi sarebbe auspicabile un diverso equilibrio di potere all'interno della Comunità. Dibbiamo però essere franchi e realisti. Oggi non c'è un problema aperto sul fatto se il modello amministrativo italiano sia opposto ad un modello comunitario o se si possa far prevalere il nostro su quello o quali possibilità ci siano di seguire una via autonoma. I regolamenti sono quelli che sono, abbiamo deciso di partecipare a questo gioco e ci piaccia o no, non c'è modo di uscirne. Ormai l'unica maniera per limitare il potere della Commissione sarebbe quella di limitare le politiche strutturali, cioè ridurre al massimo il bilancio della Comunità. A questo punto, il peso della Commissione si svilupperebbe soltanto ad un livello inferiore; quindi


un Paese potrebbe avere soio in parte una politica autonoma nazionale. Un'altra cosa che dobbiamo tener presente, visto che facciamo parte di un club quale la Comunità, è che dobbiamo uniformarci alle regole della maggioranza (qualcuno ha già ricordato che non facciamo ascoltare abbastanza la nostra voce a Bruxelles). Nel nuovo regolamento dei fondi strutturali, avendo debolezze strutturali ed organizzative in casa, abbiamo cercato di essere contrari a complicazioni di ulteriori procedure ma non ci siamo riusciti perché la Commissione e la maggioranza erano in senso completamente opposto. Vista questa situazione dobbiamo trovare delle soluzioni concrete ed operative senza discutere su di un mondo che potrebbe essere diverso, ma non lo è. Dal mio punto di vista vedo una sola via d'uscita ed è quella di un rafforzamento delle nostre Strutture, finché l'Europa rimane quello che è. Mi Sembra una cosa realizzabile se ne fossimo convinti completamente ed è, credo, l'unica strada possibile. Dobbiamo attrezzarci all'interno della nostra amministrazione in maniera coordinata, evitando duplicazioni, avendo nuove capacità d'intervento articolate di valutazione e di analisi. Se ci riusciamo credo che i problemi per il futuro saranno quasi completamente risolti. Tra l'altro, questo rafforzamento dell'amministrazione è necessario perché si costituirà il Comitato Consultivo delle Regioni. Porterà certamente una

nuova forma di. partenariato fra Commissione, Consiglio, Stato membro e Regioni ancora più complesso di quello che è oggi. Sarà un canale di espressione degli interessi regionali più forte e quindi sarà più forte la necessità da parte dell'amministrazione nazionale di essere in grado di controllare questi versanti.

Giuseppe Carbone FINANZA EUROPEA E DEFICIT DEMOCRATICO

A me sembra che nonostante le molte difficoltà di lanciare dei ponti fra un discorso come quello del deficit di democrazia e l'altro della costruzione di una finanza europea, è molto importante capire come i due temi possano comunicare. Vorrei tentare di portare un piccolo contributo su un tema particolare, capace di incoraggiare questa comunicazione. La costruzione di ordinamenti nella storia d'Europa, anche quando si è trattato di unità nazionale, non è partita dalla democrazia. L'unità si è venuta costruendo a partire da ordinamenti unitari che hanno giocato il ruolo di contenitori, dentro i quali sono venute emergendo domande e risposte parziali e progressive di democrazia, e in tali vicende protagonisti sono sempre stati interessi forti, da una parte, e un qualche consenso di sentimento popolare, di opinione pubblica, dall'altra. Anche per l'Europa, sono questi stessi


gli ingredienti che hanno svolto il ruolo di protagonisti nel procedimento di costruzione comunitaria, che sta percorrendo un lungo processo costituende da quarant'anni a questa parte: la vicenda è appunto più che di una gestione, di una costruzione, è un processo costituente. Questo processo costituente è chiamato a comporre ordinamenti preesistenti, a intrecciarli ed in una certa misura ad assorbirli e dissolverli. In questo processo i soggetti da assemblare hanno un retroterra culturale e civile comune, ma hanno anche interessi economici convergenti in un mercato comune, nonché un retroterra di comuni esperienze democratiche o quanto meno un comune denominatore «di esperienze democratiche». In questo processo la costruzione comincia a dare spazio a domande di democrazia, perciò il Parlamento europeo. Il Parlamento, quando lo abbiamo votato, abbiamo tutti sperato fosse dotato di una sua implicita dinamica di espansione, per essere organo di investitura popolare. E invece il Parlamento stenta ad espandere i propri poteri entro il quadro di un ordinamento precostituito su organi forti che decidono e gestiscono rapporti forti e agguerriti, ben poco disponibili alle ragioni e alle regole della democrazia. Ciò nonostante, a me sembra che il Parlamento costituisca un importante punto di leva per far progredire la dimensione della democrazia nella Comunità. Sarei abbastanza d'accordo nel 110

non assumere meccanicamente modelli sui quali misurare il deficit di democrazia, perché mi pare ci sia una specificità, una peculiarità nella costruzione della Comunità, nella prospettiva del federalismo, nell'assemblaggio di questi soggetti, sicché un meccanico confronto con il modello di democrazia nazionale, la sovranità popolare identificata alla sovranità nazionale, mi sembra astratto, non convincente. I discorsi (che ascoltavo da De Filippis) sul valorizzare, esaltare come non deteriori e non subordinati i poteri di indirizzo e controllo del Parlamento europeo rispetto alle competenze di gestione della Commissione e del Consiglio, muovono da un'ottica che riesce a cogliere l'aspetto non subordinato e non minore di un'esperienza democratica in questa costruzione. Fatta questa premessa, arrivo al tentativo di contributo più specifico. Questo contributo più specifico (che viene da un'esperienza di cui vi do racconto) mi sembra che vada nella stessa direzione che aveva di mira Maria Teresa Salvemini, la quale valutava come utile e positiva la spinta che può venire dalla Comunità sulla nostra struttura istituzionale e amministrativa, non tanto per sovrapporre estranei ma validi modelli comunitari e peculiari modelli italiani, quanto per sospingere al cambiamento e alla riforma modelli italiani che dall'interno non siamo riusciti ad aggiustare, a modernizzare (la programmazione di bilancio, il bilancio per progetti, la. non casualità della spesa, la rilevanza


della dimensione tempo nella realizzazione: tutte cose che ci siamo proposti da vent'anni, ma a fronte delle quali abbiamo incontrato attriti e resistenze in culture che ancora ci inchiodano al passato). Occorre far leva sulla sollecitazione comunitaria per vincere questa anchilosi, questa antichità delle nostre strutture, e per imporre - inizialmente per settori - almeno modelli di programmazione del bilancio e di gestione della spesa più moderni. In questa direzione vanno ricercati dei successi, per costruire un ordinamento che, certamente, dovrà deferire alle diversità nazionali e regionali, ma che dovrà necessariamente - lo sta facendo da trent'anni a questa parte - introdurre elementi di omogeneità, al di fuori dei quali non si ha Comunità, non si ha ordinamento comune. Tutta la produzione normativa della CEE è proprio intesa a conquistare quel tanto di unità che deve convivere, coniugarsi con le diversità. L'esperienza che ho fatto partecipando a riunioni annuali delle Corti dei conti nazionali della Comunità con la Corte dei conti europea, discende dalla novità introdotta dal Trattato di Maastricht con l'art. 188, comma c), il quale predica come dovere-potere della Corte europea un compito nuovo rispetto a quello passato che, sostanzialmente, integra un compito di parificazione del bilancio consuntivo nei termini di una certificazione della veridicità dei conti riportati e in più della regolarità e legit-

timità dei procedimenti di spesa sottostanti. E un compito assolutamente nuovo, che ha sgomentato la Corte europea, la quale fin adesso ha esercitato un controllo campionario e referente impostato soprattutto come controllo sui controlli, che ha assunto come primo punto di riferimento lo svolgimento dei controlli interni. E un controllo sul sistema dei controlli interni, dotato di strumenti per andare poi oltre, per andare sul campo a verificare (ciò che integra quindi anche esperienze di controllo-ispezione). Il nuovo compito attribuito dal Trattato di Maastricht alla Corte europea fuoriesce completamente da questo schema, da questo modello. La Corte europea ha perciò interpretato il principio di sussidiarietà come lo strumento attraveso il quale chiamare in causa le singole Corti nazionali per fornite quegli attestati di legittimità e di regolarità della spesa che direttamente la Corte non saprebbe e non potrebbe fornire. Non li sa fornire proprio perché la sua attrezzatura finora è stata un'altra. Non potrebbe fornirli perché solo il venti per cento della spesa del bilancio comunitario è gestita direttamente dalla Commissione, l'ottanta per cento è gestito invece da amministrazioni terze (regionali, nazionali ed altre); quindi sfugge alla sua capacità un'attestazione di questo genere. Di qui la evocazione, la chiamata in causa delle Corti nazionali - non so quanto propria, ma che comunque è di fatto avvenuta - perché 111


possano esse certificare al suo posto, in sua vece. Si pongono una quantità di problemi, ma il problema maggiore è la diversità istituzionale, funzionale delle Corti europee, le quali non solo non fanno tutte lo stesso mestiere, non sono intestatarie tutte dello stesso ambito di controllo, degli stessi poteri. Infatti una parte rilevante della spesa che fa capo al bilancio comunitario, di cui si deve dare atto nel rendiconto da presentare e da certificare al Parlamento europeo, è una spesa non gestita dagli Stati ma gestita dalle Regioni, e non tutte le Corti hanno poteri di controllo estesi alla spesa regionale. Ne consegue che bisogna alternativamente leggere nella nuova norma formulata art. 188, comma c), del Trattato di Maastricht, poteri impliciti intestati alla Corte europea; in secondo grado, poteri impliciti intestati alle Corti nazionali. Ovvero, alternativamente, occorrerà esplicitare con un regolamento quali sono i nuovi compiti e quali sono i nuovi poteri e strumenti intestati alle Corti europea e nazionali per conseguire questi risultati. Ebbene, qual è la lezione istituzionale. che a me sembra di poter trarre da questa particolare vicenda? Per rispondere a una tale domanda occorre correlare il discorso di un necessario grado di omogeneità istituzionale con l'altro discorso sui poteri delle istituzioni di controllo a livello nazionale. Una tale correlazione deve prendere le mosse dal marchio di origine storica delle istituzioni di controllo, nate come istituzioni a 112

servizio del Parlamento (avendo l'amministrazione e il Governo a loro oggetto), istituzioni che avrebbero perciò dovuto avere nei Parlamenti nazionali un punto di riferimento forte per ampliare la presa, l'ampliezza, la profondità del controllo da esercitare, nella evoluzione delle istituzioni nazionali, e che hanno invece conosciuto un vero e proprio corto circuito istituzionale e sociale venuto a verificarsi tra Governo, maggioranze parlamentari e Parlamenti. E infatti, non è più oggi vero che le istituzioni di controllo hanno nei Parlamenti un punto di leva per ampliare, per approfondire i loro poteri di cognizione e di controllo. Stiamo sperimentando, in Italia, una vicenda nella quale si dimostra come in Parlamento si istituiscono di frequente sponde di diffidenza e di recalcitranza all'ammodernamento e all'ampliamento dei controlli. Perciò le Corti nazionali non hanno un terreno facile nel conseguire obiettivi come quello di estendere i controlli su Regioni e sistema delle autonomie, anche per quanto riguarda questo loro compito nuovo di riferire al Parlamento europeo. Le istituzioni di controllo vedono perciò ora rimbalzare loro questa nuova domanda di controllo dal Parlamento europeo che ha voluto, che ha introdotto di usa inziativa l'art. 188, comma c), del Trattato, in un rapporto di dialettica democratica con gli organi comunitari di decisione e di gestione della spesa. Una tensione democratica dentro la Comunità viene così a offrire un punto


di leva per una espansione di poteri di controllo, delle istituzioni nazionali di controllo, che pur sono strumenti di garanzia democratica e di ausilio per il Parlamento nei singoil Stati nazionali. Per concludere il discorso, quanto riferito mi sembra una conferma che in una lunga fase costituente, come quella percorsa dalla Comunità, pur partendo come protagonisti da poteri forti e da generici consensi di opinione, si innesca un meccanismo in cui la democrazia e la presenza, la partecipazione democratica si inseriscono e possono crescere. Da questo punto di vista, nessuno avrebbe pensato d'anticipo che costruito un Parlamento europeo dotato di poteri di evocazione, di rappresentanza, di generico indirizzo, potesse poi innescarsi un processo nel quale si rischia di avere un vero e proprio spostamento di poteri. Voi sapete che i rendiconti sono conosciuti e riferiti in tempo utile per essere conosciuti in Parlamento conosciuti e

contestualmente decisi con il bilancio di previsione dell'anno successivo,. quindi finiscono per essere uno strumento di conoscenza incisivo sulle decisioni e per l'indirizzo. Questo avviene anche nella Comunità. Non è che avviene dappertutto, avviene in Italia e nella Comunità. Questo innesco di maggiori poteri, per una più ampia cognizione, per una maggiore profondità e penetrazione del controllo (che considero un contributo almeno di secondo grado alla trasparenza, alla democrazia, alla dislocazione delle decisioni di indirizzo in Parlamento), può fornire una forte spinta per sortire una dimensione maggiore di controllo, un servizio maggiore di controllo, e ciò proprio attraverso una concreta vicenda giocata tra organi della Comunità. Di qui ricavo che vicende finanziarie e vicende istituzionali in tema di deficit della democrazia in Europa possano coniugarsi e costituire utili discorsi comuni.

113



questeistRuzioni

Costituzione d'Europa dopo Maastricht

Ragionare su Maastricht lasciando da parte l'unione economica e monetaria, sicur2mente l'aspetto più caratterizzante del Trattato. Ciò sembra necessario perché l'attenzione al nucleo forte ha fatto trascurare tutte le altre parti del Trattato che contengono, però, le maggiori potenzialità alfine della compiuta definizione di un nuovo quadro democratico comunitario. Basta ricordare l'introduzione del riconoscimento formale della dimensione europea dei partiti politici, il Comitato delle Regioni e soprattutto il tema della cittadinanza europea. Per quanto riguarda il Parlamento europeo, è facile pensare al tema della politica europea di sicurezza che, benché appena istituzionalizzata, appare come il punto più debole e difficile. L 'esordio su questa linea, negli ultimi tempi, è per certi versi disastroso e - sicuramente -, sarebbe stato prematuro un coinvolgimento significativo del Parlamento in tal senso. Piuttosto c'è da chiedersi cosa poi sia il Parlamento europeo nella prassi. Dalle carte che giungono periodicamente da Strasburgo, sembra che il Parlamento tratti molte materie ma inutilmente. Eppure le potenzialitì che ha un organo rappresentativo eletto a suffragio universale sono sempre superiori a 115


quelle che sono le sue investiture formali. Dunque, il problema del Parlamento• europeo rimane un problema politico tout court. Probabilmente, certe possibilità che il Parlamento aveva, così come la predisposizione della gran parte dei suoi membri, sono tuttora quelle di occupare ulteriori spazi e/ar valere la loro legittimazione derivata direttamente dal popolo. Il rinnovo di giugno sarà, a questo riguardo, un test importante. Nel dopo Maastricht, o almeno nel Maastricht applicato, probabilmente il tema dell'unione economica e monetaria sembra destinato non ad essere cambiato o rinnegato ma a fare un certo «percorso carsico»: sarà meno significativo e portante di quanto è stato in fase di preparazione e di stesura. Ecco perché è opportuno approfittarne per valorizzare al massimo gli altri aspetti di Maastricht.

116


L'Unione Europea: verso quale federalismo? di Massimo Ribaudo

Il processo di integrazione europea è entrato, con gli accordi di Maastricht conclusi per emendare il trattato di Roma, in una fase che configura per la prima volta la Comunità Europea "senza aggettivi", volta a perseguire il duplice obiettivo dell'unione economico-monetaria e dell'unione politica tra i membri. A Maastricht, i rappresentanti dei governi degli Stati membri hanno deciso di creare un"Unione Europea", formula proposta da Kohl e Mitterand, che fu definita da Jacques Delors un "oggetto misterioso". Poi il Presidente della Commissione si rimboccò le maniche per dare contenuti concreti a quel progetto. Ne scaturì una costruzione molto precisa, con obiettivi e date, soprattutto per quel che riguarda quel settore di importanza strategica che è la moneta, ma indeterminata negli aspetti politici e militari. Qui tutto è affidato alla buona volontà degli uomini, alla saggezza delle loro interpretazioni, alla loro consapevolezza che nel nuovo mondo unipolare, l'unico modo di esistere per gli europei è quello di stare insieme. Intendiamo quindi occuparci del pro-

biema se l'Unione che si prefigura abbia vocazione o natura federale, e, in caso affermativo, quali istituzioni della Comunità stanno meglio rispondendo alla funzione di agevolare ed integrare una "meccanica" federalista'. Sul punto un maestro di libertà e democrazia quale Luigi Einaudi, sosteneva, lucidamente, che le unificazioni economiche di tipo funzionalistico, se non implicano anche la costituzione della federazione politica si rivelano inefficaci 2 .

MAASTRICHT E IL CONCETFO DI "UNIONE"

Consapevoli dell'estrema difficoltà di ipotizzare uno sviluppo federale o perlomeno federalista-cooperativo per la Comunità dovremo iniziare il discorso ricordando che il riferimento alla vocazione "federale", inizialmente contemplato nei lavori della conferenza intergovernativa che ha adottato le modifiche del Trattato, è stato soppresso all'ultimo momento. La formula è parsa troppo impegnativa ed è stata sostituita con un'altra, nella quale si allude più cautamente ad un sistema decisionale sempre più vicino ai cittadini, ed ai rap117


porti più intensi da tenersi tra gli Stati ritti individuali, scaturenti dal Trattato membri della Comunità con i loro po- e garantiti dal principio di prevalenza del diritto-comunitario nei confronti poli. Tutte queste, tuttavia, sono generiche delle norme interne incompatibili, vera formule definitorie, dettate da motiva- e propria supremacy clause di stampo fezioni di politica interna e di strategie di deralista posta come pietra angolare di leadership all'interno dei partiti di ap- un possibile sviluppo unionista. partenenza. Il problema della natura E siamo al punto. La meta finale è genedell'Unione e della sua corretta colloca- ricamente definita come "Unione". Ma zione nella tipologia dei sistemi di Stato cosa essa effettivamente rappresenti va risolto sulla base delle previsioni so- non lo sappiamo ancora. C e chi ha stanziali del nuovo Trattato e sull'effet- scorto un'interessante analogia tra il tivo processo di attività svolte dagli or- percorso iniziato dall'Unione e la cd. "supernorma" della nostra Costituzioganismi comunitari. Il problema politico-istituzionale che ne rappresentata dal secondo comma fronteggia oggi i singoli Paesi che han- dell'art. 3. Questo prescrive un oggettivo superamento del modello di società no aderito alla Comunità europea quello di definire in modo irrevocabile prefigurato nell'immediato dal costiche cosa si è realmente creato con quel- tuente, auspicando e delineando i mezl'adesione. L'unione politica ed econo- zi per giungere ad un assetto sociale le mica comporta l'estensione della sfera cui caratteristiche peculiari siano la tenistituzionalmente riservata alla Comu- denza ad un maggior sviluppo della nità, e per ciò stesso, pone limitazioni persona umana ed una maggiore partesempre più penetranti alla sovranità na- cipazione alla vita sociale del Paese, senza che però venga data una connotazionale. Il processo integrativo in corso può zione precisa del modello da realizzasboccare, come ha notato la dottrina 3 re4 . Anche per l'Unione Europea si in forme nuove e diverse di federali- procede per tentativi, che pur non delismo. L'esito più probabile è quello di neando ancora un preciso ed univoco una Confederazione che in senso nuo- modello di sviluppo, sollecitano, un'evo riguardi direttamente anche l'indivi- sperienza storica, politica, istituzionale duo imponendogli obblighi e garanten- completamente innovativa, nella diredone i diritti. Nel Mercato Unico c'era zione di uno Stato federale. Al momengià il nucleo potenziale di una cittadi- to, però, di realmente comune c'è sonanza comune, affiancata a quella dello prattutto l'affermarsi di un diritto coStato nazionale, dal momento che la di- munitario prevalente rispetto al diritto sciplina delle libertà di circolazione di interno dei singoli Stati, insieme alla subeni, servizi, capitali e persone ha po- premazia dei giudici comunitari e della sto in essere un sistema integrato di di- stessa amministrazione comunitaria. ,

118


Tale elemento, elaborato dalla giurisprudenza della Corte Comunitaria di Giustizia, è stato accolto, seppure con diverse argomentazioni, anche dai giudici nazionali e, soprattutto, dalle Corti costituzionali, le quali si sono, tuttavia, preoccupate di fondare il processo di integrazione europea sui dati dei rispettivi ordinamenti statuali. L'immediata applicabilità del diritto comunitario e la sua prevalenza di fronte alle divergenti disposizioni del legislatore nazionale è un risultato conformemente accettato. Il fondamento di questo assetto dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno sarà diverso, secondo che si adotti il punto di vista della Corte Comunitaria di Giustizia, a giudizio della quale due ordinamenti si sono composti ad unità, o, invece, quello delle Corti costituzionali degli Stati membri, inclusa la nostra, che ritengono di dover tener ferma la separazione dei due ordinamenti. In dettaglio la nostra Corte, nelle sentenze nn. 14 del 1964, 98 del 1965, 183 del 1973, 232 del 1975, 163 del 1977, 170 del 1984, e 389 del 1989 ha rappresentato detti ordinamenti quali " sistemi autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dai trattati istitutivi della Comunità e successivi " . La tesi dualista della nostra Corte ha avuto come risultato pratico quello di introdurre nel processo di integrazione europea una regola chiave degli ordinamenti federali, i quali s 'imperniano per definizione, sulla supremazia del diritto

federale sul diritto degli Stati membri. L'affermazione della nostra Corte è inequivoca: le norme comunitarie appartengono ad un ordinamento diverso da quello italiano, ma che su questo è prevalente per la posizione di suprema zia dell'ordinamento comunitario, in una gerarchia di ordinamenti per cui tutte le fonti comunitarie sono prevalenti su quelle dei singoli Stati, comprese quelle costituzionali. Tale criterio federalistico è stato imposto dalla necessità di assicurare l'efficacia cogente della normativa dettata per integrare il mercato. La sua sfera di applicazione verrà ora a dilatarsi, dal momento che la Comunità passa dai settori in cui prima operava ad una sfera politica: la Comunità Unione, diversamente dalla Comunità-Mercato, si riflette necessariamente in tutto il campo delle funzioni statali, e quindi essa è chiamata ad acquistare competenze e responsabilità di ordine generale. Appunto per questo le nuove disposizioni del Trattato hanno sancito il principio di "sussidiarietà" come elemento discretivo tra la sfera delle funzioni proprie della Comunità e dei suoi possibili interventi, e quella, invece, garantita a ciascun Stato membro. E pur vero che si tratta di un criterio empirico, suscettibile di interpretazioni restrittive e tendenti alla riappropriazione di competenza da parte dello Stato membro. La sussidiarietà dovrebbe però condurre a ritenere come titolo legittimante dell'intervento comunitario, il presupposto di fatto, secondo cui, di fronte al119


la concreta misura da adottare, alla sua dimensione ed ai suoi possibili effetti, la Comunità possa agire più efficacemente del singolo e più isolato Stato membro. Resta sin d'ora chiaro, che, sussidiaria quanto si vuole e già osteggiata dalla dottrina britannica, la sfera della Comunità, con il passaggio all'Unione, non potrà che allargarsi a nuovi campi e diventare quindi una competenza politica: ad un passo dal concetto di sovranità5 Pur nelle incertezze e nella varietà di definizioni ed applicazioni, il principio di sussidiarietà si presenta contrassegnato da tre elementi: .

una presunzione generale di competenza a favore del livello statale; l'assegnazione al livello comunitario di un ambito di attribuzioni esplicitamente enumerate; la configurazione di un margine di flessibilità, che consente al momento comunitario interventi in base a valutazioni che attengono alla dimensione degli interessi coinvolti, in relazione alla natura dei problemi ed agli obiettivi perseguiti. È un principio chiaramente ambivalente e dagli obiettivi contrapposti: può valere come criterio di rigorosa delimitazione dell'ambito di intervento comunitario, o viceversa quale meccanismo volto ad un rafforzamento del livello di decisione affidato all'Unione, con finalità atte a consentire o agevolare processi di accentramento. Queste ambivalenze sono state genera120

te, proprio in fase di elaborazione dell'art. 3 B del Trattato, da commistioni tra istanze contrapposte; con il risultato di introdurre un elemento flessibile, le cui valenze concrete e la cui forza espansiva verranno a dipendere dall'evolversi di circostanze politiche, o se vogliamo storiche, non prevedibili a priori. Nel breve spazio del presente articolo proveremo pertanto ad analizzare il ruolo che alcuni elementi del complesso processo di integrazione comunitaria potranno svolgere nell'affermazione di un processo federativo, processo del quale dovremo primariamente esporre caratteristiche e peculiarità affrontando in breve il tema della teoria federale, per poi confrontare i dati istituzionali che si presentano all'indagine empirica con i risultati dell'analisi concettuale. L'integrazione è un processo irreversibile? Verso quali scenari conduce? Domande alle quali è sempre più difficile rispondere visto lo iato esistente fra le varie componenti del dinamico divenire comunitario, dove ad una sempre più articolata presenza della CEE nei settori economici vitali per i suoi componenti, effettiva e cogente, non corrisponde un indirizzo politico delineato da organi autenticamente rappresentativi. Una dinamica dell'integrazione che si muove a due velocità, ove quella normativa-economica viaggia molto più in fretta di quella politico-istituzionale. Sarà possibile un effetto di trascinamento dell'una nei confronti dell'altra? Potremmo, pur coi dovuti distin-


guo dettati da mutamenti di prospettiva storica, prefigurare per l'Europa l'evoluzione che si è avuta con la nascita dello Stato moderno: un'entità che da ente unificatore delle corporazioni sociali medievali ha talmente esteso le proprie competenze in relazione alla sicurezza dei rapporti sociali (Stato di Polizia), da attribuirsi il monopolio assoluto della decisione politica, quel monopolio che è poi caratteristica pregnante dell'ente sovrano.

Lo

STATO FEDERALE. PROSPETTIVE TEORI-

CHE

Il problema del controllo del territorio sottoposto alla sovranità dell'ordinamento statale, esigenza fondamentale per l'esistenza di quest'ultimo, ha condotto a varie, e spesso contraddittorie, soluzioni: la "libertà degli antichi" non seppe trovare una risposta soddisfacente, se riflettiamo sul crollo degli imperi classici, disgregatisi sotto le spinte autonomistiche dettate dall'impossibilità di raggiungere un sistema efficiente di risoluzione dei conflitti interni. Lo Stato federale è un modello di decentramento statale, ed, unitamente, un principio organizzativo che permette la coesistenza di più comunità sociali. Esso si qualifica, parte in base ad elaborazioni dottrinarie, e parte secondo osservazioni empiriche di casi concreti 6 Da quando gli Stati Uniti d'America furono organizzati secondo il sistema federale con la Costituzione del 1787, il

.

federalismo è stato presentato come la soluzione ideale al problema della divisione delle attribuzioni di governo fra Stato centrale ed altre entità politiche, perché sia valorizzata al massimo la funzione democratica del decentramento, assicurando, tuttavia, il carattere unico dello Stato nel suo complesso. Negli Stati federali attualmente presenti sulla scena politica, (i quali per definirsi tali, lo ricordiamo, devono poter confermare nella prassi la loro lealtà ai valori del costituzionalismo democratico), sia le esigenze unitarie, scaturite dalle grandi crisi politiche ed economiche internazionali, sia quelle diffuse ovunque inerenti all'attuazione dello stato sociale, hanno finito per imporre la preminenza di un' unica istanza di indirizzo cui affidare le strategie d'intervento. Tale istanza è lo Stato centrale. Come parziale rimedio a tale tendenza centralista si è avanzata la formula del federalismo "cooperativo" (o contrattato, o coordinato, secondo le diverse terminologie impiegate), che sta a significare che non è più possibile interpretare le formule organizzative che vedono il riparto di competenze fra centro e periferia come si faceva in passato, in chiave soltanto garantistica, (in modo che ogni ente potesse disciplinare il proprio ambito di competenze in modo completamente autonomo da condizionamenti di altri soggetti istituzionali). Il modulo da utilizzare sta diventando sempre più corrispondente a quello che vede l'intesa fra soggetti tendenzialmente pariordinati, per cui l'uso delle 121


competenze garantite potrebbe essere svolto in modo separato e differenziato, ma sempre utilizzando criteri di collegamento, di modo che, in pratica, ogni intervento si inserisca in un quadro armonico. Dalle considerazioni espresse emerge l'esigenza di una definizione delle istituzioni federali comprensiva delle novità in atto. La realtà federale ha condotto illustri studiosi a chiedersi se l'ordinamento "federale" non sia un concetto a se stante nel panorama delle forme di Stato, e vada quindi studiato secondo criteri diversi da quelli elaborati dalla giuspubblicistica per gli Stati di tipo unitario. Sergio Ortino ha teorizzato la possibilità di costruire una vera e propria teoria degli Stati federativi, come entità diverse da quelle degli altri Stati. Per l'autore, l'ordinamento CEE rappresenterebbe quindi il caso più attuale di "ordinamento federativo" non inquadrabile negli schemi finora utilizzati per analizzare e comprendere il fenomeno statuale. Tali ricerche muovono comunque dalla fondamentale opera di Cari J. Friedrich, che per primo individuò la pecuiiare caratteristica del federalismo come elaborazione implicante un process dalle caratteristiche dinamiche. Nell'esposizione del Friedrich è fondamentale il concetto di federalizing process grazie al quale il modello federale non viene più inteso in termini statici e strutturali, ma va visto in chiave dinamica quale prodotto di un processo storico continuamente oscillante fra i ter122

mini di centralità ed indipendenza. Così può avvenire che unà comunità politica unitaria, per le sue esigenze organizzative, conferisca ad entità decentrate sfere di competenza autonome, o che, al contrario, una molteplicità di comunità politiche indipendenti adottino per una sfera di competenza definita un centro decisionale unitario. In entrambi i casi si ha la costituzione di un processò federale qualificato dall'esistenza di due entità diverse a cui spettano differenti ordini di competenza. La visione dinamica di Carl Friedrich postula l'esistenza di un elemento nuovo rispetto alla dottrina giuridica continentale europea basata sul concetto di Stato. Per l'autore, il pluralismo sociale, fiume in piena del dopoguerra, necessita per la sua organizzazione di strutture che non possono essere più inquadrate in un'ottica rigidamente statualistica, almeno finche' questa si riferisca al modello degli Stati nazionali. Il grande sviluppo delle organizzazioni internazionali comporterebbe l'introduzione di una nuova categoria giuridica: la COMUNITÀ. Come evidenziato però da La Pergola " ... il Friedrich afferma si che 1 essenza del federalismo e quella di un processo in continua necessaria evoluzione, ma non intende per questo negare che vi sono certe tipiche "forme" nelle quali tale processo deve essere organizzato Il federalismo per Friedrich è al tempo stesso processo ed "apparato strutturale". La comunità è un nucleo organizzato, dotato di poteri autonomi, nel


quale l'elemento territoriale di esplicazione di tali poteri è essenziale. La tecnica federale è essenzialmente modalità di rapporti tra potere e territorio, e poiché la normativa ditali rapporti.è rappresentata dalla Costituzione di tale comunità, il federalismo si delinea come punto di arrivo di tutta l'evoluzione del costituzionalismo moderno. Le varie esperienzè storiche andrebbero quindi inserite fra due estremi come differenze di grado nella relazione tra governo e territorio da esso influenzato: l'unità completa e la separazione atomistica. Il federalismo può mutare, assumere forme diverse per diverse soluzioni, ma resta fondamentalmente un metodo di organizzazione politica della comunità umana: esso infatti cerca sempre di conciliare, senza annullare uno dei termini, accentramento e decentramento, un processo di integrazione con la salvaguardia delle autonomie, l'unità e la diversità, fini comuni e particolari, trovando un instabile punto d'equilibrio fra le forze centrifughe e quelle centripete, attraverso 1' assegnazione di poteri, compiti e limiti al potere locale. In questo rappresenta una delle basi più solide per l'esistenza di un libero governo costituzionale. Alla stregua della dottrina tradizionale lo Stato federale annovera quali elementi costitutivi un territorio proprio, risultante dalla somma dei territori degli Stati membri, un popolo proprio, consistente parimenti nella riunione dei popoli degli Stati fondatori, ed una potestà d'imperio che si esercita diretta-

mente nei confronti dei cittadini, i quali si trovano ad essere contemporaneamente soggetti alla sovranità dello Stato membro di cui fanno parte ed alla sovranità centrale dello Stato federale: questa duplice soggezione identifica, d'altro canto, una duplice capacità per il cittadino di influire sull'attività politica di entrambi le sfere statali. Passiamo quindi ad analizzare quali, se ce ne sono, possono risultare come elementi comuni fra la teoria federale e la prassi dell'integrazione comunitaria europea.

L'INTEGRAZIONE EUROPEA COME LIMITAZIONE DELLA SOVRANITÀ DEGLI STATI

La visione politica che pone lo Stato quale ente fondamentale, determinando la dottrina a considerano base di paragone di ogni altra entità politica, è in crisi, come lo era nel tredicesimo secolo la società feudale del Sacro Romano Impero alla quale successe la società statualistica. Sebbene da anni la struttura giuridica del mondo quale società di Stati sia definita come un concetto destinato al tramonto, specie da coloro che meglio analizzarono il contenuto dottrinario ed istituzionale dello Stato moderno come il grande giurista tedesco Carl Schmitt, non si intravede ancora il sorgere di una nuova organizzazione che possa prendere il posto dello Stato nazionale, anche se possiamo presumere che l'Unione europea potrebbe rappre123


sentare proprio tale innovativa categoria. Si può tentare di analizzare i caratteri di quest'ultima a mezzo dei concetti che la dottrina giuspubblicistica ha forgiato per la società degli Stati, allo stesso modo che i giuristi del tredicesimo e quattordicesimo secolo potevano raffigurare le monarchie ed i grandi principati territoriali, utilizzando càtegorie che desumevano dalla società feudale del Sacro Romano Impero. Fondamentale per comprendere il meccanismo per la formazione di tale nuova forma di organizzazione politica territoriale è il concetto di integrazione, cioè di un processo che partendo dallo Stato membro, attraverso successivi trasferimenti di sovranità al nuovo ente, (la traslatio imperii marsiliana), giunge fino alla configurazione di una potestà sovrana per il nuovo ente sovranazionale. Gli sviluppi che caratterizzano il momento attuale del processo integrativo, confermano e consolidano alcune linee di tendenza che già i più accesi propugnatori del modello federale in Europa avevano presagito come architravi della futura struttura comunitaria. Essi riguardano soprattutto: - l'evoluzione che ha conosciuto il diritto comunitariò "giurisprudenziale", elaborato dalla Corte di Giustizia della Comunità; - l'allargamento dell'area degli interventi comunitari a settori in cui tradizionalmente, più che in altri, si esprime la sovranità statale: la politica estera, la 124

politica di difesa e persino la politica di sicurezza interna. Lo spostamento al livello comunitario delle decisioni politiche attinenti a questi settori, già presente nell'Atto Unico (v. art. 30), diviene più organico con l'approvazione del Trattato di Maastricht (si vedano il Titolo V, dedicato alla politica estera e di sicurezza comune ed il Titolo VI, dedicato alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni). Si deve però convenire sul fatto che, mentre da un lato si consolidano le tendenze ad una sempre più incisiva estensione quantitativa e qualitativa, degli interventi della Comunità, dall'altro resta sostanzialmente invariata la logica che presiede al funzionamento della forma di governo comunitaria. L'elezione diretta del Parlamento europeo, e soprattutto, l'introduzione con l'Atto Unico delle procedure di concertazione Parlamento - Consiglio 7 in materia di esercizio del potere normativo, e il loro perfezionamento ad opera del Trattato di Maastricht, rappresentano certamente delle novità di rilievo ma non tali da produrre un effettivo riequilibrio dei rapporti tra i due organi: la parola finale resta sempre e comunque al Consiglio, i cui procedimenti decisionali sono divenuti nel frattempo più efficienti, grazie all'abbandono della regola dell'unanimità.


IL RUOLO DEL DIRITTO COMUNITARO

Il principiò di omogeneità del diritto è la sola forza aggregante, come affermato da Antonio La Pergola, di uno spazio continuo al cui centro non può che esserci la cultura storica, ideale, giuridica dell'Europa. Sono i principi di libertà, di uguaglianza, di solidarietà che attivati dalla forza ordinatrice del diritto, cioè da un sistema coordinato di prescrizioni e sanzioni, sorretto da un organismo realmente rappresentativo di un popolo "europeo" e che preveda meccanismi di garanzie a tutela di ogni cittadino, che devono rappresentare i punti di riferimento nella ricerca delle regole comuni che disciplinano• e fortificano la democrazia dei moderni. Quale che possa essere la forma giuridica di una comunità paneuropea, comunque essa dovrà inevitabilmente far propri alcuni dei principi ai quali si ispira un moderno ordinamento federativo. Il quale è prima di tutto una comunità di ci'ttadini, un sistema integrato di diritti che vanno garantiti immediatamente all'individuo attraverso organismi comunitari di tutela, primo passo nella direzione di una concreta seconda cittadinanza che si affianca a quello dello Stato al quale si appartiene. Un ordinamento che possieda, al tempo stesso, la capacità' di contenere le spinte centrifughe e disgregatrici e di comporle in un comune disegno di integrazione. Un'Europa dove la libertà ed i poteri siano regolati e garantiti dal diritto. Appare cresciuto sensibilmente il peso

specifico delle norme comunitarie nel diritto interno degli Stati membri. In Italia, la piena e diretta applicabilità dei regolamenti della CEE si realizza per tappe successive. Due le pietre miliari, poste entrambi dalla nostra Corte costituzionale. La prima consiste nell'aver stabilito, nella sentenza n. 183 del 1973, che il regolamento comunitario non richiede per avere immediata efficacia, la traduzione in legge nazionale. La seconda nell'aver fissato il principio che la normativa comunitaria: " ... entra e permane in vigore nel nostro territorio senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato" (Sent. n. 170/1984) in quanto normativa speciale per materia (lex specialis derogat generalis), comprendendo nel concetto di normativa europea le statuizioni risultanti dalle pronunce interpretative della Corte di Giustizia CEE (sent. n. 113/ 1985). Sono ormai consolidati i principi che riguardano le norme comunitane, i quali prevedono: - che esse sono immediatamente applicabili, venendo immesse direttamente, senza necessità di ricezione o adattamento, nell'ordinamento italiano (Corte cost., 8 giugno 1984, n.170); - che vanno applicate anche in contrasto con leggi (anteriori o posteriori) italiane; prevalendo dunque su queste ultime (le quali, peraltro rimangono in vigore: Corte cost. 11luglio 1989 n. 389); - che, gli organi amministrativi, così come quelli giurisdizionali, sono giuridicamente tenuti a disapplicare le nor125


me interne incompatibili con le disposizioni comunitarie (Cort. cost. ult. sent. cit.). Ovviamente il principio concerne anche e particolarmente gli organi di controllo amministrativo. L'obbligo di applicazione diretta si applica, del resto alle stesse direttive. "Qualora sussistano i presupposti necessari perché la direttiva possa essere fatta valere dai singoli dinanzi ai giudici nazionali - ha affermato la Corte di Giustizia nella sent. 22 giugno 1989 (causa 103/888, fratelli Costanzo S.p.A c/Comune di Milano8 tutti gli organi della P.A., compresi quelli degli enti territoriali, come i comuni, sono tenuti ad applicare la direttiva stessa [ ... ] ed a disapplicare le norme del diritto nazionale non conformi ad essa". In linea generale quindi l'applicazione del diritto comunitario su tutto il territorio dei Paesi membri della Comunità, è assicurato dal principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno. In forza di tale principio le autorità nazionali, siano esse legislative o amministrative, sono tenute a non emettere provvedimenti od altre misure in contrasto con le disposizioni del Trattato o del diritto da esso derivato (regolamenti e direttive). Quando questa evenienza si verifica, ed il caso è tutt'altro che infrequente, intervengono rimedi sia nell'ambito dell'ordinamento interno che in quello comunitario. Nel primo, la violazione del diritto comunitario è riparata dai giudici nazio-

126

nali, vincolati a non dare applicazione agli atti interni che integrano la violazione. Sul piano comunitario interviene l'azione vigilante della Commissione che, in veste di custode del Trattato, conviene lo Stato responsabile dinanzi alla Corte di Giustizia per accertare la violazione commessa. Tale sistema di controllo successivo non è in grado di impedire che l'atto interno produca effetti che recano un pregiudizio, talvolta non riparabile, all'interesse della Comunità. Per questa ragione l'ordinamento CEE ha previsto forme d'intervento preventivo in modo da impedire che atti contrastanti con norme comunitarie siano comunque portati a compimento e possano avere effetti. Gli strumenti di controllo preventivo si sostanziano in disposizioni comunitarie a carattere procedurale che impongono agli Stati membri di astenersi dall'emanare leggi o provvedimenti di un dato tipo fintanto che essi non siano verificati nella loro compatibilità comunitaria da una istituzione della CEE che di regola è identificata nella Commissione. Quindi si prevede: una notificazione dello Stato alla Commissione della misura in questione; un procedimento comunitario di valutazione ed un obbligo dello Stato di non dare efficacia all'atto fino alla conclusione positiva della procedura predetta (si vedano a tale proposito gli art. 92 e 93 del Trattato).


L'UNIONE E LE REGIONI Ma la prevalenza dell'ordinamento comunitario non limita ancor di più la già fragile autonomia regionale? Le Regioni italiane, come d'altronde gli altri livelli di governo locale dei Paesi membri dell'Unione, sono stati tra i soggetti istituzionali che più vivacemente hanno reagito alle conseguenze che il processo d'integrazione comunitaria produceva sul piano dell'esercizio delle competenze ad esse garantite. Con questo le stesse non hanno voluto contestare il processo d'integrazione, ma evitare che esso si traducesse in una compressione del loro grado di autonomia al di là di quanto non fosse strettamente necessario per non compromenere la correttezza del comportamento dello Stato italiano nella sua veste di membro della Comunità. Dopo una lunga vicenda che ha visto le Regioni confrontarsi con Governo, Parlamento e Corte costituzionale, si è alla fine approdati a soluzioni (si veda soprattutto la legge n. 183/1987 e la n. 86/1989) che assicurano alle Regioni un ruolo rilevante sia sul piano della formazione che su quello dell'attuazione del diritto comunitario. A livello di istituzioni comunitarie, invece, è stato nel Parlamento Europeo che le ragioni degli Enti Locali europei hanno trovato maggiore considerazione. Si è avuto quindi il varo di incisivi progetti e dichiarazioni d'intenti, spesso supportati da atti istituzionali "indicativi" quali la Carta comunitaria della

regionalizzazione approvata dal Parlamento Europeo, presa come momento di sintesi delle volontà regionalistiche presenti all'interno del consesso democraticamente eletto come punto di partenza per la politica regionalistica della Comunità. La nota dominante di questi sviluppi consiste in un nuovo orientamento dell'azione comunitaria nei confronti dell'Ente Regione. Questa viene considerata non più solo come un'area nella quale realizzare interventi pubblici di sostegno e riequilibrio, bensì, come istituzione, livello di governo locale dotata di rilevanti poteri sul territorio: proprio in virtù di tali caratteri politicoamministrativi, infatti, le Regioni cominciano ad essere chiamate a partecipare alle decisioni comunitarie. In definitiva, la Risoluzione che approvava la Carta della regionalizzazione chiedeva (art. 13) che "la politica regionale non si limiti all'azione dei Fondi, ma venga considerata parte integrante di tutte le politiche comunitarie, partecipando alla definizione degli obiettivi a esse assegnati; conseguentemente è indispensabile che si proceda regolarmente all'esame della compatibilità ditali politiche con lo sviluppo regionale". Queste richieste venivano poi esplicitate nell'art. 24 della Carta stessa dove alla linea 4 si statuiva che la partecipazione degli organi regionali si deve basare sul "principio di un regionalismo cooperativo articolato in formule di coordinamento orizzontale che sostituisca127


no le tradizionali formule verticali degli Stati accentratori". Linee di principio ora inserite nel Trattato di Maastricht che all'art. 198 istituzionalizza la partecipazione delle autonomie territoriali in ambito comunitario tramite un organo di rappresentanza collettiva, il Comitato delle Regioni. Tale istituzione rappresenta uno sviluppo di esperienze similari (si ricordi il Consiglio consultivo delle collettività regionali e locali, istituito con decisione della Commissione 24 giugno 1988, quale organo di consultazione facoltativa, senza compiti definiti e di fatto senza reale incidenza) e di un dibattito che vede come posizioni qualificanti il progetto Spinelli del 1984, la citata "Charte communautaire de la regionalisation" approvata dal Parlamento europeo il 19 dicembre 1988 e la risoluzione adottata dal Parlamento stesso il 21 novembre 1990, il progetto di Trattato sull'Unione elaborato dal Lussemburgo, che prevedeva l'istituzione di questo organo presso il Consiglio economico e sociale. Il Comitato delle Regioni è consultato obbligatoriamente dal Consiglio o dalla Commissione in materia di cultura (azioni di incentivazione ai sensi dell'art. 128.5 del Trattato) e di coesione economica e sociale (azioni specifiche al di fuori dei fondi strutturali, art. 130 B; definizioni di compiti obiettivi prioritari e organizzazione dei fondi Strutturali, art. 130 D; decisioni di applicazione relative al Fondo Europeo di Sviluppo Regionale). 128

Inoltre, informato delle richieste di parere al Comitato economico e sociale, il Comitato delle Regioni può formulare considerazioni qualora ritenga coinvolti interessi specifici regionali; e del resto può formulare pareri di propria iniziativa in tutti i casi in cui "lo ritenga utile" (art. 198 C). Quanto alla struttura, il Comitato è composto "dai rappresentanti delle collettività regionali e locali, nominati, su proposta dei rispettivi Stati membri, dal consiglio, che delibera all'unanimità (art. 198 A). In questi termini la disposizione permette due ordini di istanze: la richiesta, avanzata in varie sedi dagli organismi associativi delle istituzioni regionali sopra citate, che il Comitato risulti composto esclusivamente da rappresentanti eletti dalle Regioni, come pure, da parte degli enti minori, la pretesa che ad essi sia assicurata comunque una quota nella rappresentanza di ogni Paese. Bisogna però rilevare come, nella designazione di detta rappresentanza, il ruolo centrale sia affidato ai governi nazionali. Se nei fatti è presumibile che questi tenderanno ad operare scelte in sintonia con le indicazioni provenienti dagli organismi associativi delle autonomie, ciò avverrà comunque al di fuori di ogni garanzia giuridica, con probabili differenziazioni tra le varie soluzioni. D'altronde, la presenza delle istanze autonomistiche nei processi decisionali comunitari si può sviluppare anche per via indiretta, su un piano nazionale, quale partecipazione ai procedimenti di definizione degli indirizzi che il singolo


Stato adotta in sede CEE. Il problema, come è noto, è al centro di un ampio dibattito in Italia, ove il legislatore vi ha prestato più volte attenzione. E in questo quadro che si inserisce la I. 86 del 1989, la quale ha cercato di realizzare un obiettivo ambizioso: superare le difficoltà che incontrava a tutti i livelli (anche nazionale) l'attuazione interna delle normative comunitarie 9 . L'art. 10 elimina il carattere di episodicità della consultazione della Conferenza e prevede invece che il Presidente del Consiglio, su proposta del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie, disponga la convocazione della Commissione per una "sessione comunitaria", con cadenza almeno semestrale, "dedicata alla trattazione degli aspetti delle politiche comunitarie di interesse regionale o provinciale". In particolare, si prevede che la Conferenza sia chiamata ad esprimere pareri in ordine: agli indirizzi generali relativi alla elaborazione ed attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali; ai criteri ed alle modalità per conformare l'esercizio delle funzioni regionali all'osservanza ed all'adempimento degli obblighi comunitari. Siamo dunque nel solco di una tendenza al rafforzamento del ruolo delle Regioni, che si esprime soprattutto nell'allargamento dell'ambito di competenza della Conferenza; non più soltanto partecipazione alla elaborazione degli indirizzi attinenti alla formazione di speci-

fici "atti comunitari", ma bensì degli indirizzi generali destinati a guidare la politica comunitaria di interesse regionale del Governo. Giungendo ad una conclusione si può dire che, mentre sul piano comunitario il processo di integrazione solleva nuove esigenze di valorizzazione delle autonomie, quali articolazioni di attuazione delle politiche comunitarie e quali strumenti che valgono ad affermare lo sviluppo dei poteri comunitari, sui piano interno, le novità verificatesi in ambito europeo richiedono un adeguamento sostanziale del sistema regionale e locale, il quale si troverà, per un verso, a costituire il terminale ultimo, a diretto contatto con i cittadini, di processi di notevole ampiezza e complessità e, per l'altro, a confrontarsi, anche in un rapporto di concorrenza, su un piano di efficacia nell'azione amministrativa e nella prestazione dei servizi, con le amministrazioni locali degli altri Paesi. Le interrelazioni tra ordinamenti regionali ed ordinamento comunitario, risultano evidenti se si prendono in considerazione gli ambiti materiali in cui si sviluppano le politiche e le discipline della comunità: dallo sviluppo regionale all'assetto del territorio e dell'ambiente, dai lavori pubblici e appalti agli interventi nell'economia, dalle politiche sociali all'energia, l'incidenza delle collettività territoriali nella generalità dei Paesi europei si presenta di primario rilievo. Un rilievo destinato ad aumentare in seguito al Trattato sull'Unione ed agli incrementi di poteri co129


munitari che, come abbiamo gia osservato all'inizio, lo stesso implica. Alla luce di quanto di quanto si è osservato in ordine alle potenziali valenze operative del principio di sussidiarietà, non vi è dubbio che solo una consapevole ed effettiva partecipazione delle Regioni ai processi decisionali che presiedono alla definizione delle politiche comunitarie può consentire loro di compensare l'assunzione a livello europeo dell'esercizio di nuove competenze, le quali potrebbero permettere eccessive ingerenze delle due sfere superiori (quella dell'Unione e quella statale), sull'autonomia locale.

L'ALLARGAMENTO TERRITORIALE DELLA SFERA COMUNITARIA: UN'UNIONE PIÙ DEBOLE?

L'allargamento dell'Unione, sancito nel marzo scorso, ai quattro paesi dell' Europa Centro-Settentrionale (Austria, Finlandia, Svezia e Norvegia), il quale comunque dovrà essere sottoposto a referenda tutt'altro che sicuri nei loro risultati, presenta poche luci e molte ombre. Austria, Svezia e Finlandia sono "Paesi ricchi" rispetto alla media europea. Cioè futuri contribuenti "netti" per il bilancio di Bruxelles. Il secondo aspetto positivo delle nuove adesioni è che esse avvengono lungo la linea direttrice Nord-Est: il che significa che i Dodici si arricchiscono di teste di ponte "geografiche", economiche, politiche e cultu130

rali verso quella che sarà la nuova frontiera dell'allargamento: il mondo dell'Europa Centrale ex comunista, quel club di Visegrad che unisce quattro Paesi (Polonia, Ungheria, Repubblica cca e Slovacchia) giustamente ansiosi di bruciare le tappe per entrare nell'Unione. L'allargamento però comporterà duri prezzi da pagare, e forse lo stesso snaturamento dei principi di Maastricht, fin qui enunciati. L'eterno divario NordSud è inevitabilmente destinato ad accentuarsi. Le difficoltà per un'effettiva integrazione politico-economica si dilateranno a tal punto da rendere realtà l'inossidabile convinzione britannica secondo cui l'europeismo non può essere altro che la coniugazione di una grande area di libero scambio. E questo, quindi, un allargamento che preoccupa più che esaltare i fautori dell'Unione perché permetterà maggiori dilazioni alle scadenze ed una minore vincolatività dei legami comunitari, come, senza reticenze, spera il governo del Regno Unito. L'attesa per un'integrazione piena (adeguamento normativo ai parametri comunitari) dei nuovi Paesi membri potrebbe, in sostanza, allungare i tempi di una sempre più improbabile costruzione unitaria. A questo cercano di porre rimedio i progetti italiani di ingegneria istituzionale, con il proporre una geometria variabile di legami più o meno stretti tra i vari partners europei. Prima del vertice di Bruxelles del 29 Ottobre 1993, indetto per celebrare l'entrata in vigore del


Trattato di Maastricht, il nostro Presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, ed il Ministro degli esteri Beniamino Andreatta hanno lanciato delle proposte, rimaste però al momento lettera morta. Da una parte si dovrebbe prevedere la nascita di una Confederazione Europea, nella quale accanto alla CEE entrerebbero i Paesi dell'Europa Orientale. Il cemento unificatore sarebbe costituito dalle questioni della sicurezza comune e della difesa. Jacques Delors definisce questa la "Grande Europa". Contemporaneamente però, all'interno della Comunità, i sei Paesi che negli anni Cinquanta avviarono il processo di integrazione europea - Francia, Germania, Italia e Benelux— più la Spagna, che dimostra sempre più di tenere all'unificazione europea come personale obiettivo di politica nazionale 10 deciderebbero di procedere più in fretta degli altri partners sulla via dell'U nione, costituendo in pratica un nucleo federale dotato di competenze sovrane nei campi strategici della politica monetaria, di quella estera e della difesa. Andreatta ha quindi illustrato un progetto teorico di Europa a cerchi concentrici, o, a strati, come le torte nuziali. Intorno ai Paesi federatori, ruoterebbero i Paesi ricchi, ma antifederali (come Gran Bretagna e Danimarca), i Paesi con economie ancora divergenti (Irlanda, Grecia e Portogallo) e quelli del Nord Europa di recente adesione; poi, con gradi di autonomia via via maggiori rispetto alle scelte del centro, magari raccolti in specifiche confederazioni, i ,

Paesi dell'Europa Centro-Orientale, le tre repubbliche baltiche ed all'estrema periferia i Paesi balcanici. Chi vorrà, potrà poi affiancarsi al nucleo federale. Tutt'altra visione quella delineata dai rappresentanti britannici. Per gli Inglesi, che tenteranno di egemonizzare la visione dei nuovi membri dell'Europa del Nord, le forze originarie che hanno spinto verso l'integrazione tra Paesi europei orientandole per decenni verso una crescente convergenza, hanno terminato la loro missione. Il Ministro degli esteri britannico, Douglas Hurd, in un'intervista 11 ha infatti prospettato l'idea di un"Europa leggera" dalle strutture agili, volte a gestire questioni di interesse comune per i Paesi membri con una Commissione che intenda il principio di sussidiarietà nei termini britannici del cio che non e vietato e ammesso". La soluzione sarebbe quindi una difficile costruzione comunitaria più integrata, ma che permetta al tempo stesso di preservare le identità nazionali, che unisca il lavoro dei diversi Governi su temi come il commercio, la p0litica estera e la criminalità, seguendo un approccio non burocratico e non centralizzato.

LE DIVERSITÀ E L'ATTESA DI UN NUCLEO FEDERALE FORTE

Si è fin qui voluto tralasciare tutto il discorso relativo all'Unione Monetaria: l'istituzione che dovrebbe rappresentare il compimento di quella volontà uni131


tana della quale abbiamo cercato di dimostrare l'esistenza. Certamente il realizzarsi di una politica economica comune darebbe un impulso decisivo alla costruzione europeista, consistendo nella maggiore delegazione di poteri mai accettata da parte degli Stati sovrani del continente. Non riteniamo però sia saggio poggiare tutte le future speranze federaliste sull'avverarsi di una simile prospettiva, poiché i fatti e gli atteggiamenti degli attori politico-sociali non fanno presagire, al di là di vaghe affermazioni di principio, facile raggiungimento di intese sui punti attinenti all'UEM. L'identità prospettata da una lettura troppo ottimistica degli accordi di Maastricht basata sull'equazione Unione Monetaria = Unione Politica rischia di creare forti delusioni e ripensamenti. Certo, il Trattato è entrato in vigore, ma l'Unione Monetaria è ancora lontana, e se continueranno le divergenze valutarie con la Germania, sarà difficile entrarne a far parte per molti Paesi. L'Europa delle istituzioni, del diritto e della cultura dovrà quindi formarsi prima di quella economica: senza la prima la seconda è impossibile. Non vi è studioso di istituzioni comunitarie che non abbia accennato al problema del deficit democratico degli attuali assetti. Il crescente trasferimento dei poteri dei Parlamenti nazionali alla Comunità è avvenuto senza una corrispondente democratizzazione delle istituzioni di questa, visto che .l'imputazione anche formale delle decisioni politi132

che resta dislocata sul polo intergovernativo. La scarsa rappresentatività dei centri decisionali comunitari sta creando un problema dalle conseguenze disastrose per tutto il processo d'integrazione. Un'opinione pubblica apatica, non interessata, lontana dalle scelte europeiste, si trasforma in breve tempo in una massa a queste ostile. Come ha efficacemente riassunto E.W. Bochenforde: "La possibilità implicita nella volontà popolare di assumere una soggettività concreta è strettamente dipendente dal fatto che qualcuno la interroghi, e la direzione ed il modo del suo concretarsi è determinato da chi ed in che modo si giunga ad interrogarla; in altre parole, essa può esprimersi solo se sollecitata 12". Tirando le fila, cercando di separare l'augurabile dal possibile, è almeno lecito prefigurare un quadro di tendenze istituzionali verso un processo unitario che per concretarsi ha bisogno di elementi non soltanto legislativi e/o strutturali quanto sociali e culturali, altrimenti il particolarismo delle interpretazioni nazionali prevarrà, lasciando la costruzione comunitaria a livello di "mercato" senza democrazia. È senza dubbio interessante l'ipotesi di un nucleo federale forte, che sappia imporsi alle titubanze degli altri Paesi, (il quale nell'esperienza statunitense fu poi rappresentato dai due blocchi federatori della Virginia e del Massachussets, due modelli diversi che fecero confluire la loro visione nella Costituzione del 1787), ma allo stato attuale i due


principali paesi che dovrebbero assu- storico ha davanti a sé questo compito mere tale ruolo federatore, Franj_e -4ormkiabiiEfar avanzare l'unità delGermania, sembrano ancortentenna- l'Europa, senza che perdano vitalità le re di fronte agli umori sempre mutevoli sue nazioni interne, la sua pluralità glodei loro governati e degli altri attori inriosa, in cui e consistita la ricchezza e la ternazionali. forza senza pari della sua storia". Come un appello, rivolto a chiunque desideri l'Unione Europea, ci piace ri- Far convivere l'unità con la diversità: il cordare quindi le profetiche parole di compito arduo e bellissimo del federaliOrtega Y Gasset' 3 : " ... Ancora una vol- smo, lontano dalle utopie e inciso nella ta e più di qualsiasi altra volta il genio realtà dell'esistenza degli uomini.

Note 'Cfr. A.D. PLLAKOS, La nature juridique de l'Union europeenne, «Revue Trim. de Droit europeenne», n. 2, aprile-giugno, 1993, pp. 184-224. 2 Vedi ora MORF.LLI, Contro il mito dello Stato sovrano. Luigi Einaudi e l'Unità Europea, Milano 1990, p. 163 Ss. La natura giuridica delle Comunità europee è stata prevalentemente qualificata riportandola al modello delle organizzazioni internazionali regionali, formate sulla base di accordi tra Stati sovrani. Diffusa è però la lettura del disegno organizzativo delle Comunità come premessa di un vero e proprio ordinamento federale europeo, anche se legato soltanto ad alcune delle funzioni proprie degli ordinamenti statali. Vd. S. ORTINO, Ordinamenti costituzionali federativi, Firenze 1990. Si veda la prolusione ai Corsi 1989 del Seminario di studi e ricerche parlamentari di ALBERTO PREDIERI, ora raccolta in Associazione per gli Studi e le Ricerche Parlamentari, Quaderno n. 1, Giuffrè, Milano 1991, p. XVII. Vd. G. LAURICELLA, In margine alla ratiJìca degli ac cordi di Maastricht: la legge costituzionale del 1989... «Riv. Trim. Diritto e Procedura Civile» n. 4, dicembre 1992, pp. 1227-1228. 6 Vastissima la bibliografia esistente sull'argomento, cfr. in particolare: K.C. WHEARE, Federal Government, tr. it. Milano, 1949; R.R. BOWIE e C.J. FRIEDRICH, Stu-

dies onfederalism, Boston-Toronto, 1954 (tr. it., Milano, 1959); A. LA PERGOLA, L'empirismo nello studio dei sistemi federali, «Diritto e Società», n. 1, 1973, p. 3 Ss.; C.J. FRIEDRICH, Trends of Federalism in Theory and Practice, N.Y., 1968; M. ALBERTINI, Il federalismo e lo Stato Federale, Milano, 1963; G. DE VERGOTTINI, voce Stato Federale, Enciclopedia del Diritto, XLIII, Milano, 1990, p. 381 Ss. Per le quali vd. C. PINELLI, Ipotesi sulla forma di governo dell'Unione Europea, «Riv. Trim Dir. Pubbl.», n. 2, 1989, pp. 323 ss.Vd. Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, n. 2, 1991, pp. 423 ss. Per un'analisi della legge stessa Vd. P. CARETTI, La nuova disciplina della partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario..., «Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario», n. 2, 1991, pp. 331 ss. Si veda l'articolo del Premier spagnolo FELIPE G0NZALES, «Benvenuta Europa ... », La Repubblica del 28 Ottobre 1993. «Hurd: a Londra l'Europa piace leggera», a cura di MARCO NIADA, Sole 24 Ore del 2Dicembre 1993, p. 3. 12 Cit. E.W. BOCKENFORDE, Democrazia e rappresentanza, in «Quaderni costituzionali», 2, 1985, p. 235. u Cit. J. ORTEGA Y GASSET, La sociedad europea, tr. it. in Storia e sociologia, Liguori, Napoli 1983, p. 267.

133



Taccuino



Notizie dalla Fondazione Italiana per il Volontariato

Premio Nazionale della Solidarità La fondazione Italiana per il Volontariato e la Rivista del Volontariato istituiscono: un "Premio nazionale" (Lire 100 milioni) da attribuirsi a persone singole, ad associazioni e gruppi di volontariato, a cooperative sociali, ad imprese, ad istituzioni pubbliche e private che abbiano, in modo originale ed efficace, operato nel campo del volontariato o sostenuto le attività sociali promosse dal volontanato. N. 9 premi per specifici settori di intervento o di sostegno dell'azione volontaria, in particolare: * 1-2. Due premi per associazioni, gruppi o movimenti di volontariato o per più protagonisti che nell'ambito di organizzazioni di volontariato abbiano operato sul territorio con attività promozionali di reinserimento ed integrazione di persone a grave rischio di emarginazione (10 milioni ciascuno). Per il sostegno e lo sviluppo di una iniziativa nel campo dell'attivazione e autorganizzazione di persone in situazioni di grave disagio economico o sociale (10 milioni). Per una scuola - o distretto scolastico che abbiano condotto una iniziativa di informazione e sensibilizzazione di allievi e genitori sulla solidarietà, il volontariato, la multiculturalità, coinvolgendo la comunità locale e

il territorio, ottenendo risultati apprezzabili e soprattutto visibili (Targa). Per una esperienza di collaborazione e scambio di risorse fra imprese e organizzazioni di solidariettì, nella quale si sia attuato un intervento di promozione umana e sociale su un territorio caratterizzato da particolare disagio sociale (10 milioni). Per una cooperativa di solidarietì sociale che attraverso l'apporto di soci lavoratori e di soci volontari si sia affermata come impresa sociale, creando posti di lavoro e di servizi per la comunità (10 milioni). Per un'iniziativa di informazione e sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulle tematiche del volontariato e della solidarietà, attivata dai mass-media (giornali, periodici, TV, radio) e da singoli professionisti dell'informazione (Opera d'arte contemporanea). Per un periodico gestito da volontari o da cooperatori, che contribuisca in modo particolare alla creazione di un circuito informativo e operativo fra organizzazioni non profit di un territorio (10 milioni). Per un'azienda o impresa che abbia attuato la promozione di servizi "reali" a sostegno di iniziative di solidarietà o a servizio di grup- . pi - Telesoccorso, Telecontrollo, etc. (Opera d'arte contemporanea).

Modalittì di partecipazione A. Il materiale di presentazione e di docu137


mentazione relativo alle iniziative per le quali si propone il premio dovrà pervenire a mezzo raccomandata postale A.R. o con consegna a mano, alla Fondazione Italiana per il Volontariato entro e non oltre il 30 settembre 1994 (della data di ricezione faranno fede il timbro postale di spedizione o la ricevuta che il personale della Fondazione rilascerà a chi effettuerà la consegna a mano). Proposte e segnalazioni per i Premi, potranno essere fatte da singoli cittadini, da associazioni, gruppi o movimenti, da amministrazioni pubbliche, da forze sociali, da aziende. Le candidature dovranno essere accompagnate da materiale illustrativo dei progetti e delle attività svolte. I premi saranno assegnati da una Commis-

138

sione, presieduta dal Presidente della F.I.VOL., composta da 5 persone che a diverso titolo si occupano del volontariato sociale. La F.I.VOL. si riserva di aumentare eventualmente con il sostegno finanziario di enti ed aziende - il numero o l'entità dei premi, qualora, in uno o più settori, fossero segnalati numerosi soggetti o iniziative particolarmente valide. La Commissione decider l'assegnazione entro il 20 ottobre 1994; i Premi saranno ufficialmente consegnati in occasione della giornata del volontariato. F.I.VOL. - Fondazione Italiana per il Volontariato Via Nazionale, 39- 00184 Roma (T. 06/4814991 - Fax. 06/48 14617)


"BAILAMMF rivista di spiritualità e politica

SOMMARIO TESTIMONIANZE FIGURE DELLA PIETÀ

OMAGGI E TESTIMONIANZE

APPENDICE

ROMANA, O DELL'AMICIZIA IL CULTO MARIANO NELLA GEOPOLITICA CONTEMPORANEA: LA MADONNA DI MEDGJUGORJE, IANUA ORIENTIS? di Emma Fattorini ALFONSO NON LO SA. APPUNTI PER UNA STORIA DELLA DIREZIONE SPIRITUALE di Luisa Muraro AMORE MISTICO E MISTICA AMOROSA di S. Natoli MARTA E MARIA NELL'800: LE RELIGIOSE FRA MISTICA ED EMANCIPAZIONE di Lucetta Scaraffia IMMAGINE E OCCHI BENDATI. LA "CARITÀ ROMANA" E LA PIETÀ DI CHRISTINE DE PIZAN di Elisja Schulte van Kessel FRATICELLISMO ORTODOSSO E DEVOZIONE: L'ESEMPIO DI STRONCONE di Mario Sensi I CONFLITI1 DELL'ANIMA: GAETANA STERNI (1827-1889) di Adriana Valerio

7 11

19 35 46 57 73 92 107 122 132

IL PATRIARCA GIACOBBE di Edoardo Benvenuto ELEGIA ROMANA di Giovanni Bianchi IO RICORDO I GIORNI ANTICHI... di Francesco Loris Capovilla INFLUSSI PIETISTICI E ISTANZE ESCATOLOGICHE NELLA POESIA DI FRIEDRICH HOELDERLIN di Anna Giannatienipo Quinzio TRE FIGLI di Fabio Milana LA VERA SOGLIA di Sergio Quinzio LA SEQUELA DI ROMANA: PER I SUOI OTTANT'ANNI di Paolo Sorbi APOLOGIA DI UN PRETE ROMANO di Mario Tronti ALTROVE di Pino Trotta

199 203 209

ROMANA GUARNIERI: BIBLIOGRAFIA a cura di Mario Sensi

235

142 184 196

N° QUA7TORDICI-DICEMBRE 1993 Abbonamento annuale (2 numeri) L. 50.000. Versamento da effettuare sul c.c.p. n. 25949207 intestato a Coop. CENS Edizioni Nuova Stampa s.r.l., Via Volta, 4-20063 Cernusco s/N (Milano) (specificare la causale del versamento: abbonamento a 2 numeri della rivista "BAILAMIVIE"). Ufficio abbonamenti tel. 02157400369 - 05231385198


democrazia e diritto trimestrale del centro di studi e di iniziative per la riforma dello stato

ri Giuseppe Cotturri, Caro amico ti scrivo... IL TEMA Le sfide della democrazia

I. I nuovi poteri e le grandi questioni Pietro Barcellona, Crisi dello stato nazionale e democrazia Giuseppe Cotturri, Cittadini magistratura informazione: dal terzo al sesto potere José A. Navarro, Gara ntismo democrazia Fabio Giovannini, «Forza» e democrazia: le prassi alternative dell'ecopacifismo

Il. Istanza di senso eforme di vita Massimo De Carolis, Osservazioni sul senso della vita Fabio Ciaramelli, Il problema del senso e il rapporto tra psiche e societì in Castoriadis Ubaldo Fadini, L 'immaginazione nella costituzione del reale Giuseppe Cantarano, La tragedia del fare e le aporie del politico Francisco Garrido Pefia, La democrazia come forma di vita IL SAGGIO Paolo Vinci, Metafisica e capitalismo. La tecnica in Heidegger Alfredo Salsano, Dopo la «grande trasformazione»: democrazia industriale o managerialismo in Karl Polanyi ARGOMENTI Ali Mumin Ahad, I «peccati storici» del colonialismo in Somalia

L. 20.000 - abb. 1994 L. 74.000 - c.c.p. 00325803 - Edizioni Scientifiche Italiane, via Chiaramone 7, 80121 Napoli, tel. (081) 7645443


SAI VPKAIN

LE POLITICHE DEL DEBITO- PUBBLICO

LIBRI DEL TEMPO LATERZA





queste ìstìtuzìooi La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato.

I contenuti - Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. - I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'<dstituzione Governo», la sanità.e la spesa farmaceutica, l'amministrazionè Europa, l'archivio media, leassociazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. E stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. - Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers.

È stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione.


La collana Maggioli - Queste Istituzioni La società QUES.I.RE. sri, editrice di Queste Istituzioni, hada qualche anno avviato un progetto ambizioso che oggi vede finalmente raggiunti gli obiettivi iniziali. Nei 1992, in collaborazione con Maggioli editore, sono stati pubblicati tre volumi collegati ai temi solitamente trattati sulle pagine della rivista. Sono i primi titoli di una collana mirata a trasferire nei settore pubblico le motivazioni e le esperienze che nel settore privato vengono definite cultura dell'innovazione.

volumi già pubblicati: Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. SIof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000

volumi in corso di pubblicazione: Advisory Commission on Intergovernmental Reiations Come organizzare le economie pubbliche locali Jean Raynaud Le «Chambres Regionales des Comptes»: caratteri di una innovazione istituzionale


Gentile Lettore, se il nostro impegno editoriale è di Suo gradimento, Lei potrà rinnovare l'abbonamento alla rivista o sottoscriverne uno nuovo utilizzando la cedola con le condizioni a Lei riservate, e potrà chiedere le cedole di prenotazione per i volumi. Le chiediamo ancora di indicarci i nominativi di persone interessate ai temi e ai problemi sui quali lavoriamo, e Le porgiamo i nostri più cordiali saluti. Queste Istituzioni

E E E

Sottoscrivo un abbonamento a Queste Istituzioni Abbonamento sostenitore annuale per il 1994 L. 200.000 Abbonamento annuale per il 1994 L. 75.000

O

Vi prego di inviarmi le cedole di prenotazione dei volumi pubblicati/in corso di pubblicazione.

E

Desidero segnalare i nominativi di persone interessate a conoscere la vostra attività editoriale (utilizzare lo schema qui riprodotto per fornirei le informazioni)

NOME....................................................COGNOME .................................... ENTE/SOCIETÀ .................................................................................................... FUNZIONE/ATTIVITÀ ................................................................................ INDIRIZZO........................................................................CAP ........................ CITTÀ............................................................................PROV................................ TEL. ............................................................................. FAX ........................................ Spedire in busta chiusa a QUES.I.RE. sri Queste Istituzioni Ricerche Via Ennio Quirino Visconti, 8 - 00193 ROMA, op. via fax al n. 06/32 15283


Librerie presso le quali

è

in vendita la rivista

Ancona

Lucca

Roma

Libreria Fagnani Ideale

Centro di Documeniazione

Libreria Feltrinelli (V. Babuino) Libreria Feltrinelli (V.E Orlando) Libreria GE.PA . 82 Libreria Mondoperaio Libreria Rinascita

S. Benedetto del Tronto

Massa

(Ascoli Piceno)

Libreria Vortus

Libreria Multieditoriale Bari

Libreria Laterza e Laviosa Bergamo

Libreria Rinascita Bologna

Libreria Feltrinelli Catania

Libreria La Cultura

Milano

Cooperativa Libraria Popolare Libreria Feltrinelli Manzoni

Sassari

Libreria Pirola-Maggioli Libreria Universitaria Venditti

Napoli

Libreria M. Giuda Libreria Marotta Libreria Int.le Treves Padova

Libreria Feltrinelli

Avola (Siracusa)

Libreria Edit. Urso Torino

Campus Libri Libreria Feltrinelli

Chieti

Palermo

Libreria De Luca

Libreria Dante Libreria Flaccovio

Conegliano (Treviso)

Parma

Trieste

Cartolibreria Canova

Cuneo

Libreria Moderna Firenze

Libreria Alfani Libreria Feltrinelli Libreria Marzocco

Libreria Feltrinelli

Libreria Tergeste

Pisa

Udine

Libreria Feltrinelli

Cartolibreria Universitas

Genova

Pordenone

Urbino

Libreria Athena

Libreria Minerva

Libreria ÂŤLa Goliardica,,

Lecce

Ravenna

Venezia-Mestre

Libreria Milella

Cooperativa Libreria Rinascita

Libreria Don Chisciotte

-


CONCESSIONARIA PER LA PUBBLICITÀ SYNKROS VENTURE MANAGEMENT Sri - Tel. 06/3213959 Le inserzioni a pagamento sono pubblicate su pagine patinate, inserite ai centro dei fascicolo. QUOTE DI ABBONAMENTO 1994 (IVA inclusa) Abbonamento annuale (4 numeri) L. 75.000 Abbonamento per studenti 50% di sconto Abbonamento per l'estero L. 110.000 Abbonamento sostenitore L. 200.000 Condizioni di abbonamento L'abbonamento si acquisisce tramite versamento anticipato sul c/c postale n. 24619009 intestato a 0QUES.I.RE. sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE0. Si prega di indicare chiaramente nome e indirizzo del versante, nonché la causale del versamento. L'abbonamento decorre dal 10 gennaio al 31 dicembre e, se effettuato nel corso dell'anno, dà diritto ai fascicoli arretrati. L'abbonamento è continuativo salvo facoltà di disdetta da esercitarsi a mezzo lettera, entro il mese di novembre di ciascun anno con effetto dal 1 gennaio successivo: la semplice reiezione dei fascicoli non può essre considerata come disdetta, così come il mancato pagamento per il rinnovo entro il 31 dicembre di ciascun anno. I fascicoli non ricevuti devono essere richiesti entro 3 mesi dalla data di pubblicazione. Trascorso tale termine verranno spediti, in quanto disponibili, contro rimessa dell'importo più le spese postali. In caso di cambio di indirizzo allegare un talloncino di spedizione. PiA, FATTURE E MEZZI DI PAGAMENTO DIVERSI DAL CONTO CORRENTE POSTALE L'IVA è assolta dall'editore ai sensi dell'art. 74 lett. c) del d.P.R. 26. 10. 1972 n. 633 e successive modificazioni nonché ai sensi del d.m. 29.12.1989. Non si rilasciano quindi fatture (art. 1 c. 5 1 d.m. 29.12.89). per questo si consiglia l'utilizzo del c/c postale la cui matrice è valida come attestato a tutti i fini contabili e fiscali. Qualora si desideri eccezionalmente acquisire l'abbonamento o singoli fascicolo tramite assegno bancario o circolare spedire direttamente al nostro indirizzo: QUES.I.RE. sri Via Ennio Quirino Visconti, 8 -00193 Roma. N.B.: Per qualsiasi comunicazione si prega di allegare il talloncino-indirizzo utilizzato per la spedizione.


L. 20.000 Via Ennio Quirino Visconti, 8 - (scala Visconti, mt. 5-6) - 00193 Roma


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.