Anno XXII - n. 99 - Trimestrale (luglio-settembre) - spedizione in abb. postale - 50% Roma
queste
dal
IllegalitĂ diffusa e legalitĂ confusa Costituzioni Ernesto Bettinelli, Giuseppe IVloies
Cultura della valutazione Marina Gigante, Bernardo Pizzetti, Sergio Ristuccia
Comunicazione e Pubblica Amministrazione Nino Bigi, Giorgio De Michelis
Taccuino
iltf
I
)J1i:.
I .
I n 99 1994
rivista del Gruppo di Studio Società e Istituzioni XXII n. 99 (luglio-settembre 1994) Diretto re SERGIO RISTLJCCIA Vice Direttorr FRANCESCO SIDOTI Comitato di redazione SAVERIA ADOTtA, ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, ROSALBA CORI,
Anno
DANIELA FELIsINI, GIORGIO PAGANO, MARCELLO ROMEO, CRISITANO A. RIsTUccIA, STEFANO SEPE, ANDREA SPADETTA, PAOLA ZACCHINI Responsabile redazione SAVERIA ADOTFA Responsabile organizzazione GIORGIO PAGANO Direzione e Redazione Via Ennio Quirino Visconti, 8 -00193 Roma Tel. 39/6/3215319 - Fax 3215283 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile GIOVANNI BECCHELLONI Edito re QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE
ISSN: 1121-3353 Stampa: I.G.U. sri. - Roma Finito di stampare nel mese di settembre
()
1994
Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
N. 99 1994
Indice
III
Illegalità diffusa e legalità confusa Francesco Sidoti
Costituzioni 3
La Costituzione di fronte al «nuovo che avanza» Ernesto Bettinelli
19
Dove va il Sudafrica? Giuseppe Moles
Cultura della valutazione 35
Le trasformazioni dell'Amministrazione e la funzione di valutazione Marina Gigante
44
Valutare e misurare la ricerca: dal dibattito alla prassi operativa Bernardo Pizzetti
58
I dilemmi del controllo e le ambiguità delle «tre E» Sergio Ristuccia
Comunicazione e Pubblica Amministrazione 73
La comunicazione non è mercato Nino Bigi
83
La Pubblica Amministrazione dalla servitù al servizio Giorgio De Michelis I
Taccuino I nostri temi 109
:
Inforinatica pubblica: ripresa degli investimenti e necessità di consenso sulle nuove regole Sergio Ristuccia
111
Autorità informatica e pianificazione strategica Rosalba Cori
117
Un ostacolo sulla via della riforma degli enti non-profi.t Sergio Ristuccia e Andrea Zoppini
120
Notizie da APE Associazione Pùbblica Efficienza
I'
Illegalità diffusa e legalità confusa
I risultati elettorali del marzo 1994 hanno presentato aspetti di problematica interpretazione; fra questi, e in particolare, la sconfitta di illustri rappresentanti dello schieramento antimafla, dal giudice Caponnetto al giornalista Claudio Fava. Insieme alla sconfitta di questi candidati molto noti si è anche registrata, ancheflwri dalla Sicilia, la sconfitta di candidati dello stesso genere, non altrettanto noti sul piano nazionale, ma assai significativi sul piano locale per il loro impegno contro la criminalità. in Puglia, ad esempio, sono stati sconfitti la dirigente di un movimento di rivolta contro le tangenti e un giudice che veniva descritto come il Di Pietro della città di Foggia. Tutti e due battuti dagli avvocati di persone arrestate per vari reati e in primo luogo per associazione a delinquere di stampo mafloso. Anche dove hanno vinto, i candidati antimafla sono riusciti a prevalere soltanto per un pugno di voti. In un articolo pubblicato su La Repubblica del 3 aprile, Eugenio Scalfari sintetizzò alcuni degli umori prevalenti in una parte del paese, scrivendo che il 27 marzo la maggioranza degli italiani avrebbe votato «in favore della sanatoria al malaffare dei partiti. Non fosse stato questo il significato del voto, esso non avrebbe premiato l'uo mo che di quel regime è stato ilfrutto meglio riuscito. Questo modo di sentire rflette esattamente il disprezzo degli italiani per ogni regola e per ogni legge che non siano quelle del sangue e del dan. ... Tangentopoli è passata invano né di poteva seriamente credere che i procuratori della Repubblica potessero fondare la morale in un paese che non ne ha mai avuto una». Alcuni giorni dopo, su La Stampa del 12 aprile, alla domanda dell'i ntervistatore che gli chiede "esiste o non esiste l'italia perbene, l'Italia onesta, che si ribella a Tangetopoli e acclama Di Pietro?", Luciano Gallino, che è ritenuto (innanzitutto dai collaboratori a questa rivista) uno dei commentatori più colti e sofisticati, rispondeva incisivamente: "Tutto finto. No, questo è il paese dell'illegalità dffiisa. Siamo un finomeno quasi unico nelle società contemporanee. Basti pensare alla facilità con cui si perpetrano truffe ai danni delle assicurazioni. E ai falsi invalidi civili o alle false borse di studio. Un circolo vizioso che gli italiani non hanno avuto il coraggio e la forza di rompere anche perché l'illegalità diffusa garantisce molti vantaggi sociali" III
L'analisi del voto, l'esegesi del carattere nazionale, la riflessione sull'illegalità diffiisa, sono componenti di una stessa linea pessimista, che a volte è giunta a conclusioni perentorie, dall'auspicato cambiamento di cittadinanza di Umberto Eco alla irripetibile definizione dell'italiano medio data da Michele Serra. UNA SPECIALITÀ TUTtA ITALIANA?
Il problema che viene classificato con il termine "illegalità dffiisa" è ben noto anche fiwri dall'Italia. L'espressione white collar crimina!ity fu coniata negli Stati Uniti nel 1939: nata come riflessione sulle malefatte degli alti papaveri è stata applicata a un'amplissima serie di fenomeni, compresi molti di piccolo taglio, come quelli frequentemente citati in Italia. Ad esempio, una celebre ricerca Gallupp informò nel 1983 gli americani del dopo-Watergate che una larga maggioranza diexecutives faceva le proprie e personali telefonate interurbane a carico della ditta, oppure rubacchiava sulle forniture dell'ufficio, oppure guidava occasionalmente in stato di ubriachezza e così via. La ricerca suscitò un dibattito imbarazzato sul Wall Street Journal, e poi fu consegnata ai manuali di sociologia, (si può consultare, ad esempio, R.K Merton, L. Coser, e altri, Introduction to Sociology, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1987, pp.219-220). In tema di illegalità dffisa, può risultare interessante o curioso ricordare che, nel corso dei recenti mondiali di calcio 1994, mentre circolavano fosche accuse contro la Ffii per akuni risvolti poco chiari del caso Maradona, i giornali americani stilavano rassegne dei molti scandali, spesso gravi, che erano esplosi nel corso dell'anno nel mondo dello sport, dalle accuse di duplice omicidio a 0.1 Simpson, eroe del football americano, alle accuse per la pat-tinatrice T Harding di aver ordito e tentato l'azzoppamento della sua avversaria, fino ai molti casi di doping e spaccio di stupefacenti. Attualmente gli Stati Uniti sono il paese moderno con il più alto livello di criminalità e con. il più alto livello di carcerati; fino ad alcuni anni fa il milione di carcerati americani reggeva il confronto soltanto con la percentuale del Sud Africa e dell'Unione Sovietica; ora è un primato solitario. Si potrebbe dunque imparare molto dal confronto dell'Italia con altri contesti nazionali e con le varie terapie applicate: nel 1990 gli americani tenevano in galera il triplo di gente rispetto a quindici anni prima, eppure la situazione ha continuato a peggiorare. Il problema dell'illegalità si presenta in ogni paese con modalità diverse, e non si può certo dire ad esempio che il legame perverso tra politica e affari sia un fenomeno esclusivamente italiano (anche se alcuni aspetti sono specifici): nel bel mezzo dell'esplosione di Tangentopoli, Jean Francois Revel scrisse un articolo memorabile IL'A
dove sosteneva che in Francia il presidente della Repubblica era personalmente l'organizzatore di un sistema di corruzione più articolato e sofisticato di quello italiano con una variante decisiva: il controllo politico del pubblico ministero. Da più di vent'anni proprio i giudi ci francesi sottolineano il controllo politico del sistema giudiziario e gli stretti legami esistenti nel loro paese tra poteri costituiti e criminalità economica; ai magistrati inquirenti, dicono, non resta che la scelta trala politiche de l'autruche et la sodomisation des diptères. Così si espresse il Syndicat de la magistrature (Au nom du peuple franais, Stock, Paris 1974, p. 90). Gli italiani si sono scannati sul problema della corruzione dei partiti (e si sono finalmente liberati di un sistema fatiscente), ma è opportuno non dimenticare che in Gran Bretagna nel giugno 1993 è stato sollevato un problema analogo anzi, in un certo senso, molto più grave, perché si trattava difinanziamenti al partito di governo da parte di stranieri. E che stranieri: un bancarottiere turco-czpriota, un armatore greco precedentemente impelagato con il colpo di Stato dei colonnelli, un oscuro faccendiere saudita, un membro del governo cinese, e così via. Quando i conservatori sottolinearono per ritorsione l'antico problema degli ambigui rapporti finanziari tra sindacati e laburisti, quest'ultimi ribatterono: almeno in questo caso si tratta di denaro britannico! (Cfr. Politica1 Funding: Labour accuses Government of "sleaze" in stormy Commons debate as Tories reject "smears". In «The Guardian' lune 23 1993,p.6). Lo scandalo non ebbe alcuna conseguenza pratica perché in Gran Bretagna i partiti sono associazioni regolate in maniera ben diversa che in Italia: basta una dffirente definizione di legalità per generare conseguenze molto diverse in materia di illegalittì. A Westminster si svolse un appassionato dibattito, di sei ore, che si concluse con il rimprovero agli accusatori di undermine the foundations of our democracy. Quando il giudice Di Pietro ha sostenuto in varie occasioni che l'Italia è stata di esempio al resto del mondo, perché ha sfondato il muro dell'omertà e ha affi-ontato con decisione un problema davanti al quale altri paesi invece sono molto più circospetti, egli ha riconosciuto l'enorme ambiguità di quel che è avvenuto in Italia. Siamo un caso peculiare di illegalità dftisa o un modello peculiare di come perseguire l'illegalità? Forse il problema dell'illegalità diffusa èdiffuso in diversi contesti nazionali, mentre cambiano molto invece da paese a paese le diverse strategie di risposta. Esiste un'anomalia italiana in tema di corruzione o di criminalità organizzata, ma esistono anche varie anomalie italiane in tema di organizzazione della magistratura, di leggi formalmente severissime, di controlli del tutto inadeguati.
LA DEFINIZIONE INCERTA DELLA LEGALITÀ
Può non piacere, ma è così: la definizione di legalità è intimamente connessa con il principio di maggioranza, dunque, alla radice, è una nozione insieme formale, aritmetica e politica. L'illegalità è una conseguenza della definizione di legalità: è ovvio che il livello di criminalità di un paese dipende fra l'altro dai criteri generali adottati in quel paese. In Italia l'aborto ad esempio era illegale, non è più illegale dopo la legge 22 marzo 1978 n. 194, che fissa nuove "norme per la tutela sociale della maternità "; ciò non toglie che da alcuni l'interruzione volontaria di gravidanza venga considerata profondamente immorale, anzi la negazione del primo principio di ogni morale: non uccidere! Che le nozioni di legalità e di moralità non coincidano, è chiaro sin dall'alba del pensiero politico moderno, e per motivazioni che spesso non hanno molto a che fare con il «tzpico machiavellismo italiano» Quanto più una riflessione è impregnata di autentica tensione morale, tanto più è consapevole del problema. Nei primi impegnativi paragrafi della Critica della ragion pratica, Kant comincia proprio con un complesso reticolato di distinzioni tra Maximen e praktische Gesetze, Grundsatze e Imperativen, praktische Vorschriften e Gesetze: riflessioni amarissime sull'idea di giustizia sono proprie di alcuni degli spiriti più puri e nobili della tradizione classica, come nel caso delle riflessioni di Pascal sui rapporti tra forza e giustizia, o nel caso delle riflessioni di Spinoza sui rapporti tra i pesci grandi e i pesci piccoli. Con Hume l'idea della giustizia viene completamente laicizzata e relativizzata: tutto quel che sappiamo, dice Hume, è che abbiamo bisogno di interazioni regolate, e il diritto è una organizzazione della salus publica in una situazione naturale di scarsità: la giustizia è una risposta artificiale: "non è una risposta naturale, come nel caso di una risposta a un 'emozione o a un appetito" Il pensiero cinquecentesco, seicentesco e settecentesco, prima della grande scorpacciata di Rechtstaat, era impregnato di uno scetticismo e di un realismo che sono stati in seguito trascurati, aprendo la strada a quelle motivazioni dottrinarie che sono ancora oggi operanti e dominanti. Oltre che nell'età classica dei moralisti moderni, tutta una tradizione di pensiero (che comincia con Trasimaco) ha sottolineato la profonda dftèrenza tra leggi e giustizia. Svincolata dal legame ferreo con l'etica, anche per i moderni la nozione di legalità assume un significato primariamentefrnzionale e procedurale. Per Kelsen è la sanzione che identifica l'illegalità: all'interno della sua concezione dell'ordinamento giw-idico sarebbe del tutto assurdo pensare che l'illegalità produce la sanzione. È la sanzione che produce l'illegalità; e senza sanzione niente illegalità. Di fatto l'Italia è passata da una straordinaria assenza di sanzioni ad una straordi naria abbondanza di sanzioni. Lo stesso paese, visto da due punti di vista diversi, è VI
considerato oggi piagato da una illegalità diffusa - ma ieri sembrava invece caratterizzato da un livello medio di illegalità. E domani? In Italia l'illegalità sarà dffiusa, la legalità certo non si sa chiaramente a volte che cosa davvero sia; decine di migliaia di detenuti in attesa di giudizio, decine di migliaia di giudizi che nel campo penale (tra permessi premio, affidamenti in prova, semilibertà, liberazione anticipata) pronunciano una condanna che sarà poi di fatto molto diversa sia per durata sia per modalità. Dalle straordinarie difterenze di valutazione dei diversi tribunali della libertà sino alle straordinarie dffirenze di valutazione delle diverse amministrazioni pubbliche, tutto il sistema è schiacciato da una definizione della legalità troppe volte di difficile o controversa lettura. In un sistema pachidermico, complesso quanto caotico, in cui, come ha scritto Sabino Cassese, vengono esercitate ogni anno almeno 100 milioni di operazioni di controllo, la certezza del diritto diventa sempre più problematica; e per troppi cittadini sembra ancora veritiera quella celebre battuta secondo la quale la legge "viene applicata per i nemici e interpretata per gli amici ' In un certo senso, l'attesa di legalità spesso è argomento che riguarda i posteri non i contemporanei: milioni di reati caduti in prescrizione, milioni di giudizi civili e penali pendenti, di denunce inevase, di cause che tra primo grado, appello e Cassazione, sfidano ogni umana pazienza e sopportazione. Uno sfacelo che tocca tutti gli italiani, sia quelli che sono imbarcati in un 'attesa pluriennale, sia quelli che hanno semplicemente rinunciato alla speranza di avere giustizia attraverso un giudice. Qui non si tratta di criticare le, per così dire, normali e deprecabili .incongruenze di un sistema giuridico: ad esempio, il fatto che nella pretura di Milano per il tentato fiurto si rischia la condizionale, e ad un metro di distanza, nella pretura di Monza, un anno di carcere da scontare per intero e in galera. No, qui si tratta della incertezza elevata a sistema, sotto il profilo delle regole attendibili alle quali ispirarsi per la motivazione delle azioni. Problema diffi.uso ad ogni livello, non soltanto sotto ilprofilo della cause civili e penali. Nel giugno 1994 il ministro delle finanze Tremonti ha messo in rilievo che il nostro sistema fiscale "legalizza l'evasione' e che la giustizia tributaria è massicciamente paralizzata "da tre milioni di liti pendenti' Che cosa possono fare l'autorevole ministro e i suoi collaboratori in tema di legalità se l'evasione è legalizzata e la giustizia è paralizzata? Come sifa ad accusare i cittadini per l'illegalità dfliusa se il sistema nel suo complesso funziona da molto tempo completamente al di fuori dei criteri formali di legalità? Spesso la caccia ai singoli rischia di sembrare, se non arbitraria, almeno insufficiente. Giudici e investigatori possono essere indotti in errore se rileggono il catalogo dei propri poteri istituzionali senza riguardo per i presupposti e per i sottintesi. In ultima analisi essi esistono non per applicare la legge, ma per fare paura alle persone oneste; VII
si può dire altrimenti: applicano la legge alle persone disoneste perché gli onesti continuino a rimanere tali: Le chatiment est surtout destiné à agir sur les honnetes gens, dice Durkheim, che sul punto viene rzp reso e confermato da una schiera di epigoni. La funzione primaria degli apparati repressivi è dire alle gente come e perché deve rigare dritto - togliendo ogni incertezza alla definizione della legalità. Ma, quando la nozione di legalità è altamente problematicq, come i cittadini possono essere facilmente indotti alla manovra e all'errore, così gli apparati repressivi possono rimanere vittime di manovre e di errori. DA UN'ELEZIONE ALJALTRA
Quando Montesquieu formula il celebre princlpio sulla divisione dei poteri e per la prima volta enuncia la legittimità di un potere specfìco dei magistrati, egli è l'erede di tutta la tradizione culturale cinquecentesca, secentesca e settecentesca (da Montaigne a Pascal) che proprio nei confronti della giustizia usa espressioni di marcato e sconsolato scetticismo; nelle poche pagine dedicate all'argomento la logica di Montesquieu è impregnata di relativismo, e risponde ad esigenze di tzo funzionale o di efficienza istituzionale: non è per niente una logica che rinvia al primato del diritto o della morale. Nella teoria della separazione dei poteri la definizione di legalità è sottratta ad una fondazione etica: i giudici giudicano in obbedienza ad uno specìfico spirito delle leggi, cioè un complesso di norme che variano tra i vari popoli e che non possono essere valutate in assoluto. Per questi motivi dappertutto i giudici cogestiscono insieme al potere politico il settore della giustizia: perché la definizione di legalità è interamente e intrmnsecamente politica. Questo in teoria sarebbe valido anche per l'Italia, tanto è vero che il CSM è un organo a composizione mista e presieduto dal Capo dello Stato. Dire, come dice ragionevolmente Zagrebelsky, che ai giudici è anche assegnata la funzione di difrsa dei diritti dei cittadini, significa in definitiva fare un'affermazione pleonastica, e rinviare alprimato del patto costituzionale, cioè un patto politico e modfi cabile per definizione. L'indzpendenza dei giudici non è un principio morale, ma un requisito funzionale per la prevedibilità della macchina repressiva, che può funzionare in base a criteri politici senza che la parzialità debba diventare un criterio di giudizio. Come ha opportunamente ricordato il procuratore capo Caseii, quando Arangio Ruiz abrogò nel 1944 il divieto di 'fiire politica"per i magistrati, spiegava che la partecipazione alla vita politica era «un dovere civico" Cinquanta anni dopo, e dopo un altro violento trapasso di regime, l'obbligo di fare politica è ritornato impellente - e quasi tutti sono d'accordo: è la politica che deve avere l'ultima parola. Ma, quale politica? VI"
Se il problema è la ridefinizione della legalità (e dell'illegalità), allora il momento princzpe della nuova stagione dei diritto non può non essere la consultazione elettorale. Il lavoro degli apparati specializzati, ognuno con i propri poteri specfìci, viene dopo. Per così dire, il dovere di imparzialità viene dopo che è stata consumata la totale parzialità del voto. Il risultato elettorale dei marzo 1994 può essere letto in questa luce: una parte della popolazione ha effettivamente votato non contro la legalità costituita, ma contro una devastante ridefinizione (con un enorme effitto retroattivo) dei nuovi confini della illegalità. È importante rilevare che in quelle elezioni nessuno dei candidati smaccatamente sospettati di legami mafiosi ha vinto; e nessuno dei candidati eletti ha presentato una piattaforma in cui i temi del pri mato della legalità non fossero in primo piano. È vero che c'è stato un conflitto tra due politiche, e che ha vinto quella che non intendeva allargare a dismisura l'ambito della illegalità da perseguire. Ma questo non vuoi dire che abbia vinto l'illegalità; ha perso piuttosto una certa politica della legalità: per intenderci, quella formulata nella leggendaria intervista di Augusto Minzolini a Luciano Violante, e che sembrava fosse la perfetta traduzione sul piano giudiziario della teoria della illegalità diffusa, in orizzontale e in verticale, a dismisura. Non è un caso se in quella occasione Berlusconi, che tanto si lamentava del trattamento della stampa straniera, sia stato trattato per una volta in maniera quasi benevola: il Times ad esempio scriveva che quanto era avvenuto was widely seen as biatant abuse: un tentativo di screditare il campo berlusconiano, con il risultato di accreditare invece l'idea di un complotto dei magistrati di sinistra (i Philips, Boost for Berlusconi before Tv Duel, in "The Times' Thursday March 24, 1994, p. 14). Soltanto alcune posizioni estreme in tema di legalità sono state avversate dalla parte centrale e preponderante del corpo elettorale, che vorrebbe il ritorno alla normalità e alla prevedibilità e si esprime non contraddittoriamente in tal senso. Questa tendenza prevalente in un paese chiaramente messo a dura prova da due anni di rivoluzione permanente si può ritrovare anche nelle consultazioni elettorali successive: dopo le vittorie berlusconiane nelle elezioni europee, nel secondo turno delle amministrative hanno avuto successo espressioni forti della richiesta di legalità: in Sardegna ha vinto uno schieramento che aveva come candidato di bandiera un magistrato (minorile), e nella stessa Sicilia dei trionfi berlusconiani hanno vinto molti candidati progTessisti da Trapani a Siracusa. Tra i vinti e tra i vincitori, in molti preferirebbero tornare di nuovo a votare. Ma che farebbero i votanti davanti a una ennesima prova suprema, complicata da alleanze diverse e tensioni fo rtissime?
Ix
Nel grande corpo centrale dell'elettorato gli umori prevalenti sembrano abbastanza chiari, ma il voto èfluttuante. A marzo, in una carabanda di exfascisti, post-comunisti, neo-liberali, pseudo-massoni, para-maflosi, cripto-democristiani, paranoici puri e rei confessi, molti elettori hanno condiviso una nota opinione di Mae West, che sosteneva: Between two evils I always pick the one I never tried before. Ma un nuovo braccio di ferro elettorale potrebbe finire con qualunque esito. VERSO UNA NUOVA CULTURA DELLA LEGALITÀ
Vero è che ira Barabba e Gesùfli democraticamente scelto Barabba, e vero è che Socrate fu democraticamente condannato a bere la cicuta. Ma tutti e due, Gesù e Socrate, ritennero di doversi adeguare costi quel che costi - alla decisione popolare. Dato tutto il dovuto all'importanza delle elezioni, si deve anche riconoscére che un sistema pluralista è molto più che una pura trascriz'ione di un pronunciamento elettorale, che spesso (e in questo caso in maniera pdrticolare) è una sommatoria di motivazioni eterogeflee, e deve dunque essere decifrato e tradotto in risposte istituzionali complesse. Proseguo l'argomentazione svolta finora: in Italia per molti anni la definizione della legalità, è stata incerta e ambigua; l'èlettorato ha espresso' indicazioni per l'eliminazione del vecchiq sistema e per la nascita di un nuovo sistema, caratterizzato da affidabilità, prevedibilità, governabilità. 'Dall'analisi del voto non sembra che la maggioranzà degli italiani sia incline a intenti pa.r:icolarrnente clementi.0 particolarmente severi nei confronti delpassato. Ein un certa s'nso c'è una forma di saggezza in questo atteggiamento: dopo una rivòluzione è impossibile tornare indietro; ma è anche impossibile cancellare del tuio il passato, per:quanto abominevole, perché in' qualche modo e in,qualche misura sopravvive sempre, sotto mutate vesti. Si possono avere idee dìverse nel giudizio sull'entità dei risultati -conseguiti in cjuesti due anni in mari, di lott4 alla mafia; iuttavia noonu poche fe voci che-mettono in rilievola fine del vecchici sistema e la decapitazione della vecchia classe politica. Allnizio del marzo 1994, il "capo• della camorra" àveva cominciato il suo primo verbale di collaboratore affermando: «Intendo iniziare.la mia còllaborazione con la giustizia perché gli apparati repressivi 'dello Stato hanno inferto colpi terribili alle organizzizioni... Lo Stato ha sconfitto la camorra, una fase storica è chiusa" In una intervista concessa alla vigilia delle consu frazioni elettorali di fine. marzo, ('MafiaStrukturèn in,takt". Interview mit dem Sozidlogen Pino Arlacchi uber das Netzwerk der Unterwelt und den Wahlkampf, in «Der Spiegel' 28 marzo' 1994), Pino Arlacchi aveva dichiarato, invecè, che la situazione della lotta dIa maflà, contrariaente alle apparenze, non era eccellente e che non si doveva ricorrere ad una
x
sopravvalutazione dei successi ottenuti. A suo parere, la mafia sarebbe parte di un sistema illegale internazionale molto complesso e sotterraneo; egli concludeva che ci vorrebbero 'Lq cinque a sei anni prima di poter controllare discretamente (einigermassen) questo pro blema'? Sono i poteri e i tempi lunghi che l'elettorato non ha concesso, e che sarebbero stati realisticamente problematici anche qualora il voto fosse stato ben diverso. Se avesse vinto Occhetto il governo sarebbe stato esposto a ricatti e insidie non inc4fferenti, e molte ipotesi sono state azzardate in proposito, dalla venalità degli archivisti russi (come ha detto Sergio Romano) ad una nuova serie di stragi (come ha detto l'ex vicepresidente del CSM Galloni). Sui temi della legalità è stata combattuta in Italia una sorta di guerra civile, che ha avuto i suoi martiri e i suoi eroi; questa guerra è ancora in corso, e non ci sarà una conclusione fino a quando un compromesso (questo sì, all'italiana) non sarà stato trovato e imposto da una coalizione largamente rappresentativa degli umori e delle tendenze più significative, che vogliono ricominciare l'urgente ed ingente opera di ricostruzione del paese. Una democrazia si nutre di conflitti, m non si fa distruggere dai conflitti e trova soluzioni di compromesso e di mediazione tra gli interessi costituiti. In questa prospettiva, le distinzioni e contrapposizioni formali tra maggioranza ed opposizione dovrebbero essere in qualche modo superate; mentre le posizioni dogmatiche e settarie dovrebbero rimanere emargi nate. Gli americani possono forse convivere con definizioni di legalità altamente mutevoli e controverse; inglesi e francesi possono forse permettersi le guerre dei dossier. Gli italiani no, per tutta una serie di ragioni connesse con una maggiore precarietà difondo, che è rilevante sotto molti profili, dal debito pubblico alle grandi diffirenze esistenti tra le varie aree del paese. Dopo un terremoto biennale, il paese ha dato molteplici segni di voler un rinnovamento sostanziale, ma non si sa se gli elettori abbiano trovato le persone giuste e se opinione pubblica, ceti dirigenti nelle diverse sfere della società civile abbiano trovato i metodi e le istituzioni della ricostruzione. Certo cominciare dalle definizioni di un migliore concetto di legalità rimane compito essenziale e preliminare. Francesco Sidoti
01
p,,
~
r
., 7
~
Costituzioni
Nel primo articolo presentato in questo dossier, Ernesto Bettinelli pone con forza il tema fondamentale di og!zi democrazia: i rapporti tra sovranitĂ -consenso-rapp resentanza politica e la tutela dei soggetti e delle istituzioni di controllo. La recente rifirma elettorale in senso maggioritario-uninominale ha comportato, secondo l'autore, la tendenza alla sostituzione dell'imperfetto ma pur sempre dffiiso sistema di regole e garanzie con la regola di maggioranza. Le inedite modalitĂ di elezione dei Presidenti delle Assemblee parlamentari; la proposta del Governo di sospendere temporaneamente gli effetti di una decisione della Corte costituzionale; il tentativo di appropriarsi del potere di "licenziare" il Consiglio di Amministrazione della RAI; gli attacchi di alcuni settori della maggioranza alla Banca d'Italia e la recente proposta di influire sulla nomina stessa del direttore generale dell'Istituto centrale rappresentano, secondo Bettinelli, l'adesione a un nuovo sistema politico fondato sulla regola di maggioranza. Regola, questa, capace non solo di conformare gli organi di controllo sovrani e indipendenti ma di sconvolgere l'impianto formale e sostanziale della Carta costituzionale stessa. Quindi quale sorte auspicare alla Costituzione di fronte a/ ÂŤnuovo che avanza?
Se un arroccamento in difesa dell'esistente potrebbe farci perdere l'occasione per una revisione legittima della Carta costituzionale e rivelarsi infine controproducente, una rottura che implichi una rThrma complessiva legale ma illegittima sarebbe, in assenza di una cultura istituzionale comune, una scommessa azzardata e sotto diversi aspetti pericolosa. Scartata quindi l'iipotesi che il Parlamento possa assolvere oltre che aflinzioni di revisione costituzionale anche aflinzioni costituenti, Bettinelli invita a seguire un'altra e forse l'unica strada possibile: la via della rottura consensuale. Con il secondo articolo, per certi versi complementare al primo, la rivista torna ad occuparsi di questioni di politica costituzionale internazionale affrontate in più occasioni fin dagli anni Settanta. Giuseppe Moles, infatti, descrive e commenta la mirabile evoluzione di un Sudafrica passato da un regime di polizia fondato sulla segregazione razziale ad un nuovo Stato unitario e libero da ogni forma di discriminazione e dominazione. Punto cruciale di questo passaggio è certamente l'approvazione della bozza iniziale della "Costituzione per il Periodo di Transizione" da parte delle4ssemblea plenaria del forum negoziale multipartitico nel novembre 1993, successivamente approvata a larghissima maggioranza anche dal Parlamento tricamerale in seduta comune. Il passaggio dall'apartheid ad una moderna democrazia è segnato dunque proprio da questa nuova Costituzione del '93, caratterizzata, oltre che dalle interessanti previsioni riguardanti in senso stretto l'organizzazione costituzionale dello Stato, dalla codficazione di un catalogo di diritti fondamentali dell'individuo accompagnata da un avanzato sistema di garanzie. Proprio quando in Italia si sta facendo strada la convinzione che per garantire la forma liberaldemocratica di uno Stato sia sufficiente assicurare la tutela delle sole liberttì inviduali (la non più efficace legge costituzionale n. 1 del 1993 sta a testimoniarlo), nella nuova Costituzione sudafricana si riaffirma con forza la imprescindibilità di uno stretto legame tra il sistema dei diritti e quello delle garanzie. Così, mentre in Italia sembra sgretola rsi la cultura delle garanzie, il Sudafrica finalmente, grazie al lungo e complesso negoziato multiartitico, adotta e rilancia una moderna nozione di costituzionalismo.
La Costituzione di fronte al «nuovo che avanza» Una traccia di Ernesto Bettinelli
È innegabile che in Italia la cultura delle garanzie comuni o, come altrimenti si 'dice, delle «regole» non ha mai avuto un'attenzione prevalente. La storia del primo mezzo secolo di. esperienza repubblicana lo sta a dimostrare. È sufficiente considerare le ricorrenti categorie adottate per la sua sistemazione o periodizzazione: a una fase di congelamento costituzionale (e cioè di mancata o ritardata attuazione proprio degli istituti costituzionali di garanzia: Corte costituzionale, Consiglio superiore della Magistratura...), è' sopravvenuta una fase di, sorvegliatò.' disgelo che avrebbe poi favorito, a partire degli, anni Settanta,. la fase della, tendenziale piena attuaziòne del progetto costituzionale attraverso la valorizzazione de! pluralismo (istituzionale 'regioni, referendum; sociile riconoscimento dèlla' . ign.ità e sòggettìvità di diiersi.'soggetti,.la èui.situazione era pri11,a di rikvante sottoprot&zione). ' Uno sviluppo a balzi 'e a strappi, sorretto da quella cultura e prassi. della costante 'ricerca di una pur disordinata, incoerente ma diffusa 'rnediazione su, cui si è sostanzialmente formata.
non solo la classe dirigente dello Stato, ma la stessa comunità nazionale. Il sistema ha retto, volendo aderire agli' schemi correnti, fino alla vicenda di Tangento.po!i. Essa, come si sa, è stata addirittura definita una' «iivo!uzione». Definizione certamente impropria, fastidiosamente semplificatrice, per certi aspetti perfinò aberrante. Eppure quésto , eccesso' di disinvoltura semantica' contiene un punto di verità, nel momento in cui vuole segnalare cme, per la prim.volta e quasi improvvisamente, nel costume sociale e nell'òrga'nizazione della convivenza del Paese, sia pmersa con una certa forza proprio l'idea delle regole, del diritto che deve. valere come bene in sé, che deve essere applicato in tutti gli ambiti, della vita pubblica e privata: che non ci possono. esere zone franche in uno Stato di diritto. Eemricne del ruolo del Giudice effettivamente indipendente e irnparziale, ion sottop'onibile alla misura del consenso politico sembrava-davvero una preziosa, irrinunciabile occasione per approfondire o, forse meglio, scoprire il discorso costituzionale delle garanzie: appunto per impostare. sistemare il tema, fondamentale per 3
qualsiasi democrazia, dei rapporti tra sovranità-consenso-rappresentanza politica e tutela inderogabile di quei beni giuridici (valori, principi, metodi) affidati a soggetti-istituzioni di controllo, la cui responsabilità è costituita e vissuta in dimensioni separate, anche temporalmente, rispetto alle responsabilità dell'azione politica. Questa occasione è però andata perduta. La vicenda di Tangentopoli è stata interpretata e impostata quasi esclusivamente come manifestazione di radicale mutamento del sistema politico, addirittura consentita dall'affermarsi di soggetti politici nuovi e a vocazione palingenetica, scarsamente interessati alla cultura delle regole, essendo proiettati alla creazione della regola di altro sistema politico: presupposto dichiarato, ma eventuale, per l'istituzione di altro sistema costituzionale formale. La regola-motore di questa evoluzione, le cui prospettive sono tuttora nebulose, è la forza del principio maggioritario. La radicale innovazione dei sistemi elettorali politici, in seguito al travolgente referendum del 1993, la loro sperimentazione nel 1994, hanno effettivamente dato luogo a quella scissione che molti «riformatori» di autocertificata matrice liberaldemocratica da tempo andavano predicando. La nuova legislazione elettorale, pur formalmente «imperfetta» per le marginali e residuali impurità proporzionalistiche, ha funzionato, al di là 4
delle stesse aspettative dei suoi patrocinatori. Ha dato luogo a una efficace polarizzazione dinamica, cioè con effetti di attrazione magnetica che perdurano oltre la vicenda elettorale. Prima ancora di identificare una leadership di governo (ciò che peraltro è avvenuto senza troppi equivoci o dubbi), il sistema elettorale inaugurato ha prodotto blocchi ociali evidenti e solidi. Il blocco risultato egemone è tanto solido che ha consentito, anzi imposto, la formazione di un governo, questo governo, pur in presenza di divisioni, bisticci, ritorsioni, sceneggiate pii o meno credibili tra i vari partners delle componenti della maggioranza. Qualche osservatore insiste nel sottolineare la natura di compagine di coalizione anche del ministero-Berlusconi. È una valutazione impropria se essa intende recuperare le categorie e le prassi dei governi che si costituivano in regime proporzionale, la principale caratteristica dei quali era la precarietà, la fragilità in assenza di un blocco sociale sottostante. Dunque non si tratta sostanzialmente di un governo di coalizione parlamentare suscettibile di rinegoziazione, è un inedito governo di maggioranza sociale e politica, nel quale le forze centripete prevalgono sulle forze centrifughe. Insomma un vero e proprio potere. Chi per troppo tempo ha indugiato, alla vecchia maniera, nell'esplorare la tenuta dei rapporti tra i partiti dell'accordo di governo, o nel dare importanza a diatri-
be tanto clamorose, quanto inevitabilmente inconcludenti, ha dimostro di non comprendere la profondità della trasformazione del sistema politico. A sostegno di questa veloce constatazione basterebbe riflettere sulle logiche che sono emerse con estrema nitidezza nelle ultime elezioni politiche. La fisionomia e struttura del sistema è certamente maggioritaria-uninominale; ma il secondo connotato non sembra proprio aver avuto grande influenza nell'atteggiamento degli elettori, che nelle loro scelte sono stati immediatamente e preponderantemente indirizzati dalle prospettive-preferenze di governo-potere. È stato cioè espresso un voto esclusivamente di investitura, non condizionato dalla personalità, dalle qualità, dalla storia politica dei candidati diffusi e dispersi nei collegi uninominali. Le dimensioni di questo fenomeno di indifferenza (che contraddice la teoria sulla assoluta rilevanza del rapporto candidato-territorio nei sistemi uninominali-maggioritari) saranno presto analizzate dagli studiosi dei comportamenti elettorali. Per ora può qui valere la confessione di un candidato (con un pedigree politico eterodosso rispetto alle opinioni correnti) eletto al Nord nel blocco di maggioranza; confessione rilasciata nel corso di una intervista radiofonica: «Nel mio collegio, sotto questo simbolo, sarebbe stato eletto anche un ciuccio [asino, nel lessico dialettale meridionale]».
Attraverso le elezioni politich si è dunque manifestata-costituita la regola di maggioranza, tendenzialmente so-. stitutiva del sistema di regole e garanzie, che almeno formalmente era alla base della forma di stato disegnata dalla Costituzione, ma inverata, come già si è ammesso, in maniera parziale e insoddisfacente e deformata dalla prassi di mediazioni eccessive.
IL PREDOMINIO DELLA REGOLA DI MAGGIORANZA
La regola di maggioranza sopra le regole delle garanzie si.è subito imposta quantomeno come prassi di egemonia. Esistono sufficienti epoco confutabili episodi a conferma di questo sviluppo. Il quale è iniziato còn la "prova" riuscita dell'elezione dei Presidenti delle Assemblee parlamentari senza il coinvolgimento delle minoranze, in rottura conclamata Con la convenzione affermatasi dopo gli anni Settanta sul ruolo neutrale e imparziale dei Presidenti medesimi; tale che sul riconoscimento di siffatta convenzione si è potuta formare quella legislazione che affida alla prudenza e moderazione del collegio dei Presidenti la nomina di varie autorità indipendenti e di garanzia istituzionale, sottratte alla misura politica. Non si può poi non menzionare l'altrettanto discusso comunicato del Governo contro la Corte costituzionale in 5
occasione della pronuncia di incostituzionalità (sent. n. 24011994) sull'integrazione al minimo di alcune pensioni. In tale comunicato (16 giugno 1994) si prospettava, quale rimedio contro l'aggravio di bilancio che l'attuazione della sentenza comporterebbe, la «sperimentazione» dell'<cipotesi di una sospensione temporanea degli effitti delle decisioni e dell'esercizio delle azioni dei beneficiari», in palese e disinvolta deroga a quanto dispone l'art. 136 della Costituzione, in virtù del quale «quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge..., la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione». Si tratta di un vero e proprio misconoscimento del ruolo separato e supremo della massima istituzione di garanzia costituzio nale. Meritevole di attenzione è anche la vicenda del'abortito (ma risultato egualmente efficiente) decreto legge che avrebbe dovuto consegnare al Gover-., no il potere di dichiarare decadutoil Consiglio di Ainii'ìinistraziòne della Rai, ove il Governo 'stesso noh avesse condiviso il «piano triennale di ristrutturazione aziendale» approvato. dal Consiglio di amministraione. Anche in questo caso la denuncia era diretta. contro una regola di garanzia: quella che - ai sensi della 1 n. 206 del 1993 - affida ai Presidenti delle Caine-ré il compito di nominare i cinque membri del Consiglio d'Amministra6.
zione della concessionaria, scegliendoli tra persone di «riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza di comportamenti...» (art 2). E, per finire, nel momento in cui si stanno scrivendo le presenti note si ha notizia (2 luglio 1994) di altro comunicato del Governo in cui si rivendica un potere determinante di influenza sulla nomina del Direttore generale della Banca d'Italia, altra istituzione per la quale dovrebbe valere la regola di autonomia e indipendenza rispetto all'esecutivo. Regola che tra l'altro appartiene alla comune cultura giuridica europea, in quanto recepita e imposta dal Trattato di Maastricht (che ha appunto introdotto nel Trattato. Cee gli artt. 107, 108, 109-E, per impegnare ciascuno stato a «garantire l'indipendenza» della propria Banca centrale). Sarebbe non solo riduttivo ma profondamente errato 'interpretare questi primi episodi e gli altri che seguiranno come espressioni asistemati che di semplice decisionismo, di effimera prepotenza tonica, di ingenuità o imperizia. E non possono nepurequalifiarsi come 'deviazioni' Essi invece rappresenano. l'adesione coerente a ufì nuovo sistema politico fondato sulla rego'la la regola pervasiva di maggioranza sufficiente a conformare gli altri organisovrani e separati, ma non legittimati dal suffragio popolare' o da un consenso comunque comprovato. Se le còse stanno così, occorre fare i
conti con una concezione neogiacobina, con la rottura di una cultura costituzionale che i protagonisti del nuovo ordine ritengono palesemente superata, non più legittimata. È a questo punto che diventa includibile il problema della Costituzione.
REVISIONI IN CONTINUITÀ
In una succinta bozza di documento circolato recentemente tra costituzionalisti (dopo un incontro di discussione svoltosi a Roma il 21 maggio), ci si lamenta dell'immaturità e della superficialità della discussione relativa alle ipotesi di revisione costituzionale. Si ribadisce «la piena validità della Costituzione repubblicana e la vitalità dei principi fondamentali che ne caratterizzano la specifica identità, i quali vanno salvaguardati anche da qualunque surrettizio svuotamento». Si sottolinea «l'indispensabilità - non da tutti compresa - del rigoroso rispetto dell'art. 138 e delle altre disposizioni procedurali della Costituzione, per qualsiasi ipotesi di revisione». Si invoca poi «la necessità delle attuali garanzie costituzionali, che devono, anzi, essere applicate con forza e, in prospettiva potenziate, in una forma di governo trasformatasi in senso maggioritario, se si vogliono salvaguardare i tratti essenziali della democrazia pluralista». Parole chiare e forti che si concludono con un solenne e nobile impegno ad «assumere tutte le inizia-
tive» che competono agli studiosi «perché il patrimonio del costituzionalismo non sia disperso». Questo testo - sottoscritto anche dall'autore di queste note - contiene certamente un allarme, ma ottimisticamente suppone che il «patrimonio del costituzionalismo» (quello che nasce dal riconoscimento della separazione dei poteri, tanto per intenderci) sia tuttora, nella presente congiuntura italiana, un dato comune, di unità; e che sia ancora possibile procedere a revisioni costituzionali, anche radicali, legali e legittime, cioè in continuità con l'originario comune patrimonio. Quali possano essere queste riforme è risaputo: introduzione di una organizzazione dei poteri locali in una dimensione federale, in luogo di quella regionale; mutamento della forma di governo da parlamentare a tipo presidenziale; conseguente risistemazione delle istituzioni di rappresentanza politica. Si ritiene che tali modificazioni possano appunto essere oggetto di un processo di semplice e articolata revisione (si da porsi come aggiornamento della Costituzione) in quanto di per se stesse non intaccherebbero i principi fondamentali: la posizione e il valore della persona nello stato, il pluralismo, le garanzie istituzionali. Un tale approccio sarebbe (forse) percorribile in presenza certa di una cultura istituzionale comune, che accetta incondizionatamente un sistema di re7
gole e che non si affida tout court alla regola di maggioranze e dell'opportunità politica. Ma non pare proprio questa la situazione italiana: non c'è (più) concezione o patrimonio che sia dalla gran parte condiviso. E, in ogni caso, una tale condivisione non può essere supposta, ma richiede di essere dimostrata. In un'intervista rilasciata a la Repubblica (2 parile 1994) Gianfranco Miglio, forse il massimo esponente del movimento revisionista, auspice di «una fase costituente continua», ha sostenuto l'opportunità di modificare pure quelle norme sui diritti inviolabili «che hanno prodotto più guai che altro»: ad esempio la norma che afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato («Quando esistono elementi obiettivi che uno non può essere recuperato, che è un delinquente abituale, inutile pensare alla rieducazione ... »). Si può immaginare che queste opinioni consentano di individuare un terreno comune di compromesso anche metodologico? Dov'è la cultura comune sui rapporti di convivenza?
LA COSTITUZIONE COME STORIA DELLA COSTITUZIONE
Che cosa è una costituzione, quali sono i fondamenti della Costituzione italiana? Quando questi interrogativi vengono posti in tempi di bonaccia ad essi si E;1
può rispondere ricorrendo senza troppe preoccupazioni alle innumerevoli definizioni riportate sui manuali di diritto costituzionale. Ogni definizione è parzialmente vera, privilegia diverse possibilità d'approccio, processualistico o/e sostanzialistico che sia. Quando invece una costituzione, la nostra Costituzione, a causa di profondi mutamenti o mutazioni del (e nel) sistema politico che ad essa dovrebbe tendenzialmente - seppure con elasticità aderire, perde o riduce fortemente il suo valore di fattore costitutivo del sistema medesimo; e quando ad essa ci si rivolge essenzialmente in quanto «problema» da supera re attraverso adeguate riforme: ebbene allora è indispensabile adottare una definizione con alta densità significante, da cui trarre utili indicazioni di metodo e di prospettiva. La definizione che nell'attuale momento storico pare essere più capace di orientare è quella della Costituzione intesa come storia della Costituzione medesima. Essa lascia subito comprendere che la Costituzione va considerata non soltanto in relazione ai suoi contenuti, alla identificazione, in particolare, dei soggetti della convivenza sociale e istituzione, alla qualità dei suoi obiettivi di integrazione, ma anche in rapporto alla sua origine. È questo un concetto/fatto assai ampio che non si riferisce soltanto al <(processo di formazione» della Carta
(processo costituente), ma che riguarda anche la natura dei rapporti con l'ordinamento-assetto precedente. Una costituzione che succede ad altra comporta necessariamente una rottura dell'ordinamento in termini di legittimità e talora di legalità. La rottura può essere di tipo rivoluzionario o, più raramente, di tipo consensuale. Questa seconda ipotesi si può verificare quando il precedente ordinamento-costituzione pur perdendo la sua legittimazione (o forse meglio il suo valore) offre all'ordinamento-costituzione in divenire forme di instaurazione legali, ma non legittime (in quanto il parametro di valutazione non può che essere l'ordinamento che subisce la rottura). Ma su questo aspetto si ritornerà più avanti. Non c'è dubbio che la rottura che ha originato la vigente Costituzione italiana sia rivoluzionaria sotto ogni aspetto. Vi è stata infatti una preliminare denuncia-soppressione (in forme non pacifiche) di un regime (di una forma di stato totalitaria) a cui ha fatto seguito la ricerca di un percorso per l'instaurazione di un nuovo sistema a base democratica, ispirato a valori e principi dichiarati antitetici rispetto a quelli che connotavano l'ordinamento-sistema fascista. Le tappe di questo percorso (la cosiddetta transizione) che più rilevano furono in sintesi:
a) la costituzione di governi autocratici a tempo definito formati dai soggetti
politici protagonisti della rottura; si trattava di coalizioni necessarie fondate sul principio dell'unanimismo per l'adozione delle decisioni di governo e dalla pari dignità fintanto che la legittimazione di ciascuna forza non fosse stata misurata dal voto popolare (costituente); la validità e legittimità degli atti di governo, soprattutto di quelli di valo re istituzionale fondata sui fini-obiettivi, sulla direzione degli atti medesimi: la elezione di un'Assemblea costituente, che avrebbe innanzitutto distribuito quote di consenso ai soggetti politici, legittimando a posteriori i/potere di fatto da essi (in gran parte) in precedenza assunto; la Costituente eletta secondo principi democratici, i cui elementi indefettibili erano il sz.ffiagio universale e il ricorso a un metodo rigorosamente proporzionale, non soltanto per verificare le propensioni ideologiche e/o politiche-sociali dei cittadini, ma anche per fondare il sistema politico (dei partiti); il referendum istituzionale che sostanzialmente, seppur non formalmente, avrebbe stabilito il grado di rottura con l'ordinamento-sistema precedente; e che avrebbe conferito alle forze politiche vincenti (repubblicane) una superiore legittimazione. La rievocazione dei punti salienti di questo processo originario di rottura è 9
indispensabile in quanto proprio essi consentono di conferire unità e coerenza al complessivo discorso costituzionale, pur frutto di deliberazioni talora contraddittorie e compromissone, come normalmente avviene in tutti i consessi parlamentari. Unità e coerenza che poi trovano il loro esito logico nelle prescrizioni sulla rigidità della Costituzione. Il contenuto della Costituzione appare certamente più chiaro se letto nell'ottica della rottura. Potrebbe essere ridotto a un catalogo di valori-obiettivi e di clisvalori-defezioni. Basta leggere gli enunciati relativi ai diritti civili, politici e sociali per rendersi conto di questa impostazione. Per quanto riguarda poi la struttura del potere politico, è del pari palese la volontà dell'affievolimento dei centri forti di autorità (tipici della concezione autoritaria e centralistica fascista). Non è un caso - come rimarcato normalmente e da sempre dalla gran parte degli interpreti - che il tema fondamentale della sovranità sia svolto essenzialmente in rapporto al soggetto-presupposto popolo e non in rapporto alla strutturastato, fino all'individuazione della categoria dello stato-comunità. Lo stesso concetto di popolo si scioglie o si scompone nelle autonomie di vario genere: personali, sociali, territoriali, istituzionali; fino ad arrivare a quelle istituzioni di garanzia-coordinamento in grado di contenere un tale sviluppo nell'alveo dell'integrazione e non della 10
dissociazione. Questo affievolimento del tradizionale principio di unità della sovranità ha reso praticabile l'interpretazione e applicazione evolutiva della disposizione costituzionale (art. 11) che consente la cessione di quote indeterminate della stessa sovranità in favore di ordinamenti sovranazionali ispirati ai principi di pace e giustizia. È superfluo rammentare come questa apertura abbia permesso il processo di integrazione europea che ha portato al riconoscimento di un ordinamento concorrente con la stessa Costituzione. LE NORME SULLE MODIFICHE
Le osservazioni appena svolte sono tese soprattutto a dimostrare come la vigente Costituzione repubblicana sia fonte di un discorso e non semplicemente di una somma di enunciazioni disarticolate e non sempre riducibili allo stesso contesto di coerenza. Che in una simile dimensione complessiva debba essere «trattata» la Costituzione si desume dalle norme sulla modificazione della Costituzione medesima. Sul significato del sistema di cui agli artt. 138-139 c'è davvero poco da aggiungere alle conclusioni di una vasta dottrina, nonché più recentemente della stessa Corte costituzionale, che hanno con vari e convincenti argomenti segnalato i limiti sostanziali del procedimento di revisione, dovendosi sottrarre ad esso non solo la <(forma repubblicana», intesa - si scusi
il bisticcio - in senso formale, ma quel «nucleo immodificabile» di norme e principi ritenuti qualificanti ed essenziali della Costituzione non soloin quanto testo, ma soprattutto in quanto processo-storia. Ecco che in tal modo si recupera la stessa interpretazione estensiva del valore del referendum istituzionale, cioè del significato fondativo della scelta repubblicana. Si sono inoltre correttamente e conseguentemente puntualizzate le garanzie costituzionali contro le revisioni illegittime, passibili di censura da parte della Corte costituzionale o dire''entivo intervento del Presidente della Repubblica che potrebbe rifiutare la promulgazione di una legge di modificazione della Costituzione ritenuta incostituzionale o arrestare il procedimento di indizione ai un referendum di approvazione costituziònale su uii testo del pari valutato illegittimo. Con ciò, in sostanza,si afferma giustamente che il ricorso alle procedure di cui all'art. 138 garantisce olo la legalità di un procedimento di revisione, non la sua' legittimità.. Minore 'attenzione ha avuto un'altra considerazione, che non pare di Qtdine meramente terminologico; eioè il significato dell'espressione «revisione». Essa ha una portata assolutamente e non casualmente circoscritta. Si inténde dire che il concetto di. tevisione non, coincide con quello di «riforma», giacché .si de'e definire t.le qualsiasi cambiamento che altera la coerenza
del discorso costituzionale complessivo ih rapporto alla sua storia, come si è già messo in evidenza. Le riforme della Costituzione sono pertanto da ritenersi manifestazione di rottura della medesima; possono essere legali, non sono mai legittime. In effetti pare proprio essere stata questa la prospettiva dei costituenti, quando affrontarono la questione della rigidità della Costituzione. L'idea era quella di difendere l'unità e la coerenza del discorso costituzione e ammettere, viceversa, quelle correzioni o integrazioni che ne potessero costituire lo sviluppo. Del resto, in alcune parti il disegno costituzionale risulta incompleto o approssimativo, per insufficiente approfondimento dovuto anche a limiti di tempo. Talune riserve di legge costituzionale hanno valore anche di rinvio (così per quanto riguardava il completamento dell'ordinarfiénto della Corte costituzionale), nn soltanto di argine al legislatore ordinario. Così pure è facile, individuare le apprQssimazwni costituzionali che invitano a càrrezioni. Proprio la materia dell'ordinamento regionale si presta a una simile valutazione di elasticità. L'elenco .,u base storico-geografica delle regioni, l'indicazione quasi a casacciò delle materie demandate alla potestà legislativa conorrente delle regi'oni a statuto ordinario: ecco argomenti privilégiati per la revisione-i ntegrazione-aggiornamento della Carta. 11
In particolare il primo punto merita qualche riflessione per la sua stretta connessione con la concezione costituzionale di autonomia come processo democratico verso l'integrazione e non verso la dissociazione. La Costituzione traccia senza incertezze il sentiero per la modifica degli asseni territoriali regionali. Ammette la creazione di nuove regioni (con un minimo di 1.000.000 di abitanti) e anche la fusione tra più regioni (maregioni) purché siano rispettati due principi complementari: quello di autòidentficazione bilanciato con quello di unitarieta del processo ricostitutivo delle autonomie regionali. In virtù del primo, l'art. 132 della Costituzione stabilisce che l'iniziativa di fusione, ad esempio, provenga da istanze autonomistiche territoriali elementari (tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate) e che sia approvata con referendum dalla maggioranza degli elettori delle regioni che aspirerebbero alla fusione. La quale, però, può essere deliberata soltanto con legge costituzionaleai sensi de!l'art. 138; cioè attraverso quel procedimento aggravato che, in caso di mancato raggiungimento delle maggioranze auspicate dei due terzi in entrambe le Camere, può concludersi con un referendum approvativo risolutivo cui partecipa l'intero corpo elettorale. La complessità di questo processo è tesa appunto a garantire il valore di unità e integra12
zione (non tanto di integralità) nazionale affermato nel «principio fondamentale» di cui all'art. 5. <'La Repubblica una e indivisibile» non sta peraltro a precostituire immobilità o, peggio, ingessatura delle vocazioni di autonomia territoriale ai vari livelli che la Repubblica medesima si impegna a riconoscere e addirittura a promuovere. 1unità e l'indivisibilità non rappresentano un limite negativo, un freno; ma più positivamente indicano una prospettiva di solidarietà dello stesso segno di quella, già ricordata, fatta propria dall'art. 11 in favore della costituzione di un ordinamento sovranazionale ispirato ai valori-obiettivi della pace e della giustizia. Solidarietà vuole infatti significare che nell'ambito di uno stato-comunità alcuni beni per loro natura sono indisponibili, irriducibili alle rivendicazioni di sovranità (si pensi ai beni ambientali in senso lato che, ovunque dislocati, appartengono all'intera comunità) e che alcuni bisogni, espressione dei diritti di cittadinanza, devono essere comunque soddisfatti, senza riguardo alle singole, diversificate situazioni territoriali e sociali. Che un simile discorso costituzionale non precluda la strada alla creazione di autonomie forti e solide è dimostrato dall'esistenza-vigenza nel nostro ordinamento di statuti di autonomia speciale (non eccezionale) effettiva, quale è quello del Trentino-Alto Adige. Proprio questo Statuto, nell'articolo di
apertura richiama coerentemente il principio dell'unità politica della Repubblica «una e indivisibile». Altro e inconciliabile è il discorso del federalismo, che viene correttamente presentato dai suoi propugnatori come riforma della Costituzione. Contrariamente ai processi aperti di autonomia, diretti alla valorizzazione di tutte le forme di pluralismo sociale e istituzionale (di tutte le soggettività), ma nel contempo rivolti all'esigenza della solidarietà-integrazione, il processo federalista (se alla parola corrisponde un concetto) è inevitabilmente indirizzato a recuperare e garantire spazi di sovranità (e, quindi, di potenziale separazione-dissociazione).
REVISIONI LEGITTIME E RIFORMA ILLEGITTIMA
La distinzione tra revisioni (al plurale) della Costituzione, legittime, e riforma della Costituzione illegittima, in quanto fatto legale di rottura (del discorso fondativo) si può rinvenire anche ragionando sul senso dell'articolazione e della struttura formale del complesso procedimento delineato dell'art. 138 della Costituzione. Una prima considerazione riguarda l'ampiezza della maggioranza parlamentare richiesta (i due terzi dei componenti delle due assemblee legislative) perché sia approvata in via definitiva una proposta di revisione costituzionale. Tale disposizione non può es-
sere interpretata semplicemente come un auspicio di largo consenso, che coinvolga anche gruppi parlamentari estranei alla maggioranza di governo, nel supremo interesse dell'ordinamento. Essa, in realtà, si fonda sulla constatazione empirica e sulla previsione che in una democrazia effettiva, dove le differenze e i conflitti politici e di valore rappresentano quasi per definizione la situazione normale, maggioranze così ampie possono raggiungersi soltanto su singole questioni e non su complessive grandi rfiirme (sulle quali le contrapposizioni sono altrettanto normali). E, in effetti, tutte le revisioni al testo Costituzionale approvate fino ad ora confermano una tale valutazione: si è trattato di modifiche anche importanti, ma sempre puntuali, che non hanno intaccato il discorso fondativo complessivo. Un altro elemento di riflessione è la previsione del referendum di approvazione, quale fase eventuale del procedimento. Nessun dubbio che questo ulteriore aggravamento costituisca una garanzia in favore di quelle minoranze politiche, sociali o territoriali-istituzionali (le regioni) che non si riconoscano nelle decisioni parlamentari adottate a maggioranza assoluta dei componenti ma inferiore ai due terzi, e che intendano scommettere contro la rappresentatività delle decisioni stesse. Perciò si è esattamente configurato il ricorso al refe•rendum sospensivo quale rimedio, garanzia, oppure lo 13
si è inquadrato nelle forme di resistenza legale, che cede soltanto di fronte a un diretto, chiaro e univoco pronunciamento popolare, esercizio definitivo di sovranità. Perché il referendum costituzionale possa assolvere effettivamente al ruolo di garanzia assegnatogli in favore delle minoranze attive e delle potenziali maggioranze popolari, è indispensabile che siano determinate con precisiòne le condizioni di legittimità formale del referendum stesso, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo. Anche in questo caso la dottrina è pervenuta a conclusioni convincenti. Relativamente al primo aspetto si è, ad esempio, recentemente avvertito che di un istituto messo a disposizione esclusiva di soggetti di minoranza non potrebbe appropriarsi la maggioranza parlamentare per trasformarlo in strumento plebiscitario, per anticipare l'iniziativa eventuale delle minoranze o per dare alla consultazione popolare un valore soprattutto politico di adesione o di fedeltà alla maggioranza. Contro questa possibile eversione legale del referendum costituzionale si confida sul potere di arresto del Presidente della Repubblica o, in ultima analisi, sull'intervento della Corte costituzionale adita in sede di conflitto di attribuzione dei poteri da partedi uno dei soggetti, titolari esclusivi del potere di richiesta. Quanto al secondo aspetto, quello oggettivo, si è sostenuto che l'oggetto 14
del referendum costituzionale deve essere univoco, puntuale, non eterogeneo, tale éioè da non comprendere una pluralità di questioni sulle quali le propensioni di voto potrebbero essere distinte e diverse. Un referendum costituzionale bloccato costringerebbe infatti gli elettori a decidere secondo un criterio di prevalenza. A conforto di questa tesi ci si è richiamati anche alla giurisprudenza della Corte costituzionale sul referendum abrogativo, laddove essa ha individuato i requisiti indefettibili del quesito perché possa consentire al corpo elettorale di esprimere un voto genuino, libero, immediato, non contaminato appunto dalla molteplicità-disomogeneità delle questioni formalmente contenute in un'unica domanda. Ancora una volta per il rispetto di queste condizioni ci si affida alla capacità e alla volontà di intervento delle massime istituzioni di garanzia costituzionale. Ciò che comunque emerge anche da queste argomentaziòni è che la Costituzione non ammette un procedimento per la sua riforma, ma soltanto per puntuali revisioni.
LA LEGGE COST. N. i DEL 1993
L'impostazione sopra accolta è stata peraltro clamorosamente contraddetta dalla non più efficace legge costituzionale n. i del 1993 approvata nella precedente legislatura. Come è noto, tale legge si proponeva di disciplinare
Alla base di questo disegno vi era la il procedimento di revisione costituconvinzione che tuttora permane, ed è zionale in deroga al percorso stabilito forse prevalente, che il Parlamento dail'an. 138. Lo scopo era quello di possa assolvere funzioni costituenti e favorire l'approvazione di «un progetnon soltanto di revisione costituzionato organico di revisione costituzionale le nei termini sopra precisati. Idea asrelativo alla parte Il della Costituziosolutamente rischiosa (e inconciliabile ne, ad esclusione della sezione 11 del con la storia della Costituzione) che titolo IV» (art 1, comma 1). Le derosoltanto dopo la riforma dei sistemi ghe all'art. 138 consistevano nella non elettorali in senso maggioritario ha inconclusività del procedimento in caso dotto a qualche pur tardivo ripensadi approvazione del progetto (elaboramento. to dalla Commissione parlamentare Il potere di rfbrma organica della Coper le riforme istituzionali) a maggiostituzione attribuito al Parlamento ranza dei due terzi dei componenti dalla legge era - come si è già accendelle Camere e nella conseguente prenato - estremamente vasto: oltre mivisione di un referendum costituziosura, si potrebbe dire. Basti rilevare nale obbligatorio. che i settori della Costituzione suscetTale legge, alla luce di quanto sopra tibili di riforma comprendevano non esposto, si può senza incertezze qualificare come legge propedeutica di rottu- soltanto gli istituti dell'organizzazione politica dello stato (forma di governo, ra costituzionale, anche se a sua contefonti, pubblica amministrazione, ordistazione non fu avviata nessuna resinamento delle autonomie territoriali), stenza legale. ma anche il sistema delle garanzie: La legge era infatti diretta non tanto l'ordinamento giurisdizionale - escluall'introduzione di specifiche revisioni se soltanto le norme sulla giurisdizioal testo costituzionale, ma ad una sua ne -, la Corte costituzionale e, ovviaampia rifirma, come tale inammissimente, le prescrizioni già forzate sulla bile per le ragioni che si sono andate revisione costituzionale. Insomma si illustrando. Inoltre essa tendeva a traprefigurava una vera e propria attività sformare in senso plebiscitario il refecostituente. rendum: avrebbe costretto gli elettori D'altro canto, la sottrazione a una a manifestare un'opzione complessiva eventuale opera di «rinnovamento» vincolata, assumendosi apoditticacome fu da taluno impropriamente mente - sia pur per decisione costitudefinita.— dei settori della Carta conzionale - che il progetto sottoposto a voto popolare sarebbe stato per sua cernenti più direttamente le posizioni della persona, del cittadino, delle fornatura dotato di intrinseca coerenza mazioni sociali (rapporti civili, etico(ex lege etauctoritate). 15
sociali e politici) lasciava trasparire la regressiva convinzione, che oggi sembra essere piuttosto diffusa, che non sussista necessariamente un legame tra sistema dei diritti e sistema delle garanzie (costituzionali); che per connotare una forma di stato come liberaIdemocratica sia sufficiente mantenere inalterato il catalogo delle libertà; che, infine, il pluralismo, in quanto principio e in quanto prassi, possa adattarsi a qualsiasi mutamento della forma di governo. Indubbiamente ad alimentare questa «cultura» asistematica e astorica, che forse potrà trovare ulteriore sviluppo nella denuncia del principio di «rigidità» della Costituzione, c'è anche un vizio di origine, se si vuole una scommessa persa dei «padri fondatori». Infatti anche nelle loro discussioni e conseguenti decisioni il tema dei rapporto tra forma di governo e sistema politico fu affrontato, per così dire, più con sufficienza che con consapevole apertura. È noto, in particolare, come l'Assemblea costituente abbia optato esplicitamente contro l'opportunità di irrigidire i sistemi elettorali (proporzionali). Quasi unanimemente si riconobbe che la materia dovesse essere lasciata alla discrezionalità del legislatore in rapporto al mutare delle situazioni. Atteggiamento apprezzabile, quasi saggio. Senonché dopo una simile presa di posizione (che in verità per alcuni era solo argomento strumentale 16
per acquietare l'insoddisfazione delle pur nettamente minoritarie correnti fautrici di sistemi elettorali uninominali-maggioritari), tutto l'impianto della Costituzione, non solo quello attinente la forma di governo, fu elaborato in adesione al principio proporzionalistico, valutato come terreno di coltura del pluralismo. Vi sono anche delle «spie» esplicite di questa propensione, quali il richiamo al criterio propo.rzionale per la formazione delle commissioni parlamentari. E se si guarda con un po' di attenzione alle stesse istituzioni di garanzia, pur nell'affermazione incontrovertibile della loro indipendenza ed autonomia, si può cogliere la loro non estraneità a una struttura politica e sociale fondata sul principio proporzionalistico. Questa contraddizione si può spiegare molto semplicemente in termini storici: la classe politica costituente era assolutamente sicura che il legislatore sarebbe rimasto anche per il futuro fedele a sistemi elettorali proporzionalistici.
LA VIA DELLA ROTTURA CONSENSUALE
Solo se si tiene presente anche questa <(memoria)> S1 possono comprendere appieno le difficoltà e i rischi che si frappongono a revisioni della forma di governo erroneamente valutate neutre rispetto al complessivo discorso fondativo e all'equilibrio tra poteri politici e garanzie.
Equilibrio che - come si è illustrato all'inizio dello scritto - è divenuto assolutamente precario con il cambiamento del sistema politico che ha imposto il principio di maggioranza come misura sufficiente, tendenzialmente per qualsiasi decisione. In un tale contesto si affievolisce, in particolare, la forza della distinzione tra decisioni di interesse politico (di governo) e decisioni di interesse istituzionale. Si ripresenta in termini concreti la questione dei limiti della sovranità, del rapporto tra sovranità e legittimità. È un segnale che ci si sta avviando verso una situazione o situazioni di rottura costituzionale. Si pone cioè tout court il problema della Costituzione dinnanzi al «nuòvo che avanza», anche se fino ad ora, con un po' di ipocrisia e con un p0' di pudore, si maschera il problema stesso nella contrapposizione giornalistica tra Prima Repubblica (il sistema politico superato) e Seconda Repubblica (il sistema politico informazione). Ma il conflitto, in realtà, si può riassumere in un dilemma che non può trovare composizione secondo diritto (vigente). Primo corno: una Costituzione deve essere «eterna», immutabile nel suo discorso fondativo, irriducibile anche alla volontà eversiva di una maggioranza popolare? Secondo corno: una Costituzione può rinunciare al valore-dogma della sua inviolabilità, alla sua vocazione e ca-
pacità di imporsi sugli atti e fatti antinomici? Quando si pone praticamente e storicamente (non come problema teorico) un tale conflitto tra le ragioni della sovranità e le ragioni della legittimità, significa che è tempo di rottura, in quanto - si insiste - l'ordinamento vigente non può trovare una soluzione di conciliazione nelle risorse giuridiche di cui dispone. Le rotture, parziali, magari solo annunciate, sostenute da blocchi sociali ed elettorali consistenti alla fine producono fenomeni di desistenza, o di tolleranza da parte degli stessi soggetti titolari di poteri di garanzia; soprattutto quando si trovano a prendere atto che nella società si sta dissolvendo quel (comune) patrimonio del costituzionalismo, invocato ottimisticamente da alcuni studiosi. Se le cose stanno così, ci si può e ci si deve chiedere se in luogo di rotture striscianti e progressive e di prospettive riformiste che è assai difficile concordare in un sistema politico maggioritario (e che rappresentano esse stesse una rottura del discorso costituzionale fondativo, come si è cercato di dimostrare), non sia pii utile la ricerca di un'altra via, metodologicamente e finalisticamente, più garantita e coerente con lo stesso principio di sovranità. Che è la regola assorbente, riconosciuta e praticata nella presente stagione. La via non può essere che quella della rottura consensuale deliberata in forme 17
legali (non legittime) che individui un nuovo percorso costituente e che trovi comunque il suo fondamento se non nel testo costituzionale almeno nella storia delLa Costituzione. Si tratterebbe allora di approvare una legge costituzionale (cioè attenendosi alle procedure legali dell'art. 138) per la convocazione di un'Assemblea costituente da eleggersi a suffragio universale, secondo un metodo rigorosamente proporzionale per garantirne la massima rappresentatività. Il compito di tale Assemblea dovrebbe essere esclusivamente quello di approvare entro un tempo inderogabile la nuova Costituzione dello Stato italiano. Tale legge potrebbe anche prevedere il ricorso a un referendum approvativo sul progetto (uno solo) elaborato dall'Assemblea costituente. In tale ipotesi, ove il progetto venisse respinto, o nell'ipotesi in cui l'Assemblea non riuscisse a rispettare i termini assegnatatogli, risulterebbe confermata la Costituzione vigente Il confronto libero, aperto ed evidente tra diverse concezioni di civiltà giuri-
18
dica e di organizzazione politica dello stato non dovrebbe «spaventare» in una fase storica in cui da ogni parte si proclama l'azzeramento delle vecchie ideologie e in un contesto internazionale profondamente mutato rispetto a quello degli anni della prima Costituente. Esistono insomma buoni presupposti perché i cittadini sovrani, sciolti per l'occasione dai lacci della regola di maggioranza, riescano a riscoprire o a rifondare una cultura e un sistema di regole, di autonomie, di garanzie e, alla fine, di effettive libertà. L'eventuale successione di costituzioni non cancella la storia di un popolo, la continua. Una nuova costituzione esito di una rottura consensuale legale, alle condizioni appena esposte, parrebbe certamente un evento: una manifestazione di maggiore responsabilità di fronte al probabile materializzarsi di un regime che si costituisca giorno per giorno, tra sondaggi e plebisciti, sulla progressiva perdita di effettività e di valore della «vigente» Costituzione.
Dove va il Sudafrica? di Giuseppe Moles
L'estremità meridionale del continente africano è occupata dalla Repubblica Sudafricana (RsA), paese che si estende su un'area ampia quanto Italia, Germania, Benelux e Francia messe insieme 1, ed è patria di oltre trenta milioni di persone appartenenti a molti ceppi razziali e linguistici 2 Il Sudafrica è dunque un paese quantornai vario, come attestano non solo il suo interessante mosaico razziale, religioso, linguistico e culturale in genere, ma anche le sue caratteristiche fisiche così diversificate, come le formazioni geologiche, i .climi regionali, montagne e pianure, coste e territori agricoli dell'interno, savane e deserti, tutti con una propria particolare fauna e flora 3; nel paese convivono aspetti che apartengono sia al moxdo sviluppato che a quello in Via di sviluppo: da un lato vi sono ricche risorse naturali e tecnologie avanzate per le complesse strutture industriali, dall'altro i servizi ed i posti di lavoro non riescono ancora a tenere il passo con una popolazione in costante rapida crescita . È necessario far presente che, se caratteristica di questa area è il suo complesso mosaico razziale, una semplice
distinzione tra neri, bianchi, indiani e meticci non può dare un'idea completa dell'intreccio di gruppi culturali che hanno popolato l'Africa australe fin dai tempi preistorici; prendendo in considerazione le componenti storicolinguistiche degli abitanti dell'area, possiamo individuare i gruppi più importanti: - i San (o "Boscimani") sono i superstiti di una popolazione aborigena di raccoglitori-cacciatori nomadi che vivevano sull'intera area situata a sud del fiume .Zambesi; ora sono situati, in gruppi sparsi di cacciatori, >nelle zone occidentali del paese; i Khoikhoi presentano molte somiglianze con i San, tanto che i due gruppi sono a volte descritti insieme come Khoisan; sono stati quasi totalmente assimilati dalla popolazione meticcia; - i Neri non sono un singolo gruppo omogeneo ma comprendono almeno nove distinti gruppi etnici: Zulu (5,3 milioni), Xhosa (2 milioni), Nord Sotho (2,3 milioni), Sud Sotho (1,6 milioni), Tswana (1,1 milioni), Shangaan-Tsonga (imilione), Swazi (841 mila), Ndebele meridionali (380 mi-
19
la), Ndebele settentrionali (267 mila), Venda (125 mila), altri (74 mila). Questi popoli sono discendenti dei quattro grandi gruppi (Venda, Nguni, Tsonga, Sotho-Tswana) che emigrarono dall'Africa centrale per stabilirsi in vaste aree dell'Africa meridionale 5 ; - i Bianchi traggono origine dal primo insediamento olandese del 1652 (Capo di Buona Speranza); oggi circa il 60% dei bianchi sono afrikaner 6 mentre la gran parte del restante 40% è composto da sudafricani anglofoni d'origine britannica; a queste componenti vanno aggiunte anche comunità di immigrati europei (tedeschi, italiani, portoghesi, francesi, olandesi,greci, etc.); - i Meticci sono il prodotto della combinazione tra le indigene tribù ottentotte del Capo, i primi coloni bianchi, gli schiavi introdotti dall'oriente ed i neri; tra i meticci si possono distinguere due differenti sottogruppi: i griqua ed i malesi del Capo; - gli Asiatici sono costituiti, per circa il 99%, da individui di origine indiana, mentre poco più di 12 mila persone sono di origine cinese, e furono portati nel paese dagli inglesi nel 1860 per essere utilizzati come braccianti nelle piantagioni di zucchero; come le altre popolazioni del Sudafrica, anche gli asiatici sono estremamente divisi sotto il profilo linguistico ed etnico 7.
20
LA STORIA RECENTE
Dopo la fine della guerra anglo-boera (1899-1902) i! Sudafrica britannico comprendeva quattro colonie e tre protettorati 8 ; il 31 maggio del 1910 le quattro colonie si unirono per formare 1' Unione del Sudafrica 9, ed alle prime elezioni generali - 15 settembre dello stesso anno - furono vinte con estrema facilità dal "South African National Party" (SAP) del gen. Jan Christiaan Smuts e del gen. Louis Botha. Dal 1914 al 1924 frequenti furono le proteste organizzate contro il crescente numero di neri impiegati nei lavori qualificati, e a queste si aggiunse anche una rivolta armata da parte di molti ex capi militari boeri (1915); il tutto portò alla vittoria, alle elezioni del 1924, dell'alleanza tra il "Labour Party" (che capeggiava la protesta contro lo sviluppo sociale dei neri) ed il "National Party" (Np), fondato dal gen. J.P.M. Hrtzog nel 1914. Il governo di Hertzog realizzò profondi mutamenti in campo economico e costituzionale: l'afrikaans divenne nel 1925 - una delle lingue ufficiali (sostituendo l'olandese), nel 1926 il governo britannico ridefinì lo status dei dominions come «stati autonomi (dichiarazione di Balfour), e nel 1928 venne disegnata la nuova bandiera sudafricana (che avrebbe affiancato quella britannica). Se nel 1934 il SAP di Smuts ed il National Party di Hertzog diedero vita
ad un unico partito, l'United Party, con alla guida lo stesso Hertzog, fu peraltro la decisione di entrare in guerra contro la Germania che portò ad una nuova divisione tra la comunità anglofona e quella afrikaner; ma la stessa guerra segnò anche l'inizio della rivoluzione industriale sudafricana: molte nuove fabbriche iniziarono la produzione di armamenti e beni di consumo che non potevano essere più importati. Nel secondo dopoguerra le elezioni del 1948 furono vinte dall'Np e dall'Afrikaner Party, un gruppo di seguaci del gen. Hertzog (morto nel 1942): la principale piattaforma programmatica, alla base di questa coalizione elettorale, fu l'apartheid che allora significava poco più che "segregazione ; fu invece il nuovo governo a dare veste legale ad essa legittimando la separazione razziale che di fatto era sempre stata parte della storia del paese. Gli anni Cinquanta furono dunque caratterizzati da numerose campagne di protesta, organizzate dai movimenti neri, meticci ed indiani, contro leggi di discriminazione razziale approvate dal parlamento; negli anni Sessanta furono il Pan Africanist Congress (PAc) e. l'African National Congress (ANc) gli artefici di proteste di massa che sovente sfociarono in violenze e spargimenti di sangue. A poco a poco, peraltro, e dopo che il Sudafrica era divenuto una repubblica esterna al
Commonwealt britannico (31 maggio 1961), venne realizzato un ampliamento ed un allargamento della base democratica del paese: si arrivò, infatti, ad una nuova Costituzione - introdotta nel 1984 - che consentiva l'ingresso in parlamento di rappresentanti delle minoranze meticcia ed asiatica. Il vero artefice del successo del processo riformistico in senso democratico è stato, però, l'ultimo Presidente bianco della Repubblica del Sudafrica: Frederik Willelm De Klerk, succeduto al dimissionario Pieter WilIem Botha il 20 settembre 1989, De Klerk, in un suo discorso programmatico del 2 febbraio 1990, spianò la strada alla nuova Costituzione approvata tre anni più tardi (1993) e quindi all'abolizione delle ultime vestigia giuridiche dell'apartheid. I punti essenziali, di rilevanza costituzionale, espressi nel corso di questo discorso furono: - nuova legislazione per consentire lo sviluppo di pari diritti e pari opportunità per tutti i cittadini; - negoziato globale, per la pacificazione del paese, con la partecipazione dei leader di ogni componente etnica dell'intera popolazione sudafricana; - riconoscimento e protezione dei diritti fondamentali ed inalienabili per tutti i cittadini, senzaalcuna discriminazione, diritti riconosciuti come base fondamentale di ogni democrazia; —le attività dell'African National Congress e. del Pan Africanist. Congress
21
non sarebbero state più considerate fuorilegge, i prigionieri politici sarebbero stati rilasciati, sarebbero stati rimossi lo stato di emergenza e le restrizioni che colpivano ben 33 organizzazioni nere extra-par!amentari; - il leader dell'ANC, Nelson Mandela, sarebbe stato immediatamente liberato, dopo quasi trent'anni di prigione, anche per consentirgli di rivestire un ruolo fondamentale nei negoziati di pacificazione nazionale del paese. Iniziava così una nuova fase storica e politica destinata a concludersi con la promulgazione di una nuova carta costituzionale negoziata tra ie maggiori forze politiche, nel quadro di un diverso Sudafrica più democratico e finalmente multirazziale. Tra i protagonisti della mutata scena politica sudafricana emersero in particolare il National Party (Np) dello stesso De Klerk 10, l'African National Congress (ANc) di Mandela e l'Inkatha Freedom Party (IFP) del leader zulu Mangosuthu Buthelezi; fin dai primi incontri bilaterali governo/ANc vennero conclusi accordi che garantirono l'avvio dei negoziati 11• Il processo negoziale continuò comunque ad essere estremamente complesso, ed uno dei maggiori ostacoli fu la continua faida tra i sostenitori dell'etnia di Mandela (xhosa) e quelli dell'Inkatha (zulu) che, soprattutto nel Natal, ha fatto registrare migliaia di morti - alimentata non solo dall'ancestrale rivalità tribale ma anche da fattori prettamente poli22
tici (il disegno egemonico dell'ANC sugli altri gruppi neri, il differente approccio ideologico e strategico dei due schieramenti, etc.). Il "National Peace Accord" (1991) ha costituito un grande passo in avanti per la pacificazione poiché fu firmato da 31 tra rappresentanti di governo, di organizzazioni religiose, politiche, economiche e di partiti politici; questo documento conteneva una sorta di "codice di condotta" per prevenire e contenere la violenza e di fatto diede un forte impulso ai negoziati tanto da porre con certezza le premesse per la conferenza multipartitica che venne convocata sotto il nome di CODESA I (Conference for a Democratic South Africa) a Johannesburg il 20 dicembre 1991; a CODESA i seguì CODESA zi che terminò il 15 maggio 1992 con un semi-fallimento a causa del sostanziale disaccordo tra gli attori del negoziato su temi fondamentali, e solo nel 1993 ripresero le trattative che portarono ad un accordo sul nuovo nome della Convenzione: "Processo di negoziato multzpartitico" (Mpnp). Grazie ad una serie continua di interminabili sessioni di colloqui, e con l'assistenza di numerosi comitati esterni, cominciarono a delinearsi i primi fondamentali dettagli sulla nuova Costituzione, sulle procedure e sulle strutture legislative; nella dichiarazione di intenti finale le diverse parti 12 sottoscrissero l'impegno a creare un nuovo Sudafrica unitario, libero dal-
l'apartheid é da altre forme di discriminazione o dominazione, fondato sulla giustizia e sull'equità, senza distinzione di razza, religione o sesso, ed in cui sarebbe stata realizzata la protezione con legge dei diritti e della dignità di ogni cittadino. Il Parlamento di Città del Capo, convocato in seduta straordinaria alla fine del 1993, adottò formalmente la Costituzione della Repubblica del Sudafri Ca; lo stesso Parlamento fu riconvocato, tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo del 1994, per l'esame e l'adozione di alcuni emendamenti alla Costituzione che garantissero il rientro di quei gruppi conservatori che avevano in passato abbandonato i negoziati.
L'AUTOCRAZIA RAZZIALE
Il sistema di egemonia razziale in Sudafrica è stato fortemente legato alle vicende della storia coloniale di questo paese. Il Sudafrica ha costituito un caso del tutto singolare nella storia del colonialismo.europeo in Africa, e ciò a causa sia dell'inserimento del dominio britannico, nel 1806, in un'area che aveva già conosciuto l'insediamento di una forte comunità europea - i boeri - (all'origine dell'attuale maggioranza etnico-linguistica nell'ambito del gruppo bianco, gli afrikaner), sia dell'adozione della lingua olandese, che poi si è evoluta in quella particolare lingua, l'afrikaans, che, assimilando contributi lessicali africani, inglesi,
malesi, e d'altro tipo si è distinta notevolmente dall'originario idioma. La repressione delle spinte verso l'indipendenza della componente boera (attraverso l'assimilazione delle repubbliche autonome boere create dopo le guerre vinte dai boeri contro i bantu) e l'annessione di Orange e Transvaal (in seguito alla guerra anglo-boera del 1898 - 1902) realizzarono il completo controllo inglese sull'intero territorio dell'attuale Sudafrica; peraltro fu proprio il sottomesso gruppo biancoafrikaner a divenire il primo referente della strategia di governo coloniale inglese, ed è nel consolidarsi di questa relazione che sono per molti aspetti da ricercare le radici del sistema di potere basato sulla istituzionalizzazione di una gerarchia razziale. Ma se l'autocrazia razziale può considerarsi anche il frutto del colonialismo, è lo stesso Sudafrica che non può considerarsi figlio dello stesso colonialismo: i boeri, i meticci, gli indiani sono tutti immigrati in questa estremità del continente africano, ma si considerano tutti indigeni; tutti vollero occupare gli stessi territori, ed oggi tutti rivendicano non senza ragione un pari trattamento nella partecipazione alla vita del paese. La parola apartheid è un neologismo di origine relativamente recente; apparso per la prima volta nel 1929, il suo significato fu sviluppato tra il 1944 ed il 1948 dai teorici dei partiti 23
nazionalisti fino a divenire di uso comune e generale, tanto da dar vita ad un lungo processo normativo che portò alla creazione di un sistema omnicomprensivo e totalizzante. Nella sua architettura teorica, l'apartheid fu elevata a sistema nazionale al fine di commisurare diritti e doveri all'appartenenza razziale, nell'ambito di uno sviluppo parallelo - ma ben 'distinto e separato. - circa la fruizione dei servizi e la ripartizione del territorio. Lapartheid derivava, dalla constatazione dell'eterogeneità sociale sudafricana, ed il carattere difficilmente definibile di tale società portava a rifiutare la logica dell'integrazione che sarebbe risultata fatale alla minoranza bianca: non restava che la quasi scontata alteri nativa della "separazione", o "sviluppo separato", da realizzarsi attraverso la combinazione di distinzioni di' carattere sociale e razziale con una ripartizione geografico-territoriale; in base a tale distinzione socio-razziale a base territoriale, l'apartheid costituirà un particolare sistema politico tendente a organizzare i rapporti tra le differenti componenti etniche soprattutto nell'interesse della comunità bianca. Se per molti l'apartheid consisteva in uno strumento per mantenere e sostenere il dominio bianco,. per i Bianchi sudafricani questo sistema aveva soprattutto il significato di autodifesa, era considerato il mezzo più efficace per assicurare la propria sopravvivenza in quanto gruppo minoritario.
24
La netta separazione tra neri e bianchi venne legittimata ed istituzionalizzata attraverso l'approvazione di tutta una serie dileggi - divieto di matrimoni misti, di rapporti sessuali tra razze diverse, classificazione di tutte le popolazioni in quattro gruppi razziali, determinazione dello spazio territoriale in cui ciascun gruppo etnico avrebbe dovuto vivere in base all'appartenenza razziale, etc. - che culminò con la divisione de! Sudafrica in due zone: una zona manca e aieci territori nazionali", o Homelands , uno per ognuna delle etnie nere (primo risultato di una partizione nazionale che si sarebbe poi sviluppata con la politica dei bantustan—stati, etnici); questo complesso di misure si allargò poi di anno in anno a tutti i settori della vita sociale (libretto di lavoro obbligatorio per i Neri, regolamentazione dell'apartheid nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto, etc.). Se l'apartheid in Sudafrica fu certamente una grande ingiustizia, essa è stata soprattutto un grande errore, un errore perché fissò con leggi ferree e sovente ridicole, per la loro puntigliosità e precisione (più di 15.000 tra decreti e ordinanze), una separazione che quasi sicuramente sarebbe stata fissata naturalmente dalla disparità di cultura,' di censo, di ricchezza; venne introdotta, con cieca ottusità, da una società bianca abituata da sempre all'isolamento, e proprio nel momento in cui il continente africano si ren-
deva indipendente grazie al processo di decolonizzazione. J2apartheid sudafricana ha avuto subito grande risalto non perché fosse differente o più cruenta o più ingiusta rispetto ad altre forme di discriminazione (i "paria" in India, ad esempio) ma proprio perché: - nasceva a cavallo della decolonizzazione, e quindi si presentò come forse l'unico esempio di contro-tendenza rispetto al nuovo indirizzo del mondo civile), - sopraggiungeva dopo la seconda guerra mondiale, cioè dopo la vittoria di quei grandi ideali di libertà, eguaglianza, democrazia, per i quali anche gli stessi sudafricani avevano combattuto - anche con considerevoli perdite in vite umane - contro il razzismo, le persecuzioni, le discriminazioni e le violenze perpetrati dal nazismo. Quindi parve immediatamente assurdo e paradossale, al mondo intero, che il Sudafrica assumesse un atteggiamento di discriminazione così energico tanto da porloaddirittura come sistema istituzionalizzato proposto come "modello di vita statuale". Questo grave errore ha costretto il Sudafrica a pagare un prezzo molto alto: se anche motivazioni economiche portarono ad un sistema di organizzazione coattiva della forza lavoro (in una logica di accumulazione di tipo capitalistico) per garantire uno stretto controllo sulla destinazione della manodopera ed un mantenimento di li-
velli salariali estremamente bassi, nel medio e nel lungo periodo l'apartheid ha invece rallentato l'evoluzione economica poichè ha ridotto la piattaforma dei consumatori e lo stesso livello qualitativo della manodopera; questo sistema, infatti, è parso "funzionare" fino a quando è durato il boom di una economia sudafricana spinta e sostenuta dall'oro e dai diamanti, invece ha accentuato il solco tra un mondo all'europea ed un terzo mondo arretrato ed emarginato, ma certamente essenziale per la vita ed il progresso economico e produttivo del paese 13 Così, come accade ogni qual volta un sistema non appare più adeguato alle esigenze della collettività, è iniziato il cambiamento che è divenuto un processo inarrestabile, e l'apartheid ha iniziato a disgregarsi sotto i colpi di una disobbedienza silenziosa, dello sviluppo di una economia sommersa, dell'aumento della partecipazione dei neri alla vita economica, dell'ingresso dei neri nelle università, nell'attività sindacale e nella cultura. Il mutamento nella vita reale è stato più rapido rispetto all'adeguamento legislativo che non riusciva a seguire l'evoluzione della società; occorreva un salto politico, e questo salto è stato compiuto grazie alla lungimiranza di De Klerk: egli intul, infatti, che l'unico modo per dare un futuro al paese ed una prospettiva agli afrikaans era quello di abbandonare il sistema del25
l'apartheid che proprio il suo Partito Nazionale aveva creato. Non possiamo sottovalutare infine, fra le cause determinanti la svolta riformistica all'interno del gruppo dirigente bianco, le forti ripercussioni sul piano interno ed internazionale delle pressioni di livello mondiale esercitate sui governo sudafricano per l'eliminazione del sistema razzista; la mobilitazione dell'opinione pubblica internazionale ha consentito alla comunità internazionale di intervenire indirettamente negli affari interni sudafricani attraverso una intensa e continua campagna anti-apartheid e l'adozione di sanzioni economiche, politiche e culturali. 14
LA NUOVA COSTITUZIONE DEL 1993
La Repubblica del Sudafrica sarà uno Stato costituzionale, di cui la "Costituzione per il Periodo di Transizione" rappresenterà la legge fondamentale; la bozza iniziale è stata approvata il 17-18 novembre 1993 dall'assemblea plenaria dei forum negoziale multipartitico al World Trade Center di Kempton Park (e poi sottoposta all'esame ed all'approvazione de! Parlamento tricamerale in seduta comune 15). La Costituzione del 1993 è, dunque, la legge fondamentale che ha regolato in dettaglio la transizione dalla vecchia all'attuale forma di Stato, dall'apartheid alla democrazia, da un 26
sistema elettorale maggioritario ad uno proporzionale; essa ha previsto, tra le altre, l'istituzione di un Governo di Unità Nazionale (GNU), tre livelli di governo democratico, un capitolo sui diritti fondamentali, una serie di principi costituzionali - vincolanti ed insindacabili - che dovranno essere recepiti nel testo finale della costituzione, l'abrogazione della legge che riconosce l'indipendenza degli Stati neri di Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei, come anche del Self-Governing Territories Act, la suddivisione, a fini elettorali, del territorio del paese in 9 provincie. La nuova Costituzione sudafricana è un sofisticato documento che, grazie allungo e complesso negoziato multipartitico, comprende e sintetizza tutte le moderne nozioni del costituzionalismo occidentale; contrariamente ad altre Costituzioni, quella del Sudafrica descrive in dettaglio il futuro funzionamento dello Stato (che abbandonerà una volta per tutte la propria struttura prettamente coloniale per darsi un regime autoctono ); il risultato dei negoziati è una complessa intelaiatura che risponde sia alla necessità ed all'urgenza di abbattere e sostituire le strutture costituzionali ormai superate, sia alla volontà di mantenere in vita le sia pur minime istituzioni legittime ancora esistenti. Questa Carta costituzionale costituisce un ponte tra il previgente regime ed un nuovo sistema di governo ne!
quale dovranno trovare piena attuazione i principi della democrazia e dell'eguaglianza. La chiave di volta di tale processo di transizione è costituita dalla codificazione di un catalogo di diritti fondamentali dell'individuo, accompagnata da misure di garanzia, e a ciò la Costituzione transitoria dedica l'intero Capitolo III, mirabile anche per la sua "modernità"; si tratta di un elemento, questo, rivoluzionario, che differenzia radicalmente la Costituzione del 1993 da quelle che l'hanno preceduta: le Costituzioni precedenti (1909-1961-1983) avevano come oggetto esclusivamente l'organizzazione costituzionale dello Stato, si limitavano, cioè, ad istituire gli organi di governo, a disciplinare le loro competenze ed i loro rapporti (mancava totalmente, invece, una benchè minima parte relativa alla disciplina dei diritti e delle libertà individuali). Nonostante il carattere transitorio, la Costituzione del '93 pare assicurare, per ciò che concerne i diritti umani fondamentali, un livello soddisfacente di tutela; in particolare, si è provveduto a sottolineare il carattere articolato della formulazione dei diritti; qualche perplessità può forse sollevare la limitata attenzione ai diritti sociali (e soprattutto l'omessa menzione del "diritto al lavoro", all'abitazione ed alla tutela sanitaria). Questo testo costituzionale si segnala, inoltre, per un avanzato sistema di garanzia dell'attuazione dei diritti stessi basato su di-
:
versi strumenti: ricorso giurisdizionale (con legittimazione riconosciuta alle associazioni), Commissione per i diritti dell'uomo, controllo di costituzionalità delle leggi. Pur se definita "ad interim" o "di transizione", la nuova Costituzione è, da un punto di vista di diritto costituzionale, per così dire perfetta e non certo di transizione (quindi è ipotizzabile in futuro un suo affinamento e completamento, ma non certo un suo rivoluzionamento); se pure tale testo dovrà essere sostituito da una ulteriore carta costituzionale adottata dal nuòvo Parlamento insediatosi dopo le elezioni del 27 e 28 aprile del 1994, la Costituzione del '93 contiene già i geni di quella che verrà e che non potrà non rispettare i 33 principi costituzionali elencati del testo frutto del forum negoziale multipartitico. In altri termini si è inteso 'prefìssare una serie di principi fondamentali (a cui è strettamente legata la cognizione stessa di Stato democratico di diritto), con particolare considerazione per la tutela dei diritti dell'uomo. Le caratteristiche salienti della Costituzione prevedono innanzitutto la formazione di un governo nazionale nell'ambito del quale i ministeri vengono attribuiti proporzionalmente alle formazioni politiche che hanno conseguito pit del 5% dei voti; a ciò bisogna aggiungere la previsione e la distribuzione delle funzioni di controllo 27
tra diverse commissioni ed istituzioni, oltre a provvedimenti innovativi riguardanti e regolanti le materie finanziarie e fiscali; inoltre è posto in essere un nuovo organo incaricato di vigilare sulla corretta applicazione della Costituzione e sui diritti ed interessi dei cittadini che ricoprono cariche pubbliche. Per la prima volta, inoltre, viene istituita la Corte costituzionale, la figura del "Protettore Pubblico", la Commissione per il servizio pubblico, quella per le finanze ed il fisco, quella per il governo delle provincie e quella per i diritti dell'uomo; la profondità dei mutamenti, infine, risulta massimamente evidente se si analizzano i "provvedimenti generali e transitori" concernenti la sopravvivenza delle leggi in vigore e degli accordi internazionali, gli adattamenti transitori per i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, le finanze, la pubblica amministrazione, le strutture educative, il governo locale e gli assetti e gli obblighi dello Stato. Il Parlamento è formato da un'Assemblea Nazionale (400 rappresentanti) e da un Senato (90 senatori); dell'Assemblea Nazionale fanno parte 200 eletti dalle liste nazionali e 200 da quelle regionali (con sistema proporzionale), il Senato è composto da 10 rappresentanti per ognuna delle 9 circoscrizioni. Le leggi ordinarie necessitano l'approvazione di entrambe le camere a maggioranza semplice (in caso 28
di bocciatura da parte di uno dei due organi, invece, la proposta di legge dovrà essere approvata a maggioranza assoluta); solo l'Assemblea Nazionale può presentare proposte di legge finanziaria. Infine le proposte di legge di modifica dei confini delle province, i poteri e le funzioni delle autorità provinciali, devono essere approvate dalle due camere Il Capo dello Stato è un Presidente esecutivo (le cui funzioni sono: assenso alle leggi, conferimento di onoreficenze, comando delle Forze Armate) eletto dall'Assemblea Nazionale nella sua prima seduta; vengono poi nominati due Vice-Presidenti appartenenti a formazioni politiche che abbiano conquistato 80 o più seggi in Assemblea (se nessun partito, o solo uno, ottiene 80 o più seggi, ognuno dei due partiti che ottengono il maggior numero di seggi avrà diritto a nominare un VicePresidente 17 Il Gabinetto (le cui funzioni sono: nomina delle più alte cariche dello Stato, indizione dei referendum, gradimento degli ambasciatori stranieri, etc.) è composto da una rappresentanza proporzionale dei partiti che superano il 5% dei consensi elettorali, i differenti Ministeri vengono assegnati dal Presidente, e le deliberazioni sono prese a maggioranza. Ciascuna delle 9 Province ha un'Assemblea legislativa, eleggendo una rappresentanza proporzionale di candidati regionali; il numero dei seggi di
queste assemblee è determinato dividendo il totale dei voti della provincia per 50.000 (ma non potranno mai averne meno di 30 o più di 100); le Assemblee provinciali hanno potere 18 legislativo per materie ben definite ed ad ogni provincia spetta una quota delle entrate nazionali (secondo un'equa divisione). Ogni Provincia ha una Giunta provinciale - o "Provincial Executive Council" - (un Presidente e 10 assessori) che ha il compito di definizione politica e di amministrazione dei dipartimenti provinciali; si è consentito, inoltre, che, dopo le elezioni dell'aprile '94, ogni Assemblea legislativa provinciale potrà adottare un suo testo costituzionale che non sia in. contrasto con i principi della Costituzione nazionale. Nella Carta del '93 è prevista la figura dell'Autorità tradizionale per consentire ai leader tradizionali di essere inseriti ex-officio nelle amministrazioni locali; in ogni Provincia verrà creata una House of Traditional Leaders e, a livello nazionale, un Consiglio dei Leader Tradizionali (con non più di 20 membri). La Corte costituzionale emette sentenze - inappellabili e vincolanti - sulla interpretazione, la salvaguardia e l'applicazione della Costituzione a tutti i livelli di governo; inoltre dovrà dare soluzione alle controversie tra i vari livelli di governo e salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali (che potranno essere sospesi solo in stato di
emergenza). La Corte costituzionale, infine,' garantirà che tutti gli emendamenti apportati alla Costituzione come pure e soprattutto il testo finale - siano conformi ai principi costituzionali. L'Assemblea Costituente ( Senato ed Assemblea Nazionale in seduta congiunta) avrà il compito di redigere il testo finale e definitivo della Costituzione e di approvarlo con maggioranza dei 213 entro 2 anni dalla sua prima 19 seduta Il Gabinetto ed il Governo di Unità Nazionale rimarranno in carica fino al 27 aprile del 1999, data delle prossime elezioni (se il Gabinetto, peraltro, dovesse perdere la fiducia del Parlamento, verrebbero indette nuove elezioni). La Costituzione provvisoria sudafricana sembra disegnare una forma di governo mista, fatta di elementi parlamentari ( le Camere possono revocare il Governo attraverso la sfiducia), presidenzialistici (il Presidente è contemporaneamente Capo dello Stato e Capo del Governo) e direttoriali (il G o: verno è composto da elementi dei partiti in misura proporzionale alla loro quota rappresentativa in Parlamento). Analizzando la struttura dell'equilibrio fra i poteri si nota innanzitutto la tendenza ad assicurare l'indipendenza del potere giudiziario, e ciò attraverso la nomina dei giudici, di più alto grado, ad opera del Governo ma d'intesa 29
con la ludicial Service Commission (composta, tra gli altri, da 4 senatori e da rappresentanti dei magistrati, avvocati e professori universitari). Forte è, invece, il legame tra potere legislativo ed esecutivo: il Parlamento approva le leggi mentre l'esecutivo (che ha solo il potere di iniziativa legislativa) si limita ad attuarle, senza poter direttamente legiferare; peraltro, il Presidente ha il potere di dare il proprio "assenso" alle leggi (il che potrà significare una vera e propria approvazione). In conclusione il Sudafrica non è uno Stato federale, però molti degli articoli della nuova Costituzione paiono ispirarsi a principi di tipo federale; come può dunque essere definito il testo costituzionale di una Repubblica composta da una molteplicità di elementi istituzionali, strutturali, etnici e geografici ? Allorquando uno Stato è retto da una Costituzione che prevede una ben chiara e definita distribuzione delle competenze - attraverso la suddivisione orizzontale dei poteri fra i vari organi di governo, e quella verticale tra i vari livelli di governo ognuno dei quali con una determinata giurisdizione geografica - si può parlare senza dubbio di Stato composito.
BREvI RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Tutte le indicazioni e considerazioni fin'ora esposte ci portano a far seguire, alla iniziale domanda che titola l'articolo, un'altro interrogativo: è ormai nato e sta crescendo un nuovo SudAfrica ed esiste realmente una identità sudafricana? Di certo non esiste una nazione suaarricana, una nazione, cioè, che accomuni l'estrema destra bianca ed allo stesso tempo le comunità che legano la propria identità alle lealtà tribali; ma, comunque, tutti indistintamente sentono di appartenere a qualcosa di peculiare e singolare: il paese Sudafrica. Di qui la convinzione di dover esistere insie comprendendo che se dovesse in futuro crollare il tentativo di convivenza ormai avviato, fallirebbe e scomparirebbe anche lo stesso Sudafrica. Il coraggio di affrontare un rischio enorme, come lo è stato la consultazione elettorale dell'aprile '94, da parte di questa società sudafricana - sia essa nera, bianca, meticcia o indiana è stato degno di stupefacente ammirazione; è stato un passaggio quasi indolore, una rivoluzione pacifica dettata dalla grande coscienza del solenne e rilevante passo che si stava compiendo. "
,,
I
li Sudafrica ha una superficie di 1.140.519 kmq. (esclusi i territori di Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei); il paese è diviso in 4 provincie (la provincia del Capo, il Transvaal, l'Orange Free State ed il Natal) e comprende anche due enclave (i regni sovrani di Swaziland e Lesotho). 2 Nel 1990 la popolazione totale della RSA era stimata in quasi 31.000.000 unità, di cui più di 21.000.000 neri, 5.000.000 bianchi, 3.000.000 di meticci e circa 1.000.000 di asiatici (prevalentemente indiani). 3 Questo territorio così vasto è isolato: la distanza con gli altri continenti è immensa e, per ciò che concerne il resto dell'Africa, la Repubblica Sudafricana ne è separata da barriere fisiche, economiche, dimatiche, politiche ed etniche; anche l'isolamento umano è in parte spiegabile proprio con il complesso degli ostacoli naturali che si oppongono alla penetrazione e che hanno frenato l'espansione sia dei Neri sia dei Bianchi. In base a recenti proiezioni, la popolazione raggiungerà i 41 milioni di unità nell'anno 2000 (31 milioni di neri, 5,3 milioni di bianchi, 3,8 milioni di meticci e 1,0 milioni di asiatici). 5 La popolazione nera, dunque, non è una entità omogenea (gli scontri a carattere etnico ne sono la drammatica testimonianza), e - in questo Stato fondato su una coesistenza di minoranze - ciascuna etnia conserva gelosamente l'uso della propria lingua (e lingua e cultura sono inscindibili per civiltà non scritte come queste). A ciò si deve aggiungere un altro fttore di divisione tra i Neri che consiste nella separazione fra i gruppi ormai urbanizzati da quelli che dimorano nelle homeland. 61 discendenti dai pionieri olandesi, insediatisi nel corso del XVII secolo all'estremità meridionale del continente, crearono una originale cultura che si è palesata in una nuova lingua - trasformazione e semplificazione dell'olandese -, l'afrikaans, la cui base è costituita dai dialetti dei Paesi Bassi del )(VJI secolo, con successivi apporti del francese, del tedesco, del malese, del portoghese e delle lingue africane. 7 1137% parla il tamil, il 33% l'hindi, il 14% il gujarati, etc. 8 Le colonie erano Natal, Orange Free State, Transvaal, e Capo, mentre i tre protettorati erano Swaziland, Basutoland e Bechuanaland. 9 La popolazione totale dell'Unione includeva ben 10 distinti gruppi neri, ognuno dei quali aveva una I
base territoriale, una identità culturale, una lingua ed un proprio sistema socio-politico ben definiti. Partendo da tale presupposto, nelle politiche di tutti i governi sudafricani - particolarmente a partire dall'inizio degli anni '60 e fino al 1985 - era implicito il convincimento che lo sviluppo politico e costituzionale dei popoli neri dovesse essere distinto da quello dei bianchi. IO Sostenuto nella sua azione di rinnovamento da gran parte della popolazione bianca; la comunità bianca, infatti, si pronunciava per il 70% a favore della politica riformatrice del Presidente nel referendum del marzo 1992. 1 Tra questi meritano particolare rilievo: il Groote Schuur Minute (4 maggio 1990), il Pretoria Minute (6agosto 1990), il MaianAccora'(12 febbraio 1991), il National Peace Accord (14 settembre 1991). 12 1 partecipanti rappresentavano i più importanti partiti e movimenti politici del paese (in particolare ANc, IFP ed N) e degli Stati neri indipendenti (Venda, Transkei, Ciskei e Bophuthatswana) ed autonomi (Lebowa, KwaNdebele, KaNgwane, KwaZulu, Gazankulu e Qwaqua); unici assenti, fin dalle prime riunioni, i gruppi dei due estremi dello scenario politico: il bianco Conservative Party (Cr') e gli ultranazionalisti neri del Pan African Congress (PAc). 3 A catalizzare la svolta in chiave riformistica del sistema razziale, infatti, è stata anche la crisi economica della metà degli anni '70; la recessione mondiale è localmente aggravata dalla caduta del prezzo dell'oro, principale fonte valutaria del Sudafrica, e nei soli primi tre mesi del 1976 il paese perse il 25% delle proprie riserve di valuta estera. Tale congiuntura recessiva pose in luce le contraddizioni determinate dal sistema dell'apatheid in una situazione di crescita economica rapida: altissimo tasso di disoccupazione nera (pericoloso fattore di instabilità sociale e politica), mancanza di manodopera qualificata, ristrettezza del mercato interno, etc. 4 Proprio le sanzioni, che avevano come obiettivo primario il cambiamento immediato del sistema istituzionale sudafricano incidendo sulla politica economica (di vitale importanza per la comunità bianca), pur non riuscendo a porre in crisi l'economia del paese, hanno comunque raggiunto indirettamente il proprio originario fine, e ciò sia perché in. ogni caso hanno ulteriormente indebolito l'economia del Sudafrica, sia perché hanno quasi dato legittimazione alle organizzazioni di opposizione e di protesta nere. 31
1511 Parlamento in seduta congiunta approva la nuova Costituzione, il 22 dicembre 1993, ad ampia maggioranza (237 voti contro 45). 6 Nel caso in cui venga proposta la modifica dei poteri e delle funzioni di un solo governo provinciale, la bozza di legge deve avere l'approvazione anche della maggioranza dei senatori della provincia interessata. 17 L'attuale governo (23 maggio 1994) è composto dal Presidente Nelson Mandela (ANc) e dai due VicePresidenti Mbeki (dirigente ANC) e De Klerk (ex Presidente del paese e Presidente dell'Np, secondo partito sudafricano).
32
18 In materia di amministrazione locale, forze dell'ordine, alloggi, agricoltura, ambiente, pianificazione e sviluppo, sviluppo urbano e rurale, sanità, trasporti pubblici, politica linguistica provinciale, cultura, istruzione di 1° e 2° grado, turismo, autorità tradizionali, strade, viabilità, commercio ed industria, corse e scommesse, casinò e mezzi di comunicazione provinciali. 19 In una situazione in cui non si raggiunga tale maggioranza verranno attivati meccanismi che consentano di superare la fase di stallo attraverso l'indizione di un referendum per l'adozione del testo costituzionale finale (con una maggioranza del 60%).
Cultura della valutazione
Di valutazione e di cultura della valutazione si parla da molto. Spesso con quella amena leggerezza davanti alla quale non si capisce se tutto sia già chiaro e definito e non si tratti che di mettersi all'opera ovvero se ci si rfirisca ad una strada lunga, un po' difficile, che sembra sconsigliabile prendere e basta parlarne un p0' per convincersene. Di questa leggerezza i dibattiti nella pubblica amministrazione offrono spesso i più variegati esempi. Cerchiamo, quindi, di andare al fondo della questione. Da tempo in tutte le sedi in cui si spendono risorse finanziarie e umane per fini non di profitto girano domande semplici e oneste: i soldi spesi sono andati a buon fine? è 'stato giusto spenderli? quali effetti hanno avuto? Una fondazione che 'abbia sostenuto questo o quel programma, domande del .genere se le pone se è una fondazione seria. Ed infatti è da oltre un decennio che le grandi fondazioni europee si scambiano esperienze in materia. Intorno alla parola valutazione, o meglio a quella inglese evaluation, si è creata una biblioteca amplissima. Perché valutare è un'operazione che ha per oggetto prevalentemente la qualità e non la quantità. Coinvolge sensibilità e parametri di giudizio di più soggetti (chi dà e chi 33
riceve, chi decide e chi esegue e così via). È un'operazione che sifa prima e dopo, o come anche si dice più pomposamente, ex-ante ed ex-post. Che l'amministrazione pubblica sia chiamata a valutare e ad essere oggetto di valutazione è chiaro da tempo e certi discorsi di amena leggerezza ne sono la testimonianza. Noi pensiamo che valutare sia dffìcile, soprattutto se è un'operazione da compiere non da un solo punto di vista ma da tutti i principali punti di vista (dunque, un'operazione muldisciplinare). Per questo ne cominciamo a parlare sistematicamente.
34
Le trasformazioni dell'Amministrazione e la funzione di valutazione* di Marina Gigante
A circa vent'anni di distanza dalla pubblicazione del lavoro su "L'attività tecnica della P.A.", le riflessioni di Vittorio Bachelet circa lo stato della dottrina in tema di attività tecnica della P.A. conservano gran parte della loro attualità. Bachelet osservava che l'attenzione al riguardo era scarsa, e prevalentemente circoscritta alle ipotesi in cui l'attività tecnica era strumentale all'emanazione di un atto amministrativo, oppure si incentrava sul problema strettamente collegato della discrezionalità tecnica. Per gran parte, anche oggi l'interesse della dottrina continua ad essere focalizzato sul tema della discrezionalità tecnica, nel tentativo di tracciare una linea di demarcazione il più possibile netta tra valutazioni tecniche e valutazioni del pubblico interesse (Ledda, Cerulli, Ottaviano; accenti in parte diversi in Marzuoli e Violini). È vero, peraltro, che in tal modo la dottrina tende ad arrivare dall'interno, per così dire, dell'atto amministrativo allo scopo cui era soprattutto interessato Bachelet, quello di estendere la rilevanza giuridica dell'attività tecnica, di "ricondurre la tecnica alla sfera del dirit-
to sottraendola a quella riserva che di fatto il potere si era assicurato a suo favore" (Ledda), aprendo il giudizio amministrativo alla conoscenza dei fatti e costruendolo come giudizio sulla ragionevolezza dell'agire della P.A. Pur con queste precisazioni, resta pur sempre il fatto che l'interesse della dottrina tende ad incentrarsi sull'attività tecnica che costituisce "l'antece dente o almeno un lato dell'attività amministrativa" (Ranelletti), e che è quindi strumentale all'emanazione di un atto amministrativo; così come resta confermato il disagio che essa dimostra quando invece tale attività tecnica consiste nel compimento di opere o nella prestazione di servizi, ed è quindi essa stessa che direttamente realizza la cura di determinati interessi pubblici attribuiti alla pubblica amministrazione. Un tale disagio nasce indubbiamente, come rilevava Bachelet, dal fatto che nella ricostruzione del diritto.amministrativo come sistema fondato sull'atto amministrativo, l'attività tecnica stenta a venire in considerazione in sé e per sé,. complessivamente considerata, e rileva piuttosto "solo per i suoi con35
tatti puntuali con l'una o l'altra manifestazione dell'attività c.d. giuridica dell'amministrazione". E, in effetti, un sistema fondato sull'atto amministrativo non riesce a dar conto in modo soddisfacente dei problemi sollevati dall'attività tecnica, che emergono con particolare evidenza proprio quando questa costituisce di per se stessa il modo di esplicazione dell'attività amministrativa: in primo luogo, il problema della capacità di rispondere alla cura di determinati bisogni pratici della collettività, il problema dell'efficienza, della funzionalità. Non a caso d'altronde, questo tipo di attività tecnica emergeva in modo più netto nella sfera della c.d. attività sociale dello Stato, quella cioè più intimamente legata al processo di trasformazione delle funzioni pubbliche ed al passaggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale. Qui, in effetti, si avvertiva con particolare evidenza l'emergere dei profili di efficacia dell'azione amministrativa che non erano assorbibili ed erano, anzi, potenzialmente confliggenti con quelli della legittimità, e si evidenziava la crisi di quel principio di legalità in senso formale su cui riposa il sistema ad atto amministrativo. Allo stesso Bachelet non era sfuggito Io stretto collegamento tra attività tecnica ed efficacia ("la verità è che... non sempre le categorie della legittimità e del merito - costruite in relazione ad atti amministrativi formali 36
sono adeguate alla valutazione giuridica dell'attività tecnica"). Del resto, da tutto il suo lavoro traspare la consapevolezza che il contenuto tecnico de!l'attività non poteva non influire sulla configurazione degli istituti giuridici, e nello stesso tempo la chiara percezione della difficoltà di ricondurre questa negli schemi tradizionali dell'amministrazione pubblica. Ciò emerge con particolare evidenza nel tentativo di conferire una valenza giuridica, e non meramente descrittiva, agli uffici tecnici: uno dei tratti tipici di questi, infatti, è dato proprio dalla loro, almeno parziale, sottrazione al vincolo gerarchico (Marongiu), e quindi dal loro distacco dal tradizionale meccanismo che funge da collante dell'organizzazione pubblica, e ne assicura il rispetto del principio di legalità (Berti). La percezione dell'irriducibilità della tecnica alla logica della legalità formale rimaneva peraltro ancora nell'ombra finchè l'attività tecnica della P.A. era sopratutto quella susseguente all'attività amministrativa vera e propria, e consistente nella costruzione di opere o nello svolgimento di servizi - per questo si dubitava addirittura che potesse considerarsi vera e propria attività amministrativa, e comunque la sua irregolarità o mancanza costituiva una semplice inefficacia pratica dell'azione amministrativa (Ranelletti). Quanto all'attività tecnica anteceden-
te l'emanazione dell'atto, essa aveva un rilievo limitato, e a darne conto bastava il ricorso alla funzione consultiva, che non a caso presentava anch'essa difficoltà di inquadramento teorico (Giannini), e che comunque dava vita quasi ad un circuito parallelo e sostanzialmente subordinato a quello principale, fondato sulla gerarchia e sulla legalità. Tale percezione emerge con assai maggiore evidenza ed incisività quando per una pluralità di fattori - in primo luogo l'evoluzione delle funzioni pubbliche in settori a piìi forte valenza tecnica, e lo sviluppo stesso della tecnica - l'applicazione di principi e regole tecniche assume una crescente importanza all'interno della stessa attività amministrativa. Non è un caso, dunque, che la valorizzazione dell'elemento tecnico sia un elemento ricorrente in buona parte delle innovazioni introdotte nell'organizzazione amministrativa nell'ultimo quindicennio, attraverso le quali si è concretizzato un progressivo allontanamento dal modello tradizionale di amministrazione pubblica: si può ricordare il crescente ricorso alla creazione di amministrazioni indipendenti in primo luogo, che per tanti profili - posizione istituzionale, poteri, funzioni, organizzazione - coniugano in modo nuovo il rapporto dell'Amministrazione con la legge (Marzona), o anche il nuovo assetto conferito alle università e agli enti pubblici di ricer-
ca a carattere non strumentale dalla legge 9 maggio 1989 n. 168 (Merloni), che si fonda tra l'altro sul riconoscimento a tali figure di un potere normativo secondario che non è riconducibile alla tradizionale relazione di esecutività della fonte subordinata rispetto alla legge (Di Gaspare), e ancora al riordinamento dell'Istat e alla connessa creazione del Sistema statistico nazionale, effettuato con d.lg. 6 settembre 1989 n. 322, che con la configurazione di una funzione conoscitiva autonoma ha confermato la progressiva attenuazione della caratterizzazione provvedimentale dell'attività amministrativa (Merloni). In tutti questi casi, si ha l'impressione per un verso che la valorizzazione della tecnica non possa emergere se non attraverso formule organizzative nuove, che consentano l'espressione di caratterizzazioni intrinseche alla tecnica, quali l'oggettività, il radicamento nella realtà, l'aderenza ai fatti, quindi il valore stesso dei fatti, altrimenti "coperti" dalla legalità e dalla qualificazione che di essi danno le norme. Nello stesso tempo, viene in rilievo l'intima correlazione che intercorre tra tecnicizzazione e nuovo modello di amministrazione, e che fa sì che questo non possa prescindere dalla prima. In effetti, il progressivo distacco che viene in più modi maturando dell'Amministrazione dal tradizionale modello legalitario burocratico, fondato sul principio di legalità formale e 37
sulla relazione di esecutività dell'atto amministrativo rispetto alla legge, e il delinearsi di un nuovo modello, ancora non ben definito, ma comunque caratterizzato da una più netta distinzione dell'Amministrazione dalla politica e improntato ad una cultura dell'efficacia e della responsabilità (Berti, Di Gaspare), portano in primo piano le regole non solo giuridiche, ma anche tecniche se non scientifiche che presiedono allo svolgimento dell'attività amministrativa (Berti, Marzona). La tecnica, dunque, penetra nel cuore stesso dell'attività amministrativa e sollecita la definizione di nuove forme organizzative e di nuove funzioni, capaci di esprimere una logica diversa da quella della legalità, attenta alla realtà dei fatti e ai risultati dell'azione amministrativa. LA FUNZIONE DI VALUTAZIONE
Tra le novità più significative che si ricollegano alla valorizzazione dell'elemento tecnico dell'azione amministrativa vi è appunto il delinearsi di una funzione di tipo nuovo: la funzione di valutazione. Essa si fonda sulla sottolineatura della specificità dell'apporto dei tecnici al ocesso decisionale pubblico, e si configura come il contributo proprio e specifico, in certa misura tipizzato, che essi apportano ai processo di costruzione delle scelte amministrative. 38
Attraverso di essa si realizza una trasformazione dei ruolo dei tecnici nel processo decisionale pubblico, da con-. siglieri del principe" a detentori di un ruolo proprio e specifico, di un potere assai più definito e identificato di quello, in genere meramente consultivo, che li aveva caratterizzati nel recente passato, e che in molti casi continua a caratterizzarii tuttora. Non si può dire che la funzione di valutazione abbia ancora assunto un assetto dei tutto definito, e la varietà di forme in cui si manifesta non è solo frutto della ricchezza delle sue potenzialità applicative, quanto anche dell'incertezza dei suoi contorni. Pur con queste precisazioni, alcune considerazioni al riguardo possono farsi fin d'ora. Intanto, va ribadito che la funzione di valutazione comporta io svolgimento di un'attività eminentemente tecnica, che richiede il possesso di conoscenze specialistiche e che perciò può essere svolta solo da esperti. Ciò spiega perché il personale addetto agli uffici di valutazione sia formato esclusivamente da tecnici: si tratta di un'importante novità, perché la presenza dei tecnici nell'Amministrazione pubblica solo raramente è avvenuta in forma pura, più spesso frammista alla rappresentanza di interessi. In secondo iuogo, si tratta di un'attività mista di conoscenza e di giudizio, che scaturisce dai tronco dell'attività conoscitiva, ma se ne distingue perché
non sembra limitarsi ad un giudizio difatti, sia pure "volto a definire i caratteri di un fenomeno in vista degli effetti che può produrre in seguito" (Levi); sembra infatti esserci qualcosa di più, un vero e proprio giudizio di valore fondato su dati tecnici. Peraltro, al di là della difficoltà di distinguere tra giudizio difatti e giudizio di valore, il dato da sottolineare al riguardo è che la valutazione introduce maggiore oggettività nel processo decisionale, e ciò sembra influire sul modo di configurare la discrezionalità, da un lato accentuando l'importanza del momento intellettivo, dall'altro ancorando maggiormente alla realtà, ai fatti, anche il momento della volizione (M.S.Giannini sottolinea la tendenziale trasformazione della discrezionalità amministrativa in discrezionalità tecnica; Marzona, Di Gaspare). In terzo luogo, si tratta di un'attività che si potrebbe definire di tipo ausiliario, per sottolineare che essa non comporta l'esercizio di poteri amministrativi. Peraltro, se in alcuni casi la valutazione si configura come una funzione autonoma, non collegata ad uno specifico provvedimento, in altri appare intrecciata con un procedimento a carattere non pubblicistico, bensì negoziale, che fa capo al sistema sindacale (Cassese, D'Antona). Ancora, la funzione di valutazione sembra frutto di un ripensamento della funzione consultiva e di quella di
controllo alla luce di una nuova cultura amministrativa, che incentra la sua attenzione sull'attività e sulla funzione, e sul risultato di essa. Alla luce di tale cultura, il riferimento all'atto amministrativo, - che è centrale per distinguere consulenza e controllo, sopratutto quando questo si configura come controllo-conoscenza, controllo senza misure, - perde di valore, ed emerge piuttosto il dato del comune contributo che la valutazione apporta al conseguimento degli obiettivi, all'efficacia dell'azione amministrativa. Anche i sociologi, del resto, ci dicono che è in atto una trasformazione nel modo di concepire il controllo, da attività eminentemente configurata come una verifica ad una funzione di indagine e di consulenza (Lorino). Infine, una ulteriore caratteristica è data dalla stretta connessione che intercorre tra i tratti funzionali ora indicati, e un particolare modello organizzativo, che ha come elementi qualificanti, oltre alla composizione eminentemente tecnica dell'ufficio, l'attribuzione ai suoi addetti di uno status particolarmente garantito, e il conferimento ad esso di autonomie organizzatorie di varia ampiezza. In esso, dunque, si configura un rapporto del tutto peculiare con l'autorità politica, improntato ad una separazione assai più netta che nell'amministrazione tradizionale. 39
Gli uffici di valutazione e i servizi di controllo interno Come si è accennato, funzioni di valutazione sono attualmente svolte da diversi uffici, secondo modalità che talvolta differiscono tra di loro marcatamente. Una prima distinzione può farsi a seconda che tali uffici siano collocati all'interno dell'organizzazione più tradizioriale della P.A.,quella ministeriale, oppure operino all'esterno di questa, nell'ambito del variegato fenomeno del pluralismo amministrativo. All'interno dell'organizzazione ministeriale, uffici di valutazione in senso proprio (1) possono essere considerati il Servizio centrale degli ispettori tributari (Secit), istituito presso il ministero delle Finanze dalla legge n.146 del 1980, e poi disciplinato anche dall'art.16!. n.123 del 1987 e dall'art. 11 legge n. 358 del 1991, cui è affidata principalmente una funzione di controllo, avente per oggetto l'attività di accertamento degli uffici finanziari, nonchè le verifiche eseguite dalla Guardia di Finanza; il Nucleo di valutazione per gli investimenti pubblici, previsto dalla legge n.181 de! 1982 e da quella n.878 de! 1986 presso la Segreteria generale della programmazione economica del ministero de! Bilancio, e la Commissione tecnico-scientifica per la valutazione dei progetti di protezione e di risanamento ambientale, prevista presso il ministero de!40
l'Ambiente dall'art.4 legge n.41 del 1986, e poi dall'art. 18 comma 4 legge n.67 de! 1988, che operano entrambi nel campo degli investimenti pubblici e provvedono alla istruttoria tecnico-economica dei progetti che aspirano ad ottenere finanziamenti pubblici. A questi tre uffici vanno aggiunti i servizi di controllo interno, o nuclei per la verifica dei risultati, previsti dall'art.2, punto 2, lett. g, della legge 241 del 1993, e regolati dall'art. 20 d.lg. n. 470 del 1993, cui è affidato il compito di "verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la realizzazione degli obiettivi, la corretta ed economica gestione delle risòrse pubbliche, l'imparzialità e il buon andamento dell'azione amministrativa". Anche se la disciplina finora dettata al loro riguardo è ancora vaga, e non consente di definire con certezza la loro fisionomia, tali servizi sembrano presentare notevoli omogeneità con quelli qui sopra esaminati, e possono quindi essere collocati anch'essi nell'ambito della valutazione. I primi tre uffici sono posti all'interno della struttura ministeriale, ma sganciati dall'organizzazione gerarchica di questa: essi, infatti, non entrano a far parte dell'organizzazione tradizionale degli uffici, ma la affiancano, essendo posti alle dirette dipendenze del ministro, e, nel caso del Nucleo, di quelle del Segretario generale della programmazione economica.
Anche lo statuto del personale ad essi addetto è peculiare, poichè esso ha un rapporto più stretto con l'autorità politica (che li nomina), ma al tempo stesso più garantito (la nomina è procedimentalizzata; i requisiti ad essa relativi sono stabiliti per legge; l'incarico è a tempo determinato, e la sua durata è stabilita per legge, e fissata per un periodo di tempo presumibilmente più lungo di quello che in genere hanno gli incarichi ministeriali; viene fissato un regime particolarmente rigoroso delle incompatibilità). Analoghe peculiarità si registrano circa la posizione organizzativa dei tre uffici, improntata ad una maggiore autonomia rispetto agli ordinari uffici ministeriali. Anche all'interno dell'organizzazione ministeriale la tecnicizzazione ha dunque comportato l'introduzione di moduli organizzativi peculiari, il cui impatto con la struttura ministeriale si è peraltro rivelato - sopratutto nel caso dei primi due uffici, improntati ad una maggiore autonomia e separazione rispetto all'autorità politica - tutt'altro che agevole. Ciò è apparso particolarmente evidente nel caso del Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici, le cui vicissitudini - che pure in buona parte sono addebitabili al fallimento della programmazione per progetti cui esso era strettamente collegato - sono dovute anche all'accentuata ambiguità del disegno organizzativo.
Qui, infatti, la difficoltà di tenere insieme autonomia tecnica e responsabilità ministeriale era in qualche modo esaltata dalla diretta strumentalità della valutazione del Nucleo al provvedimento di attribuzione dei fondi, e si rifletteva nell'incertezza della qualificazione giuridica da dare alla valutazione stessa (parere obbligatorio, parere vincolante, presupposto), come anche all'ufficio (ufficio meramente interno, ufficio con rilevanza esterna, organo, organo procedimentale), per non dire al rapporto di servizio del personale ad essi addetto (funzionari onorari, funzionari professionali, funzionari onorari professionali). Ciò spiega perché gli sviluppi della funzione di valutazione sembrano affidati a modalità caratterizzate da più profondi ripensamenti dell'organizzazione amministrativa. Queste sono costituite in primo luogo dagli uffici di controllo interno, con i quali si è introdotta una forma di autocontrollo della P.A. che, incentrandosi sull'attività e non più solo sull'atto, ed essendo finalizzata al perseguimento dell'efficacia dell'azione amministrativa, segna una profonda revisione dei controlli amministrativi. La portata innovativa dell'istituzione dei Nuclei sembra peraltro non limitarsi al terreno dei controlli, e aver innescato un meccanismo più ampio di ripensamento del modello amministrativo nel suo complesso, in quanto che essa spinge inevitabilmente ver41
so unn'attribuzione di responsabilità in ordine al risultato che si collega ad un ripensamento del ruolo della dirigenza amministrativa (Di Gaspare), d'altronde anche sotto altri profili operato dal d. lg. n. 29 del 1993. L'autonomia della valutazione La funzione di valutazione sembra aver trovato poi ulteriore sviluppo fuori dell'organizzazione ministeriale, associandosi a modelli organizzativi che da questa si distaccano sensibilmente. È quanto è accaduto nel caso della Commissione di garanzia dell'attuazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, prevista dalla legge n. 146 del 1990. A tale Commmisione, che rappresenta una delle amministrazioni indipendenti in cui la separazione dal potere politico si realizza in modo più pieno (Cerulli), è, tra l'altro, affidato il compito di "valutare l'idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, "alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione e alla libertà di comunicazione. Qui, è ancora più evidente il carattere autonomo assunto dalla valutazione, che in questo caso non solo 42
prescinde dal provvedimento, ma si collega invece con un procedimento negoziale; il suo inserirsi nell'ambito di una profonda modificazione del ruolo dell'amministrazione, la cui attività da regolatoria tende piuttosto a divenire di controllo e di riequilibrio, volta alla individuazione e affermazione di regole di comportamento dei rapporti interprivati (E Benvenuti); la posizione neutrale e non interessata della Commissione, volta alla salvaguardia di beni - i diritti della persona costituzionalmente tutelati - che non sono fatti appartenere all'organizzazione pubblicistica (Marzona); l'attenzione per l'effettività della tutela di tali beni, che emerge chiaramente dal disposto normativo, se si considera che scopo della legge n. 146, a garanzia dell'attuazione della quale è stata appunto costituita la Commissione, e proprio quello di assicurare I effettività nel loro contenuto essenziale dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, di cui all'art. 1 comma 1". Si può infine accennare come andrebbe attentamente vagliata la possibilità di inquadrare nell'ambito della valutazione anche l'attività di vigilanza affidata all'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, prevista dall'art. 4 della legge 11febbraio 1994 n. 109, nonché i compiti di controllo affidati alla rinnovata Corte dei conti dalla legge n.20 del 1994, almeno nella parte in cui questi consistono nell'accertare "la
rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativa-
mente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa" (art.3 comma 4)**.
* Le osservazioni esposte nel testo costituiscono la prima traccia di un pii ampio lavoro sul tema dell'attività tecnica della P.A. attualmente in corso di elaborazione.
Infatti, o la loro composizione ha carattere misto, tecnico-politico, o la tecnicità di tali uffici, pur essendo testimoniata dalla.loro composizione esclusivamente tecnica, non è tuttavia assistita da sufficienti garanzie, sia per quanto riguarda lo statuto del personale che gli aspetti organizzativi. Una rassegna ditali uffici è in M. Gigante, Verso un nuovo ruolo dei tecnici nel processo decisionale pubblico: Lafrnzione di valutazione in G. D'Auria-P. Bellucci, Politici e burocrati al governo dell'amminiztrazione, in corso di stampa per i tipi del Mulino, dov'è contenuto anche un più analitico esame delle caratteristiche funzionali e organizzative degli uffici di valutazione.
I numerosi uffici di valutazione presenti nell'amministrazione di tipo ministeriale, inseriti per la gran parte nella fase istruttoria di procedimenti per l'attribuzione di finanziamenti pubblici - quindi quasi tutti operanti nel settore della valutazione degli investimenti pubblici - si discostano in realtà sensibilmente dal modello ora delineato, tanto che nella maggior parte dei casi può dirsi che per essi si è, in realtà, fuori dalla figura della valutazione.
43
Valutare e misurare la ricerca: dal dibattito alla prassi operativa di Bernardo Pizzetti
Da parecchi anni si assiste allo sviluppo di un ampio e particolareggiato dibattito sulla possibilità e sulla necessità di giungere a definire dei criteri di misurazione delle «performances» di quei settori i cui output non sono immediatamente quantificabili in termini monetari. La questione appartiene al fecondo filone di indagine che prende le mosse dai tentativi di valutazione delle politiche pubbliche (intese nella loro concezione più ampia), tentativi che hanno trovato una collocazione ed una sintesi metodologica nella cosiddetta analisi costi-benefici, i cui contributi sono oramai conosciuti nella letteratura economica dato che sull'argomento sono apparsi numerosi rapporti, libri, articoli, contributi e studi di vario genere. Occorre tuttavia riassumere brevemente gli argomenti che sono stati sostenuti nel corso degli anni. Sintetizzando oltre i limiti normalmente consentiti dalla vastità e complessità di tale dibattito, possiamo dire che l'analisi costi benefici ha vissuto un primo periodo in cui il tentativo compiuto dagli esperti ditale disciplina è stato quello di tradurre in termini monetari i benefici di cui una colletti44
vità si appropria in seguito allo svilupparsi di determinate azioni di politica pubblica; l'esempio utilizzato comunemente è quello relativo alla maggior durata della vita umana in un quartiere ad alto tasso di criminalità in seguito all'incremento del servizio di pattugliamento di polizia. Per poter «monetizzare» gli effetti di tale azione, i cui costi sono misurabili in termini di personale e mezzi aggiuntivi impiegati, occorre assegnare un valore all'incremento della vita media nel quartiere in questione; a questo fine è possibile mutuare i criteri utilizzati dalle compagnie di assicurazione che, tramite una serie di parametri quali l'età dei soggetti, l'impiego, il reddito e così via recitando, associano un valore monetario alla vita media di un individuo. Mettendo a confronto i costi sostenuti con i benefici raggiunti, dovrebbe essere possibile, in linea teorica, poter esprimere un giudizio sull'efficienza e sull'efficacia della politica perseguita. Naturalmente i sistemi di calcolo messi a punto sono più complessi e approfonditi di quanto esposto; tuttavia, pur nella sua semplicità, l'esempio
proposto rappresenta un caso estremo utile per introdurre le tematiche che sono state affrontate in una seconda fase del dibattito su questi aspetti. In particolare si è cominciato ad osservare che tale approccio non riesce ad emancipare il giudizio sulle politiche pubbliche dagli aspetti puramente monetari del problema, limitandosi a fornire una «contabilità della felicità» che prescinde dai giudizi di merito e di valore che qualunque policy maker, al momento di prendere le decisioni, è chiamato ad esprimere indipendentemente dal rientro monetario che la messa in opera delle proprie azioni comporta. Ciò non deve significare che non sia valida in assoluto una procedura che misura i benefici per poterli poi mettere in relazione con i costi monetari sostenuti ma, semplicemente, che c'è un limite alla loro traduzione in termini di moneta poiché tale approccio non riesce a fornire una rappresentazione reale e completa degli impatti conseguenti alle azioni di politica pubblica. È a partire da questa discussione che sono stati ricercati dei metodi di misurazione in grado di tenere conto di tali effetti senza ridurli necessariamente a moneta. Ciò ha comportato lo sviluppo di due filoni di indagine fra loro separati ma facilmente integrabili: uno è quello relativo alla definizione degli indicatori necessari a misurare i fenomeni, mentre il secondo è re-
lativo alla forma assunta dal sistema (o dai sistemi) di rendicontazione di tali indicatori, delle attività e della situazione «sociale» sottostante e che ha portato alla definizione di strumenti quali il bilancio sociale, il bilancio verde (ecobilancio), il bilancio di missione, etc, che rappresentano tutti tentativi di risposta ai problemi di misurazione non monetaria delle attività. L'attenzione di questa nota sarà concentrata maggiormente sugli aspetti relativi alla definizione di un sistema di indicatori nello specifico settore della ricerca, mentre per gli aspetti relativi al secondo filone si rimanda alla lettura dell'interessante articolo di Gabrovec Mei 1 che fornisce un quadro sufficientemente esauriente sulle tematiche in argomento. Relativamente alla problematica della valutazione, vale sottolineare che i termini di riferimento concettuali sono abbastanza ampi e delimitarne il campo non è operazione delle più semplici: infatti, poiché i metodi di valutazione impiegati (o indagati) variano in funzione di una quantità di variabili tale da non aver ancora ricevuto una adeguata collocazione schematica ed esaustiva al punto da ricomprendere al suo interno la varietà dei casi, in letteratura (ma anche nella pratica operativa) ci si trova di fronte a classificazioni e riorganizzazioni della materia funzionali allo specifico settore di interesse indagato. 45
A questo proposito vale osservare che una delle poche istituzioni che ha tentato una sistematizzazione delle procedure e dei metodi utilizzati per misurare l'impatto e l'efficacia delle attività intraprese è la Comunità Europea, che sottopone periodicamente a valutazione i propri programmi di intervento in diversi settori (in particolare BrurrE, ESPRIT, ERASMUS) avvalendosi, fra gli altri, dei metodi individuati nell'ambito de! programma VALUE, pensato ed attivato con la finalità specifica di fornire dei criteri omogenei di indagine e di rappresentazione dei risultati delle accennate attività di valutazione. I rapporti di valutazione che ne scaturiscono rappresentano i pochi esempi di prassi operativa sull'argomento. Altri soggetti che, a livello europeo, operano in campi affini e a volte collegati a quelli di intervento della Comunità, sono individuabili in quell'ampio e variegato settore che afferisce alle Fondazioni ed in particolare a quelle che fanno capo al Club dell'Aia. Queste ultime, infatti, stanno dimostrando una sempre maggiore sensibilità verso le problematiche relative alla misurazione degli impatti che scaturiscono dall'esercizio delle proprie attività istituzionali e, anche se con gradi di completezza e di approfondimento diversi l'una dall'altra, si stanno attivando nella messa a punto di metodologie di intervento in questo particolare settore. 46
Si è detto precedentemente della complessità concettuale relativa alla definizione di una puntuale classificazione delle attività di valutazione. Per fornire un'idea delle molteplici angolature dalle quali è possibile affrontare il tema della misurazione delle performances di un'organizzazione, oltre alla breve panoramica sui diversi filoni del dibattito sopra esposta, basti far riferimento alla seguente individuazione delle caratteristiche che differenziano tra loro le diverse tipologie di organizzazione «... che potrebbero giustificare la diversità dei metodi di valutazione da queste adottati. La prima caratteristica è la natura giuridica o, pii semplicemente, l'appartenenza dell'organizzazione al settore pubblico o a quello privato. La seconda caratteristica è la natura commerciale o non commerciale dell'organizzazione. La terza caratteristica è il livello di competitività esistente fra le organizzazioni che forniscono prodotti o servizi analoghi. La quarta caratteristica è la misura in cui un'organizzazione è responsabile nei confronti del potere politico. La quinta caratteristica, l'eterogeneità, si riferisce al numero di prodotti o servizi diversi che essa produce. Il grado di complessità rappresenta invece la misura in cui un'organizzazione è costretta a mobilitare un certo numero di competenze diverse per assicurare i servizi che le competono o per realizzare i propri prodotti. Infine, le organizzazioni sono caratterizzate da un deter-
minato livello di incertezza riguardo agli obiettivi da raggiungere e al relativo rapporto tra fini e mezzi» 2 A tutto ciò occorre aggiungere la non univocità del termine valutazione: con tale termine si intende infatti fornire un giudizio di merito su di un'attività o una politica? Si intende effettuare un controllo a posteriori? Oppure tramite l'attività di valutazione si tenta di definire a priori quali siano le azioni da intraprendere per il perseguimento degli obiettivi che ci si è posti? È tutto questo insieme ed altro ancora. Per chiarezza espositiva occorre sottolineare che, dal nostro punto di vista, si tenterà di prescindere dalle caratteristiche organizzative sopra individuate, e che per attività di valutazione si intenderà quel processo che tenta di definire a posteriori - tramite l'utilizzo e la messa a punto di appositi indicatori - quale sia stato il contributo di un particolare fattore (non misurabile esclusivamente in termini monetari) nel dispiegarsi di un progetto o di una successione di azioni di politica. In altre parole ci si riferirà al processo di valutazione inteso sotto il particolare punto di vista del controllo e del monitoraggio di attività e quindi della rispondenza di obiettivi posti e risultati perseguiti. Per far ciò si è scelto di soffermare l'attenzione sulla valutazione delle attività di ricerca scientifica e tecnologica; la scelta di tale peculiare campo si giustifica con il fatto che
questo per la sua ampiezza e vastità, per la diversità degli attori coinvolti (che possono o no essere dotati di una o più delle sette caratteristiche ricordate precedentemente), per la varietà degli obiettivi e dei risultati conseguibili (dovuti all'alea propria della materia), è tale da rappresentare allo stesso tempo sia un parametro di riferimento per le tecniche e le modalità di valutazione utilizzate, che un campo di sperimentazione, selettivo ed innovativo, al quale gli altri settori interessati ad una eventuale migrazione di tecniche e strumenti (in particolare la Pubblica Amministrazione) possono guardare con attenzione ed a cui, eventualmente, attingere. Prima di affrontare nel dettaglio le problematiche connesse alla misurazione delle attività di ricerca, occorre soffermarsi brevemente su alcune considerazioni di ordine generale. Può darsi che, in alcune situazioni, il processo di valutazione rappresenti una variabile endogena della fase di determinazione degli obiettivi; in altre parole è possibile (e non raro) che una volta individuati, stabiliti e messi a regime un certo numero di indicatori, l'obiettivo delle politiche venga definito in termini di miglioramento degli indicatori stessi. È evidente che in questo caso le strategie e le azioni risulteranno diverse da quelle attivate in situazioni di inesistenza o non quantificazione di indicatori. Se questo fatto rappresenti una circostanza positiva o 47
negativa non è cosa definibile a priori ma dipenderà dalla natura dell'attività. Ciò che è certo però, è che ci si troverà di fronte ad un cambiamento qualitativo del ruolo svolto dalla valutazione e dagli strumenti utilizzati: è infatti ipotizzabile che questi abbandoneranno il proprio ruolo di strumenti di supporto alle decisioni, per diventare una sorta di meccanismo autoreferenziale per la classificazione e l'elaborazione dei dati.
e risultati conseguiti. Il processo di valutazione che ne scaturisce, come ricordato, non è univocamente determinato; infatti gli approcci di valutazione e le relative metodologie applicative, si caratterizzano in funzione dei seguenti parametri:
il momento temporale in cui viene effettuata la valutazione. In genere si distingue fra: - valutazione ex - ante; - valutazione in itinere;
CARATFERISTICHE GENERALI
Si è. fatto precedentemente riferimento a ciò che si intende per processo di valutazione in termini generali; entrando nello specifico, l'attività di valutazione della ricerca può essere definita come il tentativo di sviluppare una metodologia - e l'individuazione dei conseguenti passi operativi - che consenta l'analisi della qualità e della efficacia delle attività intraprese dalle varie istituzioni di ricerca, nonché della efficienza dei risultati, tramite la definizione di parametri ed indici che risultino il più possibile «oggettivi». Ricordando l'avvertenza appena fatta, nel proseguire ci si riferirà alla valutazione come ad una teorica procedura «neutrale» che, in quest'ottica, rappresenta uno strumento funzionale alla produzione di informazioni sulle dinamiche delle azioni e sugli attori che partecipano alle stesse, sui loro interessi, obiettivi, modalità d'interazione 48
- valutazione ex - post.
I soggetti coinvolti a vario titolo nell'attività di ricerca. Si distinguono in: - finanziatori/decisori; - gestori; - ricercatori (intesi in senso ampio, come quei soggetti - siano essi enti, università, imprese o persone fisiche che svolgono materialmente la ricerca). Gli obiettivi che tali soggetti (in modo particolare i finanziatori/decisori) perseguono tramite la ricerca.
Il grado di incertezza connesso ai diversi approcci di ricerca: l'incertezza risulta essere sempre minore via via che ci si sposta dalla ricerca di base alle fasi di sviluppo. In generale la letteratura distingue fra le seguenti tipologie: 3 - ricerca di base (pura ofondzmentale), volta principalmente ad acquisire
nuova conoscenza e con assenza di specifici obiettivi:
- ricerca applicata, volta principalmente all'ottenimento di specifici obiettivi; - sviluppo, inteso come quel lavoro sistematico volto alla conoscenza di nuovi processi per la realizzazione di nuovi prodotti. Tuttavia, a parere di chi scrive, queste appaiono essere definizioni che non tengono conto della difficoltà di separare, nella pratica, con nettezza le diverse tipologie. In termini generali (anche se un po' utopici), si può affermare che la finalità a cui ricondurre queste diverse attività di ricerca è la produzione di nuova conoscenza che ne rappresenta il comune denominatore, i cui utilizzi sono classificabili come segue: - la traduzione industriale dei trovati messi a punto; - la diffisione dei risultati; - la formazione. In ogni caso, una procedura di valutazione, a qualunque di queste tipologie venga applicata, non può prescindere dall'analisi del quadro di riferimento generale in cui un progetto di ricerca va ad inserirsi. Per effettuare tale anatisi è necessario svolgere le seguenti funzioni: 1) definizione dell'oggetto della valutazione; 2) individuazione delle dimensioni su cui effettuare
l'analisi; 3) studio dell'attuazione e gestione del programma; 4) individuazione del sistema di indicatori coerente con gli obiettivi da sottoporre a monitoraggio; 5) raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione; 6) elaborazione delle informazioni; 7) stesura del rapporto nel quale sono contenuti i risultati dell'analisi degli indicatori e l'identificazione degli effetti di secondo ordine. I primi tre compiti hanno la finalità di evidenziare gli obiettivi e la struttura del programma da valutare; i successivi concentrano l'attenzione sui risultati, sia identificando gli effetti scientifici, tecnologici e industriali che scaturiscono direttamente dall'attività di ricerca, sia definendo gli effetti di tipo indiretto quali il diffondersi di una cultura cooperativa, la volontà di partecipare ad altri programmi, una maggiore attenzione al processo di innovazione. Sugli aspetti relativi alla raccolta ed elaborazione delle informazioni torneremo in seguito. È quindi evidente che la flessibilità del meccanismo di valutazione dovrà risultare tale da poter rispondere alla varietà dei casi; ad esempio, se le finalità perseguite dall'ente o istituzione che finanzia la ricerca riguardano la produzione di sola conoscenza (e viene richiesta una valutazione ex - ante) allora le metodologie e le tecniche utilizzate saranno diverse dal caso in cui si debba valutare, ex - post, la rispon49
denza dei risultati di una ricerca applicata con gli obiettivi che il soggetto finanziatore si era prefisso di raggiungere. Ad ulteriore dimostrazione della necessità di dotarsi di meccanismi di valutazione il più possibile flessibili si rifletta sulla moltiplicazione esponenziale degli approcci di valutazione che avviene quando questo esempio viene messo in relazione con le sette caratteristiche delle organizzazioni di cui si è trattato precedentemente. Proseguendo, si può distinguere ancora fra valutazioni interne e valutazioni esterne; «le valutazioni interne sono condotte da soggetti coinvolti nella attività che deve essere valutata e che hanno dunque piena consapevolezza delle difficoltà e delle inefficienze del sistema e dell'ambiente in cui si trovano ad operare; hanno il vantaggio di essere meno costose e di fornire indicazioni in tempi relativamente brevi ma, proprio perché effettuate dai soggetti interessati alla ricerca, rischiano di essere parziali e, di conseguenza, poco credibili. Al contrario le valutazioni estreme forniscono maggiori garanzie di indipendenza e di imparzialità, accrescendo la credibilità dei risultati. Tuttavia l'estraneità dei valutatori al programma rende necessaria una lunga attività preliminare, durante la quale i valutatori si procurano tutte le informazioni rilevanti ed approfondiscono la conoscenza del contesto in 50
cui si andrà ad inserire la loro attività; inoltre, per assicurare la validità della valutazione, è opportuno fare ricorso a valutatori professionisti. Pertanto le valutazioni esterne sono inevitabilmente più costose rispetto a quelle interne e la loro convenienza viene a dipendere dall'entità del programma da valutare: in genere si ricollega a valutazioni esterne laddove i programmi mobilitano ampie risorse ed a valutazioni interne laddove le risorse sono limitate» 4 .
La valutazione ex - ante Questo tipo di valutazione svolge una funzione di supporto al processo decisionale che porta a definire ed attuare un progetto di ricerca; tale supporto riguarda in particolare la definizione degli obiettivi del programma, la scelta della scala delle priorità, e la conseguente allocazione delle risorse disponibili. Normalmente la valutazione ex - ante è una valutazione interna che si avvale di strumenti quali l'analisi costi benefici ed il giudizio dei pari (sul quale torneremo in seguito). In questa sede non ci si soffermerà ad analizzare tale tipologia di valutazione, avendo preferito un approccio alle tematiche della valutazione intesa come misurazione, reporting e controllo, attività che esulano dall'ambito proprio della valutazione ex - ante.
La valutazione in itinere Sebbene una buona valutazione dovrebbe partire quando i risultati dell'attività di ricerca sono disponibili, oppure quando questi hanno prodotto tutti i loro effetti sociali ed economici, è anche vero d'altra parte che i rapporti di valutazione sono necessari quando è ancora possibile modificare decisioni già prese o che devono ancora essere prese. Le valutazioni in itinere vengono condotte contemporaneamente all'attuazione di un programma di ricerca, perché presentano il vantaggio di poter individuare i punti deboli della gestione in tempo utile per poter prendere le opportune misure connettive. Quando questo tipo di valutazione viene condotta all'esterno della struttura di ricerca, i risultati e le indicazioni operative che ne scaturiscono risultano più attendibili di quelle condotte all'interno, in quanto sono confortati dal requisito di indipendenza. Tuttavia ciò incontra una difficoltà di ordine temporale rispetto alle funzioni proprie della valutazione in itinere (i risultati disponibili il prima possibile), difficoltà riscontrabili nel fatto che chi conduce la valutazione ha bisogno di un periodo di tempo iniziale per raccogliere i dati e per entrare a pieno titolo nel progetto di ricerca; inoltre i costi sostenuti per attivare una struttura esterna sono inevi-
tabilmente maggiori di quelli necessari per condurre una valutazione intera.
La valutazione ex -post Lo scopo delle valutazioni ex post è quello di verificare la rispondenza fra i risultati ottenuti con l'attività di ricerca e gli obiettivi perseguiti (sorge qui il problema della definizione degli obiettivi: tanto più chiari e «leggibili» saranno questi ultimi e la relativa scala di priorità con cui vengono ordinati, tanto migliore risulterà la valutazione), di verificare l'efficienza nella gestione delle risorse, nonché di misurare, ove possibile, l'impatto dei risultati sull'ambiente esterno. In definitiva il metodo di valutazione ex - post intende fornire «una analisi generale del grado di successo o di insuccesso ottenuto da un programma; lo scopo in questo caso non sarà quello di correggere eventualmente il tiro, bensì di dare un giudizio positivo o negativo sulla validità degli obiettivi e dei risultati dell'intervento» 5. Le valutazioni ex- post vengono condotte raramente, non tanto perché quando queste intervengono le decisioni rilevanti sono già state prese, quanto perché non vi è una adeguata presenza di strutture esterne indipendenti in grado di svolgerle; infatti «le organizzazioni specializzate nella valutazione di R&S sono rare; normal51
mente vengono creati panels" di esperti in diversi campi. Più sono eterogenei i panels, migliori risultano le valutazioni» 6 '6
STRUMENTI UTILIZZATI PER LA VALUTAZIONE
Per poter essere considerate valide, le valutazioni devono essere dotate del requisito della <(robustezza»; i valutatori dovranno cioè basare le loro conclusioni su dati quantitativi e qualitativi e codificarli in opportuni indici. Gli indicatori normalmente utilizzati per valutare i programmi ed i progetti attivati dalla Comunità Europea si dividono in: indicatori di qualità; indicatori di efficienza; e) indicatori di impatto.
Indicatori di qualità Il sistema più diffuso per valutare la qualità di una ricerca nella comunità scientifica è il giudizio dei pari; questo metodo consiste nel sottoporre il programma (o i suoi risultati) alla valutazione di esperti che forniscono un responso sul grado di innovatività e sull'avanzamento delle conoscenze che il programma può essere in grado di raggiungere o ha raggiunto. Il metodo è basato sulla considerazione che gli scienziati sono più o meno d'accordo 52
sulla definizione di «bontà» della scienza; appare tuttavia evidente che il metodo presenta l'ovvio limite di riferirsi esclusivamente a giudizi soggettivi ed inoltre il numero di esperti che, per motivi di tempo e di costo, è possibile coinvolgere nella valutazione è estremamente limitato. Per tentare, dunque, di fornire maggiori elementi di oggettività alla valutazione sono stati messi a punto degli indicatori che tentano di «misurare» la qualità della scienza (scientometria) e della tecnologia (tecnometria). Per quanto concerne l'ambito della sciena, gli indicatori maggiormente utilizzati sono il numero delle pubblicazioni, che viene preso come indice di produttività della ricerca, e le citazioni che una pubblicazione riceve, che rappresentano un indice dell'impatto che una pubblicazione produce nella comunità scientifica. Questi indicatori sono appropriati per valutare la qualità della ricerca di base, il cui fine ultimo (è bene ricordano) consiste nell'avanzamento delle conoscenze e nella diffusione più ampia possibile dei risultati raggiunti. Quando si passa daila valutazione della ricerca di base (che con una forzatura può essere definita «scienza») alla valutazione della ricerca applicata («innovazione tecnologica»), cioè a quella parte del processo di ricerca che ha come fine ultimo la messa a punto
di nuovi prodotti o processi, è possibile avvalersi degli indicatori della «tecnometria>). Questi si basano in gran parte sull'analisi dei brevetti. Un primo indicatore è dato dal numero di brevetti ottenuti da un progetto; analogamente al caso bibliometrico, ciò rappresenta un indicatore della produttività delle attività sviluppate. E tuttavia possibile raffinare qualitativamente l'analisi individuando, all'interno del numero di brevetti, quanti di questi siano stati estesi all'estero (è possibile effettuare anche una ponderazione a seconda della difficoltà a brevettare nei diversi paesi; un brevetto giapponese, ad esempio, ha un valore maggiore di un brevetto italiano). Un altro indicatore è dato dalla verifica di quanti dei prodotti o processi coperti da tutela brevettuale abbiano poi trovato concreta applicazione industriale e quanti invece non siano semplicemente brevetti di protezione. Sempre in analogia con l'analisi bibliometrica, un indicatore di impatto, nel caso dei brevetti, è dato dal numero di citazioni brevett'uali che un brevetto riceve successivamente al suo deposito; queste possono ulteriormente differenziarsi fra citazioni esposte dal richiedente il brevetto e citazioni fatte dall'esaminatore della richiesta. Altri indici della tecnometria sono rappresentati da macroindicatori quali il saldo della bilancia tecnologica dei pagamenti e i dati sul commercio di prodotti ad alta tecnologia.
Indicatori di efficienza Questa tipologia di indicatori tende principalmente a fornire un giudizio sulla struttura organizzativa e gestionale del progetto di ricerca; i metodi maggiormente utilizzati si riferiscono al ricorso ad interviste e questionari che, rendendo possibile la raccolta di una notevole quantità di informazioni e punti di vista, superano le difficoltà legate all'utilizzo di pochi esperti. Altro indicatore dell'efficienza della gestione è dato dal numero di rapporti e documenti interni che le unità di ricerca scambiano tra loro nel corso del progetto. Questo indice fornisce una misura del grado di comunicazione fra i soggetti coinvolti nell'attività di ricerca; l'ipotesi sottostante l'utilizzo di tale indice è che livello di comunicazione interna ed efficienza di gestione del progetto siano, direttamente proporzionali. L'esempio appena proposto rappresenta un caso emblematico di migrazione e adattamento delle tecniche di valutazione da un settore ad un altro; infatti queste particolari metodologie di analisi sono state sviluppate prevalentemente nel Regno Unito sotto l'AiEnministrazione Thatcher per misurare la produttività del settore pubblico nell'ambito della cosiddetta «burometria». Si pensi che il Libro Bianco sulla Spesa Pubblica registrava, nel 1988, oltre 2.000 indicatori di questo genere. 53
Indicatori di impatto Il più tradizionale tra gli indicatori in esame è quello relativo all'analisi costibenefici, su cui vi è ampia letteratura e su cui, come precedentemente ricordato, non ci soffermeremo. Nello specifico delle analisi di tipo cx - post e specialmente nell'ipotesi di valutatori esterni, gli indicatori utilizzati nella valutazione sono di due tipi: 1) analisi mediante confronto; 2) co-word analysis.
L'analisi mediante confronto è un sistema di analisi che può essere a sua volta diviso in altre due tipologie: lo studio di un ambiente prima e dopo l'attuazione di un programma di ricerca (utilizzando, fra gli altri, anche i metodi esposti precedentemente). In questo caso il giudizio da dare sui risiiltati conseguiti è relativo al confronto nel tempo di gruppidi indicatori predefiniti; il metodo dei gruppi di controllo. Tale ultinio metodo tenta di valutare l'impatto di un programma analizzando la situazione dei soggetti direttamente beneficiari del programma e confrontandola con quella di soggetti che non ne hanno beneficiato. Ad esempio, nel caso di una fondazione che abbia bandito per un certo numero di anni borse di studio, se ne può valutare l'impatto mettendo a confronto le carriere dei vincitori delle borse con quelle di coloro che, pur 54
non avendo vinto, hanno comunque partecipato al bando (ciò al fine di garantire l'omogeneità del campione), utilizzando il metodo dei questionari e delle interviste. Naturalmente il nesso di causalità fra ottenimento della borsa e conseguenti maggiori possibilità di «carriera)), non è sempre così stretto ma, se il campione è abbastanza numeroso si possono ottenere delle relazioni sufficientemente significative.
Metodo della co- word analysis; con questo metodo, «programmi informatici classificano il contenuto di una ricerca attraverso parole chiave: contando la copresenza delle parole chiave in diverse aree di ricerca, si individua l'intensità dei legami tra le varie aree [Operativamente], ogni documento viene descritto da parole chiave, quindi la rete di parole chiave vIene suddivisa In sottosistemi di parole lègate da associazioni più forti. Per identificare i sottosistemi, vengono raggruppati i termini che compaiono nei documenti con una certa frequenza calcolando il prodotto delle probabilità che, su una coppia di documenti, un documento abbia una parola chiave quando è presente l'altra. Per ogni sottosistema vengono calcolati: 1) un indice di densità (il valore medio dei legami interni); 2) un indice di centralità (il valore medio dei legami esterni). Collocando i sottosistemi in un grafico di centralità - densità, il cui punto
di origine è il valore medio di ogni indice, si può vedere la posizione di un tema in diversi archivi e trarne delle implicazioni: ad esempio temi mai centrali nella scienza accademica non dovrebbero essere finanziati in un contesto accademico» 7, ma eventualmente nell'ambito di strutture dedicate alla ricerca applicata o allo sviluppo.
IL RUOLO DEL SISTEMA INFORMATIVO E L'ATTIVITÀ DI REPORTING
Abbiamo fin qui esposto degli esempi di indicatori e di sistemi di valutazione che possono essere applicati ad una generica attività di ricerca; naturalmente l'elenco proposto non è esaustivo (né potrebbe esserlo), anche se è rappresentativo degli indirizzi applicativi utilizzati comunemente nella valutazione dei programmi di ricerca della Comunità Europea. È tuttavia necessario affrontare brevemente alcune delle problematiche relative alle difficoltà connesse alla disponibi.lità e reperibilità dei dati. In linea generale è auspicabile che, in fase di definizione del sistema degli indicatori necessario per effettuare la valutazione, si tenga conto della possibilità di alimentare gli indicatori stessi con i dati raccolti da un sistema informativo che deve consentire la tempestiva disponibilità di informazioni utili ed attendibili. Le fonti da cui attingere i dati posso-
no essere sia esterne che interne alla struttura che avvia la valutazione ed ognuna esplica le proprie potenzialità a seconda delle situazioni particolari: ad esempio, sulla rilevanza delle fonti esterne si pensi al caso di una misurazione della performance di un programma di ricerca di base effettuata con l'ausilio degli indicatori bibliometrici e alla necessità di avere garantito l'accesso ad una delle poche banche dati in grado di effettuare tale servizio, come condizione necessaria per poter effettuare la valutazione stessa, non essendo tali dati reperibili in altro modo. Sul versante interno, come impostazione generale, la disponibilità dei dati è strettamente connessa con lo sviluppo e l'attivazione di quelle procedure mutuabili dalle esperienze di controllo di gestione e, più in particolare, con la definizione di un sistema informativo coerente con gli indicatori individuati. Occorre in altre parole mettere a punto un sistema di monitoraggio che, nel raccogliere le informazioni, sia ispirato ai seguenti principi: 1) raccogliere solo i dati di cui si ha effettivamente bisogno; 2) evitare la duplicazione di banche dati; 3) raccogliere le informazioni dove sono custodite. Lo strumento con cui bisogna procedere alla raccolta delle informazioni e dei dati è il report, cioè un documento composto da uno o più moduli. standardizzati in grado di elencare sinteti55
camente, per ogni unità elementare sottoposta ad analisi, le risorse impegnate nell'attività (umane, strumentali e finanziarie), gli obiettivi generali e specifici, le conseguenti politiche ed azioni, gli indicatori collegati ed i dati necessari all'alimentazione di tutto il sistema.
STRUTTURE ESTERNE DI VALUTAZIONE
Una valutazione esterna indipendente può essere condotta sia da un'organizzazione specializzata che da un «panel» di esperti indipendenti. Abbiamo già accennato precedentemente i motivi per cui le organizzazioni specializzate nella valutazione siano rare, vale tuttavia la pena ricordare i vantaggi e gli svantaggi che derivano dall'affidare a queste strutture l'attività di valutazione. I vantaggi risiedono essenzialmente nel fatto che la valutazione viene effettuata integralmente da tali organizzazioni e che i risultati sono in genere disponibili quando servono; gli svantaggi risiedono invece nella difficoltà di riunire un gruppo di valutazione sufficientemente eterogeneo, sia dal punto di vista delle materie che della nazionalità dei componenti, nonché nella difficoltà ad affermare la credibilità dei risultati della valutazione (in genere si tende a vedere tali organizzazioni come «accomodanti» nei confronti del cliente). Tuttavia queste difficoltà, che infatti non appaiono in56
sormontabili, non hanno impedito l'affermarsi, specie nei paesi anglosassoni, di strutture specializzate nella valutazione di progetti e programmi di ricerca. La Comunità Europea ha invece deciso che l'uso dei panels può dare una maggiore garanzia di indipendenza, generando al tempo stesso un impatto politico più grande. «L'uso dei panels consente di riunire esperti in diversi campi e di diverse nazionalità; l'esperienza ha dimostrato che le migliori valutazioni sono risultate quelle condotte dai panels maggiormente eterogenei. Infatti, se i membri del panel sono troppo specializzati sulla materia oggetto di esame, la discussione tende a concentrarsi su problemi specifici e sui dettagli tecnici, trascurando l'analisi dell'impatto generale del programma. Non bisogna inoltre dimenticare che i decision makers possono usare le valutazioni per definire le priorità tra diversi campi di ricerca; ciò è possibile se il panel di valutazione è composto da specialisti di diversi settori oltre che da esperti della materia di esame» 8 Altro aspetto significativo nella formazione di un pane!, è dato dalla indipendenza dei suoi membri; in questo caso per indipendenza si intende che essi non devono beneficiare, direttamente o indirettamente, del programma oggetto di valutazione. Inoltre dovrebbero essere sufficientemente «illu-
stri» per stendere un rapporto di valutazione di indiscutibile qualificazione.
I COSTI DELLA VALUTAZIONE
Normalmente i costi sostenuti per l'attività di valutazione variano fra lo 0,25 e l'i % del costo totale del programma. Il campo di variazione è determinato dagli strumenti utilizzati (l'analisi bibliometrica è meno costosa di una valutazione basata su interviste e questionari) e dal fatto se la valutazione sia interna o esterna, ad esempio, la regola applicata dalla Comunità Europea per stabilire il costo di un panel esterno indipendente è che questo non risulti maggiore dello 0,25 % del costo totale.
CONCLUSIONI
Si è tentato, con queste brevi note, di fornire un breve resoconto, di aprire una finestra su quell'ampio panorama che riferisce alle attività di valutazione
I O. GABROVEC MEI, Il Bilancio Sociale, in «Inserto di Amministrazione & Finanza», n° 6/1993. 2 N. CARTER, Come misurare la performance: l'impiego degli indicatori all 'interno delle organizzazioni, in «Problemi di Amministrazione Pubblica», n° 2, giugno 1992. Si veda il rapporto Formez-Progetto FALs su: L'in-
tervento pubblico nel campo della ricerca scientifica e innovazione tecnologica: criteri e metodi di valutazione in particolare il capitolo 5 a cura di A. Di MAio.
e che, a seconda dei casi, è possibile intendere come programmazione, monitoraggio o controllo. Senza avere la pretesa di dire qualcosa di esaustivo, si è voluto sottolineare l'interesse sempre più accentuato che diversi soggetti (non esclusivamente «pubblici») mostrano sull'argomento; al di là delle sistematizzazioni teoriche, pure importanti e necessarie, è necessario evidenziare un ultimo tratto caratteristico di questa peculiare attività: data la necessità di sperimentare tecniche e metodi, e quindi di aprire ad ampio raggio le possibilità applicative di tali tecniche, occorre tuttavia essere consapevoli che nulla di definito e definibile (se non in termini assolutamente generici come quelli qui presentati) può essere proposto a priori. In questo senso il panorama di riferimento presentato può essere inteso come una utile (<guida per l'azione» ma, nella prassi applicativa occorrerà mettere alla prova ed affidarsi alle conoscenze, alle capacità innovative e alla fantasia delle singole strutture di valutazione.
4
VALENTINA MELICIANI - ISRD/CNR - Roma, giugno
1992. 5 P. MAGNAnI, La valutazione: uno strumento per apprendere, in Strategie e valutazione nella politica industriale, F. Angeli, Milano, 1991. 6 L. MAssiMo - dalla relazione allo Sr'AN Day de! 22 aprile 1991 - Roma. V.
MELICIANI, cit. cit.
8 L. MASSIMO,
57
I dilemmi del controllo e le ambiguità delle "tre E"* di Sergio Ristuccia
Il tema dei "criteri di efficienza, efficacia ed economicità nei controlli interni ed esterni" è di quelli che si prestano ad essere svolti lavorando sulle prospettive, cioè in termini.di•politica dei controlli. Ciò del resto è esigenza obiettiva. La stessa situazione presente del paese suggerisce questa linea. Situazione che sembra richiedere un ritorno alla politica come attività che crea obiettivi e valori in cui la collettività e il paese possano riconoscersi e che possano perseguire con senso della realtà ma con la necessaria dose di ambizione. Voglio cioè assumere che ci sia un'esigenza di politica di misura inversamente proporzionale al rifiuto della politica come uso del potere quale è stato fatto da gran parte della classe politica appena uscita di scena. Questa esigenza di politica, denominata come nuova, viene spesso affermata ma rimane tutta da realizzare. Sempreché la logica del massimo cambiamento compatibile con il massimo di conservazione non farà da insormontabile ostacolo. In ogni caso valgono alcune constatazioni: è aperta una nuova fase del si58
stema politico, con regole ancora incerte ma certo diverse da quelle finora conosciute; è sull'agenda politica la riforma della forma-Stato con una proposta federalista che, uscendo dalle formule polemiche dei gruppi emergenti, potrebbe trovare anche altri soggetti che l'interpretino e la rilancino; sta per partire il processo preparatorio della Conferenza Intergovernativa del 1996 che costituirà una tappa fondamentale per l'assestamento dell'Unione Europea come meccanismo d'integrazione ovvero per la sua messa in posizione di stallo a tempo indefinito. Ancora, e soprattutto, c'è l'esigenza di una risposta in termini istituzionali a!la questione morale che è divenuta con Tangentopoli (e la conseguenziale rit'nozione per via giudiziaria di un'intera classe politica) la questione di riferimento per numerosi e fondamentali aspetti del nostro sistema istituzionale e costituzionale. E c'è, per finire, l'esigenza d'i quella riorganizzazione dell'Amministrazione imposta dalla strisciante rivolta fiscale che non è piìi bisogno dileggi di riforma - dopo la grande ondata normativa degli ultimi anni e soprattutto dell'ultimo anno -
esigenza di una strategia e di una pratica della realizzazione che non si può aspettare, certo, da semplici atti di buona volontà che nascano dalla lettura di tante norme di incerta portata. In questo quadro è chiaro che bisogna fare spazio per la politica dei controlli. Questa costituisce, infatti, un capitolo importante della politica di cui c'è domanda. Sarà, anzi dovrà essere, l'occasione per sottrarre la questione dei controlli a quella sorta di privativa che gli addetti ai lavori hanno finora esercitato. Forse senza neppure volerlo, forse solo per l'indifferenza e il disinteresse degli altri. A loro volta mai molto incoraggiati, gli altri, ad occuparsi di controlli per quel tanto di esotericità che il dibattito, tenuto in ambiente endogamico, ha fatalmente creato nel tempo. Non mi sembra, quindi, ci sia una consolidata cultura delle tre E (efficienza, efficacia, economicità) cui si possa fare riferimento per una riflessione sulla valenza della loro applicazione ai diversi campi di attività o di controllo. Ci sono studiosi e sperimentatori del valore di Bruno Dente che stanno mettendo a punto strumenti e criteri. Dobbiamo augurarci che il loro discorso si imponga e faccia cultura. In ogni caso mettere in relazione tali criteri con i controlli interni ed esterni significa comunque porre una questione di politica dei controlli.
I CONTROLLI IN QUESTIONE. L'ESIGENZA PRELIMINARE DI INTENDERSI SUI TERMINI
È in corso un'importante discussione sulla revisione contabile fondata, rispetto alle società quotate in borsa, sul d.P.R. 136 del 1975. Ci si chiede talvolta in questa discussione se esista parallelismo fra settore privato e settore delle pubbliche amministrazioni. Personalmente ritengo che si possono fare comparazioni su alcune questioni di fondo, ma non sugli aspetti ordinamentali e tecnici specifici. Il fatto è che da tempo è aperta una questione dei controlli. Ci si pone cioe il problema: esistono i controlli, non esistono, sono efficaci, sono inefficaci" e via di seguito. E dunque c'è un forte parallelismo almeno nei termini generali con il dibattito aperto in relazione alla revisione', anche se, devo dire, io sono dell'opinione del Prof. Giuseppe Bruni (espressa anche in un recente incontro alla seconda Univrsità di Roma) che sul terreno proprio della revisione non si deve parlare di crisi in senso lamentatorio e limitativo. Piuttosto, si deve parlare - almeno in Italia - di una crisi di crescenza che• capita in un momento difficilissimo, cioè nel momento in cui nel contesto di Tangentopoli, sono emerse tutte le compònenti negative o deboli dell'assetto ordinamentale e della pratica della revisione contabile relativa alle imprese. Tuttavia essendo recente il 59
breve periodo di sperimentazione della revisione (Bruni ha ricordato che si tratta di non più di dodici anni di certificazione di bilanci), è giusto e necessario ragionare in termini di aggiustamenti e miglioramenti quali una crisi del genere può suggerire. Dunque, c'è la possibilità di qualche comparazione. Il guaio è che le comparazioni si fanno bene se esistono elementi fattuali e dati ben raccolti, se esistono delle ricognizioni empiriche scientificamente costruite. in realtà, essendo il terreno dei controlli in ambito pubblico un terreno ben poco arato dalle scienze sociali, ho l'impressione che il dibattito avvenga molto più in termini di ciò che è desiderabile o possibile per gli attuali addetti ai lavori che non attraverso quei dati che sarebbe opportuno avere. Che cos'è nella pratica il controllo, come lo si svolge, che effetti ha, quali sono i costi del controllo e quali del non-controllo, quali i benefici del controllo: tutto ciò vorrebbe una o più ricerche ad hoc che nessuno ha mai fatto e che forse sarebbe il caso di fare. Ancora, pesa sulle possibili comparazioni e sulle suggestioni che se ne possono trarre la forte ambiguità dei termini. C'è qui più che altrove un problema di explicatio termino rum pregiudiziale che si constata giorno per giorno. I controlli che sono? A che servono? A chi servono? 60
Non sono state ben concettualizzate finora le possibili accezioni di parole come controllo, termine per sé polisenso, che può essere usato in molte occasioni e che d'altra parte ha molti sinonimi, o apparentemente tali, in parole come revisione, monitoraggio, valutazione, misurazione e così via. Tutti termini a cui siamo abituatissimi ormai, che ritroviamo e nei discorsi e nelle dichiarazioni di fede o di interesse o nel linguaggio legislativo ma in ordine al quale sorgono continui malintesi, a dir poco, perché ognuno capisce con certe parole una cosa ed altri ne capiscono altre. Questo uso promiscuo di termini compresenti fa anche in modo che, mentre nell'ambito dell'ordinamento privato, cioè nella revisione contabile in senso stretto, ci sono tuttavia 12 anni di esperienza fatta e riferita ad un ambito concettuale bene o male preciso (che comunque - come abbiamo detto - va aggiustato e rimesso in ordine) in ambito pubblico invece tutto è più indeterminato una volta che si esca fuori dalla logica del controllo di legittimità, tanto confortevole nella sua ingenua semplicità. Allora si capiscono (e vanno appoggiate) alcune recenti iniziative come, ad esempio, quella che sta prendendo il CNEL per mettere insieme un gruppo di lavoro che si dedichi stabilmente al tema "La misurazione dell'azione amministrativa", espressione più o meno "passe-partout" che deve tra-
dursi in concetti precisi, metodi precisi, condivisi, accettati, e sperimentati per successive correzioni. La speranza è che ne nasca una fondazione o un istituto che abbia l'autorità di un'Accademia della Crusca per capacità intellettuali e lucidità di proposte ma non per attribuzione legislativa. Dunque, bisogno di concettualizzazione e di messa a punto degli strumenti. Per rispondere a questo bisogno occorre coltivare comunque solo attese realistiche. L'esigenza di ri-concettualizzare vale anche nell'ambito della revisione. Basta ricordare tutto il problema dei rapporti fra attività di revisione contabile in senso stretto e tutte le altre possibili attività professionali che fanno da contorno, e non soltanto per la pressione dei professionisti ad occuparsi di tante altre cose perché sono curiosi, bravi, intelligenti o perché vogliono fare più affari. Non è questo il punto. La ragione profonda della trasformazione della revisione contabile in una revisione aziendale che concerne un ben più ampio ventaglio di aspetti economici dell'azienda è da rintracciare nella stessa limitatezza e crisi di significatività dei bilanci. La crescente esigenza di valori di stima impone apporti e tecniche di valutazione che superano gli ambiti delle metodiche della revisione contabile tradizionale. Insomma anche per il controllo vale. l'avvertenza - tante volte ricordata an-
che da chi parla a proposito di Pubblica Amministrazione - che occorre declinare al plurale. I controlli sono plurimi. Due, in ogni caso, i principi che debbono essere chiari in premessa: il primo è che i controlli sono fondamentali, soprattutto in una società complessa, per un buon funzionamento del mercato, dello Stato, della democrazia; il secondo è che tuttavia i controlli, comunque concettualizzati, comunque giuridicamente sistemati, comunque tradotti in mestiere, costituiscono un'attività in ':pima',' o primaria ma seconda , cioe un attivita che accede ad altra, che la segue. I controlli accedono e seguono l'attività di gestione, cioè l'amministrare. È questa la sostanza profonda del controllo e delle sue varie e possibili sfaccettature: essere un'attività che segue, in qualche modo asseconda, ma comunque non è l'attività primaria. Ciò va tenuto presente non certo per alimentare del controllo un concetto debole, ma perché semplicemente questa è la sua natura. Il che significa che tutte le volte che si assume o si richiede un'assoluta primazia dei controlli ci si trova in una situazione anomala e fortemente patologica. In condizioni di normalità non si può immaginare un'amministrazione in cui il ruolo del controllore sia talmente preminente da tradursi poi in effetti in negazione dell'amministrazione. 61
Possiamo dunque concludere su questo punto dicendo che c'è oggi un gran bisogno, nell'ambito dei controlli, di ridefinizione e di nuove concettualizzazioni. Ma come sempre queste operazioni debbono fare i conti con le sensibilità e con il momento storico in cui il problema si pone. E qui è chiaro che se in una realtà fisiologica, ben assestata, di normalità amministrativa, il controllo mantiene necessariamente il suo profilo di attività "seconda" diventa un'esigenza invece primaria e sentita nel momentei in cui la soglia dell'andamento fisiologico viene superata, come nel casò di grandi crack aziendali, -di malgoverno evidente e diffuso, di' tangentopoli. La sensibilità della gente impone in qualche modo la prospettiva da seguire. Oggi dover' provvedere a rimettere a punto i controlli significa fare i' conti con questa' sensibilità sia 'pure tarandola di tutte le emotività. Ci sono richieste, ovvero oggettive esigenze sociali, cui bisogna dare una risposta. E qui si ripropone un dilemma; che chi abbia fatto controllo ha sempre vissuto. Il controllo serve per evitare che si rubi, che.si facciano ladrocini,' che si facciano appropriazioni indebite ovvero serve per evitare mal funzionamenti, inefficienze. Nella realtà concreta talora le due cose sono le medesime (l'inefficienza crea oecasione di furto) ma concettualmente sono due cose niolto diverse. Soptattutto sono 62
diverse le culture di riferimento, se così vogliamo dire. L'incipit di un libretto di "Que saisje" delle Presses Universitaires de France scritto da Jean Raynaud, già procuratore generale della Corte dei conti francese, ricorda come la Corte dei conti francese sia nata "par une préoccupation essentielle: la méfiance". Ebbene non c'è dubbio che la diffidenza sia il filo conduttore di molti meccanismi del controllo, anche se spesso attutiti e ammorbiditi da logiche co-gestionarie. Rimettere a nuovo i meccanismi del controllo può ben significare ritornare a sottolineare i motivi, ragionevol.i tutto sommato, della cultura della diffì denzi -Sul lato opposto, occorre osservare che attraverso spezzoni normativi (non si è mai trattato di un sistema di norme di qualche organicità) sono state daté: parziali risposte legislative a esigenze diverse di controllo o di' revi- » sione che fanno riferimento ad altre culture: quella dell'efficienza ,o della 'qualità'del servizio, per esempio. Insomma, abbiamo avuto un'ampia introcluzìone dei 'strumenti di tipo revisione o auditing: in questo grande mix terminologico, l'ultima novità è la legge in materia ambientale in cui viene sanzionato, credo per la prima volta, in Gazzetta Ufficiale il termine "audir ambientale" (audit è scritto in corsivo).
Se è vero che le esigenze di controllo via via emerse rispondono a "culture" diverse e di vario tipo (si pensi al tema della qualità, riguardante singoli prodotti o singoli fornitori nel campo delle opere pubbliche o della fornitura di beni) questo complesso di punti di riferimento va dipanato, razionalizzato perché al momento rischia di creare confusione. Siamo di fronte ai molteplici sintomi, se vogliamo metterla così, della consapevolezza diffusa che bisogna migliorare e cambiare le prestazioni di controllo. Rimanendo tuttavia entro risposte a spezzoni e fra loro scollegate, può avvenire semplicemente che un controllo intralci l'altro. A questo punto quali paiono essere i termini del problema? Tanti controlli, finalizzati a tanti obiettivi e avendo alle spalle tante culture di riferimento vogliono tanti diversi soggetti di controllo (è ciò che sta avvenendo con la logica della moltiplicazione delle autorità indipendenti) ovvero, ed in quale misura, bisogna ripensare i controlli, anche quelli tradizionali, non più come monoculturali, cioè a prevalenza del parametro giuridico, ma come controlli multidi-. sciplinari, multiculturali? A cascata da questa domanda iniziale sorgono altre questioni. C'è una questione di equilibri inter-soggettivi sul piano operativo, c'è una poderosa questione di innovazione del metodo e delle procedure del "far controllo", c'è una strategia del reclutamen-
to e della formazione di figure professionali di diversa provenienza disciplinare che devono collaborare fra loro; c'è una questione riguardante le modalità continue o discontinue del controllo. E poi sono necessarie alcune avvertenze. La seguente, per esempio: è chiaro che troppi soggetti di controllo, anche quanIo veramente rispondano ad esigenze assai avvertite, divengono inevitabilmente fonte e ragione di vincoli ulteriori che si pongono all'amministrare e al produrre servizi per la collettività così come al "fare economia". D'altra parte è una pretesa fuori della realtà immaginare una sola entità di controllo che sappia fare tutto, perché probabilmente potrebbe fare tutto nel senso che poi decide di non fare niente o quel poco che è possibile. Questi i delicati problemi che abbiamo davanti e che si pongono con urgenza soprattutto nel settore delle Pubbliche Amministrazioni perché qui siamo in quella singolare situazione in cui, per effetto anche dell'arretratezza che mediamente ha il settore nel suo complesso, tutte le cose piovono addosso insieme e tutte devono trovare una sensata sistemazione. DA DOVE NASCE LA DOMANDA DI UNA CULTURA DEI COSTI
A questo punto del mio ragionamento vorrei evitare un malinteso. 63
Riferendomi alla politica dei controlli e all'entrata in scena di vari soggetti e realtà di controllo attraverso spezzoni normativi non desidero proporre ulteriori aggiustamenti legislativi di vario tipo. Penso soltando ad un buon uso delle norme che ci sono e soprattutto ad una adeguata strategia della realizzazione. A tal fine occorre ricercare se esista un nucleo di indicazioni normative a cui convenga fare riferimento e che occorra in qualche modo valorizzare facendone emergere le potenzialità. Penso che tale nucleo di indicazioni possa rintracciarsi nelle norme che hanno introdotto nel nostro ordinamento qualche iniziale attenzione al problema dei costi. Si tratta fondamentalmente dell'art. 7 della legge 36211988, che prescrive l'obbligo di quantificare il costo delle proposte di legge e delle norme che a partire da quanto disposto dall'art. 25 del d.l. n. 6611989 (convertito con legge n. 144/1989) si sono succedute in materia di dissesto degli enti locali. Malgrado sia falsata da una logica meramente finanziaria, la normativa sul dissesto vuole che ci sia una cultura dei costi alla base delle procedure di risanamento. Soffermiamoci sulla quantificazione degli oneri delle leggi. I due punti caratterizzanti l'obbligo della quantificazione sono, da una parte, l'obbligo del governo di accompagnare i disegni di 64
legge con relazioni tecniche che devono indicare i dati e i metodi utilizzati, le loro fonti ed ogni elemento utile per la verifica tecnica in sede parlamentare e, dall'altra, le relazioni quadrimestrali della Corte dei conti contenenti una valutazione ex-post sulla quantificazione dei costi delle leggi via via emanate. È noto come nel processo legislativo il circuito sia stato completato attraverso l'intervento dei Servizi Bilancio di Camera e Senato che provvedono a verificare in itinere le quantificazioni delle relazioni tecniche. Seppur finalizzato al processo legislativo l'obbligo di quantificazione degli oneri presuppone, per essere adempiuto, una rilevazione di base dei costi che operi al livello delle singole amministrazioni, anzi muova dalle stesse unità di base delle medesime. L'ottima quantificazione significa piena capacità di analisi e previsione dei costi dell'azione amministrativa nonché di altri fattori incidenti nella applicazione delle leggi. In altri termini la norma del 1988 deve essere intesa come un importante volano della cultura dei costi In un recentissimo rapporto del Servizio Bilancio della Camera (giugno 1994) si legge che si è registrato un progressivo affinamento delle relazioni tecniche quanto a metodologia e completezza dei dati. Si auspica comunque che presso tutti i ministeri si creino uffici specializzati anche per alleggerire la funzione di supplenza che ta-
lora è svolta dalla Ragioneria generale dello Stato. Sembra lecito dedurre da questo auspicio che in effetti le potenzialità della normativa non siano ancora pienamente dispiegate. Già al momento dell'emanazione della legge si poteva suggerire un piano di realizzazione che si può così riassumere:
metodi di rilevazione e calcolo Si ipotizzava una fase sperimentale da cui trarre, anche su base comparativa, un metodo che potesse essere ampiamente condiviso anche attraverso un manuale ad hoc. dati e loro fonti Il riferimento ai dati significa far entrare nella routine di tutte 1e amministrazioni la raccolta sistematica dei dati concernente la propria attività. Ciò dicendo si anticipavano le esigenze del sistema statistico nazionale che sarebbe stato di lì a poco creato con la riforma dell'ISTAT, e che è tuttora in corso di realizzazione. formazione e aggiornamento Non si maneggiano dati senza una preparazione adeguata. Di qui l'esigenza di una formazione ad hoc e di un'attività costante di aggiornamento. valutazione dei costi ex-ante ed ex-post Si sottolineava l'opportunità di mettere in sequenza le valutazioni richieste per il processo legislativo attraverso una logica sistemica che consentisse un costante miglioramento delle quantificazioni ma anche il consolida-
mento degli elementi costitutivi di una cultura dei costi. Non sono in grado di dire cosa sia avvenuto in ordine a queste indicazioni di lavoro ricavabili dalla norma dell'88 e certo in linea con le raccomandazioni elaborate in sede OCSE già nella prima metà degli anni Ottanta (ricordo il lavoro denominato Capacity to Budget cui ho personalmente partecipato) secondo le quali la politica di bilancio deve trovare radici e responsabilità piena nelle singole amministrazioni. Per rispondere bene al quesito su cosa è avvenuto occorrerebbe un'accurata indagine su un quinquennio di relazioni tecniche e sui soggetti che le hanno elaborate. Se torniamo alla proposta già citata de! Servizio Bilancio della Camera, la proposta cioè di uffici ad hoc presso i ministeri, mi pare che essa stia ad attestare che molta strada è ancora da fare. E che le virtualità dell'obbligo di quantificare i costi delle leggi sono ancora da cogliere. Analoghe osservazioni vanno fatte per quel che riguarda la normativa riguardante il dissesto degli enti locali. I piani e l'azione di risanamento che essa impone sembrerebbero far riferimento, sia nelle norme di legge che nelle norme di regolamento, soltanto o quasi esclusivamente ai concetti e ai mezzi di un'operazione di li4uidazione che ha ad oggetto i rapporti di de65
bito e credito. Senonchè l'impossibilità finale di liquidare un ente locale rende impropria una linea d'azione fondata prevalentemente se non esclusivamente su vincoli finanziari e non su criteri sostanziali di gestione che abbiano come punto forte la capacità di gestire i costi. Beninteso, la normativa sul dissesto non impedisce sviluppi in questo senso a parte quanto già previsto dalla mobilità del personale. Al contrario, non può non implicarli quando parla di risanamento. C'è di più: l'introduzione dell'istituto del dissesto e del severo regime vincolistico che ne consegue suggerisce - ma forse si dovrebbe dire: impone - un'azione di prevenzione, la quale, a sua volta, ha bisogno di fondarsi su buoni avvisatori d'insolvenza, costruiti soprattutto su una buona intelligenza dei costi. Dunque, occorre lavorare a far emergere ciò che è implicito. Tale esigenza si coniuga, del resto, quasi naturalmente con le domande di strumenti di governo delle gestioni locali che nascono dalla nuova fisionomia delle amministrazioni locali che hanno nel sindaco eletto dalla popolazione il responsabile ultimo e visibile dell'andamento del comune. La domanda che nasce in questo tipo di amministrazioni, anche per la necessità di render conto agli elettori, riguarda, da una parte, la capacità di ben intendere da dove si° parte e come ci si muove (dunque: esigenza di monitoraggio) e, 66
dall'altra, la capacità di modificare, in qualche modo, gli andamenti inerziali della gestione. Chiunque si ponga questi problemi finisce per dover richiedere e dover acquisire una buona cultura dei costi. TORNANDO Al CRITERI DI EFFICACIA, EFFICIENZA ED ECONOMICITÀ
Veniamo dunque ai criteri delle "tre E". Si tratta di criteri di cui si parla da molti anni nella letteratura internazionale e che quindi dimostrano la ruggine del tempo. Criteri che vengono soprattutto usati riguardo al tema riorganizzazione delle Pubbliche Amministrazioni. Si afferma che la riorganizzazione debba avvenire all'insegna di questi criteri. Ciò, del resto, risulta chiaro anche solo da una rapida ricognizione concernente l'uso legislativo dei termini efficacia ed efficienza. L'inevitabile genericità dei criteri quando siano enunciati in generale ha lasciato successivamente il campo alla messa a punto di indicatori che, una volta sperimentati ed applicati, hanno dato luogo ad esperienze interessanti e talora di successo. Se consideriamo il criterio dell'efficienza e quello che gli si accompagna usualmente, cioè l'economicità, si deve dire che essi hanno normalmente un significato simbolico quasi trasformandosi in un valore profondamente e ampiamente condiviso. Lo hanno notato due fra i maggiori
autori di teoria dell'organizzazione come March e Olsen. Dall'efficienza vengono indicazioni normative di tipo manageriale (la chiarezza delle respònsabilità dirigenziali, l'idea che una persona ben identificata debba essere a capo dell'organizzazione, l'idea della non duplicazione di compiti e strutture e così via). L'economicità si riferisce soprattutto all'equilibrio di entrate e spese e pone l'esigenza del risparmio sui costi. Dietro efficienza ed economicità c'è l'idea, in termini di microeconomia, che l'efficienza si ottiene nella competizione sui mercati piuttosto che in sistemi di. i'neccanismi gerarch.ici. Di qui la spinta che i criteri di efficienza ed economicità danno alla politica delle privatizzazioni. Efficienza ed economicità sono i più attesi obiettivi delle "riorganizzazioni", anche se spesso creano delusioni. In ogni caso c'è da dire che l'efficienza riguarda i mezzi dell'azione ainmini strativa non invece i fini. Tutte. le volte che si tratti di scegliere fini 'e missioni il criterio. di efficienza perde ,di significato. Quanto all'efficacia, se il criterio si riferisce alla capacità di un'organizzazione di compiere il proprio mestiere e di conseguire la propria missione istituzionale, c'è da dire che non sempre si concilia con gli altri criteri. L'effectiveness, osservava di recente uno studioso di Berkeley (Craig W. Thomas), "è
spesso assunta come postulato piuttosto che discussa dai pianificatori e teorici della riorganizzazione". Di certo, l'efficacia può confliggere con un'efficienza ed economicità che significhino, per esempio, una continua riduzione dei costi. In realtà, l'efficacia sembra più un criterio di valutazione dall'esterno di un'òrganizzazione e soprattutto .da parte dei destinatari finali delle prestazioni istituzionali o da chi ne rappresenti gli interessi. Naturalmente,. sorge intorno a1 criterio dell'efficacia il problema dell'identificazione dei compiti o fini dell'organizzazione. Se si . ragioria in termini di obiettivi che questa si dà nel tempo può trattarsi di .compiti. non sempre né necessariamente riconoscibili dall'esterno. In questo caso c'è un giudizio sull'efficacia che rimane all'interno dell'organizzazione. Se si ragiona in termini di fini istituzionali 'la riconoscibilità dall'esterno è più facile, anzi è un elemento costitutivo di un'orgainizzazione pubblica. Tuttavia si tratta normalmente di fini definiti in tenini molto generali. I parametri dell'a valutazione sull'efficacia sono di cortseguenza diversi, anche se non' opposri.. Se i criteri delle tre E ci portano. alla questione della riorganizzazione amministrativa, conviene soffermarsi su alcune recenti evidenze segnalate dagli, studiosi di processi riorganizzativi. Mi riferisco non tanto al caso di riorga67
nizzazioni di apparati pubblici quanto, più in generale, di grandi apparati, privati o pubblici che siano. Secondo Hall, Rosenthal e Wade che ne parlano in un recente numero della «Harvad Business Review», soio progetti di ridisegno organizzativo che abbiano grandi dimensioni e vadano molto a fondo hanno dimostrato di produrre ampi e duraturi risultati. La riorganizzazione per essere tale significa il cambiamento di alcuni fattori comportamentali chiave. Dunque, non è possibile pensare a operazioni cc una volta per tutté ma bisogna piuttosto pensare, con un'espressione colorita, a una "serie di onde che puliscano l'organizzazione per un periodo di anni Ne deriva la necessità del pieno coinvolgimento dei leader dell'organizzazione nell'opera di riorganizzazione. Si indica un impegno fra il 20 e il 50 per cento del tempo dei chief executives. Se ciò è vero, si trova spiegato il fallimento frequente delle riorganizzazioni pubbliche che, anche quando tradotte in questioni o bandiere politiche, vedono solo un interessamento iniziale da parte di vertici politici o di alti dirigenti ma non un loro coinvolgimento costante e duraturo. Tenendo conto di quanto appena riportato, torniamo all'ipotesi di una riorganizzazione che, dando per fermi i compiti istituzionali di un'amministrazione pubblica, si ispiri ai criteri dell'efficienza e dell'economicità.
Occorre innanzitutto darsi del tempo (ma ben definito) e muovere in profondità, per lungo e largo. In questa operazione si imporrà un'analisi reiterata dei processi attraverso i quali opera l'organizzazione. Ci sono due modi di considerare un'organizzazione. Uno è quello, più tradizionale, che guarda alle funzioni standardizzate e ha come fondamentale punto di riferimento l'organigramma. L'altro, affermatosi negli ultimi quindici anni, dà prevalente attenzione ai processi applicativi. La scomposizione analitica dei processi consente di considerare come si raggiungono certi risultati, cioè attraverso quali attività. Questo modo di considerare un'organizzazione ha effetti un pò dissonanti, se non dissacranti, nei confronti dell'usuale idea che l'ottimo organizzativo stia nella sicura definizione delle competenze delle singole unità operative e soprattutto nei confronti del concetto possessivo delle medesime competenze che a quest'idea si accompagna. Non teme aprioristicamente il problema delle duplicazioni cercando comunque di risolverlo in chiave di procedure precise; tende a utilizzare in positivo, e quasi a valorizzare, le competizioni interne e i conflitti d'interesse. Soprattutto, per tornare al filo dei ragionamenti sui costi, consente un'analisi dei medesimi per attività e per durata delle attività (fondamenta-
le, dunque, il fattore tempo) e non soltanto per unità organizzative. Mi pare dunque che in questi metodi di analisi dei processi e dei costi si possa individuare la nuova frontiera per l'applicazione dei criteri di efficienza ed economicità.
IN CERCA DI CONCLUSIONI
È il momento di cercare le conclusioni. Ponendoci di fronte al dilemma controlli interni - controlli esterni sembra che, in coerenza con quanto appena detto non sia il caso di stabilire attribuzioni secche di appartenenza o competenza. Anche perché appare piuttosto opportuno ribadire una prospettiva di politica dei controlli, nel senso però che oggi non è il momento delle definizioni normative ma della strategia dell'attuazione o, meglio, del buon uso delle norme che ci sono. Quale che sia il giudizio che si voglia dare, per esempio, a proposito di come si è giunti alla legge n. 2011994 sui controlli della Corte dei conti o a proposito dei suoi contenuti. Non è questo il momento di entrare in argomento. Tengo solo a ricordare che era già in atto da anni una riforma strisciante dei controlli della Corte (e neppur tanto strisciante se si pensa al secco ridimensionamento del controllo preventivo ad opera del decreto legislativo n. 29 del 1993), che comun-
que poneva rilevanti problemi: di riorganizzazione dell'organo di controllo, di cultura dei controlli. L'augurio è che la riforma aiuti a trovare le soluzioni: fatto per nulla scontato. Una prima conclusione che sentirei di fare è la seguente: non credo che esista la possibilità di "fare sistema" fra controlli interni e controlli esterni. Le finalizzazioni sono diverse e, dunque, anche i metodi. Già parlando di criteri di efficacia, efficienza ed economicità si vede che c'è il criterio (intendo l'efficacia intesa come capacità di conseguire tempestivamente e utilmente i fini istituzionali) che ben s'attaglia all'osservazione dall'esterno compiuta o da un organo a ciò deputato o dagli utenti o beneficiari; mentre gli altri criteri meglio si attagliano a servire da guida per chi debba governare direttamente le gestioni. Altra questione è, beninteso, l'omogeneità degli strumenti concettuali, del linguaggio, dei modi d'intendersi. Una seconda osservazione riguarda la necessità che i controlli rispondano alle diverse domande di controllo che salgono dalla società. Quelli esterni risponderanno prevalentemente all'esigenza che venga bene reso il conto da parte degli amministratori riguardo all'uso corretto delle risorse. I controlli interni sembrano invece dover dare risposta alla domanda so69
ciale di buoni e pronti servizi pubblici, pur in presenza di risorse limitate. Tali controlli si adegueranno al concetto di monito-raggio da definirsi (sulla scia di un'indicazione di L. Cappugi) come la serie delle operazioni intese a massimizzare la probabilità che ogni progetto o azione venga realizzato con il minore impiego possibile di risorse ed in modo da ottenere i risultati quantitativi e qualitativi che si intendeva raggiungere e ciò anche attraverso la correzione o miglior definizione degli obiettivi. Una terza osservazione riguarda le modalità di esercizio, date le diverse finalità. Al controlli interni può ben appartenere una certa dose di riservatezza, quelli esterni invece non posso-
• Relazione tenuta il giorno 10 giugno 1994 al Convegno organizzato dalla panca d'italia a Perugia sul tema: Nuovo sistema di controlli sulla spesa pubblica. 70
no che realizzarsi nella maggiore trasparenza possibile. Potrebbe sembrare che, alla fine, ci si voglia avviare verso un'affermazione della separazione e della separatezza dei controlli. E importante, invece, dissipare questa impressione in ragione almeno di quest'ultima, ribadita, considerazione: c'è ancora un grande lavoro da fare per costruire una buona cultura dei controlli. A questo lavoro si dovrà contribuire, da varie sponde, con molte fresh ideas, idee "fresche", come si-usa dire in certi dibattiti nei campus americani. Ebbene, dopo un adeguato lavoro compiuto nelle discipline. più coinvolte (e sono molteplici)• e nell'attività pratica, molte approssimazioni di òggi saranno superate o modifìcate.
IfflSh!
-
Y I-
Comunicazione e Pubblica Amministrazione
Con questo dossier si riprende un tema caro alla nostra rivista: la comunicazione. Lo studio dei rapporti tra sistema informativo, sistema politico, sistema culturale e società, più volte aff+ontato ed approfondito nel n. 71 della rivista, è stato ripreso nel fascicolo 87188 con il tema dei media, nel quale ci si soffermava ad individuare il valore che la nostra società attribuisce alla comunicazione. Torniamo quindi sul tema, oggi più che mai di grande attualità data l'influenza ed il ruolo determinanti che la comunicazione ed i media hanno avuto in questa prima fase della seconda Repubblica. Il primo scritto, di Nino Bigi (una relazione svolta nel 1991 per la presentazione dell'associazione «Correnti '), costituisce un'analisi chiara ed acuta sia della comunicazione in sé fondata sul princzpio discambio, che della sua alterazione, causata, secondo l'autore, dal mercato che cerca di rendere un interesse che si ha e che si vuole esprimere, vendibile: con ciò creando quella che viene chiamata «comunicazione tradita' Tra i vari interessi che cercano espressione nel sistema della comunicazione, vengono distinti ed analizzati quelli che fanno ricorso alla comunicazione/mercato, la quale 71
dà origine ad una comunicazione spuria e non riconoscibile; quelli che gravitano intorno alle decisioni politiche, che in Italia si basano sul consenso delle parti coinvolte dall'interesse stesso e quelli che si servono della comunicazione fornita dai mass-media definita come 'ovracomunicazione dffiattiva", in quanto fondata su comunicazioni ed informazioni altrui, rielaborate e rei nterp retate. La comunicazione riconoscibile, ossia facilmente accertabile dagli altri soggetti ed il potenziale delle tecnologie dell'informazione, costituiscono invece per Giorgio De Michelis - autore del secondo articolo - gli strumenti a cui affidare la realizzazione della propria rflessione-progetto sulla questione della pubblica amministrazione. L'autore, prendendo spunto dalla relazione finale della commissione di studio istituita dall'ex Ministro della Funzione Pubblica Sabino Cassese, e presieduta da Bruno Dente su "La politica del personale nel settore pubblico" del febbraio 1994, pone al centro del problema relativo all'ammodernamento della PA. la questione del servizio pubblico. In tale ottica, studiando il riorientamento dei comportamenti della PA. nella logica del servizio ai cittadini, viene evidenziata l'esigenza di un miglioramento delle prestazioni che essa fornisce ai cittadini-utenti, non soltanto nel senso dell'efficienza e dell'efficacia, ma soprattutto della qualità del servizio prestato. Tale obiettivo è realizzabile utilizzando un nuovo tipo di relazione tra PA. e cittadino: la c. d. "relazione di servizio " Una relazione qualitativa, individuale, che richiede l'intervento attivo del cittadino-utente, e che non pare perciò consentire economie di scala e politiche di contenimento dei costi, ma che, se unita alle altre tzpiche relazioni di produzione e servitù - generalmente utilizzate dalla PA. - può consentire unffettivo cambiamento nella concezione e gestione del servizio pubblico. Organizzare quest'ultimo in modo che il cittadino trovi di fronte a sé una continuità tra prestazioni standardizzate tipiche e prestazioni personalizzate, è possibile utilizzando le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, come strumenti che supportino sia il cittadino che la PA. in questa "relazione di servizio " Tali tecnologie potranno attivare il primo in modo che faccia da solo tutto quello che è nelle sue possibilità ed orientare là seconda verso la collaborazione con il cittadino stesso in ogni sua attività. Un servizio, dunque, che produce valore attraverso la partnership tra cittadino e PA. Tale riflessione costituisce un contributo molto interessante per la realizzazione della rforma della PA., sia perché considera in unttica nuova il rapporto tra cittadini e amministratori pubblici - quali soggetti attivi e in collaborazione tra loro nel processo di amministrazione - sia perché sottolinea, ancora una volta, l'importanza della comunicazione e delle tecnologie dell'informazione nel pro cesso di cambiamento della PA.
72
La comunicazione non è mercato di Nino Bigi
La comunicazione si fonda sui principio di scambio. Si comunica per esprimere un interesse qualsivoglia - affettivo, cognitivo, religioso, economico in vista di una riconoscenza o di una corrispondenza. Si comunica con l'intendimento di rendere intellegibile e riconoscibile l'interesse che si ha. Ciò che importa, nella comunicazione, è la predisposizione a credere in quello che si proietta al di fuori, avendo quindi a cuore l'integrità del contenuto. Ma conta anche l'apertura a lasciarsi cambiare, se l'altro - soggetto anch'esso alle regole di riconoscibilità dei suoi argomenti - scioglie il nostro interesse e ci attira nella sua orbita. Ed è in questo movimento oscillatorio della comunicazione che in parte si compie l'educazione sentimentale dell'individuo, ed il suo mutamento. Ed al pari, si compie la vicenda sociale delle convinzioni collettive, e del loro contrasto. Avviene, però, che in questi flussi di scambio la riconoscibilità dell'interesse risulti molto spesso opaca, a causa di una raffigurazione volutamente imperfetta o deformata: Questa opera alterante, che occulta il vero interesse,
trucca il messaggio ed inganna il destinatario, è il mercato (fare mercato di). In questa accezione, il procedimento non risparmia alcun ambito: s'insinua nei rapporti d'amore, ha ampio corso in quelli di potere, è in permanente agguato in quelli economici. Scopo dell'alterazione, naturalmente, è quello di rendere l'interesse vendibile al massimo. Ma l'assillo alla vendibilità dà origine, senza scampo, ad una comunicazione tradita. GLI INTERESSI E LORO RAPPRESENTAZIONI
Tra i vari e spesso divergenti interessi che cercano espressione nel sistema di comunicazione, molti di essi, ed in particolare quelli dotati di maggiore potere, fanno ricorso di frequente alla comunicazione/mercato. In questo caso le rappresentazioni di cui si servono, quando non ellittiche, sono puntellate da artifici e rivestite di elementi suggestivi nell'intento di renderle transitabili nel circuito della comunicazione che, va sottolineato, è circuito del consenso e della decisione. Questo modo di presentazione, insieme monco e fascinatorio, si riflette 73
diffusamente nei mass-media, dove gli interessi di potere hanno elevato accessibilità. La pratica, dal punto di vistadell'efficacia, si presta a parecchie obiezioni. Nell'ambito del grande pubblico, può anche darsi che essa ottenga alcuni risultati, soprattutto laddove c'è maggior cedevolezza all'alone del prestigio ed alle risonanze di pura retorica, ma è fondata la congettura che generi anche scetticismo e forte sospettosità. Peraltro, l'universo indifferenziato del pubblico, almeno in funzione dell'esito della comunicazione di interessi rilevanti, non ha molta importanza. Ciò che conta, invece, è il giudizio dei pubblici "influenti" in merito all'interesse .rappresentato. In particolare di quei pubblici influenti che, di volta in volta, sono co-interessati al problema da una posizione opposta o comunque non coincidente con quella di chi ha configurato la rappresentazione. In questi casi il disvelamento di una comunicazione camuffata è inevitabile. E ciò rende più accidentata la permanente tutela dell'interesse a meno di un patto oscuro col potere, che peraltro ha un costo per entrambi i contraenti. IL MERCATO DELLA COMUNICAZIONE E LECONOMIA DI MERCATO
Nella sfera economica, a differenza di altri ambiti, la vendibilità è parte inalienabile dell'interesse. 74
Si produce, si commercia o si danno prestazioni di lavoro in vista di una contropartita, che si configura essenzialmente in denaro, e dove la valutazione del prodotto deriva dall'esclusiva importanza economica che esso riveste nel contesto sociale. Anzi, nella prassi puramente economica la vendibilità - ossia il quantum di contropartita ricevibile - è il solo legittimo criterio. Ma la prassi economica, pur cercando di tener conto in anticipo della comunicabilità del prodotto, è nettamente distinta dalla prassi comunicati va. Infatti, quando il prodotto si solleva sul piano della comunicazione per farsi conoscere, la pulsione alla sua vendibilità deve, pur non cessando di esistere, sottostare ad un'esigenza altrettanto primaria: rendere appunto riconoscibile il prodotto stesso. Ma è inngabile che tra questi due poli corre una grande tensione. È infatti molto frequente la tentazione di massimizzare la vendibilità del prodotto proprio mediante i canali comunicativi. Si smorzano o si omettono le informazioni sugli effetti indesiderati, se ne acclamano le proprietà in funzione delle attese collettive e, simmetricamente, si cerca di plasmare le attese in conformità alle sue caratteristiche peculiari ed inoccultabili. Ne nasce una comunicazione, in gradi diversi, spuria e, in definitiva, riluttante a sottomettersi a prove di riconoscibilità e di confronto di ragione.
IhMMAGINARIO SOCIALE
'2lndthey cali 'beilo'an ugiy man" Altro grande "diffusore" degli interessi forti è stato, nell'ultimo decennio, l'immaginario sociale egernonico. A differenza infatti degli anni Settanta, in cui esercitò grandissima seduzione il corpus di valori e di simboli alternativi al potere (a riprova che l'ideologia dominante non necessariamente coincide con quella della classe al potere), negli anni Ottanta il declino delle prospettive di radicale cambiamento crea i presupposti per un ripiegamento dellè coscienze in un orizzonte privato (il cosiddetto riflusso). Consente, anche, ùna. ricomposizione sociale basata prevalentemente sulla promozione individuale -e, sulla prorness,a di crescente accesso all'tìniverso dei beni e delle bpportunità sensibi1i - Non che m'precedenza questo aspetto fosse assente, ma assume, nell'ultimo decennio caratteri assai diversi. Divienc pelyasivo e subisce un radicale mu.tarnento di qualità. L'immaginario sociale doiiiinante di • questo periodo poggia infatti su una dilatazione intnsa e òa.sofisticazione dei messaggi di successo personale, così come del "premio" ottenibile. Parimenti successo e premio sono obiet- . tivi inscritti compiutamente in un cerchio di gerarchie ed attitudini, volto a ricostruire un ordine sociale. È l'epoca del' culto dell'individuo, illu-
strato con le vicende degli uomini riusciti, ed anche l'epoca di una ben apparecchiata esibizione dei piaceri: l'arredamento della casa, la cura del corpo, il richiamo dei viaggi esotici, la liturgia dell'abbigliamento, l'attrazione dei cibi. E naturalmente il fascino dell'eros, che si propone in tutte le sue possibilità. Parallelamente, questa esaltazione dell'individualismo ritrova ph1ni , di ricc congiunzione comunitaria mediante una retorica nazionalistica rivista in chiave moderna: il made in Italy, la quinta potenza mondiale, i successi sportivi, ecc. E se da una parte la rivalutazione della dimensione individualistica ci ha avvicinato a pratiche da tempo in uso nei più avanzati Paesi industriali, la sua irruzione nel tessuto culturale italiano è stata brutale. Sia perché ha varcato i' limiti del buon gusto e dell'accettabi- le, sia perché lacerante in un contesto privo di contrappesi di democrazia consolidata che quei Paesi hanno sviluppato in un lungo lasso di tempo. Non è'un caso che proprio negli anni Ottanta - i più sterili del secolo quanto a creatività artistica in Italia - ci sia stata invece una petu'lante magniloquenza della creatività che, a ben vedere, è stata vanto specifico dei sarti e dei pubblicitari. Ma se l'esaltazione consumistica, l'elogio del merito inteso quale possibilità appropriativa, l'ossessiva rappresentazione dell'universo edonistico dei be75
ni, riescono anche a funzionare, il loro successo non può andare oltre un certo periodo, se si accompagna a profonde trascuratezze dei bisogni sociali. L'individuo, anche colui che sceglie caparbiamente la cura di sé, s'imbatterà con crescente frequenza negli effetti negativi di questa tendenza: da ammalato, da cittadino alle prese con l'amministrazione, da utente dei trasporti e dei servizi pubblici, da persona che subisce l'inquinamento atmosferico, acustico, visivo. Ed anche da essere che vorrebbe comunicare e trova grande difficoltà a farlo in una società dove ha preso il sopravvento l'apparire. A questo processo, è vero, ha fatto riscontro l'insorgenza, ed anche l'affermazione, di diversi movimenti di specifica tutela sociale ma in posizione che, nel complesso, non è stata altrettanto centrale. Le contraddizioni che stanno maturando potrebbero dar loro grande slancio.
LA PUBBLICITÀ
«\Tell'abbandono remoto delle cose, correva lo sguardo all'insegna, come ad un amuleto che salvava. La notte, fissandola dalla finestra della caserma, mi si riscaldava il cuore e rivedevo, per incanto, le luci e le voci della città, quella vita di scompiglio e di sogni che era stata la mia vita, che era tutto il mio desiderio " 76
Oltre la realtà, c'è la trasfigurazione desiderante. Ed è in questo spazio dell'animo umano, che vuoi essere altro, che tende a situarsi la pubblicità, perché là può dare corpo alle illusioni, inscenare contaminazioni con i desiderabili dell'immaginario collettivo, colorare il mondo di piacere. Il suo "discorso" è restio a farsi proiezione del prodotto e delle sue proprietà. Preferisce, invece, creare nessi evocativi e magici, che accendono correnti di desiderio e avvolgono e trascinano con sé l'oggetto convocato. Alle volte gioca col gradevole e con l'ironico, dove fluttua il prodotto, che nondimeno rimane inconosciuto. Questa traiettoria fa della pubblicità una forma espressiva del vendibile. E diversamente dall'espressività artistica, dove il senso è all'incrocio dell'immagine denotante e delle sue potenzialità di risveglio emotivo, la pubblicità appare segnata da una comunicazione astigmatica che vela e sfuma la riconoscibilità dell'oggetto e rende, invece, spiccante il miraggio. In via di principio, la pubblicità è comunicazione/mercato autentica e non ingannevole, poiché non cela il suo stratagemma. In pratica, stando alla sua invadenza, ai modelli di vita proposti, alla funzione prevaricamente assunta sulle altre modalità di comunicazione, sta invece generando da tempo un grande eccesso dell'ingannevole sul reale.
IL CONTESTO COMUNICATIVO
La comunicazione rilevante gravita in gran parte intorno alle decisioni politiche, siano esse del Governo, del Parlamento o delle varie Amministrazioni. Se è quindi importante che la rappresentazione degli interessi risponda ad un codice di riconoscibilità, è anche indispensabile che la formulazione dell'interesse sia sintonizzata sulle regole formative della decisione, che in Italia si basano sul consenso delle parti coinvolte dall'interesse stesso. A differenza infatti di molti altri Paesi occidentali, dove l'alternanza dei partiti al governo comporta di volta in volta orientamenti divergenti negli interessi da tutelare (con criteri di preferenza/escl us ione), in Italia da tempo vige, invece, il principio di non creare lacerazioni nella società, mettendo all'angolo e lasciando del tutto incorrisposte alcune parti. Si è molto discusso sulla efficacia di questo metodo, ed anche sui forti inconvenienti che comporta. Senza voler dirimere su1 caso, sembrano però pertinenti alcune sparse osservazioni: la pratica del consenso non è un'invenzione politica, ma esprime una cultura della società italiana. Una cultura refrattaria all'esclusione. Questa cultura - di tipo solidaristi-
co - è tuttora viva nonostante la carica individualistica di cui si è parlato. La traduzione in termini politici di questo carattere della società ha naturalmente conferito un valore specifico al consenso. L'establishment politico non agisce spontaneamente nel selezionare, secondo criteri di giustizia astratta, gli interessi presenti e nel dargli tutela, ma, di norma, prende in considerazione i soli interessi che sanno rappresentarsi al suo cospetto. Se queste osservazioni hanno fondamento, se ne può legittimamente dedurre che la pratica della ricerca del consenso rimarrà una regola/fulcro nel contesto politico italiano, indipendentemente dalle formule di governo e dal quadro istituzionale. (Per inciso occorre sottolineare che la pratica dell'alternanza si è formata nelle democrazie industriali nell'Ottocento, quando la contrapposizione delle classi era molto rigida. Lattuale complessità delle società industriali ha notevolmente attenuato i cambiamenti di politica generati dall'alternanza. Inoltre la proliferazione di movimenti di base, trasversali ai partiti, od esterni ad essi, ha creato nuovi interlocutori con i quali è essenziale trovare un consenso). Di immediata comprensione è anche un altro fatto: la necessità che gli interessi esistenti, che non hanno voce, si organizzino per comunicare. 77
Nella sfera politica, per esserci, occorre essere percepiti mediante la comunicazione (non l'informazione). È questo l'unico modo per cambiare le distorsioni del metodo del consenso, e quindi la sua qualità.
LA COMUNICAZIONE POLITICA (E L'AUTOINTERESSE)
Se il consenso è la fonte del potere politico e del suo mantenimento nel tempo, coloro che lo detengono cercheranno di consolidare le basi di questo consenso e si adopereranno, se non per eliminare, almeno per depotenziare i motivi del dissenso emergente, suscettibile di minare le posizioni conseguite. Il dissenso, politicamente, è tale quando il potere politico subisce la sfida degli interessi, a comunicazione organizzata, dei quali non ha tenuto sino ad allora conto e che, per lo più, sono antagonisti con gli interessi che sta tutelando. Ed è questa, la comunicazione organizzata, la soglia della sua reazione, poiché ben difficilmente il potere si cura di interessi esistenti (di cui ha notizia) privi di propria pressione politica. Abbiamo appena accennato come il potere, di fronte a molte situazioni ad interessi multipli, regoli il suo intervento in forma mediatoria e pretenda, quindi, che le diverse parti proiettate sullo stesso ambito abbiano già modulato la loro convivenza. Questo accade 78
in tutte le situazioni in cui il potere può svolgere un ruolo arbitrale e, diciamo così, equidistante. Ma il potere, lo sappiamo, ha anche i suoi interessi concreti in ballo: sia quelli indiretti che, formatisi per stratificazioni successive, sono delle parti che. gli assicurano zone notevoli del consenso in cambio di protezione, sia quelli diretti dove il potere ha una partecipazione "proprietaria", sia pure in forme delegate. Solitamente i casi di cui parliamo configurano un conflitto tra interessi lesi della società civile ed interessi del potere/padrone del momento, in questi casi l'interesse che chiede risarcimeito è indotto a rappresentarsi non solo con la massima riconoscibilità ma anche senza remore di preventiva "accordatura" con gli interessi divergenti (che vuol combattere). Le sue possibilità di essere apprezzato sono infatti direttamente proporzionali alla nettezza ed alla completezza della raffigurazione che è capace di darsi. La sua primaria comunicazione è quindi di reclutamento per coloro che hanno subito la mortificazione dello stesso tipo d'interesse. Parallelamente dovrà manifestare abilità nell'organizzarlo e promuoverlo per farlo accogliere; È sul potere che ricade, invece, l'onere di stabilire un circuito di comunicazione/trattativa tra se stesso (gli interessi difesi) ed i nuovi interessi, per poter eventualmente mediare.
Certo, questo problema di accoglimento, per il potere, è molto spinoso. Ma non può comunque sottrarvisi. È chiaro che, per far posto al nuovo interesse, dovrà sacrificare in una certa misura i "vested interests". Se non lo farà, o lo farà in modo insufficiente, creerà insoddisfazione e diffidenza che fatalmente sfoceranno in opposizione politica. I
MEZZI D'INFORMAZIONE
Ciò che i mass-media forniscono è una miscela d'informazione e comunicazione. Essi, infatti, non si limitano a proporre notizie ricevute e ricercate. Soprattutto le selezionano, le trattano e le commentano in funzione delle rispettive convinzioni e degli assetti proprietari degli stessi media, degli interessi affini e più in generale dell'accettabilità degli interessi nel sistema sociale. La comunicazione dei mass-media pertanto è una sovracomunicazione afrattiva in quanto si esercita in larga misura su comunicazione/informazioni altrui che, di frequente, sono rielaborate e reinterpretate. E la sua diffrazione è tanto più acuta quanto più è filtrata ed alterata l'informazione o la comunicazione d'origine. Soprattutto in Italia, i mass-media usano intrecciare e fondere i fatti alle proprie valutazioni, facendo del diritto al commento una chiave di presunta illuminazione di quanto a loro per-
viene. All'opposto, il dovere di integrale palesamento dell'interesse riferito, a cui spesso si richiamano, difetta spesso di un lavoro approfondito di esplorazioni delle fonti e di ricerca incrociata dei punti di vista che, sull'argomento, possono essere espressi da altri interessi coinvolti. Sorta quale riflesso della polarizzazione ideologica e politica della società italiana nel primo dopoguerra, la pratica non è di molto variata anche quando questa contrapposizione si è via via indebolita e sgretolata fino a dar vita ad un arcipelago di posizioni differenziate. È vero che a partire dalla fine degli anni Settanta, e soprattutto nel corso degli anni Ottanta, i mass-media hanno ampliato enormemente gli spazi informativi. Ma è anche vero che, per quanto riguarda i contenuti, l'ampliamento ha riguardato soprattutto interessi a coinvolgimento e fruizione privata, sia seri che frivoli. Sono aumentate le pagine dedicate agli spettacoli, alla cultura, alla ricreatività, ecc., ma è rimasta scarsa l'evidenza data ai nuovi fenomeni di comunicazione sociale. Per giunta, quando trattati, il loro rilievo è stato di frequente smorzato o polverizzato. A fronte poi dei temi centrali della vita del Paese si è avuta - pur con alcune differenziazioni - una comunicazione molto parassitaria rispetto ai poteri forti. Una comunicazione dove la povertà degli elementi pieni è 79
stata surrogata dall'ipertrofia delle opinioni e dei commenti, dall'eccesso barocco del decor, daIl'ammucchjata spettacolare, dall'encomjo delle virtù private, dall'esasperato ricorso all'intrattenimento ed all'evento sportivo. Questa prassi di comunicazione, intensamente difrattiva, ha finito col generare in crescenti strati dell'opinione pubblica una forte diffidenza nei confronti dei mass-medja. Così, una parte crescente di pubblico, essendosi smagnetizzata rispetto alle grandi ideologie ed al successivo culto individualista, sembra ora più sensibile alle micro-ideologie sociali. Tutto questo non pare essere stato colto sufficientemente dai mass-media che - a parte limitate eccezioni - insistono ad orientare fortemente l'informazione con le loro valutazioni ed a trascurare fenomeni che mal si adattano a questa strategia. C'è da dire, infine, che il ruolo dei mass-media nel favorire o nell'ostacolare l'accoglimento degli interessi è di gran lunga minore di quel che si creda. Infatti i canali di rappresentazione efficaci - ossia importanti per la formazione decisionale - non sono giornali e tv. Questi possono concorrere alla diffusione di notizie ovvero influenzare l'opinione generale su alcuni avvenimenti, ma non sono determinanti. Possono essere luoghi dove con frequenza si esprime il potere ed altri interessi influenti, ma ciò 80
è marginale rispetto ai criteri delle decisioni.
LA POLITICA DELLA COMUNICAZIONE
Negli anni Sessanta, ed anche Settanta, ebbe grande seguito la teorizzazione di Mc Luhan del "villaggio globale", ossia della progressiva omologazione culturale delle varie regioni del mondo ad opera dei mass-media. Questa tesi, nonostante alcune forti divergenze epistemologiche su altri punti del pensiero di Mc Luhan, ebbe diffusione anche in ambito marxista, in quanto vi si ravvisava una certa coincidenza di risultato con gli indirizzi di uguaglianza di questa corrente. La teoria, ora, sembra in pronunciato declino. Infatti, all'indubbio allargamento del patrimonio comune di conoscenze ed abitudini ha fatto riscontro, presso i popoli e fra le diverse classi e comunità, una crescente voglia di trattenere alcune proprie particolarità, che oggettivamente sono distintive rispetto agli altri. Al grande anelito all'uguaglianza, che ha mosso la storia negli ultimi secoli, sembra ora aggiungersi questa aspirazione a non alienare la propria diversità. Questa esigenza, non inconciliabile con la prima, manifesta una forte pressione anche nella società italiana. Riproposta in ambito comunicativo, impone alla politica di rappresentazione degli interessi un altro importante criterio per la sua formulazione.
Pertanto, ai requisiti di riconoscibilità dell'interesse e di adattabilità dello stesso alla procedura di accoglimento (il consenso tra le parti), già menzionati, si deve aggiungere il criterio di distintività dell'interesse, tale che la rappresentazione ne rifletta l'essenza soggettiva. In altre parole non ci possono essere politiche di comunicazione standard, valide per tutti gli interessi, ma occorre saper raffigurare con strumenti e tecniche idonee la peculiarità dell'interesse. Inoltre è altrettanto indispensabile saperla rappresentare con le necessarie varianti ai diversi pubblici. Non certo per operare censure, ma solo per aumentarne la riconoscibilità in funzione delle capacità decodificative di ciascun interlocutore.
LE DERIVE DELLA COMUNICAZIONE
"In scienza la regola del gioco è di non barare né con le idee né con i fatti. È un impegno logico e morale insieme. Chi bara fallisce semplicemente il suo scopo, si assicura la propria sconfitta, si suicida' La pratica dell'individualismo diffuso, nel nostro Paese, ha origine all'inizio degli anni Settanta, quando per la prima volta sono fortemente disgregate alcune appartenenze a solidissima coesione sociale - la famiglia, la Chiesa e, in misura embrionale, i partiti - e prendono corpo innumerevoli
formazioni politiche, i cui stili di vita e forme di pensiero sono tra loro molto diversi. Con l'individualismo di gruppo irrompe, in forme spesso anarchico/libertarie, la rivendicazione dei bisogni come pretesa e sfida, al potere, di soddisfarli. Il riflusso degli anni Ottanta, parcellizza ancor più l'individualismo, sganciandolo dal gruppo, e lo vira sui consumi, sulla dolcezza del vivere e sull'autoindulgenza privata. Ma negli anni Ottanta rifluiscono anche soggetti che intendono ancora perseguire la pratica dell'impegno collettivo, pur cambiando segno alla natura dell'impegno. Si rafforzano e si moltiplicano così vari movimenti, il cui obiettivo primario è costituito da un insieme specifico e circoscritto di problemi, a forte valenza sociale, sui quali concentrano la propria azione. Individualismo parcellizzato e movimenti sociali di "scopo" sono i due fenomeni, opposti, che più hanno caratterizzato l'ultimo decennio. Pare indubbio che il primo fenomeno abbia avuto maggiore incidenza, anche se la sua visibilità, rispetto al secondo, è stata enormemente amplificata dai mass-media. Ma è anche vero che, da qualche tempo, si sta assistendo ad un rovesciamento nella loro importanza, ed all'usura del modello egoistiCO corrisponde una crescente emersione e propagazione dei movimenti sociali. 81
Non è fortuito che questo processo si stia affermando proprio in concomitanza con una montante difficoltà dei partiti a svolgere, attraverso la democrazia delegata, gli innumerevoli compiti posti da una società complessa e fortemente differenziata. In questo stiamo avvicinandoci a sistemi di democrazia avanzata, come gli Usa ed altri Paesi europei, dove la densità dei movimenti di base e la loro funzione nella società è fondamentale. Ci si deve augurare che questo processo, nei prossimi anni, possa ulteriormente svilupparsi. Infatti i pericoli di degenerazione del mercato non provengono tanto dalla sua concentrazione e dalla organizzazione efficiente che si dà, quanto dal vuoto di interessi antagonistici. Un mercato riesce ad operare degenerazioni quanto più debole, informe, priva di forze autorappresentative, è la società. Al contrario, quanto più quest'ultima sarà ricca di slanci e di capacità di rappresentare e difendere le situazioni, gli ambiti e le diverse particolarità che la costituiscono, tanto più si darà comunicazione riconoscibile, ossia comunicazione facilmente accettabile dagli altri soggetti.
CONCLUSIONI
"L'uomo dai tanti raggiri, raccontami, o Musa" Ma la comunicazione, diversamente dalle tante insidie dell'esistenza, è un rapporto che si sceglie. Per sua intima natura esige chiarezza. La si può degradare con la dissimulazione. Ma una comunicazione tradita è già morta. Nel rapporto d'amore avvizzisce i sentimenti. Nella rappresentazione d'interessi a pubblica rilevanza sono gli altri che, con buona probabilità, disvelano l'inganno. "Riempi di denaro la tua borsa", incita Jago. E certo, per una borsa, l'interesse può anche essere accolto. Ma, come tutti vedono, non si fa comunicazione e, soprattutto, si resta prigionieri della borsa e dell'inganno ordito. "O la borsa o la vita" si dice. Ed allora molti si acconciano a riempire la borsa. Fare comunicazione, ossia organizzarsi per rappresentare con chiarezza i propri interessi, è anche il solo modo per braccare il potere che fa abuso del potere. "Il potere non si può dare, si deve prendere" si afferma nel Padrino iii. È questo il compito della comunicazione.
*
82
La Pubblica Amministrazionè dalla servitù al servizio di Giorgio De Michelis'
Negli ultimi anni la questione della Pubblica Amministrazione è diventata terreno di sempre più' radicali interventi in Italia: si è insomma passati dalla elencazione ed, eventualmente, 'dalla diagnosi dei mali che la affliggono alla messa in atto di interventi legislativi, normativi ed organizzativi finalizzati al miglioramento delle sue prestazioni 2 Essi sono tutti stati finalizzati ad un radicale riorientamento dei comportamenti della Pubblica Amministrazione nella logica del servizio ai cittadini e mirano ad un miglioramento delle sue prestazioni non solo nel sénso dell'efficienza ma anche dell qualità del servizio prestato In particolare, in queste pagine prenderò spunto da due di questi interventi: la legge 241/1990 e la relazione finale della commissione di studio istituita dal Ministro della Fu'nzione Pubblica, Sabino Cassese, e presieduta da Bruno Dente su "La politica del personale nel settore pubblico" de.! febbraio 1994 3. Nella legge 241 de! 7 agosto 1990 e nelle normative ad essa seguenti, il le.gislatore ha per la prima volta 'indicato che è necessario un radicale riorientamento dei comportamenti della Pub-
blica Amministrazione in modo che questi ultimi mettano al centro i cittadini e assumano come. criterio della loro efficacia e della loro qualità la soddisfazione di questi ultimi. 'Fin dal suo titolo, "Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi", la 241 mette l'accento sui processi (sui procedimenti amministrativi, nella terminologia specifica della burocrazia di stato italiano) e i suoi aspetti caratterizzanti sono' ap punto l'attribuzione ad ogni singolo proéedimento di un responsabile e di un 'termine entro cui deve essere' completato, e la definizione dei diritti che il cittadino interessato al procedimento ha in esso (sia dei diritti attivi - presentare documenti e memorie scritte, sia dei diritti passivi - prendere visione degli atti del procedimento). Se la 24.1 non è esplicita nella caratterizzazione in termini di servizio dei procedimenti amministrativi, in quanto essa separa ruolo attivo e passivo del cittadino in essi, enfatizzando il diritto del cittadino di sapere dove è la sua pratica piuttosto che quello di avere il servizio di cui ha bisogno, la relazione
83
finale della commissione Dente scioglie ogni ambiguità sotto questo riguardo. Essa infatti afferma subito che è opportuno riconcettualizzare la "finzione primaria dell'ente pubblico da soggetto che garantisce il rispetto dei diritti (dei cittadini) ad ente che eroga servizi per soddisfare bisogni della collettività". E continua dicendo che "così facendo si passa da una concezione dell'attività come un insieme di procedimenti amministrativi, ad una che vede i differenti soggetti organizzativi come realizzatori di processi di servizio (le sottolineature sono nell'originale)". Ma la commissione Dente non si ferma qui e indica alle Pubbliche Amministrazioni la necessità di definire la loro service idea in termini di: individuazione del proprio mercato, concezione e reinvenzione dei servizi che erogano in esso, e, infine, disegno del sistema di offerta di quei servizi 4 . La relazione finale della commissione Dente scioglie qùindi, a posteriori, le ambiguità che eventualmente caratterizzavano la 241, mettendo al centro della riflessione di chi vuole migliorare le prestazioni della Pubblica Amministrazione la questione del Servizio Pubblico. Se sarà possibile portare a compimento la riflessione della commissione Dente e indirizzare la riorganizzazione della Pubblica Amministrazione in accordo ai principi da essa illustrati 5, allora potrebbe cambiare il clima di sfiducia e insoddisfazione che 84
ha segnato il rapporto tra Stato e cittadini in Italia. Indicare nell'erogazione di servizi il compito della Pubblica Amministrazione non è che il punto di partenza del lavoro che è necessario assumere per riqualificarne le prestazioni. Lungi dall'aver risolto con questa affermazione i problemi, è a partire da essa che si aprono le questioni davvero difficili, quelle che richiedono scelte politiche radicali e coraggiose 6, e che si presentano in forme contradittorie e paradossali 7. In questo articolò non voglio però entrare nel merito delle soluzioni possibili per problemi di questa natura, 8 ma piuttosto contribuire a mettere a punto una grammatica per interpretare i meccanismi che regolano i comportamenti della Pubblica Amministrazione, per capire come essa possa diventare erogatrice di servizi di varia natura, per analizzare il ruolo che gli attori possono giocare nel Servizio Pubblico, dai cittadini utenti/clienti 9 agli impiegati pubblici, dagli operatori privati al volontariato410, dal potere politico ai soggetti sociali. Mi pare opportuno, quindi, in queste pagine richiamare l'attenzione del lettore su alcune questioni teoriche che a mio avviso sono rilevanti rispetto al Servizio Pubblico: esse sono questioni di carattere generale (che cosa è servizio e che cosa non è servizio, quale è la natura del servizio, quali elementi
ne caratterizzano le prestazioni ed il valore, ...) e di carattere specifico (che cosa distingue il servizio pubblico, in che termini è possibile qualificare il suo valore, ...). Sono ben conscio che il modo in cui formulo queste questioni e abbozzo una risposta ad esse, non è neutrale rispetto alle scelte politiche su cui l'Itaha deve impegnarsi per far uscire la Pubblica Amministrazione dalla sua crisi e che esso presuppone orientamenti precisi riguardo la direzione lungo cui avviare i cambiamenti di cui essa ha bisogno. Preferisco però mantenere il discorso sulla soglia della discussione politica, sul terreno teorico analitico, perché ritengo che sia necessaria una riflessione approfondita sulle implicazioni che hanno diverse scelte politiche, sugli esiti probabili cui possono portare, sulle contraddizioni e inadeguatezze che minano molte formulazioni oggi conclamate senza riflessione, per ridare spessore allo stesso dibattito politico 11• È su questo terreno che voglio portare un contributo con questo saggio.
SERWTtJ PRODUZIONE E SERVIZIO
Che cosa accomuna e che cosa differenzia una persona che realizza lavori di maglieria a casa propria, un'altra che lavora in un ufficio postale ed il calzolaio che ripara le scarpe nel proprio negozio? Certamente tutte e tre queste persone
lavorano 12, nel senso che erogano una prestazione cui corrisponde un valore riconosciuto socialmente. Ma, per ciascuna di esse, la correlazione tra la prestazione che eroga ed il valore che viene attribuito ad essa è assai diversa, in particolare sul terreno del compenso che esse ricevono in corrispondenza del valore creato: mentre la prima riceve un corrispettivo per ogni maglia realizzata, la seconda riceve una paga prefissata giornaliera e la terza negozia il prezzo di ogni sua prestazione avendo come limite superiore il valore che la riparazione ricostituisce presso il cliente (il prezzo della riparazione in genere non può essere maggiore del prezzo di un paio di scarpe nuove) e come limite inferiore il valore che lei stessa attribuisce alla propria prestazione, in base alle risorse (tempo, materiali, macchinari, ...) che consuma compiendola (solo eccezionalmente si fanno prestazioni che non ripagano lo sforzo che richiedono). Non diversa appare la situazione se prendiamo in considerazione quelle stesse tre situazioni dal punto di vista del loro cliente. Che cosa accomuna e che cosa differenzia, infatti, chi acquista lotti di maglie da un maglificio artigiano (familiare), chi consegna una raccomandata ad un ufficio postale e chi chiede la riparazione delle proprie scarpe ad un calzolaio? In tutti e tre i casi siamo di fronte ad un cliente, ma in ciascuno dei tre casi il cliente segue criteri diversi nella attribuzione del 85
valore alla prestazione di cui è cliente: mentre nel primo caso il valore di ciò che viene acquisito dipende prevalentemente dalla sua quantità e nel terzo dalla sua qualità, nel secondo caso è addirittura difficile associare un valore alla prestazione, essendo quest'ultima erogata in regime di monopolio, ed essendo il suo prezzo definito al di fuori di qualunque meccanismo di mercato. È interessante perciò analizzare le tre situazioni presentate sopra per capire se le loro somiglianze e dissimiglianze sono correlate e come. Nel caso dell'ufficio postale, siamo in presenza di una prestazione che viene erogata secondo standard prefissati a tutti quelli che ne fanno richiesta ad un prezzo non correlato direttamente al suo costo effettivo e non riflettente il suo eventuale valore (anche, quando il costo della prestazione è superiore al prezzo a cui viene venduta, il cittadino-cliente contribuisce a pagare comunque il costo del sistema postale attraverso le tasse: possiamo pensare cioè che con le tasse il cittadino si abbona al sistema postale); la prestazione inoltre è erogata da persone che ricevono un corrispettivo in dipendenza del loro rispettare le norme (orario, mansioni, ...) che regolano il loro contratto di lavoro. L'impiegato dell'ufficio postale quindi fa ciò che deve, secondo un modello che può essere chiamato servitù: la servitù è una rela86
zione in cui il fornitore compie per il cliente una prestazione da lui dovuta, in base al ruolo che ricopre. Si ha servitù 13 quando l'acquisizione (per un tempo che può essere la vita intera nel caso dello schiavo, o un periodo più o meno lungo nel caso del lavoratore dipendente) da parte di un cliente di un potenziale di prestazione di un prestatore d'opera, che definisce il campo in cui quest'ultimo sarà tenuto a svolgere i compiti che il primo gli assegna, è separata dalla acquisizione delle prestazioni vere e proprie di cui quel potenziale lo rende capace. Per quanto l'acquisizione del potenziale venga generalmente sottoposta a verifica periodica (Fig. 1), la separazione tra acquisizione del potenziale e erogazione delle prestazioni crea le condizioni per una frattura tra il potenziale che viene acquisito e quello che sarebbe necessario per compiere le prestazioni richieste. Da una parte, è infatti possibile che il potenziale di prestazione acquisito sia inadeguato rispetto alle prestazioni che sono richieste; dall'altra, è possibile che esso sia sottoutilizzato in esse 14
Prestatore d'opera
Cliente
soddisfazione
accordo
Potenziale i
i
Fig. 1- l'acquisizione di un potenziale di prestazione
Il prestatore d'opera metterà in uso il potenziale di prestazione ceduto, ogni qualvolta gli viene richiesta una delle prestazioni di cui esso è capace. Giacchè il cliente ha già acquisito quel potenziale di prestazione, non vi è alcuna negoziazione sulla prestazione da erogare, anche se è ragionevole supporre che il cliente certifichi alla fine di essa, se quest'ultima lo ha soddisfatto o no (Fig. 2). Per quanto chi ha acquisito il potenziale di prestazione cerchi di tenere conto del livello di soddisfazione che generano le prestazioni in cui esso viene messo in uso (del loro livello di qualità), la congruenza tra qualità della prestazione e adeguatezza di quest'ultima rispetto al potenziale che il prestatore d'opera ha ceduto, è critica: è infatti possibile che il cliente e/o il prestatore d'opera assumano nella relazione comportamenti opportunistici. Solo se il potenziale di prestazione è definito in termini di responsabilità nei confronti dei clienti che beneficeranno della prestazione, è possibile evitare che la qualità delle prestazioni divenga presto inadeguata.
Cliente richiesta
Prestatore d'opera
soddisfazione Prestazione rilascio Fig. 2 - la prestazione in una relazione di servitù
La relazione di servitù trova le ragioni del suo affermarsi come modello nel fatto che con essa si viene a disporre di ciò di cui si ritiene di poter avere bisogno una volta per tutte. Nella relazione di servitù emergono due criticità: da una parte, il potenziale di prestazione acquisito può essere sottoutilizzato, dall'altra, può verificarsi che si eroghino le prestazioni che si devono erogare e non quelle che servono. Nel caso del laboratorio artigiano di maglieria, siamo in presenza di una prestazione, i cui prodotti (le maglie), se soddisfano standard prefissati, vengono ceduti a quelli che ne fanno richiesta, in dipendenza della quantità di prodotti disponibili, ad un prezzo dipendente dal loro costo effettivo. Chiamerò il modello cui essa si ispira produzione: la produzione è una relazione in cui fornitore e cliente si interfacciano attaverso il prodotto. Nella produzione, cioè, la relazione tra cliente e prestatore d'opera è indiretta: il primo acquisisce dal secondo il prodotto di una sua prestazione. Il cliente attribuisce un valore non alla prestazione ma al suo prodotto e conseguentemente il prestatore d'opera compie prestazioni standardizzate 15, senza tenere conto delle esigenze particolari dei singoli clienti che acquisteranno i suoi prodotti. Nella produzione la relazione tra cliente e fornitore assume il carattere dello scambio 16 (Fig. 3). 87
Cliente
Prestatore d'opera richiesta Prodotto rilascio
Fig. 3 - l'acquisizione di un prodotto
Anche nel caso della produzione, il prestatore d'opera compie una prestazione: ma non vi è necessariamente una correlazione tra la sua prestazione e una richiesta specifica di un cliente: la realizzazione dei prodotti e la loro consegna ai clienti a fronte di una loro richiesta sono in generale due processi autonomi. Come è evidente dallo schema di Fig. 3, nella relazione di produzione l'acquirente di un prodotto si garantisce la sua soddisfazione, se sceglie il prodotto giusto. I parametri di qualità del prodotto sono infatti definiti una volta per tutte, e non possono essere ridefiniti per ogni singolo cliente. Un cliente ha il diritto di rifiutare un prodotto da lui acquisito, non se non gli serve, ma se non corrisponde ai parametri standard di qualità associati ad esso. La relazione di produzione trova le ragioni del suo affermarsi come modello nel fatto che con essa il potenziale di prestazione trova il suo impiego ottimale: invece di attendere le richieste dei clienti, i prestatori d'opera possoED
no realizzare tutte le prestazioni di cui sono capaci quando ne sono capaci. Nella relazione di produzi6ne emergono due criticità: da una parte, si possono realizzare più prodotti di quelli di cui i clienti hanno bisogno (sovraproduzione), dall'altra, può verificarsi che i prodotti che si realizzano diventino sempre più inadeguati rispetto alle richieste dei clienti (o in termini di qualità pura e semplice, oppure in termini di rapporti qualità-prezzo). Nel caso del calzolaio, infine, siamo in presenza di una prestazione che viene erogata per rispondere ai bisogni di chi ne fa richiesta ad un prezzo correlato al valore che ad essa è assegnato da quest'ultimo, se tale prezzo è ritenuto soddisfacente dal fornitore; la prestazione è erogata dal calzolaio stesso che riceve un corrispettivo dipendente dal valore concordato con il cliente. Il calzolaio quindi fa ciò che serve ai suoi clienti secondo un modello che può essere chiamato quello del servizio: il servizio è una relazione in cui il fornitore compie una prestazione che soddisfa un cliente e quest'ultimo le riconosce un valore coerente con quello delle risorse che vi consuma il fornitore. Nel servizio la relazione tra cliente e fornitore si sviluppa attraverso quattro fasi: nella prima il cliente definisce la prestazione di cui ha bisogno ed il valore che le attribuisce (eventualmente definendo il prezzo che è disposto a
pagare per essa); nella seconda cliente e prestatore d'opera si accordano sulla prestazione da compiere, sul suo valore e sul prezzo che per essa verrà eventualmente pagato; nella terza il prestatore d'opera compie effettivamente la prestazione; nella quarta infine il cliente rende noto attraverso la sua soddisfazione il valore effettivo della prestazione erogata dal prestatore d'opera (Fig. 4) 17.
Cliente
Prestatore d'opera richiesta
soddisfazione
Valore
IL
accordo
rilascio Fig. 4 - la creazione di un valore
La relazione di servizio non è un modello di organizzazione efficace per l'acquisizione e/o per la fornitura di prestazioni, quali erano sia servitù che produzione: essa caratterizza piuttosto la modalità con cui, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga o meno in un'organizzazione, un cliente può acquisire una prestazione da un prestatore d'opera. Essa può essere considerata cioè la relazione primaria della socialità umana. Nella relazione di servizio gli esseri umani danno reci-
procamente senso alle loro azioni, coniugando azione e comunicazione. Nella relazione di servizio cliente e prestatore d'opera, conversando l'uno con l'altro, definiscono i caratteri della prestazione che il primo richiede al secondo, fissando così l'obiettivo che essa deve raggiungere, e quindi il suo valore. Il senso di una prestazione si materializza nella conversazione (o nel reticolo di conversazioni) in cui è immersa 18 A differenza di servitù e produzione, nella relazione di servizio non si definiscono caratteri standard né delle prestazioni erogate e/o da erogare, né del potenziale di prestazione predisposto. La relazione di servizio mettendo in luce la unicità di ogni prestazione, la sua irriducibile singolarità, indica anche la criticità che la minaccia: nella relazione di servizio non è possibile sviluppare economie di scala, standardizzare le attività, proceduralizzare le prestazioni, ecc. Questo ha fatto sì che al suo fianco sono emerse le relazioni di servitù e di produzione, come semplificazioni 19 che rendono controllabile il rapporto costo/valore delle pre- stazioni erogate e/o da erogare ma, contemporaneamente, ne impoveriscono il valore (riducendolo alla componente di prezzo). Come abbianio già sottolineato, se il valore di una prestazione è determinato dalla soddisfazione che da esso ricava il cliente che ne è destinatario, sia la servitù che la produzione, allontanando il presta89
tore d'opera dal cliente (nel caso della servitù, perché egli compie le prestazioni di cui ha ceduto il potenziale, non quelle che servono al cliente; nel caso della produzione, perché egli compie la prestazione che risulta in un certo prodotto, non quella che serve al cliente) riducono infatti la qualità (il valore) delle prestazioni di cui quest'ultimo è destinatario. L'emergenza delle relazioni di servitù e di produzione a fianco (più spesso al posto) di quella di servizio 20 è stata determinata dalla crescente complessità delle relazioni sociali tra gli esseri umani 21 La differenziazione sociale ha creato infatti ambiti molteplici e distintivi della nostra esperienza sociale, in cui si sono venute formando competenze (potenziali di prestazione) diverse e irriproducibili in ogni contesto, che hanno assunto valori diversificati, in dipendenza della loro scarsità a fronte delle richieste in cui esse erano necessarie. Vuoi, quindi, per la impossibilità di trovare le competenze necessarie in una sola persona, vuoi per la scarsità di competenze altamente qualificate, o per il loro costo troppo alto, le prestazioni più significative (di maggiore valore) sono diventate quelle che possono essere realizzate solo attraverso la cooperazione di più persone, che instaurano reciprocamente relazioni tra cliente e prestatore d'opera, secondo forme più o meno complesse 22• Se già, in una semplice relazione tra
cliente e prestatore d'opera, la servitù e/o la produzione possono apparire più vantaggiose in quanto semplificano, rispettivamente, la ricerca delle competenze e il loro pieno dispiegamento, tale vantaggiosità diventa decisiva quando la prestazione richiesta diventa complessa. Le relazioni di servitù e di produzione, in questo caso, aiutano a dare una forma organizzata al processo di cooperazione attraverso cui si realizza la prestazione richiesta, rendendone controllabili i tempi ed i costi. Per fare solo alcuni esempi di immediata evidenza, il rapporto di lavoro dipendente (che è una forma di servitù) semplifica e organizza l'acq'uisizione di prestazioni che contribuiscano alla realizzazione di una prestazione per un cliente, mentre la commercializzazione di prodotti (che è una forma di produzione) semplifica e organizza la vendita di prestazioni a vasti gruppi di clienti. In tutti i casi in cui la prestazione non si esaurisce in una sola relazione di servizio, possiamo parlare di processi organizzati di lavoro. Anche se gli esempi che ho fatto più sopra mostrano processi di lavoro che si articolano in relazioni dello stesso tipo (relazioni di servitù nel caso dell'ufficio postale, relazioni di produzione nel caso delle maglie - il calzolaio è invece immerso in una relazione di servizio), non è questo il caso generale. Spesso infatti si fa ricorso a ser-
vitù e servizio nella produzione (è questo ad esempio il modello organizzativo delle grandi imprese manifatturiere) e viceversa si fa ricorso a servizio e produzione nella servitù (così si organizzano ad esempio le banche e le società assicurative). Anche nelle relazioni di servizio complesse, quando è possibile, si fa ricorso a produzione (per la realizzazione di semilavorati che vengono utilizzati nel servizio) e servitù (per acquisire le risorse professionali che concorrono ad erogare il servizio) 23 È chiaro che in tutti questi casi si pone il problema se le prestazioni del processo di lavoro hanno le caratteristiche volute o meno. È cioè possibile che l'organizzazione prescelta, faccia sì che il processo di lavoro riduca un servizio a servitù, oppure, al contrario, che si realizzi una servitù per mezzo di costose relazioni di servizio 24
IL SERVIZIO E LA CREAZIONE DI VALORE
Come ho indicato anche in Fig. 4, più sopra, la relazione di servizio è una relazione di creazione di valore. Che cosa intendo, con questa affermazione? Nell'esempio del calzolaio il valore creato nella relazione di servizio era rappresentato dal prezzo che il cliente pagava per la riparazione, ma il valore di una prestazione non si esaurisce nel corrispettivo eventualmente pagato dal cliente, nè è necessario che ci sia
tale pagamento perché una prestazione crei un valore. Se consideriamo, ad esempio, l'assistenza che una persona presta gratuitamente ad un anziano, è chiaro che quella prestazione crea valore, anche se non viene pagato nessun prezzo per essa. Conviene perciò approfondire l'analisi del valore creato in una relazione di servizio, delle modalità con cui un osservatore (interno al servizio o esterno ad esso) può valutarlo, per poter declinare compiutamente le forme che esso può assumere. La relazione di servizio descritta in Fig. 4 coinvolge un cliente ed un prestatore d'opera, è quindi una relazione asimmetrica in cui i due partecipanti hanno ruoli diversi: il cliente è il beneficiario della prestazione mentre il prestatore d'opera ne è l'esecutore. Nel corso della relazione, che come abbiamo già sottolineato passa attraverso .quattro fasi, cliente e fornitore immergono la prestazione che ne è il fulcro in una conversazione che, prima, li porta all'accordo sulla prestazione da farsi, sul suo valore, e, poi - dopo la prestazione -, certifica (o meno) il valore della prestazione compiuta. La conversazione che avvolge la prestazione è quindi il luogo in cui la prestazione acquista valore: è infatti in essa che il cliente precisa la sua richiesta, e quindi la valorizza rispetto ai suoi bisogni; è in essa che il prestatore d'opera comprende la prestazione di 91
cui è richiesto ed esplicita al cliente le risorse di cui ha bisogno nel compierla; è in essa che il prestatore d'opera ricava dal cliente indicazioni sulla adeguatezza della prestazione compiuta e sulle ulteriori azioni che deve compiere per soddisfare pienamente la sua richiesta; è in essa, infine, che il cliente dichiarando, o meno, la sua soddisfazione rispetto alla prestazione compiuta sanziona socialmente il suo valore 25 La asimmetria della relazione di servizio non è però tale che essa sia una relazione tra un attivo ed un passivo: il cliente, infatti, per quanto beneficiario primario della prestazione, è comunque attivo nella relazione nel formulare la richiesta, nel mettere a disposizione del prestatore d'opera le risorse che sono di sua competenza di cui quest'ultimo ha bisogno, siano esse risorse finanziarie o meno, richiedano esse lavoro o meno, nel dichiarare la sua soddisfazione. L'attività del cliente genera quindi, nella relazione di servizio, un valore che è riconosciuto e certificato dal prestatore d'opera, o meglio, una relazione di servizio genera un valore di cui sono beneficiari sia, in via principale, il cliente, che, in via secondaria, il prestatore d'opera. I casi in cui questa seconda componente è nulla, sono casi limite, destinati al fallimento 26 Un servizio ha quindi valore sia per il cliente che per il prestatore d'opera, è un gioco a somma positiva, in cui si 92
vince o si perde insieme. Una compònente non irrilevante del valore creato in essa è spendibile solamente all'interno della relazione stessa: per questo la relazione di servizio non ha inizio e non ha fine, è un ciclo: in essa si crea valore e, sopratutto, si creano le condizioni per creare valori sempre maggiori. Se è infatti nella conversazione che avvolge la prestazione che quest'ultima acquista valore, quanto più essa si carica di esperienza comune, di comune sentire, quanto più crea un linguaggio comune, un gioco linguistico, una forma di vita 27 , in cui l'interlocuzione tra cliente e prestatore d'opera si arrichisce di senso, tanto più alto sarà il valore delle prestazioni che in essa vengono compiute. È segno, a parer mio, che si avvedono di quanto detto sopra, il fatto che uno degli obiettivi, in molte relazioni di servizio, sia del cliente che del prestatore d'opera, è quello di creare una partnership che dura nel tempo 28• È giusto, a questo punto, allargare lo sguardo alla comunità, alle comunità 29, a cui partecipano cliente e prestatore d'opera, perché i giochi linguistici, le forme di vita, trascendono le singole conversazioni che impegnano due persone, le integrano nel reticolo di conversazioni che coinvolge tutti i membri di una comunità, in cui prende forma un linguaggio, e attraverso di esso il mondo in cui quella comunità svolge la sua esistenza,
le relazioni affettive che legano i suoi membri, i ruoli che essi giocano in essa 3o Il valore che viene creato in una relazione di servizio è cioè tale di fronte alla comunità (alle comunità) a cui partecipano sia il cliente che il prestatore d'opera. Quando abbiamo detto che la dichiarazione di soddisfazione del cliente ha il carattere di una sanzione sociale 31, intendevamo appunto indicare che essa non ha un carattere privato all'interno della relazione di servizio, ma rende pubblico il valore della prestazione erogata in essa all'interno della comunità. È questa pubblicità che caratterizza il compiersi delle relazioni di servizio, che rende possibile che si trasferisca conoscenza da una relazione di servizio ad un'altra all'interno di una comunità e, quindi, che quest'ultima apprenda 32. La pubblicità del valore di una prestazione erogata in una relazione di servizio, non vuoi dire che quel valore è in qualche modo condiviso dalla comunità: il valore che si crea in una relazione di servizio è comunque locale a quella relazione, non è cioè, in quanto tale, convertibile o esportabile: la unicità e singolarità di ogni relazione tra un cliente ed un prestatore d'opera non si presta a semplici generalizzazioni. Questo sembra impedire la coniugazione di servizio e pubblico: come può darsi un servizio, che è singolare ed unico, pubblico, cioè generalizzato ad una intera popolazione Il ragionamento che ho sviluppato fi-
no ad ora mi ha condotto quindi alla rilevazione di un problema che mette in luce come le disfunzioni che caratterizzano la Pubblica Amministrazione, al di là dei caratteri patologici che spesso assumono che ci suggeriscono che una buona mistura di efficienza e rigore, di buon senso e di buona volontà, potrebbe essere sufficiente per raddrizzarne i comportamenti 3, siano in verità lo specchio di una complessità che richiede fantasia e immaginazione per ri.disegnarne i compiti, i meccanismi di funzionamento e le relazioni con la società 35.
SERVITÙ E SERVIZIO NELLA PUBBLICA AMMINISTPAZIONE
L'esempio dell'ufficio postale è stato scelto per suggerire che nelle Pubbliche Amministrazioni, ed in particolare in quella italiana, il modello prevalente è quello della servitt. Ed infatti la riduzione del servizio a procedimento amministrativo è una delle conseguenze tipiche della adozione del modello della serviti: i servizi pubblici vengono definiti da una norma, che ne caratterizza le prestazioni ed, eventualmente, il prezzo, e a tale norma devono adeguarsi i cittadini/clienti da una parte (indipendentemente se le prestazioni che si adeguano ad essa rispondono ai loro bisogni o no)., e gli impiegati/prestatori d'opera dall'altra (indipendentemente se essa orienta le loro prestazio93
ni verso le richieste dei clienti o meno). Nella servitù la negoziazione tra cliente e prestatore d'opera si trasforma in contenzioso amministrativo (la ricerca dell'incontro tra richiesta del cliente e prestazione di cui è capace il prestatore d'opera si muta nella valutazione se ciò che richiede il primo rientra nei doveri del secondo e, viceversa, se il comportamento di quest'ultimo corrisponde agli standard ad esso prefissati dalla norma) ed è frequente l'assunzione da parte dell'impiegato pubblico di un'ottica difensiva e non collaborativa rispetto al cliente (si fa quello che si è tenuti a fare, generalmente in un ottica il più restrittiva possibile, e solo quello). Naturalmente la adozione del modello della servitù che accompagna la riduzione del servizio pubblico a procedimento amministrativo, non ha ovunque gli stessi effetti negativi: da una parte, i servkzi pubblici in cui si compiono adempimenti amministrativi (ad esempio, certificazione, riscossione fiscale, ...) hanno una caratteristica normativa intrinseca nel servizio stesso, per cui, in questo caso, si tratta di garantire la soddisfazione del cliente sul piano delle modalità in cui il procedimento amministrativo si dispiega 36; dall'altra, però, i servizi pubblici in cui si garantiscono i diritti primari della persona (salute, istruzione, assistenza, ...) perdono nella servitù ogni qualità 37. Il problema quindi che la Pubbli94
ca Amministrazione (quella italiana in particolare) ha di fronte è quindi quello di riscoprire la natura di servizio delle sue prestazioni e di riorganizzarsi per rendere i suoi servizi capaci di soddisfarè i cittadini che vi fanno ricorso, non quello di ritrovare efficienza e abolire gli sprechi. La tendenza a interpretare il servizio come prodotto, implicita in molte proposte di stampo liberistico ed efficientistico, ma spesso affiorante anche in programmi che hanno a cuore la riqualificazione dello stato sociale 38, non solo non ci avvicina all'obiettivo indicato sopra, aiutandoci a riqualificare la Pubblica Amministrazione, ma tende a generare nuove tendenze distortive: aumentare il numero degli alunni per classe, ridurre il numero degli ospedali o, infine, sostituire il personale di front office (esistente o che dovrebbe esserci) con sistemi informativi automatici scarica sui cittadini che fruiscono di quei servizi la loro perdita di qualità, aumentando la distanza tra coloro che possono consentirsi di rivolgersi a strutture private alternative o possono delegare ad altri il peso dell'interazione con la Pubblica Amministrazione. Dove l'efficienza è davvero il problema (ad esempio, nella certificazione) conviene puntare alle soluzioni di self service, come insegnano le banche 39. La strada che propongo di seguire è, invece, quella che nasce dal ripensare
la Pubblica Amministrazione proprio a partire dalla relazione di servizio. Può apparire una strada inagibile, quando si ricorda che la relazione di servizio, per come la ho caratterizzata nelle pagine precedenti, è una relazione qualitativa, individuale, che non sembra consentire economie di scala, politiche di contenimento di costi, ecc., e tale sarebbe stata alcuni anni fa, ma oggi mi pare l'unica percorribile. Da una parte, i comportamenti delle persone esibiscono una riscoperta dell'individualità, una esigenza di personalizzazione, gamme di richieste differenziate, che mettono in crisi ogni tentativo di standardizzare efficientemente le risposte che si danno loro; dall'altra, la loro crescita culturale, la emergenza di forme organizzative complesse che rompono.con le semplificazioni gerarchiche, il potenziale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e della loro integrazione nei processi produttivi, rendono oggi possibile predisporre sistemi di offerta dei servizi 40 capaci di affrontare la sfida 41 . Quali sono allora i problemi che la Pubblica Amministrazione (italiana) deve affrontare per il passaggio da servitù a servizio 42 2 Si tratta di configurare processi di servizio complessi: per ognuno di essi, infatti, ci si trova di fronte a gamme assai ampie di clienti che possono formulare richieste differenziate; il servi-
zio deve essere erogato in un territorio esteso con caratteri di omogeneità, standard qualitativi, costi controllati; la soddisfazione dei clienti deve essere il parametro che guida il governo del processo, e indica le direzioni del cambiamento cui deve essere sottoposto. Questi risultati devono essere raggiunti tenendo conto che relazioni di servitù (il lavoro dipendente) e relazioni di produzione (per la realizzazione di semilavorati) saranno presenti nel processo, pur trasformandosi la relazione con il cittadino/cliente in una relazione di servizio. In primo luogo, come abbiamo già indicato nelle pagine precedenti, anche le prestazioni erogate nel quadro di una relazione di servitù, implicita nel lavoro dipendente, possono generare valore, se il potenziale di prestazione che viene ceduto/acquisito nella servitù è caratterizzato in termini di responsabilità nei confronti del cliente che è beneficiano delle prestazioni erogate 43. Da questo punto di vista, è quindi evidente che condizione necessaria per qualunque cambiamento nella Pubblica Amministrazione è la riqualificazione del personale, in termini di competenza (la responsabilità non è una virtù, è una capacità che si impara studiando e lavorando!), in' termini di organizzazione (il lavoro va spostato radicalmente dal back office al font office. non sono le cose da fare che contano ma le relazioni da mantenere), in termini di inquadramento 95
(dalle mansioni alle responsabilità verso i clienti), in termini di sviluppo (si progredisce in base alla capacità di raggiungere gli obiettivi). In secondo luogo, la trasformazione da servitù a servizio va realizzata cercando di evitare che essa provochi una incontrollabilità dei costi e delle prestazioni: per quanto il servizio è una relazione individuale e personalizzata, il servizio pubblico ha caratteri di pubblicità e di omogeneità importanti. Da una parte, è necessario che i diritti di ogni cittadino siano preservati, evitando sia che qualcuno abbia un servizio migliore di quello che gli compete sia, sopratutto, che qualcuno abbia un servizio peggiore; dall'altra, è necessario che l'attenzione a fornire servizi che creano valore non faccia dimenticare quei servizi che per la lòro semplicità, per la loro ripetitività, sembrano di minore importanza. Non si deve creare cioè una situazione in cui i malati gravi sono curati con tutta l'attenzione che meritano, ma si deve penare oltre il lecito per avere una analisi del sangue. Il servizio va cioè organizzato in modo che il cliente trovi di fronte a sè una continuità tra prestazioni standardizzate e prestazioni personalizzate. Questo può essere realizzato in modo adeguato se si usano le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, come strumento che supporti sia il cliente che il prestatore d'opera nella relazione di serviZio 44, attivando da una parte il pri96
mo nella relazione in modo che faccia da solo tutto quello che è nelle sue possiblità, e orientando il secondo verso la collaborazione con il cliente in ogni sua attività 45 . In terzo luogo, è a tutti evidente che bisogna uscire dalla logica per cui il cittadino/cliente è utente passivo della prestazione che il servizio eroga per lui. Questo è insostenibile dal punto di vista dei costi da parte della Pubblica Amministrazione, ma è anche, per tutto quanto detto sopra, inacettabile se si vuole trasformare la servitù in servizio. Come abbiamo visto in questo saggio, infatti, il servizio produce valore attraverso la partnership tra cliente e prestatore d'opera; se il cliente è passivo, il valore creato non può che essere ridotto e tende ad annullarsi. La migliore garanzia della personalizzazione delle prestazioni che un cliente riceve, è che egli stesso contribuisca in prima persona ad essa. La mobilitazione del cliente non può comunque essere attuata con tecniche coercitive, nè può investire tutti i cittadini/clienti nella stessa misura, nè può riguardare in modo omogeneo tutti i servizi pubblici. Il principio di uniformità può essere comunque esteso maggiormente se si può sostituire al cliente individuale, solo di fronte alla Pubblica Amministrazione, il cliente come membro di una comunità, di una organizzazione, che nel suo insieme rappresenti un soggetto attivo nella relazione. Questo punto
apre una prima questione che, a differenza dei primi punti elencati sopra, va al di là del buon senso che chiunque può esercitare nei confronti della Pubblica Amministrazione italiana, almeno quando ragiona seduto comodamente sulla sua poltrona: come attivare le strutture comunitarie che rompono la solitudine del cittadino/cliente nei confronti della Pubblica Amministrazione e si attivano nella realizzazione dei servizi pubblici? Da una parte infatti non è difficile trovare nella società italiana strutture con i caratteri comunitari di cui abbiamo parlato: dalla famiglia al volontariato, dal terzo settore all'impresa sociale 46 l'Italia è piena di esperienze significative di attivazione atipica del cliente nei confronti della Pubblica Amministrazione. Dall'altra, però, queste strutture sono distribuite in modo disomogeneo sul territorio nazionale e non è possibile considerarle come l'avanguardia di un processo di comunitarizzazione della fruizione dei servizi pubblici. Si tratta quindi di verificare quali sono le azioni necessarie per far superare alle esperienze comunitane l'episodicità e la casualità da cui sono oggi caratterizzate. Per questo il punto qualificante del mio ragionamento è l'ultimo, che vado ora a esporre in forme schematiche e sommarie. Molti osservatori parlano della necessità di un ritrarsi dello stato da aree
che occupa indebitamente; in questo ritrarsi altri osservatori vedono, con qualche ragione, la minaccia di uno smantellamento dello stato sociale, con una riduzione della protezione che i cittadini ricevono, indipendentemente dal loro status e dal loro reddito, e preferiscono parlare di una riforma dello stato sociale. Il dibattito su questo tema mi pare irretito e confuso dal fatto che si vuole parlare di uno stato che cambia ruolo, usando le categorie concettuali che lo caratterizza• no in quel ruolo. Lo stato che si ritrae abbandona le aree da cui si ritrae alla pura logica del mercato, oppure rimane in esse per fissarne le regole? E se è così, come fissa le regole? Chi garantisce, o meglio impone, che le regole siano rispettate? Con quali mezzi? D'altra parte, la riforma dello stato sociale come si attua? Quali competenze rimangono allo stato? In quali organi si insediano tali competenze? Sono domande legittime a cui, probabilmente, si potrebbe anche dare risposta, ma senza che sia facile attribuire alle proposte una valenza, che va al di là della connotazione politica: le proposte hanno lo stesso colore di chi le propone. A mio avviso conviene, ed è per questo che ho scritto questo saggio, fare un passo indietro e pensare al ruolo della Pubblica Amministrazione e dello stato, a partire dalle richieste che ad esso formulano i cittadini/clienti, senza tenere conto del suo ruolo istituzio97
nale attuale, delle forme che oggi ne caratterizzano l'immagine e le valenze. Se e come è possibile ridisegnare, a partire dai servizi che i cittadini/clienti si aspettano, le funzioni dello stato e della Pubblica Amministrazione nell'attuale quadro istituzionale, o se invece è necessario attuare una riforma delle istituzioni che renda possibili quei servizi 7, è questione che conviene rinviare a quando si è fatta chiarezza sul punto di partenza che ho indicato sopra. Nei processi complessi attraverso cui si possono erogare i servizi pubblici, la Pubblica Amministrazione deve in primo luogo agire come co-cliente del cittadino: deve cioè in ogni area di servizio, partecipare alla relazione ma non come prestatore d'opera, o come responsabile della prestazione, ma piuttosto affiancare il cittadino/cliente nella formulazione delle richieste, nella verifica delle adeguatezza delle prestazioni e nella sanzione sociale del loro valore. Vi è una circolo vizioso non aggirabile nel fatto che chi mette le risorse necessarie per le prestazioni da erogare sia anche responsabile delle prestazioni stesse: si potrebbe parlare di soliipsismo istituzionale. La Pubblica Amministrazione, a mio avviso, non deve ritrarsi dall'area dei servizi pubblici (se lo facesse non potrebbe neanche fissare le regole: di fronte alle richieste di servizio non si può governare con le norme!) ma deve rovesciare il suo ruolo in essa48 .
Nei vari settori di servizio, poi, in base alla loro natura, si verificherà chi si assumerà il compito di prestatore d'opera. Nelle aree in cui non è ancora possibile, o non è accettabile, che altri sostituiscano la Pubblica Amministrazione nell'organizzare e garantire l'erogazione delle prestazioni, questo dovrà essere fatto, avendo cura che sia distinto il soggetto istituzionale che agisce come cliente da quello che agisce da prestatore d'opera. In tutte le altre aree, ed è facile immaginare che non sono poche, agiranno da prestatori d'opera soggetti comunitari, come il volontariato, le imprese sociali 49 , le cooperative, ecc. Non è da escludere che anche grandi imprese private possano candidarsi a svolgere questo ruolo, purchè la Pubblica Amministrazione sappia agire da cliente intelligente, e loro sappiano compiere le prestazioni di servizio avendo cura di creare comunità e di coinvolgere in modo attivo i cittadini/clienti. Quello che conta è che invece del ritrarsi dello stato e dell'irrompere del mercato, che porterebbero a sostituire la logica della servitù ,con quella della produzione - un po come «dalla padella nelle brace" per quanto riguarda la qualità delle prestazioni e la difesa dei diritti - la Pubblica Amministrazione si reinventi come cliente dei servizi pubblici, aprendo finalmente la strada a servizi pubblici erogati in logica di servizio 50.
Questo saggio, ne sono conscio, è disomogeneo e incompleto. Da una parte è abbastanza analitico nella caratterizzazione dei modelli di relazione, nella discussione del servizio come relazione in cui si produce valore, ma è approssimativo nella analisi dei servizi pubblici, nella articolazione delle soluzioni che vengono suggerite. Dall'altra, non illustra compiutamente le categorie concettuali sulle quali si basa, rimandando ad altri testi il lettore che volesse discuterle seriamente; non sviluppa i ragionamenti sul terreno delle scienze dell'organizzazione, sul terreno dell'economia, cui pure assegna rilevanza non marginale; non si confronta seriamente con il dibattito sulla riforma della Pubblica Amministrazione e
dello Stato, che pure è ricco e vivace in Italia (questa mancanza ha comunque anche un motivo specifico: volevo dare con forza l'idea di una riflessione che ripartiva dai fenomeni senza dare niente per acquisito). Non è casuale che sia così: questo è lo stato della mia riflessione, oggi. Nè credo che essa possa fare ulteriori passi avanti da sola. Disomogeneità e incompletezza sono però anche terreni necessari per chi voglia uscire dagli schemi di pensiero che sono con-sostanziali con la Pubblica Amministrazione di oggi. Esse infatti indicano uno spazio aperto: per la riflessione, per l'esperienza, per la riscoperta della politica. Offro insomma, senza pudori, i limiti della mia riflessione per aprire spazi alla riflessione del lettore.
I Professore presso il Dipartimento di Scienze dell'Informazione dell'Università degli Studi di Milano e senior partner Rso. Questo saggio, che è largamente debitore delle ricerche che svolgo presso l'Università di Milano e della attività professionale che compio presso Rso, nasce dalla collaborazione che Rso ha iniziato nel 1993 con la scuola di design industriale Domus Academy sul terreno del design dei servizi. Le discussioni che ho avuto in questo quadro con Ezio Manzini e Emilio Genovesi di Domus Academy e con Ota De Leonardis e Diana Mauri del Dipartimento di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano, hanno largamente contribuito alla messa a punto delle idee che qui trovano una prima formulazione. La responsabilità di questo saggio è comunque solamente mia. 2 La crisi della Pubblica Amministrazione non è comunque un fenomeno italiano: per quanto forse in Italia essa assuma forme più gravi ed esasperate che in altri paesi, essa è generale sull'intero pianeta. Essa
è infitti parte di una crisi generale delle forme che lo stato moderno ha assunto in questo dopoguerra: ovunque infatti, negli stati ex-socialisti come in quelli capitalisti, pubblico è diventato sinonimo di inefficiente e/o di corrotto. L'orizzonte in cui mi pongo in queste riflessioni è quello che esclude la possibilità che una politica radicalmente liberistica (che passa attraverso una privatizzazione che riconsegna al mercato le aree di attività in cui lo stato si è progressivamente impegnato con l'allargamento del welfare) possa essere la risposta giusta alla crisi dello stato sociale. Mi sembra piuttosto interessante la strada che indicano, ad esempio, David Osborne e Ted Gaebler, che pensano a nuovi modelli che vanno al di là del liberismo e dello statalismo tradizionali: D. OSBORNE, T. GAEBLER, Reinventing Government, Addison Wesley Reading MA, 1992. Su questo libro di grande interesse ritornerò comunque più avanti. 3 Gli interventi di grande importanza non sono comunque stati solo questi: i decreti legislativi
CONCLUSIONI
02
2911993, 47011993, 54611993 sul pubblico impiego e la legge 53711993 (di accompagnamento alla finanziaria 1994) per quanto riguarda l'organizzazione della Pubblica Amministrazione sono passi di fondamentale importanza nella strada del rinnovamento, e i decreti che il Governo dovrà emanare in attuazione della 53711993 saranno decisivi per determinare l'efficacia e la profondità dei cambiamenti avviati. La 24111990 e la relazione finale della commissione Dente sono a mio avviso significativi per comprendere l'ispirazione dei cambiamenti avviati. 4
t giusto sottolineare l'influenza che ha avuto l'ori-
ginale elaborazione sulla nozione di servizio di Federico Butera, membro della commissione Dente, su1 documento in questione. Si veda a questo proposito: F. BUTERA, I paradossi del Service Management, «Sviluppo & Organizzazione» 105, 1988; id. Gli statuti comunali e provinciali, «Il Nuovo Governo Locale,, 2, 1991; id., Il nuovo ente locale come organizzazione
per la erogazione di servizi e come agenzia strategica per lo sviluppo di nodi vitali sui territorio, «La Critica Sociologica», 103, 1992. Non c'è bisogno di dire che la riflessione di Butera ha avuto un influsso non marginale sulle mie ricerche. 51 cambiamenti politici avvenuti in Italia all'inizio
del 1994 potrebbero inftti rimettere in discussione gli orientamenti su cui si sono mossi i governi Amato e Ciampi in materia di Pubblica Amministrazione, come fa pensare il marcato accento liberistico con cui si esprimono molti ministri del governo Berlusconi. 6
Penso ad esempio alla questione dei confini tra sta-
to e mercato, per cui è necessario ripensare il ruolo dell'intervento pubblico in economia e nel sociale senza più potersi affidare alla inerzia che le non scelte politiche alimentano (ed hanno alimentato per anni in Italia). 7
Come è possibile far arretrare lo stato dalle aree di
attività che aveva (indebitamente o inefficacemente) occupato in questi anni, e migliorare la qualità dei servizi che si prestano ai cittadini? Come è possibile realizzare uno stato snello, che però protegge in modo più esteso i suoi cittadini, che garantisce migliori condizioni di uguaglianza? Come vanno occupate le
mande di questo tipo, uno slogan che mi convince ancora: «Più mercato nello stato, più stato nel mer-
cato". Si veda: A. MINc, La machine égalitaire, Grasset, Paris, 1987. 8
Se talvolta ne evocherò qualcuna, se discuterò alter-
native possibili, sarà più che altro per dare degli esempi, non per formulare una politica. Quest'ultima è cosa che sta ben al di là delle ambizioni di questo saggio. 9
Chiamare i fruitori di un Servizio Pubblico utenti
è, linguisticamente, l'errore iniziale di una Pubblica Amministrazione incapace di erogare servizi. I fruitori di un Servizio Pubblico sono e vanno considerati, a mio avviso, suoi clienti. Se il senso di questa distinzione sarà chiaro al lettore alla fine della lettura di queste pagine, non le avrò scritte invano. °Come è stato osservato da moltissimi autori il terreno del Servizio Pubblico vede, in questi anni, farsi avanti numerosi attori che pubblici non sono: il volontariato e k organizzazioni private senza fini di lucro, le cooperative sociali e le imprese sociali, Si vedano ad esempio, per il caso italiano: P. EISENBERG, Associazioni e organismi del settore privato non
projìt in Europa, «Queste Istituzioni» 85-6, 1991; B.
Associazionismo e volontariato in Parlamento, ibidem; F. RIGANO, Le sovvenzioni statali all'associazionismo, ibidem; P. RANCI, Il "terzo settore": suo ruolo sociale, espansione e sviluppo, «Queste Istituzioni» 93, 1993; S. PASQUINELLI, Stato sociale e «terzo settore» in Italia, «Stato e Mercato» 38, 1993; L. Bso (progetto di), Friendly194, Anabasi, Milano CASADEI,
1994; O. DE LEONARDIS, D. MAURI, F. ROTELLI,
L'impresa sociale, Anabasi, Milano; 1994, C. RANCI A. VANOLI, Beni pubblici e virtù private, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 1994. I Non nascondo che questo passo indietro è, in me, accompagnato da una insofferenza per un dibattito politico fatto di slogan ideologici e pressapochistici, incapace di proporre soluzioni che spezzino l'inerzia che governa questo paese da anni, al di là degli orientamenti delle forze politiche e sociali. 2
Non intendo qui entrare nella discussione su che
cosa sia e che cosa non sia lavoro. Spero che ciò non generi ambiguità nella comprensione del lettore. 1311 nome di questa relazione non è scelto a caso.
aree che l'arretramento dello stato lascia provvisoria-
14
mente senza presidio? In un suo libro di alcuni anni fa Alain Mmc aveva formulato, per rispondere a do-
coli viziosi, che portano, nel primo caso, ad un peg-
100
In entrambi i casi si attivano generalmente dei cir-
giorare delle prestazioni erogate, nel secondo caso ad
una svalorizzazione del potenziale di prestazione impiegato. IS Anche nella servitù può accadere che le prestazioni si standardizzino, per mantenersi coerenti con le specifiche del potenziale di prestazione cedutq. 6 La produzione è la relazione paradigmatica dell'economia. Nelle scienze economiche, infatti, il modello base è quello del mercato come luogo in cui si scambiano prodotti con corrispettivi in denaro, e come mano invisibile dell'aggiustarsi dei prezzi. Dal punto di vista dell'economia, quando la servitù si realizza con lo scambio di un potenziale di prestazione con un compenso, siamo pur sempre nel mercato. Qui l'ottica è diversa: ci interessa infatti capire quali differenze qualitative vi sono tra servitù e produzione, e di che cosa entrambi sono astrazioni semplificatrici. Questo punto di vista ha punti di contatto non casuali con quella branca della industrial organization che va sotto il nome di teoria dei costi di transazione. Sulla teoria dei costi di transazione, si possono vedere: O. E. WILLIAMSON, Markets and Hierarchies, Free Press New York, NY 1975; 0. E. WILLIAMSON, The Economic Institutions of Capitalism, Free Press New York, NY 1985; 0. E. WILusoN, S. G. WINTER (eds.), The nature ofthefirm, Oxford University Press, New York, NY 1993. Questo ultimo volume contiene gli atti di un convegno tenutosi nel 1987 nel cinquantennale del saggio di R. H. COASE, The nature of the Jìrm, che è considerato il punto d'inizio della teoria dei costi di transazione. Il saggio di Coase può essere letto nel volume curato da Williamson e Winter. 7 Lo schema di relazione di servizio presentato in Fig. 4 è ispirato dalla interpretazione ermeneutica della pragmatica della comunicazione umana - in particolare della teoria degli atti linguistici di John Austin e John Searle - che caratterizza la prospettiva linguaggio/azione proposta da Terry Winograd e Fernando Flores negli anni Ottanta (si vedano: J. L. AusTIN, Come agire con le parole, Marietti, Torino 1974; J. R. SEARLE, Atti Linguistici, Boringhieri, Torino 1976; T. WINOGRAD, F. FLORES, Calcolatori e Conoscenza, Mondadori, Milano 1987). Esso riproduce lo Action WorkflowTh che Fernando Flores ed i suoi collaboratori hanno sviluppato per la Action Technology Inc. Si vedano su questo punto: P. G.
NOGRAD, R. FLORES, F. FLORES, The Action Workflow Approach to Workflow Management Technology. In
W. Keen, Shaping the Future: Business Design through Information Technology, Harvard Business School
72 (Available on request from Computing Department University of Lancaster, Lancaster LA1 4YR, Ux, e-mail: tom@comp.lancs.ac.uk).
Press Boston, MA 1991; R. MEDINA-MORA, T. Wi-
«Cscw 92 Proceedings of the Conference on Computer-Supported Cooperative Work» (October 31November 4, Toronto, Canada), AcM/SlccHI & SiGOis, New York, NY 1992, pp. 28 1-288; F. FLORES, Creando organizacionespara elJiauro, Dolmen Previdencia, Chile 1994. Le elaborazioni dello schema presentate in questo saggio sono invece opera mia. Per ulteriori riflessioni sulla relazione tra cliente e prestatore d'opera (fornitore), si veda anche: G. DE MICHELIS, A che gioco giochiamo: linguaggio, organizzazione, informatica, Guerini, Milano 1994. 8 La concezione del linguaggio qui accennata si discosta da quella prevalente nella linguistica moderna, per cui nel linguaggio gli esseri umani rappresentano la realtà in cui vivono: qui il linguaggio è il luogo in cui emerge la realtà in cui vivono. Su questo punto di vista, che trova le sue radici in filosofi come Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein, si possono vedere: T. WINOCRAD, F. FLORES, op. cit; G. DE MiCHELIS, op. cit. 91 diagrammi di Fig. 1,2, 3 sono infatti contrazioni del diagramma di Fig. 4, in cui una o più fasi collassano. Va sottolineato che produzione e servitù non modificano la natura profonda delle relazioni umane cui si applicano: anche se il modello di relazione attraverso cui si realizza la traduzione in prezzo del valore creato è quello della servitù o della produzione, il valore effettivamente creato è quello che si determina nella relazione di servizio di cui esso è una semplificazione. Servitù e produzione non possono mutare la natura delle relazioni umane, possono però orientare la loro osservazione a concentrarsi sulla componente di prezzo, senza badare al resto. Questa semplificazione è efficace per quanto la componente di prezzo è immagine fedele del valore creato, perché riduce il costo dell'osservazione, ma è pericolosa se il prezzo distorce la osservazione. In altre parole, servitù e produzione sono modelli efficaci se vengono adottati in modo performativo; generano distorsioni se con essi si vuole 'normare' i comportamenti. Si veda: J. BOWERS, Und.erstanding Organization Performatively. In BANNON, L. & SCHMIDT, K.
(eds.) Issues of Supporting Organizational Context in Cscw Systems - CoMIc Deliverable 1.1, 1993, pp.49-
101
L'organizzazione sociale in cui siamo immersi è ormai talmente influenzata da servitù e produzione, che il linguaggio stesso che ci offre per parlare di se stessa, declina le relazioni sociali secondo i parametri dello scambio e non secondo quelli della creazione di valore. Sulla capacità di sfuggire a questa semplificazione banalizzante, e di riscoprire il linguaggio del servizio, si gioca, a mio avviso, la partita decisiva per ripensare, tra l'altro, il Servizio Pubblico. 21 Niklas Lukmann ha analizzato con grande ricchezza i processi di differenziazione sociale. Si vedano: N. LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990; N. LUHMANN, R. DE GIORGI, Teoria della società, Angeli, Milano 1992. 22 Nei processi di lavoro complessi le relazioni di servizio hanno in genere più clienti e più prestatori d'opera. Tra gli attori del processo si determinano perciò relazioni posizionali diverse (oltre alla già studiata relazione di servizio tra cliente e prestatore d'opera, si danno anche relazioni tra clienti di uno stesso servizio, tra prestatori d'opera di uno stesso servizio e tra attori di servizi diversi mutuamente dipendenti l'uno dall'altro). Le forme che assume la cooperazione tra due o più partecipanti ad un processo di lavoro dipendono dalle relazioni posizionali che li legano. Si vedano a questo proposito: G. DE MICHELIS, op. cit.; G. DE MIcHELIs, From the analysis of cooperation within work-processes to the design of Cscw Systems, «Proceedings of the i 5th Interdisciplinary Workshop on Informatics and Psychology: Interdisciplinary approaches to system analysis and design» (Schaerding/Austria May 24 - 26, 1994), in corso di stampa. Su questo tema tornerò, brevemente, più avanti in questo saggio. 23 Servitù e produzione possono essere letti anche, rispettivamente, come internalizzazione ed esternalizzazione di prestazione, aprendo lo spazio per una interpretazione di questo modello in termini di costi di transazione (si vedano sulla teoria dei costi di transazione: O. E. WILLIAMSON, Markets and Hierarchies, op. cit.; O. E. WILLIAMSON, The Economic Institutions of Capitalism, op. cit.). La questione che il modello qui proposto apre su questo terreno è che la relazione di servizio, che non è una relazione intermedia tra servitù e produzione, ma la relazione originaria di cui queste ultime sono variazioni, non è interpretabile nello schema di Oliver Williamson. Non posso entrare nel merito in queste pagine, senza usci20
102
re dal tema che mi sono prefissato. Rimando perciò ad altra sede l'approfondimento della questione. Un primo abbozzo si può comunque trovare in: G. DE MICHELIS, A che gioco giochiamo, op. cit. 24 Si ha, ad esempio, una riduzione di un servizio a servitù, quando si riduce il valore della prestazione che nè il fulcro al prezzo pagato per acquisire il potenziale di prestazione che è stato usato in essa (ad una sua quota percentuale), senza tenere conto che la soddisfazione del cliente non è rappresentata da quel prezzo. 25 Sul valore di sanzione sociale delle dichiarazioni di soddisfazione si può vedere ancora il mio G. DE MICHELIS, A che gioco giochiamo, op. cit. 26 Se per il cliente il valore di un servizio risiede principalmente nel beneficio che gli porta la prestazione che in esso viene erogata, il prestatore d'opera ha modi diversi di valorizzazione: in primo luogo, il compenso che eventualmente gli viene pagato per la prestazione compiuta; in secondo luogo, l'esperienza che acquisisce compiendo la sua prestazione, che aumenta, potenzialmente, il valore delle sue prestazioni future; in terzo luogo, la soddisfzione che il cliente esprime, che da una parte gli dà soddisfazione (è questo, spesso, il premio che ricevono i volontari), dall'altra, per il suo carattere di sanzione sociale, valorizza le sue prestazioni sui mercato; infine, l'impegno che il cliente mette nella relazione, che gli consente di apprendere dalle sue esperienze e gli dà una misura, non falsificabile, del valore che il cliente attribuisce alla sua prestazione. Come ho detto sopra, quando una prestazione non ha, per chi la compie, alcun valore, allora la relazione di servizio di cui essa è il fulcro è minata: quale volontario continua a dare assistenza a chi non riconosce alcun valore alle sue prestazioni, e non offre la minima collaborazione? Ma vorrei aggiungere che il pagamento di un compenso da solo non basta perché una relazione di servizio sia soddisfacente per un prestatore d'opera: per quanto sia vantaggioso il compenso, un prestatore d'opera ha bisogno di valori, che non si riducono a quelli monetari. 27 Gioco linguistico e forma di vita sono categorie introdotte da Ludwig Wittgenstein. Si veda, almeno: L. WITFGENSTEIN, Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino 1967. 28 La produzione è la relazione che ha di fronte a sè il mercato, il luogo in cui il cliente trova le condizioni migliori per acquistare un prodotto, il servizio, inve-
ce, ha di fronte a sé la rete di partnership di cui il cliente per svolgere le sue attività, per vivere. Anche nella relazione di servizio, comunque, possono generarsi comportamenti opportunistici, per cui la relazione si interrompe: mentre però la continuità è l'eccezione nella produzione, essa è la norma nel servizio. I confini netti tra produzione e servizio qui delineati possono apparire astratti se si osserva la realtà in cui vivono imprese e persone. Ciò è dovuto al fatto che sempre più spesso i clienti sul mercato trovano prodotti/servizi, prodotti arricchiti da significative componenti di servizio. 29 Con comunità intendo qui la formazione sociale di cui cliente e fornitore sono insieme partecipanti: essa può essere centrata sul luogo di lavoro, sul luogo di abitazione, su un accomunamento professionale, o culturale, ecc. Il riferimento ad Adriano Olivetti implicito nel termine comunità, non è casuale. Vuole essere un invito a ritornare al suo pensiero, nel momento in cui si parla di riorientamento della Pubblica Amministrazione verso i cittadini. Si veda ad esempio: A. OuvErn, Il cammino della comunità, in: La città dell'uomo, Comunità, Milano 1959. La sottolineatura del plurale (le comunità), infine, vuole ricordare che nella società contemporanea le persone partecipano a più comunità, ciascuna delle quali caratterizza una delle sfere della loro vita. 30 Sulla dimensione sociale della esperienza umana, si veda il mio G. DE McHa1s, A che gioco giochiamo, op. cit. 31 Si veda più sopra ed anche la nota 25. 32 Vi è una relazione molto importante tra i valori che vengono creati nei mutui servizi che i partecipanti di una comunità si fanno e l'apprendimento di quella comunità: una comunità apprende in quanto i suoi partecipanti si differenziano progressivamente, ma sono capaci di cooperare in relazioni di servizio, creando insieme valore. 33 La contraddizione è nei fatti insolubile, a meno che non si rovesci il ruolo dello stato nel Servizio Pubblico: da erogatore di servizi alla popolazione, sulla base dei suoi bisogni, a garante della pubblicità (in termini di diritti dei cittadini, di qualità delle prestazioni, ecc.) dei servizi pubblici erogati da altri. Su questo tornerò più estesamente nelle prossime pagine. 34 Il fatto che le prestazioni della nostra Pubblica Amministrazione siano spesso al livello della indecenza, non significa cioè che le cause della sua crisi
siano facilmente rimovibili. Per quanto può apparire strano, è mia convinzione che è più facile cambiare radicalmente che non limitarsi a rientrare al livello della decenza, limitarsi a recuperare efficienza e rigore. I circoli viziosi di cui la nostra Pubblica Amministrazione è intessuta rendono infatti un'impresa quasi impossibile modificarne i comportamenti senza che quegli stessi circoli viziosi siano spezzati, senza, cioè, che si avvii un cambiamento radicale. 5 Come suggeriscono David Osborne e Ted Gaebler, dobbiamo reinventare la Pubblica Amministrazione, reinventare il governo. Si veda: D. OSBORNE, T. GAEBLER, op. cit. Su questo tema torneremo comunque a più riprese nelle prossime pagine. 36 Per quanto sia agli impiegati del Ministero delle Finanze che ai cittadini, sia spesso difficile considerare il processo attraverso cui i secondi pagano le tasse ed i primi le riscuotono a nome dello stato, perseguendo ove possibile gli evasori, un servizio, una riforma del sistema fiscale non può che partire da questa semplice assunzione. Senza derogare dal rigore nel pretendere il pagamento del proprio carico fiscale dal cittadino, quest'ultimo va considerato come il cliente di un servizio: è compito cioè dei prestatori d'opera di questo servizio, ad esempio, rendere quanto più semplice possibile dichiarare i propri redditi, calcolare le imposte che su di essi vanno pagate, versarle nelle casse dello stato; è loro compito fornire tempestivamente, chiaramente e precisamente tutte le informazioni che i cittadini chiedono loro sulle imposte che devono o dovrebbero pagare; è loro compito considerare ogni cittadino come un cliente, anche quando si sospetta che egli sia un evasore. Gli impiegati del Ministero delle Finanze non sono organi di repressione, ma funzionari al servizio dei cittadini. La distanza che ogni lettore può misurare tra le formulazioni riportate sopra e i concreti comportamenti della nostra Pubblica Amministrazione indica la ampiezza dello spazio in cui è ancora possibile e necessario riconvertire alla logica del servizio anche gli adempimenti amministrativi. 37 Questa distinzione è comunque non molto utile, quando il cliente non percepisce la distinzione tra queste due categorie di servizio, ma richiede insieme adempimenti e servizi alla persona. In questo caso infine il prestatore d'opera o, meglio, la organizzazione che eroga il servizio deve essere capace di creare continuità tra servizi semplici (adempimenti) e servizi a valore aggiunto (servizi alla persona). Le 103
banche più avvedute stanno affrontando questo problema in modo globale, a partire dagli spazi fisici in cui incontrano i loro clienti, le agenzie. 38 È in questo senso che possono essere lette
le differenze tra la legge 24111990 e la relazione finale della commissione Dente. Mentre la prima indica i suoi obiettivi in un recupero di trasparenza ed efficienz.a, la seconda indica espressamente la soddisfazione del cittadino/cliente come il principale parametro di qualità dei Servizi Pubblici. In casi come questi, credo, ci si trovi di fronte a programmi ispirati da intenzioni più che giuste, ma declinati in forme inadeguate.
ad alta complessità non può che dispiegarsi nella cooperazione di più persone per dare servizio, per creare valore. Produzione e servitù non ne avrebbero bisogno. 42 Le indicazioni che propongo in queste pagine pos-
sono essere considerate una riformulazione in categorie nuove delle innovazioni che Osborne e Gaebler passano in rassegna nel loro Reinventing Government D. OSBORNE, T. GAEBLER, op. cit. 43 Con questa terminologia, voglio indicare la tra-
sformazione del lavoro dipendente verso il modello professionale. Si veda a questo proposito: F. BUTERA,
Dalle occupazioni industriali alle nuove professioni,
39 Le esperienze che le banche stanno facendo in
Angeli, Milano 1987.
ogni parte del mondo, anche attraverso errori, nella predisposizione di sistemi automatici in cui i clienti possono compiere da soli operazioni più o meno
' Penso alle tecnologie che stanno emergendo nel campo del Computer Supported Cooperative Work. Si vedano a questo proposito: G. DE MICHELIS,
complesse, è di grande interesse anche per la Pubblica Amministrazione. Esse infatti indicano che per il cliente il problema non è quello di trovare risposte efficienti alle sue richieste di operazione, ma di essere
Computer Supportfor Cooperative Work, Butier Cox Foundation London, 1990; C. E. ELLIS, S. J. GIBBS, G. L. REIN, Groupware: some issues and experiences, «Comm. ACM» 34.1, 1991. 45 Si veda: G. DE MICHELIS, La qualità come soddisfa-
messo nelle condizioni di compiere quelle operazioni (con o senza l'aiuto dell'impiegato della banca) facilmente e nel momento in cui ne ha bisogno, senza doversi adeguare all'orario in cui la banca presta i suoi servizi. Il successo del Bancomat è significativo da questo punto di vista. L'automazione per il cliente, d'altra parte, crea condizioni di continuità tra servizi di diversa complessità molto interessanti. 40 Sui sistemi di offerta dei servizi, si vedano la relazione finale della commissione Dente e F. BUTERA, Il
zione del cliente. I benefici dei workJlow management systems nelle Pubbliche Amministrazioni, «Sistema Previdenza» 129-30, 1993. 46 Si veda nota 11, per alcuni riferimenti bibliografì-
ci. 47 Su questo punto concordo decisamente con lo
sperimentalismo istituzionale che Roberto Mangabeira Unger propone come asse portante del programma di una nuova sinistra. Si veda: R. M.
nuovo ente locale come organizzazione di servizi e come agenzia strategica per lo sviluppo di nodi vitali sui territorio, op. cit.
UNGER,
41 Una istruttoria analitica sui fenomeni sociali che
48 David Osborne e Ted Gaebler passano in rasse-
ho elencato non mi pare necessaria. Penso che essi siano di fronte agli occhi di tutti, nè serve qui approfondire i loro caratteri distintivi. Pur senza affrontare, d'altra parte, un altro tema di portata troppo ampia per essere liquidato in pochi accenni, vo-
gna, nel loro
glio sostenere la tesi che la complessità delle odierne società industrializzate richiede, e si riflette ne, l'emergere (sarebbe meglio dire il ri-emergere) a fian-
tive Government, Mission-Driven Government, Results-Oriented Government, Customer-Driven Go-
co di servitù e produzione della relazione di servizio, grazie alla crescente possibilità che le persone e le organizzazioni hanno di generare valore combinando prodotti standard e potenziali di prestazione caratterizzati in termini di responsabilità. In particolare, la capacità di compiere prestazioni in processi di lavoro 104
Politici, a Work in Constructive Social
Theoiy, Cambridge University Press, Cambridge UK 1987.
Reinventing Government,
(D. OSBORNE,
T. GAEBLER, op. cit,) diverse forme innovative di
Pubblica Amministrazione a cui hanno dati nomi molto efficaci. Li ricordo qui : Catalytic Government, Community-Owned Government, Competi-
vernment, Enterprising Government, Anticipatory Government, Decentralized Government, MarketOriented Government. Per ciascuna di esse alcuni esempi aiutano a figurarsi quali sono le sue caratteristiche distintive, ma nella grande maggioranza dei casi, mi pare che la chiara definizione di una relazione cliente-fornitore è alla base della sua efficacia.
49 Le imprese sociali, studiate con passione e intelli-
genza da Ota De Leonardis, Diana Mauri e Franco Rotelli, sono dal punto di vista organizzativo i soggetti pi1 promettenti per svolgere questo ruolo, perchĂŠ sembrano quelli che meno sono soggetti a principi ideologici e a meccanismi volontaristici. Si veda: O. DE LEONARDIS, D. MAURI, F. ROTELLI, op. cit.
50
Federico Butera nel suo saggio per La Critica Sociale)> (Il nuovo ente locale... op. cir.) vede, ad esempio, il Comune come organizzazione focale di una rete di imprese e enti sul territorio: è questa, mi pare, una proposta che si muove sulla stessa lunghezza d'onda del mio ragionamento e che richiederebbe una discussione approfondita.
105
Taccuino
Informatica, pubblica: ripresa degli investimenti e necessità di consenso sulle nuove regole* di Sergio Ristuccia
Il disegno istituzionale dell'Autorità per l'informatica nella pubblica amministrazione ha portato al limite la compresenza di molteplici e differenziate funzioni quali quelle di indirizzo e controllo, di sviluppo e regolazione. Rimane aperta la scommessa sul grado di compatibilità ed efficacia di tali funzioni in capo a questo organismo. È chiaro che da parte di tutti i soggetti dell'offerta che operano nell'ambito delle commesse statali di informatica, l'attenzione si sia rivolta soprattutto alla funzione di sviluppo, tanto più che la nascita dell'Autorità è coincisa con una difficile congiuntura economica, con effetti sulla situazione di finanza e tagli agli investimenti. In questo quadro l'Autorità, date le difficoltà delle imprese operanti nel settore, è stata vista come un ulteriore ostacolo allo sviluppo e alla ripresa degli investimenti per le imprese. Ora che ci sono segni di qualche positiva evoluzione è importante vedere quale delle tante "anime" l'Autorità intenda sottolineare e avvalorare. Interessante a questo proposito è il parere più volte espresso da Guido M. Rey. Il presidente si sofferma sulla capacità dell'Autorità di suggerire direttive di notevole rilievo quali quelle relative agli standard sulle interconnessioni, che permettono ai vari sistemi di dialogare tra loro; quelle concernenti il coordinamento della presenza tecnica a li-
vello europeo; quelle di stabilire gli standard di qualità per i fornitori del settore pubblico e, soprattutto di fornire pareri all'esecutivo sulle questioni di strategia industriale. L'obiettivo dell'Autorità di razionalizzare e omogeneizzare i sistemi informativi pubblici e di realizzare l'ancora incompiuta "rivoluzione informatica" che potrebbe ridisegnare l'organizzazione stessa dell'amministrazione pubblica si va progressivamente realizzando grazie anche all'atteggiamento favorevole all'informatica che esiste in generale nella pubblica amministrazione. Mi pare dunque configurata un'azione di stimolo dell'Autorità fondata sulla conoscenza e sulla regolamentazione. Le iniziative vanno prese finanziandole, si dice, con i risparmi conseguenti a una migliore utilizzazione dei sistemi informativi automatizzati nelle varie branche dello Stato. Si tratta quindi di una risposta da cogliere positivamente poiché rappresenta un modo per porsi sulla via dello sviluppo. È chiaro che il vero sviluppo è nella ripresa degli investimenti. Nessuno tra i soggetti interessati, tuttavia, può pensare tale ripresa come una semplice ripresa di spese, in un sistema di mercato all'antica. A ben vedere il fatto che l'Autorità sia nata ed entrata in funzione in un periodo di investimenti quasi nulli, potrebbe anche essere inteso come 109
un fatto "provvidenziale". Nel senso che dovrebbe aver consentito di mettere a punto le regole dei rapporti tra domanda e offerta pubblica utilizzando nel migliore dei modi il periodo di stasi delle commesse statali. L'importante è che ora tutti i soggetti che partecipano ai rapporti domanda-offerta nel settore pubblico si convincano che la nuova e necessaria fase degli investimenti si deve muovere secondo alcuni fondamentali principi che la stessa legge istitutiva dell'Autorità indica e che derivano dalla logica dell'ordinamento europeo. Cioè: Le commesse devono essere affidate attraverso gare che si debbono eseguire secondo i concetti e i metodi più avanzati della "cultura" dell'ordinamento eiropeo e che non sono mai riducibili a mere gare sul prezzo. Esiste, dunque, un problema di cultura e tecnica delle gare che le pubbliche amministrazioni committenti devono apprendere e far proprie. In questo, il ruolo dell'Autorità, come organismo di spinta della cultura della competizione, è fondamentale. Per far ciò, d'altra parte, è assolutamente necessario che il settore dell'informatica sia riportato alle regole del decreto legislativo n. 39193, senza l'aggravio di vincoli che rischiano di introdurre forti elementi di confusione in un settore in cui il legislatore aveva cercato di creare un sistema di chiarezza. Le grandi scommesse debbono sopportare l'onere del monitoraggio e della verifica dei risultati conseguiti, come garanzia del
* Già pubblicato su «Il Sole - 24 Ore» del 29 luglio 1994, con il titolo: lt di Stato: si deve investire.
110
tempestivo conseguimento dei risultati e della possibilità di correzione e di ottimizzazione in itinere delle iniziative informatiche. Il monitoraggio non è una tecnica che possa considerarsi perfettamente definita e messa a punto, ma costituisce un elemento di sicura innovazione del mercato ai fini di garanzia non solo della correttezza amministrativa, ma soprattutto della soddisfazione degli utenti finali. I miglioramenti delle tecnologie informatiche per l'automazione dell'amministrazione pubblica, devono procedere parallelamente alla capacità di riorganizzare e/o reingegnerizzate apparati e strutture. Questo andare in parallelo dipende però non soltanto dalla domanda pubblica di informatica, ma anche dalla capacità progettuale di chi soddisfa tale domanda, quindi dei fornitori. Insomma, i fornitori di informatica debbono sempre più essere in grado di intendere i problemi dell'amministrazione e far progetti in questa materia. In conclusione, si può ritenere che la ripresa del processo di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni dipenderà certo dalla volontà del Governo di attuare una ripresa degli investimenti, ma dipenderà anche dalla lucida consapevolezza di tutti i soggetti del mercato che una nuova fase è iniziata, che nuove regole devono essere applicate e che vanno condivise le linee base della politica poste in atto con l'istituzione dell'Autorità. Autorità alla quale spetta il complesso ruolo di interprete e regista di questa ripresa.
Autorità informatica e pianificazione strategica di Rosalba Cori
Il 21 luglio scorso si è tenuta a Roma, presso la Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno, una giornata di lavoro su "Pianificazione strategica e presentazione del Piano per l'informatica 1995-97" tra l'Autorità per l'informatica nella pubblica amministrazione e i Direttori Generali delle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici non economici destinatari del d.lgs.
39/93. Dall'incontro sono emersi vari aspetti. Soprattutto sembra meglio delineata la posizione dell'Autorità verso le amministrazioni pubbliche nei confronti delle quali svolge una funzione di controllo da un lato ed una funzione di coordinamento e servizio dall'altro. Il controllo consiste, principalmente, nell'espletamento dei compiti di monitoraggio e valutazione, le due ultime funzioni, invece, si estrinsecano nell'emanazione del piano delle c.d. "procedure pareri", che costituiscono un momento di servizio che l'Autorità svolge per le amministrazioni. Proprio queste "procedure pareri", sono particolarmente discusse e criticate dai fornitori che vedono limitata la propria presenza nella P.A. e ridotto il proprio ruolo. Le "procedure pareri" rappresentano, invece, per l'Autorità, uno strumento di collaborazione, coordinamento e sintesi con le singole Amministrazioni, nell'intento pri-
mario di aiutare queste ultime nella programmazione e nella realizzazione dei loro progetti. Più volte è stato introdotto, dai rappresentanti dell'Autorità, il problema dei fornitori, i quali vedono aumentare le proprie difficoltà - nella già difficile situazione di mercato - a causa del periodo di transizione che le stesse amministrazioni stanno vivendo nell'ambito dell'informatizzazione delle proprie strutture operative. Auspicata e gradita all'Autorità ed alle amministrazioni pubbliche è comunque ogni forma di aiuto, di intervento e proposta che arrivi dai fornitori, che restano tra gli interlocutori dell'Autorità, ma di cui quest'ultima non può occuparsi, considerando ora prioritari i problemi delle amministrazioni e secondari quelli dei fornitori. Soprattutto non pare gradito all'Autorità rivestire un ruolo di intermediatore o coordinatore tra amministrazioni e fornitori. Ciò che sembra molto chiara è, invece, la determinata volontà dell'Autorità a realizzare i progetti previsti nel Piano - ed in particolare la rete unitaria - seguendo esclusivamente le norme dell'U.E. e quindi, le direttive CEE sugli appalti pubblici. Questo implica un radicale superamento delle prassi contrattuali del passato, con 0vvie difficoltà quando si tratta di contratti in corso e di conflitti con interessi preesistenti. 111
Sembra comunque giunto ora, un momento cruciale per tutti: quello dell'attuazione della strategia posta in essere e decisa dall'Autorità e consacrata nel piano triennale. Un momento strategico per tutti gli attori in gioco e non soltanto per l'Authority: per le amministrazioni pubbliche che devono affermare e consolidare il ruolo di decisori della domanda pubblica e per i fornitori che devono proporsi secondo le nuove regole di mercato introdotte dall'U.E. e secondo le nuove e più consapevoli esigenze di informatizzazione delle amministrazioni pubbliche, ponendosi in modo attivo e propositivo nei confronti dell'Autorità e delle amministrazioni. Il piano rappresenta, infatti, per i produttori il presupposto per una maggiore articolazione del mercato interno, per possibili economie nella produzione di sistemi informativi, per il sostegno alla programmazione delle attività. Per la domanda pubblica, invece, costituisce un veicolo di affrancamento dalle "subordinazioni" e di liberazione di energie utili alla ideazione ed allo sviluppo di nuove applicaziòni. La presentazione del piano triennale 1995'97 rappresenta l'effettivo avvio del ciclo di pianificazione e controllo così come è stato delineato dal d.lgs. 39193. Il piano riguarda "l'insieme delle attività afferenti al campo dell'informatica e dei connessi aspetti organizzativi, delle risorse umane e Finanziarie". Esso rappresenta il risultato delle attività di rilevazione e progettazione poste in essere dalle singole Amministrazioni con il coordinamento e la supervisione dell'Autorità che ha consolidato le diverse proposte nel piano triennale della P.A.
112
Il piano triennale "consente di mettere a confronto domanda e offerta in modo ciclico, interattivo e programmato, senza determinare limiti alla capacità di innovazione e proposta, ma ponendo requisiti di qualità ed efficacia ai quali far corrispondere le iniziative". Il piano si configura quindi come un fattore primario di razionalizzazione e programmazione della domanda pubblica e come elemento in grado di contribuire alla riqualificazione dell'offerta anche nei confronti della concorrenza internazionale. Tralasciando le parti del piano concernenti l'informatica e la riforma della RA., le strutture organizzative per la gestione dell'informatica nella P.A., si illustrano tre particolari aspetti del piano per l'influenza che essi potranno avere sulla modernizzazione della RA. e sul mercato dell'information technology. la realizzazione della rete unitaria della RA;
i c.d. progetti inter-settoriali; i piani delle singole amministrazioni. 1) La rete unitaria de/La PA. La realizzazione degli obiettivi generali che il decreto 39193 ha assegnato all'Autorità, si traduce, in termini concreti in due esigenze. La prima è la rapida disponibilità di una interconnessione efficiente e generalizzata tra i sistemi della RA. che necessitano di interagire tra di loro e che si soddisfa con la realizzazione di una infrastruttura che possa garantire l'esistenza di un mezzo di comunicazione comune: è la rete per trasmissione dati vera e propria, che consentirà la creazione di una rete logica di governo del paese, in grado di soddisfare i servizi al cittadino e di ridurre i costi di gestione. La secon-
da esigenza consiste nella reale garanzia che i sistemi ai quali sia stata data - attraverso una opportuna rete - la piena possibilità di interagire, abbiano la capacità di capirsi: la soluzione di questo problema sta nell'uso sistematico di un unico standard di comunicazione. Per quanto riguarda la realizzazione della rete (o delle reti), sono a priori possibili varie soluzioni architetturali. Da ciò deriva la necessità di un'azione di selezione delle soluzioni possibili nonché di una scelta molto accurata di quella più adatta. Scelta la struttura finale che si desidera, occorre però pianifìcare molto attentamente la "migrazione" dalla situazione attuale a quella di regime. È infatti necessario che, per ciascuna amministrazione, durante la fase di transizione: - non si assumano decisioni ostative o potenzialmente conflittuali con la soluzione di regime; - non venga turbata l'attività operativa e di sviluppo. In quest'ottica, l'Autorità ha definito le linee guida, gli obiettivi, i vincoli ed il piano operativo conseguenziale. Sul piano operativo l'Autorità ha fino ad oggi iniziato diverse attività (a vari stati di avanzamento). Le principali, elencate nel piano, sono: - la raccolta dei dati sullo stato della trasmissione per i Ministeri e gli Enti pubblici non economici, ottenuta mediante questionari (in via di conclusione); - la realizzazione di un modello di simulazione che, ricevendo in input i dati di cui al punto precedente ed altre informazioni, fornirà una distribuzione del bacino di utenza, una stima dei valori di traffico sulle varie tratte della rete, etc.;
- l'analisi dei contributi offerti volontariamente dagli operatori industriali, ciascuno per il settore che più gli compete, e la loro successiva comparazione ed armonizzazione. Ciò permetterà di ottenere uno studio di fattibilirà complessivo sul quale basare l'immediata successiva definizione di un capitolato per legare e da cui scaturirà la decisione sulla costituzione della rete. In attesa di effettuare gli studi necessari per arrivare a definire l'architettura della rete della RA., è stata avviata una iniziativa di interconnessione di tre amministrazioni: Ministero delle Finanze, INPS e INAIL, da realizzare subito. Lo studio condotto ha portato ad individuare una infrastruttura tecnologica in grado di trattare la trasmissione dei dati e delle immagini con i necessari criteri di tempestività e di affidabilità. Nella realizzazione della rete integrata delle tre amministrazioni citate si terrà ovviamente conto della necessità di doverla interconnettere sulla futura rete della RA. 2) I progetti inter-settoriali I progetti inter-setroriali si configurano come progetti di grande valenza, riguardanti tematiche generali e destinati alla realizzazione di sistemi ad ampio spettro di utilizzo. Il piano, realizzando una visione unitaria sull'insieme della PA., ha coordinato gli interventi in modo tale da configurare una sorta di "rete di aziende" ((in cui.ogni amministrazione rappresenta un elemento fortemente interrelato e interconnesso agli altri, tanto da consentire in prospettiva, al "cliente" del sistema dei servizi (cittadino, impresa, etc.), un punto di contatto unico per ciascun servizio o prestazione». 113
In questo modo si pone un freno alla frammentazione dei procedimenti esercitati e nell'acquisizione dei dati, nonché alla tendenza a supplire a tale mancanza di coordinamento e integrazione tra le amministrazioni, con richieste multiple di informazione al cittadino e alle imprese. I progetti inter-settoriali sono costituiti dall'insieme delle proposte di nuove iniziative che sono caratterizzate da concretezza di obiettivi e possibilità di immediata operatività. Tali progetti rappresentano un primo risultato verso una visione unitaria del sistema informativo della RA., costituendo un primo sforzo di intraprendere attività specifiche volte a questo obiettivo in maniera coordinata e finalizzata. Gli obiettivi dei progetti intersettoriali vengono sintetizzati nel piano in: - interconnessione fisica e logica dei sistemi delle RA.; - integrazione di basi informative e integrazione di procedure applicative che automatizzano processi inter-Amministrazioni generalizzati; - riuso di sistemi (e di loro componenti) relativi a processi presenti in maniera analoga in tutte le amministrazioni; - valorizzazione, in un'ottica di diffusione, di progetti ad alto contenuto innovativo e sperimentale, sia dal punto di vista funzionale che dal punto di vista tecnologico. In questa direzione vanno gli 11 progetti inter-settoriali che sono elencati nel piano: - rete unitaria della RA.; - formazione del personale; - sistema di controllo dei costi di gestione; - sportello informativo; - sistemi geografici; - sistema integrato Catasto-Comuni; - mandato elettronico di pagamento; 114
- trasferimento informazioni tra le amministrazioni; - strumenti di supporto alla gestione dello sviluppo informatico; - protocollo, archiviazione, distribuzione documenti; - sicurezza. I progetti relativi alla rete, agli strumenti di supporto, alla gestione dello sviluppo informatico, al mandato elettronico di pagamento e alla base dati immobiliare (Catasto-Comuni), prevedono nel triennio il completo ciclo di sviluppo fino alla realizzazione fisica dei prodotti, unitamente al progetto di formazione che comprende l'erogazione dei vari moduli previsti. Gli altri progetti prevedono solo l'effettuazione nel 1995 di uno studio di fattibilità unitario e la realizzazione di un prototipo o comunque di alcune componenti sperimentali. Sulla base delle risultanze di questa attività si avranno negli anni seguenti specifici progetti realizzativi di singole amministrazioni o di gruppi di esse. 3) I Piani delle amministrazioni I nuovi progetti presentati dalle amministrazioni all'Autorità sono 274 (su un totale di circa 350 presentati) e determinano una previsione di spesa che ammonta, nel triennio, a 6.424.188 milioni. Per assicurarsi il più preciso allineamento delle risorse finanziarie all'effettivo sviluppo dei nuovi progetti, l'Autorità ha proposto finanziamenti di nuove iniziative vincolandole alla presentazione dello studio difattibilità. In generale è percentualmente modesto l'impegno di risorse per progetti esplicitamente finalizzati all'automazione delle funzioni di auto-organizzazione (ossia le funzioni di gestione del protocollo e archivio,
dei beni mobili, magazzino ed economato, di contabilità e bilancio, del patrimonio immobiliare, del personale e dell'organizzazione, del procedimento e delle pratiche). I finanziamenti previsti riconducibili a questa specie, ammontano al 6% del totale. La maggior parte della spesa si concentra, invece, sulla automazione della contabilità (anche in conseguenza delle nuove disposizioni e del crescente bisogno di dare avvio a forme di controllo sulla gestione) e soprattutto sull'automazione delle funzioni di gestione del protocollo, archivi e documenti. Tutto ciò rafforza la tendenza verso l'avvio di progetti coordinati che consentano economie di scala e standardizzazione delle funzioni esercitate. Vale sottolineare come raramente si è riscontrata l'intenzione di finalizzare questi interventi alla costruzione di una rete di informazioni utili per fornire una descrizione completa ed integrata delle attività delle amministrazioni e del modo in cui esse gestiscono le proprie risorse. Un segno della non piena maturazione di una cultura che veda l'introduzione dell'informatica come elemento di un intervento di revisione dell'organizzazione (e dei suoi strumenti: procedimenti, regole, risorse, etc.) è infatti chiaramente espresso dal fatto che la spesa per progetti a prevalente carattere tecnologico, per il 1995, è pari al 16% circa della spesa totale. La presentazione del piano triennale quale strumento di pianificazione strategica, costituisce dunque il punto di partenza per la realizzazione di un duplice obiettivo: l'utilizzazione dell'informatica come essenziale strumento di riorganizzazione della pubblica amministrazione da un lato e la "regola-
zione" del mercato di informatica pubblica dall'altro. Mentre quest'ultimo obiettivo pare realizzabile, poiché la pianificazione favorisce il confronto e la programmazione tra domanda e offerta pubblica di "informatica", il primo sembra aver subito una battuta d'arresto. La legge n. 537193 forniva al Governo un'ampia delega per procedere - entro il settembre 1994 - alla semplificazione delle procedure ed alla riorganizzazione dell'amministrazione pubblica; riorganizzazione che l'attuale Governo ha fatto invece slittare, con un disegno di legge, alla fine del 1995. Il rinvio di più di un anno entro cui realizzare il riordino dello Stato riconduce al vecchio problema di realizzare tale riorganizzazione con singoli atti per singole amministrazioni nell'impossibilità di seguire, dunque, un disegno unitario ed una razionalizzazione delle strutture, tutto ciò implicando un inevitabile aumento dei costi. La legge 537 prevede anche la delega per istituire le Autorities dei servizi pubblici: rinviare l'esercizio della delega su di esse significa rinviare le privatizzazioni nei settori di pubblica utilità. Ma ciò che è più grave ai fini della realizzazione del collegamento tra informatica e modernizzazione della pubblica amministrazione, è che sono stati bloccati anche i regolamenti di semplificazione di alcuni procedimenti amministrativi (come, ad esempio, quello di semplificazione per il riconoscimento delle persone giuridiche private e l'approvazione dell'ottava diretta U.E. in materia di documenti contabili), che rappresentano invece un fondamentale mezzo di semplificazione dell'organizzazione amministrativa. 115
Ă&#x2C6; palese, dunque, come se non si procederĂ secondo un disegno generale di riorganizzazione, ogni singola struttura andrĂ per proprio conto con riflessi significativi sull'utilizzazione delle tecnologie dell'informazione
116
e sulla realizzazione della rete unitaria della pubblica amministrazione, perdendo ancora una volta l'occasione per far procedere insieme informatizzazione ed ammodernamento della pubblica amministrazione.
Un ostacolo sulla via della riforma degli enti nonpro fit * di Sergio Ristuccia, Andrea Zoppini
Un ostacolo davvero inatteso rallenta il processo di riforma di associazioni e fondazioni: il Consiglio di Stato ha infatti reso parere negativo (95194, adunanza generale del 13 aprile 1994) sullo "schema di regolamento per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private", presentato a suo tempo dal ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese, su delega della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (si veda «Il Sole - 24 Ore» del 1° febbraio '94). Non è noto l'orientamento del nuovo ministro Giuliano Urbani, ma sarebbe un peccato che la vicenda si chiudesse così. Le ragioni e le esigenze che sono alla base della riforma possono sintetizzarsi nel fatto che il ruolo delle associazioni e delle fondazioni nell'attuale contesto sociale è progressivamente cresciuto sino a sovvertire la concezione che del fenomeno il legislatore del 1942 aveva fatto propria e che giustificava il controllo tutorio affidato alla pubblica amministrazione. Infatti, come alla cultura illuminista gli enti intermedi apparivano un intralcio alla mano invisibile del mercato nascente, perla cultura corporativa e statualista essi rappresentavano un momento dell'organizzazione dei privati in potenziale conflitto con la mano visibile dello Stato. È una singolare combinazione di motivazioni che è stata opposta, molto spesso per iner-
zia, alla riforma dell'orientamento di associazioni e fondazioni. Che questa concezione sia ormai del tutto tramontata lo testimoniano, oltre alla convinta istanza pluralistica della nostra carta costituzionale, alcuni tra i più recenti interventi legislativi. Si pensi, fra tutti, alle leggi che disciplinano le associazioni di volontanato o quelle ambientalistiche. La riscoperta e l'attenzione per gli enti che, mutuando la terminologia del giurista angb-americano, sono detti nonprofitè un dato che non riguarda solo il nostro ordinamento, ma che possiamo riscontrare - oltre che là dove la tradizione pluralista è più forte e consolidata, come negli Stati Uniti, o dove il fenomeno delle organizzazioni intermedie ha un radicamento storico più marcato, come in Germania - anche in quelli che condividono una tradizione più simile a quella italiana, quali l'ordinamento francese e spagnolo. Così come riguarda paesi in questi anni acquisiti alla democrazia: è il caso significativo della recente legge polacca sulle fondazioni. Rispetto alla complessità delle suggestioni e dei problemi che i modelli stranieri propongono (ma che il formalismo del Consiglio di Stato non consente di apprezzare; perché a esso tali argomenti paiono "metagiuridici") le soluzioni che il progetto Cassese ha sposato sono quelle da più tempo maturate 117
nella dottrina privatistica. Infatti, il testo del progetto sintetizza e accoglie i punti intorno ai quali si è coagulato un consenso quasi unanime. Prevedere anche per le associazioni e per le fondazioni il riconoscimento normativo cioè, così come per le società di capitali, l'omologazione affidata all'autorità giudiziaria — appare infatti non solo una scelta adeguata all'attuale sviluppo del fenomeno, ma soprattutto coerente con il venir meno delle ragioni prettamente politiche che alla personificazione accompagnavano il controllo della burocrazia statale. Anche l'abolizione dell'autorizzazione agli acquisti, sostituita dalla "comunicazione" dell'autorità giudiziaria, rappresenta un'opzione su cui converge sostanzialmente l'unanimità del consenso. Essa, infatti, è sembrata un "fossile giuridico", tanto appare antiquato il regime della circolazione della ricchezza che mira a controllare, visto che gli scambi mobiliari sono esclusi dalla sua sfera di applicazione. La norma ha destato, altresì, il sospetto dell'incostituzionalità per il difforme trattamento garantito alle associazioni che esistono indipendentemente dal riconoscimento; e, d'altro canto, una tutela degli scambi potrebbe realizzarsi in modo più efficace introducendo un sistema di pubblicità contabile per gli enti non societari. Un carattere di maggiore novità può, semmai, riconoscersi alla norma che chiede "che sia documentata la consistenza di un patrimonio adeguato alla realizzazione dello scopo" e che, in tal modo, pone sull'ente l'onere di dimostrare l'adeguatezza del patrimonio in relazione all'attività che effettivamente s'intende svolgere. Una soluzione, questa, che conforta la tesi della responsa118
bilità degli amministratori della persona giuridica a fianco del patrimonio sociale nel caso di manifesta sottocapitalizzazione, secondo la proposta interpretativa che per le società di capitali è stata avanzata da voci autorevoli della dottrina commercialistica. È dunque del tutto sorprendente il reciso parere del Consiglio di Stato sulla sostanza del regolamento. Non si intende perché, una volta sollevate obiezioni fondate sul procedimento di formazione delle norme (e in particolare denunciato l'eccesso di delega), il Consiglio di Stato non abbia voluto lasciare impregiudicata la sostanza della proposta. Sono proprio queste ultime argomentazioni quelle che appaiono, oltre che meno convincenti nei presupposti e nello svolgimento, foriere di fraintendimenti, se non addirittura di un secco arretramento rispetto a posizioni che parevano ormai consolidate. Il parere verte su due ordini di argomentazioni: il primo attiene alla difesa dell'opportunità e dellefficacia delle norme oggi in vigore. In questo senso la dimostrazione della costituzionalità del controllo amministrativo è affidata all'argomento per cui le norme che attualmente regolano il riconoscimento sono state immuni da censure del giudice delle leggi; è, tuttavia, evidente che meglio sarebbe stato apprezzare comparativamente quale, tra il sistema normativo e quello concessorio, sia quello più coerente con i principi costituzionali e più adatto a promuovere il pluralismo sociale. Analogamente l'esigenza di mantenere in vita l'autorizzazione agli acquisti è ribadita proponendo argomentazioni care alla dottrina £siocratica, quali il timore della "manomorta", ma che ignorano del tutto la realtà economica contemporanea. Infatti, la più re-
cente dottrina ha messo in luce il ruolo economico degli enti che pure non realizzano un lucro individuale. Vengono addirittura prospettate ragioni che per il vero ci paiono fantasiose, quali il'rischio che gli enti senza scopo di lucro possano essere utilizzati come strumenti del riciclaggio: Nessuna seria considerazione è, invece, rivolta al fatto che la dottrina da tempo ha denunciato la pletoricità e la scarsa (se non inesistente) efficacia di questi contrcilli, nonché al fatto che essi non sono immuni dalla vischiosità che caratterizza la burocrazia italiana. Il secondo ordine di argomentazioni è incentrato sul punto che al mutare dell'organo preposto al riconoscimento muta la "sostanza" del riconoscimento stesso, in quanto diversi si dicono essere gli interessi protetti. Ma è proprio questa "sostanza" che deve essere chiarita. Quale è il ruolo che al riconoscimento affidato alla pubblica amministrazione deve assegnarsi nell'attuale sistema costituzionale e nell'attuale contesto sociale? Un apprezzamento discrezionale dello scopo - inteso in termini di opportunità e/o di utilità sociale - appare 'del tutto inconciliabile con i valori costituzio-
nali che tutelano la libertà associativa indipendentemente dai fini che s'intendono realizzare e la libertà dell'iniziativa economica, entro il limite del sacrificio dll'utilità sociale. In questa prospettiva, infatti, sarebbe contraddittorio assegnare alla "personificazione" un ruolo ulteriore rispetto a quello di valutare, insieme alla liceità dello scopo, la congruità del patrimonio, onde evitare che la limitazione della responsabilità dell'ente significhi il pregiudizio dei creditori. Dobbiamo pensare che, dietro all'esigenza sottolineata di vagliare la sufficienza del patrimonio (esigenza che la proposta di regolamento aveva tutt'altro che negletto semmai rafforzato) ci sia la gelosia del giudice amministrativo che non, vuole affrancare dal proprio controllo una provincia di sua competenza? In ogni caso, che dal parere traspaia una scarsa sensibilità pluralista è il meno che si possa dire. Alla sensibilità di un liberale come il ministro Urbani sta ora decidere se lasciar perdere o se, magari imboccando con decisione la via legislativa, la riforma di associazione e fondazione non debba essere rapidamente portata avanti.
* Già pubblicato con il titolo: Liberismo rinviato per gli enti non-profit, su «Il Sole - 24 Ore» del 10 agosto 1994. 119
Notizia da APE Associazione Pubblica Efficienza
(Biblioteca CNEL - 14 marzo 1994)
L'apertura di una dialettica esplicita dentro i corpi burocratici, tra forze del rinnovamento e forze della conservazione, corrisponde solo in parte alle linee di demarcazione tra ammodernamento e mantenimento dei livelli attuali di amministrazione dell'interesse pubblico. Il necessario cambiamento avviato con la Legge delega n. 421 del 1992, proseguito con la legge n. 537 del 1993, fino ad arrivare al d.l. 29 del 1993, vede nella dirigenza pubblica l'attore principale, portante, dell'intera manovra di miglioramento dell'azione dei pubblici poteri. Valutazione e approfondimento dei singoli "pezzi" di riforma e delle loro interconnessioni sono stati i temi trattati nel seminario
120
su "L'Amministrazione centrale dello Stato tra tentativi di conservazione ed ipotesi di trasformazione". Fra gli altri sono intervenuti: Guido Cecora, Silvano Topi, Sebastiano Piana, Ernesto D'Albergo, Luigi Fiorentino ed Antonio Zucaro. Il giorno 30 maggio 1994 è stato presentato il programma dell'attività per il 1994 e lo statuto dell'Associazione. In tale occasione si è svolto un dibattito sul ruolo e le funzioni che la dirigenza pubblica è chiamata a svolgere nella attuale fase di trasformazione delle strutture amministrative e dei mutamenti istituzionali dei vari soggetti operanti nel "sistema" dell'amministrazione.
democrazia e diritto
trimestrale del centro di studi .e di iniziative per la riforma dello stato
1/94 DESTRE IL TEMA Storie e culture di destra Pasquale Serra, Destra efascismo. Impostazione del problema Zeev Sternhell, Le due dest're Michela Nacci, Il passato come modello. Spunti sul tradizionalismo Roberto Chiarini, Il Msi: ilproblema storico di una destraillegittima Piero Ignazi, Da Almirante a Fini: è evitabile una Bad Godesberg? Gioyanni Tassani, La nuova destra Franco Ferraresi, La parabola della destra radicale Valerio Marchi, Gioventù territorio rancore: il modello bonehead Isidoro Davide Mortellaro, Neopoplulismo di fine secolo: il caso italiano Fabio Giovannini, Il verde e il nero Enrico Scoditti, In occasione di Ugo Spirito LA QUESTIONE Storici e fascismo Tito Perlini, Nolte e Del Noce di fronte al fascismo Dino Cofrancesco, Per una introduzione critica alla tesi di Mosse Antonio Costa Pinto, Zeev Sternhell: la revisione anti materialista del marxismo nelle origini delfascismo Leonardo Rapone, Gregor: la razionalità del fascismo Paola Di Cori, Donne di destra: approcci storiografici del femminismo Angelo d'Orsi, Renzo De Felice: gli "scherzi "della biografia IL DIBAITITO Pietro Barcellona, Il vento di destra e le ragioni della sinistra Marco Tarchi, Destra e sinistra: due assenze introvabili IL SAGGIO Franco Cassano, Pier Paolo Pasolini: ossi moro di una vita ARGOMENTI Elio Testoni, La costituzione illegale del monopolio della Fininvest e le protezioni governative Lorella Cedroni, Il linguaggio "politico "della Lega L. 20.000 - abb. 1994 L. 74.000 - c.c.p. 00325803 - Edizioni Scientifiche Italiane, via Chiaramonte 7, 80121 Napoli, tel. (081) 765443
Alessandro Silj
Malpaese CriminalitĂ , corruzione e politica nell'Italia della prima Repubblica 1943-1994
DONZELLI EDITORE
Maria Rosaria Ferrarese
Diritto e mercato Il caso degli Stati Uniti
qmeste Istituzioni La rivista Queste Istituzioni fin dal I972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggidunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. —I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico: L'<Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. è stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers.
Ø -
È stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può'chiedere una copia in omaggio alla redazione.
La collana Maggio11 - Queste Istituzioni La societĂ QUES.I.RE. sri, editrice di Queste Istituzioni, ha da qualche anno avviato un progetto ambizioso che oggi vede finalmente raggiunti gli obiettivi inizia : li. Nel 1992, in collaborazione con Maggioli editore, sono stati pub blicati tre v o lumi collegati ai temi solitamente trattati sulle pagine della rivista. Sono i primi titoli di una collana mirata a trasferire nel settore pubblico le motivazioni e le esperienze che nel settore privato vengono definite cultura dell'innovazione. volumi giĂ pubblicati: Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Siof Management: quale scuola per una rpofessione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 volumi in corso di pubblicazione: Advisory Commission on Intergovernmental Relations Come organizzare le economie pubbliche locali
Gentile Lettore, se il nostro impegno editoriale è di Suo gradimento, Lei potrà rinnovare l'abbonamento alla rivista o sottoscriverne uno nuovo utilizzando la cedola con le condizioni a Lei riservate, e potrà chiedere le cedole di prenotazione per i volumi. Le chiediamo ancora di indicarci i nominativi di persone interessate ai temi e ai problemi sui quali lavoriamo, e Le porgiamo i nostri più cordiali saluti. Queste Istituzioni
E E E
Sottoscrivo un abbonamento a Queste Istituzioni Abbonamento sostenitore annuale per il 1994 L. 200.000 Abbonamento annuale per il 1994 L.75.000
NOME ................................................ COGNOME ........................................... ENTE/SOCIETÀ ................................................................................................... FUNZIONE/ATTIVITÀ ....................... . INDIRIZZO ...................................................................'. cp .......................... CITTÀ ........................ ....................................... :. PROV.................................... TEL. .............. . .............. . ........................... FAX ..................................................
E
Vi prego di inviarmi le cedole di prenotazione dei volumi pubblicati/in corso di pubblicazione.
E
Desidero segnalare i nominativi di persone interessate a conoscere la vostra attività editoriale (utilizzare lo schema qui riprodotto per fornirci le informazioni)
NOME ..................... .... ........................ COGNOME ........................................... ENTE/SOCIETÀ ................................................................................................ FUNZIONE/ATTIVITÀ ..................................................................................... INDIRIZZO .................................................................... CAP .......................... CITTÀ ............ . .................................................. . PROV. .................... ................ TEL. ....................... . ................................ FAX ...................................................
Spedire in busta chiusa a QUES.I.RE. sri Queste Istituzioni Ricerche Via Ennio Quirino Visconti, 8 - 00193 ROMA, op. via fax al n. 0613215283
Librerie presso le quali è in vendita la rivista Ancona Libreria Fagnani Ideale
Lecce Libreria Milella
Ravenna Cooperativa Libreria Rinascita
S. Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) Libreria Multieditoriale
Lucca Centro di Documentazione
Roma Libreria Feltrinelli (V. Babuino) Libreria Feltrinelli (VE Orlando) Libreria GE.PA . 82 Libreria Mondoperaio Libreria Rinascita
Massa Libreria Vortus
Bari Libreria Laterza e La,iosa
Milano Cooperativa Libraria Popolare Libreria Feltrinelli Manzoni
Bergamo Libreria Rinascita Bologna. Libreria Feltrinelli Catania Libreria La Cultura Chieti Libreria De Luca Cuneo Libreria Moderna Firenze Libreria Alfani Libreria Feltrinelli Libreria Marzocco Genova Libreria Athena
.
Napoli Libreria M. Giuda Libreria Marotta Libreria Int.le Treves Padova Libreria Feltrinelli Palermo Libreria Dante Libreria Flaccovio Parma Libreria Feltrinelli
Sassari Libreria Pirola-Maggioli Libreria Universitaria Venditti Avola (Siracusa) Libreria Edit. Urso Torino Campus Libri Libreria Feltrinelli Trieste Libreria Tergeste Udine Cartolibreria Universitas
Pisa Libreria Feltrinelli
Urbino Libreria ÂŤLa Goliardica,.
Pordenone Libreria Minerva
Venezia-Mestre Libreria Don Chisciotte
CONCESSIONARIA PERLA PUBBLICITÀ SYNKROS VENTURE MANAGEMENT Sri - Tel. 0613213959 Le inserzioni a pagamento sono pubblicate su pagine patinare, inserite al centro dei flhscicolo. QUOTE DI ABBONAMENTO 1994 (IVA inclusa) Abbonamento annuale (4 numeri) L. 75.000 Abbonamento per studenti 50% di sconto Abbonamento per l'estero L. 110.000 Abbonamento sostenitore L. 200.000 Condizioni di abbonamento L'abbonamento si acquisisce tramite versamento anticipato sui c/c postale n. 24619009 intestato a «QUES.I.RE. sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE». Si prega di indicare chiaramente nome e indirizzo del versante, nonché la causale del versamento.. L'abbonamento decorre dal 1° gennaio ai 31 dicembre e, se effettuato nel corso dell'anno, dà diritto ai fascicoli arretrati. L'abbonamento è continuativo salvo facoltà di disdetta da esercitarsi a mezzo lettera, entro il mese di novembre di ciascun anno con effetto dal l gennaio successivo: la semplice reiezione dei fascicoli non può essere considerata come disdetta, così come il mancato pagamento per il rinnovo entro il 31 dicembre di ciascun anno. I fascicoli non ricevuti devono essere richiesti entro 3 mesi dalla data di pubblicazione. Trascorso tale termine verranno spediti, in quanto disponibili, contro rimessa dell'importo pii le spese postali. In caso di cambio di indirizzo allegare un talloncino di spedizione. IVA, FATTURE E MEZZI DI PAGAMENTO DIVERSI DAL CONTO CORRENTE POSTALE L'IVA è assolta dall'editore ai sensi dell'art. 74 lett. c) del d.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modificazioni nonché ai sensi del d.m. 29.12.1989. Non si rilasciano quindi fatture (art. 1 e. 50 d.m. 29.12.89). per questo si consiglia l'utilizzo del dc postale la cui matrice è valida come attestato a tutti i finicontabili e fiscali. Qualora si desideri eccezionalmente acquisire l'abbonamento o singoli fascicolo tramite assegno bancario o circolare spedire direttamente al nostro indirizzo: QUES.I.RE. sri Via Ennio Quirino Visconti, 8- 00193 Roma. N.B.: Per qualsiasi comunicazione si prega di allegare il tallonci no-i ndi rizzo utilizzatoper la spedizione
L. 20.000 Via Ennio Quirino Visconti, 8 - (scala Visconti, mt. 5-6) - 00193 Roma