N.6| DICEMBRE 2023
BIRRA NOSTRA
MAGAZINE
NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
Editoriale
DIECI
di questi anni!
MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra
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uello che siamo diventati lo dobbiamo soprattutto ai nostri lettori! E così, in quello che è il numero conclusivo del nostro primo decennio nel mondo dell’editoria, abbiamo deciso di festeggiare ritrovandoci con i nostri collaboratori con lo scopo di preparare un regalo per voi: un numero speciale che fosse il risultato di un piccolo think tank che invece di occuparsi di problemi di natura economica, politica o sociale si impegnasse in quello che meglio sappiamo fare: parlare e scrivere di birra! Il risultato è il numero che vi trovate tra le mani che, come al solito, mette insieme le nostre competenze ma soprattutto la forza del confronto e delle professionalità di chi, tra le altre cose, studia,
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scrive e si occupa di birra da molto più di dieci anni. La sintesi della giornata trascorsa insieme è tra queste pagine e raccoglie i momenti più significativi dello stare insieme e dell’importanza del confronto e della condivisione delle conoscenze e del sapere. La copertina invece è un omaggio al nostro primo numero, rivista e trasformata alla luce dei cambiamenti che i dieci anni trascorsi hanno inevitabilmente portato con sé. È insomma come noi: più matura, più consapevole e vogliamo sperare, anche più incisiva. Buon Compleanno a tutti noi ma soprattutto… Buona lettura e buona bevuta!
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BIRRA NOSTRA NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
MAGAZINE
IN QUESTO NUMERO...
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EDITORIALE Dieci di questi anni!
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di Mirka Tolini
EDITORIALE/2 Comunicare (con) la birra
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di Mirka Tolini
CULTURA BIRRARIA Amore e birre ai tempi di Tinder
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di Norberto Capriata
CULTURA BIRRARIA /2 Viva la birra “artigianale”!
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di Davide Bertinotti
CULTURA BIRRARIA /3 Amici e nemici o solo buoni compagni
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di Eleni Pisano
CULTURA BIRRARIA /4 L’irresistibile fluidità degli stili birrari
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di Norberto Capriata SEGUICI SU
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facebook.com/BirraNostraMagazine
BIRRA NOSTRA MAGAZINE
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32 MATERIE PRIME Caratteristiche e impieghi di Saccharomyces non-convenzionali
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di Michele Matraxia
MATERIE PRIME /2 La sfida dei lieviti: enologico vs. kweik alle prese con un idromele
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di Massimo Faraggi
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MATERIE PRIME /3 Lievito enologico per una IGA
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di Giorgia Bertan
MARKETING E COMUNICAZIONE Mezzo pieno o mezzo vuoto
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di Matteo Malacaria
MARKETING E COMUNICAZIONE /2 Comunicazione e birra artigianale
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di Dario Rosso
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PER T U T TE LE B IR RE Una gamma completa per ogni stile Che siano per calici per la birra artigianale o tumbler per una strawblond, i bicchieri creati da RASTAL sono pensati per enfatizzare l’esperienza multisensoriale del consumatore e al contempo soddisfare le esigenze pratiche dei professionisti della ristorazione.
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56 Birra Nostra Magazine - Bimestrale Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa
Direttore Responsabile Mirka Tolini
Impaginazione LIFE - LSWR Group
Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it
Produzione Antonio Iovene
Hanno contribuito a questo numero Giorgia Bertan, Davide Bertinotti, Andrea Camaschella, Norberto Capriata, Massimo Faraggi, Luca Grandi, Matteo Malacaria, Michele Matraxia, Eleni Pisano, Dario Rosso, Mirka Tolini
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Quine Srl
Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 12191
Direttore Commerciale
Costantino Cialfi c.cialfi@lswr.it - tel. +39 3466705086 Coordinamento editoriale Chiara Scelsi c.scelsi@lswr.it
MARKETING E COMUNICAZIONE /3 Microbirrifici e marketing
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di Andrea Camaschella
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di Luca Grandi
HANNO SCRITTO PER NOI Gli autori di questo numero
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Archivio immagini Shutterstock Redazione
Simone Ciapparelli s.ciapparelli@lswr.it ABBONAMENTI Sara Biscaro abbonamenti@quine.it Quine srl, Via G. Spadolini, 7 20141 Milano – Italy Tel. +39 02 88184.117 www.quine.it
PUBBLICITÀ commerciale@birranostra.it TRAFFICO Ornella Foletti ornella.foletti@quine.it Tel. +39 3427968897 Birra Nostra Magazine è frutto della collaborazione tra Birra Nostra e MoBI - Movimento Birrario Italiano www.birranostra.it - www.movimentobirra.it
MARKETING E COMUNICAZIONE /4 Il marketing del turismo birrario
Stampa Tipolitografia Pagani - Passirano (BS)
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BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ
Tutto il materiale pubblicato dalla rivista (articoli e loro traduzioni, nonché immagini e illustrazioni) non può essere riprodotto da terzi senza espressa autorizzazione dell’Editore. Manoscritti, testi, foto e altri materiali inviati alla redazione, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Tutti i marchi sono registrati. INFORMATIVA AI SENSI DEL GDPR 2016/679 Si rende noto che i dati in nostro possesso liberamente ottenuti per poter effettuare i servizi relativi a spedizioni, abbonamenti e similari, sono utilizzati secondo quanto previsto dal GDPR 2016/679. Titolare del trattamento è Quine srl, via Spadolini, 7 - 20141 Milano (info@quine.it). Si comunica inoltre che i dati personali sono contenuti presso la nostra sede in apposita banca dati di cui è responsabile Quine srl e cui è possibile rivolgersi per l’eventuale esercizio dei diritti previsti dal D.Legs 196/2003. © Quine srl - Milano
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EDITORIALE
di Mirka Tolini
COMUNICARE (con) la birra V
olendo usare una metafora birraria (e il contesto direi che si presta), potremmo dire che ogni collaboratore di Birra Nostra Magazine rappresenta un ingrediente speciale ed indispensabile per la lavorazione, oltre che determinante per il risultato finale. L’idea di un momento di condivisione era nell’aria da qualche tempo e l’occa-
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sione del decennale dall’uscita del numero zero ci ha fornito il pretesto ideale per ritrovarci tutti insieme. Ai primi di settembre, la casa editrice ci ha ospitati nei suoi uffici contribuendo così alla buona riuscita dell’evento che ci ha permesso di confrontarci, condividere esperienze e soprattutto idee per proseguire il nostro percorso insieme. Gli
impegni vari e gli eventi della vita non hanno permesso a tutti i collaboratori di poter presenziare all’evento ma chi c’era ha egregiamente rappresentato anche chi non ha potuto essere con noi.
Dieci anni di storia Ad aprire i lavori un momento nel quale io, Davide Bertinotti e Luca Grandi ab-
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EDITORIALE
biamo ricostruito i passi che ci hanno portato a concretizzare il progetto editoriale nato dal genio creativo e dal marchio Birra Nostra di Luca Grandi. Il mio intervento è partito raccontando come abbiamo lavorato partendo dalla chimerica idea che al brand Birra Nostra si potesse aggiungere anche un vero e proprio Magazine che si facesse portavoce, non solo delle varie iniziative che Birra Nostra organizzava per promuovere la cultura birraria, ma diventasse un vero e proprio incubatore di idee e di professionalità di voci autorevoli (e non autoreferenziali!), che da anni operavano in un settore considerato ancora di nicchia. Gli ambiziosi sogni miei e di Luca Grandi si sono trasformati in realtà quando nel 2013 abbiamo deciso di registrare la testata giornalistica e raccolto un primo gruppo di collaboratori che hanno dato vita ad un web magazine online. Inutile dire che l’ambizione di passare al cartaceo l’abbiamo sempre coltivata fino a quando le nostre strade hanno incrociato quelle di Davide Bertinotti e del gruppo Mo.BI con il relativo fanzine e dell’editore LSWR. A questo punto gli ingredienti (e le persone) c’erano tutti: insieme ci siamo imbarcati in un’avventura che dal numero 0 in poi ha progressivamente segnato una crescita in termini di qualità dei contenuti e di numero di abbonati. A Davide Bertinotti, in rappresentanza anche del gruppo Mo.BI (Movimento Birrario Italiano), l’onore di raccontare il passaggio da fanzine a bimestrale del loro house organ interno che ha contribuito a formare il nocciolo iniziale del Magazine arricchito con contenuti aggiuntivi e collaboratori provenienti dal mondo della ricerca e dell’università, dei birrifici o semplici appassionati. A Luca Grandi, che può essere considerato il padre del progetto, il compito di illustrare il marchio Birra Nostra e tutta l’attività di brand identity che, da ben prima del 2013, viene portata avanti con impegno, costanza e soprattutto lungimiranza e che ha permesso di dare
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La giornata è poi proseguita dividendo i collaboratori in tre diversi gruppi ognuno dei quali avrebbe portato avanti un confronto tra pari che sarebbe servito poi a far nascere gli articoli che leggerete nelle prossime pagine. Il primo gruppo dedicato ad approfondire tematiche di cultura birraria era formato da Davide Bertinotti, Norberto Capriata ed Eleni Pisano. Dal loro confronto su come costruire la narrazione di un prodotto che rappresenta molto di più che una bevanda e che necessita di far conoscere chi c’è dietro il contenuto del bicchiere sono nati quattro diversi articoli: i due a firma di Norberto Capriata “Amore e birre ai tempi di Tinder” e
“L’irresistibile fluidità degli stili birrari” contengono, come nel suo stile, delle riflessioni semiserie sul valore dell’esperienza sensoriale che deriva da una bevuta di birra artigianale il primo e, per quanto riguarda il secondo, la crescente difficoltà del BJCP “Beer Judge Certification Program” di certificare i numerosi stili birrari esplosi negli ultimi anni. Il pezzo a firma di Davide Bertinotti “Viva la birra artigianale” prosegue la riflessione di Capriata iniziata nel numero 5 e, già dal titolo, lascia presagire il tono e l’argomento, mentre Eleni Pisano nell’articolo “Amici e nemici o solo buoni compagni” riflette sulla necessità di avvicinarsi senza pregiudizi alla birra artigianale ma soprattutto con la curiosità che permette di conoscere e apprezzare sapori e profumi nuovi. Il secondo gruppo di lavoro era quello dedicato alle materie prime e ai processi produttivi e vedeva al suo interno Michele Matraxia, Massimo Faraggi
Luca Grandi, Mirka Tolini, Davide Bertinotti
Eleni Pisano, Davide Bertinotti, Norberto Capriata
vita ad importanti collaborazioni con aziende e fiere del settore considerate da sempre un punto di riferimento a cui il pubblico di esperti e di curiosi guarda con interesse.
Al lavoro!
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EDITORIALE
e Giorgia Bertan. Univa l’esperienza di Faraggi, lo studio di Matraxia e l’applicazione di Bertan ed insieme hanno dato ad un trittico di articoli tra loro collegati da rimandi reciproci e tenuti insieme dalla passione della conoscenza e della scoperta. A dare il via al connubio è Matraxia che descrive le “Caratteristiche e gli impieghi di Saccharomyces non-convenzionali” mentre spetta poi a Faraggi un primo sviluppo sul tema dal titolo “La sfida dei lieviti” dove confronta un lievito enologico con uno di kveik per la produzione di idromele. Infine a Bertan il compito di raccontare come la strada per arrivare ad un risultato passi inevitabilmente anche da esperimenti non riusciti, come racconta nel suo pezzo “Lievito enologico per una IGA: storia di un piccolo insuccesso”. Infine il terzo gruppo, quello più numeroso dedicato al marketing e alla comunicazione ha visto attorno ad un tavolo Dario Rosso, Matteo Malacaria, Andrea Camaschella e Luca Grandi. Il confronto è stato proficuo e interessante ed ognuno di loro ha poi sviluppato in un articolo il suo personale contributo e il punto di vista sul tema. La sezione è stata aperta da Malacaria con un contributo dal titolo “Mezzo pieno o mezzo vuoto. Quanto marketing contiene un bicchiere
Massimo Faraggi, Michele Matraxia, Giorgia Bertan
di birra artigianale italiana?”; lo sguardo acuto ed esperto di Matteo sul marketing è sempre ricco di consigli e propositivo soprattutto all’interno di un settore dove la strada della comunicazione e del marketing si presenta sempre in salita. Dario Rosso, nel suo articolo dal titolo “Comunicazione e birra artigianale. Una sterminata domenica”, parafrasa il grande poeta e scrittore Vittorio Sereni, ad indicare il panorama comunicativo all’interno del quale si muove la birra artigianale. La sua scrittura, sempre
Andrea Camaschella, Dario Rosso, Matteo Malacaria, Luca Grandi
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acuta e ricca di rimandi intellettuali descrive, con attenzione sociologica, il ruolo del consumatore visto però in un’ottica di persona consumatore restituendogli di fatto i contorni che il consumo di massa gli aveva tolto e rendendolo, in questo modo, responsabile delle sue azioni. Spetta invece ad Andrea Camaschella, nel suo pezzo dal titolo “Microbirrifici e marketing” fare il punto sull’incapacità di fare marketing solitamente attribuita a chi è piccolo, come nel caso appunto dei microbirrifici. Chiude la carrellata sulla comunicazione Luca Grandi che sviluppa il legame tra la birra e il turismo nelle molte declinazioni che l’hanno visto popolare i territori e diventare oggetto di viaggio di fine settimana alternativo a conferma che scoprire la birra equivale a scoprire un mondo fatto anche di uomini, di prodotti e di legami con il territorio. Tutto questo lo troverete nelle prossime pagine e molto altro ancora lo troverete nei prossimi numeri perchè la nostra giornata di confronto ha prodotto idee, collaborazioni e legami destinati a maturare e a sbocciare nei prossimi numeri. Intanto godetevi queste pagine pensate a misura degli interessi dei nostri lettori! ★
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CULTURA BIRRARIA
di Norberto Capriata
AMORE E BIRRE ai tempi di Tinder C
osa cerchiamo in un’esperienza? L’illuminazione o il conforto? Lo shock o l’appagamento? L’adrenalina o le coccole? A pensarci bene sono proprio le alternative che ci pone di fronte quel sentimento tanto agognato, in gran parte sopravvalutato e raramente del tutto soddisfacente, che comunemente definiamo col termine “amore”. C’è la fase iniziale dell’innamoramento, sicuramente la più emotiva e sconvolgente, che ci colpisce a livello mentale e anche fisico: di certo il momento più eccitante e talvolta addirittura conturbante. Poi subentra un periodo di felicità più o meno (in)stabile, la passione tende a scemare lasciando spazio ad appagamento e serenità, man mano che ci si frequenta e conosce meglio. Infine, se tutto va bene, in tempi più o meno prolungati, subentra quell’ultimo stadio che abbiamo imparato appunto a descrivere come “amore”. Considerando la fase centrale semplicemente come un transitorio fisiologico tra lo stato A (innamoramento) e lo stato B (amore) possiamo riformulare la fatidica domanda che anticipavo nel primo capoverso: meglio l’innamoramento o l’amore? Volendo evitare di scadere nel qualunquismo o peggio simulare cinismo d’accatto, eviterò di rispondere a un dilemma così sciocco, ma sottolineerò invece che, pur con tutti gli alti e bassi del caso, rispetto allo stato A, lo stato B presenta almeno un vantaggio difficile da smentire. Mentre l’innamoramento
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rimane, per sua natura, uno stato volubile e soggetto al cambiamento repentino, quindi inaffidabile sul lungo periodo, l’amore, al contrario, è l’auspicabile coronamento finale a seguito di vari episodi di innamoramento, il consolidamento in una fase più stabile, affidabile e duratura, che permette alla coppia (o ad altre formazioni romantiche più moderne) piani a lungo termine: e vissero felici e contenti.
Ricordatevelo (come diceva Massimo Troisi: “mò me lo segno”) e passiamo alla nostra bevanda preferita.
Il paradosso della scelta
Una delle peculiarità dei microbirrifici moderni, rispetto a quelli storici, è il numero esorbitante di birre diverse che producono. Nel passato (ma anche tutt’ora, se ci spostiamo in nazioni come Belgio, Inghilterra e Germania),
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un birrificio brassava due o tre birre, magari un paio di stagionali, e stop. Per il consumatore non competente la scelta si limitava a “chiara”, “rossa” e “scura” (e magari “doppio malto”); anche i bevitori più edotti, che già sapevano destreggiarsi tra denominazioni stilistiche più accurate, avevano a disposizione un ventaglio di scelte più ampio ma gestibile: qualche sottostile di ale, qualcuno di lager, alcune sour addirittura (anche se all’epoca in pochi le chiamavano così) e poco altro. Non sto parlando del 1800, ma di una quindicina di anni fa, eppure, per come sono cambiate le cose, sembrano passate ere geologiche. Tempi più semplici che forse non ha senso rimpiangere, anche perchè nel frattempo, oggettivamente, almeno dalle nostre parti, il livello qualitativo medio è sensibilmente migliorato, come pure la reperibilità del prodotto. Però è interessante riflettere sulle motivazioni di questa proliferazione di etichette e ancora di più delle possibili ripercussioni sulle dinamiche e sull’evoluzione del mondo craft. Se lo domandi ai birrai, la risposta standard che ricevi è del tipo: “sono i clienti che ce lo chiedono, se non hai sempre qualche novità in arrivo rischi di uscire dal giro”. Vero, ma fino a un certo punto. Nel senso che pochissimi sono i birrifici che, per sbarcare il lunario, si possono basare su quel tipo di clientela, super-appassionata e modaiola. La maggior parte lavora soprattutto con i bevitori locali che normalmente sono decisamente meno esigenti, anzi, spesso individuano una o due birre e tornano per quelle. Alcuni, più sinceri, ammettono che... si annoiano. Da qua la voglia di fare spesso cose nuove. Anche questo è un fenomeno moderno, e comprensibile. Mentre lavorare per un’industria (anche birraria) è considerata una mansione comune, quindi spesso poco appagante se non alienante, il lavoro del birrario moderno è visto, dalla clientela di appassionati e soprattutto da chi lo intraprende, come una specie di carriera artistica. Con questo
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non intendo certo dire che i mastri birrai artigianali siano degli artistoidi sfaticati, tutt’altro, sono ben consci che il loro mestiere è impegnativo e faticoso e non si risparmiano. Però, in buona parte, lo hanno scelto anche come un’alternativa lavorativa artistica e creativa rispetto ad altre mansioni più “noiose” nelle quali avrebbero potuto impiegarsi (o erano impiegati precedentemente). E cosa fa un’artista? Crea.
Questione di soldi E poi c’è la solita questione economica. La birra artigianale costa tanto, soprattutto se paragonata alla concorrente industriale, e questo è di sicuro uno dei deterrenti che tengono a distanza una fetta importante di possibili acquirenti. Non mi interessa in questo ambito approfondire questa disparità ma i produttori che si confrontano quotidianamente col tema hanno dovuto approntare dei meccanismi di difesa per giustificare, almeno a grandi linee, questa realtà. E siccome temi tipo economia di scala, burocrazia e accise fanno cadere la palpebra entro pochi secondi, si è dovuto puntare su risposte più fantasiose e romantiche: il birrificio agricolo, le materie prime di qualità superiore, il procedimento artigianale, etc. Mi sa che questo storytelling ha funzionato fino a un certo punto (anche perché gli italiani sono boccaloni, ma solo finché non gli tocchi il portafoglio), perciò si è dovuto virare verso qualcosa di più concreto: il prodotto stesso. Non credo sia un caso, infatti, se negli ultimi anni le categorie stilistiche sono esplose fino all’attuale numerosità, ormai un po’ fuori controllo. La riscoperta di stili dimenticati, la contaminazione tra tipologie diverse, l’utilizzo di ingredienti e di modalità di produzione anomale, sono ormai la norma, per quanto riguarda le birre artigianali, tanto che la clientela ha imparato a ritenerle soprattutto “birre strane”. Quasi come se, per giustificare con l’acquirente e con se stessi il costo
semi-astronomico delle loro creazioni, i birrai-artisti moderni sentissero l’esigenza, conscia o meno, di differenziare concretamente, il più possibile, il loro prodotto da quello consolidato, rendendolo qualcosa di “più” di una semplice birra. Riassumendo: le motivazioni della proliferazione di birre nel mercato craft attuale, sempre ammesso che la mia analisi stia in piedi, sarebbero: 1. inseguimento all’ala più “geek” della clientela 2. birraio-artista 3. tentativo di diversificare il prodotto da quello industriale Non volendoci addentrare in eventuali giudizi di natura filosofica o morale, quello che potremmo chiederci è se questa direzione stia effettivamente dando dei risultati positivi in termini di successo del prodotto. Dato che si lamentano un po’ tutti - esagerando che il settore tira poco, che le percentuali non crescono e che la fine è vicina, direi di no. E non è così difficile capire il perché. Innanzitutto, se predichi ai convertiti è chiaro che di nuovi proseliti ne fai pochi. Mettiamoci invece, per un momento, nei panni di un nuovo cliente, un campione prelevato da quel 97% di popolazione che non impazzisce a priori per la birra artigianale ma che, coinvolto in maniera appropriata, potrebbe comunque diventarne consumatore fisso, a patto di attirarlo efficacemente nella tela del (bir)ragno. Da buon neofita, punterà probabilmente su qualcosa di riconoscibile, stili quindi che gli siano almeno un po’ familiari e già in questa fase dovrà avvalersi di un po’ di fortuna. Poi, se l’imprinting dovesse avere successo, si affezionerà, almeno temporaneamente, a una singola birra o a un numero limitato di etichette e stili, per poi eventualmente, col tempo, passare anche ad altro. È quello che capita, da secoli, nelle nazioni con una tradizione birraria: il bevitore sceglie una birreria e ci passa la vita. I
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tempi oggi sono cambiati e queste dinamiche sono magari più flessibili, ma fino a un certo punto. “Ma... se il birrificio di birre ne fa cinquanta... E se quella che lo aveva colpito non la trova mai... E se gliene fanno assaggiare tante altre che non lo soddisfano (perchè in quel momento lui VOLEVA QUELLA!)... E se altrove è ovunque la stessa solfa... Ecco che la sua già flebile curiosità rischia di esaurirsi in fretta e che alla fine possa decidere che, tutto sommato, di questa benedetta birra artigianale si può anche fare a meno.”Soprattutto se poi, per ogni birra normale gliene propinano dieci strane. Attenzione, sembra una semplificazione eccessiva ma questa identificazione “birra artigianale = pro-
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dotto strano”, come dicevo, è una delle opinioni più diffuse tra i non appassionati, che spesso se ne tengono alla larga anche per questo motivo. Provando a dare un senso alla nostra metafora iniziale, la mia impressione è che la strategia (?) dei birrifici moderni, nel rapporto con i nuovi bevitori, sia quella di provare a farli innamorare continuamente di nuove birre, per passare subito alla successiva, in un ciclo continuo nel quale l’amore definitivo per una singola birra (e quindi per il birrificio stesso: qua sta l’errore) non è previsto. Ma come ci dicevamo, il risultato che si ottiene è un equilibrio decisamente instabile sul quale è più difficile per entrambi i soggetti in gioco (birrifici e
bevitori) affidare la propria stabilità, amorosa o lavorativa che sia. È Tinder che subentra alle vetuste agenzie matrimoniali, è il porno bizzarro preferito alle zuccherose commedie romantiche. È anche vero che l’essere umano sta diventando sempre più aperto, onnivoro e interessato al mordi e fuggi piuttosto che all’approfondimento, e può anche darsi che questa modalità si riveli più efficace di quanto possa sembrare a noi bevitori (e amatori) 1.0. Ma per ora l’impressione è che sia ancora presto e che certi equilibri, che hanno retto per secoli, continuino in gran parte a risultare i più perseguiti e affidabili e che rinunciarvi a priori sia un azzardo che potrebbe anche non dare i frutti sperati. ★
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di Davide Bertinotti
VIVA LA BIRRA “artigianale”! N
ello scorso numero di BNM, Norberto Capriata titolava il suo caustico articolo con “la birra artigianale fa schifo!”, prendendo spunto da una nota scena di una serie televisiva, oggetto di dispute legali tra Rai e Unionbirrai. Sorvolando sui tribunali, quella scena ci ha testimoniato che in fondo la birra artigianale è finalmente arrivata all’uomo della strada, ma le parole messe in bocca ai protagonisti della serie adombravano una percezione non propriamente positiva da parte del bevitore “medio” che rifuggirebbe il bicchiere “strano” per una birra “normale”. Ma facciamo un passo indietro, alla fine degli anni Novanta: la birra, per come era raccontata dai celebri spot di Renzo Arbore e delle “Bionde” della Peroni (da Solvi Stubing a Filippa Lagerbäck) offriva un unico aspetto, il medesimo colore e probabilmente lo stesso sapore. Per il consumatore medio la birra era identificata con la classica “similpils” da bere quasi esclusivamente con la pizza. Invece, i primissimi microbirrifici e brewpub artigianali avevano la vitale necessità di comunicare la diversità dei loro prodotti, per colore, sapore e soprattutto prezzo, rispetto alla birra da supermercato e inizialmente si sono proposti con uno slogan conciso ma eloquente: “birra non filtrata e non pastorizzata”. Le dimensioni delle sale cottura e dei fermentatori dei primi microbirrifi-
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ci erano limitate, ma qualcuno molto presto si accorse che, dal punto di vista produttivo, in un fermentatore di dimensioni minimamente superiori ai 5
hl il necessario illimpidimento del prodotto non si riusciva a ottenere con la semplice decantazione a freddo e così quella notazione “non filtrata” sparì
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abbastanza velocemente. Agli inizi degli anni 2000, Unionbirrai raccontava il prodotto dei propri associati come “birra cruda, integra e senza aggiunta di conservanti con un alto contenuto di entusiasmo e creatività”. Sul termine “cruda” ci sarebbe da disquisire, visto che il mosto è sempre “cotto”, ma intendiamoci: l’estrema necessità era quella di comunicare al consumatore che il “nostro prodotto è diverso”. L’aggettivo artigianale rimaneva comunque una costante e ogni birrificio utilizzava (e utilizza) in qualche modo il termine. Il legislatore però norma esplicitamente l’argomento con la l. 443/1985 che recita che “è imprendito-
re artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendosene la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi che si riferiscono alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”: la logica della definizione è adattabile a molti birrifici, tuttavia la legge impone paletti dimensionali e sul numero dei dipendenti, nonché l’iscrizione ad un albo provinciale in cui - ne sono certo - molte imprese birrarie artigianali non figurano. Il birrificio artigianale rimaneva (e rimane) in un’area grigia. Nel 2016, dopo un intenso lavoro di lobbying da parte di Unionbirrai e delle rappresentanze nazionali artigiane, vede la luce la norma di legge (unica al mondo, credo) che definisce la birra artigianale come prodotta da piccoli (?) birrifici indipendenti che producono meno di 200.000 hl annuali, non pastorizzata o microfiltrata (?). Non sfugge la contraddizione che una birra artigianale possa essere prodotta da un birrificio non artigiano, almeno secondo la legge 443/85 sopra citata. Da questo momento, Unionbirrai cambia il modo di raccontare al pubblico il proprio mondo spostando l’attenzione dal prodotto (non più “birra cruda”) all’azienda: “birrifici artigianali indipendenti”.
La stessa identica bevanda La quota di mercato “craft” rimane ferma da anni attorno al 3%, pur con cifre complessive in crescita e con una pesante battuta di arresto nel periodo pandemico. La motivazione di tale impasse è da ricercarsi soprattutto, a mio avviso, nella scelta da parte dell’industria di inseguire il crescente interesse del pubblico nei confronti dei produttori artigianali proprio sul loro territorio attraverso etichette che sembrano artigianali nella forma e nella comunicazione: “non filtrate”, “regionali”, N luppoli in etichetta etc.
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Oggi, di fatto, per la quasi totalità di consumatori si tratta “della stessa medesima bevanda”: diamo, a posteriori, ragione a Teo Musso che nel lontano luglio 2009 affermava in un concitato dibattito questo (apparentemente) inusitato concetto. Se oggi la percezione è questa per la maggior parte dei consumatori, per quale motivo un cliente di un pub o di un supermercato dovrebbe scegliere una birra realmente craft piuttosto di una più economica industriale “travestita”? Gli aspetti da analizzare in merito alla questione sono due: da un lato come i singoli piccoli birrifici comunicano al consumatore il proprio brand; dall’altro come il mondo della birra artigianale, inteso come settore produttivo, opera in termini di lobbying verso altri stakeholder e in particolare con il mondo politico e il legislatore. Per la prima parte, la mia impressione è che l’approccio un po’ naif adottato dai primi birrifici alla fine degli anni Novanta sia rimasto per la maggior parte inalterato e che, tuttavia, non abbia più ragione di essere: la necessità di allora era quella di fare conoscere un’altra birra realizzata con metodologie e ingredienti diversi e particolari; l’accento sull’aggiunta inusuale serviva a creare visibilità sul mercato con mezzi economici limitati. Dalla castagna alla spezia o erba, sino alle più recenti IGA con vitigni locali, lo scopo era conquistare il proprio posto al sole. Alcuni produttori hanno perseguito tale strada anche con il racconto dell’unicità del luogo di produzione, degli aspetti sociali, della salvaguardia ecologica, della tradizione (?) monastica o culturale. Poteva funzionare agli inizi, ma oggi? Questo approccio del racconto delle unicità del prodotto, reali o fittizie, sposta clienti, come direbbero gli esperti di marketing? O bisognerebbe tornare a concentrarsi sull’essenza e sulla qualità intrinseca del prodotto birra lasciando perdere il contorno? La mia opinione è che il “famolo strano”
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nel mercato odierno della birra non abbia più grande appeal. Non suscita richiamo verso i consumatori devoti alla birra industriale e, ormai, nemmeno più verso quelli che bevono birra artigianale regolarmente, che apprezzano la differenza qualitativa del prodotto ma si sono stancati di inseguire a tutti costi l’ultima novità. I “nerd” che ricercano la produzione limitata e che probabilmente non hanno mai bevuto due volte la stessa birra non assicurano sicuramente il fatturato, anche se fanno più “rumore” dei normali clienti.
La legge ha dei limiti L’altro aspetto da analizzare riguarda le scelte operate dalle rappresentanze di categoria dei produttori nei confronti del sistema di regole del mercato nazionale. In particolare, la definizione di legge di birra artigianale è stata scelta oculata e lungimirante? Lodevole è stato lo sforzo per concedere ai piccoli produttori strumenti che potessero permettere loro di distinguere, in qualche modo, la propria differenza rispetto a un mondo industriale che possiede mezzi economici enormi e l’inserimento in etichetta di una notazione distintiva può essere accolta positivamente. Ma i paletti posti per la definizione di birra artigianale suscitano qualche perplessità: a parte la notazione di indipendenza aziendale, necessaria per evitare l’aggiramento dello spirito della norma attraverso marchi industriali di “facciata”, gli altri due elementi distintivi dedicati alla dimensione di impresa e al trattamento tecnico del prodotto mi lasciano dubbi. Ha senso limitare la crescita potenziale delle imprese di successo? Ad oggi il limite dei 200.000 hl annui è molto elevato per la realtà del mercato italiano, tant’è che esistono un paio di birrifici “industriali” che producono sotto tali limiti. Ma in futuro? Nel caso in cui uno o più produttori di birra artigianale riscontrassero un grande successo con una crescita dimensionale importante, do-
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vranno eliminare “artigianale” dall’etichetta, pur rimanendo il prodotto inalterato? Negli Stati Uniti si assegna il termine “craft” a birrifici come Boston
Beer Co e Sierra Nevada che producono 8 e 1.5 milioni di barili di birra (9 e 1,7 milioni di hl): la cifra di 200.000 hl è, in un mercato globale, un limite?
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CULTURA BIRRARIA
Circa l’aspetto tecnico della legge, cosa vuol dire esattamente microfiltrazione? La norma non è precisa in questo senso. Ma a parte il dubbio interpre-
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tativo, la qualità organolettica di una birra è ancora legata a questo aspetto? La pastorizzazione è un tabù che deve essere superato dai piccoli birrifici?
In fondo negli USA molti produttori craft adottano questo approccio per rendere più stabili i propri prodotti e le tecnologie consentono ormai di limitare la perdita di aromi per le birre sottoposte a pastorizzazione. Inoltre, ha senso chiamare artigianale una birra non pastorizzata o microfiltrata ma che, nel processo produttivo, è sottoposta all’uso intensivo di “coadiuvanti di processo” e stabilizzanti per ridurre soprattutto il problema ossidativo? Oggi molti birrifici artigianali sfruttano questi aiuti tecnologici, pienamente legittimi sia chiaro, ma forse non esattamente aderenti alla filosofia di un prodotto “artigianale”. Probabilmente gli sforzi della componente produttiva del settore sono stati concentrati esclusivamente verso un aspetto identitario da comunicare al consumatore (vanificato in realtà dall’industria, come sopra riportato) senza toccare il vero problema al superamento della famosa quota di mercato del 3%, ossia l’aspetto distributivo: la quasi totalità degli impianti di mescita alla spina di bar, pizzerie, ristoranti oggi sono contrattualizzati in esclusiva dall’industria. Ed è impossibile per un produttore artigianale inserirsi in quel mercato, se non attraverso i pochi esercizi che hanno impianti di mescita di proprietà. In un Paese come il Regno Unito, dove il concetto di birra “craft” di fatto non esiste, la salvaguardia del piccolo birrificio è stata affrontata attraverso una norma antitrust, per la quale le “tied house”, ossia i pub legati a un unico produttore, devono offrire alla spina una o più “birre ospiti”. Non so con certezza quanto un approccio simile sia applicabile al nostro Paese, ma credo che sarebbe meglio per la crescita del settore affrontare le problematiche relative alle “barriere all’entrata” nel mercato, rispetto al perseguimento di aspetti identitari ormai superati dagli eventi. La birra artigianale è morta? Viva la birra artigianale! ★
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di Eleni Pisano
AMICI E NEMICI
o solo buoni compagni “Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, prendi l’occasione per comprendere” (Pablo Picasso)
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l mondo della birra artigianale in Italia è sempre più variegato e aperto a relazioni e confronti costruttivi con molti dei mondi che gli stanno attorno. Non si tratta più solo di produrre la propria birra e farla assaggiare nei pub e alle feste ma sono molteplici le collaborazioni che si aprono al mondo dell’enologia, della produzione di spiriti e liquori, delle
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aziende agricole e del mercato agroalimentare in generale. La birra è sempre più associata a un’immagine comunicativa fatta di colori, di innovazione e creatività. Questo argomento, che richiede un pensiero a parte, ha una forte potenzialità che, come ogni evoluzione di un settore produttivo e commerciale, deve anche fare i con-
ti con l’ipotesi di diventare facilmente omologata o capace di essere diversa e uguale al suo interno. I mezzi di interazione che il mondo del brassicolo artigianale utilizza nei confronti del popolo di chi ama da sempre la birra o di chi ci si avvicina in questo momento, sono i social, in tutte le loro molteplici declinazioni, gli eventi, in
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ampia diffusione (ma non sempre della migliore qualità organizzativa e di contenuti) e i luoghi in cui poter bere buona birra. In questo ultimo aspetto, quello della mescita e della somministrazione di cibo, focalizzo la mia riflessione che non vuole dare un giudizio netto e di parte ma cerca di porre delle considerazioni dai due principali punti di vista: quello del cibo e quello della birra. Non
credo che esista una soluzione valida in ogni frangente: quella corretta deve essere calata e definita in ciascun contesto e situazione. Resta però fondamentale selezionare con cura i prodotti di base, che siano la birra o il cibo.
Dal punto di vista del cibo La birra è anche un alimento, se si concorda con la definizione di alimento,
ovvero una sostanza che si presenta in varie forme (cruda, cotta, solida o liquida) che fornisce nutrienti utili ed è necessaria alla crescita, allo sviluppo e al benessere dell’individuo. Questa è la partenza del ragionamento di chi crede che la birra sia un ingrediente importante, eclettico e interessante da utilizzare anche in cucina. Non molto tempo fa la birra in cucina era associata, quasi
Pairing: le parole sono importanti In inglese, pairing significa abbinamento, accostamento. In cucina,questo significa trovare il bilanciamento di sapori all’assaggio e questo equilibrio ha alcune regole generali ma molto dipende dal palato di chi crea le ricette e i piatti serviti. Ecco alcune linee guida generali e suggerimenti per l’abbinamento birra-cibo: Intensità dell’abbinamento: considera l’intensità della birra e del cibo. Birre più leggere come lager o birre di frumento si abbinano bene a piatti leggeri come insalate e frutti di mare, mentre birre più forti e robuste come stout o IPA si abbinano meglio a piatti più pesanti e speziati. Contrasto e complemento di sapori (due scuole di pensiero): Complementare significa scegliere una birra con profili aromatici simili al cibo; ad esempio, una IPA agrumata con un piatto di pesce aromatizzato agli agrumi. Contrastare significa selezionare una birra che equilibri o compensi i sapori del cibo. Ad esempio, una birra scura come una Porter con un pesce crudo o una tartare di carne, aiuta ad avere un gusto più morbido e completo. Abbinamenti locali: considera l’abbinamento delle birre con il cibo della stessa regione. Da qui le molte collaborazioni con aziende agricole e lo sviluppo del turismo brassicolo. Considera le tecniche di cucina: pensa a come viene preparato il cibo. I cibi grigliati si sposano bene con birre affumicate e robuste ma anche con quelle acide e con sentori di crosta di pane. I cibi fritti si abbinano bene con birre croccanti ed effervescenti che possono eliminare il grasso. Birre acide con cibi acidi: le birre acide, come lambic o Berliner Weisse, sono tra le migliori per abbinamenti diametralmente opposti: cibi acidi per assonanza e cibi grassi per contrasto. Dessert: per gli abbinamenti con i dessert, considera birre più dolci come porter, stout o birre alla frutta con dessert al cioccolato, mentre le birre più leggere e fruttate si abbinano bene con dessert a base di frutta.
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Sperimenta: non aver paura di sperimentare e scoprire le tue preferenze. Il mondo degli abbinamenti birra-cibo è vasto e il gusto personale gioca un ruolo significativo.
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e i luoghi in cui si trovano modalità di somministrazione differenti e in situazioni di vario tipo. La cucina determina la linea, il design, la disposizione e la gestione di un locale e il fenomeno di crescita di luoghi in cui mangiare e bere birra è in estensione. Moltissime di queste esperienze nascono direttamente dal brand del birrificio che trova una declinazione di coinvolgimento del proprio pubblico e di nuovi target con l’apertura di luoghi in cui mangiare e bere.
Consigli non richiesti ❱ ❱ ❱
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❱ esclusivamente, alle lunghe marinature, in particolare di carni e a qualche glassatura nei dolci; oggi le cose sono rapidamente cambiate e la birra si presta a molte tecniche diverse. In cucina, utilizzare tecniche di preparazione diverse significa ampliare la possibilità di usare ingredienti differenti: in questo modo si riesce a soddisfare meglio anche altri tipi di diete alimentari: vegetariana, vegana, pescetariana, affumicata, crudista, fermentata, solo per citare le principali ma non le uniche. Se le ricette con la birra aumentano, di conseguenza crescono anche i possibili avventori, i diversi target, ognuno con un proprio stile e potere d’acquisto
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Non basta una buona birra per fare un buon piatto; va bene la creatività, ma senza abbandonare mai la tecnica; rispettare la storia di sapore che racconta la birra e valorizzarla con un ingrediente; meglio concentrarsi su uno stile e un gusto, anche in cucina: non possiamo piacere a tutti e il rischio è “tutto e niente” in termini di gusto e riconoscibilità; considerare la birra anche in abbinamento dentro e fuori dal piatto allarga inevitabilmente la platea dei possibili avventori esterni al mondo brassicolo. Si chiama opportunità; diversi luoghi, diversi stili, diverse cucine e diversi format di locale danno spazio a birrifici con anime e inclinazioni di gusto e presentazione diverse; la birra è tra le altre cose: socialità, confronto e storia.
birra solo da questo punto di vista non gradisce, solitamente, sentire parlare di pairing e ancora meno di birra utilizzata come “ingrediente”:“Se si beve, si beve bene e basta”. Sono punti di vista leciti che ben comprendo e visto che fortunatamente l’offerta di locali e di birre da proporre è in ampia evoluzione, esistono spazi, luoghi e forme per offrire agli avventori proposte differenti. Inoltre, alcuni locali possono anche avere dimensioni molto piccole perché preferiscono stare all’interno dei centri storici delle città o in location che non consentono ampi spazi e la scelta di spillare senza cucina è anche questione di ottimizzazione dello spazio e dei costi di gestione: una scelta corretta per chi non rinuncia alla qualità della mescita.
Ulteriori consigli non richiesti ❱
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Dal punto di vista della bevanda La birra è una bevanda alcolica che si ottiene principalmente da materie prime quali malto d’orzo, acqua, luppolo attraverso un processo di fermentazione. Anche se la birra contiene carboidrati, proteine e fibre è considerata per la maggior parte degli stili una bevanda solitamente rinfrescante pur con varie gradazioni alcoliche. Chi considera la
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Se vuoi offrire solo da bere, non avere nulla da sgranocchiare non è coerenza ma scelta: ogni scelta ha una conseguenza; non basta un bicchiere per bere bene e se ci si focalizza su quello, si deve fare moltissima attenzione ai diversi bicchieri, alle temperature, alla spillatura. la selezione di birre e la varietà possono comunque definire uno stile di mescita; l’ospitalità passa per il sorriso, ma anche la molta conoscenza di ciò che si offre è importante; Se non hai voglia di cucinare o pensare a cosa offrire da mangiare allora valuta che i clienti possano ordinare cibo da cucine che hai selezionato tu e con cui hai creato una collaborazione. Questo si chiama connessione, servizio, sviluppo e crescita del territorio. La birra è tra le altre cose: socialità, confronto e storia; Ognuno scelga il suo stile tenendo però presente che la diversità aiuta.★
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di Norberto Capriata
L’IRRESISTIBILE FLUIDITÀ
degli stili birrari
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GBTQIAPK+: allarme rosso, terreno minatissimo, rischio di deflagrazione nucleare. Fermati. Cambia immediatamente argomento, fingi di aver urtato la tastiera scrivendo lettere a caso e comincia immediatamen-
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te a parlare di birra! No, alla birra ci arriverò, ma partendo da qua. Prometto che cercherò di essere il più delicato possibile. Partiamo dal presupposto che il qui presente autore dell’articolo si proclama 100% “gender friendly”
(come dicono quelli che se ne intendono) e 100% “traditional family friendly” (classificazione che invece mi sono inventato or ora). Che complessivamente fa 200%, lo so, ma il senso è che egli (l’autore) non ha preclusioni di nessun tipo ed auspica soltanto che tutto il genere umano possa un giorno vivere in armonia e volersi tanto bene sentimentalmente, spiritualmente e fisicamente: andate in pace. Mi interessa però la sigla, come ci si è arrivati e cosa sottenda. All’inizio furono gli omosessuali, con le loro giuste recriminazioni. In breve ci si accorse che le discriminazioni di genere sessuale non riguardavano solo i gay ma anche le altre categorie di soggetti NON eterosessuali. A pensarci col senno di poi sarebbe bastata una semplice sigla di due-tre lettere per comprenderle tutte, tipo NE (Not Etero), invece si optò per allargare la famiglia a Lesbiche, Bisessuali e Transessuali: LGBT. Da qua in poi la situazione è andata un po’ fuori controllo e lo è tuttora, dato che l’attuale acronimo è divenuto quest’incubo fonetico, degno di un gatto che passeggia su una tastiera, e non dà l’idea di essersi ancora consolidato. Sembra, infatti, che sia diventato fondamentale individuare tutte le possibili variabili dello spettro gender e, marchiandole con una lettera univoca, inserirle nella sigla. Quasi come se, in caso contrario, i rappresentanti di queste variazioni al tema rischiassero di perdere il diritto ad esistere o perlomeno a essere rispettati come gli altri. Il problema, oltre al fatto che le lettere dell’alfabeto sono solo ventisei, è
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che la sfera delle sfumature sessuali è particolarmente ampia e difficile da contenere e delimitare in un numero finito di categorie. Inoltre, ho il forte dubbio che continuare a identificare e circoscrivere comportamenti o identità solo leggermente dissimili tra loro, etichettandole con una denominazione ben precisa e definendo per filo e per segno in cosa si discostano dalle altre modalità di intendere l’identità sessuale, sia una scelta poco utile alla lotta per l’accettazione dalla quale si era partiti e possa diventare invece una prigione autocostruita dove inscatolare e catalogare entomologicamente ogni comportamento che si intendeva originariamente tutelare. Un paradosso mica da ridere, se ci pensate: perorare la causa della cosiddetta “fluidità” tramite un metodo invece estremamente “rigido” nella sua categorizzazione di ogni possibile corrente. Lasciando ad altri ogni possibile giudizio o valutazione morale, il mio parere è che, semplicemente, si tratti di un metodo poco efficace, se non addirittura controproducente. Ma vi starete chiedendo, immagino, che diavolo c’entri tutto ciò con la birra artigianale.
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Un boom di birre
Tornando al tema principale della rivista, l’argomento che mi interessa approfondire è strettamente legato a quello del mio articolo precedente, nel quale affrontavo il fenomeno della crescita esponenziale del numero di birre prodotte dai microbirrifici moderni. Questo incremento viaggia infatti in parallelo, come avevo sottolineato, con un proporzionale aumento del numero degli stili e sotto-stili birrari che, quasi quotidianamente, vengono disseppelliti e riportati alla luce dai più nascosti anfratti brassicoli del pianeta, oppure, più spesso, coniati di sana pianta per identificare interpretazioni anche solo leggerissimamente anomale di stili noti o variazioni saltuarie sul tema. È evidente che i due fenomeni siano strettamente legati tra loro, innescati dalle stesse dinamiche e forieri degli stessi effetti sull’ambiente. Ragionando però in termini di catalogazioni stilistiche non possiamo non introdurre un altro soggetto interessato (e interessante per le nostre elucubrazioni): il BJCP. Nato proprio per mettere ordine tra le diverse tipologie stilistiche birrarie, catalogandole e descrivendole in
termini precisi e rigorosi nell’ottica di un utilizzo in sede di concorsi di homebrewing, le linee guida del Beer Judge Certification Program sono divenute, col tempo, uno standard universalmente riconosciuto e condiviso, a cui un po’ tutti attingono quando si parla di stili. Un lavoro di qualità, assolutamente apprezzabile, in un ambito dove la confusione e la disinformazione regnavano sovrane. Peccato che, come raccontavamo, nel giro di pochi anni, la numerosità delle tipologie da classificare abbia attraversato un’esplosione demografica inattesa, man mano che i birrai moderni, veri e propri vulcani di idee e per giunta decisamente refrattari a farsi inscatolare in categorie definite, si (re)inventavano nuove tipologie di birra, introducendo e miscelando ingredienti, ricette e modalità produttive. Il BJCP, in casi di questo tipo, risponde convocando i suoi membri più prestigiosi e riunendosi in seduta plenaria per valutare quanto sta accadendo e riflettere sulla possibilità di eventuali nuove introduzioni nelle linee guida. Normalmente ci si aspetterebbe che la vidimazione di un nuovo (sotto)stile debba essere un evento
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davvero molto raro e ben ponderato, invece il nostro ente, forse impreparato alla proliferazione inattesa, è probabilmente andato un po’ in affanno e ha risposto inseguendo, sempre più a fatica, questo trend, iniziando a catalogare all’impazzata le nuove creazioni e coniando raffiche di nuovi sotto-stili. Esagerando soprattutto, bisogna dire, per quanto riguarda le IPA, che hanno ormai raggiunto una numerosità insensata, se non addirittura imbarazzante.
Cambiare approccio
Della confusione e dell’effetto respingente verso la clientela - che non ci capisce più niente da un pezzo - ho già parlato a sufficienza in precedenza, voglio qui invece evidenziare i limiti di questa strategia, proprio dal punto di vista dell’associazione americana che, forse inaspettatamente, si trova ora a dover gestire una mole di lavoro enorme e in continua crescita per stare dietro ad ogni nuova intuizione birraria emersa da qualche parte del globo. Un circolo vizioso che si autoalimenta e che, senza limitazioni e paletti, diventerà a breve ingestibile, anche perché i birrifici, ben lungi dal farsi problemi
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in tal senso, continuano ad oltranza a coniare essi stessi nuove tipologie, perlomeno fantasiose, con le quali stupire i clienti più fanatici (l’ultima che ho sentito: Rustic Lager). Anche non volendo entrare nel merito della gestibilità pratica di questo approccio, il nostro dubbio è che continuare a catalogare così minuziosamente ogni piccola variazione stilistica, identificandola e descrivendola con precisione certosina come nuovo sotto-stile, non solo sia un lavoro quasi schizofrenico, di natura ossessivo-compulsiva, ma che tolga qualcosa anche in termini di fascino alla nostra bevanda e sottostimi quello stesso ruolo creativo tanto caro ai nostri birrai. Piuttosto che ricondurre ogni nuova creazione a un’interpretazione pedissequa di un nuovo sotto-stile coniato appositamente, non sarebbe allora meglio considerarla semplicemente una variazione creativa di uno stile già esistente che consenta elaborazioni personali? Credo che a questo punto tutta la dissertazione iniziale sul tema della fluidità di genere ed un suo possibile parallelismo con il mondo birrario, inizi ad acquistare un suo senso (spero non solo nella mia testa).
Gli stili birrari, infatti, stanno acquisendo sempre più quelle caratteristiche di - appunto - “fluidità”, che rimandano, in qualche modo, a quanto discusso, e che, corrispondentemente, è sempre più difficile delimitare e circoscrivere tramite definizioni specifiche ed accurate. Per quanto si parli di due temi diversissimi, in entrambi i casi questo metodo catalogativo si sta dimostrando sempre più inadeguato al compito che si prefiggeva originariamente. In casi di questo genere, il rischio maggiore che si corre è quello di legarsi o affezionarsi troppo ad un approccio operativo non più efficace e, pur di mantenerlo, provare addirittura a reindirizzare e ritoccare la realtà affinché risulti ancora gestibile e non ci costringa a riconsiderare il nostro metodo. Il giochino, in genere, purtroppo non funziona. Viviamo in tempi moderni e le birre, come le persone, sono cambiate: è ormai necessario immaginare un nuovo modo per comprenderle, accettandone la maggior fluidità che le caratterizza. Serve un approccio più aperto ed elastico e meno legato a quelle vecchie restrizioni mentali che ci siamo portati dietro dal secolo scorso. Iniziamo a pensarci. ★
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
HOP SELECTION
Un viaggio in Hallertau insieme a Schwarzbräu Schwarz, proprietario del birrificio, e al suo Brewmaster tre domande per comprendere meglio il lavoro in luppoleto e in laboratorio.
Quali sono le principali varietà di luppolo che si trovano in Hallertau? Il cambiamento climatico ha avuto un effetto sulla produzione di luppolo? In che modo?
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ome ogni anno, ottobre è il mese in cui avvengono raccolta e selezione di luppoli in Hallertau. Schwarzbräu è un birrificio a conduzione familiare dalla lunga storia, quasi centenaria. È una realtà tradizionale che produce birre strettamente legate alla storia e al territorio di provenienza. È uno dei pochi birrifici in Germania a gestire una malteria interna acquistando orzo e frumento da produttori locali e ad usare il proprio malto in tutte le birre prodotte. Anche i luppoli provengono dalle regioni vicine al birrificio, ed è per questo che ogni anno durante la raccolta, il team si sposta in Hallertau per selezionare personalmente i luppoli. Abbiamo fatto a Leopold
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Storicamente in questa zona della Germania si producono sia luppoli da amaro che luppoli da aroma. Tra le varietà più note ci sono Hallertauer Mittelfrühe, Spalter Select, Saphir e Mandarina Bavaria. Il variare delle temperature negli ultimi anni ha fatto sì che questa zona si rivelasse adatta anche alla produzione di varietà più moderne come Callista e Tradition.
Come avviene la selezione dei luppoli? La selezione parte in campo ovviamente, ma è in laboratorio che avviene il lavoro più preciso. Raggiungere in prima persona il laboratorio ci permette di accedere ai lotti migliori. La prima valutazione è sicuramente visiva, si osservano la dimensione e la compattezza dei fiori. Successivamente si procede ad una prima analisi olfattiva del cono intero, per poi sfregare i luppoli tra le mani facendo sì che la luppolina si attacchi alle dita. È proprio questa azione che permette
di sentire il massimo dell’aroma. Sulla base di queste analisi e del potere amaricante dei luppoli, che viene comunicato solo a fine analisi, i luppoli vengono selezionati.
A seconda dei luppoli selezionati e delle loro caratteristiche, ci sono variazioni nelle ricette delle birre? No. Ricette e malti restano sempre invariati, sono parte dell’eredità di Schwarzbräu e sono una vera e propria firma del birrificio. Ciò che varia sono i luppoli, l’equilibrio tra loro, temperature e tempi. Il lavoro del brewmaster, l’analisi dei luppoli, lo studio costante delle materie prime e della loro evoluzione è probabilmente il cuore della produzione, è ciò che ci permette di riconoscere nel bicchiere le nostre birre preferite. Da diversi anni le birre di Schwarzbräu sono importate e distribuite in tutta Italia da Ales&Co che da sempre seleziona i birrifici più interessanti della scena internazionale. Quest’anno il team Ales&Co è stato invitato a partecipare attivamente alla raccolta e alla selezione dei luppoli. Un’esperienza di grande formazione che permette di comprendere a pieno il lavoro alle spalle di prodotti d’eccellenza come le birre di Schwarzbräu. alesandco.it
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di Michele Matraxia
CARATTERISTICHE E IMPIEGHI
di Saccharomyces non-convenzionali
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egli ultimi anni il panorama birrario internazionale si è costantemente ampliato, alla ricerca di nuovi ingredienti, riscoprendo vecchi stili e consolidando le conoscenze sulle tecnologie produttive. Fra gli ambiti con il più ampio margine di innovazione, quello legato ai microrganismi fermentanti appare il più promettente. Ciò anche grazie ai recenti sviluppi tecnologici
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legati allo studio di lieviti e batteri. Oggi è possibile conoscere e studiare il codice genetico di questi piccoli esseri viventi, con tempi e costi infinitesimi rispetto a qualche decennio fa. Tramite lo studio del DNA microbico (Figura 1) è possibile infatti stabilire l’origine, definire le “parentele” con altri organismi simili e soprattutto conoscere con estrema precisione il metabolismo di funghi e batteri.
Grazie a questa relativa facilità di indagine, negli ultimi anni vengono scoperti e studiati sempre più microrganismi in grado di prendere parte ai processi produttivi di cibi e bevande. In questo articolo verranno trattati i principali lieviti Saccharomyces a oggi conosciuti e impiegati della produzione di birra, focalizzando l’attenzione sui microrganismi di più recente scoperta.
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Figura 1 - Tipizzazione a livello di ceppo sul DNA di diversi S. cerevisiae
I lieviti Kveik
La produzione diffusa di alimenti e bevande fermentate, accelerata dall’industrializzazione della birra, ha portato alla rapida domesticazione dei lieviti delle ormai ben note specie Saccharomyces cerevisiae e, più recentemente, Saccharomyces pastorianus. Le caratteristiche di questi lieviti non verranno discusse in questo articolo, in quanto ormai ben note sia agli esperti che agli appassionati, focalizzando piuttosto l’attenzione su altre specie (Figura 2) e varianti ascrivibili a questo genere. Fra queste popolazioni, quella dei cosiddetti lieviti scandinavi Kveik sembra suscitare attenzione in birrai e homebrewer. Il nome deriva dalla terminologia dialettale usata per indicare il lievito nella Norvegia occidentale. Originari della cultura norvegese delle “Farmhouse Ale” e impiegati anche nella produzione di pane, questi particolari S. cerevisiae presentano delle caratteristiche peculiari: sono tipicamente altamente flocculanti, negativi alla produzione di off-flavour fenolici (POF-), bassa produzione di 4-vinil guaiacolo, sviluppo di un intenso profilo aroma-
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tico ed elevata velocità di fermentazione rispetto ad altri ceppi della stessa specie. I lieviti Kveik sono tolleranti alle alte temperature, probabilmente a causa della pratica tradizionale di introdurre il lievito in un ambiente caldo a temperature comprese fra i 28 e 40°C. Questa caratteristica recentemente confermata sembra derivare dalla loro abilità nell’accumulare trealosio (uno zucchero disaccaride) nelle loro cellule,
contribuendo a migliorare la loro tolleranza ad alcool e calore. Rispetto ad altri ceppi domesticati esistono sostanziali differenze nel modo in cui il Kveik è stato usato e propagato che possono aver influenzato la sua evoluzione adattativa e, conseguentemente, la generazione di uno specifico fenotipo. Le peculiarità nella gestione di questo lievito possono riassumersi in: conservazione per lunghissimi periodi, anche superiori a un anno; inoculo ad alte temperature in mosti tipicamente ad alta densità zuccherina; raccolta del lievito da re-inoculare sia dalla schiuma della birra che dal fondo; essiccamento del lievito fino all’inoculo nel mosto; in caso di avaria del lievito, esso veniva sostituito scegliendolo dai vicini migliori, noti per le loro buone produzioni. Alcuni reperti archeologici, noti come yeast rings e yeast logs, creati appositamente per la conservazione del Kveik, possono essere datati almeno a partire dal 1621 d.C., suggerendo che questa pratica sia iniziata ben prima di questa data. Pur rientrando nella specie dei S. cerevisiae, le recenti analisi filogenetiche suggeriscono che questi lieviti formano un gruppo a sé fra i lieviti birrari, risultando geneticamente diversi da altri lieviti domesticati della stessa specie.
Figura 2 - Albero filogenetico del genere Saccharomyces
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Il Saccharomyces cerevisiae var. diastaticus Fra le sottospecie di S. cerevisiae, il S. cerevisiae var. diastaticus è generalmente considerato un microrganismo alterativo nella birra. Essendo molto diffuso e abbondante nelle bevande imbottigliate, può causare cambiamenti nel sapore, sedimentazione o aumento della torbidità. S. cerevisiae var. diastaticus è descritto come un lievito super-attenuante, grazie alla sua capacità di fermentare i carboidrati residui della birra (destrine e amido solubile) che normalmente non sono metabolizzati dai ceppi commerciali. Questa proprietà fisiologica è collegata alla presenza dei geni STA, di norma assenti in S. cerevisiae, che codificano per l’enzima glucoamilasi. Questa cosiddetta super attenuazione porta a un
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aumento di CO2 causata dall’avvio di una fermentazione secondaria indesiderata, provocando conseguenze come il gushing o addirittura lo scoppio delle bottiglie. Riguardo i loro fabbisogni durante la fermentazione, essi hanno una minor richiesta in composti azotati rispetto ai classici ceppi commerciali. Questo lievito solitamente non conferisce un gusto sgradevole alla birra e con una migliore conoscenza dei suoi lineamenti fenotipici e fisiologici, i ceppi con capacità di super-attenuazione potrebbero essere utilizzati per produrre birre a ridotto contenuto di carboidrati o birre dealcolizzate a basso contenuto calorico. A oggi esistono diversi ceppi in commercio di questa variante di S. cerevisiae, che permettono di produrre birre molto attenuate come le Saison belghe, carat-
terizzate da un corpo prevalentemente secco e vinoso, con evidente produzione di composti fenolici, sottolineati dalla presenza di aromi speziati e fruttati. Per quanto riguarda le altre specie appartenenti al genere Saccharomyces, un recente studio ha valutato l’impiego di S. kudriavzevii, S. mikatae, S. paradoxus, S. bayanus, e S. uvarum nella produzione di birra. Le birre ottenute dalla fermentazione con le suddette specie presentavano caratteristiche speziate, probabilmente dovute alla presenza di fenoli; tutte le specie oggetto di questo studio hanno mostrato un grande potenziale birrario e potrebbero essere un’aggiunta ideale alla birra a seconda della volontà del birrificio di sperimentare con i sapori, introducendo un nuovo lievito nell’ambiente di produzione.
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I lieviti di derivazione enologica
È evidente come il numero di nicchie ecologiche da cui attingere per la ricerca di nuove specie e ceppi fermentanti risulti pressoché illimitato (Figura 3). Fra i settori più promettenti e studiati vi è senza dubbio quello enologico. Da un recente studio condotto nel 2021 in Spagna, in collaborazione con il birrificio La Cibeles, 141 ceppi di S. cerevisiae isolati da uve, mosti, vini, vigneti e cantine, sono stati valutati e testati nella fermentazione di birra su scala pilota. Circa il 10% dei ceppi sono stati inizialmente scartati dai test fermentativi successivi per la presenza di evidenti difetti legati alla produzione di idroge-
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Figura 3 - Variabilità morfologica nelle colonie di due ceppi di S. cerevisiae
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no solforato (H2S), composto responsabile dell’aroma di uova marce, o per l’incapacità di fermentare il maltosio. L’ordine in cui i lieviti metabolizzano gli zuccheri fermentescibili è il seguente: glucosio, fruttosio, maltosio e maltotriosio. Proprio questa gerarchia potrebbe essere la risposta per giustificare la presenza di ceppi maltosio-negativi. Alcuni studi suggeriscono che il glucosio potrebbe influire sul metabolismo del maltosio, reprimendo la sinte-
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si dei trasportatori del maltosio e delle maltasi che idrolizzano questo zucchero all’interno delle cellule. Le birre prodotte hanno avuto prestazioni fermentative e profili sensoriali nettamente diversi. Il ceppo G4 è stato selezionato per la sua produzione di composti aromatici, per la sintesi di melatonina e per il suo equilibrio, rendendolo idoneo come lievito da bio-flavouring o per la realizzazione di birre funzionali. Grazie al suo carattere
fruttato, particolarmente marcato in termini di aroma di banana e chiodi di garofano, gli studiosi lo ritengono impiegabile anche per la produzione di birre in stile Weizen. In altri due articoli in questo numero di BNM sono valutate le performance di due ceppi diversi di S. cerevisiae, un Kveik e uno di derivazione enologica, per sottolineare le differenze, i vantaggi, gli svantaggi e le potenzialità della diversità microbica di questa specie. ★
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di Massimo Faraggi
LA SFIDA DEI LIEVITI
Enologico vs. kveik alle prese con un idromele
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er questo esperimento ho utilizzato in due idromeli gli stessi due lieviti usati per la fermentazione delle due IGA, come descritto da Giorgia Bertan in un altro articolo di questa
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sezione. L’idea anche in questo caso è quella di mettere alla prova due lieviti appartenenti alla specie Saccharomyces cerevisiae (un lievito enologico e uno kveik) su un mosto per cui non sono
specificatamente previsti: per l’idromele sono infatti disponibili alcuni lieviti specifici (ad es. Wyeast #4184 e #4632) anche se in realtà è abbastanza frequente scegliere un lievito enologico. Meno
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usuale l’utilizzo di un kveik, anche se il suo impiego è riportato almeno in una ricetta di Marco Parrini, nel suo I Colori dell’Idromele.1 Lo scopo dell’esperimento è quello di confrontare i due lieviti sullo stesso mosto di idromele paragonando le rispettive performance in termini di attenuazione, velocità di fermentazione, eventuali off-flavour e risultato organolettico complessivo.
Ricetta e preparazione La ricetta utilizzata è ispirata a quella sopra citata. La dose di succo di arancia è stata sensibilmente diminuita rispetto all’originale, per evitare di caratterizzare troppo l’idromele coprendo gli eventuali contributi dei lieviti; ho ritenuto comunque di inserirlo (pur in dose ridotta) anche per l’opportuno bilanciamento dell’acidità, senza introdurre altri acidi alimentari. La densità iniziale è sostenuta, anche per mettere alla prova la tolleranza all’alcool dei due lieviti.
Al mosto ottenuto (poco meno di 6 lt) è stato aggiunto un cucchiaino (ca 4 gr) di nutriente, e poi suddiviso in due fermentatori in vetro, di 3.4 e 2.5 lt rispettivamente, inseminati con 3-4 gr dei rispettivi lieviti, ciascuno reidratato in 80 ml di acqua a 35°C, come da istruzioni dei produttori. La fermentazione è avvenuta a una temperatura ambiente intorno ai 25°C: visto il ridotto volume dei fermentatori, la sopraelevazione interna della temperatura si può considerare ininfluente. Questa temperatura è pienamente nel range di attività di entrambi i lieviti, anche se soprattutto per il kveik Voss - è possibile impiegare temperature ben maggiori, con relativa maggior velocità di fermentazione e produzione di aromi. Quello di 25°C si può ritenere un valore prudenziale e di buona utilità pratica per la produzione di idromele.
L’andamento della fermentazione è delineato nel grafico e nella tabella di seguito. Tab 1 - Andamento della fermentazione ORE
DENSITÀ (FG) KVEIK
ENOLOGICO
0
1.102
1.102
34
1.050
1.077
58
1.036
1.056
82
1.028
1.042
106
1.014
1.034
130
1.011
1.023
178
1.005
1.011
227
1.005
1.007
299
1.004
1.005
343
1.004
1.004
Ingredienti ❱ ❱ ❱ ❱ ❱ ❱
Miele millefiori artigianale 1800 gr Succo di arancia semipastorizzato 1 l Acqua qb a l 5,8 (ca 3,5 l) Nutriente per lievito BYOSAL HS2 Lievito (1) Lallemand kveik Voss Lievito (2) Enartis Byosal HS1
Il miele è stato disciolto in poca acqua (ca 1.5 lt) e pastorizzato a 65°C per circa 30 minuti. Questo step non viene sempre eseguito dai produttori ma in questo caso è stato effettuato per avere maggior sicurezza che la fermentazione avvenisse esclusivamente grazie ai lieviti inseriti. Sono stati poi aggiunti il succo di arancia e il resto dell’acqua, precedentemente raffreddati in modo da raggiungere più rapidamente la temperatura di inoculo (26-28°C).
Fermentazione La densità iniziale (OG) ottenuta è stata di 1102 (24,2 B), il pH di ca. 3,7 quindi nel range consigliato per il mosto di idromele.
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Fig. 1 - Kveik (a sinistra) e lievito enologico al lavoro
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Fig. 2 - Andamento della fermentazioni dei due idromeli
Le misurazioni sono state effettuate con un rifrattometro applicando le formule di correzione per il contenuto alcolico e di conversione da Balling (Plato) a OG secondo un foglio di calcolo proprietario.2 Al momento del primo travaso la misura è stata effettuata anche con il densimetro, con ottima corrispondenza con il valore ottenuto dal rifrattometro previa correzione. Come si può notare, il valore di FG finale (e quindi di grado alcolico e attenuazione) ottenuto dai due lieviti è stato identico. Si nota un leggero ritardo (circa 2 giorni) nello svolgimento della fermentazione del lievito enologico rispetto al Voss, che ha raggiunto la densità finale in 7 giorni rispetto ai 10-12 giorni dell’enologico. Il comportamento dei due lieviti è stato diverso: l’enologico nel giro di poche ore ha sviluppato una discreta schiuma, al contrario del Voss che nei primi due giorni non ne ha sviluppata; in realtà, come rilevato dalle misurazioni, la fermentazione del Voss era attiva e ancora più intensa rispetto all’altro campione. Il mosto Voss appariva più torbido e opalescente rispetto all’eno-
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logico, indice di un lievito polveroso e attivo in sospensione, contrariamente a quanto viene riportato in letteratura riguardo alla sua elevata flocculazione. Nel prosieguo della fermentazione entrambi i campioni hanno avuto un com-
portamento simile come formazione e dissolvimento della schiuma e velocità di sedimentazione. Al travaso, entrambi i lieviti si sono sufficientemente depositati, senza tuttavia compattarsi del tutto. Il pH di en-
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trambi i mosti è sceso a valori piuttosto bassi (2.8) dopo 5 giorni, quando la fermentazione era già in gran parte svolta.
Considerazioni Pur raggiungendo una buona attenuazione apparente (95%), l’attenuazione reale3 risulta intorno all’80%, presumibilmente in entrambi i casi la fermentazione si è arrestata a causa del raggiunto limite di tolleranza rispetto all’alcool (13%) o al pH (2.8). Si tratta comunque di valori consoni al tipo di idromele realizzato, in quanto una attenuazione maggiore avrebbe probabilmente reso il prodotto troppo secco e alcolico, mentre - vista l’acidità piuttosto elevata - un certo residuo zuccherino era auspicabile. Per quanto Lallemand specifichi per il Voss una tolleranza all’alcool del 1112%, diversi produttori casalinghi o artigianali hanno riportato spesso valori maggiori (anche fino al 15 o 16%). Il limite raggiunto del 13%, pur elevato ma inferiore, può essere dovuto a una differente temperatura di fermentazione, al pH basso oppure a una normale variabilità di comportamento del lievito.
Aspetto: pressoché limpido il kveik, leggermente velato l’enologico. Aroma: intensità olfattiva sensibilmente maggiore per il campione enologico. Per entrambi non sono stati rilevati evidenti off flavour dovuti a problemi fermentativi; alcool non pungente ma percepibile, notte fenoliche assenti. Aromi sulfurei di livello medio-basso per l’enologico, più basso per il kveik. Aroma di miele intenso per l’enologico, delicato per il kveik. Note speziate ed erbacee molto delicate per il kveik, meno percepibili nell’enologico per la maggior presenza di altri aromi.
Leggero agrumato per entrambi, dovuto presumibilmente al succo di arancia più che al contributo dei lieviti. Gusto e palato: considerazioni simili all’olfatto, con intensità maggiore nell’enologico e più scorrevolezza nel kveik. Nonostante il basso pH, per entrambi l’acidità risulta equilibrata, paragonabile al palato a quella di un vino bianco. In generale, entrambi gli idromeli non hanno manifestato difetti e fanno ben sperare in un buon risultato previa la dovuta maturazione; il kveik è risultato più elegante e bevibile, più vicino a essere “pronto”, l’enologico un po’ più spigoloso.
Risultato organolettico Idromeli di questo tipo e gradazione possono richiedere mesi (e talvolta anni) di maturazione per poter essere degustati al meglio della loro forma. Una valutazione e comparazione organolettica definitiva fra i due esperimenti non è stata possibile nei tempi previsti per questo articolo, ma è stato comunque interessante analizzare eventuali differenze aromatiche e gustative presenti al termine della fermentazione primaria, a quattro settimane dalla preparazione. Sono stati inizialmente predisposti due campioni dell’idromele fermentato con lievito enologico e uno con kveik e non si è avuta difficoltà a individuare il campione “diverso” basandosi su aroma e gusto.
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Fig. 3 - Pronti per l’assaggio! (a sinistra l’idromele da kveik)
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Conclusioni Il lievito enologico si è confermato una buona scelta per idromeli di questo tipo e gradazione, con una fermentazione relativamente rapida e un appropriato livello di attenuazione. Il fatto che aromi e gusto non siano ancora del tutto armonizzati non mi preoccupa, dato che l’esperienza mi ha insegnato che con la dovuta maturazione è prevedibile che si raggiunga un corretto equilibrio. Interessante l’impiego del lievito kveik, che anche per questo tipo di mosto conferma le sue caratteristiche di pulizia e di velocità, sia nella fermentazione pri-
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maria (senza necessità di temperature particolarmente elevate) che riguardo al tempo necessario per ottenere un prodotto pronto per il consumo. Inaspettatamente, il kveik oltre a non contribuire con aromi spiccati ha anche attenuato maggiormente gli aromi del miele: queste caratteristiche di pulizia e neutralità di aromi potrebbero essere addirittura considerate eccessive nel caso si ricerchino risultati di maggiore intensità e complessità. Per valutare meglio questi aspetti sarà indispensabile una nuova valutazione comparativa a distanza di qualche
mese… e conto su Giorgia e Michele per un parere! ★
Note 1
Marco Parrini, I Colori dell’Idromele, 2021 Ediz LSWR pag 146: Melomele all’arancia con lievito Voss
2
Si veda l’articolo “Misurare con la luce - uso pratico del rifrattometro” su www.maxbeer.org
3
L’attenuazione apparente (AA) non rappresenta l’effettiva percentuale di trasformazione degli zuccheri, poiché la densità è influenzata anche dalla presenza di alcool, più leggero dell’acqua. L’attenuazione reale (RA) si può ottenere con buona approssimazione come RA = AA x 0,82
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BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ
MATERIE PRIME
di Giorgia Bertan
LIEVITO ENOLOGICO PER UNA IGA
Storia di un piccolo insuccesso
È
una calda giornata di settembre e mi ritrovo a bordo della mia vecchia Panda alle prese con ZTL, area B, corsie per taxi/autobus e una multa appena ricevuta che mi fissa dal sedile del passeggero. L’ho presa per aver sorpassato un anziano con il cappello, probabilmente di ritorno dal suo appuntamento fisso di “bianchino” mattutino, mentre toccava i 35 km/h nei rettilinei e a cui poco importava di tutto il resto, soprattutto di me, bloccata dietro di lui e con un impegno importante che mi attendeva. E chi lo può biasimare? Il bianchino al bar con gli amici alle 9 del sabato mattina non è la pace in terra?
Ma torniamo a me e alla Panda: ad attendermi a Milano ci sono tanti esperti del settore birra, tutti collaboratori di BNM e in particolare Massimo Faraggi e Michele Matraxia. Ci sediamo a un tavolo e parliamo di esperimenti condotti, di nuove tecnologie, di ceppi di lievito particolari e la nostra attenzione ricade proprio su questi ultimi. Probabilmente l’immagine di quel signore che beve il bianchino, ancora nella mia testa, e la stagione della vendemmia in corso ci porta a parlare anche del lievito enologico, lontano dalla mia esperienza diretta, ma utilizzato da alcuni anche per fermentare mosto di birra o altri mosti. Da quella piacevole chiacchierata sca-
turisce l’idea di studiare l’andamento di una fermentazione condotta con lievito enologico sul mosto di birra e sul mosto di idromele e notare come lavora rispetto a un altro lievito particolare: il kveik. Torno a casa, riattivo il mio all-in-one e preparo i fermentatori per qualcosa di diverso dal solito. I due lieviti, enologico e kveik, che decidiamo di mettere alla prova, sono, a mio avviso, delle ottime soluzioni per fermentare un mosto di Grape Ale: il lievito enologico abituato al pH basso dell’uva e il lievito kveik per la sua capacità fermentativa molto aggressiva, che non teme pH bassi e produce lievi sentori di arancia. Quindi che ricetta fare se non quella di una IGA?
Alle pentole Trattandosi di un esperimento fermentativo non resta che recuperare i malti e i luppoli che ho già in casa e creare una ricetta. Utilizzo quindi malto Pils e una piccola percentuale (5%) di frumento maltato. Terrorizzata dalle ammonizioni di Michele sulla difficoltà di alcuni lieviti enologici ultra-selezionati ed altamente specifici per il vino di fermentare maltosio, decido di inserire anche un 5% di destrosio in bollitura per non stressare troppo il lavoro del nostro amico. Insieme a questo, dopo la bollitura, nel mosto raffreddato a 80°C aggiungo un 20% di succo d’uva a bacca rossa pastorizzato. Decido di inserirlo a questa temperatura per sottoporlo a una seconda pastorizzazione perché, prima di utilizzarlo, lo filtro da bucce e raspi ancora presenti, che non voglio assolutamente portare nell’impianto né tanto meno nei fermentatori. In
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mancanza di parti solide avrei inserito il succo d’uva direttamente nel fermentatore, al momento del trasferimento del mosto di birra, per mantenerne inalterati gli aromi e i sapori di fragola e frutti rossi. Utilizzando una piccola percentuale di frumento opto per un mash-in a 45°C, temperatura che mantengo per qualche minuto, giusto il tempo per la miscelazione e per la rilevazione del pH, che risulta pari a 5,41. Salto eventuali pause proteiche, affidandomi al lavoro enzimatico svolto comunque durante la rampa, e proseguo con il riscaldamento del mosto fino alla pausa amilolitica a 65°C. Dopo una lunga pausa di 60 minuti, porto il mosto a 71°C per 10 minuti circa, fino alla completa saccarificazione e procedo con il normale mash-out a 78°C. Come prevedibile, scelgo di fare una lunga pausa a 65°C per rendere il mosto il più fermentescibile possibile
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e affaticare il meno possibile il lievito enologico, che non so come reagirà. Abituati infatti a fermentare gli zuccheri meno complessi contenuti nel mosto d’uva, alcuni ceppi enologici possono fare “indigestione” di maltosio e produrre composti solforati, causa di offflavour. Eseguo quindi una bollitura di 75 minuti con gittata di luppolo solo in amaro a 60 minuti che apporta 17 IBU circa. Utilizzo del Magnum già aperto, nonostante avrei preferito un luppolo più delicato, ma mi accontento di quello che c’è, pentendomene però al primo assaggio post-fermentazione. L’amaro, infatti, risulta un po’ sgraziato, ma non mi preoccupa perché sicuramente si ammorbidirà nel tempo e soprattutto non è esattamente l’oggetto del mio studio. Anche se non in completo stile Grape Ale, che prevede solitamente densità più elevate, chiudo con 10,5°P post-boil e un livello di pH pari a 4,39.
Dividiamo e fermentiamo
Raffreddo il mosto a 28°C e lo divido in due fermentatori dove inoculo, in uno, il lievito LalBrew® Voss™ Kveik Ale di Lallemand e, nell’altro, il lievito enologico Enartis Byosal HS1 con il suo attivante HS2, venduto insieme al lievito, contenente ammonio solfato, fosfato di diammonio e vitamina B1, che apporta nutrienti al lievito e assicura una buona fermentazione. Lascio i fermentatori a temperatura non controllata in ambiente a 20-22°C, temperatura che i due mosti raggiungeranno dopo circa una settimana, alla fine della loro fermentazione primaria. Con inoculo all’1 di notte, sento il lievito kveik borbottare con decisione già al mio risveglio alle 6 del mattino, dopo sole cinque ore di attività. Si sa che il lievito Kveik ha una fase lag molto veloce, a volte anche di una sola ora, e posso supporre che abbia iniziato a fer-
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Grafico 1 - Variazione della densità
mentare anche prima delle cinque ore dall’inoculo. Il lievito enologico invece impiega circa 14 ore prima di farsi sentire con timidi gorgoglii. Nonostante la partenza più lenta di quest’ultimo, come si nota nel grafico 1 che compara l’andamento delle due fermentazioni, mi viene da dire che “chi va piano va sano e va lontano”. Partendo in-
fatti da un mosto di 10,5°P iniziali, inaspettatamente, ottengo i seguenti risultati: ❱ il lievito kveik raggiunge un’attenuazione apparente dell’88% e un grado alcolico finale di 4,9% alc./vol., con 1,3°P residui; ❱ il lievito enologico raggiunge i 5,1% alc./vol. con un’attenuazione del 92% e con 0,8°P residui.
Anche la prima misurazione rilevata a 17 ore dall’inoculo conferma l’attività fermentativa molto più aggressiva del lievito Voss Kveik con 7,5°P residui nel mosto, contro i 9,7°P nel mosto dov’è presente il lievito enologico Byosal HS1. Per quanto riguarda la variazione di acidità verificatasi durante le fermen-
Grafico 2 - Variazione del pH
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tazioni, si può notare, come ben visibile nel grafico 2, un abbattimento di pH maggiore operato dal lievito Kveik. Il pH iniziale di 4,39 è stato abbattuto fino a: ❱ 3,45 pH con il lievito enologico; ❱ 3,20 pH con il lievito Kveik.
Tab. 1 e 2 - Dati primi 14 giorni di inoculo DENSITÀ (°P) ORARIO RILEVAZIONE
KVEIK
ENOLOGICO
START
10,5
10,5
17 H
7,5
9,7
Nelle tabelle a fianco si riportano nel dettaglio i dati rilevati nei primi 14 giorni dall’inoculo.
30 H
6,7
8,8
43 H
6,2
7,5
56 H
4,0
5,0
Considerazioni finali
66 H
3,7
4,0
Analizzando i fermentatori durante la fase tumultuosa, noto una schiuma di fermentazione più alta prodotta dal lievito Byosal HS1. A livello di flocculazione invece noto un maggiore deposito nel fermentatore con il kveik. Ciò si traduce chiaramente in una pulizia maggiore della birra prodotta, che risulta meno torbida rispetto al campione fermentato con lievito enologico. A livello organolettico, il campione prodotto con il lievito kveik non presenta difetti evidenti al naso. Peccato per l’effetto in bocca: l’acidità è pungente e l’amaro, come già detto, un po’ sgraziato. Si sentono note di frutta rossa e di caramello. La birra prodotta con lievito enologico invece, come anticipato, sviluppa fin da subito un odore molto forte e per nulla piacevole di zolfo e uova marce. Con la speranza di far riassorbire i composti solforosi molto sgradevoli creatisi, non abbatto la temperatura. Noto un miglioramento a 20 giorni dall’inizio della fermentazione: l’odore nauseabondo si è sensibilmente affievolito, ma ne resta ancora traccia. Decido di sottoporre entrambi i campioni a una lunga maturazione, che li renderà sicuramente più interessanti e meno spigolosi. Ecco quindi che, nonostante le accortezze, i miei timori diventano realtà. Ma d’altronde Michele l’aveva predetto e lo ha spiegato bene nel suo articolo a pag 26. Mi sarei dovuta aspettare un risultato simile, considerando che fu una multa a ispirarmi. ★
86 H
3,0
3,7
113 H
2,5
3,2
137 H
2,2
2,5
210 H
2,2
1,5
330 H
1,3
0,8
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VARIAZIONE PH ORARIO RILEVAZIONE
KVEIK
VINO
START
4.39
4.39
17 H
3.46
4.14
30 H
3.32
3.47
43 H
3.24
3.43
56 H
3.21
3.42
66 H
3.19
3.40
210 H
3.19
3.43
330 H
3.20
3.45
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MARKETING E COMUNICAZIONE
di Matteo Malacaria
MEZZO PIENO O MEZZO VUOTO
Quanto marketing contiene un bicchiere di birra artigianale italiana?
I
l mondo è fatto di opinioni diverse e la birra non fa eccezione: ci sono gli ottimisti, che tendono ad apprezzare la mezza pienezza del bicchiere, e quelli che percepiscono il fastidio dell’assenza. Con il bicchiere in mano, anch’io, come i miei colleghi di redazione, condivido in questo numero quanto emerso durante l’incontro per festeggiare il decimo compleanno di Birra Nostra Magazine.
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
Dieci anni, mica pochi! Già il fatto che la rivista sia arrivata a tale traguardo vuol dire che il pubblico di lettori interessati c’è e che soprattutto il tema della divulgazione birraria - per carità, non chiamarla anche tu cultura, ché quella si fa nelle scuole e nei luoghi di formazione - è ancora, se non caldo, quantomeno tiepido. A me, come al solito, è stato affidato l’ingrato compito di osservare il fe-
nomeno sotto la lente di ingrandimento del marketing. Faccio una premessa: è fisicamente impossibile esaurire l’argomento in un solo articolo, pertanto prometto di ritornare sul pezzo con dovizia di dettagli il prossimo anno. Nel frattempo consentimi di anticiparti quello che è emerso durante la tavola rotonda e perché, secondo me, il bicchiere della birra artigianale italiana è mezzo vuoto,
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MARKETING E COMUNICAZIONE
perlomeno di marketing. Gli elementi d’esame sono essenzialmente due: il birrificio come impresa e il focus sul prodotto. Andiamo per ordine.
Manca cultura d’impresa Un problema diffuso è che l’imprenditorialità non faccia parte del DNA del birraio. Questa assenza è parzialmente giustificata nelle vecchie generazioni, i pionieri di quasi trent’anni fa e quelle che si sono lanciate subito dopo in un mercato ancora acerbo, lontano dai livelli di saturazione odierna, mossi da quella che a quei tempi aveva ancora senso definire passione. Molti di questi birrai possedevano un background tecnico, spesso e volentieri legato all’informatica oppure all’ingegneria. Gente che sa dove mettere le mani e che riesce a trovare soluzioni semplici a problemi complessi, insomma, ma che i numeri (a parziale eccezione di quelli statistici) li mastica gran poco. Un approccio imprenditoriale di questo tipo, fatto di sogni e belle speranze, è bello perché genuino, se visto nell’ottica del bicchiere mezzo pieno. Tuttavia la metà mancante ci dice essere un approccio immaturo, infantile addirittura: la birra è un gioco e il birrificio il mio giocattolo. Con buona pace dell’imprenditorialità, che si esaurisce nella creazione della ragione sociale e dei pochi mezzi promozionali a essa collegati (nome e logo), lasciando tutto il resto all’autogestione. Ha parzialmente funzionato agli albori, tuttavia dovrebbe essere evidente che oggigiorno non è più un approccio sostenibile. Purtroppo è ancora abbastanza diffuso anche tra le più recenti aperture: birrai che magari hanno fatto il salto di qualità, passando da un’esperienza squisitamente casalinga a una formazione professionale, ma che ancora mancano delle conoscenze e competenze legate alla gestione del birrificio come impresa. Mi ero illuso che le nuove generazioni riuscissero a superare questo limite, trovando nella giovane età il vantaggio di un approccio più maturo
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e consapevole, tuttavia durante il confronto verbale con la redazione è emerso il contrario: anche birrai più giovani del sottoscritto non hanno contezza di cosa significhi fare impresa. Da sempre l’imprenditore, birrario o meno, è colui che si lancia nel vuoto per poi costruire un aereo mentre sta precipitando, ma l’impressione è che i birrai si lancino senza avere i mezzi per farlo. Per circa trent’anni, che non sono affatto pochi, ci siamo fatti prendere la mano dalla cultura birraria, che per principio si poneva - e si pone ancora - come crociata per educare il popolo dei consumatori - con scarsi risultati, peraltro - perdendo di vista il fatto che mancano le basi, la cultura d’impresa. Una miopia che stiamo pagando a caro prezzo, con numeri che lesinano le soddisfazioni per gli attori di comparto, una mancanza a questo punto assolutamente ingiustificabile. Ecco perché su questo fronte il bicchiere è evidentemente mezzo vuoto. Il che rimanda al secondo aspetto, ovvero il focus sul prodotto.
Ragionare oltre il prodotto Che un birrificio abbia a cuore la birra e la sua qualità è sacrosanto. Guardati
bene dai fantomatici guru del marketing e dai fuffologi che spacciano aria fritta, creando un alone di marketing talmente fitto che il prodotto scompare al suo interno. Il marketing è un mezzo, non un fine, e come tale dovrebbe essere utilizzato, anche (ma non solo) a scopo promozionale, aumentando il bacino di conoscitori del prodotto, i suoi consumatori e di conseguenza le vendite. Il consumatore peraltro è scaltro, ci mette poco a riconoscere un prodotto di dubbia qualità e anche laddove si faccia abbindolare la prima volta, difficilmente torna a commettere lo stesso errore, quantomeno per non ammettere di essere stupido. L’inciso per evitare la pubblica gogna e sottolineare che, pur da markettaro quale sono, il prodotto rimane imprescindibile. Ma così come il marketing, anche la birra non dovrebbe essere il fine, bensì il mezzo. Un mezzo per fare soldi. Punto. È questo che significa fare impresa e una buona impresa è quella che riesce a farlo nel lungo termine. Come? Intercettando una domanda di mercato insoddisfatta o latente e proponendo un’offerta adeguata; adattando la linea produttiva, nella quantità e nelle ricette, esprimendo la propria
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MARKETING E COMUNICAZIONE
merciale e meno didattico, senza banalizzare il prodotto. Sia chiaro, i birrai devono continuare a perseguire i propri sogni, ma sarebbe opportuno che smettessero di negare l’impresa e allargassero i loro orizzonti oltre il prodotto, riconoscessero i propri limiti e capissero che da almeno quindici anni a questa parte è quantomeno inopportuno mettere in piedi un impianto senza il supporto di competenze in marketing. A partire dal fare impresa. Purtroppo anche sotto questo aspetto il bicchiere della birra artigianale italiana mi pare inesorabilmente mezzo vuoto.
Caro Babbo Natale
identità senza ignorare le esigenze di mercato; remunerando tutti i fattori produttivi e così contribuire alla crescita del PIL nazionale, creando contestualmente occupazione. Non mi piace essere volgare, eppure l’impressione è che alla maggior parte dei birrai parlare di soldi faccia schifo. È chiaro che se la domanda fosse “ti piacciono i soldi?” la risposta sarebbe sì; intendo però dire che il focus sul prodotto è eccessivo e limitante, al punto da rappresentare il criterio decisionale più importante, spesso e volentieri persino l’unico. Lo si osserva nelle collaborazioni tra birrifici oppure nelle nuove referenze che nascono dall’estro del birraio ma non sono supportate da una congrua analisi di mercato. Provo a essere ancora più preciso con un esem-
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
pio concreto: mentre l’industria già da tempo strizza l’occhio alle birre senza alcol, eretiche o meno che siano, alcuni produttori di birra artigianale continuano a insistere su birre di grado, spesso e volentieri a con un titolo alcolometrico a doppia cifra. Ovviamente le due realtà puntano a target diversi, la massa contro la nicchia, tuttavia rimane il fatto che soddisfare la massa passa attraverso l’analisi dei consumi, la nicchia attraverso quello che il birraio ha sognato la notte. Che il prodotto rimanga al centro ha senso, ma non per questo bisogna obbligare il consumatore ad avvicinarsi al prodotto. Piuttosto occorre scendere dal palco e tornare ad avvicinare il consumatore, appassionato o meno che sia, con un approccio inclusivo, più com-
Cosa rimane allora nel bicchiere, al netto della cultura d’impresa e del marketing? La birra, come birraio l’ha fatta. Un po’ come se ad Apple si togliesse Steve Jobs, il suo carisma e la sua visione, così come la capacità di circondarsi di professionisti e illuminati: rimarrebbe una mela morsicata e nient’altro. Io però sono ottimista di natura e non mi va di essere additato come quello che vede il bicchiere mezzo vuoto. Visto che sta arrivando Natale voglio essere buono e scrivere una letterina al buon Babbo, chiedendogli di perdonare i birrai cattivi e, per il 2024, portare in dono più corsi di formazione imprenditoriale e meno corsi per aspiranti birrai, più agenzie di comunicazione specializzate e meno cuggini che fanno siti web coi piedi e gestiscono i social aggratis, più GDO di qualità e meno presenza a scaffale per un pugno di euro. Più imprenditori birrari e meno birrai, insomma. Ci pensi tu, caro Babbo? ★
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MARKETING E COMUNICAZIONE
di Dario Rosso
Comunicazione e birra artigianale
UNA STERMINATA DOMENICA competenze finalizzate alla produzione; ma dovrebbe indicare ed educare ad atteggiamenti e disposizioni d’animo coerenti alla sua idea di lavoro artigiano e alla sua presenza in una comunità. Oggi per un birraio creare un prodotto, e venderlo, significa farsi carico delle aspettative del consumatore, dei suoi modi di consumo, dei suoi giudizi, magari anche dei suoi fraintendimenti. Il carattere di una birra sembra dipendere sempre più non solo dalla qualità, e tipo, di processo produttivo, ma anche dalla cultura che vi sottende; non solo dalle materie prime utilizzate, ma anche dall’attenzione e dalla passione infuse nel corso di tutto il processo produttivo.
“I mercati sono conversazioni” (Cluetrain manifesto) “I social non sono un mezzo, sono il fine: dovete restare su Facebook, non importa nient’altro” (Lara Marrama)
La persona consumatore1 al centro
La crisi dell’ultimo decennio ci ha costretto a riflettere su cosa e come compriamo, stimolando una maggiore attenzione alla qualità, alla sostenibilità e alla provenienza dei prodotti. È stata la rete a consentire l’emergere di una nuova cultura del consumo che, oltre ad apprezzare i prodotti, chiede di conoscere la storia delle donne e degli uomini grazie ai quali i prodotti hanno preso forma.
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
Se la birra artigianale italiana si sta conquistando il suo posto al sole è proprio grazie alla comparsa di un consumatore attento e consapevole, disposto a riconoscere il valore di un prodotto con un suo carattere, una sua individualità. Per anni chi ha bevuto birra ha stappato la sua bottiglia in modo non molto diverso da come apriva una Coca Cola2. Prezzo contenuto, sapore riconoscibile, sorprese zero. Oggi le birre e i loro consumatori sono cresciuti insieme, simbionti, ed entrambi rivendicano una loro identità ben definita, varietà, sapori ed aromi originali, una maggiore conoscenza delle materie prime e dei processi di produzione e distribuzione. Di più, oggi il birraio artigiano non si dovrebbe limitare ad acquisire e definire
“Il consumatore chiede di sapere cosa c’è alle spalle di ciò che si compra, di ciò che si regala, di ciò che usa tutti i giorni. Non si limita a verificare le etichette che certificano la responsabilità sociale o la sostenibilità ambientale di questa o di quella impresa. C’è oggi una domanda di verità che passa attraverso il contatto diretto con chi lavora e con chi produce”.3 dicembre 2023
MARKETING E COMUNICAZIONE
Diventa necessario per il birrificio artigianale aprire le porte e mostrarsi, comunicare e dialogare con il proprio cliente. Occorre rispondere a quella domanda di verità, senza mediazioni. Molti studi4 hanno mostrato come le informazioni a disposizione del consumatore influiscano significativamente sulle sue valutazioni, e che le proprietà estrinseche di una birra abbiamo un peso maggiore rispetto a quelle intrinseche.
“In questo contesto [...] giocano quindi un ruolo fondamentale nel determinare le scelte di consumo le informazioni di cui dispone il consumatore, come l’identità locale attribuita ad un prodotto, la comunicata genuinità dello stesso, il senso di appartenenza ad un movimento, che è in grado di assumere connotazioni addirittura culturali.”5
proprio perché dimensionati, o ridimensionati, su di un livello più umano. Molti birrai, a volte dimentichi di essere anche imprenditori, non hanno mai visto un designer professionista o un professionista della comunicazione. Home brewing e home branding sono considerati come valore per se stessi. In questo caso l’amatorialità è una scelta, deliberata e consapevole, che veicola un messaggio: “provare a vendersi, vuol dire svendersi”. Un atteggiamento fallimentare, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni che si affacciano al bancone. E se il birraio artigianale non si è preso il tempo sufficiente per pensare al messaggio che vuole veicolare, e assicurarsi di comunicarlo efficacemente; allora corre il pericolo che il consumatore arrivi a conclusioni indesiderate e controproducenti. Un’eventualità originata da campagne pubblicitarie pensate o pianificate superficialmente e da un uso provinciale e acerbo dei social media. Ai suoi estremi è, a ben vedere, il trionfo del provincialismo, che si identifica con un trionfo di tutte le ultimissime mode dando seguito a una pletora di contenuti copia e incolla, a una cultura tossica dell’hype e dell’incessantismo, delle collaborazioni fine a se stesse. Come se
la comunicazione, e la comunicazione sui social in particolare, sia un ricettario di formule da applicare sempre uguali, ignorando contesto e attori in gioco. Così ci troviamo a leggere descrizioni di assaggi, note di degustazione, ritratti di birrai e di birrifici che ripropongono lo stesso copione. È come se non si credesse a ciò che si scrive o si comunica.
“L’Italia, una sterminata domenica. Le motorette portano l’estate Il malumore della festa finita.”6 Una sterminata domenica mi sembra il sottotitolo perfetto e la perfetta definizione del panorama comunicativo che si gode nel mondo della birra artigianale. Una definizione che ci restituisce un’immagine di eterna festività effimera e vitellona.
It could work! Dalla pandemia due fattori hanno contribuito e collaborato a scuotere e rin-
Negli ultimi anni una tendenza particolarmente rilevante nella comunicazione è stata la ricerca dell’autenticità e di esperienze ricche di significato. Ricerca che, nella sua conseguenza più estrema, ha portato oltre il prodotto stesso. L’esperienza del prodotto conta più dei suoi benefit; l’emozione vince sulla ragione e sulla funzionalità (la Retorica di Aristotele non passa mai di moda). Sempre più consumatori scelgono marchi che operano su una scala ridotta e locale. Marchi che sono percepiti come più autentici (c’è sempre qualcuno più artigianale di un altro, per dirla come Orwell)
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MARKETING E COMUNICAZIONE
novare la comunicazione dei birrifici artigianali: Instagram e il riscatto delle lattine come formato di qualità. Esempio virtuoso di questo connubio è Birra dell’Eremo; sia per la linea di lattine introdotta nel 2020 e che per la sua intelligente presenza sui social. Il tema classico degli animali selvatici era presente in etichetta già sulle bottiglie, ma riguardo alle lattine Birra dell’Eremo ha optato per una scelta grafica più incisiva e moderna, in linea con le tendenze più aggiornate: fotografie macro, con dettagli ravvicinati dei diversi animali associati a ciascuna birra. Gli stessi animali scelti sembrano voler marcare una differenza, un nuovo corso. L’immagine corre sull’intero corpo della lattina, mentre gli elementi di testo in proporzione sono più piccoli, e concentrati in uno spazio ridotto da cui risalta l’iconico logo; uno dei meglio riusciti nel panorama brassicolo. Un restyling quello del 2020 in cui l’identità complessiva del marchio non è stata snaturata, ma il cambiamento della sua identità grafica è stato drastico. La per-
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sonalità, il carattere, come espressi dal design e dalla comunicazione in senso lato, sono la personalità del birrificio stesso. Una comunicazione coerente che ci racconta della storia e dei valori di ogni birra prodotta come delle persone che ci hanno lavorato. Mentre il labeling design veicola sempre più un sentimento, un’atmosfera o un’estetica, lasciando in panchina lo storytelling come nel caso delle linee Blind e Bootleg. La comunicazione à la page della birra artigianale lavora sull’assunto che il consumatore sia consapevole di star comprando una birra e che il packaging non debba ricordarglielo. Così, smessi i panni di didascalici divulgatori del verbo birrario, il birrificio artigianale può guardare all’esterno e presentare la birra come un prodotto culturale e sociale. Può mettere in relazione birra e musica, film, fumetti, e ogni manifestazione, anche trash, della cultura pop o, se vogliamo, del nazional popolare. In fondo la birra abita un territorio di confine. Quanti di noi siedono e si lan-
ciano in astruse degustazioni analitiche mentre bevono una birra al pub? Al pub discuti di musica, di cinema, di sport e di politica, e di argomenti più prosaici ovviamente. “I mercati sono conversazioni” e Birra dell’Eremo sta provando a entrare nella conversazione. E magari ispirarla. ★
Note 1 L’espressione “persona consumatore” restituisce dignità e responsabilità a quest’entità astratta, che comprende anche noi, chiamata in causa dal mercato. La maschera del “consumatore massa”, al contrario, deresponsabilizza a un tempo il produttore e il cliente, che, non sentendosi coinvolto, si astiene dal riflettere e dal giudicare consapevolmente. 2 S. Miceli, Fare è innovare. Il nuovo lavoro artigiano, Bologna, 2016. 3 Ibidem. 4 Si veda C. Garavaglia, Birra, identità locale e legame territoriale in “Agriregionieuropa”, a. VI, n. 6, marzo 2020, e relativa bibliografia. 5 Ibidem. 6 Vittorio Sereni, Nel sonno.
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MARKETING E COMUNICAZIONE
di Andrea Camaschella
Microbirrifici E MARKETING S
in dagli albori della birra artigianale i piccoli birrifici vengono criticati per l’assenza di marketing, di comunicazione, per la conseguente incapacità imprenditoriale. Tutto vero; per altro, i microbirrifici hanno sempre fatto fatica a sfruttare il marketing e appoggiarsi a una comunicazione solida che spingesse il commerciale. Se però analizziamo i primi birrifici notiamo anche che di solito il fondatore era anche il birraio e che i (pochi) soldi a disposizione venivano investiti in materiale per la produzione, in ristrutturazioni dei locali e in generale in cose concrete e immediate che permettessero di iniziare l’attività in un mondo, quello italiano in generale, non solo birrario, che non era minimamente pronto ad accoglierli. Inizi difficili, crescite minime e ancora una volta gli investimenti dovevano essere destinati ad aumentare e migliorare la produzione. Il marketing, il commerciale e altre funzioni chiave venivano procrastinate a tempi finanziariamente più maturi, quando l’azienda sarebbe stata solida. Ci si aspettava, nel primo decennio del 2000, una crescita di volumi produttivi e invece assistemmo all’apertura di una miriade di nuovi birrifici: microbirrifici nel senso letterale della parola.
Le difficoltà del settore La birra, in Italia, paga l’assenza di storicità. Il nord est, come eredità del periodo austriaco, ha una certa con-
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fidenza con la birra così come ci furono alcune interessanti realtà nel nord ovest. Prima il periodo autarchico e poi la devastazione portata dalla Seconda guerra mondiale mise però fine a quella breve “belle epoque” brassicola. In questo periodo di vuoto, senza realtà integrate nel tessuto sociale locale, la birra fu affare delle grandi industrie, che giocavano indisturbate a Risiko con i vari marchi, creando confusione tra i clienti e appiattimento di sapori e aromi. All’avvento dei primi birrifici artigianali il pubblico conosceva le “leve marketing” delle multinazionali: “sarai la mia bionda”, “birra… e sai cosa bevi” e ordinava attraverso queste - terrificanti - rappresentazioni le birre per colore (bionda o rossa) o per alcol (“una doppio malto”) o peggio ancora poteva chiedere una “birra cruda”. Questo era - e in parte ancora oggi è - il marketing della birra in Italia. A questo si somma un’altra anomalia, tutta italiana: anziché alla crescita dei singoli birrifici abbiamo assistito a un aumento esponenziale nel numero to-
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tale dei birrifici stessi. Tutti microscopici o quasi. Una parcellizzazione delle risorse che ha rallentato molto la crescita, e quindi anche l’evoluzione, del comparto. Nel mare magnum dei birrifici artigianali c’erano e ci sono aziende che hanno una visione imprenditoriale, che perseguono una crescita dei volumi con investimenti mirati; questi con grande fatica sono riusciti a crescere, a ritagliarsi la loro fettina di mercato e a mantenerla. Non è comunque la crescita che ci saremmo aspettati, ma c’è chi c’è riuscito e ha guardato sia al controllo qualità sia al marketing. Ancora oggi sono pochi i birrifici che superano i 5.000 ettolitri di produzione - a titolo personale me ne sarei aspettato una decina almeno oltre i 50.000 - e sono i soli che possono permettersi di avere all’interno una risorsa che sia esperta di marketing. Ci sono birrifici che stanno in piedi con pochi ettolitri prodotti, ben sotto ai 500 e di sicuro non hanno margini per investire nel marketing; ma ci sono anche tantissimi birrifici che non hanno la percezione di essere aziende, quelli
dell’“io sono un birraio, non un imprenditore”, detto pure con orgoglio. Poi si scopre che in effetti hanno altri lavori e che il birrificio lo portano avanti nel fine settimana e nei ritagli di tempo o che la moglie (o il marito) e la famiglia li mantengono a suon di versamenti nelle casse del birrificio. Dunque, se pochi riescono a sfruttare il marketing sulla propria azienda, si capisce quanto sia complicato pensare di mettere in piedi iniziative di marketing in comune, che possano aiutare il comparto nella sua interezza. Che poi è qualcosa di veramente utile e pure urgente. Nonostante la legge sulla birra artigianale del 2016, la confusione tra cosa è e cosa non è artigianale regna sovrana. L’assenza di una comunicazione efficace porta il comparto a ristagnare, a non riuscire ad aprire altri segmenti di mercato e soprattutto a lasciare alle multinazionali spazi immensi per le birre che in qualche modo scimmiottano le birre artigianali, le cosiddette crafty. Il periodo di crisi, iniziato nel 2020 con i lockdown e proseguito con l’aumen-
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to dei costi energetici e delle materie prime ha rimesso in discussione molti progetti che sono rimasti - o anche ritornati - nel cassetto perché i birrifici hanno dovuto compensare i costi finali piuttosto che investire in altro. Alcuni birrifici, alla ricerca di nuovi spazi sul mercato, hanno scelto di rafforzare il controllo qualità e in generale di investire in tecnologia per rendere più stabili i prodotti e allungare la shelf life, da intendersi come mantenimento delle caratteristiche organolettiche.
Un buon marketing fa la differenza Il fatto di non potersi permettere un direttore, o responsabile marketing interno non ha scoraggiato alcuni birrifici. In
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molti casi ho sentito raccontare di progetti portati avanti - e pagati - da birrifici con agenzie di consulenza poi miseramente naufragati prima di diventare davvero operativi. Le “colpe” dei birrifici? In sostanza il non avere le competenze per guidare questi esperti consulenti. Peccato che sarebbero gli esperti consulenti a dover andare incontro ai clienti, invece di essere solleciti solo nel momento di farsi pagare le fatture. Il problema è capire il mondo dei birrifici artigianali “da dentro”: non è affatto facile, ecco perchè avere un dipendente che se ne occupa, di marketing, fa la differenza. Purtroppo per molti birrifici è ancora una risorsa troppo onerosa a meno che non sia in grado di svolgere anche altre mansioni, ottimizzando
così il lavoro in birrificio. Avere competenze marketing permette di dialogare meglio con eventuali società esterne e di superare altri ostacoli senza dover ricorrere a espedienti o, appunto, ad agenzie esterne. Il fatto evidente è che negli anni la comunicazione del comparto artigianale è sempre più autoreferenziale, sempre più rivolta a sé stessi e ai pochi che “ne sanno”. In tutto questo riescono a stare sul mercato progetti - beer firm per lo più - che usano insulti o parole volgari come nome, che giocano su doppi sensi, sul maschilismo, sul razzismo. Da un lato linfa vitale per alcuni birrifici che hanno capacità produttive nettamente superiori alle loro necessità, dall’altro causa di ulteriore polverizza-
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Sud e isole
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occupare della produzione e di tutti i suoi aspetti ma di potersi concentrare sulla vendita permette - o meglio richiede - di dedicare tutte le risorse al marketing per agevolare il commerciale; questo è spesso un esempio di capacità imprenditoriale che molti birrifici dovrebbero imitare.
Qualcosa si muove
zione del mercato, le beer firm sono da sempre additate come uno dei mali del comparto. In realtà il non doversi pre-
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Se negli Stati Uniti i birrifici craft si muovono dietro a un’unica associazione, la Brewers Association, in Italia a UnionBirrai si sono affiancate negli anni svariate altre associazioni, tra cui AssoBirra (l’associazione degli industriali) sotto svariate forme, e ora la “battaglia” sembra giocarsi anche sul fronte agricolo con Coldiretti e CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) in campo. Da poco si è tenuto un convegno dal titolo “Un ecosistema imprenditoriale: territorio, tecnologia, storytelling” in
cui sono intervenuti i principali attori perché “La filiera birraria è diventata un intreccio rilevante e profondo di territorio, materie prime, tecnologie, ma anche comunicazione e storytelling. Il fare birra e il saper fare birra devono essere opportunamente comunicati dagli stessi imprenditori birrari per far conoscere al consumatore finale la cultura, la passione e il lavoro che sta dietro a un bicchiere di birra”. Dunque, a molti è chiaro che l’assenza di una comunicazione coesa e ben strutturata è un punto dolente su cui lavorare. Il problema è la disparità di necessità e la pluralità dei vari attori: ai sopra citati UnionBirrai, CIA, AssoBirra, Coldiretti (o meglio Consorzio Birra Italiana) si uniranno, come relatori, birrai, professori universitari e professionisti di vari settori legati al mondo tecnologico dei birrifici. Qualcosa si muove, da capire come e quando e dove tutto questo ci porterà. ★
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Le guide
IL MANUALE DEL BIRRAIO Il testo più completo e autorevole a livello mondiale sulla scienza e la pratica della birrificazione, riferimento indispensabile per tutti i birrai e per gli studiosi della materia. Illustra nel dettaglio i principi alla base del processo di produzione della birra, dalla maltazione all’ammostamento, all’utilizzo del luppolo e del lievito. Il volume approfondisce inoltre le fasi della fermentazione, i pericoli di contaminazione, la maturazione, l’imbottigliamento e le diverse influenze sul gusto finale della birra. Particolare attenzione è dedicata anche agli aspetti ingegneristici e tecnologici, per offrire soluzioni teoriche e pratiche all’azienda birraria di grandi e piccole dimensioni.
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MARKETING E COMUNICAZIONE
di Luca Grandi
IL MARKETING del turismo birrario
È
indubbio che la presenza dei birrifici artigianali italiani ha da tempo superato la dimensione del fenomeno ed è oramai riconosciuta da tutti gli indicatori economici come un importante segmento di mercato, un vero e proprio mercato strutturato, seppure con i tanti limiti fisiologici che impone
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un mercato ancora così giovane, nato appena trent’anni fa. Dalla decina di microbirrifici sorti nei primi anni ‘90 si è arrivati oggi a tagliare il considerevole traguardo delle millecinquecento unità, sommando birrifici con impianto di produzione e beerfirm. Molti di loro, nel corso di questo ten-
nio, hanno sviluppato competenze e professionalità, sia a livello produttivo che di marketing, che hanno consentito di superare il notevole affollamento di proposte brassicole che si sono esponenzialmente moltiplicate nello stesso periodo di tempo. I noti – e fisiologici – limiti distributivi, la dimensione local, l’assenza di una vera e propria rete commerciale ha così spinto molti birrifici ad affidarsi a soluzioni alternative che mettessero sempre al centro le loro produzioni ma valorizzandole abbinandogli del buon cibo, possibilmente del territorio. Così, oltre ai brewpub, sono sorte a decine le tap room, luogo di ristorazione ma anche di socializzazione, uno spazio multiculturale dove proporre giochi, eventi, buone letture, buon cibo e naturalmente ottima birra: sovente non solo quella prodotta dal proprio impianto ma anche da altri birrifici, contribuendo in tal modo anche ad una vera e propria diffusione culturale del prodotto birra artigianale. Inoltre, l’uso di materie prime del territorio in molte produzioni brassicole è divenuto materia di narrazione, un ulteriore tassello che si aggiunge alla suggestione e spesso alla fascinazione che un prodotto alchemico come la birra riesce a creare. La consapevolezza di poter indurre curiosità ad un consumatore magari appassionato ma che forse non conosce appieno i principali processi produttivi, arricchendo una spiegazione tecnica con un’accurata aneddotica ha stimolato la curiosità di moltissimi consumatori, disposti a grandi spostamenti
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per poter conoscere e apprendere i segreti dei migliori mastri birrai italiani.
Birrifici come presìdi del territorio Per potersi infine considerare parte attiva di un territorio, si sono dovute creare sinergie non solo con produttori di materie prime ma anche con le realtà culturali del luogo in cui ogni birrificio opera, adoperandosi per promuovere anche le risorse naturalistiche, paesaggistiche, monumentali e artistiche. Ed è nato così anche il fenomeno del turismo birrario (o brassicolo). Il birrificio diventa un luogo di visita e di aggregazione, dove poter bere e mangiare bene, dove trovare indicazione per visitare i siti più importanti del territorio, dove poter usufruire di servizi di vario genere (lavaggio della bicicletta, toelettatura del cane, spa e tanto altro), dove assistere a concerti o partecipare ad eventi culturali, a readings o a mostre fotografiche: e dove farsi raccontare - con aneddoti e curiosità varie - come nasce una birra.
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Tutto questo è stato in parte mediato - e per me da alcuni addirittura migliorato da quanto già avveniva da molti anni nel mondo del vino dove, tuttavia, permane spesso quel senso di sacralità che invece, nel mondo brassicolo, prende il nome di giocosità, di allegria e, passatemela, di vitale popolarità. Le cantine hanno fatto scuola, è indubbio, ed hanno aperto la strada ad un turismo alternativo, un turismo che coinvolga direttamente l’appassionato bevitore ma anche il semplice curioso, un turismo esperienziale e, per la dislocazione di molti birrifici, un turismo di prossimità. Sulle rotte dei birrifici sono così nati veri e propri itinerari che conducono il viaggiatore in luoghi e rotte meno battuti e già per questo ancor più interessanti, considerando l’esposizione turistica di massa delle grandi città e delle località italiane più note.
Formazione e comunicazione Il turismo lento birrario ha quindi il pregio di farci conoscere l’Italia nascosta, quella che a malapena si trova nelle carte geografiche ma anche quella che
custodisce uno spaccato reale di come si vive e di come si viveva in certi luoghi. A questa forma di turismo si stanno rivolgendo gli operatori del settore turistico, alla costante ricerca di proposte e prodotti alternativi; Smartbox, il più importante vettore di proposte turistiche al consumo d’Europa, propone già dal 2014 pacchetti in cui include proposte esperienziali nei birrifici italiani. Molti nostri birrifici hanno quindi captato questa ulteriore opportunità di sviluppo del proprio business, ma occorre fare alcune considerazioni e le facciamo in senso generale, senza specifici riferimenti. La prima è che oggi come mai prima d’ora si impone la necessità di formazione; potrà sembrare abusata - e in certi casi lo è stata - ma una buona formazione è alla base del successo o meno delle nostre proposte. Non è sufficiente decidere di aprire un locale per farlo diventare un buon locale, occorre conoscere bene le norme di una buona accoglienza, le regole per far diventare un’esperienza un’esperienza da ricordare e soprattutto da far racco-
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mandare ad altri. Quello che sappiamo fare meglio è produrre birra, certo, e magari dell’ottima birra, ma non possiamo inventarci un mestiere che come quello del mastro birraio impone la conoscenza di certe norme e di certe regole. Un operatore turistico privilegia rotte e locali dove sia costante la proposta, dove sia coerente e ripetibile nel tempo, che non s’inceppi per la carenza di personale magari già impegnato in produzione. Per questo alcuni birrifici si sono
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strutturati arruolando personale con mansioni di guida per i visitatori, personale che abbia capacità di accoglienza e al contempo che sappia spiegare al meglio le attività del birrificio. Non si tratta di snaturare il birrificio, né tanto meno di far diventare il birrificio qualcosa di diverso da quello che è, ma casomai di migliorare e arricchire un patrimonio che si sta mettendo a disposizione di altre persone, giunte apposta fin lì per fare un’esperienza mai fatta.
Una buona formazione - ça va sans dire - che parta da una buona gestione della propria comunicazione, off e online, dei propri canali social - troppo spesso infarciti di notizie utili solo agli addetti ai lavori - che passi da una visione quanto più personale del locale (un visitatore dovrà sempre percepire lo stile, la mano di chi lo sta accogliendo) e che arrivi infine alla perfetta conoscenza di quanto si sta mettendo in tavola e alla migliore conoscenza del territorio che si sta promuovendo. Queste conoscenze e queste esperienze vanno poi promosse anche in altri ambiti, come ad esempio le fiere a cui si partecipa. Ciò servirà a far conoscere al meglio le potenzialità del proprio birrificio ma anche per incentivare altri birrifici ad esplorare questo percorso, al fine di aumentare sempre più la proposta turistica birraria italiana e a rendere ancora più visibili i birrifici artigianali. Visibilità che, lo ricordiamo, viene anche dalle pubblicazioni specializzate nelle quali, oltre a descrivere itinerari e percorsi, si recensiscono i birrifici artigianali presenti lungo queste rotte. Quei birrifici che stanno investendo anche nell’ospitalità, nella qualità dei prodotti che offrono ai clienti e nella promozione diretta del territorio nel quale producono. ★
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HANNO SCRITTO PER NOI su questo numero Giorgia Bertan Giorgia Bertan
Davide Bertinotti
Laureata in Mediazione linguistica e culturale, con un passato nella logistica e una grande passione per la birra artigianale che mi accompagna da una decina di anni. Nel 2020 ho mollato tutto per tornare sui banchi di scuola e diventare birraia. Oggi mi divido tra Piemonte e Lombardia lavorando in produzione da Birrificio Castagnero e Serra Storta.
Davide Bertinotti
Dal… secolo scorso viaggio, bevo, produco (per autoconsumo) e racconto birre. Sono autore di libri sulla produzione, servizio della birra e sul mondo dei microbirrifici italiani. Docente di produzione presso ITS Mastro Birrario Torino.
Andrea Camaschella
Appassionato di birra da svariati anni, sono coautore dell’Atlante dei Birrifici Italiani, docente ITS Agroalimentare per il Piemonte e in svariati altri corsi.
Norberto Capriata
Andrea Camaschella
Norberto Capriata
Scienziato, filosofo, artista, pornografo, viaggiatore del tempo, mi divido tra la florida attività di arrotino-ombrellaio e la passione per la birra artigianale. Ho collaborato con le principali riviste del settore, a loro insaputa, e insegnato in vari corsi di cultura birraria, che nessuno ricorda. Conosco perfettamente la differenza tra Porter e Stout, ma non la rivelerò mai.
Massimo Faraggi
Pioniere dell’homebrewing in Italia e docente di birra fatta in casa, sono stato co-fondatore di MoBI e curatore della rivista dell’associazione. Sono autore di articoli e libri di tecnica e cultura birraria.
Luca Grandi
Ho fondato il brand Birra Nostra nel 2007 e il web magazine Birra Nostra Magazine nel 2013; nel frattempo ho ideato ed organizzato TEDx e fiere per i più importanti enti Fiera italiani e dal 2016 sono consulente per Fiere Parma e CIBUS. Scrivo per Slow Food, CiBi Magazine, Foodies e Mark You; coautore de La via della birra - un Grand Tour attraverso l’Italia dei birrifici artigianali ed autore di Guide per viaggiatori.
Massimo Faraggi
Matteo Malacaria Luca Grandi
Giudice qualificato BJCP e beer sommelier, autore del blog Birramoriamoci.it e del libro Viaggio al centro della birra. Mi occupo di comunicazione e marketing applicati al settore birro gastronomico e sono docente presso la NAD di Verona.
Michele Matraxia
Ex PhD Student presso il Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali (SAAF) dell’Università degli Studi di Palermo, docente di scienze agrarie e homebrewer. Mi occupo di selezione e screening tecnologici su lieviti non-convenzionali per le produzioni di birre e idromeli. Ho da poco discusso la mia tesi di dottorato dal titolo “Innovazioni biotecnologiche nei processi fermentativi delle birre e di bevande fermentate a base di miele”.
Matteo Malacaria
Eleni Pisano Michele Matraxia
Scrivo, fotografo, insegno e racconto di cibo. Esperta di turismo esperienziale in ambito brassicolo, beerchef, food stylist e beernauta in cerca di eccellenze in ambito brassicolo. Ho lavorato per grandi marchi del mondo birrario italiano e poi mi sono avvicinata al mondo brassicolo artigianale. Lavoro come consulente e beerchef in diversi locali tra Milano e Monza. Collaborazione su beer pairing.
Dario Rosso
Piemontese di nascita, romagnolo di origine. Cultore appassionato della storia e delle arti, aficionado della buona tavola, divoro libri, cibi e bevande ritenendoli la massima espressione dell’homo sapiens. Di me scriverei, scimmiottando l’Angiolieri: “Tre cose solamente mi so ‘n grado le quali posso non ben fornire ciò è i libri, la taverna e il cibo; queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire”.
Eleni Pisano
Mirka Tolini
Professionista della scrittura, sono arrivata alla birra artigianale per amicizia. In dieci anni entrambi i legami sono fermentati! Dario Rosso Mirka Tolini
NEWS
SCRIVONO PER NOI Alessandra Agrestini
Alessandra Agrestini Flavio Boero
Lavoro nel marketing di un’azienda di moda, ma collaboro con diverse realtà per docenze e corsi a tema birrario, oltre ad essere giudice in concorsi nazionali ed internazionali
Flavio Boero
Perito chimico, ho iniziato a lavorare come tecnico di Laboratorio alla Poretti S.p.A. di Induno Olona e quando l’azienda è stata acquisita da Carlsberg sono diventato responsabile qualità fino al pensionamento. Fin dal sorgere dei primi microbirrifici mi sono appassionato alla birra artigianale collaborando attivamente ai corsi di formazione per birrai e beer-sommelier. Partecipo, in qualità di giudice, ai concorsi birrari In Italia e all’estero.
Antonio Boschi Antonio Boschi Stefano Buiatti
Grafico di professione e grande appassionato di musica e di arte. Ho all’attivo l’ideazione e l’organizzazione di alcuni festival, tra cui il Rootsway premiato nel 2009 come migliore a livello europeo. Redattore della rivista Il Blues, da anni collaboro con Visit USA Italy oltre ad essere uno dei soci fondatori della società A-Z Blues. Autore del libro Blues Pills e altre storie.
Stefano Buiatti
Dal 1994, docente di Tecnologia della Birra presso l’Università di Udine. Esperienze in controllo qualità della Birreria Moretti di Udine e di ricerca presso il Brewing Research International a Nutfield, in Inghilterra. Consulente esperto nella valutazione di progetti tecnico scientifici per la Commissione Europea e presso la Fondazione Edmund Mach a San Michele all’Adige. Autore di pubblicazioni scientifiche e divulgative.
Katya Carbone Katya Carbone Mario Cariello
Ricercatore presso CREA Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura, Agrumicoltura. Responsabile del laboratorio di “Chimica e Biotecnologie degli Alimenti”, da anni impegnata nel settore brassicolo e in quello luppolicolo in particolare. Coordinatrice di diversi progetti nazionali sulla filiera, sono autrice di numerose pubblicazioni ed esperto tecnico al Tavolo di settore presso il Masaf, dove coordino il GdL “Ricerca e Sperimentazione”. Membro dello Steering Committee per la stesura del Piano di settore del luppolo.
Mario Cariello
Esperto in attività di comunicazione digitale e social media strategy presso il CREA - Politiche e bioeconomia. Sono specializzato in comunicazione pubblica e d’impresa, con una particolare attenzione ai nuovi media e alle tecniche di comunicazione digitale.
Paolo Celoria
Sono un appassionato di birra buona fin dal lontano 1994, grande bevitore di qualità e quantità, giudice e docente birrario.
Daniele Cogliati
Paolo Celoria Daniele Cogliati
Sono un lettore e viaggiatore birrario seriale giudice BJCP, scrivo su alcune riviste di settore e gestisco la pagina Facebook Beerbliophily – Books for Beer Lovers, sulla quale pubblico recensioni di libri sulla birra.
Francesco Cordovani
Giudice Bjcp dal 2018 e Membro del direttivo di MoBI. Dal 2014 sono passato dallo status di bevitore inconsapevole di birra industriale a homebrewer convinto, sempre alla ricerca della birra perfetta.
Lorenzo “Kuaska” Dabove
Degustatore, esperto, docente, giudice e scrittore di birra. Pioniere nel supportare il movimento artigianale italiano. Da aprile 2021 ho assunto la carica di Presidente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Accademia delle Professioni di Padova. Ho pubblicato La birra non esiste, Le Birre e Il Manuale della Birra con contributi e capitoli di libri di Michael Jackson, Tim Hampson, Garrett Oliver, Randy Mosher, Tim Webb e Stephen Beaumont.
Francesco Cordovani Lorenzo “Kuaska” Dabove
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NEWS
Francesco Donato
Francesco Donato
Pioniere della divulgazione della cultura birraria nel Sud Italia, mi occupo da oltre vent’anni di ristorazione, maturando esperienze come publican sia da dipendente, sia da titolare. Ex Consigliere MoBI, giudice a Birra dell’Anno, sono formatore e docente per svariate associazioni.
Tommaso Ganino
Tommaso Ganino
Professore Associato presso l’Università di Parma. Ho sempre lavorato su temi legati alla biodiversità, alla selezione e valorizzazione di piante agrarie e dal 2011 lavoro sulla filiera del luppolo. Responsabile del Centro di certificazione del luppolo per incarico del MiPAAF dal 2015; insieme al mio staff ho selezionato tre genotipi di luppolo a genetica italiana; mi occupo inoltre di agricoltura 4.0 applicata al luppolo.
Luca Giaccone
Fin dalla prima edizione sono curatore della Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore, giudice internazionale (Birra dell’Anno, Brussels Beer Challenge, European Beer Star, World Beer Cup), docente per i master dell’Università di Scienze Gastronomiche e per i corsi birra di Slow Food, Unionbirrai e Fermento Birra.
Luca Giaccone Erika Goffi
Erika Goffi
Operatrice turistica per vocazione, craft beer enthusiast per passione! Ho coronato uno dei miei sogni trasferendomi in Belgio prima, passando per Olanda e Germania poi, vivendo così in prima persona tre importanti paradisi brassicoli europei.
Alberto Grandi
Professore di storia economica all’Università di Parma dove insegno Storia dell’Alimentazione e Storia dell’Integrazione Europea. Sono autore di circa cinquanta pubblicazioni accademiche in Italia e all’estero. Negli ultimi anni mi sono dedicato alla divulgazione scientifica con libri come Denominazione di Origine Inventata, Parla mentre mangi e L’incredibile storia della neve e della sua scomparsa, ma soprattutto con il podcast “DOI - Denominazione di Origine Inventata” che ha raggiunto il primo posto per ascolti sulle principali piattaforme di distribuzione.
Alberto Grandi Ignazio Gugino
Ignazio Gugino
Laureato in Mediterranean Food Science and Technology e attualmente dottorando presso il dipartimento SAAF dell’Università degli Studi di Palermo. Appassionato homebrewer, dalla tesi di laurea magistrale mi occupo di caratterizzazione di materie prime locali per la produzione della birra, in particolare malti da cereali autoctoni.
Luca Iaccarino
Viaggio, mangio e scrivo per D - La Repubblica e per Il Corriere della Sera. Sono food editor di EDT-Lonely Planet. Il mio ultimo libro è Appetiti - Storie di cibo e di passione.
Francesco Licciardo
Economista agrario impegnato in attività di analisi e ricerca presso il CREA - Politiche e bioeconomia. I miei studi comprendono, fra gli altri, gli effetti delle politiche di sviluppo rurale, i processi di aggregazione nel settore agroalimentare e le analisi di filiera, tra cui quelle minori come il luppolo.
Luca Iaccarino Francesco Licciardo
Maurizio Maestrelli
Giornalista professionista e scrittore. I libri che ho pubblicato sono: Birre, Speakeasy. I locali più segreti al mondo, Anthologin. Sono giudice in concorsi internazionali (World Beer Cup, Brussels Beer Challenge, Canada Beer Cup) e svolgo attività di consulenza per aziende del settore food&beverage.
Roberto Muzi
Formatore, sommelier, assaggiatore ONAF e consulente di settore. Laureato in Scienze Politiche, sono stato responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore dal 2014 al 2021 e giurato in diversi concorsi birrari nazionali.
Maurizio Maestrelli Roberto Muzi
dicembre 2023
BIRRA NOSTRA MAGAZINE
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NEWS
SCRIVONO PER NOI Marco Parrini
Marco Parrini
Paolo Passaghe
Sommelier e Degustatore (Vino-Birra-Olio-Distillati), homebrewer di vecchia data, appassionato di miele e dei fermentati a base di questo prodotto, ho studiato come autodidatta quasi tutto lo scibile sull’argomento fino a proporre al mercato italiano il primo libro dedicato all’idromele.
Paolo Passaghe
Laureato in Controllo e Gestione della Qualità dei Prodotti Alimentari, dottorato in Scienze degli Alimenti (2014), con uno studio sulla stabilità colloidale di birre artigianali prodotte con succedanei gluten free, presso l’Università degli Studi di Udine. Collaboratore del Prof. Stefano Buiatti nella sezione di ricerca e sviluppo (Brewing Science Group) e tecnico della micromalteria sperimentale dell’Università di Udine.
Antonino Pirrone
Antonino Pirrone
PhD Student presso il Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali (SAAF) dell’Università degli Studi di Palermo. Mi occupo di microbiologia alimentare e studio le fermentazioni birrarie. Sto lavorando ad un progetto di ricerca sulle “Sicilian tropical fruit beer’’.
Luca Pretti Daniele Risi
Laureato in Scienze agrarie e dottore di Ricerca in biotecnologie microbiche. Ricercatore nel centro Porto Conte Ricerche di Alghero. Conduco corsi di divulgazione della cultura birraria per appassionati e professionisti e sono stato responsabile scientifico e docente del primo corso di formazione in Sardegna per birraio artigiano. In qualità di giurato ho partecipato al concorso Birra dell’anno ed al Bruxelles Beer Challenge. Collaboro inoltre con Slow food per l’area birra in Sardegna.
Daniele Risi
Appassionato di lungo corso, degustatore di birra, salumi e whisky. Ubt e giudice a birra dell’anno. Dal 2011 al 2018 ho lavorato al birrificio sociale Vecchia Orsa di cui sono stato Vice Presidente, come factotum: dalla produzione, all’amministrazione, oltre che la parte commerciale. Dal 2017 sono socio del pub il Punto di Bologna oltre che di Mezzopieno Distribuzione e del relativo Beershop.
Luca Pretti
Simonmattia Riva Margherita Rodolfi
Innamorato delle birre da più di venticinque anni, nel 2015 ho vinto il campionato mondiale dei Biersommelier Doemens. Giudice nei principali concorsi internazionali, sono docente in numerosi corsi di degustazione, membro di Unionbirrai Beer Taster e collaboratore delle principali riviste e guide di settore. Sono titolare del piccolissimo pub Beer Garage di Bergamo.
Margherita Rodolfi
Dottore di Ricerca dal 2016 in Scienze e Tecnologie Alimentari. Ho partecipato attivamente, come responsabile di laboratorio e ricerca e sviluppo, a progetti di ricerca sul luppolo e sulla filiera brassicola. Negli ultimi anni mi sono concentrata su studi di valutazione del terroir di diverse varietà di luppolo.
Christian Schiavetti
Christian Schiavetti
Simonmattia Riva
Dal 2010 ho iniziato a viaggiare in Belgio e in Franconia ma non solo. Diversi corsi targati MoBI, anche da homebrewer e Good Beer, mi hanno portato ad aprire il blog Birre Bevute 365 e collaborare tra altri con Giornale della Birra e Guida alle birre D’Italia.
Federico Viero e Vanessa Alberti
Coppia di chimici industriali appassionati di birra artigianale da diversi anni. Abbiamo unito la nostra passione brassicola con quella dei viaggi andando a scovare birrifici anche nei posti più remoti del mondo. Federico Viero e Vanessa Alberti
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
dicembre 2023
Scriba Studio / ph Paolo Marchisio
Qualità la progettiamo, la costruiamo, la imbottigliamo
MACCHINE IMBOTTIGLIATRICI 1.000-20.000 B/H
fraz. Cappelli 33/b, 12040 Ceresole d’Alba (Cn) tel. +39 0172 574 416 - fax +39 0172 574 088 email: gai@gai1946.com - www.gai1946.com
BeerFoss™ FT Go Tipo di campione: Mosto Mosto in fermentazione Birra finita Parametri: Alcol, SG, densità, pH, RDF, estratti (grado P°) e calorie
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