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Una mucca in un mare di plastica

Mentre ce ne stavamo sotto l’ombrellone, entrava in vigore la direttiva UE 2019/904, che sancisce il divieto di vendita di prodotti in plastica monouso, come posate, piatti, cannucce, palette, nonché alcuni contenitori alimentari in polistirolo espanso. Per quanto si tratti di un’ottima notizia, considerato che qualche bagno nelle acque cristalline dei nostri mari, è stato inevitabilmente funestato da miriadi di orribili microplastiche trasportate dalle correnti (per non parlare ovviamente dell’impatto sull’industria ittica e più in generale sull’ecosistema marino), l’Italia non ha preso completamente di buon grado la cosa. Si tratta infatti di un cambiamento importante per l’intero comparto produttivo che, se da un lato può spingere l’acceleratore sull’utilizzo delle alternative naturali alla plastica, come i polimeri ottenuti da mais, barbabietole e canna da zucchero, dall’altro si trova a dover affrontare una brusca frenata per numerose aziende produttrici di usa e getta per il settore alimentare. Il divieto infatti riguarda anche le bioplastiche e le carte plastificate (impiegate per la ristorazione veloce e per latte e succhi di frutta), di cui siamo grandi produttori. È poi ancora tutto da valutare l’impatto della pandemia sui

consumi di plastica monouso, certamente incrementati in seguito alle nuove consuetudini di pasti take-away o consegnati a domicilio e alla priorità data alla sicurezza nella ristorazione collettiva. Visto che questa montagna, o forse è il caso di dire mare, di plastica andrà in qualche modo smaltita, occorre valutare come e trovare nuove soluzioni. Un’interessante possibilità sembra arrivare ancora una volta dai microbi. Un recente studio pubblicato su Applied and Environmental Microbiology ha dimostrato come i batteri marini nelle gelide acque dell’Artico canadese siano in grado di Trattare i rifiuti biodegradare gasolio e petrolio (componente anche di diversi tipi di plastica). Più insolito, ma a quanto pare non meno plastici con i microbi efficace, è il contributo alla degradazione di poliesteri sintetici offerto dai batdel liquido ruminale teri del rumine. Questo non significa che per liberarci della plastica che ci sommerge dovremo includere nella razione delle bovine una buona dose di bottigliette e simili, ma che, come sottolineato dai ricercatori austriaci in un lavoro uscito su Frontiers in Bioengineering and Biotechnology, possiamo cercare di identificare e coltivare i microbi del liquido ruminale coinvolti, insieme agli enzimi, nell’idrolisi sinergica di tali polimeri ed impiegarli con modalità mirate per trattare rifiuti plastici. E sinergico dovrà necessariamente essere lo sforzo delle

BENEDETTA BOTTARI aziende alimentari coinvolte nella pro-

Professore Associato Microbiologia degli Alimenti duzione, uso e smaltimento dei materiali

Università degli Studi di Parma da imballaggio.

IL SUCCESSO DEL FOOD SHARING

Le app che permettono di acquistare in modo semplice e veloce prodotti alimentari invenduti prendono sempre più piede anche nel nostro Paese, grazie alla loro capacità di unire risparmio e sensibilità verso l’ambiente. La più diffusa è Too Good To Go che, dalla sua introduzione in Italia nel 2019, conta ad oggi più di 4,5 milioni di utenti registrati. Ma sono diverse le app anti spreco che permettono di acquistare da ristoranti o altre strutture scatole con una selezione a sorpresa di prodotti e piatti freschi rimasti invenduti a fine giornata e che non possono essere rimessi in vendita il giorno successivo. Il procedimento è molto semplice: si prenota il cibo tramite app, e si passa a ritirarlo al punto vendita nella fascia oraria specificata. Sicuramente il successo di queste applicazioni, che dopo un arresto nel periodo critico della pandemia hanno da tempo ripreso a viaggiare a pieno regime, dipende da un’accresciuta sensibilità da parte di consumatori ed esercenti nei confronti di temi come la sostenibilità e lo spreco alimentare, ma un altro fattore decisivo è rappresentato dalla necessità di risparmiare, a causa del peggioramento delle condizioni economiche di molti cittadini per via dell’emergenza sanitaria. Nonostante il food sharing non sia un fenomeno nuovo a livello europeo, in Italia è infatti cresciuto esponenzialmente durante il periodo della pandemia, registrando da aprile a giugno 2020 un incremento del 30% rispetto al periodo ottobre-dicembre 2019.

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