Brizzi enrico nessuno lo sapr viaggio a piedi dallargentario al conero

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Enrico Brizzi, nessuno lo saprà. Viaggio a piedi dall’Argentario al Conero. Copyright 2005 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. I edizione maggio 2005.

Non sarà un coast to coast da New York a Los Angeles, ma anche il più modesto “da costa a costa” dal Tirreno all’Adriatico può riservare sorprese, generare avventura, produrre mito. Basta uscire dal centro abitato - e già non è facile - e imboccare la prima strada bianca che sale in mezzo ai colli per rendersi conto che smarrirsi è un’eventualità più che concreta, che un cane randa-gio non è proprio una minaccia da nulla, che individuare il posto ideale per piantare la tenda può ri-chiedere assai più tempo del previsto, che neppure trovare un agglomerato di case munito di bar è così ovvio e che niente, per la verità, è più come prima, scontato come prima. Tre settimane di marcia ed ecco un mondo impre— vedibile, così dietro casa e così assolutamente remoto, tutto da raccontare. Enrico Brizzi parte con il fratello e poi completa il percorso in compagnia di tre amici. Al resoconto delle avventure del minuscolo drappello si aggiungono, sulla pagina, impres— sioni, visioni, suggestioni e storie che il territorio, vero protagonista di questo libro, lascia sgorgare così, in maniera quasi spontanea. L’uomo che cammina si adatta presto a un nuovo


ritmo, del corpo e dei pensieri, come dirà quel gran personaggio che è il Vietnamita: «Mentre cammino, penso, e i pensieri più spigolosi si levigano da soli. Per via dell’attrito. È una regola fisica». Così, da Orbetello a Portonovo d’Ancona, passando per il Monte Amiata, le colline a sud del Trasimeno e l’alta valle del fiume Potenza, attraversando tre regioni, pagina dopo pagina questo libro avrà tutto il tempo - un tempo pacato, un tempo riflessivo, il tempo di una volta - di mostrare ai suoi lettori ciò che non vuole essere e ciò che è. E allora: non è un manuale pratico, benché contenga itinerari e consigli; non è, o non è fino in fondo, un semplice diario di viaggio, nonostante contenga resoconti sinceri e tanta onestà. Non è un libro concepito per pagare un debito a suggestioni letterarie, benché sia indubbia l’influenza di scrittori-camminatori come Thoreau e Chatwin. Non è solo un romanzo, anche se coloro che vi compaiono, che lo attraversano o che semplicemente vi fanno capolino, hanno tutti la complessità e la dignità di quei personaggi che il suo autore blandi-sce, corteggia, ama. È semplicemente un libro concepito con felicità, con freschezza, con la purezza e il respiro dell’aria aperta. Enrico Brizzi è nato a Bologna, dove vive e lavora, nel 1974. Ha esordito presso Transeuropa con il romanzo Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994; Baldini&Castoldi, 1995), tradotto in ventiquattro Paesi. Presso Baldini&Castoldi ha pubblicato i romanzi Bastogne (1996), Tre ragazzi immaginari (1998), Elogio di Oscar Firmian e del suo impeccabile stile (1999). Per Transeuropa, nel 1999, ha pubblicato il mondo secondo Frusciante Jack, un libro-intervista a cura di Cristina Gaspodini. Da Mondadori sono usciti L’altro nome del rock (2001, insieme a Lorenzo Marzaduri) e Razorama (2003).


Nessuno lo saprà . A Cristina, Cioè, Maia e Altea.


Uomini vanno ki per prode e chi per danno per lo mondo tuttavia. (Detto del gatto lupesco).


Un ringraziamento particolare ai ragazzi che hanno camminato insieme a me: R. B., G. S., V. Gv A. R, M. G.; G. L.

Intro. Ma adesso eri sposato. Eri sposato da quindici mesi, e avevi un figlio. Avevi un figlio, e con tua moglie una serie di cose cominciava-no a perdere quota. Avevate vissuto insieme tre anni, prima di sposarvi, ma adesso quella stessa ragazza non si ricordava più tanto bene chi eri, e pu-re con il lavoro le cose non procedevano a meraviglia. Era un mondo molto piccolo, quello del tuo lavoro, e lo era ancora di più da quando era arrivato il bambino. La stanza in cui la-voravi era adesso la sua cameretta, e tu eri ormai confinato, col computer e il po’ di libri che vi trovavano spazio, in quello che prima insieme a Dina chiamavate “il ripostiglio grande”.Era un ambiente appena meno angusto del ventre dell’armadio a muro che presidiava il corridoio, e ogni volta che volevi fumare dovevi abbandonare la postazione e trasferirti sul balconcino del soggiorno. Con i tuoi guadagni dei vent’anni avevi comprato una casa spaziosa, e gli amici di allora erano i primi a stupirsi, misurando insieme a te il poco tempo che era servito per trasformare quella casa nella filiale di un negozio di giocattoli. In ogni caso, come padre ti sentivi uno schianto. Portavi Malcolm a spasso per il quartiere, imbragato nel marsupio a bretelle. Gli insegnavi i nomi degli alberi, i nomi degli animali. Una volta a casa, i vecchi Mano Negra in sottofondo, potevi accennare a un assurdo passo o due di danza e riuscivi sempre a farlo ridere. Prima che arrivasse il bambino, alle otto e mezzo tua moglie usciva per andare in ufficio, e tu potevi restare a lavorare in pace, padrone del tuo tempo come a vent’anni. Ora invece gli orari erano stabiliti dal piccolo Malcolm, tua moglie era in casa tutto il giorno, e appena lasciavi libero il computer frequentava i forum internet dedicati alle nuove mamme. Avevi imparato a temerli, perché le frequentatrici dei forum si convincevano a vicenda di baggianate colossali. Ad esempio, che era opportuno allattare i piccoli fino ai tre anni di età. Per non traumatizzarli. Per non fare di loro, una volta adulti, dei frustrati violenti.


C’erano frequentatrici vegetariane sui forum internet, c’erano frequentatrici vegane, e tutte concordavano sul fatto che i pannolini di stoffa erano di gran lunga più graditi dei pampers alla pelle del tuo bambino. Erano pannolini fabbricati in cotone biologico, sbiancato senza l’impiego di cloro, e ti arrivavano a casa pagando con la carta di credito direttamente alla pagina emporio del sito per le nuove mamme. Lo stenditoio campeggiava notte e giorno in salotto e, ogni volta che la lavatrice finiva il lavoro, serviva scuoterli uno a uno per srotolarne i bordi, sfilare il tessuto interno e affrontare con pazienza il piccolo groviglio dei legacci. Erano sei mesi che andava avanti a quel modo. Tua moglie non si ricordava più chi eri, ma nel nuovo delirio operativo che sembrava animarla, nutriva il piccolo, lo portava al parco due volte al giorno e si prendeva cura di lui in tutti i modi. La amavi, per questo, e ti stupivi di come fosse brava a decifrare le richieste del bambino, a calmarlo quando scoppiava a piangere nel cuore della notte. Ti stupivi ogni volta, ma alla fine la tro-vavi una faccenda molto naturale. Era lei, la mamma, e ci restavi male quando ti faceva pesare che Malcolm, con te, non si trovava altrettanto bene. Dina aveva cominciato a confondersi mentre la riportavi a casa in macchina dall’ospedale, con Malcolm sui sedili posteriori, adagiato per la prima volta nel guscio di plastica da bebé. Prima di andarli a prendere, avevi impiegato una quarantina di minuti per assicurare il benedetto guscio alle cinture dei sedili, e quand’eri arrivato all’ospedale tua moglie era già stata dimessa e ti aspettava giù di corda nella sala d’aspetto riservata ai parenti. Aveva detto che non eri capace di prenderti cura di nessuno, ma tu eri troppo distratto dal piccolo per farci caso sul serio. Lungo il tragitto verso casa avevi guidato prudente come una suora, ma Dina sosteneva che stavi troppo sulla destra. A un certo punto t’aveva persino accusato di prendere apposta le buche dell’asfalto. Due giorni prima, l’avevi vista partorire il piccolo, con tutto quello che era accaduto nelle ore senza tempo in cui vi avevano separati. Un’infermiera l’aveva fatta accomodare su una sedia a rotelle per portarla in sala travaglio, fra le ragazze spossate dalle contrazioni. Ce n’era una che implorava di morire, e a te non era rimasto che aspettare in corridoio, interrogando dalla finestra le fronde mute dei grandi alberi che facevano ala all’edificio del reparto. Poteva accadere qualunque cosa oltre le ante del portone antipanico, nel posto dove l’infermiera aveva condotto tua moglie, e tu restavi lì fuori come un uomo senz’ombra, ad aspettare di conoscere il vostro destino. Se c’era un modo per propiziare le cose, non lo conoscevi.


Ricordavi delle preghiere e le avevi ripetute fra te, ma non era un modo per propiziare niente, solo una preparazione per arrivare più mansueto al momento in cui tutto sarebbe stato chiaro. Poi il portone si era socchiuso, l’infermiera aveva messo la testa fuori e aveva chiesto se eri tu il marito di Dina G. «Si sbrighi» aveva detto, sprigionando la smorfia d’un sorriso, o qualcosa, che aveva a fondamento una certa urgenza addomesticata solo in parte dalla routine. «Sua moglie c’è quasi», e tu avevi fatto il gesto di precipitarti all’interno, ma prima di lasciarti vedere Dina l’infermiera ti aveva obbligato a indossare una specie di mantella di carta color menta, guanti color menta e sovrascarpe. Adesso non si sentiva più nessuno che implorava di morire. Si sentiva il pianto d’un piccolino, e tu credevi fosse tuo figlio. Ti tremavano le mani, l’infermiera ti aveva aiutato a chiudere la mantella, e sottobraccio come in questura, ti aveva portato di fronte all’ingresso della sala parto. Dentro c’era Dina. Ti aspettavi di trovarla sdraiata, e ti sei stupito di vederla in piedi a gambe larghe, aggrappata alla sponda regolabile del lettino, che’gemeva piegata in avanti. Di fianco a lei, un’ostetrica le poggiava una mano sulla spalla e provava ad aiutarla a governare la respirazione. «Quando arriva la prossima, prova a soffiare fuori l’aria. Capito, Dina?» La incoraggiava come un’amica. «Se fai come hanno insegnato al corso, va tutto bene.» «Non l’ho fatto, il corso» aveva considerato tua moglie con vo-ce stravolta, e tu avevi camminato senza peso fino ai piedi del letto per vederla in faccia. «È arrivato, il colpevole» aveva detto l’ostetrica, ma Dina non ti aveva guardato subito. «Fa un gran male» aveva detto con un filo di voce. I suoi occhi erano pieni di lacrime e aveva le guance tirate. L’ostetrica era una donna di quarant’anni, con una gran testa di riccioli mori, ed era l’unica persona al mondo che potesse aiutarvi. «Sei bravissima» l’incoraggiava carezzandola, «e il bambino sta per arrivare.» «Vieni qui» aveva detto tua moglie, «abbracciami le spalle, se vuoi.» Allora eri andato dietro di lei. Eri andato dietro di lei, e l’ostetrica ti aveva spiegato come fare per non opprimerla. Eravate vicinissimi, e anche quando il corpo di Dina si irrigidi-va e la sentivi soffiare più forte, l’ostetrica restava calma e tu con-tinuavi a massaggiare le spalle di tua moglie. Dina era andata avanti così per un’ora, mentre gli intervalli fra una contrazione e l’altra si accorciavano, a spingere a quel modo, in piedi a gambe larghe contro il lettino, e a te pareva di essere il testimone in mantella color menta di una magia preistorica. Poi il dolore si era fatto troppo forte, l’ostetrica aveva aiutato Dina a sdraiarsi, e tu guardando tua moglie


su quel lettino le avevi voluto bene molto più di quanto sapevi, fin lì, di avere voluto bene a qualcuno. Avevi avuto paura che se ne andasse, che non riuscisse davvero a far nascere il bambino, e avevi implorato di andartene tu, al loro posto. Per un tempo senza tempo ti eri sentito nudo e derubato della voce, distrutto di non poter aiutare tua moglie, ma poi Malcolm era arrivato, bagnato come un uccellino e sbalordito di ritrovarsi nelle mani dell’ostetrica. La donna che l’aveva tratto dal ventre di tua moglie gli stava dicendo che era bellissimo, e il piccolo rispondeva a gridolini, sporgendosi verso il suo viso per capire cosa volesse di preciso. L’ostetrica l’aveva mostrato sorridendo a tua moglie, e mentre la meraviglia accadeva, tu l’avevi preso in braccio per la prima volta. L’avevi preso in braccio, e mentre seguivi l’infermiera verso la nursery non ti importava nulla di quanto potesse pesare. Ti pre-meva solo che lo vestissero in fretta, e guardando le sue mani minuscole hai pensato che adesso, fra tua moglie e te, c’era qualcosa che nessuno avrebbe potuto mai cancellare. Il giorno in cui li avevi condotti a casa dall’ospedale avevi preparato una piccola festa d’accoglienza, appeso un fiocco azzurro al portone del palazzo e comprato una bottiglia di champagne per festeggiare insieme a tua moglie. Dina, però, non era stata contenta della festa e non era stata contenta di vedere lo champagne. Era giù di corda per via che eri arrivato in ritardo, e ti aveva detto che eri un irresponsabile, a proporle di bere alcol. Allattava otto volte al giorno, e più insistevi che si trattava solo di bagnarsi le labbra in onore di vostro figlio, più lei pareva averla con te. Sono trascorsi sei mesi da allora, sei mesi nei quali tua moglie ha fatto in tempo a trasformarsi in una persona molto diversa dalla ragazza che conoscevi. Alla fine è una donna di soli trent’anni, e ti fa rabbia pensare che, fino a poco tempo fa, sapeva stare al gioco e tirare tardi in compagnia Ma anche tu non sei esattamente quello di prima. Passi le giornate fra l’ex ripostiglio grande, con il computer e le carte che servono al tuo lavoro, e il balconcino del soggiorno, do-ve ancora puoi fumare senza che tua moglie protesti. Sei pieno di rabbia compressa, ti senti sfruttato e tenuto lontano dalle decisioni che riguardano tuo figlio. Quando arriva il finesettimana, poi, la cupezza del tuo umore non ha niente da invidiare alle atmosfere dei Joy Division. Non si parte quasi più con gli amici più urbanizzati e mods verso qualche stadio dal nome leggendario. E neppure si riesce a rintanarsi come ai vecchi tempi nel rustico del buon Luther, per mettere mano alle


Fender e fare un po’ gli asini ad alto volume. Arrivano da ogni dove, i cugini di quinto e sesto grado che ancora non hanno fatto in tempo a conoscere Malcolm, e tu sei obbligato a farti trovare al tuo posto. Ti vogliono imbalsamato e sorridente e, se non vuoi deluderli, è meglio simulare uno sbalordimento senza fine per la sorpresa di ritrovarti padre. Devi fumare il migliore tabacco aromatizzato, quando si avvicina il finesettimana, per sopportare l’idea delle gradinate che si riempiranno senza di te. Ti arriva l’eco via mail e via sms, della barandana che va avanti lo stesso anche se tu non ci sei. Sono migliaia, ormai, i concerti imperdibili dei quali hai avuto notizia solo dopo, e la domenica, sul balconcino dell’ex appartamento spazioso, fumi una sigaretta olandese dopo l’altra, fin dal mattino. Ti offuschi per convincerti che va tutto bene, e farti trovare pronto quando lo scampanio elettrificato annuncerà che i cugini di quinto e sesto grado si trovano già alla porta. A quel punto sarà troppo tardi per tentare la fuga, e non resterà che soffocare il mozzicone nella terra dei gerani, trovare il flaconcino azzurro del collirio e sbrigarsi ad aprire. In cambio d’un pupazzo o una scatola di duplo, i cugini di quinto e sesto grado vorranno bere il tè e costringeranno Malcolm a vestire i panni dell’attore da cucciolo: lo applaudiranno perché agita un sonaglio, e lo chiameranno per nome solo per catturarne l’espressione sorpresa, rubargli un po’ d’anima con il minuscolo obiettivo digitale incorporato al Nokia. Non lasciano crescere in pace Malcolm, lo studiano per decidere da chi ha preso il colore dei capelli, oppure il disegno delle labbra. Alla fine non capisci come facciano a dire che somiglia a te, visto che nessuno, qui, ricorda più chi sei. Una notte hai sognato che la fortuna tornava a sorriderti. Nel sogno Malcolm aveva dieci anni e la testa carica di capelli, ma tua moglie era identica alla ragazza che avevi conosciuto all’inizio. Abitavate in una casa piena di luce, circondata dal verde, e tu passavi le giornate in una grande stanza dal pavimento d’assi. Nella stanza c’era posto per tutti i tuoi libri, e potevi seguire in pace i progetti che ti appassionavano; ricordi l’odore del legno piallato da poche stagioni, il profumo dell’erba tenera, giù in giardino, che entrava dall’orbita della grande finestra sotto la quale trovava posto il tuo tavolo da lavoro. A metà del pomeriggio, prendevi Malcolm con te e lo portavi a camminare lungo sentieri che si inoltravano nell’aperto, verso le colline. A volte anche tua moglie vi accompagnava, ma spesso andavate soli, come faceva tuo padre con te quando ancora tuo fratello era troppo giovane per seguirvi. Nel sogno insegnavi a Malcolm come si scelgono i sassi per preparare un buon fuoco di bivacco, lo aiutavi a costruire la piccola capanna di rami necessaria ad alimentare la fiamma giovane.


Ti chiamava “babbo”, e poiché era un ragazzino intelligente, faceva un sacco di domande. Gli piaceva sentirti raccontare di quando, insieme a tuo fratello e gli amici, lasciavate la città sicurissimi di trovarla, al ritorno, perfettamente identica, e partivate a piedi verso qualche posto lontano. Nel sogno, raccontavi a Malcolm di ogni cosa. Le riunioni intorno a una carta in scala uno a cinquantamila; i preparativi, l’ac-quisto delle provviste e la paura di non farcela; la tenda arrotolata nello zaino e il genere di timore e felicità che, il giorno della partenza, vi guidava verso l’appuntamento. Potevi spiegare al ragazzino il significato di espressioni come “rompere il fiato” o “aprire la strada”, raccontare di quando col buon Luther, ai tempi del ginnasio, scendevate dalla littorina a Molino del Pallone per esplorare i boschi della dorsale; o di quando avete deciso di raggiungere Cervia a piedi, e il riverbero del sole a specchio sulle saline, dopo cinque giorni di marcia, per po-co non vi faceva svenire a un tiro di voce dall’arrivo. Malcolm domandava quanti giorni servivano per raggiungere Firenze, e tu gli spiegavi che seguendo i segnavia gialli della Via degli Dei ne bastavano cinque, mentre per arrivare fino a Roma avrebbe dovuto contare almeno trenta tappe. Eri felice di spiegare al ragazzino tutto quello che sapevi sull’antica arte del viaggiare a piedi, e di come i camminatori dovevano considerarsi tutti fratelli nella fatica. Gli raccontavi senza censure che, in nome del progresso, luoghi meravigliosi erano stati spogliati di ogni bellezza, ma ti racco-mandavi che non desse mai retta ai vecchi, quando dicevano che in giro non ne restava più. E poi, mentre rientravate a casa attraverso i prati, nella luce ni-tida che precede il crepuscolo, Malcolm chiedeva di raccontargli daccapo di quando avevi raggiunto la costa del Tirreno per traversare a piedi, da mare a mare, l’immenso ponte di coperta della penisola.

PRIMA PARTE. da Orbetello a Chiusi. GIORNO UNO.


Da Orbetello al Monte Argentario e il Tombolo della Giannetta. Per molti anni hai creduto di aver rivestito un ruolo determinan-te, più ancora dei tuoi genitori, nelle scelte fondamentali relative all’educazione di tuo fratello. Quando avevi otto anni e lui ancora studiava all’asilo, eri una specie di guru, ai suoi occhi. Nel tempo, avrebbe frequentato anche lui le elementari di Casaglia, la scuola media a un passo da casa, il tuo stesso liceo. Oggi ha venticinque anni, è più alto di te d’un buon palmo, ed è sempre stato più magro. Se doveste correre uno contro l’altro, o sfidarvi a chi salta più lontano, vincerebbe lui di sicuro. Solo se doveste battervi, con o senza guantoni, sarebbe un bell’incontro equilibrato. Da ragazzini potevi metterlo schiena a terra con una mano so-la, ma all’epoca quattro anni di differenza ti garantivano un van-taggio incolmabile. In ogni caso, sono secoli che avete smesso di battervi. Per un’intera epoca geologica, mentre ti pavoneggiavi fumando sigarette olandesi sulla terrazza della biblioteca di Villa Spada in compagnia degli amici più urbanizzati e mods, tuo fratello continuava a giocare a calcio, indossava la tuta in triacetato e andava ad allenarsi al campo del velodromo: giocavano solo il cam-pionato amatori, ma era una cosa che prendeva terribilmente sul serio. Era il regista della squadra, avevano convinto la ditta Fabbri a divenire il loro sponsor e scendevano in campo tutte le domeni-che mattina alle otto, contro il Budrio, l’Ascensori Sabiem, lo Sparta Casalecchio o i Warriors Anzola, nelle cui fila militava un sedicente nipote di Dirceu. In trasferta nel gelo della Bassa, con queste maglie magnifiche, istoriate, che riproducevano il motivo liberty dei vasetti d’amarena, tuo fratello c’era sempre. Nel frattempo studiava storia all’università, e adesso che si è laureato, si sta trasformando anche lui in una specie di lavoratore. L’anno scorso ha abbandonato la casa in cui siete cresciuti per trasferirsi in un appartamento arredato alla tirolese in compagnia della fidanzata di sempre, una ragazza di nome Silvia conosciuta in quarta ginnasio. Poiché l’assegno del dottorato di ricerca non somiglia a uno stipendio vero, nel finesettimana lui lavora come cameriere per una ditta di catering specializzata in feste di matrimonio. Così, con lo stipendio da maestra di Silvia, riescono a pagare tutti i mesi le rate del mutuo. A parte questo, avete morso insieme quel che c’era da mordere, e oggi sei contento che tuo fratello sia un uomo mite, capace di sporcarsi le mani e riconoscere ancora le ingiustizie. «Questa non è neppure una tappa vera» dice. «Camminiamo solo il pomeriggio, e alla fine c’è persino il campeggio prenotato.»


«È come al Giro» dici tu. «C’è sempre, il prologo. Una tappa breve, per sgranchirsi le gambe e spegnere l’ansia dell’attesa?» Andate incontro all’abbraccio di bosco dell’Argentario, questo promontorio che un tempo era un’isola, collegato alla terraferma da due tomboli, dai cordoni sabbiosi ampi poche centinaia di passi, al cui interno si è sviluppata una grande laguna salmastra. Il paese di Orbetello sorge su un istmo che, dalla terraferma, si protende nel cuore della laguna, collegato al promontorio dalla diga costruita dall’ultimo Granduca. La sommità della diga è abbastanza ampia da ospitare una strada a due corsie, e all’inizio tu e tuo fratello camminate sul ciglio di questa sopraelevata, affacciati su tutta quell’acqua ferma sulle cui sponde si rifugiano a nidificare l’airone e la gru. Di fronte a voi, la cupola di bosco dell’Argentario spicca contro il cielo di maggio, come sorgesse direttamente dalle profondità del Tirreno. Verso Nord, oltre la lingua di terra del tombolo, ne distingui la massa sterminata che increspa a tempo con il respiro stesso del mondo. È come se tutta l’acqua che c’è assediasse la laguna, e ogni nuovo treno d’onde sembra, per il gioco della prospettiva, destinato a coprire la terra. C’è di che sentirsi poco sicuri, sospesi lungo la diga, sfiorati dal traffico di monovolume e station wagon dei primi turisti della stagione. Se le onde coprissero il tombolo, la strada che corre sulla sommità della diga si troverebbe circondata dal mare aperto. Meglio affrettare il passo, incontro alla cupola di bosco del promontorio, verso il punto in cui la sopraelevata sfocia sull’asfalto della strada panoramica. Il primo bivio ti trova preparato da molti giorni: a sinistra si va a Porto Èrcole, mentre voi prendete verso Santo Stefano, e quando incontrate un’ampia carrareccia che si stacca sulla sinistra, abbandonate l’asfalto della panoramica e prendete a salire, in silenzio e senza forzare, verso il fitto del bosco di querce da sughero. Verniciato su un masso c’è un segnavia del percorso escursioni-stico numero 715. Poco dopo tuo fratello ne distingue un secondo e, dentro l’avvenuto contatto con la rete dei sentieri, puoi già sentirti orgoglioso del piccolo patrimonio che hai speso in mappe e tavole dell’Istituto Geografico Militare. Per un po’ procedete quasi in piano, sempre all’ombra delle grandi querce, e gli affluenti che portano acqua al borro di Sant’Antonio sono rivoli che si guadano con un semplice passo. Nell’ansia della vigilia l’hai studiata fino allo sfinimento, questa prima tappa dimidiata e special, pensata per essere il contrap-punto d’una mattina trascorsa seduti in treno. E per la prima e unica volta puntate a Ovest, che ti pareva di buon auspicio, per la salute tua e del fratello, non fare le cose alla carlona e rendere omaggio, innanzi tutto, a questo promontorio assediato per tre lati dal Tirreno.


Traversare la penisola, si è detto. Da mare a mare. Tanto vale mettersi d’impegno allora, e partire dalla cupola di bosco dell’Argentario. Un santuario dell’avifauna di cui hai notizia fin da quando, a cavallo dei dieci anni, ti raggiungeva per posta il bol-lettino dedicato ai giovani sostenitori della Lipu. «Ci vorranno armeno tre settimane» hai annunciato a tua moglie quando sei riuscito a sistemare ogni cosa ed è arrivato il momento di preparare sul serio lo zaino. «Ventidue giorni, ventitré al massimo. Anche se in fondo non ho mai smesso di sentirmi anarchico, questa volta spero di tornare in tempo per le elezioni.» Non è stato semplice, spiegarle che volevi realizzare un vecchio sogno prima di compiere trent’anni e trasformarti per sempre in un morto vivente, ma Dina ti è stata ad ascoltare e ha detto che non c’era nessun problema. Nessunissimo proprio. «Se speri che faccia una scenata, amore, o ti abbracci le ginocchia implorandoti di non andare, sarà per un’altra volta.» È saltato fuori che anche lei aveva un gran bisogno di cambiare aria, e non hai capito se ce l’aveva con le prime morse della calura o con l’ex appartamento spazioso nel quale ti ostinavi a camminare senza pattine. Alla fine della prossima settimana andrà al mare con Malcolm, nella vecchia casa ai piedi del Conero dove avete trascorso quasi tutte le vostre vacanze da fidanzati. «Se tu vai a divertirti» ha detto, «finché dura il permesso di maternità porto il piccolo a respirare un po’ d’aria buona.» «D’accordo» hai detto, «io prendo la rincorsa dalla riva opposta e provo a raggiungervi a piedi.» «Ho sposato un pazzo» ha detto tua moglie, «e prima o poi dovevo aspettarmi qualcosa del genere.» «Da un mare all’altro. Subito prima di diventare un morto vivente. Come sognavo da piccolo quando guardavo la carta d’Italia appesa in classe.» «Spero solo non sia un piano per liberarti di noi qualche tempo.» «Oh no, amore. Per depurarmi, se mai, e tornarvi incontro preparato.» «Non sei pazzo, sei solo stronzo. Però promettimi che terrai la fede al dito e non andrai con nessuna.» «Amo-ore» hai sospirato, «saremo in mezzo alla campagna, e non ci sarà nessun motivo di pensare a quelle cose.» Da domani punterete senza tregua verso Nord-Est, lungo il mosaico di provinciali senza importanza, sterrate e sentieri che hai individuato sulle mappe. È una teoria di minuscole frecce a matita disegnate sulle Kompass e le Multigraphic che dovrebbe condurvi dall’altra parte. Malcolm e Dina saranno ad aspettarti laggiù, sulla sponda opposta del Paese proteso a trampolino attraverso il Mediterraneo, e per oggi non vi resta che la minuscola emozione di superare il braccio


scarso del borro e ammirare, una volta di là, le arcate in rovina del vecchio acquedotto, assediate dal viluppo degli infe-stanti. Precise a come le avevi immaginate da casa. Se sei voluto partire da qui, dev’essere per una forma di devozione che affonda le sue radici ai tempi in cui eri socio sostenitore della Lipu. Sarebbe stato triste scendere dal treno in una stazioncina qualsiasi, priva persino della biglietteria, traversare le quattro corsie dell’Aurelia, affacciarsi appena sul mare e imboccare in fretta, co-me ladri, la via dell’interno. I riti preparatori hanno la loro importanza, all’interno della segreta devozione che ti rende più simile a tuo padre di quanto avresti mai desiderato a diciassette anni. E prima di intraprendere un viaggio, o ingaggiare una sfida de-cisiva, tradizione vuole che ci si spinga in un luogo romito a raccomandare l’anima. Nel caso qualcosa andasse storto, nettamente. E così, visto che non sai quando, né in che stato di preciso rag-giungerai la costa orientale, provi anche tu l’esigenza confusa di affidare la tua anima a qualcuno che sappia vegliare su di lei per il tempo del viaggio. Affinchè l’anima non fugga per conto suo appena vi trovate in mezzo alla selva, e nemmeno si corrompa a tal punto da farti arrivare trasformato in una persona diversa, incapace di voler bene a Dina e il bambino. Sono molte stagioni che entri in chiesa solo per i matrimoni e i funerali. Dal tempo in cui hai letto alcuni libri ben documentati sui rapporti fra il Duce e il Vaticano, l’affare Marcinkus e le trame dell’Opus Dei. Però, anche se a diciott’anni volevi farti protestante, a ventuno maomettano e pochi mesi più tardi sostenevi d’essere vicino al taoismo, adesso credi di avere le idee piuttosto chiare. Devono esistere, nel mondo, uomini in grado di prendersi cura dell’anima altrui, e tu hai letto da qualche parte di questa congregazione dei chierici Passionisti, che nel diciottesimo secolo si diedero, in opposizione allo sfarzo della Chiesa, a un’esperienza mi-stica di annichilimento. Hai pensato a San Francesco, a Johnny Rotten e i musicisti sufi, e ti sei detto che uomini del genere forse facevano al caso tuo. La casa madre della congregazione sorge a mezzacosta, e quando incontrate la strada asfaltata la vedete a un tiro di voce, simile a un fortilizio candido arrampicato nel cuore d’un rimboschimen-to di cipressi che svettano sul folto della macchia. Risalite lungo la strada, verso il piazzale che fronteggia il convento, e saranno due ore che camminate. Adesso il tombolo settentrionale non fa più pensare a un’esile cordone sabbioso, ma a un argine concavo e scuro dotato di una sua ampiezza, contro il quale le onde vanno a frangersi, e la spu-ma della risacca ne accompagna la fuga verso la terraferma.


Al largo un peschereccio si porta dietro uno stuolo di gabbiani, e per prima cosa dovresti domandare a tuo fratello se vuole accompagnarti dal padre portinaio, o se invece preferisce aspettare fuori. Vorrei parlare con qualcuno, dovresti esordire, cui raccomandare l’anima tre o quattro settimane. Cui raccomandare l’anima, nettamente meglio, per il tempo d’un viaggio. Immagini che il padre portinaio farebbe un sacco di domande, e forse a quest’ora non c’è nessuno a disposizione in tutto il convento. Forse a quest’ora riposano, oppure saranno impegnati in qualche adorazione, o messa. E magari salta fuori che tocca aspettare mezz’ora, prima che il padre portinaio ti presenti il chierico adatto. L’hai visto succedere, quando andavi in giro per parrocchie e conventi a vendere il calendario scout. Ti fanno aspettare, e alla fine insistono perché ti confessi. Non tengono minimamente in considerazione il fatto che una persona, per un motivo o per l’altro, possa andare di fretta. La strada adesso si snoda come un serpente grigio lungo la linea del crinale, punta a vista la sommità del Telegrafo, la cima più alta del promontorio, irta d’antenne e ripetitori. Il convento dei chierici Passionisti, con il suo piccolo cimitero, dista sì e no dieci minuti, ma ormai non si vede più, sommerso dalla macchia che nasconde i tornanti della strada. «Se lo sapevo, che c’era un caldo del genere» dice tuo fratello rallentando perché l’affianchi, «portavo un paio di scarpe più leggere.» «Più in là sarai contento di avere le pedule.» «Già che lo zaino pesa venti chili, potevo portarlo, un paio di scarpe che lascino respirare i piedi. Appena si scopre il sole, mi sembra di averli prigionieri dentro le torrette di due tank.» «L’importante» dici, «è che facciano i bravi e non comincino da subito a riempirsi di vesciche.» «Hai presente i tank sovietici? Quelli immensi e squadrati della seconda guerra mondiale?» «Lascia perdere. Quando siamo andati a Firenze lungo la Via degli Dei, con il buon Luther e lo schizzato del Vietnamita, già la seconda sera avevo i piedi devastati. Dina quando li ha visti voleva portarmi al pronto soccorso.» «Sai cosa mi preoccupa di brutto? Non i piedi. Le vipere, e restare senz’acqua la notte.» «Ti fossi ricordato di portare una borraccia in più». «Per favore. Avevi detto che tu avresti portato due borracce.» «Non mi piace quando cambi le carte in tavola, kapish?» «Kapish» risponde subito. «Però mi pare che le dovevi portare tu.»


«Fa lo stesso» dici. «Non resteremo senz’acqua» e per un po’, in segreto, continui a farti cullare dalle tue paranoie. Superate un paio di valloni, e verso Oriente la vista spazia sulla terraferma. A tuo fratello preferisci non parlare della minuscola puntura che provi all’inguine, o di come ti sembra di sentire scricchiolare in maniera appena percettibile il ginocchio sinistro ogni volta che carichi sul piede. Lungo la Via degli Dei ti ha fatto soffrire, il ginocchio. In discesa vedevi le stelle, nettamente e una a una, e dopo il passo dell’Osteria Bruciata dovevi massaggiarti con il Voltaren ogni pochi chilometri. Ma quando sei andato a Firenze con il Vietnamita e il buon Luther, erano trascorsi sette mesi appena dal pomeriggio in cui un industriale in pensione, un uomo che poteva essere tuo nonno alla guida d’una Mercedes d’epoca, aveva deciso di svoltare alla cieca e travolgerti con tutta la Vespa. Ora sono passati quattro anni, e in ogni caso il ginocchio non ti ha più fatto soffrire. Né lungo il sentiero Doppio Zero, e neppure quando, con i soliti due amici, hai passato il confine a piedi per raggiungere Nizza lungo la vecchia strada dei contrabbandieri. Quando pensi che ormai siete saliti abbastanza distinguete un punto, poco più a monte, in cui la strada incrocia un’ampia fascia tagliafuoco che scende ripida attraverso il bosco di lecci. Così decidete di spingervi fin là, e quando ci siete abbandonate il ciglio della strada. Andate a sedere sull’erba tenera che cresce in testa al corridoio largo una cinquantina di passi, e i tronchi degli alberi che ne presidiano i fianchi sono fitti come una doppia pa-lizzata. Sfili gli spallacci del Salewa, ti risollevi in piedi e all’inizio ti sembra che le tue braccia siano prive di peso. Inarchi indietro il dorso sgravato dallo zaino, e in fondo al corridoio ripido della fascia tagliafuoco distingui il gomito del molo frangiflutti e le schiere bianche dei grandi catamarani ormeggiati ai pontili di Cala Ga-lera. Oltre il manto di pineta del tombolo meridionale, il cuneo di case di Orbetello fa pensare a un transatlantico da sogno ancorato al centro della laguna, e da quassù li potresti contare uno a uno, gli isolotti di limo che affiorano a poca distanza dai canneti della riva. Sulla terraferma alle spalle della cittadina si vede una catena di colline dalle cime sfondate, ma oltre quella il Paese è solo una fuga infinita di bassure e valloni di cui non scorgi con certezza neppure il primo argine. Solo la piramide dell’Armata, scorciata nella bruma al limite estremo dell’orizzonte, può permetterti d’orientare la Kompass in maniera sensata, e pare incredibile che riuscirete a spingervi fin laggiù fidando sulle minuscole frecce a matita che hai tracciato sulle mappe. Così torni a sedere, la schiena contro lo zaino, e tutto l’occorrente per fabbricare le sigarette è nella tasca sinistra dei pantaloni in cordura da trapper. Per un po’ fabbrichi la tua sigaretta lottando contro il vento. Guardi il mare e guardi il profilo smisurato del Paese confuso dalla bruma, proprio come avevi immaginato di fare.


Speri ti venga in mente qualcosa di memorabile da annotare sul taccuino, ma ti viene in mente solo che serviranno almeno due ore, per scendere da capo sulla panoramica, e forse ancora una e mezza per raggiungere il dannato campeggio presso l’imbocco del tombolo settentrionale. Sono giorni che hai stabilito di passare la prima notte laggiù, e l’uomo con il quale hai parlato al telefono si è raccomandato di arrivare entro le otto. «Abbiamo fatto bene a venire» dice tuo fratello. «C’è una specie di belvedere a trecentosessanta gradi, da quassù.» «Peccato per le antenne» dici. «Non ci riesco, a guardare da quella parte.» «Già» dice lui. «Un po’ troppe antenne. Però c’è aria d’estate, e le scie delle barche sembrano sbucare dal bosco.» Rifletti che dovreste cominciare a scendere verso la cintura d’asfalto della panoramica e ti dici che le vostre anime, a questo punto, possono considerarsi al sicuro. Se i chierici Passionisti sono sant’uomini, non dev’essere necessario rispondere alla trafila di domande del padre portinaio, né confessare le tue horride gesta di peccatore tanto per fare atmosfera. Se sono sant’uomini, si saranno accorti dei viandanti dalle gambe bianche che sfilavano sotto il loro convento. E ora, pensi rabbrividendo al vento, che le anime siano affidate o no, non resta che infilare da capo gli spallacci del Salewa e disporsi, con pazienza, a portarlo dall’altra parte. Adesso che l’hai raccontato a tua moglie e l’hai raccontato persino agli amici più urbanizzati e mods il sogno è nudo. Ora che siete partiti producendo il solito polverone d’incredulità che su-scitano le vacanze eccentriche, ti senti obbligato a sognare fino in fondo, e tornare in città senza aver portato a termine l’impresa al-la quale hai pazzamente brindato in pubblico, ti sembra l’anticamera della malasorte. Non ti stupiresti, però, se le ginocchia cedessero di schianto molto prima di arrivare all’Armata, minate dall’immobilità babi-lonese dell’inverno casalingo, i lunghi mesi durante i quali lo sforzo fisico più intenso è stato cullare Malcolm mentre tua moglie provava a dormire. Potrebbero cedere. Ne avrebbero il diritto, ma non importa. Piuttosto che rientrare in città a occhi bassi, ti fai trascinare alla prima fattoria e implorate ospitalità al contadino, che vi lasci piantare la tenda sulla sua terra finché non sarai in grado di riprendere la strada. Lungo la discesa sfilate di nuovo sotto il convento e, anziché prendere la via del bosco, proseguite lungo l’asfalto, un tornante dopo l’altro, verso il mare che il crepuscolo sfuma di arancio e viola. Nel cuore dell’ultimo vallone, ormai in vista della spiaggia, incontrate due giovani chierici, la veste nera lunga fino ai piedi, che salgono di buon passo verso la casa madre. Sul petto delle loro vesti spicca ricamato il distintivo del cuore trafitto dalla croce, identico a quello dei reazionari sanfedisti.


Non fanno pensare a Johnny Rotten né ai musicisti sufi e mentre vi scambiate un rapido saluto fra viandanti, rimpiangi di non aver affidato l’anima a qualcuno che conoscevi già. «Buo-onasera» dici all’uomo seduto a leggere un vecchio Ura-nia dentro la piccola edicola in cemento della reception. Dentro l’edicola, alle spalle dell’uomo c’è uno scaffale che contiene una mezza dozzina di schedari, e assicurata alla parete si ve-de l’imponente scocca candida d’un sistema elettrico antizanzare. «Omaggi» dice l’uomo in un sussurro, senza sollevare lo sguardo dal libro. Dev’essere a metà di una frase molto lunga, e quando la frase finisce, per un poco vi osserva da dietro la piccola bar-riera di snack confezionati, Mars e Lila Pause, che costituisce l’unico arredamento della sua scrivania. Potrebbe essere l’uomo con il quale hai parlato al telefono, ma non c’è niente di specifico che te ne convinca sul serio. «Purtroppo siamo al completo» dice senza verve. «Tutta la stagione» aggiunge, e scoppia a ridere. Tuo fratello ti guarda, tu guardi l’uomo e pensi che avete fatto male a venire in questo campeggio perso lungo il cordone sabbioso del tombolo settentrionale. «Avete la tenda? Altrimenti, se volete stare più comodi, fino a metà giugno le case mobili costano solo dieci euro a notte.» «A noi» dici, «basta una piazzola per la tenda.» «Piazzole» dice l’uomo, «ho tutte quelle che volete.» «Non ho mai dormito in una casa mobile» dice tuo fratello, e carezzandosi le narici si sporge verso l’interno dell’edicola. «I mars sono in vendita, sì?» «Sei sicuro» gli domandi, «di voler dormire in una casa mobile?» «Non ci ho mai dormito. È una specie di camper o cosa?» «Sono grandi caravan» illustra quello, «adatti per una famiglia di quattro persone, e fino a metà giugno sono in offerta.» Potevate dormire in spiaggia, aprire la tenda fra le dune oppure in pineta, ma a questo punto è facile, scegliere fra la malinconia d’un quadrato d’erba in affitto, e la chance imprevista di fare contento tuo fratello. «Caravan» tuo fratello dice. «E dentro questi caravan si può cucinare, sì?» Dentro regna un odore vago di disinfettante, però l’ambiente è spazioso, e ci sono due letti già pronti, incastellati sulla destra, ai piedi dei quali potete adagiare gli zaini. Una scaletta agganciata alla parete conduce al paio di cuccette ricavate sotto la copertura del tetto, e gli sportelli dei pensili che incombono sulla piastra dei fornelli elettrici, con i loro pomelli in plastica a forma di dado e il fregio a fiori mezzo scollato, sembrano parlarti del tempo in cui questo caravan aveva


ancora ruote vere, adatte per girare l’Europa a rimorchio d’un Ford Cortina, o un furgone bicolore della Volkswagen. Sopra il piano di lavoro in formica che affianca i fornelli si apre un finestrino rettangolare, e tuo fratello, la maglia incollata alle spalle, si china sul piano di lavoro, accosta il viso al finestrino e guarda fuori. «Non siamo affacciati sul mare» dice dopo un po’. «Siamo affacciati sulla laguna.» Sfilate gli scarponi in Gore-Tex dalla suola a carrarmato, li abbandonate di fianco agli zaini, e tuo fratello è il più veloce ad av-venturarsi nel cubicolo cieco del bagno. Mentre senti l’acqua scrosciare, a piedi nudi sulla vecchia mo-quette che riveste l’impiantito ti dai da fare per recuperare i vostri panini. Sono soffocati, insieme ai libri e le mappe, dentro la tasca a zip incorporata nella copertura del Salewa, e quando riesci a ca-varli fuori li liberi dall’involucro e li sistemi sull’occhio principale della piastra elettrica. Azioni la manopola che governa l’accensione e, pian piano, l’occhio della piastra comincia a scaldarsi. «Se sapevo che l’acqua era così poca, mica facevo lo shampoo» dice tuo fratello provando la fiamma del Bic. «Adesso mi sembra d’avere una specie di elmo da porcospino, e la testa mi prude a tutt’andare.» Gli passi una mano sulla testa, e avverti la consistenza simile a zucchero filato dei suoi capelli. «Per favore» dice ritraendosi, «non mi piace che mi tocchino la testa. Conciato a ‘sto modo, poi.» «Scusi, signorino» dici. «Però fai abbastanza ridere.» Tuo fratello sbuffa, gira con il pollice la minuscola rotella a corona alla base del parafiamma, la apre al massimo. «Poteva dircelo, l’uomo, che l’acqua era pochissima.» «Tu almeno sei riuscito a fare la doccia. Non faresti cambio, di’ la verità.» «C’è poco da fare cambio» tuo fratello dice. «Dopo una notte chiusi là dentro, nessuno sarà in grado di indovinare chi dei due ha fatto la doccia.» Si è portato fin qui sulla riva una serpentina al piretro che avete trovato dentro un pensile del caravan, e adesso che prova a incen-diarne l’estremità, un vento basso e teso fa ballare la fiamma che disegna fughe di fantasmi sul suo volto mite. Lungo la curva del tombolo si vedono le luci di poche case, e la salicornia forma un tappeto compatto, che nasconde la rena e asseconda il profilo delle dune. Al centro della laguna, il cuneo di case d’Orbetello appare illuminato dal basso, e se pure laggiù esistono posti in cui bere una birra e ascoltare un po’ di musica, per arrivarci servirebbe una barca, e prepararsi a remare un buon tratto.


«Vado a chiedere all’uomo se ci vende qualcosa da bere» tuo fratello dice. «Un po’ di vino, o almeno una lattina di birra.» «Quello secondo me vende solo barrette e cioccolata» dici guardando oltre il deserto delle piazzole, «e ormai a quest’ora non ar-riverano altri ospiti.» Il fumo della serpentina al piretro sale lento, grave d’odore chi-mico, e quanto ti ritrovi sottovento il naso pizzica e gli occhi si riempiono di lacrime. «Un paio di lattine da qualche parte» insiste tuo fratello, «l’uo-mo deve averle per forza.» «Hai visto un frigo, dentro il maledetto gabbiotto? Io no.» «Però mi sa che provo» dice tuo fratello sporgendosi a misurare la distanza che vi separa dall’ingresso del campeggio. «Se devo stare seduto qui con la voglia, tanto vale che provo.»

GIORNO DUE. Dal Tombolo della Giannella a Albinia e Marsiliana. Alla terza ora di marcia vi lasciate Albinia alle spalle, immobile nella canicola come l’avete trovata, un nido di case con il silos dell’acqua e la chiesa, stretto fra la fuga dei binari e le quattro corsie dell’Aurelia. Oltre l’edificio della minuscola stazione che ieri avete superato per ultima, avanzate attraverso le terre bonificate cariche di grano dalle spighe ancora verdi. Vi spingete lungo il fondo polveroso delle sterrate che incrociano ad angolo retto, sempre in vista della doppia linea di pini che incanala il traffico della strada maestra. Verso Sud, a chiudere da vicino l’orizzonte, si staglia il profilo scuro d’un treno di colline che, alle spalle della laguna, sviluppa verso l’entroterra a proteggere la bassa valle dell’Albegna. Le fattorie sono lontane una dall’altra, bianche come mollica di pane, e le schiene curve delle serre punteggiano il paesaggio. Ci sono gruppi di donne al lavoro nei campi. Prelevano uno a uno i piccoli meloni acerbi dalle cassette caricate al vivaio, e con pazienza li mettono a dimora fra le zolle, che finiscano di matura-re in piena terra. Un paio fra le lavoranti più giovani, i fazzoletti da testa stampati a colori vivaci, a vedervi con gli


zaini interrompe il lavoro e saluta. Vorresti sfilare il Salewa, andarle a conoscere e tenere loro un po’ di compagnia, ma la strada per Marsiliana è ancora lunga. Sotto un cielo di nuvole che sembrano stagnare alte fin dai tempi degli Etruschi, gli sguardi delle donne vi spingono sempre più lontani dal mare. «Quando si alza la brezza» tuo fratello dice, «non va male. Però lo zaino mi trascina verso terra, e mi chiedo come farò quando comincia la salita.» «Anch’io avevo deciso di partire leggero, e guarda che roba.» «Al peggio, getteremo via qualcosa.» «O faremo un piccolo regalo a qualcuno» dici, ma sai che niente, dentro il Salewa che pesa in spalla, è salito a bordo senza un motivo specifico. Però lo senti sottopelle, il prurito della fatica in arrivo, e il pensiero della salita, valutato da vicino, basta a gettarti nella desolazione. Pensi che sei ancora in tempo per scrollarti il Salewa di dosso, dire a tuo fratello che era solo uno scherzo e convincerlo a lasciar perdere. Crederà che sei matto, ma se ti rifiuti di proseguire mica può costringerti. In fondo, è qui per accompagnare te. Magari dovresti proprio fermarti un minuto, invece. Fermare i tuoi piedi del cavolo che se ne vanno stolidi verso la valle dell’Albegna. Se la conoscono in pochissimi, consideri guardando le gambe bianche di tuo fratello, un motivo ci sarà. Finché non ci siete impantanati in mezzo, puoi ancora fermare i tuoi piedi, e senza ridere né niente spiegare con calma a tuo fratello che il progetto di traversare a piedi la penisola da mare a mare era solo uno scherzo, una messinscena per evadere pochi giorni lontano da casa. Non dovrebbe essere impossibile, tenere a bada il suo stupore e proporgli di fare dietrofront, verso la costa e le luci dell’Argentario, Porto Èrcole e Santo Stefano. Se serve puoi supplicarlo, di restare a tenerti compagnia fino a mercoledì, ricoverati come latitan-ti in qualche pensioncina. Potreste restare a far niente tutto il giorno, passeggiare senza zaino lungo la spiaggia deserta, leggere i libri che vi siete portati dietro, bere birra al bar del paese e studiare le penultime voci di mercato sul “Corriere dello Sport”. Nettamente. Adesso ordini ai tuoi piedi di fermarsi e, con la voce da paloma, spieghi al fratello che hai un gran bisogno di parlare di te e dell’antica istituzione a orologeria chiamata matrimonio. È un bravo ragazzo, e se si convince che deve aiutarti è fatta. Niente salite verso i paesini crocifissi in cima alle colline, e niente sofferenze gratuite. La sera, potresti offrirgli delle buone cene di pesce lontano dalla pensioncina. Adesso che gli stabilimenti hanno appena riaperto e sono arrivati solo i primi turisti stranieri, dovreste riuscire a cenare in pace, senza bisogno di sgomitare per un tavolo. Era un secolo che non partivate insieme. Sarebbe nettamente da ingrati non offrirgli nemmeno una cena di pesce e costringerlo a camminare dieci ore al giorno per espiare, nemmeno sai bene cosa, insieme a te. Pensi questo, e a Oriente, dritto avanti a voi, d’improvviso distingui una colonna di caligine scura o qualcosa, che origina ai piedi delle colline e sale contro il cielo.


«Quello laggiù» dici «è un incendio bello e buono.» «Non credo sia fumo» dice tuo fratello. «Non sembra fumo.» «Un incendio in piena regola». «Non sembra un incendio. Facci caso. Senti odore di bruciato?» Gli domandi di sfilare la Kompass dalla tasca a rete del tuo zaino, e per un po’, mentre tuo fratello annusa l’aria, studi la carta. A un’ora di marcia si apre l’anfiteatro d’una cava, e la colonna di caligine o polvere scura o quel che è, dev’essere prodotta dal lavorio delle escavatrici. «Puoi anche smettere di sniffiare» dici. «È solo la polvere di una cava.» «Adesso fai l’intenditore» dice lui, «però un minuto fa dicevi che era un incendio.» Proseguite a marciare lungo la vicinale in direzione della colonna di caligine, finché la vicinale non termina in questo incrocio a T, e la vostra nuova strada è una carreggiabile il cui braccio di destra aggira da monte l’anfiteatro della cava e punta verso il treno di colline che difende la bassa valle dell’Albegna; prendete a sinistra, verso il doppio solco di pini marittimi che vi permette di individuare il corso della strada maestra. Per forse cinquecento passi la carreggiabile costeggia il recinto d’un podere che si chiama Priora-to. Superato il podere, traversate un ponte a una sola campata che scavalca un canale artificiale dalle sponde scoscese di calcestruzzo. Poi anche la carreggiabile finisce e voi sbucate sulla strada maestra all’altezza di una villa isolata. Dietro il grande cancello in ferro battuto, lucida come un’otaria al sole, l’immensa scocca d’un Cayenne chiude per tre quarti il vialetto di ghiaia, e appena fuori dalla recinzione intonacata della villa, spicca il cartello smangiato dalla ruggine d’una fermata a richiesta delle autolinee Rama. Però non c’è nessuna tabella degli orari, e lungo la strada non si vedono corriere, solo un camion ogni tanto. Così vi rassegnate ad aggirare la cava seguendo il rettilineo della strada maestra che si allontana dalla costa. Filari di cipressi frenano il vento e segnano il confine delle proprietà, alberi di pesco e pianticelle giovani di barbabietola riempiono i campi a perdita d’occhio. Un onesto agrimensore riuscirebbe persino senza strumenti a valutarne la superficie, e magari indovinarne l’abbondanza del raccolto. Di sicuro, il riverbero prodotto dal canto delle cicale che li abitano e che adesso vi tengono compagnia sarebbe irrilevante, dal punto di vista dei suoi calcoli. Marciate in silenzio, e dall’occhio cieco della cava si alza una nuvolaglia di sabbia che il vento trascina e disperde. Il sole appare smorto e fioco attraverso il pulviscolo in sospensione capace di seccare le labbra e rendere opachi, nella distanza, i profili dei casali. Seguite un sentiero al limitare dei campi, e il sentiero procede parallelo alla modesta massicciata della strada. C’è un minuscolo casale adibito a bar-tabacchi, circondato per tre lati dagli alberi di un frutteto e, secondo la Kompass, questa località a un tiro di vo-ce dall’accesso alla cava riservato ai mezzi pesanti, porta l’adatto nome di Polverosa. I due anziani che gestiscono il bar sembrano soli da molte ore.


Seduti a un tavolino, seguono la diretta dal Parlamento su un Brionvega incassato in una mensola d’angolo. Alle pareti sono incorniciate foto in bianco e nero di famiglie numerosissime, e tutti gli uomini sono in camicia d’orbace. Sorrisi e saluti romani, a testimonianza del tempo in cui le ultime paludi vennero bonificate e centinaia di famiglie di braccianti si trasfe-rirono quaggiù dal Fucino e la Sardegna. Mentre il gestore riempie per voi le borracce sotto il rubinetto dell’acquaio, dal Brionvega prende la parola il Presidente del Consiglio. Con la consueta gestualità da imprenditore di smisurato successo, spiega che la nostra è una missione di pace e non ci si deve preoccupare, perché il lavoro laggiù è praticamente privo di rischi reali. «Mandaci i tuoi figlioli e falla finita» sbotta la moglie del gestore picchiando sul tavolo il palmo aperto. «Lui li mandava, i suoi figlioli, a dare l’esempio.» Una volta fuori, tuo fratello dice: «Credevo fossimo tutti compagni, nella provincia di Grosseto, ma qui a Polverosa ci troviamo a destra di Rauti.» «Nettamente» sussurri, guardandoti attorno. «Nettamente.» La Vespa Primavera color petrolio vi arriva incontro lungo il rettilineo d’asfalto crepato che traversa i campi di granturco. A bordo c’è un uomo in canottiera scura, e ha un berretto di velluto calcato sulla fronte; quando mancano cinquanta metri, sollevi il braccio, le dita bene aperte, per invitarlo a fermarsi. L’uomo scala quasi subito la marcia, ma senza rilasciare del tutto la frizione. Inclina col peso verso l’interno, per un attimo sembra che abbia perso il controllo, poi ferma la Vespa di traverso. Poggia i piedi a terra e la sostiene fra le gambe senza mollare le manopole, come un ragazzino con la bici, e da lì resta a guardarvi in silenzio. «Amici o nemici?» grida dopo un po’, e poiché non siete lesti a rispondere scoppia a ridere, rimonta in sella e sta ancora ghignando, mentre vi raggiunge disegnando i suoi zig zag per tutta la larghezza della carreggiata. Viene a fermarsi di fianco a voi con una derapata finale quasi al rallentatore, un’ultima acrobazia pensata per non spaventare nessuno. «Non cercate me» dice, e nella sua voce c’è qualcosa di beffardo e qualcosa che fa pensare al catrame. Potrebbe avere quarantotto anni oppure sessanta, e al collo porta una catena dai cui anelli pende una croce d’oro spessa due dita. È una croce di fattura arti-gianale, ma sembra fusa in cantina ed è così grande che dalla canottiera dell’uomo spuntano solo il capo di Cristo e le sue braccia aperte. «Dove andate, con questo caldo?» vuol sapere. «Verso il Monte Amiata» dice tuo fratello, e tu gli sei grato di non scoprire del tutto le carte. L’uomo vi guarda le gambe e lascia andare una bestemmia. «Verso il Monte Amiata» ripete, battendo il palmo aperto sul trapezio del tachimetro. «Vi piace soffrire,


a voialtri.» «Per stasera» dici «basterebbe arrivare a Marsiliana.» «A Marsiliana ci ho fatto le elementari» considera quello. Poi solleva la Vespa sul cavalletto, e senza spegnere il motore si issa in piedi sulla pedana. Stringe gli occhi, esplora la distesa dei campi i cui confini sono segnati da filari di cipressi disposti per linee spezzate. «Oltre l’orizzonte più vicino» dice, puntando chissà co-sa con l’indice tozzo e scuro, «sotto la torre della pompa a vento.» Fattorie punteggiano la campagna a perdita d’occhio, e vorresti chiedere all’uomo cosa intende per orizzonte più vicino, finché tuo fratello non ti mostra, in lontananza, la grande raggiera di pa-le fissata alla struttura metallica della torre; ruote del genere ne avevi viste solo al cinema, e ai piedi della pompa a vento c’è una mezza dozzina di casali, ravvicinati come un piccolo borgo di pianura senza chiesa. «Quelle sono già case di Marsiliana» dice l’uomo. «Ma prima di andare, aspettate. Un attimo solo. La sapete guidare una Vespa, voi? Be’» dice sedendo da capo sulla sella, «secondo voi, a quanti chilometri orari si può affrontare, una curva a gomito?» «Con la sua Vespa?» dice tuo fratello. «Studiate da preti? Signorsì, con la mia Vespa.» «Dipende se la strada è bagnata o asciutta» dice tuo fratello. «Non studio da prete, ma anche le condizioni meteorologiche hanno la loro importanza.» Ride, ti guarda, si guarda intorno. «Non prendetemi in giro» dice, e il suo sguardo ha qualcosa di esigente e primitivo. «Ci ho messo anni per saperlo, e ormai che l’ho stabilito con precisione scientifica, mi fa piacere divulgare i risultati.» «Non so» dici per farlo contento. «Io scommetterei settantacinque all’ora. Forse, settantacinque.» «Novanta» sorride l’uomo massaggiandosi il collo. «Novanta tondi tondi, scalando all’ultimo istante senza neppure sfiorare il freno. Non so più quante volte mi sono scrocifissato per i campi, ma sentivo che si poteva fare, e alla fine ho imparato.» «Accidenti» dici tu, «ci vuole un certo fegato, a fare tutti quei tentativi.» «Fegato è una bella parola» dice l’uomo facendo salire di giri il motore un paio di volte, come per risvegliarlo. «La più dispari che c’è. Nemmeno Dante è stato capace di trovarne una che ci facesse rima.» «Già» annuisci. «Qualcosa vorrà pur dire.» «Se volete sapere cosa ne pensa il sottoscritto» l’uomo dice, «non c’è niente meglio del fegato, da mangiare, se hai bisogno di prendere una decisione.» Per un po’ resta a spiare l’effetto della notizia sui vostri volti. Si vede che ci crede sul serio. «Non ho in-ventato


niente» dice modesto. «Sono gli Etruschi che lo insegnano. E dando retta a loro, prendendosi cura di ascoltare le loro voci che chiamano» dice allargando un gesto verso le colline che chiudono la valle a meridione, «un figlio di mignotta può campare tutta la vita. Capito?» dice strizzandoti l’occhio. «E forse anche un prete» dice a tuo fratello. Se sta cercando di stendervi, deve solo andare avanti così. «Non serve spaccarsi la schiena in fabbrica, basta prendere le curve più veloce delle guardie infami.» Adesso che vi ha steso del tutto, non perde neppure tempo ad ascoltare i vostri ringraziamenti per avervi gratuitamente aperto un terzo occhio al centro della fronte. Spinge la Vespa giù dal cavalletto, con un colpo preciso di tacco, aggiusta il cavalletto in posizione di viaggio. «Al crocicchio, prendete per la pompa a vento. E se vi assale l’incertezza» ride da solo, «fate come gli Etruschi.» L’uomo ingrana la prima, la seconda, la Vespa prende velocità lungo l’asfalto crepato del rettilineo che incunea fra i campi coltivati: da fondo alla progressione delle marce e ancora accelera a tutto gas. Rimpicciolisce fra le ali di granturco, e prima che scom-paia oltre il punto in cui il muro di spighe si richiude, vi sembra di sentirlo cantare. «Quel tizio» dice tuo fratello, «è il classico delinquente vecchio stile. Maraglio, ma cortese.» Non vi resta che seguire, con calma, la scia della Vespa, e quando arrivate al bivio, una svolta a forcella in mezzo alla quiete d’un mare di granturco, non vi stupite di trovare sull’asfalto gli apo-strofi neri d’innumerevoli sgommate e frustate di freno. C’è una solitària villa a due piani che domina i terreni in prossimità del bivio, e la prima cosa che noti sono i sei tronchi levigati e gialli, come la polpa di pesche mature, che formano il colonnato della veranda. I parapetti del terrazzo sono intagliati a cuore come in Carinzia, il tetto a doppio spiovente fa a pugni col finestrone a semicerchio che occhieggia nella penombra della veranda, e il mu-retto di recinzione, sovrastato da una ringhiera a punte di lancia, denuncia già da duecento passi il gusto dei padroni di casa. È tuo fratello, mentre vi lasciate alle spalle il viottolo che conduce al cancello spalancato della villa, a farti notare, parcheggiata di sbieco in cortile, la sagoma della Vespa Primavera color petrolio. «Guarda che casa si è costruito» dice. «Sembra progettata da un ubriaco.» «Forse hai ragione» dici. «Solo un delinquente vorrebbe abitare una casa del genere.» «Quello, scusa, ascolta le voci degli Etruschi che chiamano dalle colline.» «Come no» dici. «Secondo me, sulle colline va a farci le messe nere.» «Mica ci si guadagna, con le messe nere. Per me va a caccia di roba antica per rivenderla.» «Già» dici senza individuare la parola esatta che stai cercando.


«Ecco cosa intendeva. Ascolta le voci per farsi guidare verso i se-polcri.» «Che studi bisogna fare, per diventare tombarolo?» vuol sapere tuo fratello, e ora la parola che cercavi è stata pronunciata e galleggia lugubre nell’aria. «O dici che il signore, dopo le elementari a Marsiliana, ha proseguito da autodidatta?» D’improvviso, pensi alle alture che domani comincerete a risalire e pensi all’intera valle dell’Albegna come a un ventre oscuro, punteggiato di tombe profanate e colmo di sussurri. Così ti senti contento per stasera, che ancora la pianura si stende intorno alla strada e la grande raggiera di pale della pompa a vento, capace di aziona-re l’asse rotante che pesca nel fondo del pozzo, indica la meta. Ormai vi basta seguire le vostre ombre che si allungano verso la grande torre metallica della pompa a vento, pregustare in silenzio l’istante in cui sfilerete gli zaini fino a domani. All’inizio è una sorta di sospiro, il lamento affannato d’una creatura senza amore che vaga per la campagna, ma quando inizi a farci caso sul serio la creatura decide di palesarsi. Le note di gola del suo abbaiare risveglierebbero un moribon-do, e vi girate in tempo per vedere questo cane sterminato, il mantello irsuto color dell’antracite, che risale a tutta velocità il rettilineo della vicinale. Pensi che potrebbe essere uscito dal cancello del tombarolo, o da una delle fattorie, e se non dirige verso di voi proprio non si capisce dove vada, con tutta quella fretta. Poi il cane non abbaia più né niente, e man mano che si fa sotto pare ingigantire. Ti guardi alle spalle, verso il paese, ma le case sono troppo lontane per mettersi a correre e in strada non si vede nessuno. «Stiamo calmi» dice tuo fratello quando il cane è a meno di quaranta passi. Poi chiede se hai il coltello, ma il Gerber è nello zaino. «Un bastone» dici. «Con un bastone in mano, sto ancora più calmo.» «Se anche ci attacca» lui dice, «non mettiamoci a correre.» Bastoni, al limitare dei campi di lattuga, non se ne vedono. «I pali della tenda» gridi mentre il cane si precipita a coprire gli ultimi metri. Peserà una cinquantina di chili e, al riparo dietro le tue spalle, tuo fratello armeggia con le cinghie del Salewa. Lo fa ondeggiare di peso, e imprecando tenta di sfilare la busta in tela cerata antistrappo, lunga mezzo braccio, che contiene il fascio di pali in vetroresina grazie ai quali un sacco di seta diventa una vera tenda a igloo. «Sono incastrati, cazzo» dice tuo fratello, e forse non capisce che una bestia del genere può staccarti un polpaccio in un colpo solo. Poi vedi il cane che rallenta, come se, in qualche modo disponi-bile alle bestie feroci, si fosse accorto


che l’effetto sorpresa è svani-to. Rallenta fino a fermarsi, ora che sarebbe abbastanza vicino da tagliare in pochi balzi la distanza che vi separa. «Quando ci riesci» sussurri fra i denti, «sarà sempre troppo tardi.» Il cane ha una testa enorme, il triangolo del muso carico di lanugine scura, e se esiste una razza di canepastore così, non l’hai mai vista prima. I suoi occhi sono cerchiati di giallo, e ringhiando scopre la tagliola delle zanne, perde fiocchi di bava dagli angoli della bocca dalle labbra nere. Senza sapere come, stai già stringendo un’estremità della busta in tela cerata, ne percepisci il peso e ti dici che se non perdi d’occhio il triangolo del muso, finirà bene. «A cuccia!» gridi con quanto fiato hai in gola. «Subito!» Sollevi sopra la testa la busta dei pali, che il cane la veda bene, fai il gesto di colpire. Allora quello abbassa la testa enorme e, stanco come dev’essere dopo la corsa, s’accuccia ventre a terra, gola a terra, a tre passi da voi. «Ecco» sussurra tuo fratello, «bravo così.» Sdraiato com’è, una grande bestia scura in mezzo alla carreggiata, ti guarda da sotto in su con gli occhi cerchiati di giallo e sembra disposto a darti retta. «Su, bello» gli dici. «Torna a casa, bello.» Ma quello è abituato a riconoscere la paura nella voce, solleva da capo le orecchie coperte di lanugine scura e riprende ad avanzare. Tu e tuo fratello indietreggiate spalla a spalla. Due passi. Tre. Tuo fratello grida di stare a cuccia. Stringi a due mani la busta dei pali, punti al muso, ti prepari a colpire forte, e vedi questa manciata di ghiaia che piove addosso al cane. «Questa non è una buona idea» dici a tuo fratello, e il cane si torce, ringhia, vi guarda di sbieco e, se pure la linea scura delle labbra non scopre del tutto la tagliola delle zanne, brontola basso e sembra intenzionato a non passare sopra la faccenda. «Magari all’inizio voleva solo annusarci» dice tuo fratello già pentito. «Non credo» dici tu. «E in ogni caso, a forza di mosse ostili, ci siamo messi in una luce disgraziata, mi sa.» «Fermo!» gridi quando ti sembra che si prepari ad attaccare. «Fermo a cuccia!» e il cane sembra tornare una creatura ragione-vole, abbassa le orecchie, sbadiglia mentre il sole gli cala alle spalle e la lingua che esce fuori sembra una specie di bistecca viva. «Non vuole sbranarci subito» dici. «Aspetta che riprendiamo a camminare per attaccarci alle spalle.» «Camminiamo all’indietro» suggerisce tuo fratello. «Almeno lo teniamo d’occhio. Lo teniamo d’occhio in due, e se attacca colpi-scilo alla testa finché puoi.»


Così prendete a procedere a ritroso, spalla contro spalla, lungo il rettilineo che conduce alla torre della pompa a vento; il cane continua a seguirvi, ringhia in attesa del momento propizio. Tenta di soprendervi con piccoli scarti laterali, ma china le orecchie e abbassa la testa ogni volta che lo minacci ondeggiando sopra la spalla il fascio dei pali, e quando ormai siete a ridosso della prima fattoria, il latrare furioso dei maremmani che hanno fiutato l’intruso è un annuncio di salvezza. Il cane vi concede terreno e, caracollando, abbandona la carreggiata e prende a fiutare lungo il ciglio. Sembra non si trovi a suo agio, da queste parti. Se la fortuna vi assiste, finirà per dimenticarsi di voi. Decidete di domandare ospitalità ai padroni della fattoria al-l’ombra della pompa a vento. È un’azienda agricola che porta il nome di Buttero Volante, un posto dove puoi fermarti una sera o una settimana e, grazie alla striscia calva della pista d’atterraggio ricavata fra i campi di frumento, adatta a ultraleggeri e piccoli velivoli, puoi considerarlo un avamposto dell’aviazione sportiva in quest’angolo di Maremma. Il capofamiglia è un uomo dai capelli color ruggine e la pelle cotta dal sole. Si chiama Ivan, e la dépendance riservata agli ospiti è un’ex stalla risistemata con cura, a cento passi dall’edificio principale in cui Ivan abita insieme alla moglie e un figlio della vostra età. Apre per voi la porta di una delle stanze, e dice che di solito, prima della fine di giugno, da quelle parti non arriva nessun turista. «Ma noi» dici, «non siamo veri turisti. Noi siamo camminatori». «Come i pellegrini dell’antichità» ride tuo fratello. «Più o meno». «Non so da cosa scappate» anche l’uomo ride, «ma qui siete fra amici». Dentro la stanza c’è spazio per due letti dalle testate in ferro battuto, un armadio e poco altro, ma il posto è pulito, e per voi è più che sufficiente. «La cucina di mia moglie non è il ristorante» dice Ivan prima di congedarsi, «ma se vi fa piacere, alle otto potete cenare con noi». Lo ringraziate, e l’uomo vi lascia soli. Per prima cosa sciogliete i nodi dei lacci, sfilate gli scarponi e sfilate i calzini. «Abbiamo fatto bene ad accettare» tuo fratello dice. «L’uomo sembra simpatico». Seduto sul bordo del letto controlli i piedi. È come se, durante la marcia, si fossero intorpiditi e frollati, ma per il momento non fanno male e non si vedono vesciche. «Ti ha mai morso un cane?» domanda tuo fratello.


«Dobbiamo proprio parlarne?» «Penso che ne incontreremo a centinaia, merda». «Cani» dici, «e cinghiali». «I cinghiali diventano aggressivi solo per difendere i figli. L’importante è che non sia la stagione in cui hanno appena figliato». «Lo è» dici tu. «Nettamente». «Mi prendi in giro?» «L’unica cosa di cui preoccuparsi» dici, «è trovare tutte le sere un buon posto per la tenda». «Voglio procurarmi un randello, domani. Un randello, o una cavolo di pistola». «Trovare un buon posto prima che faccia buio, voglio dire». «Forse» si sporge lui a stringerti il polso, «dovremmo telefonare a casa che siamo ancora vivi». Alle otto in punto, lavati e pettinati, uscite dalla stanza indossando i vostri abiti migliori. Confidando sul chiarore della luna, decidete di percorrere senza torcia elettrica il vialetto di ghiaia che collega la dépendance alla fattoria. Basta secondarne la curva che lambisce i campi di frumento e la striscia calva della pista d’atterraggio, e la fattoria è laggiù, scura nella notte scura da non distinguerne il profilo. Però si vedono le finestre illuminate al pianterreno, e la feritoia verticale del portone semiaperto a significare che siete attesi. «Mentre facevo la doccia» dice tuo fratello, «pensavo che sei fortunato, ad avere un figlio maschio.» «Anche una femmina» dici «sarebbe andata benissimo.» «Però così puoi spiegargli un sacco di cose. E quando ha sedici anni e fa tardi la sera non ti preoccuperai.» «Dici di no?» «Non così tanto.» «Mi preoccuperò. E suo padre e il vecchio zio faranno tardi nei bar del quartiere per sorvegliarlo senza che lui se ne accorga.» «Dovremo travestirci, come minimo». «L’importante è non commettere qualche errore fatale. Una di quelle cappelle educative di cui lì per lì non ti rendi conto, e poi una sera, fra dieci anni, rientri a casa e te lo trovi sdraiato sul divano come un ciccione viziato».


«Viziato no.» protesta il fratello. «Viziato fa cagare. Meglio un po’ rustico.» La stanza che vi accoglie è smisurata, e sotto la luce elettrica Ivan appare ancora più rosso in viso di come vi era sembrato fuori. Il figlio aiuta la madre ai fornelli. È un tipo solido, abbronzato in maniera più discreta rispetto a Ivan. Avrà l’età di tuo fratello, e sembra impegnato a mescolare il contenuto d’una gran pentola di coccio. Dalla pentola sale un va-pore che profuma d’uova e verdura. «Benvenuti al Buttero Volante» ride il ragazzo. «Non facciamo ancora parte della catena Hilton, ma se avete bisogno di mandare un fax o scaricare la posta, il mio computer è a disposizione.» Anche la madre vi saluta. Potrà avere quarantacinque anni e sembra una donna paziente. Siete i primi ospiti della stagione, e cerca di capire che razza di gente le è arrivata in casa. «Da dove venite, ragazzi?» chiede. Glielo dici e lei risponde che non c’è mai stata, ma che dev’essere una bella città. «Mettetevi comodi» dice. «Fra cinque minuti è pronto.» Per quel che capisci di architettura, la stanza potrebbe occupare per intero il piano terra della costruzione. Anche il soffitto è molto alto, ma il fuoco che, sul lato a man destra dell’ingresso, arde quieto sotto la grande ala scura della cappa, in questa sera fresca di maggio basta a riscaldare l’ambiente per intero. «La fattoria esiste da quando ci sono arrivato con i miei» dice Ivan colmando i vostri bicchieri di vino scuro. «All’epoca avevo cinque anni. Il nome Buttero Volante, invece, è un’idea recente del mio figliolo.» «Visto che babbo e io abbiamo la passione per gli ultraleggeri» dice il ragazzo, «in pratica il nome è venuto da sé.» Le sue occupazioni ai fornelli sono finite, e prima di sedere a capotavola va a lavarsi le mani sotto l’acquaio. «In zona è già pieno» Ivan dice, «di poderi che si chiamano Querciola e Oliveto, Vigna e Selva, e anche noi, se non vogliamo fare la fine degli Etruschi, dobbiamo un po’ modernizzarci.» Sua moglie riempie le scodelle con una zuppa a base di pane raffermo, uova e verdura, e mentre mangiate il ragazzo insiste per sapere cosa fate nella vita, e dove pensate di dirigervi. Allora pronunci con cautela i nomi imparati sulle mappe, e mentre nomini Saturnia, Semproniano e Santa Fiora, ti sembra di cogliere negli occhi di Ivan la qualità di compassione che forse riserva agli esaltati e gli ubriachi di paese. La moglie dice che già arrivare a Saturnia è una bella sfacchina-ta. «Quand’ero piccola, il nonno mi ci portava col biroccio e serviva mezza giornata.»


«È solo che viaggiate un po’ pesanti» dice Ivan. «Abbiamo la tenda, il campingaz, le gavette e tutto quello che serve per fare tappa dove capita» dici. «I campeggi apriranno solo alla fine del mese» fa lei. «Sono in due» dice il ragazzo. «Possono fermarsi dove vogliono e sono in due.» «Io arrivo a Chiusi» tuo fratello dice. «Quando incontreremo di nuovo la ferrovia. Devo tornare in città, dopo. Questioni di lavoro» lo senti dire per la prima volta da quando lo conosci. «Lui» dice poggiandoti la destra sulla spalla, «va avanti a testa bassa, invece. Fino all’Adriatico.» Ivan spalanca gli occhi ammirato. «È una malattia meravigliosa, la gioventù.» «Ci provo» dici ora che sanno ogni cosa. «Ci proviamo.» «Partirei con voi» dice il ragazzo, «se non fosse la stagione peggiore per il lavoro.» «Non ti hanno mica invitato» lo rimprovera la madre, ma il ragazzo non le bada. «Sarà un viaggio magnifico e, da qui a Chiusi, di spazio per la tenda ne trovate finché vi garba. Ce le avete le carte?» «Ne ho dodici, nello zaino. Kompass in scala uno a cinquantamila, un paio di Multigraphic e qualche tavola dettagliata dell’Istituto Geografico Militare.» Sai che domani non incontrerete neppure i segnavia biancorossi alle svolte dei sentieri, ma questo non lo dici. Fuori, oltre i vetri delle finestre, latrano cani per scelta o di ri-mando, e la campagna ne sembra popolata fin nel più recondito anfratto. Possono essere centinaia, e forse la bestia che vi ha spaventato oggi vaga ancora nella notte, in cerca di rogne, o forse è tornata a casa, a farsi coccolare dal suo padrone tombarolo. Dopo cena, nella vicinanza che il vino e la confessione del vostro progetto hanno saputo alimentare, anche Ivan si abbandona alla confidenza. La moglie versa per voi il caffè nelle tazze, e lui parla della terra e dell’impegno che reclama, le cure da adottare perché il grano cresca sano e le fragole saporite senza bisogno di appestare il terreno con i fertilizzanti chimici. «Tutti i poderi che avete traversato dalla costa fin qui» racconta girando il cucchiaino nella tazza, «formavano il latifondo del principe Corsini. Per coltivarlo serviva il lavoro di eserciti di braccianti, e solo dopo la riforma agraria le terre sono state distribuite a chi le faticava.» «Per la gente di qui è stata una specie di rivoluzione» chiosa la moglie.


«Quel che apparteneva a uno solo, adesso basta per migliaia di famiglie» dice Ivan. «E il principe è rimasto in ogni caso un uomo ricco.» «Ai tempi dei nonni» dice il ragazzo, «questo era il Far West d’Italia. Arrivavano carovane di poveretti da tutte le regioni del Paese per lavorare terre mai coltivate prima, e nella macchia c’erano i rifugi dei briganti.» «Ho visto sulla carta» dici « che la piana oltre il fiume porta il nome di Camera dei Ladri.» «Adesso è solo un nome» il ragazzo dice, «ma una volta non ci andavano neppure i carabinieri. C’erano bande rivali che lottavano fra loro, e tutte lottavano contro i carabinieri e gli uomini del principe. Un po’ come le storie di Zorro.» «I briganti facevano quel che facevano perché c’era miseria» di-ce Ivan. «La miseria però c’era per tutti», dice lei. «Mica penso che a quest’ora se la spassino in paradiso.» «Quelli il paradiso non lo vedono neppure con il cannocchiale. Per fare certe cose, bisogna avere la cattiveria dentro.» «Mia moglie» sorride Ivan alzandosi per andare a ravvivare la fiamma, «non ha ancora mandato giù un vecchio sgarbo.» «Oh» fa lei, «che vai a rimestare.» «Si fa pregare» dice il ragazzo, «ma mica le dispiace parlarne.» «I nostri camminatori avranno sonno, ormai» la donna dice, ma voi la incoraggiate. «Be’, non aspettatevi una storia tanto speciale. Il padre di mio nonno era segretario del sindaco, e le spie dei briganti si erano convinti che, grazie al suo lavoro, avesse accumulato una piccola fortuna. Così, un giorno che il ragazzino tornava da scuola, arrivarono tre uomini a cavallo e lo portarono al loro rifugio oltre il fiume.» «I briganti, al rifugio, volevano stare allegri» dice Ivan. «Avevano sempre signorine al seguito e non si facevano mancare da bere.» «Sembra una storia ambientata nel Nuovo Messico» dice il ragazzo. «Invece è accaduta al nonno di mia madre.» «Dal momento che era solo un ragazzino, lo impiegarono come coppiere. La sera, era incaricato di servire il vino ai banditi mentre giocavano a carte.» «Non lo trattavano male» dice Ivan. «Era diventato una specie di mascotte.» «I genitori quasi morivano di crepacuore. Non riuscivano a farsi prestare i soldi per pagare il riscatto, e a quel modo mio nonno trascorse nella macchia più di due mesi. La sera versava da bere ai giocatori, e in


cambio chi vinceva la mano gli allungava qualche moneta. Solo all’alba, quando andavano a dormire, lo chiudevano in un capanno. Poi, una notte, i banditi si ubriacarono per bene e caddero addormentati uno dopo l’altro dimenticandosi di mio nonno. Così riuscì a svignarla, e con sé portò il piccolo gruz-zolo delle mance.» «Alla fine» dice il ragazzo, «per la famiglia è stato un affare.» «Non mi piace» la donna dice, «quando scherzate su certe co-se.» «Adesso è cambiato tutto» dice il ragazzo. «Non è esattamente come in città, ma abbiamo internet e non ci manca niente.» «Sono un sentimentale, e sono fiero che nostro figlio sia rimasto con noi» dice Ivan. «Tanti giovani non vogliono saperne. Pre-feriscono cercare un impiego del cavolo in città, e così lasciano andare a male il frutto di tante lotte.» «Io non voglio lasciarlo andare a male» il ragazzo dice, «e adesso dobbiamo darci da fare con la raccolta delle fragole, ma a set-tembre vado alle Isole Vergini.» «Ci ha fatto una testa così» dice la madre, «con queste Isole Vergini.» «È la terza volta che ci vado» dice il ragazzo senza nascondere la soddisfazione. «Ormai ho amici che mi ospitano.» «Mia moglie ha paura che rimanga laggiù a fare il pescatore» sorride Ivan. «Ma a me fa piacere che i giovani vedano il mondo. E il mio figliolo sa fare tante cose, ma come pescatore non campe-rebbe nemmeno una settimana.» E poi racconta di come, insieme al ragazzo, stanno costruendo una casa a poca distanza dalla fattoria. Senza bisogno di muratori e senza fretta, un’estate dopo l’altra. Hanno a disposizione il modello più piccolo di betoniera in commercio, ma se vanno avanti di questo passo, nel giro di un paio d’estati resterà da pensare so-lo agli infissi e le imposte. Ivan e il ragazzo parlano di controsoffitti e gettate di cemento armato, scherzano dei piccoli rischi corsi l’anno scorso e delle soluzioni adottate, come se costruire una casa fosse semplicemente il livello più avanzato e affascinante del bricolage. «Così» dice la moglie mentre porta in tavola il liquore alle fragole che lei stessa produce, «quando il giovanotto sceglierà una brava ragazza, si può restare tutti vicini.» Alta sopra il profilo delle colline, la luna fa risplendere la striscia ricavata fra i campi e adibita a pista d’atterraggio. Mossa de-bolmente dal vento che profuma di sale e terra rivoltata, fruscia in cima al suo palo la manica a vento. «Non avevo mai conosciuto dei coltivatori di fragole» dice tuo fratello mentre rientrate verso la


dépendance. «Non mi dispiacerebbe, vivere come loro.» «Certo» dici, «se ne stanno tranquilli, quaggiù.» «Dici che vanno spesso al cinema?» «Sono brava gente» dici. «E forse vanno al cinema più di me.» «Sono brava gente» dice tuo fratello, «ma non ho ancora deciso se credere alla storia dei briganti. Magari la raccontano a tutti quelli che passano, tanto per fare atmosfera.» «Oi, la raccontava a modo. E almeno è una storia che finisce bene.» Questo è l’ultimo avamposto, gracchia la ghiaia sotto le vostre suole ubriache di strade bianche e liquore alla fragola. Domani abbandonerete la pianura e comincerete a risalire l’intrico delle valli, verso i primi contrafforti del serraglio di nuda pietra nuda che separa le due coste del Paese.

GIORNO TRE. Da Marsiliana a Montemerano e Saturnia. Il torrione quadrato del castello Corsini svetta fra pochi tetti sulla cima d’una collina fitta d’alberi, e da lassù si vede di sicuro, il paesetto arroccato verso il quale dovete puntare se volete raggiungere Saturnia prima di sera. All’inizio camminate sul ciglio della strada maestra, una statale tutta curve asfaltata quando ormai era da secoli l’arteria principale della zona, battuta dai carri dei commercianti di carbone che facevano la spola con la costa: compravano la loro mercanzia direttamente dai montanari neri di fuliggine dell’alta valle, e scendevano a venderla ai capitani dei vapori in attesa di rifornimento a Santo Stefano” e Talamone. «Non è che abbiamo con noi una cavolo di crema solare?» domanda tuo fratello. Porta calcato sulla fronte un cappello bianco con la visiera a becco, da pesca d’altura, e al retro del cappello ha attaccato con il nastro adesivo un foulard da signora che gli ripara il collo. «Ho paura di scottarmi le braccia» dice. «Le braccia e i maledetti polpacci.» Dici che non l’hai portata, la crema solare. E nonostante il Salewa sia pieno da segare le spalle potrebbero essere uno stermi-nio, gli oggetti utili che rimpiangerai quando sarete accampati in mezzo alla selva.


Seguite il ciglio della statale per meno di due chilometri, di-stratti dal passaggio di furgoni e camion scoperti carichi di frutta, e all’altezza d’una frazione chiamata Mariannaccia prendete una stradina che si infila fra le case. Fedele alla rappresentazione della carta militare, la stradina si inoltra fra i campi come un fuso, e ogni poche centinaia di metri, dove dipartono a pettine i viottoli anonimi che conducono alle fattorie, vedi sull’asfalto bigio le impronte dei battistra-da a coda di rondine dei grandi trattori. Puoi immaginarli all’al-ba, gli uomini alla guida, che manovrano in curva per immettersi sul rettilineo, verso il lavoro, fidando che il pistonìo del diesel suonerà beffardo alle orecchie dei vicini ancora seduti a colazione. Dove l’asfalto piega di nuovo verso la strada maestra imboccate un’ampia sterrata, bianca come in un sogno, che procede im-perterrita verso il mare d’erba delle colline. Le ultime case costruite a ridosso della sterrata non somigliano ad aziende agricole, ma a turpi villette di periferia aviotrasportate in qualche modo fin qui e, una volta paracadutate al limitare della pianura, qualcuno a terra si è dato da fare per recintarle e ver-niciarne le pareti a colori pastello. Appena oltre le villette, però, non ci sono più orti né recinzioni a ridosso della strada, e l’unica costruzione che si scorge è una ca-sa in sasso tutta storta. Gli scuri sono sprangati e sul retro, sotto lo scheletro d’un pergolato in rovina, c’è una Cinquecento chiazzata di ruggine. Le tracce dei trattori non si vedono più, e dal fondo in terra battuta affiorano i dorsi di pietre bianche che nessuna schiacciasassi ha mai spianato. Fino alla vigilia della partenza potevi pensare alle diverse tappe come a un succedersi di paesaggi, simile alla parata di video-cartoline dell’Intervallo Rai. Ti sei preoccupato delle mappe e ti sei preoccupato delle provviste, ma hai tenuto lontano per tutto il tempo il pensiero della fatica. Sai che arriverà, compagna fedele di tutte le marce, e in ogni caso non serve pensarci in anticipo. Eppure, adesso che non si vede più l’asfalto e potete solo ad-dentrarvi per la campagna verso una località famosa che i turisti, di solito, raggiungono dalla costa in mezz’ora d’auto, la hybris del tuo progetto comincia a sgomentarti. La sterrata smuore nello spazio di un ultimo arco di curva, si perde fra le tife a pochi passi dalla riva tonda d’uno stagno che balugina sotto il sole già alto. Per il gioco della rifrazione, i bassi argini che lo delimitano appaiono percorsi da bagliori d’incendio, e l’unica cosa viva è il frullo d’ali d’una gazza che sorvola l’acqua ferma, odorosa di foglie in disfacimento. «Bene» dice tuo fratello. «Mi aspettavo che ci fosse da guadare, prima o poi. Pensavo al massimo a un torrente, però.» «Per questa volta» dici, «basterà girarci intorno.»


Distinguete due tracce di sentiero che si inoltrano nella macchia mantenendosi sulle sponde opposte dello stagno, e secondo la carta militare la vostra è quella invasa da banchi di moscerini che punta a destra, verso la cresta d’erba d’una collina isolata, sulla cima della quale spicca il telaio in metallo di un pilone dell’elettrodotto principale. «Sicuro che andiamo bene?» domanda tuo fratello dopo un po’. «Nettamente» rispondi, e è tutto come l’avevi immaginato studiando le mappe, ad eccezione del fatto che il sole picchia duro e già a metà della primissima salita le giunture delle ginocchia si fanno sentire. Forse sei uno stupido. Forse dovevi allenarti un po’, prima. Oppure partire sul serio senza zaino, con la k-way in cintura e la carta di credito in tasca, deciso a fare tappa negli alberghi. Mica si offendeva nessuno, se camminavi tutto il giorno e la sera dormivi in albergo. Invece ti sei ostinato a fare alla vecchia maniera, con la tenda e il resto dell’equipaggiamento aggrappati alle spalle come una gigantesca scimmia. La traccia esce dalla vegetazione in vista d’una recinzione di fi-lo spinato, e un cancello costituito da una vecchia rete da letto difende il varco oltre il quale il sentiero serpeggia nell’aperto di prati brillanti. «Dici che andiamo bene, sì?» «Oi» dici. «È sempre il sentiero di cinque minuti fa.» La rete balugina fra due montanti verticali di metallo, e alle maglie di quel cancello di recupero è appeso col fil di ferro un rettangolo di compensato sul quale si leggono ancora poche righe a vernice nera sbiadita dal sole: E - INUTILE - CHE - FAI - IL - FURBO / PRIMA - O DOPO - TI - BECCO /E - ALL’ORA - SON - DOLORI. «Questa» considera tuo fratello, «come minimo, è una proprietà privata.» «Si tratta solo di scollinare» dici smuovendo il cancello, e la re-te è semplicemente appoggiata ai montanti, senza cardini né niente. «Questione di cinque minuti e dovremmo trovare una specie di sterrata abbastanza larga per i trattori.» «Dopo la bestiaccia di ieri, kapish, non ci tengo a cacciarmi di nuovo nei guai.» «Kapish, ma è solo un cancello per non lasciare scappare le pecore. Se volevano sbarrare la strada sul serio mica lo lasciavano accostato.» Sposti la rete quel tanto che basta per passare, la reggi che sgusci dentro anche tuo fratello. «Potevamo seguire l’asfalto» sospira mentre la sistema da capo contro i montanti. «Seguendo l’asfalto, a quest’ora eravamo già a metà strada.» «Sai che noia» dici. «E poi col cavolo che eravamo a metà strada. La statale fa il giro della peppa, per arrivare laggiù.»


«Sarà anche il giro della peppa, ma almeno non devi infilarti nelle proprietà private.» Adesso la traccia è solo un solco nell’erba alta fino al ginocchio, e quando raggiungete la sommità della collina vedete sotto di voi i campi di frumento che diradano ai piedi delle dune verdi d’er-ba, e sui versanti soleggiati spicca il colore più brillante di piccoli appezzamenti tenuti a filari. Il paesetto che speravate di raggiungere per pranzo è ancora dannatamente lontano. Il percorso, nel mosaico di prati, macchie e stagni che occupa il fondovalle, si distingue solo fino alla prossima fattoria, ma anche a puntare il paese in linea d’aria ti sembra di riconoscere le creste di tre avvallamenti distinti. Scendete verso l’incrocio con la vicinale che conduce alla Fattoria Cavallini: è un traguardo da tagliare senza festeggiamenti ed è l’inizio di un nuovo ramo di sterrata che si inoltra fra i prati in pieno sole dove le pecore pascolano a centinaia. Di tanto in tanto vi fermate a bere un sorso dalla borraccia, ma appena partite di nuovo, il sudore riprende a scendere. È come una risacca inesauribile che origina all’attaccatura dei capelli e invade la fronte; puoi sentirla travolgere l’argine delle sopracciglia, scendere lungo la vela del naso e cadere, per gocce e grappoli di gocce, in mezzo ai tuoi piedi comandati a camminare. Adesso che è tornata la riconosci subito, la fatica delle vecchie marce di sei o sette giorni con il Vietnamita e il buon Luther. Puoi persino provarne sollievo, all’inizio. È un posto che conosci da molto tempo, e alla fine ti ci trovi bene. Pensi così, ma subito dopo ti dici che solo un pazzo, al tuo posto, si sarebbe messo in testa di traversare a piedi la penisola nel punto più largo. Gli amici più urbanizzati e mods non la smettevano più di domandare se ti stavi preparando con un allenamento specifico. Ti guardavano storto, quando spiegavi che nessunissimo pellegrino, ai vecchi tempi, ha pensato di allenarsi prima di mettersi in strada… L’importante, credi di capire, è tenere l’ansia sotto controllo. Convincersi che non ti sta venendo l’ernia al disco, e l’articola-zione del ginocchio non è in procinto di sbriciolarsi. Per rilassarti puoi tenere il conto dei passi, oppure avventurar-ti in addizioni semplici semplici ogni volta che superate una vecchia pietra miliare. Tre e nove fanno dodici, scrivi due e porti uno, e le senti avvi-cendarsi e friggere in testa, le cifre sbiadite dei tuoi minuscoli calcoli. Se non vuoi impazzire subito, devi pensare al tuo piccolo Tour da un mare all’altro come a una successione di tappe quotidiane e appuntamenti intermedi: il prossimo è alla stazione di Chiusi, fra una settimana esatta. Laggiù, dove incontrerete per la prima volta la ferrovia, bisogna arrivarci anche stremati, a costo di


gettare lo zaino nei rovi e coprire gli ultimi chilometri a quattro zampe. Tuo fratello deve assolutamente tornare a casa mercoledì, con il treno di metà pomeriggio. Per questo scampolo di stagione, che in città nessuno ancora chiama estate, riprenderà la vita del laureato in Storia a disposizione del Professore-ammiraglio. Con la testa schizzata del Vietnamita, il patto è che basta una telefonata. “Non ti ci lascio, a camminare solo come un vagabondo” ha detto spiccio il tuo amico. “Lo zaino è già pronto. Ti fai sentire appena arrivi a Chiusi e io, la mattina dopo, scendo con l’Intercity delle 6 e 53. Così abbiamo tutta la giornata davanti per camminare”. Con la testa schizzata, seguendo i sentieri che aggirano da Sud il cratere colmo d’acqua del Trasimeno, arriverete alle porte di Perugia, e una volta in città potrete ricoverarvi nella casa da studenti in cui vive il vostro amico Galerio. Si è trasferito laggiù per aprire una libreria, e pare abiti con la fidanzata e un piccolo ha-rem di amiche. Nella casa di Perugia potete passare una buona giornata di riposo per rimettervi in sesto, prima di ripartire insieme a Galerio verso la costa orientale. Anche in mezzo alla campagna somiglia a un buon piano, e puoi ripeterlo in testa all’infinito. Magari finisce per darti forza, mentre talloni lo zaino celeste di tuo fratello lungo il saliscendi sterminato d’un viottolo buono per i muli, stretti fra una doppia ala di ortiche sotto il sole che martella dallo zenith. Il vento fa stormire le fronde dei grandi ulivi che ricoprono i fianchi delle colline, immensamente più antichi degli alberi da frutto piantati a valle ai tempi della bonifica. Non si vedono più pecore, nei prati sotto di voi, e per un po’ il canto metallico delle cicale sembra l’unica voce capace di riempire la valle. «Vuoi bere?» domanda tuo fratello. Sentire la sua voce sopra il canto degli insetti che ti stava risucchiando suona come una sferzata. Ti porge il cilindro smaltato della borraccia senza fermarsi, co-me fanno i ciclisti, e l’acqua in qualche modo è ancora fresca. Ne bevi solo un po’, il resto lo spruzzi a fontanella sull’erba per non riempirti la pancia. «È mezzogiorno e il paese ancora non si vede» dice mentre rallenta per consentirti di riporre la borraccia nella tasca laterale del suo zaino. «Sarà dura, quando arriviamo, trovare negozi aperti.» «Per mangiare, non abbiamo bisogno di nessuno.» «Non pensavo al cibo. Pensavo alla crema solare.» Gli guardi le braccia, e non sembrano ancora sul punto di scottarsi. «Però potrei anche averla nello zaino» dice. «Non sono sicuro al cento per cento, di cosa c’è nello zaino.»


«Come sarebbe?» «Diciamo che l’ha preparato Silvia.» «Da quando siete andati a vivere insieme ti trovo un po’ viziato, kapish?» «Ne avevo fin sopra i capelli, l’altra sera. Prima di partire dovevo assolutamente spedire via mail una relazione. Una sorta di riassunto dell’ultimo convegno.» «E questa volta come si intitolava?» Sono appena sei mesi che è diventato attendente del Professoreammiraglio, e ancora riesci a tenere il conto dei suoi primi impegni da lavoratore. «Il convegno, intendo. De Gaulle contro chi?» «De Gaulle non è mai contro qualcuno, nei titoli dei convegni. È come per Asterix. Asterix e i Goti. De Gaulle e la questione alge-rina. Non può mai essere contro, altrimenti suona lugubre e l’università non caccia fuori i soldi.» «D’accordo» dici mentre il viottolo segue la rovina d’un muro a secco coperto di rampicanti. «Così avevi da fare, e Silvia si è offerta volontaria per scegliere al tuo posto cosa mettere nello zaino.» «Volontaria, sì. Perché lo dici con una voce strana?» «Oh, niente» lo prendi in giro. «È solo che i veri trapper, nei libri di Jack London, il bagaglio lo preparano quasi sempre da soli.» «Non sono mai stato un trapper» sorride tuo fratello. «Per questa settimana, al massimo sono il tuo angelo custode.» Il viottolo scende verso la provinciale, in vista d’un ponte le cui spallette sono state sostituite di recente da sontuosi guard rail in legno pressato a caldo, e bastano i guard rail a conferire al paesaggio un decoro improvvisamente europeo. Sull’asfalto, presso l’uscita del ponte, distinguete una macchia scura e allungata che sembra un residuo di bitume. Tuo fratello solleva la visiera per guardare meglio, e man mano che vi avvicinate, la macchia scura assume l’aspetto osceno di una volpe schiacciata da un’automobile. Si distinguono le zampe piegate in maniera innaturale, il muso, il triangolo d’un orecchio incartapecorito dal sole, e intorno alla carogna volano mosche. Per passarle vicino dovete sollevare la maglietta a coprire il na-so e la bocca, come quando la polizia spara i lacrimogeni. «C’è da sentirsi un tantino soli, da queste parti» dici appena vi siete lasciati indietro la carogna.


«Forse dovresti metterti a cantare.» «Oi. E cosa vorresti sentire?» «Qualcosa di nero. Canzoni da schiavi, roba adatta a diluire la fatica.» Dice che se canti, lui batterà il tempo con le mani. Passate una vecchia casa cantoniera dai vetri sfondati, e salite in silenzio l’erta che conduce alle prime case del paesetto di Montemerano. Sono disseminate fra i cipressi, alle pendici del colle occupato dal borgo medioevale, e tu pensi che fin qui ce l’avete fatta. «Ci siamo» allunghi un pugno leggero sulla spalla di tuo fratello, ma lui sembra pensieroso, guarda senza gioia la meridiana di pietra della torre e i tetti del paese ormai a portata. «Sono le due passate» dice, «e non ho nessuna voglia di perdere tempo a cucinare. Quando saremo laggiù voglio solo bere e mangiare ghiaccioli.» «Ghiaccioli?» «Almeno un paio. Ho un bisogno dannato di zucchero.» La prospettiva della sosta vi pungola, e così macinate passi lungo la successione di tornanti stretti, incassati fra le case dai cortili scoscesi, che conducono verso l’anello delle mura. Il paese è già sprofondato nella quiete che segue l’ora di pranzo, e per strada non si vede neppure un bambino. Così, appena tuo fratello scorge in distanza una figura in movimento dietro la recinzione d’un orto, lo vedi perdere il controllo. «Scùùùsi» grida nel megafono delle mani, la voce traversata da una nota di disperazione autentica. «In paese, c’è un bàààr?» Mangiate i vostri ghiaccioli seduti a torso nudo sullo zoccolo d’un gradino ai piedi delle mura, a poca distanza dagli zaini, co-me nomadi che non si possono permettere di perdere l’unico bagaglio. La crema solare, nel ventre immenso dello zaino celeste non si trova, così infilate da capo gli zaini e scendete verso la strada di crinale che si inoltra fra i campi di frumento verso Saturnia. È quasi tutta in discesa, e sotto il cielo che addensa di nuvole color bronzo il vento spettina per raffiche e mulinelli la massa compatta di spighe giovani. Disegna a capriccio solchi di un colore più chiaro, i cui margini ondeggiano prima di richiudersi, e tu già non sapresti più indicare con precisione in quale punto del campo è avvenuto la penultima volta il prodigio. «Se il tempo regge» dice tuo fratello, «potremmo fare il bagno alle ter me.»


«Le terme» dici, «sono un posto lussuoso, poco adatto ai camminatori. Però c’è un fiume, per fare il bagno gratis nella stessa acqua, e ci sono pozze d’acqua calda disseminate in tutta la zona.» «E tu» domanda tuo fratello, «come cavolo fai a saperlo?» Dici che tua moglie te ne ha parlato un centinaio di volte, di questo fiume sempre tiepido e delle gradinate naturali di roccia che chiamano cascate del Molino. «Da Roma, con gli amici, ci mettevano un’ora e mezza di macchina, per venire a fare il bagno di notte. Ne parlava come di un posto unico, ma quando le ho chiesto di portarmi è saltato fuori che non ricordava più la strada.» «Magari» dice tuo fratello, «non la ricordava sul serio. Se non guidava lei, è facile.» «Solo che, quando ho messo insieme tutte le indicazioni e le ho proposto di andarci insieme, Dina ha cominciato a sostenere che l’acqua, quaggiù, non sarebbe abbastanza pulita. Sai quando non hanno voglia di fare una cosa e si inventano delle gran cazzate?» «Ho presente» dice tuo fratello. «Ci tenevo, ma alla fine ho fatto prima io a sposarla che lei a convincersi.» «D’accordo» dice lui. «Però siete andati in una quantità di altri posti.» «Spiegami. Quando la portavano gli altri, l’acqua era abbastanza pulita…» «Chiamate un dottore. C’è un uomo in piena crisi di gelosia re-troattiva.» «.. .E adesso, dopo che non vede il posto da anni, si inventa che l’acqua è sporca.» «Scommetto che immagini scene ad alta gradazione, ambienta-te alla cascata. Scene» si affretta a dire, «che probabilmente non sono mai accadute.» «Mi è capitato» ammetti. «Ma non succede quasi più.» «Te lo chiedo perché è tipico, nei gelosi allo stato terminale.» «Però, dottore, mi sento anche fiero come un galletto. Per via che alle cascate ci stiamo arrivando da soli. Senza bisogno di nessuna merdosa automobile, capisce?» «Una sorta di rivalsa a distanza» sorride tuo fratello. «Questo, addirittura, è un classico della mentalità persecutoria.» «Quindi, dottore, non sono grave.» «Oh no» dice lui, «fa parte dell’essere cresciuti in Italia.» «Dici sul serio?»


«Assolutamente. Nessun dubbio, spero, sul fatto che siamo un popolo di moralisti e bulletti del cazzo.» «Non ci avevo mai pensato» dici, «ma sembra una definizione interessante. Potresti proporre all’università di organizzarci una specie di convegno.» «Oh» lui dice, «i convegni si fanno su ciò che è fermo. Almeno quelli di Storia. Qui, invece, si parla di attualità stretta.» «È così» ammetti. «Siamo un popolo di bulletti diffidenti, e ci vorranno secoli, prima che consideriamo serenamente il fatto che la nostra donna ha avuto altri uomini.» Il sipario d’alberi che chiude la vista verso valle s’interrompe all’improvviso, e a poca distanza si apre una sorta di piazzola panoramica delimitata da una recinzione in legno; dalla piazzola vedete scintillare il fiume, le gradinate di roccia bagnate dal domino di salti della cascata. Le figure dei bagnanti spiccano a decine, bianche sopra i minuscoli appezzamenti colorati degli asciugamani distesi sulla sponda erbosa, e oltre lo zoccolo d’un terrapieno alle spalle d’un prato, i dorsi delle auto parcheggiate a schiera rimandano sotto il sole incerto i loro barbagli d’alluminio. Abbandonate l’asfalto e imboccate la sterrata che conduce alla riva, incassata nelle pendici erbose della collina, e per quanto tuo fratello cerchi di farti ragionare, senti pesare in testa un grumo pietrificato d’invidia per gli uomini ai quali tua moglie, da ragazza, ha concesso il proprio entusiasmo iniziale, non ancora rallentato dalla prudenza. Il prato che si stende ai piedi delle cascate principali è affollato da legioni di bagnanti; ci sono tedeschi e olandesi, coppie che giocano a dama e altri seduti sugli asciugamani che leggono la guida Lonely Planet mascherati con la creta bianca del fiume. Per un po’, mentre i forestieri da tutte le angolazioni studiano i vostri zaini, vi guardate intorno alla ricerca di un tratto di sponda ancora sgombro. Dovreste calpestare una decina di persone, per raggiungere la riva, e siete sul punto di lasciar perdere quando vedi ondeggiare i pennacchi del sipario di canne che chiude il prato verso valle. Muovete in quella direzione e, quando siete a dieci passi, dal canneto sbuca un uomo, i lunghi capelli da re-pastore sciolti sulle spalle. Indossa un paio di calzoncini fradici, in cintura ha una sorta di piccola giberna, e ai piedi porta sandali in cuoio sporchi di creta. «Non capisco» sorride miope, accennando alle legioni distese sugli asciugamani. «Perché restano tutti quassù, stretti come impiegati all’inferno.» Lo salutate, e lui risponde giungendo le mani alla maniera indiana, accenna un inchino benedicente senza rallentare. «Dev’essere un vecchio hippie» dice tuo fratello mentre lo guardate andare via, «o forse una specie di sciamano bianco.»


A te sembra soprattutto uno scoppiato della primissima generazione, un testimone e un superstite, ma non dici niente mentre segui tuo fratello nel cuore del passaggio vegetale che l’uomo vi ha mostrato. Seguite la traccia che si inoltra nel fitto di canne fi-brose, molto più alte della vostra testa. Il fondo, condannato al-l’ombra perpetua, è pieno di fango, e all’inizio non capisci come se la sia cavata l’uomo con i suoi semplici sandali in cuoio. Ci vuole fede ma, a forse cinquanta passi dall’ingresso del passaggio, i fusti delle canne diradano. Uscendo allo scoperto, la traccia piega in modo brusco verso il corso del fiume, e avanti ai vostri occhi si apre una proda erbosa che offre abbastanza spazio per depositare gli zaini. In questo punto il fiume è largo una ventina di braccia, e l’acqua odorosa di zolfo zampilla sul fondo bianco di creta, formando piccole cascate a ridosso delle sedute di roccia. «Guarda che lusso» dice tuo fratello. «Si capiva, che l’uomo era una specie di sciamano.» Non ci sono zanzare, né pulci d’acqua, e il sole che torna a mostrarsi attraverso il sipario dischiuso di nuvole color bronzo fa apparire lucido il muschio che ricopre i grandi massi sulla sponda opposta. Sfilate gli zaini e le maglie bagnate, vi sedete sull’erba per scio-gliere i lacci degli scarponi. «Si vede già il timbro dei calzini» protesta tuo fratello. «Ho le caviglie bianche e i polpacci, cazzo, color magenta.» «Forse» dici, «dovresti camminare con i pantaloni lunghi.» «Sono una tale scocciatura» dice lui sfilando i calzoncini. «E poi dovresti saperlo» sorride, «che dieci anni di scautismo ti segnano per la vita.» L’acqua è quasi calda, e per arrivare dove non si tocca devi spo-starti al centro del fiume. Tenti una caricatura di stile a rana nel cuore d’una vasca profonda meno di tre braccia, vai a toccare il tappeto di muschio che ricopre i massi della sponda opposta. Il vocio dei forestieri che affollano il prato a monte, qui arriva solo attutito, sommerso dal ruscellare. Tuo fratello si è già seduto sulle rocce piatte, a un passo dalla proda erbosa sulla quale, simili a grandi insetti ribaltati sul dorso, riposano gli zaini coricati spallacci all’aria. È immerso fino al torace, sistemato in modo che i piccoli salti d’acqua gli massaggino le spalle. «Devi provare» ti chiama. «È un’esperienza da sceicco.» Così, prima con due bracciate e poi alla disperata nell’acqua bassa, attento a non rovinare sulle pietre che affiorano, torni da lui. «Mettiti un po’ tranquillo» dice mentre ti lasci scivolare seduto al suo fianco. «Dobbiamo recuperare le forze per l’ultimo strappo.» «Se anche sua madre non vuole venire» dici con il fiato corto,


«mi piacerebbe portare qui Malcolm.» «Ha appena sei mesi, fratello. Magari fra qualche tempo.» «Non serve neppure che cammini» dici. «Lo porto dove voglio, con il marsupio a bretelle.» «È il mio unico nipote» dice tuo fratello rovesciando la testa al-l’indietro in modo che l’acqua gli bagni i capelli. «E mi piacerebbe esserci, quando lo farai dormire la prima volta sotto una tenda.» «Ci pensi che non ha mai visto un prato vero?» ti accalori. «Non ha mai visto una montagna.» «Sta per cominciare la sua prima estate. Avrà un sacco di occa-sioni, per meravigliarsi.» «Quando è seduto nel seggiolone e sente cantare gli uccelli fuori dalla finestra, d’istinto si gira a controllare il quadrante del cucù elettrico. Non sa neppure cos’è un merlo, ho paura.» «Guarda» dice tuo fratello risollevandosi a sedere, «basta im-mergere la mano sul fondo.» Rompe la superficie con la sinistra, risolleva il palmo aperto, e mentre l’acqua fugge fra le dita, ti mostra un grumo bianco di creta ruvida che balugina sotto il sole, come contenesse cristalli, o minerali polverizzati. «Sembra piena di pagliuzze d’oro» dice tuo fratello. «Magari» dice, «è oro.» Poi lo vedi farsi serio, e tenendo la sinistra al riparo dalla piccola pioggia che gli bagna le spalle, se ne serve come fosse una tavo-lozza; intinge le dita dell’altra mano nel grumo di creta, chiude gli occhi e inizia a pitturarsi il volto di bianco. Avete visto una quantità di turisti, sul prato, massaggiarsi con la creta del fiume. Probabilmente, credono che abbia proprietà salutari per la pelle. Magari è addirittura vero, ma non è alle proprietà salutari che pensi mentre trai dal fondo del fiume una manciata di creta e prendi a dipingere la tua maschera di guerra. E anche tuo fratello, ne sei sicuro, non sta pensando a come ottenere una pelle splendida. Credi di saperlo con esattezza, mentre si avvicina il momento di uscire dall’acqua e ripartire, che in mente ha soprattutto il vostro vecchio idolo Orzowei, e la prova della solitudine che fa di ogni ragazzo zulù un vero guerriero. Il giorno stabilito, i ragazzi venivano pitturati dalla testa ai piedi con una tintura bianca e cacciati dal villaggio con l’unico equipaggiamento costituito da una assegai. Ne parla anche Baden-Powell, nelle sue memorie delle guerre coloniali in Sud Africa.


Impiegando rassegai di punta e di taglio, i ragazzi dovevano procurarsi da mangiare da soli finché la pittura, molti giorni più avanti, non si fosse dissolta seccandosi al sole. Fino a quel giorno, tutti i componenti del villaggio avevano il diritto, e in un certo senso il dovere, di cacciarli come bestie feroci. E così, mentre vi passate sul volto la creta ruvida per completa-re le maschere di guerra capaci di mettere paura agli spiriti della notte, i forestieri che si affacciano dal fitto del canneto alla ricerca di un angolo tranquillo devono fare dietrofront, perché la proda erbosa è occupata per intero dai vostri zaini. Eppure esitano, prima di andarsene, e forse cercano di capire a quale tipo di cerimonia sono intenti i due ragazzi immersi nell’acqua fino al torace. Le nuvole viaggiano veloci, l’aria rinfresca. Mentre vi asciugate a ridosso degli zaini potete misurare quante ore vi separano dal tramonto. Indossate i vostri calzoncini in cordura da trapper, e infilare da capo gli scarponi, all’inizio, sembra un ritorno alla schia-vitù. Percorrete a ritroso la traccia che si inoltra fra le canne, e quando risbucate sul prato affollato di turisti, gli sguardi dei forestieri convergono di nuovo su di voi. Deve essere perché vi hanno riconosciuto come guerrieri zulù, o forse guardano la tenda ripiegata che sporge orizzontale in testa alla massa compatta del tuo Salewa. Sono condannati a passare la notte in qualche agriturismo caro arrabbiato, e forse invidiano chi può scegliere dove accamparsi. Per conto tuo, mentre risalite la sterrata fino all’asfalto, cominci a sentire crescere l’ansia perché ancora non sai di preciso dove passerete la notte. «Il paese di Saturnia» dici, «è a un tiro di schioppo. Da lì im-bocchiamo il nostro sentiero e, alla prima radura tiriamo su la tenda.» «D’accordo» lui dice. «Almeno» dice, «in questa stagione viene buio tardi.» «Così» dici, «non c’è bisogno di correre», ma già esplori i prati e le macchie di tife che si stendono verso la riva alla ricerca di un posto tranquillo. «Abbiamo fatto il bagno, per caso?» domanda tuo fratello mentre, sotto di voi, appare simile al miraggio d’un architetto, lo stabilimento lussuoso delle terme. «No, perché sono già più sporco e sudato di prima.» Ti sembra meglio avere un buon posto cui tornare, se in prossimità del paese non si trovasse niente di adatto. «Sei diventato nervoso?» domanda tuo fratello. «È da quando siamo usciti dall’acqua che hai una gran faccia buia.» «Forse mi stavo facendo prendere dall’ansia, kapish?» «Kapish» lui dice. «Ma è presto. Aspetta di sentire i cinghiali grufolare intorno alla tenda.»


«Mi piacerebbe tanto» dici, «sapere già dove piantarla.» Poco dopo la svolta per le terme, una ripida imbrecciata abbandona l’asfalto e si inoltra di petto verso il lato a monte. Presso il bivio, una targa metallica spiega che si tratta di un’antico tracciato di crinale, già noto agli Etruschi e alle popolazioni nomadi della preistoria. I Romani lo lastricarono per intero e ne fecero una strada consolare, la Via Clodia che traversava le alture dell’Etruria meridionale colonizzate di recente. Per un po’ ne risalite l’erta, avanzate piegati sotto il peso dello zaino fra i cespugli che assediano il tracciato. Da qui sono passate le legioni e i barbuti guerrieri di Carlo Magno, ma il mosaico del basolato, per quanto sconnesso qua e là dagli sprofondamenti del terreno, nell’insieme ha resistito a meraviglia. Vi mantenete fra i solchi incisi nei secoli dalle ruote dei carri, ne seguite in silenzio le tracce fino al varco, incastonato fra immensi blocchi poligonali di travertino, dell’antica porta romana. Il sole ormai è basso, e sulla piazza principale di Saturnia fate in tempo a vedere drappelli di coppiette in visita che ripiegano in fretta verso le auto. Molti di loro reggono per i manici buste di carta cariche di souvenir, e i souvenir devono essere bottiglie di extravergine, conser-ve di funghi e il resto della mercanzia sott’olio e sotto spirito che piccoli negozi dalle insegne in ceramica, tutti cannissimi e magi-stralmente identici nel modo country-fighetto di proporsi, vendono a ogni angolo del paese. Ai piedi del campanile trovate una normale bottega di fruttiven-dolo ancora aperta, comprate un melone e un cartoccio di pesche. «Aspettami in piazza» dice tuo fratello mentre uscite dalla bottega. «Vado a cercare lo schifo di crema solare.» «Se vuoi» dici, «ti accompagno.» «Sei gentile» dice lui. «Ma forse in certi momenti un uomo de-ve restare solo.» Pensi che riesce ancora a meravigliarti e che comprare il melone è stata una sciocchezza, mentre ripieghi verso la piazza principale. Le transenne d’un cantiere ne delimitano la porzione centrale, e poiché hai fretta di arrivare alle panchine del belvedere che occupa il lato opposto, getti solo uno sguardo distratto ai mosaici delle terme dissepolti dagli archeologi. Dietro la rete che difende l’ultimo lembo di collina, si apre tutta la campagna che avete traversato dal paesetto di Montemerano, e qua e là, dal ventre più profondo delle colline che si elevano fra il corso tortuoso dell’Albegna e quello del fiume Fiora, si alzano pennacchi di fumo bianco e denso che insiste a pochi metri dal suolo, come una cortina troppo pesante perché il vento riesca a disperderla.


Puoi provare a immaginare cosa intendevano per pace gli antichi abitanti di queste terre spopolate e incolte. Belle, direbbe il poeta, di una loro bellezza selvaggia. Dieci anni, provi a indovinare, senza calate di eserciti né carestie. Per un po’ carezzi l’idea di lasciar scivolare il melone oltre la rete, poi guadagni una panchina e lo depositi con cura sulla seduta. Di fianco, corichi il Salewa che, fra le altre cose, contiene il fornello campingaz e il resto della cena. Hai risotti e minestra liofilizzata per quattro giorni almeno, e lo zaino celeste di tuo fratello dovrebbe contenere, in qualche anfratto, delle buste di polenta. Dalla tasca a rete del Salewa sfili la carta militare in scala 1:25.000. La apri, ti prepari una sigaretta e per un po’, mentre aspetti che tuo fratello torni, interroghi i simboli e le onde dei ri-lievi. Per proseguire secondo il piano basta individuare dove si trova, nel mondo reale, l’attacco della strada che conduce al ponte e la legenda definisce “carreggiabile di quarta classe”. Allora pieghi la carta militare, torni fumando al parapetto e, affacciato come un capitano alle prime armi dalla fiancata della na-ve, osservi meglio il groviglio di perastri e pruni. Già a poca distanza dal paese la vegetazione forma un manto compatto, punteggiatato qua e là dal giallo ricco delle ginestre. È un intrico minaccioso capace di colmare l’orizzonte, e non c’è modo di distinguere il punto esatto, verso la testa della valle, in cui la macchia si trasforma in un bosco vero e proprio. «Sei stato un pazzo» dici a tuo fratello mentre uscite dal paese. «Te li avrei prestati volentieri, i soldi.» «Mica era il punto. Vendono solo creme solari da ricconi, e il sottoscritto non vuole stare al loro ricatto. È questo il punto.» «Però hai i polpacci tutti rossi. Domani dobbiamo trovare qualcosa.» «Domani staranno benissimo» dice. «Credimi.» Non è semplice credergli, dopo che al mare l’hai visto scottarsi estate dopo estate con la pervicacia sorprendente dei bambini biondi. Adesso però è un uomo di venticinque anni, e non puoi ri-portarlo in paese per un orecchio. «Ascolta» dici mentre il crepuscolo comincia a confondere i fianchi delle colline, «da questo istante, possiamo ufficialmente aprire gli occhi e cercare un posto per la tenda.» Sentite il bisogno disperato di un posto tranquillo e vorreste inoltrarvi in profondità nella macchia, lontano dalle case e lontano dai campi coltivati. Laggiù, dove una profusione violacea di fiori carnosi, a mazzi smisurati riveste i tronchi dei fichi mori,


qualsiasi posto farebbe al caso vostro, ma qui dietro ogni svolta della strada l’orizzonte si apre da capo sul terreno di un nuovo podere, e non c’è terreno o angolo di prato che appaia adatto ad accamparvi. Per spegnere l’imbarazzo camminate fino all’imbrunire, e quando fa quasi buio vi trovate a costeggiare un filare di cipressi che si stende ai piedi dello scosceso d’una collina coltivata a grano. Sulla sommità della collina c’è una fattoria di cui distinguete le finestre illuminate che spiccano sulla facciata a intonaco, e forse sul versante opposto sale una strada bianca, perché a pochi passi dalla casa scorgete il muso di una jeep parcheggiata. «Dobbiamo fare in camuffa» dice tuo fratello. «Vedrai che è un agriturismo, e se ci scoprono a dormire nel loro campo, come minimo ci fanno pagare la mezza pensione.» Così, mentre il mondo si fa buio e l’aria che rinfresca porta odore di legna e fumo, decidete di accamparvi sul limitare del campo, mimetizzati sotto gli alberi che ne segnano il perimetro. «Domattina dovremo sgommare all’alba» dici, e mentre apri le cinghie dello zaino per liberare il fagotto della tenda pensi a una sera che tu, il Vietnamita e il buon Luther, avete dormito dentro una casa in costruzione, e un’altra, nel cuore della Romagna, si-stemati al caldo in un fienile. Chini fra le messi acerbe innestate gli elementi precollegati dei pali in vetroresina, stabilite la posizione e l’orientamento dell’igloo in seta della casetta. L’ingresso, per cortesia, verso il sentiero, e l’abside rivolto a monte. Aprite la casetta, ne picchettate gli angoli al terreno e, grazie al-la magia dei pali che si curvano come rami di salice incrociandosi sulla sommità della volta, la tenda assume il giusto volume. L’hai fatto decine di volte, ed è sempre come fondare una città molto piccola. Ora la casetta di seta biancheggia come un’evidenza dolorosa ai piedi dei cipressi. Dovete fare in fretta, prima che gli abitanti della fattoria la notino, a nasconderla sotto la vela color oro brunito del sovrattelo impermeabile. Assicurate gli angoli del sovrattelo ai picchetti, tendete la veranda fissando i tiranti in cordino di nylon agli spilli in acciaio che affondano facilmente nel terreno smosso dalle macchine agricole. Tuo fratello si accovaccia sotto la veranda, apre il sorriso della zip che difende la casetta e apre la zanzariera. Mette la testa dentro, e quando la tira fuori dice che dentro c’è odore di chiuso, e dice che in ogni caso vi abituerete in un istante. «Puoi tagliare il melone» dice a bassa voce, «mentre sistemo il sacco a pelo.» «Abbiamo il campingaz» dici, «e quintali di roba da cucinare. Il melone, se mai, lo mangiamo alla fine.» «Non possiamo accendere neppure un fiammifero, se vogliamo che non ci vedano dalla casa.»


Pensi che forse ha ragione, e ormai con questo buio è troppo tardi per cucinare senza bisogno della torcia elettrica. «Per questa sera dobbiamo accontentarci di mangiare melone al buio» dice. E poi, come un rettile che richiami la preda dalla fenditura che gli fa da tana, lo vedi stringere lo zaino per la maniglia che sporge presso l’incrocio degli spallacci e, facendolo sobbalzare sul terreno, lo trascina verso l’interno dell’igloo. Mangiate in silenzio sotto la veranda, schiaffeggiandovi di continuo per via degli insetti, e appena avete finito chiudi le bucce in un sacchetto di carta e, chino per non farti scorgere dalla fattoria, vai a depositarle venti passi più in là, fra i cipressi che costeggia-no il sentiero. Le recupererai domattina, in attesa di trovare da qualche parte un bidone della spazzatura. Nel frattempo, se gli animali le fiutano, almeno non verranno a mangiare attaccati alla tenda. Quando ti affacci ginocchioni sull’entrata, tuo fratello è già imbozzolato nel sacco a pelo, e fra lui e lo zaino resta libera metà esatta del catino. «Ci sono le radici dei cipressi che affiorano dal terreno» si lamenta. «Ne sento una proprio sotto le scapole.» Pensi che se davvero arriverai a Perugia con il Vietnamita, e Galerio partirà con voi come ha promesso, dentro la tenda ci sarà spazio solo per voi tre, e gli zaini bisognerà stivarli sotto l’abside. «E poi» ridacchia da solo tuo fratello, «ho paura di essermi messo nel verso sbagliato. Sento i piedi più in alto della testa, ma ormai non mi va più di girarmi.» Sfili gli scarponi, li sistemi con cura sotto la veranda e, mentre trascini dentro lo zaino, vedi che le lancette luminose del tuo orologio indicano le nove e un quarto. Il catino in plastica della tenda è freddo e asseconda tutte le sconnessioni del terreno; srotolare il modulo isolante di poliuretano e aprire il sacco a pelo, con tuo fratello che sbadiglia nel buio pesto dell’interno, richiede il massimo impegno, e quando ci scivoli dentro anche il sacco a pelo sembra umido e freddo. Per un po’ cerchi una posizione accettabile, e solo quando decidi di impiegare il giacchetto in pile come cuscino trovi la quiete. «Be’» dice tuo fratello risorgendo da un immenso sbadiglio, «quanti chilometri avremo fatto, oggi?» «Uno sbanderno. Più di trenta, forse.» «Sembra una vita fa che eravamo al Buttero Volante.»


«Erano brava gente. Spero che anche i padroni di questo campo lo siano.» «Forse io m’incazzerei» tuo fratello dice, «se qualcuno piantas-se la tenda nel mio campo.» «Non per una sera» dici. «Per una sera, lascerei accamparsi chiunque.» Poi anche tu cominci a sbadigliare, ma prima di mollare del tutto gli ormeggi ti sollevi a sedere e cerchi nelle profondità dello zaino il Gerber a serramanico. Se sei abbastanza veloce ad aprirlo, hai dalla tua una delle migliori lame del mondo. «‘Notte, allora» dice tuo fratello quando è un po’ che non dite niente. Appena vi mettete quieti e provate a riposare, cominciate a sentire tramestio di animali tutto intorno alla tenda. Sapevi già che lo scalpiccio dei topolini di campagna decisi a rosicchiare il frumento si trasforma, chiusi al buio sotto la volta dell’igloo, nell’avanzata ostile di tassi dalle unghie possenti, lupi spinti a valle dal digiuno e famiglie intere di cinghiali. Lo sapevi già, ma a ogni miniatura di ramo che si spezza sussultate, e domandate all’altro se anche lui ha sentito. A volte vi pare di sentir soffiare e stridere, ma se pure tassi e cinghiali infestassero il campo fino al limite dell’alba, non te ne preoccuperesti sul serio. I cinghiali non hanno mai dato fastidio al sovrattelo color oro brunito, picchettato con cura, di una tenda. Né loro, né gli istrici e le volpi sono capaci di aprire la zip della veranda e il doppio sorriso della cerniera che protegge l’igloo della casetta. Se temi qualcosa sono i cattivi cristiani che girano la notte, i profanatori e i maniaci di paese, gli ultimi fantasmi da quando i briganti hanno smesso di fare la posta ai viaggiatori dietro le svolte dei sentieri. Ne conti quattordici, tutto intorno alla tenda, prima di convincerti che devono essere solo animali. E poi, a forza di stare all’erta con il Gerber a serramanico stretto in pugno, gli occhi piano piano ti si chiudono da soli.

GIORNO QUATTRO. Da Saturnia a Triana e Santa Fiora.


Nel corso della notte ti svegli un centinaio di volte, sbalordito di ritrovarti imbozzolato nel sacco a pelo, e ogni volta ti senti felice di essere al riparo sotto l’igloo, di fianco a tuo fratello che dorme in pace, mentre fuori le bestie si nutrono e vegliano sui piccoli. Un’alba livida porta via tutti i fantasmi, e a voi che, ginocchioni sui sacchi a pelo, vi sporgete cauti sotto la veranda della tenda mostra il campo così com’è, sconvolto dal passaggio al traverso di animali abbastanza grandi da schiacciare le messi. Lo scosceso della collina svapora l’umidità della notte, e qua e là la terra appare dissodata con accanimento, come centrata da piccoli calibri di mortaio. «Cinghiali» mormora tuo fratello. «Hanno fatto festa, stanotte.» «Teliamo» dici scrutando la fattoria muta sulla sommità della collina. «Filiamocela prima che i proprietari se la prendano con noi.» E così, mentre il primo vento fa ondeggiare nella foschia le fronde dei cipressi, sfilate uno a uno i picchetti d’acciaio e liberate l’igloo dalla copertura del sovrattelo. Scomponete con cura i pali in vetroresina, ne radunate a fascio dentro la sacca antistrappo gli elementi tenuti insieme dall’anima in elastico. Poi piegate casetta e sovrattelo, e non sono ancora le sei quando chiudete il fagotto della tenda sotto la copertura del Salewa. «È come essere in apnea» dice tuo fratello mentre indossa una casacca in pile verdolino. «Fino a quando non hai messo via la tenda, voglio dire. Sei alla mercé dei proprietari, prima. Sembra già di sentire le loro lamentele perché ti sei accampato senza permesso. Poi, in cinque minuti fai sparire tutto e sei di nuovo un buon cittadino a cui piace camminare per la campagna la mattina presto.» «È così» dici issando il Salewa in spalla. «Ti senti al sicuro solo quando la tenda è nello zaino.» «Comunque» tuo fratello dice, «qui non abitano contadini veri. A quest’ora i contadini veri sono già svegli da un pezzo.» Ài piedi del filare di cipressi, le bucce di melone non si trovano più, e la strada scende ripida verso un bivio ventoso, dove abbandonate la strada principale che inerpica verso il villaggio di Semproniano, il pagus cantato dal poeta Mario Luzi che vi trascorse buona parte della giovinezza. Proseguite in piano verso il ponte sull’Albegna, e la fuga a capofitto d’una famiglia di fagiani guida il vostro incedere iniziale, ancora a passo ridotto. Superate il fiume, venti braccia d’acqua bianca che scende veloce attraverso il fitto di salici del bosco ripariale, e per un po’ seguite il percorso della carreggiabile che sale con pendenza modesta verso le prime alture.


Presso il bivio per Scansano vi fermate a fare colazione. Il sole è un disco fioco, alto sopra i boschi alla testa della valle, e la luce che irradia è simile a un sussurro nel vento scuro che spazza le colline. Sedete all’indiana sull’erba, a pochi passi dal nastro deserto della strada, coricate gli zaini spallacci a terra. Li sistemate uno contro l’altro, ad angolo retto per creare una nicchia adatta a ospitare il fornello campingaz e ripararne la fiamma dal vento. Tuo fratello riempie d’acqua il suo bicchiere d’alluminio con i manici pieghevoli, lo deposita sull’erba, poi solleva la bombola celestina del campingaz alla quale, prima di partire, hai avvitato con mille precauzioni il bruciatore. Per un po’ guardi tuo fratello che legge le istruzioni stampigliate e studia la rotella zigrinata che governa la valvola d’erogazione. «La verità» dice «è che non mi sono mai fidato, di questi fornelli a butano.» «Passa qua» dici. Liberi i quattro bracci a elle dagli alloggia-menti posti sulla vite del bruciatore, li sposti in posizione di lavoro che si preparino a sostenere il bicchiere d’alluminio. «Metti che si apre la valvola mentre camminiamo» insiste tuo fratello. «Pian piano sprigiona tutto il gas e tu, senza saperlo, viaggi con una specie di bomba dentro lo zaino.» «Sì» dici mentre tasti il terreno per trovare, sotto l’intrico dell’erba, una porzione pianeggiante in grado di ospitare il campingaz. «Poi mi accendo una sigaretta e schizzo in orbita.» «C’è poco da scherzare, col butano» dice tuo fratello ritirando le gambe. «Se ti senti sicuro» dice mentre depositi con cura il fornello sul terreno, «potremmo stabilire che lo maneggerai sempre tu.» «Come preferisci» dici saggiandone l’equilibrio. Poi sfili il Bic dalla tasca dei calzoncini, ne provi la fiamma e apri al minimo la valvola d’erogazione. Per il tempo d’un battere di ciglia puoi ascoltare il sibilo che esce dal bruciatore, e l’odore marcio del butano copre il profumo pesante d’erba e fiori al risveglio. Inneschi la fiamma con il Bic, e la testa piatta del bruciatore s’incorona torno torno di minuscole lingue di fuoco dai riflessi az-zurrini. «Neanche quelli di Hamas, dormirebbero con un ordigno del genere sotto la tenda» sorride tuo fratello, poi sistema con gesti da orologiaio il bicchiere d’alluminio in equilibrio sui bracci a elle. Quando ha finito, giri la rotella a mezza corsa e le fiamme si alzano fino a lambire il fondo del bicchiere. «Così» dici, «forse riusciremo a fare colazione prima di diventare vecchi.» «Da questa sera, silvuplé» dice tuo fratello fissando il po’ di condensa che svanisce dalla superficie curva del bicchiere, «l’ordigno resta fuori, sotto la veranda insieme agli scarponi.» Avete bustine a cannello di Nescafé normale e tipo forte, qualche bustina di tè e, dentro un flacone di plastica con il tappo a vi-te, tutto lo zucchero che vi serve.


Poi si gira verso lo zaino, e per un po’ lo vedi armeggiare dentro il suo ventre immenso, reso compatto dall’ammasso di vestiti e provviste. «I biscotti dovrebbero essere qui» dice, e a forza, puntellando le ginocchia sul prato, che lo zaino non possa reagire, ca-va fuori dall’imboccatura un sacchetto di carta scura del tipo impiegato dai panettieri. «Caffè forte?» domandi, ma tuo fratello è impegnato a studiare il contenuto del sacchetto di carta. «Dovevo ricordarmene prima» dice deluso mentre ti mostra l’ammasso indistinto di pasta frolla che colma il fondo del sacchetto. «Erano biscotti» dice, e l’ammasso pare traversato qua e là da venature e affioramenti di mostarda alla frutta. «Li aveva preparati Silvia con le sue mani, perché ci dessero forza lungo la strada.» «Li mangeremo pescando dal sacchetto» dici, e rabbrividendo per il vento teso decapiti due cannelli di caffè forte, ne versi un po’ alla volta la polvere bruna nell’acqua che fumigando leva il primo bollore. Avete appena finito di radunare le vostre cose negli zaini, quando dal cielo basso e smorto comincia a cadere una pioggerella fine. Tuo fratello mormora che la pioggia non faceva parte del piano, mentre indossa la grande vela del poncho di gomma. Non ci sono ripari in vista, e anche tu indossi il giacchetto cerato Patagonia, spieghi il cappuccio a visiera sopra la testa e issi da capo lo zaino. «Andiamo pure» dice tuo fratello, e sembra il pallido fantasma d’un contadino, sotto il poncho che lascia scoperto solo l’ovale perplesso del volto, i polpacci rosolati al sole e i piedi prigionieri dentro gli scarponi. La strada si inoltra fra le alture, sempre più ripida, e voi la seguite, ignorando le vicinali che conducono alle fattorie disperse fra queste colline spoglie, punteggiate dal giallo saturo delle ginestre. Di tanto in tanto, sui pali di legno dell’elettricità che affiancano la strada appaiono ricordi di segnavia bicolori, una pennellata bianca e una rossa senza la grazia d’un numero. L’asfalto termina di fronte a una villa isolata dalle pareti color ocra. Ne costeggiate il recinto, e il giardino della villa è deturpato da aquile e minerve in gesso. Non sono ancora le otto, e forse i proprietari, più tardi, arriveranno in fuoristrada dalla città per abitarla fino a domani sera. Vi fermate a ridosso del recinto solo per bere un sorso dalla borraccia, e poi ricominciate a macinare strada, col fiato corto lungo un ramo di sterrata che risale il fianco d’una collina senza nome. Se provi a dimenticare l’aria fresca e tesa e cerchi, per un attimo, di fare mente locale, senti solo il rumore della pioggia che picchietta il cappuccio di tela cerata. Camminare sotto l’acqua toglie coraggio, e il temporale, per quanto ne sapete tornando a camminare sul fondo d’asfalto crepato, potrebbe anche peggiorare, trasformarsi in un diluvio capace di andare avanti tutto il giorno.


Con un ultimo strappo, raggiungete una specie di punto di valico dove la strada si biforca, e voi imboccate il gomito di strada che si tuffa a capofitto verso le strette del fiume. Il sole adesso non si vede più, e a fondovalle stagna una nebbia gelida e pungente che sembra levarsi direttamente dal fitto del bosco, dove antichi lecci dalle foglie simili a ritagli di cuoio crescono frammisti ai perastri e i grandi cerri. L’Albegna gonfio e bianco scende fra i massi attraverso la luce del ponte dalla ringhiera arrugginita, precipita avanti nel suo letto scosceso portando con sé foglie e rami, ed è quasi impossibile credere sia lo stesso fiume che avete passato all’alba. Secondo le carte, dovrebbe essere l’ultima volta che lo scavalcate, e appena siete sull’altra sponda la strada prende a inerpicare con pendenza mozzafiato, e gli alberi che svettano tutt’intorno non bastano a ripararvi dalla pioggia. Mentre arranchi dietro la vela scura che nasconde quasi per intero tuo fratello, puoi maledire le ultime cento sigarette che hai fumato e prometterne a te stesso una nuova di zecca, da gustare con calma non appena avrete guadagnato la sommità della rupe. Arroccato sullo sperone a strapiombo come un nido di rapaci c’è un borgo di forse cinquanta case in sasso, radunate intorno a ciò che resta del castello di Bonifazio degli Aldobrandeschi, e tuo fratello dice che quel posto non è un vero paese. «Non ci sarà neppure un bar» dice. «Me lo sento, accidenti. Però, almeno, possiamo ripararci un po’.» «Nessuno ci corre dietro» annaspi. «Oggi abbiamo un sacco di strada da fare, ma siamo partiti alla prima luce, e se pure riposia-mo mezz’ora non succede niente di male.» Oltre il ciglio della pista d’asfalto, dove i cespugli sono più ra-di, vedete un animale giovane, il mantello color della ruggine, che forse è un cerbiatto e forse è un capriolo. In qualche modo si mantiene in equilibrio su tre zampe, e con una delle posteriori si gratta il costato, come fanno i cani. Quando siete abbastanza vicini da distinguerne il sottocoda bianco, la creatura si accorge di voi e si rifugia a balzi nel fitto della macchia. Vorresti guardare in alto, verso la testa della valle, imprimerti in mente l’immagine del borgo e controllare se spuntano altri animali, ma se guardi in alto i piedi che in qualche modo ancora ti conducono finiranno per inciampare. Man mano che salite, sul lato sinistro della strada si aprono prati, e se piove così anche a casa, Malcolm e tua moglie se ne staranno rintanati al coperto. Forse lei gli starà leggendo una storia, e pensi che questa sera, da sotto la tenda, telefonerai per salutarli e racconterai che vi siete lasciati per sempre alle spalle la valle dell’Albegna. Tua moglie forse non capirà, e il minuscolo borgo arroccato intorno al castello di Bonifazio, devastato


dalle soldataglie di Carlo V nel 1536, sarà solo un ricordo affidato a dieci righe sul tuo taccuino. Per il momento, però, insiste come un miraggio in cima alla salita, e l’unica cosa da fare è stringere le mani intorno agli spallacci, guardare a terra e sforzarsi di non perdere il passo. In paese c’è un ristorante, ma a quest’ora è chiuso, e un po’ ti dispiace che non saprete mai se faceva anche servizio bar. Vi aggirate per le vie acciottolate del borgo, sbalorditi d’ogni cosa, e in qualche modo vi trovate ai piedi del castello, o di quel che ne resta dopo le devastazioni del Sedicesimo secolo. Ai piedi d’un tratto superstite di mura si apre una cavità nella roccia, una grotta simile alla tana d’un grande animale, ma profonda a mala pena cinque braccia, e l’imboccatura è abbastanza ampia da permetterti di entrare senza chinare la testa. Dentro c’è abbastanza spazio per depositare il Salewa, e di sicuro altri viandanti si sono rifugiati qui dentro di recente, perché in un angolo ci sono mozziconi spenti, e scritte a carboncino spiccano sulla volta pregna d’umidità. «È come ripararsi nella casa delle bambole» dice tuo fratello di-sarcionando lo zaino. «Non ci piove in testa, ma sento il vento che si infila ovunque.» Teresa è una troia e lo sanno tutti, recitano le scritte. A chi legge si cavino gli occhi. Forza Viola Yuve Merda Impesta-ta. «Se non troviamo un posto al chiuso» dice, «tanto vale che andiamo avanti fino al prossimo paese.» «Un attimo» dici. «Sto cercando di radunare le idee.» Fin qui avete percorso una quindicina di chilometri, e poiché Triana è solo un pugno di case, al prossimo paese vero ne manche-rebbero ancora venti. C’è da spaccarsi la schiena, ma tuo fratello deve assolutamente rientrare in città entro mercoledì sera. La mattina dopo, sul presto, ci sono gli esami scritti in facoltà, e il Professore-ammiraglio gli ha intimato di presenziare. Oltre a in-caricarlo di radiografare la vita e le opere di Charles De Gaulle, lo ha inserito in un corpo scelto di giannizzari deputati a controllare che i candidati all’esame non si passino bigliettini, e se non procedete a marce forzate, per mercoledì sarete ancora lontanissimi dalla ferrovia. Restate seduti appena dentro il ciglio della grotta, a cavalcioni degli zaini, e la semplice idea d’un pasto caldo, all’asciutto sotto un tetto vero, in qualche modo somiglia a un premio ottenuto il quale nessun uomo dovrebbe provare altri desideri. Per un po’ fumi a occhi chiusi, e quando senti tuo fratello che ti chiama sollevi da capo il cappuccio della cerata. ‘ È uscito dal riparo della grotta mezzo minuto fa, e adesso è in vedetta venti passi a monte, fra i cipressi affacciati a strapiombo, i lembi del poncho che schiaffeggiano l’aria, e la vista che si apre là sotto è vertiginosa.


Pareti verticali di calcare a nudo, cariche di riflessi color ruggine, incombono a precipizio sulla trincea ad anse che il fiume ha scavato fra le gole di roccia, e le chiome folte di migliaia di alberi, lucide d’un verde quasi prismatico per effetto della pioggia, rivestono a perdita d’occhio i fianchi dei colli affacciati sulle strette della valle. È un mondo a parte, compreso fra la mole spoglia d’alberi del Monte Labbro e le gole del fiume, e l’abitato di Roccalbegna, disposto su un pianoro sovrastato da due rupi minacciose, ne occupa il cuore. Puoi distinguere il nastro della strada asfaltata che dal centro serpeggia verso il crinale, e anche tuo fratello sta guardando verso il fitto di case ai piedi delle rupi. «Quello sì che è un paese» tuo fratello dice, «e laggiù un bar c’è di sicuro.» «Laggiù» dici, «purtroppo non ci passiamo.» «Sei sicuro?» dice. «Sicurissimo» dici, e con tutto il vento che c’è l’acqua cade in diagonale. Così tornate alla grotta, recuperate gli zaini e vi rimettete in marcia. Dovreste domandare dove si trova l’imboccatura del vostro sentiero, ma alle undici di mattina in strada non c’è nessuno, e finite per ritrovarvi ai piedi d’un piccolo edificio medioevale sul cui architrave è inciso l’agnello con la croce. Forse un tempo è stato un rifugio per i pellegrini, e tuo fratello dice che in una giornata del genere, all’epoca vi avrebbero offerto volentieri qualcosa di caldo. Allora spiegate la carta al riparo del poncho, e tu provi a inter-rogarne il disegno, chino in quella penombra azzurrognola che puzza di gomma. Sono più di due ore che seguite il sentiero di mezzacosta, traversando un vallone dopo l’altro, macchie di cerri, perastri e or-nielli dalle infiorescenza a pannocchia, e solo da poco ha smesso di piovere. Dove il passaggio si allarga si notano fra l’erba ai margini del sentiero le tinte sbiadite e innaturali dei bossoli esplosi dai caccia-tori. Sono cilindri di plastica colorata, ammaccati e svuotati della carica di lancio; solo la capsula color ottone del fondello, rotonda e intatta, rende l’idea della precisione del congegno di sparo, della violenza con cui la cartuccia deve essersi fatta strada, alla velocità di centinaia di metri al secondo, in mezzo a tutta quella pace. Ormai andate avanti come automi, dandovi il cambio ogni poche centinaia di passi per dosare le forze, sempre più stupiti dal peso degli zaini ogni volta che la traccia esce dal bosco per traversare un nuovo lembo di prateria che asciuga al sole. Camminavate sotto i rami lucidi di pioggia, lungo una traccia sempre più debole che la boscaglia, nel


giro di un’estate, potrebbe aver rimangiato del tutto. Avete perso la pista e vi siete inoltrati fra rovi e macchie d’ortiche; avete scavalcato pozze d’acqua stagnante e tronchi morti, e mentre vagavate alla ricerca del sentiero provavi a immaginare tutti gli animali, gli istrici e i gatti selvatici, che dovevano essere al riparo nelle tane, a poche centinaia di passi da voi. Pensavi a Thoreau, a quando scrive come è bello perdere il sentiero e vagare nella selva seguendo le tracce di una volpe. Ma Thoreau, per quel che hai letto, amava viaggiare leggero, e di certo non portava in spalla un Salewa da sessantacinque litri in grado d’intrappolarsi nei rovi ogni pochi passi. «Se ci perdessimo quaggiù» ha detto tuo fratello a un certo punto, «non ci verrebbero a pescare per un pezzo.» «Non moriremmo comunque» hai detto, e la tua voce ti ha dato i brividi. «Possiamo sempre piantare la tenda, alla fine. Restiamo qui tranquilli, in letargo fino a domani.» «A me sembra un luogo tetro, e non mi riposerei per un cavolo.» «Non è tetro» hai detto. «È solo un po’ fuori mano.» «Un po’ fuori mano, accidenti» ha detto tuo fratello, «e io ho quasi finito l’acqua.» La luce è cambiata all’improvviso, e nel nuovo chiarore avete trovato un corridoio da carbonai che risaliva a mezzacosta, e il corridoio vi ha condotti di nuovo sul sentiero. Sul fondo fangoso spiccavano le peste di una famiglia di cinghiali, due adulti e forse tre piccoli, e tuo fratello ha detto che forse potevano essere le stesse bestie che, durante la notte, avevano devastato il campo intorno alla tenda. Tu hai detto che non lo sapevi, se i cinghiali amano camminare così a lungo, e l’odore d’erba bagnata nascondeva l’annuncio di tutti i profumi che avrebbero riempito il bosco nella corruzione della stagione calda. «È l’una e mezzo» dice tuo fratello mentre procedete spalla contro spalla attraverso una radura tempestata di minuscole or-chidee. «Nelle ultime ventiquattr’ore, dimmi se esagero, abbiamo mangiato un melone e un po’ di biscotti sbriciolati.» Pensi che sta perdendo la fede, e forse la stai perdendo anche tu. State marciando alla disperata, come prigionieri in fuga dall’alba, e se non vi fermate a riposare finirete per demotivarvi. «Se a Triana c’è un bar» dice, «ti offro volentieri una birra.» Mentre cercavi notizie sull’itinerario, hai trovato su internet l’articolo di una pittrice che vive lassù, e l’idea che ti sei fatto è quella di un pugno di case radunate intorno a un altro castello fuori uso da cinque secoli.


«Va già bene se troviamo una fontana» dici. «Dovrei asciugarmi» dice. «Ma soprattutto, mangiare qualcosa di caldo, kapish? Anche un toast.» «Kapish» rispondi senza convinzione. «E comunque abbiamo il fornello. Posso preparare un risotto.» «Come cavolo facciamo, che piove ogni cinque minuti». «Non c’è mica bisogno di perdersi d’animo. Se lassù non c’è neppure un riparo, tiriamo su la tenda». «Perdiamo mezza giornata, e a questo modo non arriveremo mai a un paese vero». «Preferisci che restiamo a prendere la pioggia come due geppetti?» «Sei già pentito, fratello?» «Sei fuori strada» dici asciugando la fronte contro il polsino dell’antivento da ciclista. «Nettamente.» «Allora hai deciso di farmi scendere la catena.» «Non ho deciso un bel cavolo» dici. «Ho fame anch’io.» «Stiamo calmi, allora» dice lui senza rallentare. «Arriviamo alla benedetta fontana e vediamo di organizzare una specie di pranzo.» Sono passate da poco le tre quando raggiungete il piccolo spiazzo alle spalle del castello di Triana, costruito a picco su uno scoglio di roccia vulcanica che domina la testa della valle, il piccolo mondo d’alberi compreso fra la mole spoglia del monte Labbro, le rupi di Roccalbegna e le strette del fiume. Antiche fattorie e dipendenze, depositi d’attrezzi e legnaie, fronteggiandosi sui lati della stradina che conduce alla porta del castello formano un minuscolo insediamento, e una targa sulla fontana ricorda il giorno in cui la gente del posto ottenne il privi-legio di poter attingere acqua senza sobbarcarsi il viaggio a piedi fino alla sorgente. A venti passi dalla fontana, addossata al muro di una casa, c’è una vecchia su una sedia impagliata; non indossa scarpe, ma un paio di logore pantofole a quadri, e la ragnatela di rughe del suo volto è incorniciata da un fazzoletto da testa in cotone scuro. Potrebbe essere uscita quando ha smesso di piovere, e ora siede quieta come l’ultima sentinella d’un avamposto che ha perso da troppe stagioni il suo valore. Risponde al vostro saluto con un cenno della mano, e dopo avervi dedicato un esame sommario dice che l’acqua è buona e riprende a scrutare il mare di alberi che colma la valle, oltre il salto del precipizio alle spalle della fontana. Ti domandi se può essere la nonna o la madre della pittrice della quale hai letto l’articolo, e forse la vecchia vi guarda di nascosto, mentre bevete a turno e colmate d’acqua la coppa delle mani per rinfrescare il volto. Poi riempite le borracce, e adesso la fame è un dolore esatto al centro del corpo.


Prima di accamparvi dovreste chiedere il permesso alla vecchia, ma tuo fratello punta deciso la bocca a trapezio di una legnaia che sembra offrire l’adatto riparo, e tu sei troppo stanco per intavolare una trattativa. In fondo, non serve un filantropo di professione per capire che avete bisogno di stendervi un attimo e riprendere le forze. Così segui tuo fratello, trascinando i piedi sul fondo d’acciotto-lato, fino alla soglia della costruzione. I dischi dei tronchi tagliati, stivati sul fondo della legnaia, sor-vegliano come centinaia di occhi il disordine che regna al centro della costruzione, dove un tappeto di schegge e segatura si allarga ai piedi d’un ceppo sul quale, in equilibrio orizzontale, riluce la corona di denti scuri d’una sega a nastro. Addossata alla parete di destra, spicca la sagoma di un’Ape riparata sotto un telone che lascia scoperta solo la ruota anteriore. La curva del parafango chissà perché ti ricorda la cresta di un el-mo troiano, e tuo fratello dice che, se vi rifugiate per un po’ nella legnaia, il padrone non si offenderà. Senza perdere tempo vi sistemate accanto all’Ape, seduti sull’impiantito di terra battuta invaso di trucioli e segatura. «Qui il vento non arriva» dice tuo fratello, e mentre sfili dallo zaino il campingaz lo vedi che riempie d’acqua la gavetta e rab-brividisce. «Basta che non ci ammaliamo» dici. Poi regoli a mezza corsa la rotella dell’erogazione, e senza perdere tempo appicchi il fuoco alla testa piatta del bruciatore. Tuo fratello sistema la gavetta sui bracci a elle, dice che fra un attimo starà meglio, e mentre aspettate che l’acqua prenda a bollire puoi cercare nello zaino una maglia asciutta. «Siamo quasi fuori dalla valle» dici per festeggiare, e quando ti volti a guardare tuo fratello, vedi che ha già srotolato il modulo in poliuretano e si appresta a stendervi sopra il sacco a pelo. «Mangio da sdraiato» dice. «Al caldo si recuperano le forze più in fretta.» È una buona idea, e anche la tua testa piena di vento pensa che dentro il sacco a pelo si possano riorganizzare le idee in maniera adeguata. Prima di stendere il modulo, però, disponi a un palmo dal campingaz la busta di risotto liofilizzato ai funghi, il flacone che contiene il sale grosso e quello del sale fino, il minuscolo frigoverre colmo di parmigiano grattugiato e la bottiglietta di plastica dell’olio. Puoi ammirare i tuoi flaconi e le vaschette da cucina giocattolo schierati sulla segatura, e bastano a farti sentire bene. Perché quando manca quasi tutto e ti tremano le gambe dopo sei ore sotto l’acqua, sono le piccole cose a


fare la differenza fra un trapper e un semplice profugo. «Almeno il cielo sfogasse per bene» dici, «domani potremmo affrontare l’Amiata con il bel tempo.» Pensi al grande vulcano spento, a quanto sembrava lontano pochi giorni fa, e pensi alla prima volta che l’hai visto dagli spalti d’un monastero lungo la Via degli Dei: la sua piramide scura tor-reggiava da oltre cento chilometri di distanza, incoronata di nubi cariche di pioggia, e ricordi che quel giorno ti era parso di capire perché, secondo i Latini, la vetta dell’Amiata doveva ospitare la casa di Giove Tonante. «Un sacco di gente che conosco» dice tuo fratello, «si sentirebbe male, a riposare in un posto del genere.» È sdraiato pancia all’aria, le mani incrociate dietro la nuca, e forse sta osservando le rudimentali capriate che sostengono la tettoia. «Peggio per loro» dici. «Si vede che non sono abbastanza stanchi, i damigelli.» E poi, mentre aspettate che l’acqua si decida a scaldare, cominci ad allestire il tuo giaciglio. Dopo pranzo, tuo fratello si addormenta quasi subito balbet-tando che dovrebbe puntare la sveglia del telefono, ma quello che dice perde definizione man mano, come se la sua anima desta gli scivolasse via dalle labbra. Ti fabbrichi una sigaretta e gattoni per metà fuori dal bozzolo del sacco a pelo, ti sporgi verso lo zaino e apri la tasca ricavata nella copertura del Salewa. Hai portato qualche libro, e per un po’ sei indeciso su quale leggere per primo. Alla fine pensi che è il momento giusto per affrontare il testo su David Lazzaretti, il birocciaio passato alla storia come il Cristo dell’Armata. È un libriccino della Savelli prelevato dalla biblioteca di vostro padre, e la storia entra nel vivo quando l’ex garibaldino ed ex di-sertore Lazzaretti, ritiratosi in una grotta sulla sommità brulla del Monte Labbro, comincia a essere ossessionato da apparizioni sempre più impegnative. Eremiti e martiri del tempo andato insistevano a presentarsi al pover uomo, e un giorno la madonna in persona gli rivelò di essere il pronipote illegittimo di un re capetingio. Dopo una simile escalation, non c’è da meravigliarsi troppo che un giorno sia rientrato in paese confuso, la fronte segnata da una croce affiancata da due C contrapposte. Il marchio, spiegò agli amici, gli era stato apposto personalmente dalle mani di San Pietro, e la missione che il Santo gli aveva affidato era quella di guidare il popolo di Dio verso la Nuova Sion. Erano le stagioni durissime immediatamente successive all’Unità d’Italia, e alla povera gente dell’Amiata, famiglie allo stremo di boscaioli e carbonai, piacque pensare che la Provvidenza si fosse incarnata, per una volta, vicino a casa.


Lazzaretti fondò una comunità i cui adepti si soccorrevano a vicenda, pregavano insieme e pensavano a un’educazione comune per i figli. La sua fama di sant’uomo raggiunse tutti i paesi disposti ad anello intorno alla piramide del vulcano, e i fedeli co-struirono un tempio presso la grotta in cui David si riuniva a pregare. Predicava il vangelo delle origini, e il semplice esempio della condivisione dei beni risuonava come una minaccia di stampo so-cialista ai possidenti della zona; invitava a non credere all’Inferno, e i parroci dei paesi vicini strepitavano perché il Sant’Uffizio lo scomunicasse. Per un periodo sparì, forse a Montecristo, e quando ricompar-ve aveva con sé una bandiera rossa sulla quale si leggeva “La Repubblica è il Regno di Dio”. Al solo sentire la parola repubblica, le autorità stabilirono di avere già tollerato troppo a lungo quello strano esperimento a metà fra ascesi e sovversione. Lazzaretti scendeva verso il paese che l’aveva visto ragazzo, al-la testa d’una fiumana di fedeli in processione pacifica, quando i soliti colpi d’avvertimento dei carabinieri lo freddarono con tre compagni davanti a centinaia di testimoni. È una storia avvincente, da leggere imbozzolati nel sacco a pelo sotto la tettoia di una legnaia e, a quanto sostiene l’autore, il mar-tirio di David Lazzaretti ha determinato la rottura definitiva fra la Chiesa cattolica e la comunità dei suoi fedeli. Attraverso vicissitudini avventurose e il temporaneo gemellag-gio con una cerchia di benestanti famiglie romane, la comunità giurisdavidica è arrivata fino ai giorni nostri, e il tempio sulla sommità del monte Labbro resiste ancora, circondato da spirali di pietre bianche e dalle rovine dei sacri edifici. Ogni anno, la notte di ferragosto, gli ultimi fedeli si radunano lassù. Accendono un grande fuoco sulla sommità piatta del tempio e con le fiamme accendono fiaccole che portano a valle in segno di pace. In cima al monte, anche in distanza se ne indovina la sagoma, simile a un fiero nuraghe esposto ai venti, e ti dispiace abbandonare la valle senza salire a vederlo da vicino. Magari un’altra volta, ti dici. Quando non c’è tutta l’Italia da traversare e il tempo è un po’ migliore. E poi, mentre tuo fratello digrigna i denti nel sonno, puoi riempire d’acqua il bicchiere con i manici pieghevoli e sistemarlo sui sostegni del bruciatore, innescare la fiamma e cercare di capire dove sono finite le bustine a tubo di caffè forte. «Sveglia» dici a tuo fratello, e lui apre un occhio e domanda se per caso c’è qualche animale feroce. «È pronto il caffè» dici. «Ed è quasi ora di partire.» «Ci sono» dice senza muovere un gesto. «Sono praticamente pronto.» «Ho letto un libro quasi per intero, mentre dormivi.»


«Non doveva essere un libro lungo» dice sollevandosi a sedere, e se pure è mezzo addormentato lo vedi sgranare lo sguardo, e d’istinto ti volgi anche tu verso l’ingresso della legnaia. La vecchia è ritta sulla soglia, a quindici passi dal vostro accampamento temporaneo. «Avete mangiato abbastanza?» domanda. Deve avere percorso una cinquantina di passi sull’acciot-tolato, ma non ha ritenuto opportuno sostituire le pantofole con un paio di scarpe vere. «Vi ho portato delle frittelle» dice avanzando al coperto verso i vostri giacigli, e per quel che ne sa potreste anche essere una coppia di banditi da strada. «Lei è troppo gentile, signora» dice tuo fratello mentre accoglie fra le mani il piccolo fagotto che la vecchia si cava dalla tasca del grembiule. «Pensavamo di essere condannati a fare la dieta, per oggi.» «Io l’ho fatta tutta la vita, la dieta» sorride la donna. È strano trovarsi seduti nei sacchi a pelo davanti a lei, ma non ti imbarazza né niente. «Pane di legno» dice «e vino di nuvoli, e adesso che mio figlio porta a casa la carne tutte le settimane non mi fa neppure voglia. Mi addormenta, la carne, e così la mangio solo la domenica per farlo contento.» «Cos’è il pane di legno» domanda tuo fratello sollevando il lembo del fagotto. «La polenta di castagne» la vecchia dice. «E il vino di nuvoli è quello che cade dal cielo.» «Ne è venuto giù un bel po’, oggi» dice tuo fratello. «Anche troppo, per i miei gusti» dice, e ti passa una frittella di farina scura che sembra fritta nell’olio, o nel lardo. «È piovicchiato» dice la donna mentre tuo fratello attacca il resto del fagotto, «ma prima del vespro viene bello.» La frittella è dolce e mescolati all’impasto ci sono uvetta e pinoli. Ti sporgi verso l’aperto, e il cielo è ancora velato. «Se viene bello» dici. «Si vedono le stelle, questa notte» dice la vecchia. «Ma non si è ancora sfogato del tutto, e forse domani pioverà di nuovo.» «Sono buonissime» dice tuo fratello a bocca piena. «L’importante è che ci dia tregua fino a stasera. Dopo averci dormito sopra, vedremo le cose in un altro modo.» «Scendete a Roccalbegna?» domanda la vecchia. «Non scendiamo mai, signora» sorride tuo fratello. «È da stamattina alle sei che camminiamo sempre in salita.» «Vi piace lo sport» dice la vecchia. «Siete bravi.» Le domandi se conosce un sentiero che conduca verso Santa Fiora, ma dice che vi conviene seguire la strada asfaltata fino allo spartiacque. «Io non ci sono mai stata, di là, ma secondo mio figlio in macchina è un attimo.»


Sono solo quattro chilometri, fino allo spartiacque, e una volta lassù le vostre sofferenze saranno finite. Vi troverete di fronte alla piramide scura dell’Amiata, la casa di Giove Tonante che svetta come un’isola sul mare di colline. A quel punto il paese sarà sotto di voi, e dovrebbe bastare un’ora, a gara con il sole ormai basso, per trovarvi al riparo fra le case. «E vedrai Santa Fior com’è sicura» dice la donna d’un fiato, quasi fosse un proverbio o una filastrocca che ha significato solo pronunciata per intero. Dice così, e guardandovi sorride. «Suo figlio non le ha mai detto se laggiù c’è un bar» indaga tuo fratello. «Oppure un ristorante o qualcosa?» «C’è l’anagrafe e la stazione dei carabinieri» la vecchia si stringe nelle spalle. «Forse ci sarà anche un bar.» «Di sicuro» dici conciliante, ma intanto fai gli occhiacci a tuo fratello e aspetti il momento propizio per dirgli che comincia a sembrare uno sballato, con questa storia dei bar. «Perché noi di qui» la vecchia spiega, «l’anagrafe e tutto il resto ce l’abbiamo giù a Roccalbegna.» «Con rispetto» dici, «possiamo offrirle del caffè, signora?» «Del caffè?» domanda la vecchia stupita. Pensi che forse è stata una cattiva idea, proporre a una donna di ottanta anni di bere dal bicchiere con i manici pieghevoli, e adesso è tuo fratello che ti fa gli occhiacci. Volevi essere gentile, e se pure nessuna vecchia accetterebbe il caffè preparato sul campingaz da una coppia di sconosciuti, questa sorride e si sporge a controllare dall’alto il lago rotondo che occupa il bicchiere. «Cos’è» dice curiosa. «Surrogato?» La strada sale per tornanti larghi verso lo spartiacque, si perde sempre più nell’entroterra, dove puoi caminare ore senza incontrare un paese vero, solo frazioni di poche case vicino alle quali riposano vecchie Panda a quattro ruote motrici e le scocche smisurate dei trattori Lamborghini; è come traversare avamposti d’umanità precaria, aggrappati al crinale delle colline sui cui fianchi si aprono prati immensi, adatti al pascolo dei cavalli. Per non esporre al sole le braccia scottate, tuo fratello cammina avvolto nella k-way color acquamarina, e il foulard che gli ondeggia sulla nuca assicurato al retro del cappello gli conferisce l’aspetto di una sorta di mercenario, o cacciatore di taglie. «Quanto manca» domanda, «al Gran Premio della Montagna di oggi?» «Un paio di chilometri, credo, e dopo abbandoneremo per sempre la valle dell’Albegna, e fino al paese resta solo discesa.»


«Era una valle magnifica» tuo fratello dice. «Selvaggia e piena di animali, ed è strano che non la conosca quasi nessuno.» Adesso il sole indora le fronde dei castagni, e rallentando l’andatura parlate di quando i vostri genitori vi accompagnarono a vedere il Giro d’Italia che passava da Castelrotto. Tuo fratello, all’epoca, era un bambino biondo dalla chioma a caschetto e un accanito sostenitore del “Diablo” Chiappucci, mentre nel tuo cuore d’infelice delle medie nessuno aveva ancora rimpiazzato l’ombra gigantesca di Francesco Moser. Mentre strappate metri all’ultima salita parlate di come andò a Castelrotto e di quell’altra volta, ancora prima, quando il Giro passò praticamente sotto casa e vi andaste ad appostare con enorme anticipo in testa alla rampa delle Orfanelle, lungo gli archi di portico che conducono a San Luca. Vi guidava la speranza di vedere il grande Moser in fuga solitària, invece la tappa era partita da pochi chilometri e in fuga non c’era nessuno: il gruppo formava una massa compatta, come un fiume di lava capace, per effetto di un’immensa pressione, di risalire la chicane incassata in con-tropendenza nel fianco del colle. Come al Giro, tirate a turno la volata fino al pianoro fiorito che segna lo spartiacque fra la valle aspra dell’Albegna e il sognante regno d’alberi disteso alle pendici dell’Amiata. «Ci siamo» sorridi, «è questo, il Gran Premio della Montagna.» Appena cominciate a scendere l’orizzonte si spalanca, e verso Nord è come colmato dall’immensa piramide boscosa del vulcano. Potete abbracciarne i fianchi con lo sguardo, riconoscere il segno oltre il quale la massa fosca dei castagni lascia spazio al verde brillante dei faggi, ma il cono della cima è avvolto da una fuga di nuvole cariche di riflessi d’acciaio. Più in basso, aggrappati alle pendici, distinguete verso occidente l’abitato raccolto del paese di David Lazzaretti e di fronte a voi, quasi a portata di mano, i tetti di tegole di Santa Fiora. Il borgo occupa la sommità di un’alta ripa, discosta dalla strada maestra che raccorda fra loro i paesi disposti a corona ai piedi del vulcano, e le facciate delle case a ridosso delle mura, viste da qui, sembrano tagliate direttamente nella roccia. «Il paese non sembra minuscolo» dice tuo fratello mentre seguite un viottolo che scende ripido fra le macchie di ginestra e piante di cardo più alte di un uomo. «Se non ci attardiamo per la via, saremo laggiù molto prima di sera.» Adesso camminare non costa più fatica, e man mano che vi portate sotto il paese cominciate a distinguere la merlatura della Torre dell’Orologio, i piccoli orti ai piedi delle mura e i comignoli che sormontano le case. Oltre il ciglio del viottolo si aprono prati privi di recinto e poggi incolti adatti per accamparvi, ma ormai siete troppo vicini al paese per ignorarne il richiamo.


Passate un’altura isolata, e dietro una curva vi imbattete in un gregge di pecore che staziona fiducioso nel mezzo della carreggiata. «Stiamo in occhio» tuo fratello dice. «Dove ci sono le pecore c’è anche il cane.» Saranno quaranta capi, carichi di lana bionda, e appena vi vedono spuntare in cima alla salita, le più vicine si ridestano levandosi in posizione di guardia. Per un po’ indugiate. Aspettate di veder spuntare un pastore, o perlomeno un cane, ma non arriva nessuno. Ci siete solo voi e le pecore, e per un po’ le vedete pietrificate dall’incertezza, che vi fissano interrogandosi furiosamente sulla cosa giusta da fare. Poi, senza la grazia d’un segnale convenuto, prendono a correre verso il paese scavalcandosi l’un l’altra in maniera selvaggia. È uno spettacolo che fa sorridere e mette angoscia, ma le pecore si limitano a correre per il tempo d’una carica disperata lungo la pista d’asfalto. Giudicano adatto fermarsi cento metri più in là, ai piedi d’un dosso, e man mano che scendete in pace verso di loro vedete crescere il fremito che agita il mare di lana bionda. Devono essere af-frante, all’idea che fra poco le avrete raggiunte. Così, appena superate il limite invisibile che le fa sentire mi-nacciate, obbediscono di nuovo all’istinto di mettersi in salvo. Vedi i piccoli restare indietro, e la disperata fisarmonica del gregge va avanti a quel modo fino alle prime case di Santa Fiora. La porta del paese è incassata fra rocce in ombra di trachite, e appena fuori, vegliato dall’abbaiare dei cani alla catena nei cortili vicini, si apre il grande specchio rettangolare dell’antica peschiera. La vasca, destinata all’allevamento delle trote da mangiare nei giorni di vigilia, è delimitata da un’alta recinzione in pietra, e una coppia di delfini in peperino sormonta il lato che guarda verso il paese. L’acqua che alimenta la peschiera guizza all’esterno attraverso cannelli di bronzo incorporati alla parete, e voi scattate foto ai delfini in peperino, ne scattate altre, mentre i cani impazziscono alla catena, in bilico su uno sperone di trachite scheggiata che dalle pendici delle mura pare protendersi nel vuoto. I negozianti sulla porta delle botteghe, a vedere il Salewa e lo zaino celeste di tuo fratello salutano per primi, e non è difficile sentirsi al riparo e bene accetti nel ventre del paese. Vi meraviglia la posizione inespugnabile del borgo e la maestà paziente con cui il cielo comincia a tingersi di rosa. Se pure domani vi attendono i fianchi scoscesi dell’Amiata vi sentite pieni di fiducia, mentre risalite fra case vecchie di secoli, e soglie minuscole a misura di ragazzino. Sull’architrave d’una di queste case, all’imboccatura d’un vicolo, trovate incisa una scena di caccia.


Risale all’epoca longobarda, ma i tratti del cinghiale e dei cani che lo circondano sono così essenziali che potrebbero sembrare graffiti preistorici, e in fondo alla fuga in ombra del vicolo spiccano il verde e l’oro della campagna. Le miniere di mercurio dell’Amiata sono state attive fino a trent’anni fa, e dentro le poche stanze del museo dei minatori trovate gli strumenti di lavoro di questi montanari che preferivano alla fame il lavoro in galleria. Dove almeno, dicevano, non piove e non fiocca. Ci sono lanterne e teste di piccone, dietro le vetrine del piccolo museo, e i cilindri che si impiegavano per stivare il minerale sui vagoni a scartamento ridotto ricordano le vecchie latte d’olio da un litro. Riempiti di minerale, i cilindri arrivavano a sfiorare i trentacinque chili di peso, e gli uomini, per trasportarli ai vagoni, dovevano indossare una speciale imbragatura in cuoio. Mentre uscite sul campo allungato della piazza, pensi a tutti gli uomini e le donne che lavoravano nella luce fioca delle gallerie, a contatto diretto con i solfati di mercurio, e forse i vecchi che indu-giano a prendere il fresco di fronte alla Rocca Aldobrandesca hanno fatto in tempo a vivere le ultime stagioni dell’epopea, quando ancora gli uomini sciamavano come formiche attraverso le fendi-ture alle pendici del vulcano. E VEDRAI SANTAFIOR COM’È SICURA, è scritto su una lapide ancorata alla parete della chiesa. Le lettere spiccano sulla lastra bianca, e all’inizio ti stupisci di riconoscere le stesse parole che ha pronunciato la vecchia oggi pomeriggio. Solo quando siete a pochi passi, sotto quello che credevi essere un proverbio vedi incisa a caratteri più piccoli la scritta DANTE, PURGATORIO, CANTO VI. Dopo, siccome la luce morbida della sera non accenna a affie-volire, consenti a seguire tuo fratello che punta una soglia sulla quale incombe un’insegna a forma di botte. Sono le otto passate, e credi di conoscere già il genere di propo-sta che sta per fiorire sulle sue labbra.

GIORNO CINQUE. Da Santa Fiora a Abbadia San Salvatore. Solo il passo dei vostri scarponi a carrarmato, reso swing e solenne dal peso degli zaini, traversa il campo allungato della piazza in ombra. Sono le otto di domenica mattina e la piramide dell’Amiata riempie l’orizzonte avanti a voi per intero.


Dentro il timore che ispira, puoi pensare al vulcano come all’ostacolo più alto lungo il percorso. Oppure, con una sorta di rove-sciamento artificiale e rassicurante, puoi decidere che il sentiero che vi attende sarà un itinerario spettacolare e panoramico. Fino a pochi minuti fa, mentre studiavate la mappa bevendo il Nescafé direttamente dalla tazza in alluminio, il piano era chiaro come il disegno di un ingegnere: tre o quattro ore di ascensione, Gran Premio della Montagna, inizio della discesa lungo il versante senese e accampamento a mezzacosta, presso l’antico Sasso dei Tre Confini. Potevi ancora pensare a quel modo, subito prima d’infilare da capo gli spallacci del Salewa, e finché il vulcano era disegnato sulla mappa, potevi illuderti di essere qualcuno che andava a ren-dergli visita, un ospite gradito che l’Amiata avrebbe tenuto in palmo di mano. Poi siete usciti incontro al vento teso che solleva mulinelli di polvere nel cuore della piazza deserta, e adesso che il vulcano si mostra così com’è provi quasi vergogna a puntare lo sguardo sull’immenso fianco fitto di castagni. Il vostro tracciato attacca di petto il versante meridionale per confluire, poco sopra i mille metri d’altitudine, sul sentiero circo-lare di mezzacosta che compie il periplo del monte. Dalle profondità del bosco che l’avvolge fin quasi al cono della vetta risalgono le vibrazioni d’un accordo oscuro e affascinante, che non sembra un invito né una minaccia, ma il respiro antico e indifferente della terra. Per farvi coraggio, potete parlare del tempo e dei vostri muscoli ancora freddi, mentre muovete i primi passi della giornata lungo la campata del ponte che conduce fuori dal paese. Il sentiero è scavato nella terra, profondo tre passi; è troppo stretto per procedere affiancati, ma all’inizio ricalca un percorso facile, procede per curve larghe e piccoli strappi in mezzo alla fustaia di castagni dai tronchi grigi. Poca luce filtra traverso il fitto delle grandi chiome a forma di globo, e se non fosse per il tappeto di foglie morte che invade il camminamento e nasconde il profilo delle radici, il sentiero sarebbe adatto anche ai bambini. Lungo le prime centinaia di metri sono predisposti passaggi at-trezzati, e gli zoccoli dei gradini in terra battuta sono rinforzati mediante traverse puntellate al suolo da coppie di pioli in legno giovane. I pioli emergono solo per metà dalla sterminata lettiera di fogliame: sembrano riposizionati da poche stagioni, e le loro teste, sfibrate dai colpi di mazza, spiccano contro la superficie scura, solcata da crepe profonde, delle traverse. «E la terza domenica di maggio» tuo fratello dice, «e non mi dispiacerebbe, incontrare qualcuno lungo il sentiero.» «E chi?» dici. Non senti mai la mancanza di nessuno, quando indossi i panni del grande Maschera-DiSudore. «Non mi sento così presentabile» dici, asciugando la fronte con il dorso della mano.


«Mica spero di incontrare le vergini del bosco. Andrebbe benissimo anche un contadino, oppure una famiglia che dirige verso una radura adatta ai picnic.» «Che problema c’è? Sono giorni interi, che camminiamo da soli.» «So solo che è la terza domenica di maggio, il cielo è terso e quassù ci sono sentieri per camminare una settimana di fila. Se nessuno si presenta, kapish, ci dev’essere sotto la fregatura.» La prima salita vi ricaccia in gola tutte le chiacchiere. I vostri piani da ingegnere perdono in fretta nitore, mentre il corpo impara a muovere da capo al ritmo senza parole della marcia, dentro la sola danza capace in ogni istante di bastare a se stessa. Così, mentre il fiato si fa corto, cominci a credere che in realtà non avete deciso un bel niente; se non stai cominciando a confon-derti, state solo seguendo il richiamo che la montagna, di per sé, riesce a sprigionare. Salite verso il cuore del bosco, come d’istinto vorrebbe fare chiunque, vedendo la piramide che svetta e il sentiero che s’inoltra a monte sotto l’ombra dei castagni. Salite e danzate sotto il peso dei vostri zaini, come penitenti d’una congrega nuova. Un po’ alla volta guadagnate un tratto quasi pianeggiante, do-ve il sentiero non è più scavato nella terra, e tutto ciò che vedete intorno a voi cresce abbarbicato al vulcano senza bisogno delle opere dell’uomo. Adesso affondi fino alla caviglia nelle foglie dal margine seghettato, rese scure come bucce marcite dalla pioggia di ieri, che quassù, a giudicare dai molti rami rovinati a terra, deve essere arrivata con la forza di una vera tempesta. Presso il punto d’inser-zione delle foglie si distinguono già le prime infiorescenze della stagione, simili a piume color crema, che sviluppano dalle piccole cupole spinose, ancora tenere e verdi d’un tono brillante, destinate a proteggere le castagne. Per orientarvi potete solo seguire i segnavia verniciati sulla corteccia grigia, solcata a spirale, di tronchi che già anni fa sugge-rivano abbastanza saldezza da essere scelti come punti di riferimento. «Sento i polpacci di legno» dici a tuo fratello, «ed è come avessi appena fatto la doccia.» «Te, in ogni caso, sudi subito.» «Sai com’è» dici in debito d’aria. «La tenda nello zaino ce l’ho io.» «La casetta di seta e il sovrattelo, forse. I pali e i picchetti sono nello zaino del sottoscritto.» «D’accordo» incassi. «Ma se non porti neppure i picchetti tanto vale che ti tengo in braccio.» Risalite un costone in diagonale, guadagnando quota poco alla volta, poi il sentiero piega di nuovo verso monte, punta senza compromessi una piccola cresta oltre la quale si fa largo la luce piena del giorno. Mentre uscite incontro alla radura, forzando il passo sul terreno scosceso, vedi i tronchi che diradano al


margine della fustaia: come se un albero potesse apparire per ciò che è soltanto isolato, ti affezioni a questa propaggine di bosco, e prendi a considerare il disegno del fogliame, la distanza fra i palchi di rami che si succedono verso l’alto. Oltre la radura incontrate quasi subito il fondo imbrecciato d’una carraia che sulla mappa non riuscite a individuare. Su un masso venti passi a monte, proprio sul bordo della pista, indivi-duate un segnavia e così prendete a salire contenti, in segreto, al-l’idea di riprendere le forze lungo un fondo meno sconnesso. La carraia sale incassata nello sterro della montagna, fra argini di terra alti fino al ginocchio; abeti giovani, dagli aghi ancora teneri e quasi privi di pigmento, crescono già a ridosso delle piccole scarpate invase dall’ortica. Poi, lungo la frusta di un tornante, gli argini si abbassano fino a scomparire, e voi riprendete a camminare al livello delle radici a nudo dei grandi alberi. Ogni poche centinaia di passi, dalla pista dipartono sentieri in terra battuta che conducono a piccoli appczzamenti di abetaia, governati a ceduo, che gli abitanti dei casali sparsi a valle impiegano come riserva di legname. Ci sono lunghe cataste di tronchi già sramati, ai margini delle piazzole, e fascine di rami ancora da sfrondare, eppure non hai mai l’impressione che il bosco possa impiegare molti anni, a riprendere quello che ha concesso. Per un po’, dalle profondità di un vallone che vi trovate a costeggiare, risale il ringhio meccanico, tutto picchi e smorzate, di una sega a strappo; nelle pause del motore vi sembra di distinguere voci d’uomini, ma per quanto vi piegate sulle ginocchia e inclinate la testa per scorgerli vedete solo il muro compatto d’abeti che li nasconde. Vi siete appena lasciati indietro il vallone, quando la pioggia prende a cadere fitta e senza preavviso dal cielo pieno di luce. «Sembra che gli dei non ci vogliano bene» dici, e tuo fratello non risponde neppure, solo sgrana gli occhi come un uomo ferito, incredulo che qualcuno voglia ancora colpirlo. «Ci vorrebbe un po’ di fortuna» dice, depositando lo zaino nel mezzo della pista imbrecciata. «Sempre» dici tu mentre indossi la cerata arancione Patagonia. «E meno la chiami, più t’ascolta.» «Sei un cavolo di superstizioso» dice lui, cavando fuori il poncho. «E non mi ricordo se lo sei sempre stato.» «Sono solo prudente» dici sollevando il cappuccio a visiera. «Tu?» dice ilare. «Forse credi di essere prudente.» «Lo sono davvero. Fa parte della mia natura.»


«L’importante» dice, «è che non fai diventare superstizioso mio nipote.» . «Interrogare i segni non c’entra niente, con la superstizione.» «Mi preoccupi» dice mentre drappeggi per lui la vela scura del poncho a coprire lo zaino. «Una volta studiavi semiotica, ma di questo passo finirai per ascoltare le voci che chiamano dalle colline, come il tombarolo in Vespa dell’altro giorno.» «Ecco» dici. Adesso comincia a scrosciare sul serio. «Questa è un’altra parola che secondo me non porta bene. Né la parola, né il mestiere, né l’uomo.» «Tombarolo?» «Zitto» dici riprendendo la danza dei passi. «Lo fai apposta?» «Tu sei malato» dice tuo fratello senza lasciarsi staccare. «Hai la testa piena di fisse.» «Quel tizio in Vespa» scandisci ad alta voce per coprire lo stormire di fronde, «era una cazzo di apparizione.» «In carne e ossa, però.» «Ti ho insegnato tutto» gli dici. «Potresti anche darmi retta, ogni tanto, in nome dei vecchi tempi.» «Ti ascolto sempre volentieri, quando non cominci a delirare.» «Era un messaggero che portava un pessimo annuncio. Non c’è bisogno di essere superstiziosi per capirlo.» «Hai la testa piena di fisse, e anziché mandare Malcolm a catechismo, finirà che lo mandi a scuola dallo sciamano.» «Quell’uomo non parlava di cose qualsiasi. Casualmente parlava di vicende oscure e profanazioni, e cinque minuti più tardi, sempre casualmente, per poco un cane non ci sbrana.» «D’accordo» dice tuo fratello mentre il cielo perde in fretta gradi di luminosità. «Divertiti pure a fare il sensitivo, ma mio nipote devi tenerlo fuori.» Poco più a monte i segnavia del sentiero abbandonano la pista di breccia, tagliano di nuovo in mezzo agli alberi, nel cuore dell’abetaia. Là sotto il picchiettare delle gocce sul cappuccio a visiera della cerata si fa meno fastidioso, e tutti gli aghi caduti al suolo, e le pigne sfaldate, formano un tappeto sul fondo sconnesso. Seguite i segnavia biancorossi verniciati sui massi che affiorano dal terreno, al riparo delle grandi chiome coniche, respirando a pieni polmoni l’odore di resina che riempie l’aria carica d’elettricità. L’acqua scroscia violenta sulle cime degli abeti, secondo angolazioni che il vento cambia di continuo; di


tanto in tanto, un lam-po rischiara il bosco in lontananza, fa apparire i tronchi in quella direzione, dritti e sgombri di rami fino a molti metri d’altezza, pallidi e sottili come assurde matite infitte nel terreno. Solo quando il boato preistorico del tuono scuote la terra, l’acqua che vi filtra addosso attraverso i palchi di fronde verde acceso gocciola copiosa, e allora è come se una clessidra scaricasse in fretta i suoi grani sul cappuccio della cerata e la copertura impermeabile del Salewa. Quando traversate una radura e provate cosa significa restare esposti in campo aperto sotto un temporale del genere, l’istinto vi guida a correre sull’erba tenera, con lo zaino che sega le spalle, fin dove il sentiero si inoltra da capo al riparo dell’abetaia. Adesso che siete lontani da tutti, la sola idea di accamparvi nel bosco riesce a metterti i brividi. La casetta della tenda si bagne-rebbe prima ancora di poterla coprire col sovrattelo, e se pure riu-sciste a montarla, sotto un temporale del genere resisterebbe solo poche ore. Forse il pensiero di essere bloccati a metà strada sarebbe troppo angoscioso, per riposare sul serio, e nella tua testa disabitata si insinua il pensiero che forse non sarebbe sciocco tornare verso Santa Fiora e aspettare che spiova. Tuo fratello non accetterebbe mai, ma per quel che ne sapete, il riparo offerto dagli abeti potrebbe diradare, o sparire del tutto. Potrebbe accadere appena guadagnate il nuovo versante, oppure ancor prima di riconnettervi al sentiero ad anello, e allora vi trovereste allo scoperto per chilometri e chilometri, ad avanzare sgomenti fra i prati a mezzacosta, lontanissimi dalle prime case abitate. Sareste gli unici, fra le creature atterrite del bosco, desiderosi di fissare il disegno delle folgori che, per lo spazio breve d’un istante capace di togliere il respiro, riescono a mandare in frantumi la volta livida del cielo. Quelli che tornano indietro sono considerati codardi, pensi mentre apri la strada a testa bassa sul tappeto di ramaglia e pigne sfaldate. Eppure, ti dici, quanti insistono a inoltrarsi in montagna col maltempo, al ritorno non vengono festeggiati come eroi, ma trattati da deficienti, e fra una bolla da stupido e una da pauroso non sai cosa sia preferibile. Qui però non c’è nessuno a giudicarvi, e quando vedi i tronchi farsi bianchi, come rischiarati da un’esplosione al fosforo, puoi chiederti dov’è andata a cadere di preciso la saetta, sforzarti di non chiudere gli occhi mentre il vulcano si prepara a vibrare sotto un nuovo boato. Tuo fratello dice che ha gli scarponi pieni di terra. «Così» ride, «sembra di camminare a piedi nudi.» L’ovale del volto che sbuca dalla vela del poncho è quello di un uomo determinato a patire tutto quello che serve, senza sconti, e tu pensi che non hai nessuna voglia di finire nei guai.


Hai già visto una volta com’è, e ti è bastato. Magari non stai rischiando così tanto. Se stai calmo, alla fine va tutto bene e riesci a trovare un posto abitato dove qualcuno ti da una mano. Il punto è che, quando finisci nei guai, non sei più calmo. Neanche per sogno. E più si avvicina il tramonto, più vai fuori di testa. Fuori dalla grazia di Dio. Così si dice. E il bello è che ti ci sei cacciato tu, a forza di sognare sulle mappe. Faggi alti come palazzi di cinque piani ondeggiano per lo spostamento d’aria a ogni nuovo boato. Ogni volta che vi fermate a rifiatare, il sudore sembra gelare sulla pelle, e nella tua testa in debito d’ossigeno iniziano a frullare figure di paura, il ricordo vivo della giornata di maggio in cui la neve ti sorprese con il Vietnamita e il buon Luther, mentre tenta-vate di entrare in Toscana al Passo d’Annibale. Era un tragitto abbastanza impegnativo, e camminare in calzoni corti nel bosco innevato stava diventando una pena. Poi usciste allo scoperto e vi trovaste a farvi largo sotto il turbinare dei fiocchi, in mezzo alla neve vergine, e fu subito chiaro che il freddo e la fatica patiti fin lì erano solo un anticipo della vera prova. Eppure, anche con i segnavia sepolti, apriste la carta e insieme decide-ste di forzare fino al Passo. C’eravate solo voi tre, ad avanzare in fila lungo il fianco sempre più scosceso della montagna che i Cartaginesi avevano superato con gli elefanti. Tutto accadeva in un silenzio impressionante, dotato di una sua densità specifica. Il freddo mordeva le guance, e quando tra-versavate i profondi valloni sommitali la neve smossa dai vostri passi sfarinava a valle contro il cielo bianco. Sotto il manto che ricopriva la montagna dovevano scorrere ru-scelli, acqua viva che erodeva da sotto la compattezza della neve, e il buon Luther apriva la strada affondando fino al ginocchio ad ogni passo. Poiché non c’era nessun riparo, puntavate a vista un avvalla-mento del crinale, una minuscola forcella che secondo voi doveva essere il Passo. Poteva distare mezz’ora di cammino, in condizioni normali, ma erano calcoli che lassù non significavano più niente, e un braccio sotto di voi la parete cadeva quasi a precipizio. L’importante era arrivare in fretta al valico, perché sul versante opposto scendeva una strada e, per quanto coperta di neve, la strada vi avrebbe condotto con certezza verso un paese. A ridosso del crinale, la neve si staccava a falde dal versante, e ogni passo era una manovra che sembrava comportare rischi enormi. Lassù sprofondavi fino alla cintura, e le tue gambe scoperte co-minciavano a perdere colore. Quando vi fermavate a rifiatare, toccava restare in piedi, il fianco a monte mezzo affondato nella neve, ed era impossibile sfilare lo zaino senza rischiare di sbilanciarsi.


Vi ritrovaste bloccati contro l’ultimo muro sotto la forcella, un salto di cinque o sei metri per superare il quale persino degli alpi-nisti esperti avrebbero avuto bisogno di corde e piccozze. Non poteva essere quella sforcatura del cavolo, a cavallo di precipizi opposti, il valico attraverso il quale gli uomini di Annibale avevano condotto gli elefanti. Vi eravate imbucati in un vicolo cieco, e ciascuno di voi sapeva che sarebbero servite troppe ore, dopo tutti i valloni che avevate traversato, per tornare sui vostri passi. Lassù, mentre i banchi di nebbia addensavano veloci, di tanto in tanto pensavi alla ragazza che sarebbe diventata tua moglie, e anche morire non sembrava un’idea così terribile, in tutto quel silenzio. Pensavi che l’avresti rivista in ogni caso, e solo ti dispiaceva non averle lasciato un piccolino per tenerle compagnia fino a quel giorno. C’era di che sentirsi in pace, alla fine, e anche quella volta era una domenica di maggio. E così, mentre le forze se ne andavano, cominciaste a ridere e il Vietnamita, le labbra livide, disse che a quel punto potevate anche fumarvi una paglia, e se proprio vi doveva toccare, era meglio lassù, in buona compagnia, che da qualunque altra parte. Arrivare al Passo, tornare indietro o salvarsi in qualche modo, nelle vostre teste mezze congelate, erano solo pensieri anestetizzati, incapaci di gettare la luce adatta. Poi il vento si era abbassato, e i banchi di nebbia che avvolge-vano il crinale diradavano sotto di voi come una mandria in fuga. Mentre gli ultimi petali della neve cadevano controluce, lo scivolo del vallone si allargava per incanto ai vostri piedi, come un fiume che scende sempre più mansueto verso la pianura e, trecento metri sotto il crinale, la teoria di pilastri d’una cabinovia fuori servizio mostrava la via da seguire per tornare lentamente verso casa. Così imparaste che non era quello, il giorno per voi, e mentre il sole tornava ad accendere di barbagli il fianco immenso della montagna, scendere il vallone senza rovinare non sembrava più un’impresa impossibile; distinguevi a distanza i passaggi difficili, e riuscivi a immaginare in anticipo le soluzioni per aggirarli. «Fanculo» aveva detto il Vietnamita, «oh sì, stralunami, ‘fanculo», e in fila indiana avevate preso a disegnare il vostro zigzag verso i pilastri della cabinovia, preoccupati in segreto di aver preso un brutto raffreddore. «Ascolta» dici a tuo fratello, «non credo sia prudente, andare avanti sotto questa tempesta.» «Cosa vuoi fare» dice lui mentre ti viene dietro. «Diciamo “fi-do” e smette di piovere?» «Non sto scherzando» dici. Per un po’ devi sforzarti di respirare a bocca chiusa. Non parlavi da un pezzo, e lo sforzo fa battere il suo martello all’interno delle tempie. «Forse dovremmo cercare un rifugio,


una cavolo di capanna o qualcosa, e smettere di seguire il sentiero come due muli. Oppure possiamo tornare in paese, bere qualcosa di caldo e aspettare domani per provarci da capo.» «Come lo sai» dice tuo fratello con la voce carica di una strana gioia, «che non piove anche domani?» «Sono stanco» ti sembra di ringhiare, «d’accordo?» «Stai solo facendo lo scemo, e ormai siamo troppo avanti» dice lui. «Non ho nessuna voglia di tornare a valle per fare da capo domattina tutta la strada fin qui.» «Cosa c’entra, se hai voglia» dici brusco mentre l’acqua ti scivola lungo il filo della schiena e scivola ovunque. «Se non conosci la montagna, mica lo capisci che ti stai cacciando nei guai.» «Scusa, comandante» dice lui ombroso. «Ti prenderei a cazzotti, quando assumi questo tono del cavolo da comandante.» «Se il sentiero sbuca allo scoperto» ti blocchi all’improvviso, «io torno indietro.» «Perdiamo un giorno, a questo modo» dice senza fermarsi, «e dopo non ci basterà il tempo per arrivare a Chiusi.» «Non ti ci faccio andare, da solo sotto i fulmini» insisti, ma lui non risponde niente e continua a prendere il largo. «E se vuoi sul serio prendermi a cazzotti» gridi rauco sotto tutta quell’acqua che non smette di cadere, «basta che ti fermi un attimo e appoggi quello zaino di merda.» «Sei un deficiente isterico» dice lui, e almeno s’è fermato. «Lo vedi l’incavo che il poncho forma sulla testa dello zaino? Raccoglie l’acqua come una bacinella, e dalla bacinella, senza fretta, l’acqua mi scende giù per il collo. Saranno due ore che va avanti così. Mi lamento, per caso? Marcio a testa alta come i guerriglieri di Sendero Luminoso. E tu, dopo che mi hai convinto a partire, te la caghi e vuoi tornare indietro.» «D’accordo» mormori senza convinzione. «Se pensi che me la cago e non vuoi neppure fare a cazzotti, non ci parlo più con te.» Ti dispiace avere alzato la voce, e pensi che abbia ragione lui. Se volete farcela a piedi, non potete perdere una giornata intera. Però, se dietro la prossima curva il sentiero sbuca allo scoperto, piuttosto che lasciarlo andare da solo sotto i fulmini, ti butti seduto e minacci di chiamare al telefono il soccorso alpino. Oppure vostra madre, che lo faccia ragionare. Gli alberi giovani spezzati dalla scarica del fulmine giacciono reclinati, la chioma intrappolata fra i palchi delle piante vicine, e in qualche modo lungo le fibre del tronco non ancora recise del tutto deve scorrere la linfa.


Vicino al punto in cui vi raccordate al sentiero ad anello che compie il periplo del vulcano, c’è una costruzione in rovina da anni, le travi del tetto ridotte a mozziconi scuri dall’opera delle termiti. Dentro devono esserci bisce e topi, al riparo dal temporale, ma il pensiero stesso che un tempo questo luogo buio è stato abitato da uomini non diversi da voi riesce a infondere coraggio. All’inizio il sentiero ad anello è pianeggiante e battuto bene, ma quasi subito si trasforma in una sorta di mulattiera che sale senza curve il fianco ripido d’un poggio. Mentre il bosco si fa buio, il ventre stesso del vulcano sembra sussultare sotto i vostri piedi e la pioggia cade fitta come in campo aperto, senza che le fronde dei faggi riescano più a filtrare niente. Arrampicate piegati a metà sotto l’acqua, e ti chiedi quanto può essere lunga una salita. Che quota avremo guadagnato, ti chiedi e, sulla base di quello che hai sofferto fin lì, avanzando a occhi chiusi nel cuore del temporale, provi a dare un nome a tutto quello che resta da patire. Ci sono momenti in cui vorresti sfilare lo zaino, abbandonarlo ai piedi d’un albero per salire più in fretta, allora serri i denti in un morso che non trattiene niente e maledici il tuo progetto arrogante di traversare il Paese a piedi. Bestemmi e soffi e preghi il Dio che regna sulla montagna perché smetta di infierire sui poveri pellegrini. E solo acqua che cade dal cielo, sono folgori e tuoni, ma per un po’ ti sembra che ogni passo potrebbe essere l’ultimo prima di lasciarti cadere faccia avanti, con il Salewa aggrappato alle spalle come una grossa scimmia, sullo sconnesso di terra e fronde spezzate. Ti fermi a rifiatare, massaggi i muscoli tesi delle cosce, e altra acqua, un rivo ingrossato dal temporale, scende veloce sulla sinistra del sentiero, trascina a valle, dentro il letto scavato durante la stagione del disgelo, pietre e zolle strappate ai suoi stessi argini. «Facciamo finta che sia bel tempo» dice tuo fratello con l’esa-sperazione che vibra in gola. «È bel tempo» dice, «i fringuelli cin-guettano, e i nostri zaini maledetti sono cestini leggeri da picnic.» La macchia color oltremare del poncho che lo copre fino ai polpacci ondeggia pochi passi avanti a te, due alberi più in là lungo il percorso obbligato che i segnavia dipinti sui tronchi tracciano in mezzo a questo lembo di foresta aggrappata al vulcano. Da qualche parte, sopra di voi, oltre la sommità della muraglia d’alberi, vi pare di riconoscere il canto originario della fonte. Continui a seguire tuo fratello senza cedere terreno, anche quando si tratta di passaggi difficili in cui serve aiutarsi con le mani. Lo segui per un tempo che sembra infinito, come dentro una gara al rallentatore, ma quando si ferma abbracciando un albero per riprendere fiato non pensi di superare nessuno, solo ti senti fiero che per un po’ tocchi di nuovo a te aprire la strada. Alla Fonte delle Monache bevete e riempite da capo i cilindri delle borracce. Il rifugio della forestale in vista della sorgente è chiuso, e appena riprendete a salire nel bosco, senti l’acqua che balla nel tuo stomaco vuoto.


È un po’ che non tuona più, e se pure non smette del tutto di piovere, lame di luce illuminano ampie plaghe di faggeta. «Scusa per prima» dici a tuo fratello. «Hai fatto bene a insistere perché proseguissimo.» «Sei tanto caro» lui dice, «ma quando vuoi fare il dittatore ti odio.» «Non volevo fare il dittatore. Ero preoccupato che un fulmine ti aprisse la zucca a metà.» «Ma i dittatori sono esattamente così. Dei gran ansiosi. È perché si preoccupano troppo del bene degli altri, che vogliono comandare.» «Può anche darsi» dici. «Ma se Dio vuole, almeno sta smetten-do di piovere.» Vi spogliate degli impermeabili, e l’aria fresca che gela il sudore sul collo e lo fa svaporare è come una sferzata che ti ridesta. Puoi sentire le forze che affluiscono di nuovo, e attaccare l’ultimo tratto di salita come non avessi più memoria di quando l’infu-riare del temporale ti aveva reso mansueto. «Fumi dalle spalle» dice tuo fratello, e anche lui in controluce sembra avvolto da pennacchi di nebbia, come una creatura mite dell’oltretomba. Vi ritrovate senza preavviso a camminare in piano, attraverso il ceduo bene ordinato. Grandi rocce di lava rappresa affiorano co-me scogli dal fondo in ombra del terreno, e non c’è un punto preciso in cui il sentiero comincia a scendere. Un tavolato d’assi fornito di corrimano scavalca il letto d’un ruscello, ed è il primo manufatto che incontrate da parecchie ore; a po-ca distanza, un cippo in pietra che emerge per due piedi dal mare di foglie morte segna il confine fra le provincie di Grosseto e Siena. «Eccolo» tuo fratello sorride, «il Gran Premio della Montagna di oggi» e adesso che non costa più fatica volete lasciarvi indietro più strada possibile, allontanarvi dal cono della vetta che incombe, spoglio d’alberi, poche centinaia di metri sopra di voi. «Aspetta» dice a un tratto tuo fratello, e lo vedi immobilizzarsi al centro del sentiero. Fa cenno di non parlare, e con la sinistra indica oltre una placca di roccia a nudo, dove la boscaglia torna a farsi fitta. Così ti fermi dove sei, e mentre esplori con lo sguardo il primo sipario di cespugli, ti trovi a incrociare i grandi occhi ovali d’una femmina di capriolo. È così vicina che puoi vederla fiutare nella vostra direzione di-latando le narici, e per un attimo, prima che abbassi il muso, distingui con precisione il disegno dei muscoli sotto il pelame ros-siccio del collo esile e aggraziato. «Vorrei abbracciarla» tuo fratello sussurra, «solo per sentire quant’è tiepido e morbido il suo mantello.» Il capriolo non fugge, solo manda una sorta di latrato deluso e si accuccia dietro i cespugli, e se vi


prendeste il tempo che serve, forse riuscireste a convincerlo che le vostre sono intenzioni oneste. Lungo il sentiero battuto bene che scende fra i castagni, incontrate un capanno da carbonai incassato per tre lati nel fianco d’u-na collinetta. Il capanno ha un tetto di tronchi a doppio spiovente, ma solo sotto il colmo la copertura è abbastanza alta per un uomo in piedì, e a ridosso delle pareti devi quasi inginocchiarti. Un’ora fa vi sarebbe apparsa un segno della clemenza celeste, invece adesso che non piove più e vi sentite al sicuro fate solo una breve sosta per mangiare qualcosa, cambiare le maglie bagnate, e indossare un paio di calzettoni asciutti al posto di quelli che vi stanno marcendo ai piedi. «Non ho più tanta voglia di accamparmi lontano dal paese» sospira tuo fratello. «Proseguiamo fino a Abbadia, allora.» «Giusto per non perdere del tutto le sembianze umane» dice uscendo dal riparo del capanno. Scruta la galleria vegetale del sentiero, e ogni singola fronda sembra stillare acqua, mentre dalle spaccature dei rami più vecchi le femmine d’upupa dal piùmaggio color cannella riprendono a mandare il loro richiamo pulsante. «Non ho più niente di asciutto» dice, «e mi sembra tutta la vita che camminiamo.» «Se non comincio a confondermi» mormori, «credo che oggi il vulcano ci abbia voluto ammonire.» «Sarebbe a dire?» domanda tuo fratello calcando in testa il berretto a visiera. «Non saprei spiegarlo bene. Sono vibre che sento. È come se avesse voluto ammonirci, e anch’io credo che facciamo bene a scendere verso il paese.» Tuo fratello ti guarda di sbieco, e il suo berretto sembra essere la cosa più bianca nel raggio di molti chilometri. «Fossi in te» di-ce, «lo farei battezzare, il dottor Malcolm, invece di riempirgli la testa con le vibre da sensitivo.» «Sua madre sarebbe contraria» dici. «Per via di Marcinkus e tutte le altre porcherie. E anch’io non sono mica convinto al cento per cento.» «Pian piano stai rientrando all’ovile» tuo fratello dice. «A un certo punto dicevi che i preti bisogna fucilarli e basta.» «Oi» dici, «quando ho sfiorato la prima volta l’argomento, Di-na pensava scherzassi. “Ecco il retroterra cattolico che affiora”, ha detto. Protestava che non mi ero neppure voluto sposare in chiesa, e mi ha accusato di essere una specie di voltagabbana. “E Marcinkus, allora?” mi diceva. “E il fatto di essere anarchico?”» «Eppure è chiaro» mormora tuo fratello, «che il retroterra cattolico, se c’è, prima o poi affiora.»


«A Dina ho spiegato che tutte le persone perbene, secondo me, dovrebbero essere almeno un po’ anarchiche, ma le ho anche spiegato di come è stato importante, crescere abitato da una fede che, all’epoca, credevi ti avrebbe accompagnato per sempre. Così ho vuotato il sacco, e le ho raccontato com’era, sul serio, essere un cattolico di dieci anni. Di tutto, le ho parlato. La domenica a messa prestissimo insieme alle vedove, le partite di calcio sul campo di cemento arbitrate dal frate giardiniere, la maledetta recita per la decennale eucaristica e tutto il resto che ti faceva sentire parte d’una comunità.» «A dieci anni non era male» dice tuo fratello. «E non ricordo molti altri posti in cui ti insegnassero a pensare a te stesso come a una pecorella.» «Non saprei da dove cominciare, di preciso, ma vorrei qualcuno lo insegnasse anche a Malcolm.» «Dovreste farlo battezzare» tuo fratello dice. «Sempre che tu non voglia ancora fucilare tutti i preti.» «Avevo un sacco di progetti, per il giorno in cui avremmo preso il potere» dici. «Ma alla fine ho capito che non mi interessa. A nessuna persona perbene dovrebbe interessare, e adesso non vorrei più fucilare nessuno.» «Allora dovreste farlo battezzare. Di Marcinkus e le altre porcherie, magari, gli parlate più avanti.» Così, provando a immaginare quanta forza avrete nelle gambe quando Malcolm sarà abbastanza grande da partire con voi, tornate a camminare in discesa nel fitto di castagni. Ai piedi degli alberi sono nati grandi funghi spugnosi, e i fiori violetti dell’anemone spiccano contro i toni spenti del sottobosco. A valle il sentiero si allarga, scende su una pista ampia segnata dalle profonde impronte a U di cavalli ferrati. Tutta la pista ne è invasa, e le impronte più recenti, ancora smarginate, puntano verso Abbadia San Salvatore. «Vedrai» dici, «che è passata una di quelle gite a pagamento organizzate dai maneggi.» «Accidenti» dice tuo fratello camminando al centro del sentiero. «Non hanno scelto una buona giornata.» «Appena ha cominciato a piovere sul serio, l’organizzatore se l’è fatta sotto che i cavalli si ammalassero, e ha ordinato di rientrare a valle.» «Anch’io avrei fatto così» tuo fratello dice. «Se i cavalli si am-malano, mi sa che lavorare diventa un problema.» «Mettono una tristezza» insisti, «quei poveri castroni imbottiti di tranquillanti, costretti a portare in groppa una quantità di sconosciuti.» «Che diavolo te ne frega» lui dice. «È un bel sentiero, si sente l’odore della terra che asciuga, e siamo quasi in paese.» «Lo so. Ma l’idea dei castroni imbottiti di tranquillanti mi mette una malinconia da non dire.»


«Tu, comunque, hai la testa piena di fisse. Hai la testa piena di fisse, e quando ti innervosisci vuoi fare a cazzotti con la gente che ti aiuta.» «Ho capito» dici. «Uno si confida un attimo e salta fuori che ha le fisse.» «Hai le fisse perché sei un romantico» incalza tuo fratello. «Appena trovi un particolare fuori posto, cominci a credere che stai soffrendo.» «E questo sarebbe essere romantici.» «Secondo me lo sei. Un romantico putrefatto, e un gran disordinato.» «E tu, allora, che parti senza neppure sapere cosa c’è nello zaino?» «Te l’ho detto, ho avuto da fare fino a tardi. È stata Silvia a offrirsi di preparare lo zaino.» «Hai visto un bel mondo, nettamente.» «Sì?» «Ti hanno sempre aiutato le donne, a te. La mamma prima, e Silvia adesso.» «Se fossi una donna» dice lui, «chi preferiresti aiutare dei due?» «Cosa vuoi dire?» «Se fossi una donna» dice, «non vorrei mai avere a che fare con te. Hai la testa piena di fisse, e sei troppo romantico. Hai avuto fortuna a trovare la ragazza paziente che ha accettato di sposarti.» «E voi invece» domandi a tuo fratello, «quando vi sposate?» Lo vedi spalancare gli occhi e farsi rosso, come se avessi intercettato la missiva dei piani segreti. «Non so» respira a bocca aperta. «Non c’è una data fissata. Diciamo prima dei prossimi mondiali.» «E Silvia aspetterà i mondiali?» «Sempre che il sottoscritto, beninteso, riesca a trovare un lavoro serio.» Ti sembra strano, sentire tuo fratello che parla di te senza impiegare i soliti schermi fumogeni, delle preoccupazioni che lo accompagnano nei suoi panni nuovissimi di adulto, e oltre il costruito in sasso di casa Cipriani il sentiero scende netto verso il paese, ampio abbastanza perché possiate procedere di nuovo affiancati. «Comunque» dici, «su Silvia scherzavo.» «Io mi preoccupo sul serio, invece» dice lui accigliato. «Lo stipendio da maestra e la mia borsa di studio vengono risucchiati dalle maledette rate, e se ci sposassimo adesso potremmo a malapena invitare a


pranzo i testimoni.» «Intanto siete andati a vivere insieme.» «Già» dice, «e la bolletta della luce è sempre un colpo a tradimento.» «Solo, dovresti fare qualcosa per quei mobili.» «Cos’hanno che non va, i mobili?» «L’insieme è carino» prendi tempo. «Ma avete venticinque an-ni, e forse andrebbe svecchiato un po’. La sera, sembra di essere in una stube.» «A me piace, che casa nostra somigli a una stube. E comunque ho già fatto i miei conti» dice allungando un calcio al guscio acer-bo d’una castagna. «Se non mi rinnovano la borsa di studio all’università, per chiudere la mia parte di mutuo devo lavorare novemila ore come cameriere.» «Quante sono, novemila ore?» «Senza andare mai in vacanza, in tre anni me la cavo. Dopo, se mangio quasi sempre dalla mamma e accendo poco la luce, potrei quasi smettere di lavorare. Lavora Silvia, e io sto a casa con i bambini che arriveranno.» «Non sono così sicuro si possa fare.» «No. Forse non ancora. Ma tra vent’anni si potrà fare di sicuro.» Il sentiero esce dal fitto d’alberi per gettarsi sulla strada asfaltata solo alle porte del paese; sul lato opposto della carreggiata spiccano dalla boscaglia le pareti e le torrette mangiate dalla ruggine della vecchia stazione estrattiva. Rampicanti ed erbe spontanee avviluppano nel loro intrico l’ingresso alle miniere abbandonate, e se gli uomini non si decidono a radere al suolo la vecchia stazione, presto ci penserà il bosco, senza bisogno di nessun aiuto, a inghiottirla da capo con tutta la radura. Vi fermate ai piedi di quelle rovine fosche solo il tempo di fabbricare una sigaretta. Quand’è pronta, caricate di nuovo gli zaini, che vuoi fumarla mentre scendete con calma verso il centro di Abbadia San Salvatore. È il paese più grande della zona, e il più grande in assoluto che abbiate traversato fin qui. «Quando spararono a Palmiro Togliatti» dice tuo fratello mentre il vecchio benessere vegetale t’invade, «da queste parti si scatenò il delirio.» «Pensavo ti occupassi esclusivamente di De Gaulle.» «Per la borsa di studio, devo ringraziare solo De Gaulle. Ma avrei preferito occuparmi di Togliatti, o della Resistenza.»


«Avresti dovuto laurearti con un altro professore, forse.» «Credo di sì, ma tanto erano già tutte assegnate, le borse di studio sulla Resistenza. In ogni caso, quando spararono a Togliatti, i vertici del Partito, qui ad Abbadia decisero che era scoccata l’ora dell’insurrezione. I compagni delle Brigate Garibaldi presero la piazza sparando addosso ai carabinieri, bloccarono le strade e, in-somma, combinarono un accidenti. Fecero anche saltare la centra-lina telefonica, l’unica che collegava Roma all’Alta Italia, e sul municipio, in quei giorni, al posto del tricolore sventolava la bandiera del Soviet.» «Poi» dici, «arrivò la notizia che Bartali aveva il Tour in tasca, e tutti tornarono a casa come geppetti.» «Questo forse è quello che raccontano i carabinieri» tuo fratello dice. «O gli organizzatori del Tour. In realtà i compagni si sciolse-ro solo quando fu sicuro che Togliatti, dal letto d’ospedale, si era raccomandato di non fare altre sciocchezze.» Ormai in mezzo alle case, sfilate di fronte al vecchio stabilimento per la lavorazione del minerale di mercurio e, di fronte al-l’ingresso, è montato su un piedistallo un vagoncino a scartamento ridotto, di quelli impiegati un tempo in galleria. Sembra identico a quello che avete visto all’entrata del museo di Santa Fiora, e sta qui a ricordare le stagioni del lavoro e della lotta, guardato a vista da un palo della segnaletica pubblica cui sono assicurate a doppia ala le insegne gialle di alberghi e ristoranti. Per un po’, sull’onda del benessere vegetale, segui tuo fratello dentro il cortile del vecchio stabilimento. Officine e magazzini so-no stati convertiti di recente in botteghe artigianali, e lui dice che non gli dispiacerebbe, lavorare in un posto così, a due passi dal bosco. Il paese si sta riappropriando di questa grande area dove hanno lavorato tre generazioni di abitanti, e nonostante gli zaini e gli scarponi sporchi di terra, in nessun modo avete l’impressione di somigliare a intrusi. «Ci abbiamo dato dentro, oggi» dice tuo fratello mentre uscite incontro al borgo. «E adesso mi sento quasi a casa.» «Sono così stanco» sorridi lento «che mi sentirei a casa ovunque.» «Ovunque?» tuo fratello dice senza rallentare. «Può darsi, ma questo paese ha carattere, e sento che ce lo siamo guadagnato, il diritto a stare qui.» «È una prospettiva che mi interessa» consideri, e nel cuore d’un giardino pubblico al limitare del borgo incontrate un drappello chiassoso. Ci sono adulti che non governano un bel niente, al centro d’un mucchio selvaggio di forse cinque preadolescenti, e tutti insieme, sprizzando spensieratezza guasta e citazioni di Zelig da ogni mozzicone di frase, ben s’attagliano a figurare nell’erigenda galleria dedicata ai martiri della televisione. «Poche ore fa» tuo fratello dice, «sembrava di essere oltre il limite estremo del mondo civile.» «Magari solo perché pioveva» dici. Pensi che dopo giornate del genere, per sentirsi a casa è sufficiente aprire la tenda lontano dai drappelli di turisti, ma a tuo fratello non dici niente. Al centro del mucchio selvaggio di preadolescenti in jeans e stivali, spiccano due vessilliferi del turismo


della domenica. Sono lavoratori intorno ai cinquant’anni dai baffi curati, i giacconi verdi da brughiera aperti sopra i gilet milletasche guarniti di materiale fotografico, e non è difficile individuare, a pochi passi di distanza, un paio di secchielli bruni tempestati di monogrammi Louis Vuitton. I secchielli sono nettamente ancorati alle spalle di due matrone arcigne, casalinghe forse, giocatrici di bridge o dignitose lavora-trici part-time. Le matrone delegano la propria sportività a fiam-manti Diadora da tennis, e la convessa visione delle loro franget-te, senza dubbio progettate dal medesimo artista di periferia, basta a prosciugare ogni traccia di gioia autentica nel raggio di molte centinaia di metri. «All’improvviso» dici, «questo posto mi sta uccidendo.» «Vedrai che sono poveri colleghi di lavoro in gita con le famiglie» dice tuo fratello sottovoce. Mentre sfilate a meno di trenta passi, il mucchio selvaggio di preadolescenti sembra incuriosito, per un attimo, dai vostri zaini, e in quella specie di silenzio uno dei vessilliferi baffuti si lamenta ad alta voce. «Con la fortuna che abbiamo» geme, «le batterie della digitale stanno di nuovo lampeggiando.» «Stanno in esaurimento» commenta brillante il vessillifero collega. «Otto, ne ho comprate» insiste il primo. «Per fotografare i ragazzini a cavallo e tutto il resto, ma questa macchina non consuma le batterie, le beve.» «È quello che succede ad avere il braccino corto, Mimmo» lo punzecchia la matrona che forse gli compete. «La macchina vuole le batterie al litio e tu insisti a comprare quelle tarocche.» Qualcuno, non Mimmo, ride, e ti pare di sapere che le uniche cavalcate ancora in grado di entusiasmare questi poveri adulti sono quelle organizzate dai maneggi, in groppa a castroni imbottiti di tranquillanti. «Ma noi» tuo fratello dice, «dove stiamo andando, di preciso?» «Siamo poveri pellegrini reduci dalla tempesta» sorridi indicando il campanile in pietra, simile a una nuda torre d’avvistamento, che svetta oltre una quinta di case in ristrutturazione. «Andiamo a vedere se ci accolgono all’Abbazia.» «Vuoi dormire dentro l’Abbazia?» «In realtà» dici, «volevo solo chiedere ai monaci il permesso di piantare la tenda lì vicino.» Vi siete lasciati da poco il drappello alle spalle quando ricomincia a piovigginare, e le grida allegre e sgraziate dei preadolescenti invitano a volgere di nuovo lo sguardo in quella direzione. Adesso il mucchio selvaggio, disperso a ventaglio per tutto il giardino, inneggia all’acqua con strida altisuono, e lo spettacolo dei vessilliferi e le matrone che ciabattano in disordine verso il riparo d’un ponteggio mette voglia di tornare al bosco e non avere mai più una famiglia. «Noi però» dice tuo fratello riprendendo a camminare a testa bassa, «non stiamo mica andando a Roma. E poi un monaco lo capisce subito che non siamo veri pellegrini.»


«Ascolta bene» dici. «Se iniziano a fare domande impertinenti, siamo in viaggio verso Assisi. Per l’anniversario della Basilica di San Francesco. Kapish?»

GIORNO SEI. Da Abbadia San Salvatore a Radicofani. Sotto di voi si aprono prati grassi e brillanti, e il rombo di auto e camion lanciati lungo la Cassia, che pure deve riverberare senza sosta a fondovalle, quassù è coperto dal canto misteriosamente accordato di cicale a migliaia. Devono essere nascoste in ogni anfratto, nel fitto d’erba e ai piedi delle macchie di ginestra dai rami fibrosi, simili a dita protese d’un fantoccio: il loro canto metallico è come un’onda che sale verso il cielo per frangersi al suo picco contro l’ostacolo della scogliera. Allo stesso modo, dopo un crescendo di parossismo il canto delle cicale conosce all’improvviso una fase sommessa, quasi mesta, e solo in quel ritrarsi il frinire degli insetti più vicini spicca e tradisce la loro posizione. «Questa mattina» tuo fratello dice, «senza turisti, Abbadia San Salvatore sembrava un paese a corto d’abitanti.» Poiché sapevate di esservi lasciati alle spalle una tappa impe-gnativa, appena smontata la tenda vi siete portati nel cuore del borgo per bere un espresso. Il cielo era terso, sfogato dai temporali dei giorni scorsi, e volevate svegliarvi per bene, prima di visitare l’abbazia intorno alla quale è cresciuto il paese. L’hanno fondata i Longobardi nell’Ottavo secolo, un’epoca che immagini umidissima e poco incline alle spiritosaggini, e per molti secoli ha rappresentato il massimo polo culturale e religioso della regione. Portando a spasso gli zaini per il quartiere più antico, vi siete resi conto che la proloco è molto legata alle origini della cittadina, e un ristorante dedicato al leggendario re Rachis, così come i manifesti dell’imminente criterium ciclistico dei Longobardi, stavano a testimoniare questo affetto un po’ pretestuoso nei confronti di padroni troppo antichi per essere ricordati con dispetto. Dentro la chiesa dell’Abbazia, un monaco meridionale dalla pronuncia blesa vi ha riempito di domande sulla vostra parrocchia di origine. Avete raccontato di essere pellegrini diretti a Assisi per l’anniversario della Basilica di San Francesco, e il monaco vi ha fatto depositare gli zaini, prima di guidarvi verso il piccolo regno sotterraneo della cripta. Ha acceso per voi il sistema di faretti incorporati al pavimento, e le colonne che sostenevano le volte del


soffitto erano snelle, cia-scuna decorata secondo un differente motivo geometrico. Teste di animali e uomini armati decoravano i rozzi capitelli in pietra, e non erano le rappresentazioni degli evangelisti, ma musi di cavalli imbrigliati per essere condotti al sacrificio, teste di mon-toni, e volti di prigionieri sui quali era scolpito lo sbigottimento delle vittime designate. Hai avuto l’impressione, in quel luogo, di trovarti di fronte a rappresentazioni di un tempo di passaggio, quando ancora il timor di Dio era tutt’uno col terror panico dei pagani, e versare il sangue dei nemici doveva apparire caro al Cielo. «Quanti giorni è» dice tuo fratello mentre camminate affiancati, «che non ti fai sentire a casa?» «Ho chiamato la prima sera» dici, «e ho chiamato questa notte, dalla tenda.» «Sono crollato, ieri sera.» «Erano le otto e mezza, quando hai cominciato a russare.» «Dopo tutta l’acqua che abbiamo preso, l’aspirina mi ha chiuso le palpebre.» «Quando ha sentito la mia voce al telefono, Dina mi ha chiesto se per caso non parlavo a quel modo per scherzo. “Mi sa che ho preso un bel raffreddore” le ho detto. “Okay” mi fa, “per un attimo m’ero preoccupata che ti avessero imbavagliato”.» «È sempre offesa perché sei partito?» «Se n’è fatta una ragione, ormai. E forse con il raffreddore l’ho impietosita del tutto. Diceva che mi sarei dovuto provare la febbre e cose del genere, kapish, tutte caritatevoli.» «E il dottor Malcolm cosa combina?» «Prova a spostarsi a gattoni» dici. «Ma sembra che per il momento non faccia molta strada.» «Bisognerebbe filmarlo di continuo. Registrare la sua voce e tutto il resto.» «A volte» dici, «penso che servirebbe ingaggiare un biografo. Comunque fra pochi giorni si trasferiranno al mare, e laggiù sua madre gli scatterà abbastanza foto da riempire tutto l’album.» Adesso la strada segue la linea del crinale, questo luogo luminoso ed esposto ai venti, capace di affacciare su due orizzonti allo stesso tempo. Se pure sei ancora rintronato dall’acqua di ieri, e camminando gocci senza sosta dal naso, ti senti felice e pieno di grazia. A occidente lo sguardo può spaziare sul paesaggio ondulato dell’alta Valdorcia, gentili colline dalle cime tondeggianti e banchi di tufo dorato. Il fiume descrive un’ansa profonda fra i campi color ocra e i colli


dai cui fianchi sgorgano le acque termali; le opposte pareti della valle, anche qui alla sua testa, appaiono già molto distanti. Sulla destra invece la scarpata scende ripida, e il tappeto vegetale di macchia e pascoli sembra rivestire a perdita d’occhio i fianchi dei monti. Da qualche parte a fondovalle corre in rettilineo la variante moderna della Cassia, e oltre il primo schermo d’alture si staglia in distanza l’isoscele del colle di Radicofani. Alla seconda ora di marcia, cominciate a distinguere il profilo come d’osso della sua rocca, in grado di dominare per secoli la strada per Roma, l’arteria nota nei secoli come via Francigena o Romea, nel tratto in cui abbandonava il territorio senese per inoltrarsi nei domìni della Chiesa. Nelle settimane precedenti la partenza, oltre a studiare le mappe e stabilire cos’avrebbe trovato posto nel Salewa, ti sei appassionato alle memorie dei viaggiatori che, da tutta Europa, scendevano in pellegrinaggio lungo la Francigena. Ognuno di loro ha annotato nel proprio diario i paesi traversati e gli ostelli o borghi fortificati nei quali ha fatto tappa, e una delle fonti più antiche è il diario di Nicola di Munkathvera, un abate islandese che decise di visitare Roma e Gerusalemme. Con i mezzi a disposizione dei pellegrini a metà del Dodicesi-mo secolo, il viaggio durò tre anni, e le sue memorie sono una testimonianza preziosa su cosa significasse mettersi per strada in quei tempi. Del suo passaggio al borgo fortificato di Mala Mulier, purtroppo Nicola non racconta niente di piccante come il nome del luogo farebbe presumere. Se pure gli edifici descritti nel suo diario sono stati rasi al suolo secoli fa, immagini che il luogo sia ancora carico di fatica e magia, e hai deciso che non passarci sarebbe ir-riverente. E poi è molto tempo che hai sentito parlare di Radicofani e della sua rocca espugnata solo dopo l’avvento delle arti-glierie: passando dal bivio di Mala Mulier ci arriverete come i viaggiatori del Duecento, quando i Senesi resero impraticabile il tracciato di fondovalle e deviarono il traffico di merci e pellegrini verso il paese. Di tanto in tanto, lungo la carreggiata della strada di crinale, vi sbucano incontro pattuglie di stranieri in bicicletta, le maglie attil-late dipinte a campiture di colori innaturali. Viaggiano in carovane di amici e familiari, e se qualcuno stacca i compagni, alla fine della salita poggia il piede a terra e resta ad aspettare che il gruppo coaguli da capo.


Tutti i drappelli viaggiano in direzione opposta alla vostra, verso Abbadia San Salvatore, e dalla qualità della loro pedalata provate a indovinare da quale paese possono essere partiti e quanto, a occhio e croce, resta loro da ansimare. «Anche la Tirreno-Adriatico» dice tuo fratello dopo un po’, «è una corsa ciclistica.» «È una piccola corsa a tappe» dici. «La corrono a inizio stagione, subito prima della Milano-Sanremo.» «Mi sa che è una di quelle corsette a cui partecipano le seconde linee.» «Non è il Giro, ma l’ha vinta Moser e l’ha vinta Saronni.» «Sei sicuro che Moser l’abbia vinta o stai cominciando a spararne?» «Nettamente» dici. «Almeno un paio di edizioni.» Poi si fa mezzogiorno, e non passano più neppure i ciclisti. Resta tuo fratello, preoccupato per il foulard assicurato al retro del cappello a visiera, che ondeggia a ogni passo e scopre il collo bruciato; restano i vostri zaini e, se pure la grazia che t’invade te ne fa dubitare, resti tu e il tuo naso che gocciola. Il naso di un uomo di quasi trent’anni che sta compiendo un lungo giro per raggiungere le uniche persone di fianco alle quali vorrebbe essere capace di sentirsi a casa. «Come vanno le gambe?» domanda tuo fratello dopo un po’. «Per conto loro, kapish? Oggi mi sento in forma.» «Io non tanto» lui dice. «È. come se qualcosa mi friggesse fra la testa e il cappello, e forse dovrei prendere un’altra aspirina.» «L’ultimo chilometro» dici. «E poi ci fermiamo a mangiare, d’accordo?» Continuate a inoltrarvi finché non incontrate, sulla sinistra, un prato che scende con un’inclinazione fantastica verso i banchi di tufo dell’alta Valdorcia, simile a una gigantesca rampa per il salto con sci. In testa al prato c’è una piccola terrazza pianeggiante coperta da una macchia di roverelle, e accucciati sotto le roverelle il vento che spazza il crinale quasi non lo avvertite più. Dopo pranzo, mentre versi il caffè nel bicchiere in alluminio, tuo fratello si allunga sul modulo, spalle a terra, e quasi subito di-ce che un sonno invincibile lo sta portando via. «Fra l’altro abbiamo finito l’acqua» ti annuncia dentro un ultimo soprassalto. «Finché dormo» borbotta, «almeno non penso alla sete.» Cala sul volto la visiera a becco del cappello da pesca d’altura, e per un po’ non lo senti neppure russare.


Bevi il tuo caffè, fabbrichi a mano una sigaretta; mentre fumi ti aggiri sotto le roverelle e osservi la porzione di valle sotto di voi. C’è un paese, che biancheggia a un paio d’ore di marcia, e potrebbe essere Bagni San Filippo e potrebbe essere Castiglione d’Orcia. Quando sei stanco di provare a indovinare i nomi dei borghi e delle montagne, torni da tuo fratello e studi la Kompass. Nessuna fonte è fiorita all’improvviso sulla vostra strada, e per quanto esamini la mappa con attenzione lungo la vostra strada rintracci un solo casolare, perso sulla cima della montagna che la variante moderna della Cassia traversa in galleria cinquecento piedi più in basso. Il casolare si chiama Podere La Chiave, e per quel che ne sai potrebbe essere disabitato da anni. Ad ogni modo, stendi la Kompass sul modulo, estrai dal suo astuccio il curvimetro e passi con cura la rotella lungo la serpentina bianca del percorso. Poi esamini il quadrante piatto dello strumento, e la lancetta segna una distanza di nove chilometri da qui al casolare. Nove al casolare, un paio per il bivio e altri cinque fino a Radicofani. “Per il tramonto ci siamo in tutti i casi” ti dici, e poiché senti la testa che comincia a beccare in avanti decidi di riposare un poco anche tu. Ti sveglia il canto di gola, simile a un insistere di rimbalzi, d’un picchio nascosto da qualche parte. Gli zaini sono al loro posto, tuo fratello, suole all’aria, digrigna i denti nel sonno e tu devi essere uno degli uomini più sporchi della regione. L’effetto combinato di polvere e sudore rappreso forma una sorta di patina opaca che ti avvolge per intero, ma ti dici che in fondo non siete attesi a nessun ricevimento o vernissaggio. Sbadigli, e forse erano mesi, che non respiravi un’aria buona come questa. Poi ti dici che forse, adesso che vi siete lasciati l’Amiata alle spalle, potreste concedervi mezza giornata di pausa, accamparvi all’ombra delle roverelle e lasciare che tuo fratello recuperi con calma le forze. Per un po’ ti perdi a considerare la minuscola meraviglia di un maggiolino dal guscio carico di riflessi bronzei che risale la manica della tua camicia. Stupisci di come, appena si sente minacciato da un movimento brusco, divarica le due metà del guscio che custodisce le ali e si appresta alla fuga. Chissà da quanto tempo, si crede che i maggiolini portino fortuna, e se pure hanno preso confidenza con gli uomini, restano guardinghi. Ti sei quasi abituato all’idea di bivaccare qui fino a domani, poi ricordi che siete senza un goccio d’acqua, e allora maledici gli insetti del prato e l’ombra traditrice delle roverelle, mentre sale in fretta la smania di riprendere la marcia.


Scuoti piano tuo fratello che cominci a svegliarsi, ma lui apre gli occhi cerchiati di rosso e, senza riconoscerti davvero, dice che non si sente ancora pronto a soffrire. Dice solo questo, così decidi di lasciarlo riposare un altro po’. Risali verso il crinale battuto dal vento per controllare se si distingue in distanza il casolare dove forse potrete bere, e appena esci dalla macchia hai un soprassalto nel vedere l’orizzonte colmato dalla piramide del vulcano. Avete camminato tutta la mattina allontanandovi dalle sue pendici, e in silenzio l’Amiata ingigantiva alle spalle, tornava a svettare come due giorni fa, quando vi è apparso per la prima volta, scuro e immenso, e ha preso ad attirarvi a sé con la sua musica misteriosa. Adesso è sgombro di nuvole fino alla grande croce in ferro che ne segna la sommità, e il sole indora le chiome di faggi e castagni, il poggio coperto d’abeti che avete risalito ieri, e le praterie fiorite a ridosso della vetta. Per un po’ resti lì, sul ciglio della strada, a carezzare con lo sguardo i fianchi immensi del vulcano in pace, e in testa ti battono i primi versi d’una vecchia canzone dei Diaframma. “Manca l’acqua” la canzone dice, “accenderemo candele per rischiarare la terra e il mare”. Canti a mezza voce, e anche se non ricordi come continua la strofa, a forza di ripetere quei versi ti senti di nuovo pieno di gratitudine e grazia. Torni agli zaini solo perché senti la voce di tuo fratello. Si è svegliato senza trovarti e adesso chiama il tuo nome con voce distorta dall’esitazione, come temesse uno scherzo. Proseguite verso il Podere La Chiave e il tracciato della Francigena, lungo l’orlo dell’immensa scarpata coperta di pascoli e praterie, e l’isoscele solitario che culmina nel profilo d’osso della rocca di Radicofani occupa il suo centro. Non fate che girarle intorno da ore, schiaffeggiati dal vento del crinale mentre a valle cala un silenzio sempre più profondo, e a fatica potresti immaginare un paese più complicato da cingere d’assedio. Sono passate ore da quando avete incontrato gli ultimi ciclisti, così ormai camminate in mezzo alla carreggiata come fanti sban-dati, senza allontanarvi dal punto di corda neppure all’ingresso delle curve. Vorresti chiacchierare per distrarti, ma tuo fratello si scusa, dice che ha mal di testa e parlare gli mette troppa sete. «Allora» dici «tanto valeva che venivo da solo», ma lui non si scompone e continua ad avanzare a testa bassa, avvolto nella k-way color acquamarina. «Su» lo sproni. «Non dirmi che hai dei pensieri.» «Che palle» dice. «Ho le narici screpolate dal vento e le labbra secche. Se parlo» dice, «la lingua mi si asciuga in bocca.»


In questa immensa solitudine, costeggiate un terreno sul quale pascolano a decine i maiali neri di cinta senese. I piccoli grugnisco-no atterriti, fuggono sorprendentemente agili verso l’interno del pascolo, mentre i grandi maschi adulti, abituati alla vita semibra-da, si affollano verso il ciglio della strada lanciandovi contro richiami d’avvertimento che, nella quiete della montagna, risuonano alti come lugubri barriti. Vi tenete sul ciglio opposto, spronati dall’ansia che le bestie decidano d’irrompere sulla carreggiata. «Il primo che salta in strada» tuo fratello dice, «mollo lo zaino e la svigno a rotoloni giù per la scarpata», e a vedere i musi allungati protesi a fiutare da meno di dieci passi, simili a oscene vento-se coperte di muco, ti torna in mente che una volta, su un libro, hai letto che i maiali affamati sono in grado di sbranare un uomo che dorme. Poi non ci sono più maiali e non c’è più niente di vivo, intorno alla strada che snoda per tornanti verso il tracciato della Francigena, simile a un corridoio aereo delimitato dai recinti di filo spinato che perimetrano pascoli immensi punteggiati dai fiori di croco. Quando vi concedete una pausa e sfilate lo zaino ti senti all’improvviso così leggero, mentre il sangue torna a fluire fino alla punta delle dita, che provi la tentazione assurda di prendere la rincorsa e spiccare il volo sull’immensa scarpata sulle cui pareti d’erba riesci a distinguere il tracciato delle mulattiere che conducono a fattorie sperdute, arrampicate sui poggi che dominano la trincea della statale. La variante moderna della Cassia convoglia il traffico a fondovalle, verso il traforo della galleria, e sei grato agli ingegneri che l’hanno progettata per avere restituito al silenzio questo crinale spopolato, sopra il quale il nibbio e il falco lanario disegnano ad ali aperte le loro spirali. La sete, e il pensiero della sete, vi spingono avanti. Per consolarti pensi a Nicola di Munkathvera e a tutti i pellegrini senza nome che, per arrivare da queste parti, avevano af-frontato le fatiche e i pericoli di viaggi lunghi molti mesi. «Passasse una macchina, almeno» dice tuo fratello. «Mi sbrac-cio per fermarla, faccio la voce triste e chiedo se a bordo gli avanza un goccio di acqua minerale.» Il Podere La Chiave occupa la sommità della montagna traversata cinquecento piedi più in basso dal traforo della galleria, e il casolare con la stalla e le dipendenze devono essere gli unici edifici ancora in uso nel raggio di molti chilometri. Faraone e galline dorate vagano libere per lo scosceso dell’aia, e se pure non c’è nessun cane che vi abbaia contro, è come se i due vecchi in piedi sulla soglia fossero in attesa, già avvertiti in qualche modo del vostro arrivo. Avranno settant’anni, e si somigliano così tanto che non potresti dire se sono marito e moglie o piuttosto due fratelli. La donna è vestita di nero, porta i capelli partiti in due bande e raccolti a ruota sulle orecchie; ai piedi porta gli zoccoli, e un paio di calzini da uomo le risalgono fino a metà polpaccio, mentre il vecchio indossa un gilet di maglia sopra la camicia. Tiene le mani affondate nelle tasche dei calzoni, e vi studia


da sotto la tesa del cappello color tabacco che porta calcato di sbieco. Di certo è una vita che resistono quassù, e pensi che devono avere visto andare in malora uno per uno i poderi vicini. Quando siete ai piedi dell’aia, salutate mostrando le borracce, domandate il permesso di salire fino alla soglia, e il vecchio v’invita ad avanzare con un gesto della mano che più che altro ricorda un silenzioso addio. La sua voce è quella fioca di un uomo che parla solo di rado, e quando raccontate che siete in viaggio verso Assisi si tocca la tesa del cappello e dice che il Santo vi proteggerà durante la strada. «Lui che ha camminato tanto» sorride senza denti, «ce li ha sempre a cuore, i pellegrini.» Così gli consegnate i cilindri delle borracce, e mentre l’uomo scompare zoppicando all’interno, nel cuore di un casolare il cui impiantito ricorda quello d’una cantina, la vecchia occupa il centro della porta e, a braccia conserte, prende a balbettare qualcosa con gli occhi pieni di gioia. Parla di un ciclista solitario, un ragazzo giunto da Bergamo che ha trascorso una notte alla fattoria, ma non c’è verso di capire se è un episodio dell’altro giorno o risale a parecchi anni fa. Parla del ciclista di Bergamo e guarda le vostre gambe, guarda gli scarponi e quando distingue il tatuaggio sul tuo polpaccio, la vedi che stringe gli occhi e si sforza di decifrarne la mappa d’in-chiostro. «È molto bello, qui» dice tuo fratello per rompere il silenzio, e indica oltre lo scosceso dell’aia, verso il profilo verde del crinale che sale verso Radicofani. «C’è tanta gente cattiva» balbetta la vecchia, e la vedete stringersi nelle spalle come l’avesse presa un brivido. «Una volta» di-ce, «una volta lasciavamo la porta aperta anche di notte.» Guardi tuo fratello, e anche lui è desolato. «Signora» dice, «non deve mica preoccuparsi.» «Nemmeno io, da ragazza, avevo paura» dice la vecchia. «Cor-revo velocissima. Adesso che non posso più scappare, invece, ho paura di tutto.» «Smettila, miseria gobba» dice l’uomo mentre risorge dal buio dell’interno con le vostre borracce. «Sono bravi figlioli che vanno a Assisi, e finirai per inquietarli.» Mentre prendete le borracce che l’uomo vi porge, la vecchia guarda in viso tuo fratello. «Potete fermarvi qui, se avete paura di fare brutti incontri.» «È molto gentile» dice lui, «ma proviamo ad arrivare in paese.» Apre il tappo a vite della tua borraccia da un litro, beve con cautela il primo sorso e te la passa. «Non vogliamo un soldo» insiste la donna, e per come sta pre-cipitando la situazione non ti stupiresti se si aggrappasse al braccio di tuo fratello. «Potete dormire nella camera dove ha dormito il ciclista» sorride. «C’è anche il gabinetto.»


«La vuoi smettere o no?» si scalda l’uomo mentre bevi. «Devono rimettersi in strada, e anche noi abbiamo da fare.» «Una sera sola» dice la vecchia. «Abbiamo tutte le coperte che volete» ma l’uomo si spazientisce e, la voce fioca tirata al massimo, le ordina di filare in casa. «C’è da preparare la cena, miseria gobba» dice, e saranno sì e no le quattro. Ti senti mortificato, mentre serri il tappo a vite e porgi di nuovo la borraccia a tuo fratello, che la riponga per te nella tasca a rete sul dorso del Salewa. «Dovete perdonarla» dice l’uomo mentre la vecchia gli scivola alle spalle gettandovi un ultimo sguardo pieno di rimpianto. «S’inventerebbe qualsiasi cosa, pur di cambiare compagnia.» Mentre s’alza il vento e dallo scosceso dell’aia si solleva un polverone capace di confondere il profilo della stalla, l’uomo vi mostra il suo sorriso senza denti, e se sta cercando di mettervi fretta gli sta riuscendo alla grande. «Da qualche anno è diventata triste» sospira appena il vento smuore. «Prima di Pasqua, quando viene il parroco per dare la benedizione, scappa sulla sua giardinetta e gli chiede di portarla in convento. Mi fa diventare matto, e fa diventare matto il parroco. Quest’anno ha chiuso le portiere con la sicura e ci abbiamo messo un’ora, per convincerla ad aprire.» «Tanto» si fa sentire la vecchia da dentro casa, «prima o poi taglio la corda.» L’uomo sospira una frase che non afferri, simile a un fiume di sillabe in mezzo al quale galleggiano nere le parole miseria gobba e camposanto. «Ti ci metto il veleno» grida la donna con la voce che impenna di soddisfazione, «così si fa prima.» «Le scorre in testa, il veleno» dice l’uomo. «A volte prova anche a scappare a piedi, ma va sempre dalla stessa parte, e col trattore la riprendo in un momento.» «Dovreste provare ad andare d’accordo» dice tuo fratello carezzando la visiera a becco del berretto da pesca. «Qua in mezzo» dice, «se non andate d’accordo fra voi è un guaio.» «Si bisticcia per passare il tempo» scuote la testa l’uomo. «Ma alla fine, miseria gobba, si fa quasi sempre pace.» «Sul serio» insiste tuo fratello. «Non fatemi stare con l’ansia.» «Noi si va a cena, allora» taglia corto l’uomo sporgendosi verso l’interno del casolare. «Buona passeggiata.»


Così potete solo ringraziare per l’acqua, e sotto il suo sguardo scendete in silenzio lo scosceso dell’aia. «Che razza di situazione» dice tuo fratello quando siete abbastanza lontani. «Se gli mette sul serio il veleno, ci vorranno settimane prima che qualcuno avverta i carabinieri.» Adesso il vento gira di continuo, e la strada, lambita da alte macchie di cardo, evita la sommità di Monte Nebbiali per digradare in modo dolce verso l’antico bivio di Mala Mùlier. Ti emoziona, l’idea di arrivare a Radicofani lungo la stessa salita che milioni di pellegrini hanno percorso con la speranza di vedere Roma nel giro di dieci giorni, contriti e redenti dalle difficoltà inimmaginabili del viaggio. «È questo vento che gira senza tregua» dice tuo fratello, «che ha fatto ammattire i vecchi su al podere.» Per un po’ parlate di come deve essere arrivare a quell’età, e tuo fratello dice che ogni uomo, prima di morire, dovrebbe ritrovarsi alla testa di una tribù. Poi vedete rilucere qualcosa, nell’erba grassa del pascolo che si stende a ridosso della strada, e tuo fratello si spinge fra l’erba per controllare. Lo vedi piegarsi sulle gambe e raccogliere, con due dita, un oggetto levigato, di una lucentezza stupefacente, che sulle prime ti ricorda un assurdo calzascarpe di cera. «Devono averla sbranata i lupi» dice euforico. Sorreggendo l’estremità dell’oggetto fra due dita, te lo mostra come una cosa infetta. «È una mezza mandibola di vacca» dice. «I denti sono ancora al loro posto, ma il resto è spolpato a regola d’arte.» «Sto per vomitare» dici. «Perché non butti quella roba e torni qui?» «Un attimo» dice perlustrando l’erba con la punta in gomma dello scarpone. «Volevo vedere se per caso si trova l’altra metà.» «Per favore» dici. «Mi da fastidio, sul serio.» «Anche noi.» dice avvicinandosi con quel povero resto in mano. «Su» dici. «A venticinque anni, non dovresti metterti a giocare con le prime ossa che trovi in giro.» «Sei nervoso?» domanda tuo fratello lanciando lontano la mezza mandibola. «È tutto il pomeriggio che sei nervoso.» La strada scende per curve brusche, e solo all’ultimo scorgete in fondo alla discesa il bivio in cui si immette sulla direttrice della Francigena. La via di pellegrinaggio più importante d’Europa oggi riposa sotto una tomba d’asfalto, e a ridosso del bivio di Mala Mulier sorge il rudere di una lunga costruzione a un solo piano, sopraelevata da uno zoccolo in muratura.


Poteva ospitare una trattoria, o forse una sala da ballo di quelle che, ai tempi dei nonni, rappresentavano la massima attrattiva per i giovani di campagna. Il continuo delle tegole è sconnesso, e i vani delle finestre, privi di vetri e scuri, appaiono simili a orbite tetre. Qualunque cosa sia stato il rudere, ti piace pensare che sorga nello stesso luogo dove un tempo si alzavano le mura del borgo fortificato di Mala Mulier. Per un po’ la serpentina della strada ve lo nasconde, e quando la discesa torna a puntarne la mole in maniera diretta, siete abbastanza vicini da decifrare le scritte tracciate a vernice bianca sulla facciata, maiuscole generose che inneggiano a Bartali, Coppi e Fiorenzo Magni. «Deve esserci passato il Giro, ai vecchi tempi» dici a tuo fratello, ed è bello immaginare questo luogo, teatro di pellegrinaggi ar-rischiati, tornare per un giorno il centro del mondo. Pensi al piccolo corteo d’auto e motociclette che avrà preceduto la testa della corsa, e puoi immaginare i dorsi a centinaia del gruppo dilagare lungo la carreggiata e sfilare fra le ali d’una piccola folla. Mentre scendete verso il rudere che presidia il bivio, parlate di cosa deve essere stato appostarsi sul ciglio di questa salita quando i campioni si davano battaglia a viso aperto, e non mascherati come oggi sotto il casco e gli occhiali da galleria del vento. «Mi sa che sono fasulle, sai» dice tuo fratello con il tono cauto di chi non vuole uccidere a tradimento un sogno. «Le scritte per i ciclisti, intendo. Scusa» dice, «non sono troppo fresche, per essere d’epoca?» Guardi meglio la facciata e ti senti stupido per non averci pensato prima. L’ombra dell’intonaco è svanita da decenni, e solo le maiuscole bianche, brillanti di vernice giovane, spiccano contro la facciata decrepita del rudere. «Sono di pochi anni fa» consideri, e per un po’ vi arrovellate su chi diavolo può girare per la campagna con il secchio di vernice e la pennellessa per scrivere w FIORENZO MAGNI. «D’accordo» dice lui deluso. «Le hanno verniciate gli scenografi quando giravano il film-tivù dedicato a Coppi» e la sua voce è smorta e rassegnata. Senti che tuo fratello deve avere ragione, e per un po’ accusi il colpo. Immagini l’attore Castellitto con la brillantina in testa e travestito da campione, che beve un tè caldo nella roulotte del regista. Immagini la roulotte del regista e immagini il resto della trou-pe che aspetta in strada il momento in cui Castellitto uscirà a inforcare la mitica Bianchi, e fingerà per la cinepresa di avere percorso duecento chilometri in fuga solitària. Come minimo, ti senti truffato. È così tutte le volte che pensi da vicino al laborioso inganno che costituisce l’essenza del cinema. Ogni volta che ci pensi provi un capogiro. È un po’ come provare nausea, ed è un po’ come sentirsi truffati. Per fortuna passa in fretta e, con l’aiuto del vento, passa in fretta anche questa volta.


«Va bene» provi a reagire, «le scritte sono fasulle. Ma forse gli scenografi le hanno verniciate qui perché il Giro ci passava sul serio. Quando in sella, voglio dire, c’era il vero Fausto Coppi.» «Come minimo» tuo fratello ti rassicura. «Mica avranno am-bientato il film a casaccio.» Lungo il ramo della Francigena che sale per rampe verso la ci-ma di Monte Nebbiali vi date il cambio a fare il passo. È da questa mattina che girate intorno alla torre bianca della rocca senza mai avvicinarvi, e adesso che la potete puntare lungo il crinale avanzate senza pause, scrutando il piano diseguale dei pascoli per scegliere in anticipo un buon posto in cui tornare ad accamparvi se non troverete niente di adatto in paese. Pensi al lastricato duecentesco della Francigena che riposa sotto la sua tomba a strati di breccia e asfalto, e quando sono le cinque tuo fratello propone di coprire a pieno regime i chilometri che vi separano dal paese: stringendo gli spallacci forzate lungo i segmenti in falsopiano, sfruttate i tornanti per rilanciare a turno l’andatura. Dentro la cerchia delle mura le strade sono strette e scoscese, lastricate a conci di basalto, e il Circolo dei lavoratori cattolici di Radicofani sorge al primo piano d’una casa, a pochi passi dalla targa che ricorda il plebiscito del 1860. In sala non si può fumare, e gli unici clienti sono un nero alto di statura, che siede solo e legge una copia di “Avvenire”, e due uomini barbuti, forse padre e figlio, impegnati a dividere una Moretti in bottiglia. La barista è una donna bionda dall’aria stoica e non del tutto rassegnata. Potrà avere quarant’anni, e solo lei risponde al vostro saluto. «Avete la tenda, ragazzi?» domanda con voce di gola appena sfilate gli zaini. «Nettamente» dici. «Siamo pellegrini diretti a Assisi» la informi, e subito i barbuti si voltano a guardarvi. Anche tuo fratello ti guarda, guarda la barista e dice che gli è venuta voglia di bere chinotto. «Abbiamo gazosa, cola e succhi di frutta. Niente chinotto, per oggi.» «Te cosa bevi?» domanda tuo fratello, e sei indeciso fra la gazosa e un succo di frutta. «Gazosa» rispondi, e lui dice che è una buona idea. «Due gazose» dice alla donna, «per cortesia.» «Sapete già dove fermarvi stanotte?» domanda la barista mentre stappa le vostre bottigliette, e non ti piace che vi riempiano di domande senza neppure lasciarvi sedere un momento tranquilli. «È da un po’ di giorni» sorridi, «che scegliamo all’ultimo momento dove dormire.» «Dopo usciamo dal paese» taglia corto tuo fratello, «e senza tante cerimonie, ci accampiamo sul primo


prato.» I barbuti adesso vi studiano in silenzio. Anche il nero vi guarda, e solo ora noti che ai suoi piedi c’è una grande borsa sportiva. Non deve pesare molto meno dei vostri zaini, eppure non ha spallacci, ma una semplice tracolla. «Fuori dal paese?» dice la donna depositando le bottigliette stappate sul bancone. «Fate attenzione, ragazzi.» «Facciamo sempre attenzione, signora» dici coprendo la poca distanza che ti separa dalle gazose, e sul rivestimento in linoleum dell’impiantito, le suole a carrarmato dei tuoi scarponi gemono e stridono come zampegne in fin di vita. «Lo dico per voi» la donna ti assicura. «Ci sono branchi di cani selvatici, che scorazzano qui attorno, e la notte salgono a cercare cibo fino al cuore del paese.» «Sono cani abbandonati» dice il barbuto più anziano. «Quelli che sopravvivono ai primi giorni da soli. Le femmine in calore si accoppiano con i lupi, e le cucciolate che nascono dai lupi non hanno più nessun rispetto per l’uomo.» «Non conoscevo i dettagli» la donna dice. «Non li conoscevo, ma sono bestiacce, e l’anno scorso hanno morso il figliolo di mia cugina mentre lavorava nei campi.» «Mi dispiace» dici, e le hai già sentite molte volte, le storie sui cani rinselvatichiti. «Faremo più attenzione del solito, allora.» «Non sarete venuti fin qui per farvi morsicare» dice il barbuto giovane. Può avere la tua età, e nei pressi del sorriso asimmetrico che all’improvviso gli illumina il volto forse dovresti rintracciare il desiderio di apparire simpatico o, addirittura, amichevole. «No» dici strizzando l’occhio al ragazzo. «Sarebbe un peccato, nettamente.» «Fossi in voi» dice la barista, «andrei dal parroco. Il parroco, un posto per dormire al coperto ve lo trova di sicuro.» Bevete con calma le vostre gazose, e adesso che ci hanno preso gusto, i bevitori di Moretti vanno avanti a raccontare altre storie sui cani selvatici che, la notte, si spingerebbero a raspare contro le porte degli abitanti dissoluti. La gazosa non è male, le leggende neppure, ma è come se un clima cupo e risentito da Controriforma regnasse su tutta la conversazione. «In bocca al lupo» dice la barista mentre uscite, e la sua voce risuona stridula. «In bocca al cane, anzi» e il barbuto anziano si abbandona a una risata di bronchi. «Visti dal Circolo dei lavoratori cattolici» sorride tuo fratello appena siete fuori, «i dintorni del paese


appaiono luoghi terrifi-canti», e tu confessi che non avresti nessuna intenzione, dopo avere camminato libero tutta la giornata, di andarti a consegnare in parrocchia. «Pensavo avessi cambiato idea, sui preti» dice tuo fratello con la stessa faccia tirata dietro la quale, a un poker fra amici, tente-rebbe invano di nascondere un bluff. Pensi che, rispetto a quando avevi vent’anni e li avresti fatti fucilare come consigliava Durruti, in effetti hai cambiato idea. «Adesso però non esageriamo» dici. «E, cani o non cani, oserei piantare la tenda senza tante paranoie.» Così vi spingete per le vie strette del paese, e in un piccolo spaccio comprate formaggio, olive e una forma di pane senza sa-le; perlustrate i dintorni alla ricerca di un posto per piantare la tenda, ma l’unico spazio verde è la mezzaluna di parco pubblico che si apre a ridosso delle mura, simile a una terrazza panoramica affacciata sui prati e la macchia di quella valle ventosa. Per un po’ restate in vedetta dalla balaustra, e a Sud si distingue il fiorire d’alture vulcaniche che indicavano ai pellegrini la direzione da seguire verso Roma. Acquapendente, Bolsena, Montefia-scone. Giunti salvi fin qui, non erano molte le tappe che restavano da coprire, e tutte le alture e i poggi che vedete devono essere apparsi identici all’abate Nicola e i suoi compagni di strada. «Forse da queste parti abitava più gente, ai tempi del Medio Evo» tuo fratello dice. «Adesso, pare che non ci abiti quasi nessuno.» Nella mezzaluna di parco sorgono panchine nuove di zecca, e una sorta di nicchia creata da una sporgenza della balaustra ospita una statua in basalto scuro dedicata al fuorilegge Chino di Tacco: la celebrità locale mostra una spada e la testa mozzata del giu-dice che aveva fatto condannare suo padre, ma il suo volto accigliato stona con il taglio a caschetto dei capelli. È un caschetto che ricorda quello di Oliver Hardy nella parodia di Fra’ Diavolo, e l’impressione d’insieme è quella di trovarsi al cospetto d’un uo-mo ombroso costretto a prendere parte a una festa in costume. Sembra una persona molto sola, il fuorilegge Chino, e vi piacerebbe tenergli compagnia per questa notte, ma le panchine del parco sembrano troppo frequentate dai ragazzini del paese. «Dopo cena, vedrai che tornano qui a riunirsi» dice tuo fratello con una smorfia. «Se vuoi, mi ci gioco i maròni.» Così seguite la curva della balaustra aggirando le mura fino a riguadagnare la strada che scende al bivio di Mala Mulier. A cento passi dalle case si stende uno sperone coperto d’erba giovane. Lo sperone incombe su una pietraia di massi grandi quanto balle di fieno, massi medioevali forse, e la luce del crepuscolo li colora di rosa. Una macchia di pruni copre la scarpata che digrada verso la pietraia e chiude a Sud lo sperone erboso. Ancora più in basso si vede l’erba ben curata, delimitata dal perimetro in gesso, di un terreno da calcio, e


dev’essere l’unico lembo pianeggiante di tutto il circondario. Così, senza scomodare il parroco e senza scomodare nessuno, scendete verso il limitare della macchia. «Qui mi pare vada bene» tuo fratello dice. «Dal paese non ci vedono». Sfila lo zaino e lo deposita a terra con cura, come fosse una cosa viva. Anche a te sembra un buon posto. La terra è soffice, senza sassi, e i prati al crepuscolo si aprono sotto di voi come una promes-sa di quiete. Così tuo fratello apre la sacca di tela cerata e con calma, mentre l’aria che rinfresca porta odore di greggi ed erba tagliata, cominciate a innestare uno sull’altro i segmenti dei pali che sosterranno la volta dell’igloo. «Non ci credo per niente, alla storia dei cani» dice tuo fratello quando la tenda è pronta ad accogliervi. Lo dice sollevando le sopracciglia ad arco, senza guardare niente di preciso. «Oi» dici, «sono gli incubi che si fanno a forza di restare chiusi al bar.» «Non si possono prendere malattie da una mandibola di vacca, vero?» «Ti divertivi tanto, e ora pensi di avere preso una malattia?» «Se non è morta sbranata, è morta di malattia. Penso solo questo.» «Non credo ti debba preoccupare» dici, e tuo fratello sbadiglia. È un lungo sbadiglio composito, che finisce per riempirgli gli occhi di lacrime. «L’unica adesso è che non venga a scovarci il parroco.»

GIORNO SETTE. Da Radicofani a Sarteano. Levate la tenda sotto il sole già alto delle otto. A piedi nudi sull’erba, ancora storditi di sonno, scomponete i pali e li piegate in fascio, strappate i picchetti d’alluminio dal terreno e li radunate in un piccolo mazzo. Poi piegate la vela del sovrattelo reggendola agli angoli, e quando l’avete ridotta a una striscia ampia due palmi l’adagiate a terra. Piegate a quel modo anche la casetta, poi t’inginocchi per avvolgerla in un unico rotolo insieme al sovrattelo. Tuo


fratello ti aiuta schiacciando a mani aperte la porzione ancora distesa affinchè non si formino bolle d’aria, e tu pensi che domani è l’ultimo giorno in cui camminerete insieme. Poi riponete il rotolo nel sacco, infilate i fasci dei pali nella busta antistrappo. «Sarà l’aria fina» tuo fratello dice, «o non so cosa, ma è la prima notte che mi sembra di avere riposato sul serio.» «Anch’io sto bene» dici. «È bello cominciare la giornata in cima a un colle, anziché imboscati a fondovalle.» Ripensi a quando avete dormito al limitare d’un campo di grano, appena fuori Saturnia, alla sveglia di ieri, a pochi passi dall’Abbazia e il cuore del paese, poi guardi i massi della pietraia indorati dal sole, l’aperto dei pascoli e il fiorire, verso Sud, d’alture vulcaniche sulle cui sommità si distinguono greggi di case, e non serve essere un esperto di viabilità, o di storia del viaggio in età moderna, per capire che tutti quei luoghi arroccati sono rimasti esclusi dai traccia-ti idealmente lineari delle strade più recenti. All’improvviso ti appare chiaro che non si può pensare alla Francigena come a un solo percorso, ma a un’immensa fascia via-ria in mutazione permanente, capace di riguardare valli diverse, e così dev’essere stato per tutte le grandi strade dell’antichità. Quando una zona si faceva insicura, o qualche potenza decide-va di deviare il traffico di merci e pellegrini, come fecero i Senesi rendendo impraticabile il tracciato di pianura che correva fra Abbadia e Radicofani, l’idea stessa di strada si spostava. Pensi a queste cose, mentre raccogliete il po’ di rifiuti della ce-na e mozziconi che ieri sera, al buio, vi siete limitati ad abbandonare in veranda, e ti dici che il Paese è solcato da una rete fitta di viottoli e secondarie, bianche di polvere o asfaltate in maniera ap-prossimativa, che un tempo, per pochi anni o un’epoca intera, hanno rappresentato le strade maestre. Di solito, per ricalcare i passi dei padri, basta trovare due paesi abbastanza antichi e individuare la strada più impervia che li collega: quasi sempre segue la cresta d’un crinale, e antiche chiese dirute, cappelle e maestà scandiscono le distanze della marcia in maniera precisa, come una punteggiatura molto più esatta di qualsiasi pietra miliare o segnavia. Ce n’è abbastanza per camminare tutta la vita senza pestare mai un lembo di terra senza storia, e in poco tempo lo sperone erboso al limitare della macchia di pruni è di nuovo sgombro e intatto. L’unico indizio del vostro bivacco è il quadrato d’erba umida schiacciato sotto il catino della tenda dal peso dei vostri corpi, ma per cancellarlo basteranno poche ore di sole. Rientrate al borgo attraverso la mezzaluna di parco ai piedi delle mura, e il caschetto di capelli scolpiti nel basalto è sempre al suo posto, ben calcato sulla testa del fuorilegge Chino. Affacciato sul piccolo sagrato della chiesa di San Pietro c’è un bar che deve avere visto tempi migliori, ma la vecchia che lo gestisce è cortese, e la sua torta di mele vi sembra la colazione più nutriente per cominciare un nuovo giorno di marcia.


State mangiando la torta in piedi al bancone, e la vecchia è rivolta alla Cimbali, alle prese con i vostri caffè, quando nel bar entra un prete dalle guance mal rasate. Ha lo sguardo d’un uomo appena sorto dal letto, il suo ventre prominente fa pensare a qualcosa di estivo e malinconico, e per un po’ vi guarda senza decidersi a raggiungere il bancone. Guarda voi e guarda gli zaini, e tu pensi che non deve portarne uno in spalla da parecchi anni. «Figlioli» vi chiama, e la sua voce vibra sulle frequenze d’un cauto rimprovero. «Voi due, figlioli, dovete essere i pellegrini che ieri sono passati al circolo.» «Siamo noi» confessi. «Volevamo solo bere una gazosa, però» e anche tuo fratello sembra stupito per come la notizia della vostra presenza ha fatto il giro del paese. «Un ragazzo» riprende il prete, «un caro ragazzo di colore che mi aiuta in parrocchia, è venuto ad avvertirmi i che cercavate un posto per dormire, e così vi aspettavo. Quando si è fatto tardi ho mandato il ragazzo a cercarvi. Ha girato tutto il paese, mentre scendeva la sera, ma voi non c’eravate più.» «Mi dispiace» dici. «È stato gentile a preoccuparsi, ma non c’e-ra bisogno.» «Così avete dormito sotto le stelle» il prete dice, e per qualche motivo sembra dispiaciuto nel profondo. «Sotto le stelle» dici, «ma dentro la tenda.» «Perlomeno» dice il prete. «Quando il ragazzo è tornato senza di voi, ho pregato perché non vi capitasse niente di brutto.» «Abbiamo dormito benissimo» tuo fratello dice. «E quindi credo che le sue preghiere siano state esaudite.» Il prete lo guarda in viso, e con un’espressione desolata gli allunga una carezza che lascia tuo fratello senza parole. «Chi va tanto in pellegrinaggio» sentenzia il prete, «di rado diventa santo» e ti dici che avete fatto bene, a non andare in parrocchia. Ripensi a ieri sera, a quand’eravate imbozzolati nei sacchi a pelo e il tempo del riposo era tutto avanti a voi. Tuo fratello si era addormentato con il tomo universitario su De Gaulle aperto sul petto, e tu, alla luce della lampadina a pinza, hai ripreso in mano Un avamposto del progresso. Non te lo ricordavi quasi per niente, e a un certo punto hai dubitato d’averlo mai letto prima. Sapevi d’averlo già letto, ma era come la prima volta e, mentre la macchia prendeva vita, hai pensato che la notte, sotto una tenda a igloo, le parole degli scrittori coraggiosi assumono un valore speciale. Adesso, a due braccia dalla Cimbali e l’espositore delle torte, il prete traccia la croce con gesti rapidi della mano. «La benedizione del Signore scenda su di voi» sussurra salmodiando, come un uo-mo che traduca per la prima volta dal latino, «e su di voi rimanga sempre.» E poi, sostenuto dalla linea di basso d’un moderato rimprovero, domanda se andate a Roma o dove. «Domani pomeriggio dobbiamo essere a Chiusi» dice tuo fratello. Pensi che nessun pellegrino va a Chiusi, e se questo povero prete spera ancora che lo siate, non dovreste deluderlo in maniera così grossolana.


«Da lì, poi, andiamo verso Assisi» ti sbrighi a precisare, «per l’anniversario della basilica di San Francesco.» Dell’anniversario hai letto sui giornali solo pochi giorni fa, e in ogni caso ti sembra un dettaglio straordinariamente realistico. «Chiusi» mormora il prete senza considerarti. «Ci ho passato quindici anni, a Chiusi, prima che mi spedissero fra questa gente straordinaria.» Guarda la donna dietro il bancone e per un po’, in piedi com’è, nasconde le guance mal rasate sotto le palme delle mani. «Dico “spedissero” perché non è stata una mia scelta, all’inizio. Il fatto è che sono nato in città, e quassù patisco un po’ la solitudine. Invece un posto di passaggio come Chiusi, con la stazione dei treni e l’autostrada, mi andava proprio a genio.» Poi lascia cadere le braccia lungo i fianchi, e all’improvviso lo vedete sorridere. «Se lo ricorda, signora» domanda allegro alla donna dietro il bancone, «quando sono arrivato quassù?» «Come no» risponde la vecchia. «Appena è morto il vecchio parroco.» «Gli anziani» il prete dice, «sono ancora molto affezionati, alla memoria del vecchio parroco. È gente straordinaria, sul serio, e quando sarò morto si renderanno conto di quanto erano affezionati anche a me. Però all’inizio ho fatto fatica. Ce la caviamo ancora con le bombole del gas, qui, e durante la buona stagione si portano a monte le provviste per l’inverno, perché quando nevica restiamo tagliati fuori dal mondo.» Pensi alla vita di quest’uomo comandato a prendersi cura delle anime del paese e tutte quelle disperse nei poderi delle vicinanze, e all’improvviso provi una grande malinconia per i preti, i militari e tutte le persone che non possono allontanarsi senza permesso dal presidio in cui esercita-no le loro funzioni. «L’inverno scorso» riprende, «non sono uscito dalle mura del paese fino all’epoca delle benedizioni pasquali. Il territorio è vasto, e mi serve almeno un mese per visitare tutti i parrocchiani, così quando la Pasqua cade presto è un problema.» Vorresti domandare se conosce la coppia che vive al Podere La Chiave, ma ormai l’uomo è una specie di fiume in piena. «Anche Charles Dickens» s’infervora, «che passò da qui in carrozza, ha scritto che le tempeste di Radicofani sono qualcosa di pauroso, e non hanno nulla da invidiare a quelle che si abbattono sulla costa atlantica.» «A questo modo, padre, a parlare di neve e tempeste, ci fa una pessima pubblicità» protesta la vecchia. «Perché non porta i ragazzi a visitare la chiesa, invece?» «Ma certo» dice assorto il prete, «ma certo», e lo vedete lisciarsi l’attaccatura del naso come un uomo che abbia appena incassato un brutto manrovescio. «Abbiamo pezzi unici, quassù» dice sorridendo senza guardarvi. «Le invetriate robbiane» riprende a salmodiare come quando sembrava tradurre dal latino, «anche a distanza di secoli riflettono la luce in maniera perfetta, e arrivano gli studiosi dall’America e dal Giappone, per scoprire il loro segreto.» Quand’ha finito di salmodiare, il prete sospira, guarda la vecchia dietro il bancone, e con la mano vi fa cenno di portare pazienza. «Adesso la signora prepara un bel cappuccino» dice, «e poi vi faccio strada, figlioli. Il tour completo, vi faccio fare.» Scendete e scendete lungo il versante soleggiato, seguendo lungo il ciglio l’asfalto della provinciale che conduce a Est. Non passano che poche auto, ma ormai la strada è solo un rettilineo sgombro che corre addomesticato fra i prati, punta il fondovalle come la più ovvia delle idee.


«Buona bazza» dici a tuo fratello, «dare retta al parroco. Questa strada va bene per le macchine, forse va bene per le moto, ma a piedi è un abisso di noia.» «È l’unica strada che va a Sarteano. Almeno credo sia l’unica. E se domani voglio salire su quel cavolo di treno, per stasera dobbiamo arrivarci, kapish?» «Kapish, ma potevamo andare per sentieri, anziché dare retta al prete.» «Adesso è colpa mia, se il prete non li conosce.» «Non hai neppure voluto studiare le mappe» dici. «Ormai con la testa sei già a casa, vero?» «Porca miseria» dice lui. «Stai ricominciando a fare il romantico, per caso?» e così decidi che è meglio camminare in silenzio. Avanzate lungo la striscia d’asfalto schiacciata a fondovalle finché non incontrate una carrareccia che sale sulla sinistra verso i pascoli brillanti e profumati di fieno. Presso l’imboccatura della carrareccia, un cartello in legno, inchiodato al montante d’un recinto, indica un rosario di poderi sconosciuti, e non ti serve perdere le ore sulla Multigraphic per convincere tuo fratello che la deviazione fa al caso vostro. Salite in fretta verso il cielo azzurro e puro, e per un po’ non si sentono altro che i vostri passi sul fondo della strada polverosa che guadagna quota; intorno a voi, greggi sterminate si stagliano contro il verde dei versanti soleggiati. I prati sono circondati da palizzate rinforzate con il filo spinato e ogni tanto, a cavallo delle palizzate, scorgete le scalette a V rovesciata impiegate dai pastori. «Sei contento, adesso, romanticone» tuo fratello sorride, e la carrareccia segue la linea d’un crinale secondario. Adesso avanzate sollevando una nube di polvere, e dopo un’ora di marcia la carrareccia torna a scendere ripida verso la doppia linea di cipressi che fa ala alla provinciale per Chianciano. Prendete a Nord, verso il ponte sull’Orda e, negli intervalli fra l’ombra d’un albero e quella del successivo, ti sembra di sentire il sole che martella con esattezza la vela del tuo naso. Così passate sul ponte della provinciale il fiume ancora giovane, e cinquecento passi più in là abbandonate nuovamente l’asfalto, questa volta per una mulattiera che risale a curve lente la testa della valle. Anche se la pendenza è modesta fa un caldo da impazzire, e la semplice idea di quattrocento metri di dislivello basta a tagliare il fiato. Mentre salite piegati in avanti, il prossimo passo già chiaro in mente, cerchi di allontanare il pensiero che domani tuo fratello partirà, e puoi sentirti pieno di dispiacere e gratitudine ogni volta che vi fermate per bere dalla stessa borraccia. Quando è da poco passata l’una, la mulattiera guadagna la cresta e sbuca su una meravigliosa strada secondaria tutta curve, che segue senza strappi, simile a un percorso aereo, il profilo del crinale maestro. Verso sinistra, la strada conduce al borgo di Castiglioncello del Trinerò, che distinguete a un tiro di voce quasi mimetizzato alla sommità d’un poggio boscoso, mentre nella direzione opposta corre in leggera


discesa verso Sarteano. Seguite la discesa, e verso Sud-Est si staglia fra le colline la mo-le di una montagna aspra e ritta, che vista da qui ricorda un immenso ceppo bruciato. Pensi che oltre la montagna, simile a una ferita verde fra le alture, deve stendersi la piana irrigata della Val di Chiana. Ti culla l’idea che potreste camminare ancora per molte ore, adesso che siete quasi anestetizzati dalla fatica e la strada si snoda in discesa. Andare avanti fino a che il torpore non prende il sopravvento, ma quasi subito trovate una terrazza panoramica rivolta verso l’Amiata. Tuo fratello propone di fermarsi a dare un’occhiata, e appena abbandonate la carreggiata l’anestesia svanisce, lascia posto all’urgenza di riposare e mangiare qualcosa. Un parapetto in legno corre per cinquanta passi lungo il limitare dello strapiombo oltre il quale la vista può spaziare d’infilata lungo la valle dell’Orda. Ieri ne avete intravisto uno scorcio, e adesso che state per abbandonarla, vi si offre distesa fino alle ripe scoscese che la serrano fra Vignoni e la Rocca di Castiglione. Con l’aiuto della Multigraphic, mantenendo come riferimento la piramide dell’Amiata, individui anche gli abitati di San Quirico e Pienza, ma in nessun modo riesci a scorgere Montepulciano, do-ve si era ritirato Paz gli ultimi anni. Per un po’ restate a scrutare il mare d’erba delle colline solcate da strade bianche, e il cuore della terrazza è occupato da due postazioni da pic-nic. Sono tavoli calcinati dal sole, affiancati dalle lunghe sedute di panche in legno che sembrano sorgere direttamente dal suolo, e a poca distanza dai tavoli si vede un bidone di metallo per l’immondizia, ancorato a un paletto di ferro che il vento non lo rovesci. «È strano pensare che ogni tanto passa da qui un furgone della nettezza urbana» dice tuo fratello, e solo all’ultimo vi appare un terzo tavolo, incassato fra l’estremità del parapetto e la prima selva. Un leccio proietta la sua ombra a perpendicolo sul piano del tavolo e le panche, ne fa una sorta di ridotto dove, anche al-l’una e mezza d’un giorno soleggiato, sembra esserci posto per la frescura. Così vi installate al tavolo in ombra, seduti uno di fronte all’altro. Nel Salewa restano un po’ di olive e mezza forma di pane to-scano, e solo quando tuo fratello domanda di passargli l’acqua, ti rendi conto che anche lui deve averla finita. «Che cazzo» dice, «sembra che facciamo apposta.» Mangiate in silenzio il pane e le olive, e senza niente da bere so-lo la pasta d’acciughe sarebbe una pietanza più micidiale. Potreste spingervi alle prime case del paese mimetizzato fra gli alberi sulla sommità del poggio. Disterà sì e no cinque minuti, ma adesso che vi siete fermati nessuno dei due ha troppa voglia di muoversi. Così, mentre ti confezioni una sigaretta, tuo fratello srotola il modulo ai piedi del tavolo, estrae dallo zaino il tomo universitario su De Gaulle e si sdraia a leggere ventre a terra. «Ho i piedi a pezzi» dice pieno di sonno dopo poco che legge.


«Mi pulsano le caviglie. E gradirei immensamente che arrivassero a portarmi qualcosa di fresco da bere.» «Questa sera» dici soffiando fuori il fumo. «A Sarteano svali-giamo il bar.» «Dovremmo farne più spesso, di queste trasferte» dice mentre gli si chiudono gli occhi. «Magari una volta potremmo portarci dietro anche le donne.» «Oi» dici, e pensi che forse una volta ci riuscirete. «Anche se loro, con questi zaini da forzati e niente di fresco da bere, non è mica detto che resistano.» Sta ancora parlando, mentre la testa gli scivola lenta sulle pagine del tomo aperto. Per un po’ il cuore della terrazza panoramica sembra il regno esclusivo di cavallette e api. Hai fumato la tua sigaretta e sei indeciso se fabbricarne una seconda, quando distingui nel vento un canto aspirato di pistoni che risale la cresta. Scruti verso la strada, curioso e già infastidito all’idea che qualcuno possa arrivare qui semplicemente dosando il gas. Dalla qualità del suono si indovina che è una moto di grossa ci-lindrata, ma ti stupisci lo stesso quando vedi spuntare i caschi in-tegrali, dipinti a tinte sgargianti, di una coppia in sella a una colossale Bmw carenata. Il nocchiero alla guida si accorge della terrazza all’ultimo momento: scala due marce in sequenza e, senza che la moto riesca a impuntarsi o scodare, la costringe oltre il ciglio dell’asfalto, all’altezza dei tavoli schierati sotto il sole. Sembra da subito un uomo molto alto e anche il torace, fasciato da un giubbotto da gara, pare quello di un peso massimo. Quando poggia il piede a terra per dare modo al passeggero di smontare, la cavalcatura carenata resta perfettamente in equilibrio sul suo asse. Il passeggero è un’amazzone dal portamento slanciato, fasciata per intero da una tuta in pelle color della notte. Le sue gambe sono lunghe e snelle, e la tuta aderente disegna i fianchi dell’amazzone, ne comprime i seni e li fa apparire simili a colline gemelle, certo d’origine vulcanica, pronte a esplodere da un momento all’altro. Per un po’ vedi il nocchiero a casco chino sul serbatoio, come una persona che rifletta dentro una grande stanchezza. Poi si spegne anche il canto sommesso del motore in folle. L’uomo smonta e, dentro un movimento fluido che non sembra costargli fatica, solleva sul cavalletto la cavalcatura carenata. Nel frattempo l’amazzone, il guscio del casco chiuso in testa, avanza verso le postazioni da picnic a passi cauti. C’è qualcosa di indeciso in maniera strutturale, nel suo incedere, e quando raggiunge il primo tavolino lo carezza. I suoi guanti, carichi d’inserti in plastica rigida, ricordano quelli degli sciatori professionisti, e mentre provi a immaginare il cortocircuito climatico che può essersi creato sotto la tuta


sigillata fino alla gola, qualcosa che somiglia a un brivido, o una puntura diffusa, ti corre lungo il filo della schiena. Fra poco, si accorgerà di te, e in un certo senso pregusti il momento in cui il tuo saluto risuonerà netto e amichevole come quello dei veri gentiluomini. Non importa, se non fai una doccia da cinque giorni, o se tuo fratello dorme con il viso premuto contro le pagine spiegazzate del tomo dedicato al maledetto De Gaulle, perché gli zaini ribaltati fra l’erba fanno di voi gentiluomini d’antica stirpe, i nobili camminatori che non hanno bisogno di nessunissima cavalcatura. Adesso l’amazzone dirige verso il parapetto. Sfila a venti passi dal vostro ridotto in ombra, e il sole riverbera tutti i colori dell’iri-de, scansionati in minuscole gocce, sullo specchio curvo della sua visiera. O non t’ha visto, o ha fatto finta di niente, e in ogni caso il saluto ti sfiorisce sulle labbra mentre la vedi avanzare malferma fino al parapetto. Con una mano si sostiene alla traversa, fa scivolare l’altra sotto la gola. In qualche modo apre il cinghietto del casco, e contorcendosi senza grazia lotta per sfilarlo dalla mentoniera. Quando riesce a sfilarlo lo lascia cadere nell’erba, afferra a due mani la traversa e prende a scuotere la testa all’indietro. Ha i capelli color rame, tagliati alla spalla, e la sua pelle candida, il naso sottile e tempestato di lentiggini, ti richiamano alla mente una canzone di Zappa, un pezzo scintillante e grottesco dedicato a una principessa arrogante, ansiosa d’inghiottire l’orgoglio dei suoi sudditi. Per un po’, sostenendosi alla traversa, l’amazzone ruota la testa, le labbra semiaperte, con una lentezza che mette languore. E poi la senti intonare senza un rimpianto la nota scura e vibrante d’un brutto flato di gola. Ti chiudi il naso per soffocare una risata, e ti spiace che tuo fratello cada addormentato ogni volta che vi fermate a pranzo. Adesso il nocchiero avanza attraverso la radura, il casco in ma-no. «Ehi, miele» la chiama in inglese, e il suo accento è lagnoso co-me quello dei paperi Disney. «Dove ti sei cacciata, miele?» È una specie di colosso, forse un ex giocatore di football a livello universitario, e solo quando arriva all’altezza dei tavolini si accorge della donna in difficoltà. L’amazzone tenta una seconda prodezza di gola, ma le esce un suono marcio, da refettorio di caserma, e subito si piega ad abbracciare la traversa. Prova a prendere fiato e poi, senza poterci fare niente, comincia a ruggire verso la scarpata i suoi scrosci. Allora il nocchiero deposita il casco su uno dei tavolini in pieno sole, e senza fretta la raggiunge. Tuo fratello adesso mormora qualcosa nel sonno, ma la voce esce soffocata, come se tutta la carta del libro che impiega come guanciale ne assorbisse l’intenzione. Mentre aspetta a braccia incrociate, il nocchiero si controlla gli stivali, o qualcosa di vicino agli stivali.


Solo quando l’amazzone smette di ruggire contro la valle, si azzarda ad abbracciarla con fare pietoso. L’abbraccia, e dentro quell’estrema vicinanza ne profitta per ravviarle i capelli color rame dietro le orecchie. Sono orecchie piccole e bianche, graficamente perfette, e il nocchiero ci sussurra qualcosa vicino. Alla fine sprigiona una risata ululante e sgarbata, e dopo un po’ anche l’amazzone ride, dapprima senza entusiasmo e poi sempre più convinta. Parlando fra loro, scambiano opinioni con voci lagnose, e non basta conoscere l’inglese per capire davvero cosa si dicono. Poi il nocchiero recupera il casco che l’amazzone ha lasciato cadere in mezzo all’erba e, senza mai volgersi sul serio nella vostra direzione, i due vanno a sedersi a un tavolino in pieno sole. Adesso parlano con il tono di chi deve prendere una decisione, e quando forse l’hanno presa il nocchiero si spinge verso il profilo della cavalcatura carenata in attesa al limitare del prato. Lo vedi carezzare la curva della sella, e poi da una delle valigie in plastica rigida alloggiate sui lati della coda estrae un grande sacchetto termico color argento. Dal vostro riparo sotto il leccio lo segui mentre torna verso il tavolino. Vedi uscire dal sacchetto termico una tovaglia e le posate, e poi lattine di birra, banane, hotdog, frigoverre sigillati e barattoli che sembrano contenere burro d’arachidi. I due apparecchiano in silenzio, sotto un riverbero che stordi-sce. Resti a guardarli mentre aprono i frigoverre e sistemano i piatti con cura. Quando il nocchiero prova ad aprire una lattina di birra, un fiotto di schiuma si riversa sul tavolo, bagna la tovaglia e forse bagna l’amazzone. Salgono strepiti di protesta, in ogni caso, e finalmente tuo fratello si sveglia. Pallido e smorto, solleva il volto dalle pagine del libro, e i suoi occhi sono in fiamme come quelli di un ubriaco. «Da dove spuntano questi due?» sussurra sollevandosi a sedere, e mentre gli rispondi il nocchiero si accorge del movimento all’ombra del leccio. Confida qualcosa all’amazzone, lei si volta nella vostra direzione e, quando incrocia il tuo sguardo, sgrana gli occhi come una specie di sciocca devastata dalla sorpresa. Solo dopo il nocchiero leva un braccio grosso quanto la coscia d’un uomo normale, e in modo timido prende a salutare. «Mor-ning» dice pieno di speranza. «Hello, gente.» «Hello» dici. «Buona giornata.» Per non lasciare dubbi sul fatto che siete gentiluomini, prendi anche tu un libro dallo zaino e ti siedi all’indiana sull’estremità del modulo. Leggi Un avamposto del progresso senza sollevare lo sguardo dalle pagine. Non vuoi guardarli, mentre si arrostiscono senza causa, seduti intorno all’incudine del tavolino imbandito sotto le martellate del sole meridiano. Se sono persone sensibili si sentiranno come minimo degli sprovveduti, e non vuoi aggravare il loro


imbarazzo. Tuo fratello invece li tiene d’occhio, e con voce esilarata ti aggiorna di continuo. «La gnocca si terge la fronte» t’informa. «Il giandone ha fatto fuori un altro hotdog», e sembra che la gnocca si terga la fronte una dozzina di volte, prima che il nocchiero trovi il coraggio di avvicinarsi al vostro ridotto, mostrando i palmi aperti delle mani come un prigioniero che venga a consegnarsi. È il prigioniero più imponente che si sia mai visto dai tempi dei Visigoti, e con voce lagnosa domanda se potete farli sedere un po’ all’ombra. «Poco fa la mia signora si è sentita male» spiega nella sua lingua. Anche se si sforza di scandire bene le parole, è come se non pronunciasse del tutto le consonanti, e voi due non siete veloci a rispondere. «Il vino italiano non va d’accordo con le strade di campagna italiane» aggiunge scoprendo la chiostra dei denti. Le sue gengive hanno un che di pallido e forse spera che la spiritosaggine di cui ha dato prova faciliterà le cose. Adesso che hanno invaso il tavolino in ombra con tutto il ba-raccone di barattoli e posate, il nocchiero e l’amazzone si affretta-no a dichiarare che la Toscana è merravilioso e il popolo italiano very nice. Seduti di fronte a voi, gli stivali a mezzo palmo dai vostri scarponi, sembrano preoccupati soprattutto di compiacervi. Il nocchiero domanda se siete diretti a Chianciano Terme, e quando raccontate che state traversando l’Italia da un mare al-l’altro sorride senza capire. «Ho paura di diventare una specie di morto vivente» dici. «Fino a pochi anni fa ero libero, senza doppi sensi, come gli uccelli del cielo. Adesso invece sono di nuovo circondato da una famiglia e, provate a seguirmi, da tutto me stesso. Così, per perdermi un poco, rarefarmi quasi, ho deciso di mettermi in marcia. Torno a piedi da mia moglie e il bambino, chiaro, sì?» «È una specie di pellegrinaggio» dice tuo fratello ai due che vi guardano intimoriti. «Un pellegrinaggio propiziatorio, kapish?» «Nettamente» dici. «Un pellegrinaggio e un ritorno.» Solo quando spiegate di essere fratelli, i due cominciano a riconoscere qualcosa di già mappato nelle carte astrali a loro disposizione e si rilassano. Il sacchetto termico è ancora pieno di provviste, e il nocchiero insiste per offrirvi acqua fresca, mele e un paio di hot-dog dal pa-ne fradicio di salsa. Mentre mangiate gli hotdog, per ravvivare la conversazione, l’amazzone domanda se preferite Pavarotti o la musica rock. Anche loro dicono di amare il rock, e il loro cantante preferito è Tom Petty. Arrivano da Milwaukee, Wisconsin. È la città di Fonzie ma i due dove lavorano come funzionari per una compagnia di navi-gazione lacustre e, a quanto sostengono, sarebbero arrivati in spedizione in Toscana


insieme a un gruppo di amici. Li incontreranno questa sera a Chianciano Terme, dove il tour manager austriaco ha prenotato stanze per tutti in un hotel di lusso. Il nocchiero e l’amazzone sono entusiasti degli alberghi e i ristoranti dove hanno fatto tappa insieme al resto della spedizione, e vi raccontano che il tour manager austriaco li ha accolti all’aeroporto di Firenze con il camion officina e le moto che avevano sele-zionato via internet, direttamente da casa, all’interno della sua enorme scuderia. Il tour manager parla inglese, tedesco e italiano, fa da meccanico e risolve i problemi che possono sorgere lontano da casa, persino negli hotel di gran lusso. Di solito a ora di pranzo provvede a farsi trovare a un punto prefissato, con il camion-officina, e allestisce il barbecue per tutta la spedizione. «Accidenti» tuo fratello dice. «È come un angelo custode, ma scommetto vi costerà un bel po’.» «Oh no» dice il nocchiero. «Siamo dieci amici, e la Toscana è chcap, per noi.» Se non vedete gli amici e il camion-officina, spiega l’amazzone, è solo perché oggi è il big day out, il giorno dedicato all’avventura. «Dobbiamo arrivare a Chianciano Terme da soli» dice, poi si stringe nelle spalle, e sgranando gli occhi solleva le sopracciglia, come a dire che forse non basterà mettercela tutta. Adesso non sembra più una principessa, ma solo una turista dalla gola molle che s’ispira alla mimica a scatti delle attrici televisive. «Miele non si fida di me» il nocchiero dice. «Non si è mai fidata al cento per cento. Eppure potete scommetterci, che prima di sera la porterò da qualche parte.» «Per Chianciano saranno venti chilometri» dice tuo fratello. «E se vi perdete, potete sempre chiamare il tour manager.» «Lo paghiamo apposta» spiega il nocchiero senza un’ombra di ironia. «Lo sapete» dice, «quell’uomo è una specie di esploratore. Conosce tutta l’Europa, e ogni anno ci porta in un paese diverso.» «Siamo stati anche in Spagna, con lui» dice l’amazzone. «È lontana, da qui, la Spagna?» «Oi» dici. «Con una moto come la vostra, potete arrivarci in un paio di giorni.» «Il bello dell’Europa» lei dice, «è che i paesi sono tutti così vicini. La Toscana, la Spagna, il Marocco.» «Ci siamo andati l’anno scorso, in Marocco» confessa l’uomo. «Là però è diverso. C’è la sabbia sulle strade, e servono filtri speciali per la marmitta e il motore.» «Anche la gente è diversa» vi ragguaglia l’amazzone. «Sono poveri laggiù. Più poveri di qui, e così provano sempre a venderti la droga.»


«È un re cattivo, il re di Marocco. Forse più cattivo di Saddam» insiste il nocchiero, e voi scambiate uno sguardo che comprende tutte le possibilità di un’insurrezione imminente. «La gente cammina senza scarpe mentre il re ha un palazzo magnifico, e le guardie schierate davanti le ha addestrate Saddam.» «Davvero?» tuo fratello dice. «Io non credo.» «Sono tutti amici di Saddam. Il re, le guardie, e i musulmani senza scarpe che vendono la droga.» A un certo punto ti ricordi del Gerber che pesa in tasca, immagini il nocchiero che becca una pugnalata in pancia e, grosso com’è, comincia a piagnucolare provando a tamponare la ferita. Se lo colpissi con una pugnalata, la prossima volta ci penserebbe su, prima di arrivare da una città di nome Milwaukee per sba-vare condiscendenza sulla vostra gente e i poveri sudditi senza scarpe del re di Marocco. «Voi non siete musulmani, vero?» domanda la donna nascondendo la bocca con le dita sottili, e tu pensi che se li pugnali non saprai mai fino a che punto hanno le idee chiare. «Cristiani» scuote sconsolato la testa tuo fratello. «Cristiani cattolici. Come tradizione di famiglia, intendo. Non ciellini, in ogni caso, e neppure dell’Opus Dei. Come si dice cristiani progressisti? Esistono da voi? Very progressive christians, okay?» L’amazzone ride, e ormai ha registrato quel che le interessa. «Anche noi» sgrana gli occhi, «siamo cattolici.» Con un sorriso da martire volontaria abbassa per un palmo la zip della tuta da motociclista. Fra le pendici lentigginose delle colline gemelle coperte di minuscole gocce, balugina solido l’argento d’un piccolo crocifisso, e per un po’ ridete tutti insieme. «Sul serio, gente» dice il nocchiero. «Voi siete bravi ragazzi, ma in Marocco c’era da avere paura.» Anche se è già passato un anno, si vede che crede d’averla scampata bella. «Tutti quei musulmani senza scarpe» dice in una smorfia, e con la mano forse sta spaz-zando via un brutto ricordo. «Il tourmanager aveva assunto un po’ d’uomini di scorta» spiega la donna, «e la scorta viaggiava su due pickup, uno ad aprire la strada e uno a chiudere la carovana.» «Erano guerrieri tuareg» puntualizza lui, e per un po’ ti immagini questi scalzacani della periferia di Casablanca costretti dal tourmanager a indossare i turbanti per fare scena. «Tuareg democratici, nemici di Saddam, e ogni volta che ci fermavamo per il pranzo, con i fucili tenevano lontano tutta la gente senza scarpe che cercavano di venderti la droga.» «Be’» dice tuo fratello a mezza voce, «io credo che andrò in bagno.» «Sorry» dice mentre esce dal riparo dal tavolo e si avvia lungo una traccia che guadagna il cuore della macchia. «Toilet.» «So che è un argomento delicato» sorride il nocchiero appena tuo fratello è scomparso, «ma non c’è


bisogno di dire che siete fratelli. Non abbiamo problemi, noialtri, con la gente omosessuale.» «Nemmeno noi» dici incredulo. «Sul serio. È solo che siamo fratelli da un sacco di tempo.» «Sono fratelli» dice la donna. «Cosa ti dicevo?» «È vero, lei era quasi sicura. Siamo stati fortunati a incontrare due italiani perbene» dice il nocchiero. «Cattolici» enumera con le dita, «fratelli, e perbene.» Per un po’ ti sorride, e forse aspetta che tu dica “Troppo buono, signò”, o tenti di baciargli le mani. Adesso te la vedi in testa, la pellicola di come dovrebbero andare le cose. Il montaggio è serrato, e in queste scene di grande in-tensità, qualcuno perde la pazienza con i due colonialisti luridi e, senza lasciarsi impietosire, decide di fare giustizia. Sorridi all’amazzone, chiudi gli occhi, e la pellicola che ti scorre in testa, con Mario Adorf e Philippe Leroy nei panni dei due fratelli, è semplicemente esaltante. Lei non ha più la tuta addosso, mentre la legano al tronco del leccio insieme al cadavere dell’americano. Piange a occhi bassi, e nella penultima sequenza Mario Adorf svelle a calci un paio di montanti del parapetto di legno. Crea un varco abbastanza ampio per la cavalcatura dalla grande carena, e ghignando contro il cielo, con una mezza rincorsa la spinge oltre il limitare della scarpata. «Molto bene» dice tuo fratello mentre rispunta dalla macchia. «Grazie per l’acqua e tutto il resto, amici.» «Andiamo?» domandi, e l’anticipo del sollievo ti spinge in piedi, via dalla panca. «Sono le tre» lui dice. «Forse è meglio che andiamo.» Non c’è niente che vi appartenga, sul tavolino ingombro di barattoli e frigoverre. Tuo fratello ha ragione. Non servirà minaccia-re nessuno con il Gerber, né evocare le ombre giovani di Adorf e Leroy. Basta chinarsi a imbracciare lo zaino, issarlo in spalla, chiudere il cinturone e lasciare i colonialisti luridi a marcire. «Okay gente» dice il nocchiero con lo stesso sorriso fasullo dell’inizio. Forse l’ha capito, che alla fine non vi stanno così simpatici. «È stato fantastico conoscervi.» «Oh sì» conferma l’amazzone facendo ondeggiare i capelli color rame. Anche lei sembra sorpresa di tutta quella fretta. «È stata un’esperienza interessante» dice confusa. «Non avevamo mai conosciuto due italiani fratelli». «Allora» dici agganciando i due elementi in plastica nera che chiudono il cinturone del Salewa, «divertitevi, stasera. E salutate gli amici.» «Gli amici, e il tourmanager» aggiunge tuo fratello mentre già si allontana attraverso il po’ di prato, aggiustando in testa il berretto dalla visiera a becco. «Soprattutto, il tourmanager.»


Per un po’ non dite niente, solo vi preoccupate di aumentare la forbice della distanza. Solo mentre uscite dalla prima curva, tuo fratello comincia a ridere. Ride come un uomo in preda a una brutta crisi isterica, e senza smettere di camminare stringe fra due dita l’attaccatura del naso. «Ragazzi» dice con gli occhi pieni di lacrime, «quando hanno tirato fuori i tuareg democratici, non ci ho visto più.» La strada serpeggia in modesta discesa nell’aperto delle vigne, e attraverso la quinta di filari vedete stagliarsi il paese di Sarteano, adagiato intorno al cassero quadrato del suo castello. L’abitato sorge al limitare dei boschi, a cavaliere dell’estrema innervatura di colline affacciate sulla depressione della Val di Chiana e, appena sotto il nido di case, il velo sottile dell’umidità ristagna sul mosaico regolare dei coltivi. I solchi dei canali artificiali, progettati da Leonardo per invertire il corso del fiume Chiani impaludato, coprono la pianura come un fitto reticolo, e l’Autostrada del Sole, vista da qui, è una pista ampia e dritta di cui puoi a stento distinguere l’inclinazione. Più in là, baluginano sotto il sole i veli d’acqua dei laghi di Chiusi e Montepulciano, così vicini che le rive sembrano toccarsi. Pensi che domani, quando sarete laggiù, sprofondati a meno di trecento metri sul livello del mare e lontanissimi dalla costa, l’aria non sarà più così fina, e dopo un po’ vedi che tuo fratello muove la mano, come una specie di burattinaio, sotto il foulard che gli ripara la nuca. «Non ho nessuna voglia di prendere il treno» dice. «Tornare in mezzo alla fretta, il rumore e tutto il resto», e guardando a valle pare di poterlo toccare con mano, il genere di furia meccanizzata cui scendete incontro. «Però» dice considerando i tetti di Sarteano radunati intorno al cassero del castello, «questo paese sembra l’ultimo ancora al riparo». «Intanto facciamo tappa laggiù» dici, «e domani scendiamo con calma in pianura. Neanch’io ho tanta voglia, di vedere da vicino la fretta che dici.» Vi avvicinate a una zona più turistica e rassicurante di quelle che avete traversato fin qui, e mentre scendete verso il paese, sullo sfondo, simile all’estremo argine del mondo, vi appare per la prima volta la dorsale dell’Appennino: il continuo di cime possenti e affratellate si presenta a distanza di molti giorni come lo sbarramento definitivo, al di là del quale i fiumi scendono in fretta verso l’Adriatico. Adesso la strada scende fra gli alberi, raggiunge una sterrata che vi conduce a traversare un pianoro coltivato a grano, e contro le messi mature, nella luce tersa che precede il crepuscolo, spicca il rosso dei papaveri. Per un po’ un respiro che sale, simile al latrare soffocato di decine di cuccioli, riempie il vostro piccolo orizzonte. Qualunque cosa sia, si fa più intenso e vibrante man mano che vi avvicinate a una casa di sasso posta a ridosso della provinciale, e vi meravi-gliate quando capite che non sono cani, ma il tubare di centinaia di piccioni viaggiatori che affollano una colombaia. «Siamo così vicini che il paese non si vede più» tuo fratello di-ce. «Appena arriviamo, senza tante


pugnette, ci tuffiamo dentro un bar.» «Scandiscono le tappe, questi cavolo di bar.» «Sono tutto quello che resta degli ostelli per i pellegrini. E poi è la mia ultima sera e kapish, pensavo di comprare una bottiglia per celebrare.» Lungo la strada principale, davanti alle filiali delle banche, si aprono piccole aiuole impeccabili. Ai piedi del borgo, contro un muro di contenimento, spiccano i manifesti dei candidati affissi ai pannelli in alluminio della propaganda diretta, e se pure non conosci quasi nessuno degli aspiranti eurodeputati, l’impressione è che da queste parti il centro-sinistra vincerà facile. Ai piedi della piazza principale c’è un palazzo cui sembra essere stata tagliata un’ala, e un pergolato dal fondo di ghiaia ne chiude il cortile sul retro del palazzo. Un’intera tribù di anziani, perlopiù in abito scuro e cappello, gioca a carte ai tavolini sotto il pergolato. Devono essere in corso una dozzina di partite in simultanea, e se pure si tratta solo di un circolo Arci, un silenzio semiprofessionistico, carico d’ipotesi e subipotesi, aleggia sulle teste dei giocatori. Sul fondo del cortile, un portone aperto conduce alla sala bar, e mentre sfilate fra i tavolini nessuno sembra fare caso a voi o gli zaini. Dentro possono esserci venti uomini, radunati a sedere sotto la finestrella d’un Synudine che manda in onda le immagini in diretta del Giro. Possono esserci venti uomini, radunati sotto la finestrella, e so-lo di tanto in tanto qualcuno esprime un commento ad alta voce, quasi sempre per criticare la tattica attendista degli uomini di Ci-pollini e la loro tenuta zebrata. Per il resto, si sente solo la voce di De Zan, esaltato dalla fuga d’altri tempi di Damiano Cunego sulle rampe delle Dolomiti, e nessuno degna di uno sguardo la giovane dal volto nobile prigioniera dietro il bancone. Legge una copia del mensile “Stilosa” addossata alle mensole di amari e sciroppi alla frutta, e dentro il suo isolamento a tenuta stagna ti sembra la ragazza più graziosa e annoiata del mondo. Posate gli zaini contro il muro, a un passo da un tavolino libero sul fondo della sala. Forse tuo fratello non ha notato la ragazza, perché si siede con gesti lenti, già ipnotizzato dalla festa rosa che va in onda sulla finestrella del Synudine. «Sono vicini a Brunico» mormora. «Una volta o l’altra, accidenti, voglio tornare a vederli passare.» «Ci torneremo» dici, ma sai già che nessuna festa su due ruote potrà pareggiare la scarica selvaggia d’entusiasmo che hai provato a Parigi, assediato contro le transenne dalla folla immane degli Champs Elysées, la volta che hai visto il Pirata di Cesenatico sfilare come un eroe pagano sotto il traguardo del Tour. Non lo dimenti-cherai più, né scorderai il genere di luce che mandavano dal podio i suoi occhi, e quelli del gigante tedesco che aveva appena battuto.


«Il ragazzo sta dando la paga al suo capitano» commenta sommesso tuo fratello senza distogliere lo sguardo dal Synudine. «Se non molla, darà la paga a tutti». «Che ne dici di una birra?» lo incoraggi. Guardi la ragazza che legge, guardi il portone aperto della sa-la-bar e speri che non entri nessuno a disturbarla. «Mi prendi un chinotto?» tuo fratello dice. «Anzi, una limonata.» «D’accordo» dici e, per non fare scricchiolare gli scarponi sul fondo a piastrelle della sala, prendi ad avanzare verso il bancone a passi minuscoli, come una specie di vecchia cinese. Dall’orbita a tutto sesto del portone si vedono solo vecchi seduti sotto il pergolato, e non c’è nessuna fretta di disturbare la ragazza. Sfoglia il fascicolo di “Stilosa”, e per un po’ resti a guardare le dita sottili che reggono i lembi della copertina dedicata agli sca-poli d’oro del cinema italiano. È una rivista del cavolo, ma vedere i suoi polsi bianchi impegnati a reggerne il modesto peso è sufficiente a ricondurti nel luogo in cui ti sei trovato poche ore fa, quando hai visto l’amazzone scendere dalla cavalcatura carenata, fasciata per intero dalla tuta color della notte. Senti un gran caldo alle tempie, e mentre pensi che non è sano incontrare così poche donne, scorgi la tua immagine riflessa nella specchiera delle mensole. Fra le bottiglie d’orzata e tamarindo, ti sembra d’essere abbronzato in maniera quasi oltraggiosa. Hai i capelli schiacciati all’indietro, e la barba disegna un bavaglio scuro dal quale emerge a malapena la linea delle labbra. Anche la maglia che indossi è stinta dal sole, e le cuciture sulle spalle sono nettamente lacere. Poi vedi la ragazza che lancia uno sguardo curioso nella tua direzione, e cordialmente impettisci. Ripone la rivista da qualche parte sotto il piano di lavoro. «Stavo leggendo» dice in tono quasi dispiaciuto, e la sua voce è la più soave che ascolti da molti giorni. Se speri di fare colpo, meglio ammettere con te stesso che non potrai giocare la carta dell’ele-ganza pura. «Anche a me piace leggere. Nettamente» sorridi, tentando di sprigionare un’urbana cordialità. «E cosa leggevi, di bello?» «Adesso sciocchezze» dice la ragazza, e forse lontano da qui è persino una lettrice di libri. «Dicono che un’equipe di scienziati, in America, abbia isolato il principio attivo della gelosia.» «Ah» dici. «E cosa ci fanno, adesso?» «Per ora l’hanno isolato nelle cavie. Forse più avanti riusciran-no a preparare una medicina per gli uomini» sorride lei. «Una medicina per curare la gelosia» consideri. Se non fai qualcosa per renderti interessante entro i


prossimi due secondi e mezzo, la ragazza domanderà se vuoi un caffè o cosa, e allora buona-notte al secchio. «Io comunque» getti il cuore oltre l’ostacolo, «sono contrario con tutto me stesso allo strapotere della scienza. Se uno è geloso, mi dico, pace. Imparerà a gestire la sua gelosia, o non imparerà. Amen. Ma non vorrei mai….» «Ascolta» la ragazza t’interrompe. «La mia libertà finisce dove inizia quella degli altri, giusto?» «Certo» ripieghi. «Ma certo.» «La gelosia non è qualcosa che ferisce noi stessi» dice la ragazza. La sua voce è sicura, ma non ha il tono aspro di qualcuno che desidera ammaestrarti. «È una specie di aggressività che opprime gli altri, la tua fidanzata, ad esempio. Va trattata come una piaga sociale, se vuoi, perché i gelosi seminano zizzania in giro.» Non ha bisogno di controllare se la stai seguendo, perché ti guarda tutto il tempo dritta negli occhi. «Ecco perché ci andrei cauta» sorride, «prima di condannare a priori una medicina che potrebbe aiu-tarci tutti.» «È fantastico, ascoltarti» ti sciogli. «Non sono d’accordo su quasi niente, ma è proprio bello.» «E se vuoi saperlo» sussurra lei senza distogliere lo sguardo, «stavo pensando che, appena entrerà in commercio, potrei farla prendere di nascosto al mio ragazzo.» «Perché no» sibili sprofondando a tutta velocità. Dunque, ti dici mentre sprofondi, questa povera ragazza è scontenta. Dovrei correre in suo soccorso. Mostrarle che al mondo esistono anche gentiluomini, per quanto sul momento possano apparire male in arnese. «La gelosia» è l’unica cosa che ti viene alle labbra, «è forse la forma più classica del desiderio mimetico.» La voce sembra uscirti sotto pressione. «Anche nella Bibbia Erode desiderava la moglie di suo fratello.» «Erode» sospira, «sarebbe un soprannome adatto, per il mio ragazzo.» Ma allora, ti dici, non è solo scontenta. È scontentissima, codice rosso, caso urgente. Come sotto la visita d’una folgore, realizzi per la prima volta che tua moglie e il bambino sono lontanissimi. Sono in città, o addirittura in viaggio verso il mare, mentre il tuo corpo è esattamente qui, a un braccio da un caso urgente, e per un po’ ti vedi ad azzuffarti con questo Erode sconosciuto, le cascate di riccioli profumati che escono da sotto il cerchio della corona da tetrarca. La ragazza ti sorride, e hai l’impressione che assista in diretta alle tue fantasie. «Cosa bevi?» ti mitraglia al suolo, e nella confusione del disastro non ricordi più cosa volesse tuo fratello.


«Due birre» reagisci. «Birre medie.» E poi, dentro un tentativo disperato per riprendere quota, domandi alla ragazza se conosce un buon posto dove due pellegrini possono piantare una tenda a igloo. «C’è un campeggio in paese» dice recuperando i boccali da una mensola. «Un bel campeggio con piscina. Come siete, in bici?» «Non c’è nessuna bici» dici senza filtrare la fierezza, «andiamo a piedi verso l’Adriatico.» La ragazza lancia uno sguardo a tuo fratello e gli zaini, poi guarda verso il Synudine in fondo alla sala, che adesso mostra il treno colorato del gruppo, sgranato lungo la salita fra gli abeti. «Beati voi che vi divertite» dice spillando la prima birra. «Io sono murata qui fino alla vigilia di ferragosto.» Se dice così, pensi esaltato dalla confidenza che pare mostrarti, forse domani sera dovrei invitarla a cena. «Siamo partiti una settimana fa, da una stazioncina del cavolo lungo la linea tirrenica, e domani a Chiusi raggiungiamo l’asse ferroviario principale.» Dici così, e pensi che forse l’hai presa un po’ larga. «Domani un treno condurrà mio fratello in città.» «Sì» lei dice. «E allora?» «Niente» dici, e speri che tuo fratello stia ancora seguendo il Giro. «Mi dicevo che sarebbe nettamente una buona idea, domani sera, cenare insieme. A Chiusi, qui o dove preferisci.» «Sei gentile» dice la ragazza a occhi bassi, «ma non so se il mio fidanzato è d’accordo, e non so se è d’accordo tua moglie.» Chissà da quanto l’aveva visto, il cavolo d’anello in oro bianco, ma ti dici che non importa. «Cenare insieme come amici» sussurri da un’altra dimensione mentre i boccali vengono posati sul bancone. «Ma solo se mi dici come ti chiami.» «Alena» dice, e anche tu ti presenti. «Stiamo correndo» dice lei a un certo punto, ma non sembra di-spiaciuta. E poi la vedi cambiare espressione, spostarsi in fretta verso la cassa. «Ora vattene» sussurra a occhi bassi, e subito dopo, mentre afferri i manici dei boccali, t’accorgi del garzone in full jeans, l’aria sciocca e la pettinatura da predatore di provincia, che appena oltre la soglia, ancora al fresco del pergolato, sembra assorbito nell’insana scommessa di aspirare una sigaretta in meno di due tiri. Da dietro la cassa la ragazza lo saluta, e quand’hai pagato ripieghi con le birre verso il vostro tavolo. «Non sei romantico» dice tuo fratello senza smettere di fissare il Synudine. «Sei pazzo. E non farmi dire nient’altro.»


«Perché dici?» sussurri con voce da paloma, e adesso che Erode entra nella sala sorride ebete alla ragazza di nome Alena. «Lascia perdere» tuo fratello dice, e per non guardare i due che si baciano provi anche tu ad appassionarti al commento febbrile di De Zan. Pensi che tuo fratello, a questo punto, ti farà in tutti i casi una specie di predica, e tanto vale crederci fino in fondo. «Dopo ti spiego» dici, e provando un’assurda calma, con i soliti passetti da cinese, vai a recuperare dallo scaffale del telefono pubblico il volume delle pagine gialle. Nel Salewa hai tutto quello che serve per scrivere un biglietto, e adesso basta trovare un locale dal nome suggestivo. Serve un nome suggestivo e, se è possibile, un locale che non disti chilometri dalla stazione di Chiusi. Il campeggio è delimitato da un ruscello incanalato con cura, e sulla recinzione svettano pennoni di metallo verniciati di verde racing. In cima ai pennoni garriscono nel vento della sera le bandiere di quasi tutte le nazioni in grado di portare turisti in questo paese circondato da vigne e boschi. «Quando arriva, di preciso, il Vietnamita?» domanda tuo fratello. «Domani parti e la mattina dopo arriva. Perché?» «Forse non dovrei lasciarti solo. Finisce che torni qui in taxi e inviti a cena la ragazza del bar.» «Adesso» dici. Ti senti un verme, a non raccontare che le hai già dato appuntamento, ma pensi che non riusciresti a spiegare in che senso, mentre preparavi il biglietto, ti sentivi felice e spaventato come a diciassette anni. Fingevi di prendere appunti sul taccuino, e intanto scrivevi veloce ad Alena che domani sera, fin dalle otto, l’aspetterai davanti all’Osteria del Vapore di Chiusi. «Comunque» tuo fratello dice, «può anche capitare. Di guardare un’altra, intendo. Penso sia naturale. È solo che mi sembravi in adorazione.» «Era molto carina» dici. «Questo campeggio, invece, sembra la sede della Nato o qualcosa del genere.» Alzate la tenda in una piazzola fuorimano, lontano dalla piscina e lontano dall’edificio dei bagni. Tuo fratello apre il doppio velo a zip dell’ingresso, s’installa al-l’interno per stendere il modulo e il sacco a pelo. Mentre ti siedi al largo della veranda pensi che hai fatto bene, a non lasciare nulla d’intentato, e prima di sera dovresti chiamare tua moglie. Per un po’ ti massaggi i polpacci. Li senti contratti, e quando provi a levare gli scarponi è come se i talloni si fossero gonfiati, così ti tocca sfilare i lacci passante per passante. Nemmeno far scivolare i piedi fuori dai calzini è un’operazione così ovvia, e con orrore ti rendi conto che sono arrivate a tenerti compagnia le vesciche. Ne vedi due, grosse come acini d’uva sui calcagni, e


sul piede destro ce n’è un’altra, gonfia di siero, sotto l’attaccatura dell’alluce. «Miseria gobba» dici piano. Non somigliano per niente alle in-nocue bolle sul calcagno che si vedono nella pubblicità dei cerotti Secundapelle, e ti domandi se anche le calzature medioevali riuscivano a produrre qualcosa di simile sui piedi dei pellegrini. «Fratello» lo chiami palòmico. «Passami il borsello per il rammendo, di grazia.» «Sto scrivendo un messaggio a Silvia» ti raggiunge la sua voce. «Te cos’hai, il culo di cemento?» «Non posso alzarmi in piedi» dici senza perdere la pazienza, «e avrei bisogno del borsello per il rammendo.» Sotto la vela color oro brunito del sovrattelo, per un po’ tuo fratello fruga nello zaino, e quando lo trova lo vedi sporgersi in mutande sotto l’esiguo riparo della veranda. «Ragazzi» dice quando vede i tuoi piedi. «Fanno male?» «Finché camminavamo» dici aprendo il borsello, «con gli scarponi allacciati stretti, non me ne ero neppure accorto.» «È strano» dice, «perché hai le gambe abbronzate, da persona in salute, e i piedi sembrano quelli di un cadavere.» «È con questo genere di spiritosaggini» dici aprendo il borsello, «che siamo arrivati fin qui. Però non è stato male. Ancora non ci credo che domani te ne vai.» «Accidenti» tuo fratello dice. «Non abbiamo comprato nessuna bottiglia, al bar.» Scegli un ago dal borsello e, mentre ti sporgi in modo goffo verso la sagoma reclinata del Salewa, lo stringi fra le labbra. Scoperchi lo zaino, e il nécessaire è quasi in cima, già a portata di mano. «Mi sa che ci tocca andare a cena fuori, stasera» tuo fratello di-ce. «Prima, sulle pagine gialle, ho visto che c’è una trattoria praticamente sulla piazza.» «D’accordo» dici mentre estrai dal nécessaire il flacone dell’acqua ossigenata. «Qe ja giamo guadagnata anche stavolta, e gli zaini sono al sicuro.» «Trattoria Tripitani’ si chiama» mormora lui, e poi resta a guardarti in silenzio mentre scaldi l’ago sulla fiamma del Bic. «Non sei messo bene» dice mentre il siero stilla fra l’erba. «Li abbiamo con noi, i cerotti Secundapelle?»


GIORNO OTTO. Da Sarteano a Cetona e Chiusi. Sulla piazza del paese nessuno vi sa indicare il modo di arrivare a Chiusi evitando la strada maestra, così decidete di seguire il sentiero di mezzacosta, punteggiato di segnavia biancorossi, che dall’ingresso del campeggio ripiega verso la montagna aspra e ritta. Da qui non ricorda più un ceppo bruciato, e la faggeta sembra rivestirla fino al cono della vetta. Ci sono numerose deviazioni, sul lato a monte, che conducono a grotte abitate fin dalla preistoria, e dopo un’ora di marcia uscite dal bosco in vista del paese di Cetona. Sembra costruito a spirale sui fianchi d’una collina, e una fitta corona di cipressi nasconde la base della fortezza dai torrioni ci-lindrici che ne occupa la sommità. La grande piazza oblunga ai piedi delle mura esterne sembra interessata da molti restauri in contemporanea, e voi vi spingete fino alla farmacia, dove il titolare, un uomo dai modi eleganti e misurati come un attore di teatro, ti rifornisce d’acqua ossigenata e cerotti Secundapelle. «Ho una paura dannata» dici mentre uscite dalla farmacia, «che il Vietnamita non si presenti.» «Perché non dovrebbe presentarsi?» domanda tuo fratello dentro uno sbadiglio. «Lo sai com’è. Un metro e ottantasette, sano come un pesce, ma quando lo prende l’ipocondria non c’è niente da fare.» «Se ha detto che viene, lo farà.» «Ma infatti. Arriva di sicuro, sul treno giusto o quello dopo, e mi toccherà tirarlo su di morale per tutto il tempo.» «È ancora sbalestrato per via dell’Arida e il matrimonio andato a monte?» «Non è andato a monte nessun matrimonio. Si sono soltanto lasciati.» «Lasciati. Però abitavano in una mansarda spettacolare con vista sulle Due Torri, e adesso è tornato da sua madre a Borgo Panigale.» «Appunto» dici. «Per un po’ è rimasto sbalestrato, ma adesso è tornato in sé, e così si è accorto della vita di merda che sta facendo.»


«Non gli piace, stare da sua madre?» «Ha trent’anni, e penso stia cercando un’altra casa. Un’altra ca-sa, e soprattutto un altro lavoro.» «Mi è sempre stato simpatico, il Viet, sin da quando mi ha insegnato a suonare la chitarra.» «Non ti ha insegnato lui.» «Mi ha insegnato a schiaffoni il maestro Semola, in effetti, ma è stato lui a strapparmi dal mondo della classica.» Pensi che forse tuo fratello poteva diventare un chitarrista ve-ro, o altrimenti un buon calciatore, e ti sembra strano pensare che anche per lui, ormai, l’età delle scelte è chiusa. Ai piedi degli ulivi sono spiegate grandi reti dalla trama scura, e quando vi arriva incontro una corriera dovete fare strada e saltare oltre il fosso in secca che corre parallelo all’asfalto. L’umidità sembra una cortina che aleggia sui coltivi e le case, e poi non sembra più niente che si possa distinguere, soltanto sudi anche procedendo in discesa, e quando il sudore scende attraverso le sopracciglia e finisce sugli occhi, ti asciughi con il lembo della maglietta senza smettere di camminare. Dietro l’ultimo sipario di fronde, la vista si apre su una depressione, simile a un immenso scavo perpendicolare al procedere della vostra strada, da cui sale l’eco sorda degli autoarticolati lanciati oltre i cento chilometri orari. L’autostrada scorre incassata fra declivi fitti d’erba, perfettamente rettilinea, e voi percorrete il cavalcavia attraverso la doppia fuga delle griglie di protezione. Sotto di voi, fra i fumi degli scarichi incombusti, sono centinaia sulle tolde dei camion e dentro il ventre di pesci di metallo, lanciati a gara lungo le corsie drit-te come i sentieri di Satana. L’antica Chiusi occupa dai tempi degli Etruschi la sommità d’un colle isolato, mentre voi procedete lungo la striscia d’erba che affianca la strada diretta alla borgata situata a ridosso dei binari che solcano la bassura. L’intera borgata si fonda su un ampio terrapieno, formato con i materiali di riporto ai tempi della bonifica, e il terrapieno costituisce una sorta di spartiacque artificiale, a Nord del quale le acque scorrono incanalate a irrigare la pianura fino alle porte di Arezzo, mentre a Mezzogiorno il ramo superstite del fiume Chiani scende come un tempo attraverso il territorio di Città della Pieve, verso la rupe di Orvieto e la valle del Tevere. Pensi che per prima cosa faresti bene a trovare una stanza per stasera. L’Osteria del Vapore dovrebbe trovarsi a un tiro di voce dalla stazione, e se esiste un albergo decente in quei paraggi, potrebbe essere il luogo ideale secondo tutti i punti di vista. «Appena ci siamo» dici mentre sfilate sotto il cartellone pubblicitario d’un agriturismo di lusso, «prendiamo una stanza e ap-poggiamo gli zaini fino all’ora del tuo treno.»


«Questa sera» tuo fratello dice, «fai il riccone in un letto vero, e poi domani, con il Vietnamita, torni a fare il pellegrino.» «Il riccone» ripeti, e pensi che un uomo senza scrupoli, nei tuoi panni, sceglierebbe una doppia. Poi la strada affianca i binari lucidi della ferrovia, e per l’una e mezza siete nel cuore della borgata, in mezzo al movimento di studenti delle superiori diretti ai treni e alle corriere. I più estroversi portano bandane in testa, canottiere e pantaloni bassi al cavallo, come aspiranti comparse di un balletto in tivù, e solo adesso ti rendi conto di aver traversato per giorni luoghi in cui la televisione, lontana com’è dall’essenzialità della terra, non riesce ancora a mordere né ispirare un bel niente. Sulla piazza della stazione c’è un albergo a tre stelle raccomandato dalla Guida del Giramondo. Entri fiducioso seguito da tuo fratello, e l’ambiente che vi accoglie oltre la porta a vetri è così piccolo che il banco della reception l’occupa per due terzi. Al riparo del banco carico di dépliant, regna una donna corpu-lenta e annoiata, le labbra pittate d’un brutto fucsia, che porta al collo l’immaginetta di Padre Pio. «Per questa sera c’è solo una doppia con il letto matrimoniale» informa a bruciapelo mentre v’incastonate con gli xaini nel poco spazio a disposizione, e sembra che comunicare questa semplice notizia basti a riscattarla dal tedio. «Va bene, per voi, il letto matrimoniale?» «Rimane solo lui» puntualizza tuo fratello. «Il sottoscritto parte con il treno delle cinque.» Pensi che è un equivoco e un segno del destino, e dici che se c’è solo la matrimoniale, la matrimoniale va benissimo. «Se resta solo il signore» filosofeggia la donna, «possiamo con-siderarla una doppia-uso-singolo. Così fanno quaranta euro a notte» e tu, maledicendola dentro di te, balbetti una specie di ringraziamento. E poi, mentre porgi la carta d’identità alla donna, quella specifica che i quaranta euro non comprendono la colazione né gli extra, e tu pensi che, se una serie di eventi si allineerà a tuo favore, ne serviranno altrettanti per corrompere il portiere notturno. Alla fine, dopo tutto il filosofeggiare sulla doppia-uso-singolo, per salire in camera insieme a depositare gli zaini serve una specie di lotta sindacale. «Sul registro è segnato solo il signore» s’impunta. «E solo le persone segnate sul registro possono salire in camera.» Insistete un po’, e alla fine la donna acconsente solo a patto che tuo fratello si sbrighi. La camera è al secondo piano, e le cattive vibrazioni del luogo non promettono niente di carino o caratteristico. Però ci resti male quando vedi il letto in formica da pensione al mare e le piastrelle color anice. L’unica finestra affaccia su un cortile interno verso il quale sfogano le prese d’aria d’una cucina, e


dalla parete vi aggre-disce la veduta a olio, nettamente scolastica, d’un acquedotto romano inquadrato nella sua cornicetta dorata. Pensi che non puoi portare qui Alena, e a tuo fratello dici che secondo te la stanza fa schifo. «Non è niente di speciale» ammette sfilando lo zaino. «Ma c’è la tele, e questa sera si gioca la finale di Coppa dei Campioni.» «Di che anno, cavolo?» Pensi che non leggi il giornale da una settimana e sei già rimasto tagliato fuori dal mondo. «Se la giocano Porto e Monaco, e se il treno non prende ritardo, forse arrivo a casa per il secondo tempo.» «Oi» dici, «me la guardo di sicuro. E tifo nettamente per il Porto.» «Nemmeno il fratello di Carolina e Stephanie, secondo me, tifa sul serio Monaco. Sono troppo antipatici, ma rischia di essere una partita ricca di gol.» Mentre sfili la maglia, pensi che forse anche questo è un segno del destino. Una partita secca assegna il trofeo per squadre di club più importante della stagione, e all’improvviso tuo fratello ti ricorda che quella partita si gioca stasera. E allora non serve essere dei sensitivi, per capire il messaggio: se sei un minimo appassionato, forse dovresti restare buono in stanza, a curare i piedi e seguire la finale senza combinare guai in giro. E poi, mentre confezioni una sigaretta seduto ai piedi del letto, tuo fratello si rinfresca in bagno con il piacere maniacale dell’ospite abusivo. Attraverso la porta socchiusa, lo vedi che s’insapona la faccia con cura. Per un tempo che il silenzio di voci sembra dilatare, da sotto la maschera di sapone studia la propria immagine riflessa nello specchio appeso sopra il lavabo. Poi china il capo e, portando acqua nella coppa delle mani, in fretta lava via la maschera. Quando la sigaretta è pronta, recuperi il Siemens, e appena la luce arancio illumina la finestrella del display, digiti il codice segreto sulla tastiera dalle cifre ormai illeggibili. Sul display compare il solito avviso di benvenuto e, senza occuparti dei messaggi fioccati in casella, componi il numero di sempre del Vietnamita. Quando viveva nella mansarda, spesso rispondeva al suo posto la ragazza che poi l’ha lasciato. Lavoravano insieme e viveva-no in simbiosi, praticamente, e tu pensi che ormai saranno sei me-si, da quando il Viet è tornato a Borgo Panigale. «Oi, uomo» dici appena risponde. «Ce l’abbiamo fatta.» «Stralunami, amico mio» ti raggiunge la sua voce. «È una gioia, sentirti. Dimmi subito dove ti trovi.» «Sono a Chiusi, uomo. Chiusi-scalo. Ho raggiunto da poco il luogo dell’appuntamento.» Per un po’ non dice niente, e se davvero, dopo tutti i discorsi e le promesse, si è dimenticato del vostro


appuntamento, forse è davvero diventato pazzo come dice la sua ex. «Domani» dice, «mi sembra ancora così lontano. Ma intanto tu sei arrivato, e vedi già quello che io vedrò domattina, giusto?» Dici di sì, e dici che lo senti un po’ strano. Poi tuo fratello esce dal bagno, traversa la stanza a passi brevi, ed è come lo vedessi per la prima volta, un uomo di venticinque anni con le guance abbronzate e la fronte quasi bianca fino all’attaccatura dei capelli, e pensi che almeno il berretto da pesca l’ha salvato dai colpi di sole. «Il fatto» mormora il Vietnamita dopo un po’, «è che l’altro giorno ho avuto un problemino alla colonna vertebrale.» Parla di un problema di salute, ma è come se te lo comunicasse nell’immi-nenza d’una risata. «Ho guidato fino a Trieste, andata e ritorno in otto ore, e il mattino dopo, quando mi sono svegliato, avevo una specie di comignolo in terracotta al posto del collo.» «Brutta bazza» dici. Tuo fratello accende l’apparecchio, smorza il volume e prende a scorrere i titoli color Umetta del menu televideo. «Non riuscivo a muovere la testa» insiste il Vietnamita. «Stralunami, pensavo di essere rimasto paralizzato.» «Almeno non ti sento troppo giù. E come stai, adesso?» Guardi tuo fratello proiettato verso le notizie in arrivo dalle agenzie stampa, pensi che il Vietnamita sta cercando un modo gentile per spiegare che non può raggiungerti, e se tutti ti lasciano solo a questo punto del viaggio, forse stasera Alena verrà. «In pratica» ti confonde il Vietnamita, «dobbiamo ringraziare la mia vecchia. Con un’ora di massaggi e il balsamo di tigre, sono tornato come nuovo.» Se Alena verrà, è l’unica cosa che pensi, domani sul presto vi lascerete in ogni caso, e in qualche modo ne provi sollievo. «Non capisco più niente» dici. «Pensi di farcela a partire?» «Te l’ho già detto» ti rassicura con la cadenza larga delle vostre parti. «Dovrò portarmi dietro il balsamo, e tenere lo zaino leggero, ma non ti ci lascio, a camminare da solo come un girovago.» «Sei un amico, Viet» dici mentre tuo fratello scorre le notizie. «Nettamente.» «Quanti passaggi in macchina avete preso? Non me lo racconterai mai, vero?» «Vedrai quanti passaggi prendiamo fino a Perugia.» «Il mio Intercity dovrebbe essere laggiù per le nove e mezza, e sono pronto a soffrire. Hai bisogno che ti porti niente?»


«Basta la compagnia» dici. «I cerotti Secundapelle li ho comprati stamattina.» «Ci avrei giurato» lo senti ridere nel ricevitore, «che finivano per servirti. Sei predisposto, alle vesciche.» «Allora, uomo, niente scherzi» ti raccomandi. «A domattina, in assetto da campagna.» «Con il vecchio temperalapis, la campagna non mi fa paura» dice allegro. «E se devo essere sincero, non sto nella pelle.» Alla fine, per un po’ resti a guardare il telaio in formica del matrimoniale, le federe lise e l’effetto bugnato del copriletto in sinte-tico, e pensi alle volte in cui, quando Dina non era ancora tua moglie, avete fatto l’amore in stanze più desolate di questa, e la loro desolazione non bastava a ferirvi. Poi, confuso come sei, ti dici che determinati incontri fra persone sole sprigionano una grande capacità di consolare. Accendi la sigaretta, mentre guardi tuo fratello che legge della visita di Bush a Roma. Guardi i caratteri color Umetta di televideo, guardi tuo fratello e pensi che se non trovi le parole per raccontare nemmeno a lui che genere di pensieri ti ronzano in testa, prima o poi finirai per pentirtene. Quando la strada per la città alta comincia a inerpicare, imboccate una scorciatoia di gradini bianchi chiamata Scalette Zilath, che risale il colle tagliando i tornanti. Le rampe sono strette fra i giardini delle case, e voi potete sentirvi fortunati per il semplice fatto di camminare un po’ senza zaino. Tuo fratello con la testa è già a casa e, dentro il suo anticipo di nostalgia, parla del lavoro che lo attende. Deve scrivere un paio d’articoli su richiesta del Professore-ammiraglio, e più avanti nell’estate andrà a Parigi, munito di un salvacondotto ufficiale, per consultare di persona alcuni documenti custoditi negli apparta-menti abitati da De Gaulle durante la sua presidenza. «Praticamente» dice, «andrò a studiare questi documenti con-servati in pompa magna dentro il suo mausoleo, e forse riuscirò a parlare con il pubblicitario che curava la sua immagine.» Sorridi all’idea di tuo fratello che esibisce il salvacondotto ai gendarmi in kepi. Poi te lo vedi seduto in un grande appartamento di Boulevard Saint Germain, alle prese con un ottuagenario ele-gantissimo e tentato di confessare una quantità di segreti. «È il mio primo incarico delicato» dice, e tu pensi che a questo modo, se continua a proiettarsi in avanti e staccarsi da te, non riuscirai a raccontargli un bel niente. Vi spingete verso la zona pedonale, e solo gli scarponi sporchi di fango rappreso fanno di voi qualcosa di diverso dai turisti che passeggiano fra la cattedrale e l’ingresso del Labirinto di Por senna. A uno sportello automatico della Cassa Rurale ritiri un po’ di contante per i prossimi giorni.


«Per ora» rifletti ad alta voce come il tourmanager di te stesso, «in una settimana lontano da casa, ho speso meno di quando mi fermo una notte a Milano», e tuo fratello dice che lui, quando sarà a Parigi, dormirà all’ostello della gioventù. Per cominciare dovresti raccontargli del foglio d’agenda piegato in quattro parti che hai consegnato nelle mani leggere di Alena, di come lei si è affrettata a nasconderlo nel taschino della camicia senza maniche. È così che è andata, e forse tuo fratello penserebbe che sei una persona patetica. «Chissà cosa ci trovava di tanto speciale, il prete» dice all’improvviso, e la sua voce ti ricorda il salto di quei pesci capaci di rompere la superficie dell’acqua per catturare gli insetti al volo. «Quale prete?» «Quello che ha tanto pregato per noi. Diceva che stava benone, qui.» Pensi alla solitudine del prete, alla solitudine di tutti, e forse potrebbe essere un buon punto d’inizio per il tuo discorso. «A me sembra un paese come tanti.» «Non è male» dici. «Forse è solo che prova a darsi un tono.» Al Museo Etrusco oggi si entra gratis, e forse c’è più verità sul territorio di Chiusi dentro le sue sale che in tutti gli agriturismo con piscina del comprensorio. Nelle teche sono esposti a decine i canòpi, urne cinerarie le cui bocche sono modellate a riprodurre le fattezze del morto. Nel loro tentativo di restare aggrappati al mondo di qua hanno un che di allegro e struggente, ed è strano pensare che su tutte le terre che avete traversato, fin dal tempo in cui questi uomini erano vivi, si parlava la stessa lingua e si riconosceva una medesima legge. Le iscrizioni di epoche diverse documentano l’evoluzione del primo alfabeto diffuso nel cuore del Paese, e un’intera sezione è dedicata all’attività di falsificazione dei reperti. Ancora una volta ti torna in mente l’uomo a bordo della Vespa Primavera color petrolio. Pensi al lavorio notturno dei profanatori, all’arte disgraziata di quanti si dedicano a contraffare arredi funebri, e appena uscite di nuovo in strada, tuo fratello confessa che dentro il museo l’ha preso una sorta di cupezza. «Quel popolo aveva tutte le carte in regola» dichiara guardandoti con gli occhi spalancati. «E a un certo punto sono scomparsi così in fretta che nessuno è stato più in grado di decifrare cosa hanno lasciato scritto.» «Già» dici. «È terribile, ma in fondo devi aspettartelo, quando entri in un museo.» «Non vorrei partire così, accidenti. Che ne dici di una sfida a biliardo?» «Lo sai» dici, «che non so giocare a biliardo.» «Neanch’io, accidenti. Sono una schiappa. Giusto per farci due risate.» «Se è per farci due risate» dici, «sono la persona giusta», e pensi che ormai non ti produrrai in nessuna


confessione patetica. Finiresti per affliggerlo in extremis, e invece vuoi lasciargli un buon ricordo dei vostri giorni insieme. Così fate il giro dei bar, ma dentro sono travestiti da osterie o enoteche, e in tutta la città vecchia non riuscite a trovarne neppure uno, con una sala abbastanza ampia da ospitare un tavolo verde. Quando manca un’ora al treno scendete lungo la rampa di Scalette Zilath, verso la borgata a ridosso dei binari. «Stasera devi curarti» intima tuo fratello mentre scendete fra i giardini delle case. «Guardi la partita e, se non sei pazzo, fai qualcosa per i piedi.» «D’accordo» dici. «Li terrò a bagno nell’acqua ossigenata.» «Prima di camminare ancora, devi proteggere quelle vesciche orrende con i cerotti.» «Obbedisco» dici. «Comunque all’inizio non ci credevo, che saremmo arrivati fin qui senza veri problemi.» «Determinate tappe erano un po’ lunghine» dice lui. «Prima dell’Amiata ci siamo abbrutiti. Ma adesso Perugia è a uno sputo, e a Perugia puoi riposare un giorno intero.» «Mancano ancora sessanta chilometri, ma sono soltanto colline basse, affacciate sul Trasimeno.» «La parte più dura era all’inizio, e sono contento di averti accompagnato fin qui.» «Siamo stati bene però.» «Accidenti, sì. E mi sembra impossibile che domani, alle otto in punto indosserò una camicia stirata e uscirò di casa, il casco sottobraccio, per andare all’università.» Pensi che lui, almeno, questa sera, è sicuro di dormire con la sua donna, e mentre ti aspetta ai piedi dell’albergo a tre stelle con-sigliato dalla Guida del Giramondo, sali a ritirare il suo bagaglio. Ti carichi in spalla lo zaino celeste e pensi che dentro ci sono il modulo, il sacco a pelo e il resto di roba che, una volta squadernata, riusciva a riempire metà esatta della tenda. Adesso la camera, più che un posto in cui due persone sole possono consolarsi a vicenda, sembra il rifugio squallido d’un uomo in fuga. Nell’atrio della stazione, tre uomini della Polfer vegliano sui mo-vimenti d’una dozzina di studenti pendolari e qualche turista stra-niero. Un’edicola e una tabaccheria saziano i desideri concessi ai viaggiatori, e il treno di tuo fratello è annunciato al primo binario. Il vostro viaggio è corso via, e non c’è bisogno di parole fra voi per sapere che anche l’altro, in questo istante preciso, si domanda quanto tempo deve passare, prima di prendere il largo insieme un’altra volta. «Ci siamo lasciati indietro uno sbanderno di chilometri» dice tuo fratello mentre guadagnate la banchina. «Devo fare i conti bene, con il curvimetro e una calcolatrice, ma forse sono centoventi.»


«La prossima volta» dice, «ci prendiamo un po’ di giorni in più e troviamo un sentiero per arrivare a Saturnia lontano dall’asfalto.» «Già» dici senza crederci del tutto. «E torniamo a Radicofani per i campi.» «È stata una vacanza come non ne avevo mai fatte prima» dice lui. «Dalla parte dei poveri, e mi manca già, il pomeriggio in cui siamo rimasti senz’acqua.» «Ieri.» «Sì, e anche l’altro ieri. E se pure hai la testa piena di fisse da sensitivo, e sei un romantico putrefatto, sono contento che sei mio fratello, kapish?» «Kapish» dici in fretta. «Anch’io sono contento», e ti si chiude la gola, quando vedi il maledetto locomotore verdolino dell’Intercity che mangia i binari. «Fai bene a salutare sempre la gente per strada» dice. «Ma ora dammi lo zaino », e mentre lo sfili pensi che non torneranno mai più, i giorni nei quali potevi credere di proteggerlo semplicemente tenendo gli occhi molto aperti. «Stammi bene e saluta il Vietnamita» dice mentre vi abbracciate, e ti sembra che anche la sua voce abbia qualcosa di mesto e in-crinato. «Mi raccomando» dice, «e soprattutto, questa sera non farti prendere dalla malinconia.» «Puoi contarci. Tu invece, saluta Silvia e saluta i nostri vecchi.» «Per non preoccuparli, dei tuoi piedi non racconterò niente.» Pensi che gli vuoi bene, e se è così dovresti dirlo senza paura di sembrare patetico. Sei tu il maggiore, e tocca a te rischiare per primo. «Anch’io ti voglio bene» risponde lui baciandoti di nuovo sulle guance, «ma non ricominciamo.» «Adesso vado» dici, «sento dalla voce che ti stai commuoven-do.» «Io?» sbalordisce mentre lo stridore dei freni invade la pensilina con il suo odore di lubrificante surriscaldato. «Mi pare che sei tu, il romantico con gli occhi lucidi.» «Poche commedie» lo colpisci piano alla spalla. «Fai persino fatica a deglutire.» «Dimmi una cosa, adesso» dice serio, ma il rossore tradisce il suo bluff. «Te la caghi di non farcela, senza di me?» «Oi, pulcino. Torna in città, che ti aspettano per cena, e cerca di non farti rubare tutto in treno.» «Ora vattene» dice lui, e senza guardarti punta l’indice verso la sala d’aspetto. Poi fa una smorfia, e si massaggia la radice del na-so. «Vattene» insiste, «oppure non reggerai all’emozione.»


«Voglio vederti partire, pulcino. Voglio essere sicuro che trovi posto a sedere.» «Sul serio, vattene» dice lui mentre si aprono le porte dei vagoni. «Altrimenti va a finire che scoppi a piangere, e tutti ti guarde-ranno come un nudista alla stazione.» Immergi i piedi nella tazza del bidet nella quale hai vuotato per intero il flacone d’acqua ossigenata, e se pure non brucia, senti qualcosa che fermenta all’altezza dei calcagni. Una schiuma bianca s’addensa intorno ai fori d’ago, e alla fine asciughi i piedi con cura, applichi i tuoi cerotti sui talloni e sulla pianta. Pensi che sei stato pazzo ad affidare un biglietto compromet-tente a una ragazza sconosciuta, e se sentirai la voce di tua moglie prima delle otto, non avrai il coraggio di presentarti all’appuntamento. Forse Alena ha riso, quando ha letto del tuo invito, e forse ha mostrato il biglietto a Erode. Se qualcuno invitasse a cena tua moglie, e lei te lo raccontasse, come minimo andresti all’appuntamento al suo posto. Forse, stasera dovresti portare con te il Gerber. Non ci hai mai colpito nessuno, ma la lama d’un serramanico è sempre qualcosa che vale la pena esibire prima di rimediare un trauma cranico da un tetrarca geloso e i suoi fratelli, che in questo momento immagini fatalmente appassionati boxeur. Pensi ai tre palmi del coltello di famiglia senza il quale il Vietnamita non si spinge in campagna e ti dici che, con quello, nessuno ti metterebbe le mani addosso. Nessuno forse, tranne i carabinieri, e per entrare in un ristorante servirebbe nasconderlo, con il fodero e tutto, sotto una camicia molto ampia. In ogni caso il Gerber è meglio di niente, e adesso pensi a te stesso come a una specie di Taxi Driver rusticano. I tuoi piedi so-no una carta geografica di cerotti, stai per scendere verso l’Osteria del Vapore, e non sai più se speri di trovare all’appuntamento Alena, Erode o proprio nessuno. Altrimenti potresti mangiare qualcosa al bar della stazione, sgattaiolare di nuovo in camera in tempo per l’inizio della finale, e ammettere con te stesso che quel biglietto è stato l’errore romantico d’un uomo che non vedeva da una settimana una ragazza decente. Poi pensi alle dita bianche di Alena, alle sue spalle, e pensi che non hai mai tradito tua moglie. L’Osteria del Vapore è una pizzeria dagli arredi moderni, capace d’un centinaio di coperti. La cameriera raccoglie l’ordinazione digi-tando un codice sulla tastiera d’un palmare dalla scocca verde e lucida, e forse è l’oggetto più levigato che vedi da una settimana. Mezz’ora fa, quando sei arrivato davanti al locale, le tue emo-zioni erano un’orda fuori controllo come a diciassette anni. Per prima cosa hai riconosciuto il nome del locale sull’insegna, e la sagoma in legno d’un cuoco presidiava l’ingresso. Era una sagoma ad altezza quasi naturale, prodotta in serie, e al posto del grembiule il cuoco aveva una lavagna sulla quale erano scritti a gesso rosa i piatti del giorno.


Quando hai visto la sagoma del cuoco, la porta finto antica in ferro battuto sulla quale spiccavano un cartello con la scritta “Pizze anche a mezzogiorno” e il solito adesivo delle Guide del Giramondo, hai continuato senza fermarti fino all’angolo dell’isolato. Mentre lo aggiravi per intero, sentivi che lo spavento del te stesso diciassettenne rimpiccioliva, come qualcosa che restava confinato in una riserva mentre il mondo intorno cambiava. Era cambiato per tutto quel tempo, e camminando da solo lungo il marciapiede d’una borgata del Centro Italia cresciuta intorno alla ferrovia, un posto che i geografi considerano uno spartiacque artificiale, le idee pian piano si facevano nitide. Alena non sarebbe venuta. Al massimo avrebbe mandato un’amica per scusarsi. Non aveva riso di te, e forse il biglietto le aveva fatto piacere. Ma non dovevi augurarti che fosse una ragazza scontenta. Se lo era, dovevi sperare che lo fosse solo un po’, e che il tuo gesto goffo e audace fosse bastato a consolarla. L’avresti vista solo se era molto triste, e in questo caso sarebbe stato opportuno cenare insieme a lei, essere cortese e rincuorarla. Potevi dedicare la serata a dimostrarle che al mondo esistono gentiluomini, e questo proposito ti faceva già sentire in pace. Sarebbe bastato bere poco, tenere sempre le posate in mano, e parlare male delle ragazze che si lasciano convincere a salire nelle stanze d’albergo. Ormai eri di nuovo in vista dell’Osteria del Vapore, e lungo il marciapiede avanti a te una mamma giovane spingeva una car-rozzina a due posti. Hai rallentato per non superarla, e mentre tornavi al cospetto del cuoco dal grembiule di lavagna, lo spavento del te stesso diciassettenne, fuori dai confini della sua riserva, non bastava più a confondere un bel niente. Potevi anche andartene, ma un gentiluomo non abbandona il luogo dell’appuntamento, neppure se è pentito e ormai spera solo che lei non arrivi. Così hai aspettato a pochi passi dall’ingresso fino alle otto e venti, dentro una sensazione di pace che cresceva, e alla fine sei stato contento di non avere visto Alena. Mentre aprivi la porta in ferro battuto dell’Osteria del Vapore, hai pensato che forse il tuo biglietto era bastato a mostrarle una piccola luce, e a questo modo nessuno si era fatto male. Una ragazza così, una potenziale lettrice di libri, merita qualcosa di buono, e se in fin dei conti il suo Erode le va ancora bene, so-lo un egoista marcio dovrebbe dispiacersene. Così mangi in fretta la tua pizza, seduto da solo fra tavolate di ferrovieri in borghese che parlano di lavoro, e pensi che è meraviglioso bere birra senza timore di contagiare nessuno con la tua solitudine. A quest’ora, le squadre saranno da un pezzo negli spogliatoi, ad ascoltare i discorsi che il mister ha preparato per l’occasione. Forse Dina avrà già messo a letto Malcolm, e anche tuo fratello, ne sei certo, sta sognando a bordo dell’Intercity in viaggio verso casa.


SECONDA PARTE. da Chiusi a Càsaluna. GIORNO NOVE. Da Chiusi a Panicale. Luca Rappini lo chiamate “il Vietnamita” in onore della storia della sua famiglia. Il nonno materno si chiamava Jean-Lue Lagrange, ed era nato nel 1915 in una villa dal gusto europeo a un giorno di viaggio da Saigon, in quella che allora era la Colonia francese di Cocincina. La sua famiglia possedeva un grande appezzamento di foresta, dove crescevano a migliaia gli alberi di hevea, e il caucciù, in quella zona, era abbondante e di ottima qualità. In pochi anni, intorno a quello che era stato un avamposto assediato dalla vegetazione era sorto un villaggio con una chiesa e una stazione di polizia, e tutti gli uomini del villaggio lavoravano a cavare caucciù dagli alberi di hevea per conto dei Lagrange. Quando compì venticinque anni, l’uomo che sarebbe diventato il nonno del tuo amico fece costruire una nuova casa dal cui porti-cato la vista spaziava sulla foresta, e appena la casa fu pronta scelse fra le ragazze del villaggio quella che sarebbe diventata sua moglie. Una grande festa celebrò l’unione con una sedicenne il cui no-me significava Rugiada, e la giovane presto gli diede una figlia. Per quello che racconta oggi il suo unico nipote maschio, in Vietnam Jean-Lue Lagrange seguiva i suoi affari, conduceva trattative con i mercanti di caucciù, e nel tempo libero usciva con i proprietari delle piantagioni vicine a caccia di cervi e tigri. Poteva cacciare tranquillo, perché nel frattempo i dipendenti della famiglia si occupavano degli alberi di hevea, ma alla fine dell’agosto 1940, mentre il mondo andava lentamente a fuoco, l’armata giapponese invase l’Indocina, e un distaccamento di fan-teria s’installò al villaggio. Anche il vecchio posto di polizia rimase attivo, e per un po’ di anni ci fu questa strana convivenza fra ufficiali nipponici e gendarmi nati a Nizza e Marsiglia. Solo nel 1945, quando ormai la guerra era perduta, i giappone-si concessero l’indipendenza al Vietnam e le altre nazioni dell’Indocina. E quando si ritirarono, arrivarono dalla città agitatori che incitavano il popolo a cacciare le sanguisughe europee, e nel giro di pochi mesi anche al villaggio si diffuse un


malcontento sordo. All’improvviso, gli uomini cui i francesi avevano dato un lavoro non facevano più nessuna differenza. Uno dei proprietari con cui il giovane Lagrange usciva a caccia venne assassinato, a un altro portarono via i figli. Così il nonno del tuo amico vendette a poco prezzo l’appezzamento di foresta della sua famiglia, la propria casa e la villa dei genitori. Gli uomini della Legione Straniera stavano disseminan-do il paese di ridotti fortificati e, prima che la Colonia s’inabissas-se per sempre, il giovane Lagrange rientrò a Nizza, dove ancora c’erano dei parenti, insieme alla donna chiamata Rugiada e la bambina. La bambina aveva nove anni, e nessuna delle due aveva mai visto prima un aereo. Così il tuo amico Luca Rappini, attraverso la madre ha ereditato il sangue dei Viet, mescolato a quello dei bianchi che provaro-no a diventare i loro padroni. «Ma dimmi» domanda a bruciapelo mentre risalite le rampe di Scalette Zilath, «come te la sei cavata, fin qui?» «Mi sembra d’essere partito ieri» dici, «e mi sembra di essere partito un secolo fa.» «E animali?» s’informa da dietro la montatura leggera degli occhiali. «Ne avete visti, di animali?» e non ricordavi fino a che punto i suoi capelli, quando li porta tagliati corti, somigliano a un fitto di setole scure. «Qualche capriolo» dici, «e un sacco di rapaci, ma so riconoscere solo il nibbio e il falco lanario. Però in Maremma è ancora pieno di selvaggina, e una sera i cinghiali sono venuti a mangiare intorno alla tenda.» Tu l’hai conosciuto a otto anni, in parrocchia. A quei tempi il Vietnamita era un ragazzino miope e spilungone, e giocava a calcio con te, sul vecchio campo in cemento dietro gli orti dei frati. A volte i più grandi, il bullo Paride Bonfiglio e i fratelli Corda, lo prendevano in giro per via che la domenica, per fare contenta la madre, indossava la tonaca bianca dei chierichetti e serviva messa insieme al parroco. «Se ti piace tanto portare la sottana» lo mettevano in mezzo, «è molto probabile che tu sia un invertito.» Una volta che esagerarono, il Vietnamita perse la pazienza. . Eravate sul solito campo in cemento dietro gli orti dei frati, e lui sferrò questo calcio micidiale, il piede a martello, che colse il giovane Corda sotto il cavallo. All’istante si formò una crocchia di lupetti e ragazzini del catechismo, intorno al poveretto sdraiato a terra, che si tamponava a due mani la parte offesa, e piangendo mugolava che gli erano saliti i maròni. Tu eri inorridito, all’idea che a qualcuno potessero salire i maròni, ma pensavi che il Vietnamita aveva fatto bene a reagire.


Da allora i grandi non l’avevano più preso in giro, ma con voialtri coetanei aveva preso a tirarsela da Bruce Lee dei giovani, e in privato ti confessava di conoscere molte altre tecniche segrete. «E tuo fratello come se l’è cavata» domanda ora mentre stringe le mani intorno agli spallacci dell’Invierà rosso a mezzo carico. «È andato agile» dici tu. «I primi giorni, quando camminavamo ore senza vedere l’ombra d’un paese, era soprattuto preoccupato di trovare un bar, poi si è rilassato, e alla fine è grazie a lui se sono arrivato in tempo al nostro appuntamento.» «Era il mio allievo più promettente. A tredici anni un potenziale talento del fingerpicking moderno. Mi spiace non abbia perseve-rato.» Suonavate insieme, tu e il Vietnamita. Basso e chitarra-voce d’u-na banda senza batteria chiamata Sleepo Marx. Sperimentalissimi. Sognavate di andare in tour a Parigi, un tour da marciapiede fra un bar di periferia e una stazione della metro, come avevano fatto pochi anni prima i Mano Negra. Una volta eravate quasi pronti a partire sul serio. Ma il Viet studiava al liceo scientifico, e quell’anno gli diedero matematica e latino. Quattro e quattro, fine del tour. Oggi è laureato in Chimica e Tecnologia Farmaceutica, il tuo amico, e finché era fidanzato con l’Arida Greta, si era adattato a lavorare come commesso di lusso. In camice bianco. Dietro il banco della farmacia in centro del padre di lei. Pare si cresca in mezzo a un disastro di soldi, a essere figlie di determinati farmacisti del centro ammanicati con la Curia. Pare anche non vada tanto bene se il tuo fidanzato, anziché portarti a teatro ad applaudire i comici già visti in tivù, insiste a suonare nei locali. In special modo se sono locali di ultima, dove ti vergogni a invitare le amiche, e il tuo fidanzato suona con il fantasma d’una band che in dodici anni ha prodotto solo tre demo. Il Viet è sempre stato un ragazzo sensibile ed estroverso: non gli andava a genio, l’idea di vivere come un commesso di lusso, fasciato dal camice dietro il banco d’una farmacia gradita alla Curia. Quando l’Arida non lo sentiva, diceva che quel posto avrebbe potuto incassare più di quanto già incassava solo in caso di guerra batteriologica. Sentiva già da un po’ l’odore della putrefazione in arrivo, e all’inizio ha provato a salvare anche la fidanzata. Le parlava di cambiare vita, diventare persone migliori, e un giorno il padre di lei ha spiegato che, se il dottor Rappini Luca pensava di trasformare la vita di sua figlia Greta in un inferno, forse avrebbe fatto bene a cercare lavoro in una farmacia diversa. Riempite le borracce a una fontana ai piedi delle mura; tre vecchi, seduti su una panchina sotto il cielo che rannuvola, vi spiega-no dove imboccare una strada poco trafficata che conduce al lago di Chiusi. Ti chiede se hai mai pensato sul serio di rinunciare, di fermarti da qualche parte e traversarla a piedi l’anno prossimo, l’Italia. Vorresti raccontare al tuo amico di tutta la bellezza che s’è offerta in modo spontaneo, invece finisci per insistere sulle piccole difficoltà del viaggio e il vostro moto d’automi lungo i sentieri dell’Amiata,


quando le folgori si abbattevano fra i castagni e ogni altra creatura doveva essere nascosta sotto terra. Allora gli parli del richiamo che sembrava promanare dai fianchi immensi del vulcano in pace, e se anche non trovi le parole esatte per descrivere quel genere di vibrazione, sai che lui può capire. Si è addestrato a capire, finché era lontano dall’università e dalle farmacie. Quando è rientrato alla mansarda in cui avevano vissuto insieme tre anni, l’Arida non c’era. Però aveva lasciato una lettera di molte pagine. Scritte al computer. L’espressione “crescita interiore” vi ri-correva cinque volte, e per una settimana il Vietnamita non è riuscito a vederla né a parlare con lei neppure per dirle ‘“fanculo”. Dice che tutta la faccenda è stata umiliante, e alla fine con i soldi della buonuscita ha salutato tutti ed è partito da solo per il Madagascar. Diceva che laggiù c’era bisogno di personale tecnico qualifica-to. Forse un laureato in Chimica e Tecnologia Farmaceutica poteva fare comodo, alle organizzazioni non governative che operano sull’isola, ma alla fine il tuo amico è rimasto laggiù tre mesi senza lavorare un solo giorno. Quando è tornato non aveva più una casa. Così si era rifugiato nella sua stanza di ragazzo a Borgo Panigale, chez marnati, e qualunque cosa avesse visto in Madagascar era diventato un’altra persona. Adesso voleva solo suonare, battersi contro il deserto della pax americana e non avere mai più una fidanzata farmacista. Parlava di ricominciare il programma con il buon Luther a Radio Città Popolare, e quando uscivate insieme per un cinema e un ke-bab, farneticava d’infondere nuova linfa al progetto ormai ar-cheologico degli Sleepo Marx. «Il mulo si è strappato il paraocchi» amava ripetere. «E ora ha capito che la libertà è qualcosa che basta raccogliere da terra.» Sul selciato di via del Fratello, determinate notti di primavera è facile fare nuove conoscenze. E se hai già carburato con un paio di pinte, sei alto un metro e ottantasette e tieni in serbo stupefacenti memorie di prima mano sul Madagascar, puoi star certo che le amiche degli amici ti noteranno. Da quando era tornato in città, la sua testa coperta di setole scure sembrava tornata la vecchia fuci-na dalla quale erano nati progetti in grado d’illuminare da soli molte serate intorno ai vent’anni. Non era più un commesso di lusso in camice bianco. Oh no, amici del menga! Adesso il Vietnamita beveva birra tutte le sere. Scriveva canzoni di getto. Faceva di nuovo l’amore con le studentesse di Lettere, e voi amici del menga eravate contenti che si fosse ripreso a meraviglia. Solo maman era preoccupata, che dal suo punto di vista un laureato di trent’anni non poteva ricominciare impunemente la carriera del lazzarone. Poiché non lavorava più in nessuna farmacia e dormiva tutte le mattine fino alle undici, la madre pensava fosse malato. Voleva portarlo dagli specialisti in malattie tropicali, ma sotto sotto temeva gli fosse entrato in corpo qualche demonio di stirpe re-mota, sopravvissuto con l’inganno alla predicazione dei missionari.


Così questa signora nata a un giorno di viaggio da Saigon ha fatto recitare una quantità di rosari ai frati di San Giuseppe, e visto che il figliolo ex chierichetto ancora non si ravvedeva e continuava a poltrire fino alle undici, ha pensato di prendere l’iniziativa in prima persona. Più o meno tre mesi fa, ha fatto assumere il Viet da un amico di famiglia, un rappresentante di poltrone da dentista che aveva bisogno di un giovane sveglio, disposto a viaggiare, e in pratica, adesso, il tuo amico va in giro al posto di questo signore. Avrebbe preferito mettersi in proprio, come tutti, magari aprire una piccola etichetta discografica, ma per il momento deve accon-tentarsi di macinare chilometri in autostrada, e se gli chiedi qual è il suo lavoro, ti guarda storto da dietro la montatura leggera degli occhiali e dice che, per il momento, gli tocca rappresentare un rappresentante. L’acqua del lago di Chiusi, che l’altro giorno sembrava turchese, attraverso i canneti prossimi alla riva appare un velo chiaro in-crespato dal vento, e dietro la prima linea di colline che limitano la piana irrigata, dovrebbe specchiarsi l’immenso cerchio d’acqua che occupa il cratere tronco del Trasimeno. «Quell’uomo cercava un pollo e mi ha trovato» dice il Vietnamita. «È uno schifo di lavoro senza prospettive. A queste condizioni, era meglio la farmacia.» Pensi che hai fatto male a chiedergli del lavoro e vorresti scusarti, ma pensi che ormai è troppo tardi. «Adesso guido due ore, oppure ne guido tre e mezzo, imbalsamato in giacca e cravatta reggimentale, poi imbocco l’uscita Viacard e vado a incontrare i dentisti. Dentisti di Mantova, dentisti di Pesaro. Tutta gente piena di quattrini, felice di farti sapere che in giro si scopa alla grandissima.» «Povero Viet» mormori sommesso. «Mi dispiace.» «Alcuni dentisti, sotto la scorza d’ottimismo a tutti i costi, nascondono animi delicati. Cantano in una corale, stralunami, oppure collezionano giocattoli di latta. Vogliono farti pesare che so-no meglio di te, e anziché fare giustizia, imbalsamato e cordiale come il culo, sono costretto a illustrare le funzioni dell’ultimo modello di poltrona intelligente.» «Se posso dirlo la farmacia era peggio. Ti stavi spegnendo, dietro quel cavolo di bancone.» «Io sarei uno che suonava la chitarra in un gruppo rock» dice il Vietnamita con una smorfia. «Post rock» lo correggi. «Ho vissuto un incubo lungo cinque anni» mormora guardando avanti a sé, «e adesso m’interessa tornare a lavorare per le forze del bene.» «Non so cos’hai in mente» dici, «ma sembra una buona idea.» «Mia madre dice che lasciando Greta ho dato un calcio alla fortuna, ma resto dell’idea che fosse una fortuna del menga. Troppo faticoso, sopportare che per il resto del mondo sei un farmacista in attesa della guerra batteriologica. O un maledetto rappresentante di poltrone da dentista.» «Dovresti ricominciare a mettere i dischi in radio» dici sentendoti una specie di ipocrita insegnante di


sostegno. «Alla gente piaceva, il tuo stile. A me piaceva da matti.» «Può darsi» dice lui. «Ricominciare alla radio e cercare in fretta un altro lavoro. Di sicuro mi sono stracotto il razzo» insorge a un bel punto, «di quelli che si illudono ancora di cambiare le cose da dentro. Mia madre e gli scout e i dentisti maledetti.» E per un po’, con uno stile fra l’anarchico individualista e il bastian contrario tout court, se la prende con tutti: dai punkabbestia coi pitbull e il padre ingegnere alle vecchie gonfie di ragù e il genere di opportunisti che inquadra sotto la definizione di “sini-strorsi olivolì”. «Il mondo affonda» dice, «e io che faccio?» Scoppia a ridere e dice: «Però non pensate male, signorine belle. Io sono un lavoratore. Pago le tasse.» Poi sputa a terra e ti fissa incredulo. «E la sera, sì, guardo la televisione.» Scavalcate i binari della ferrovia a un passaggio a livello, e sotto un cielo di cenere sorda marciate verso l’aperto della campagna. A forse mezz’ora dal lago, vi imbattete nel rudere d’una torre che sorveglia l’argine d’un modesto canale, e se pure è incoronato dal ricordo d’una merlatura, i rampicanti l’avvolgono fino alla sommità, e tutto il costruito sembra destinato a sprofondare lentamente nella terra umida; sulla sponda opposta, svetta fra le erbe piegate dal vento un secondo torrione squadrato e minaccioso. Il canale segna il vecchio confine fra Granducato di Toscana e Stato della Chiesa, e secondo la Kompass i ruderi portano i nomi di Torre Beccati questo e Torre Beccati quest’altro. Oggi ricordano una coppia d’anziani scorbutici che la convivenza non ha reso meno sospettosi, e se è qui che la strada entra in provincia di Perugia non c’è un cartello né niente che lo dimo-stri. La strada prende a salire in modo dolce fra gli ulivi, e per un po’ camminate senza parlare, tornate nel luogo stesso del silenzio che tante volte vi ha visti fianco a fianco, e non importa se i tuoi talloni fanno male a ogni passo, o se il Vietnamita di tanto in tanto solleva lo sguardo, sbuffa e torna a marciare studiando il mosaico del bitume. Di strada insieme ne avete fatta, in tanti anni, e non avete bisogno delle didascalie per sapere che andare costa fatica. Pensi che non hai curato i piedi come avresti dovuto, pensi a tuo fratello che sarà ormai completamente assorbito dalle pretese della città, e al bivio di Cardinale abbandonate la strada asfaltata. Adesso seguite la segnaletica contrassegnata da un rombo giallo del sentiero che sale verso una località di poche case, esposta al vento carico di polline che sferza la campagna. Manca poco a mezzogiorno quando arrivate lassù. Il posto sembra disabitato, e il Vietnamita depone lo zaino contro la facciata d’una casa abbastanza antica da avere murati a un braccio dall’ingresso tre anelli per legare i cavalli. «È tempo di fare gli omarini giudiziosi» dice mentre s’inginocchia sul poco d’erba che cresce davanti alla porta murata della ca-sa. «Per non tirare troppo la corda» sorride. Scioglie le braccia, finge di nuotare a stile libero, poi prende a massaggiare con lentezza il collo e le spalle.


Mentre il tuo amico si da da fare, puoi scrutare l’anfiteatro di colline a sud del Trasimeno, e provare a capire quant’è lontano il paese a mezzacosta che dovete raggiungere prima di sera. «Sono fastidi che mi porto dietro dall’epoca delle superiori» di-ce il Vietnamita. In ginocchio com’è, si massaggia a occhi chiusi la base del collo, prova a ruotare piano la testa. «Non è normale» di-ce, «guadagnare venti centimetri di statura nello spazio di un an-no scolastico.» «Prima però» dici, «non ti era mai capitato niente di serio.» «Erano solo fastidi» dice. «Ma prima non avevo trent’anni. L’altro giorno, invece, ho temuto sul serio di restare paralizzato.» «Paralizzato» dici. «Ti sarai preso un bello spavento.» «Uno spavento del menga. Non mi ero mai svegliato con un comignolo in terracotta al posto del collo.» «D’accordo» dici. È in forma ed è felice di essere qui, ma è ancora carico di tutte le tensioni che si è lasciato dietro le spalle. «Era una brutta infiammazione ai nervi cervicali» dice a ma-scella contratta, «ed è solo grazie alla mia vecchia se sono qui.» «Comunque» dici mentre si risolleva in piedi, «non volevo mi-nimizzare.» «Una volta» dice lui mentre torna verso lo zaino «ho letto un articolo su “Lancet”, e secondo l’articolo buona parte dei disturbi ai nervi cervicali avrebbe un’origine psicosomatica.» «Ci sta tutta» dici, e per un po’ segui in silenzio i gesti con cui apre il barattolo esagonale, decorato a fantasie cinesi, che contiene il balsamo di tigre. «Nettamente» dici. Il balsamo odora di mentolo e cannella, e quando il Vietnamita ha finito di ungersi il collo, pesca un foulard rosso dalla tasca dello zaino. Lo piega a triangolo, si fascia il collo e l’annoda dietro la nuca. «Sono come nuovo» dice, e allora raccogliete gli zaini e prendete a seguire una sterrata che scende sottovento verso la pianura. Il percorso della ferrovia è una cicatrice candida che riaffiora fra i campi, rimarginata solo a tratti dal fitto dei rovi che arrivano a lambirne la massicciata, e la vostra strada la segue da vicino per un paio di chilometri. Ormai zoppichi per non appoggiare il tallone sinistro, ma con il Vietnamita non vuoi farla tanto lunga. L’applicazione del balsamo ti ha allarmato, e se si convince che state male in due, a Perugia non ci arriverete mai. Quando la sterrata piega verso i binari, vi accorgete che il sottopasso cui conduce è impraticabile, invaso per metà d’acqua pio-vana, rami morti e banchi di foglie. Adesso la ferrovia è qualcosa capace di sbarrarvi la strada, e appena oltre, secondo la Kompass,


dovrebbe esserci una frazione di Città della Pieve, distesa lungo la statale che conduce al lago. Arrampicate per metà la massicciata di sassi, i sensi resi vigili dalla minaccia, ma i binari corrono in rettilineo, lisci e lucidi, e la vista può spaziare per molte centinaia di metri. Per un po’ restate in ascolto. Ombre azzurre di rondini volano basse sui campi, squittiscono di gola i loro avvertimenti indecifrabili, e aiutando-vi con le mani vi arrampicate sulla parte alta del terrapieno, a un braccio dalla superficie lucida del binario più vicino. Controllate di nuovo, il cuore che batte a martello, e tu pensi a una volta, in trasferta a Praga, in cui l’Assiro ha posizionato una moneta sulla rotaia del tram, e dopo la moneta sembrava una lingua di gatto, e in nessun modo potevi riconoscere le immagini coniate sulle due facce. Il Vietnamita traversa per primo, con una falcata da trampoliere in fuga, e anche tu in due salti lungo le traversine hai già gua-dato i binari, e scendi spigolando di fianco al tuo amico lungo il pendio opposto della massicciata. Adesso davanti a voi si aprono lucenti hangar di serre solitàrie, modeste discariche di materiale edilizio e le schiene a botte di ri-messe costruite per offrire ricovero all’auto di famiglia. Sembra l’immenso retrobottega d’un paese senza nobiltà, e i colori sgargianti dei vestiti da ragazzi, stesi al vento ad asciugare, spiccano contro la quinta di case a due piani allineate lungo la statale. Il vento solleva mulinelli di polvere fina che secca le labbra, e non si vede nessuno alla finestra e nessuno in giro. L’unica cosa in movimento sembra essere la fiancata azzurra d’una corriera che, in fondo al rettilineo, riprende la spola lungo la sua pista d’asfalto. «Sono quasi le due» dici appena scorgi un prato d’erba giovane che si stende a fianco del sagrato d’una chiesa. Sembra un posto tranquillo, e sistemate il campingaz al riparo degli zaini, ma il vento spegne la fiamma di continuo. Così il Vietnamita si spinge a perlustrare i dintorni, e quando risbuca sul sagrato è felice come solo gli spilungoni in giacca di pile riescono a essere. «C’è un campo da calcio» dice, «al riparo dietro la chiesa e, stralunami, sottoporta non soffia un refolo.» Così vi trasferite laggiù, ai piedi della scala in alluminio che conduce in campo, e non è un terreno più regolare di quello sul quale giocavate voi a otto anni. Mentre l’acqua scalda sul bruciatore del campingaz aperto a tutta forza, studiate il percorso del pomeriggio, e se pure non ti levi gli scarponi per controllare i calcagni, li senti che pulsano. Quand’è il momento, apri la busta di farina gialla; il Vietnamita mescola con calma finché i fiocchi non rapprendono. Mangiate dalla stessa gavetta, cavando a turno con i cucchiai la polenta grumosa e salata. Alla fine ti senti rinfrancato. Stendi le gambe e fabbrichi una sigaretta per il tuo amico e una per te. «Ho fatto bene a venire» dice il Vietnamita mentre fumate. «Finché cammino, penso, e i pensieri più spigolosi si levigano da soli. Per via dell’attrito. È una regola fisica.»


«È così anche per me» dici. «E non so alla fine cosa resterà.» Il vento teso di prima è smorto. Adesso solo una brezza leggera muove l’erba che cresce a fianco del sagrato, e al sole fa troppo caldo per tenere addosso l’antivento da ciclista. Oltre i grappoli di ginestre che fanno ala al tracciato si aprono pascoli e uliveti, ed è bello camminare sollevando di nuovo la polvere d’un’antica strada bianca che segue in saliscendi il profilo delle colline. È ancora metà pomeriggio, quando il paese di Paciano si mostra dietro la cresta d’un’ultima altura, e allora scendete verso una sorta di portale costituito da una coppia di pini marittimi che si fronteggiano dove la lingua bianca della sterrata incrocia la striscia d’asfalto. «Sembra un arco di trionfo» sorride il Vietnamita inspirando a pieni polmoni, e poi tende avanti a sé le lunghe braccia prigionie-re degli spallacci, apre le mani e le chiude in fretta, tre o quattro volte per riattivare la circolazione. «E quello» dice da dietro la montatura leggera degli occhiali, «è il posto dove dovremmo passare la notte, giusto?» «Oi» dici. «Preciso.» Si tratta solo di arrivare in paese, fare provviste e uscire a cercare un posto per la tenda, ma adesso il piede sinistro fa un male d’inferno, come si fosse gonfiato dentro lo scarpone, e appena guadagnate l’asfalto ti rendi conto di non essere più in grado di poggiare il tallone. Perdi terreno alle spalle del tuo amico, sbilan-ciato come Garrincha lungo il bordo della provinciale che snoda fra i giardini delle prime case, e adesso ogni passo costa una fatica che pensi di non poter sopportare a lungo. «Ma qui, signorine belle, abbiamo una persona in difficoltà» di-ce il Vietnamita quando s’accorge che sei rimasto indietro. «Ci dev’essere qualcosa di guasto, in quel piede» dici indican-dolo come non t’appartenesse. «Forse le bolle che ho bucato l’altro giorno hanno fatto infezione sotto i cerotti.» «Strano» dice lui. «Di solito la gente restava soddisfatta dei Secundapelle. Sono il marchio leader, nel loro segmento di mercato.» «Non lo so» dici vinto dalla costernazione. «So solo che riesco ad appoggiare la punta, ma se sfioro l’asfalto con il tallone, sento una fitta prolungata che sale fino al ginocchio.» «Siamo già arrivati» il Vietnamita dice. «Adesso andiamo pianissimo, d’accordo, e appena piantiamo la tenda, ci pensa il tuo amico a darti una bella medicina.» «Se è un doppio senso» lo ammonisci, «in questo momento non fa ridere.» «Non è un doppio senso del menga» lui dice. «Ho portato una sorpresa per te.» Così cammini con la gamba sinistra ritratta, in modo da poggiare solo la punta del piede. Marchi da vicino l’Invicta del Vietnamita, e ti convinci che se terrai duro fino a stasera, in qualche modo riuscirai a rimediare.


In paese, il vento carico di polline sembra gonfiare l’intonaco delle case, e voi entrate in un alimentari Conad per comprare pa-ne, formaggio e una cartata di prosciutto. Nel cuore del borgo ci sono palazzi antichi, dalle pareti porose, che avrebbero un sacco di storie da raccontare, ma la gente ti guarda come un uomo a fine corsa, e non vedi l’ora di trovare un buon posto per la tenda. Così prendete a seguire il tracciato di mezzacosta della strada del Ceraseto, che conduce attraverso il bosco al paese di Panicale. Procedete nel fitto di abeti e querce, avvicinandovi poco alla volta al ciglio più alto dell’anfiteatro di colline affacciate sul Trasimeno. Attraverso l’intrico delle foglie, distinguete sotto di voi il mosaico di coltivi della Val di Chiana e l’abitato di Castiglione, fitto di torri e campanili, che si protende a istmo verso le acque del lago. Scorgete a malapena la riva settentrionale, e solo la più vicina delle tre isole, vista da qui, appare abitata. «Sembra di essere vicino al mare e sembra di essere in montagna» il Vietnamita dice, e tu ormai conti i passi, rassegnato a camminare come Garrincha per tutto il tempo che servirà. Un’antica torre si staglia contro il sudario di foglie del bosco al crepuscolo, e poco più avanti la strada esce dalla foresta e sbuca su un pianoro. La cinta d’un convento presidia il lato a monte della strada, ma l’intero edificio appare abbandonato. A valle della strada si apre una grande spianata, solcata in profondità dai cingoli dei mezzi pesanti. Il fitto di ceppi ai margini del pianoro, e le fascine già pronte, affastellate sull’erba, sembrano testimoniare che il taglio di quest’angolo di bosco risale a pochi giorni fa. Traversate la porzione disboscata, e il terreno è umido, come quando le radici hanno smesso da poco di assorbirne il nutri-mento. Seguite una traccia che penetra nella macchia, e per un po’, mentre procedete paralleli alla riva d’un ruscello che scende attraverso le balze del pendio alberato, pensi che il momento del sollievo non è mai stato così vicino. La riva è alta, indorata dalle ultime lame di luce, e non è difficile trovare un posto asciutto, invisibile dalla strada e dall’aperto della spianata. Le teste a spillo dei picchetti affondano facilmente nel terreno, e per un po’ restate seduti sotto il riparo modesto della veranda rivolta verso il ruscello, a misurare quanto ci mette il disco rosso del sole a scivolare dietro la sommità degli alberi che crescono sulla sponda opposta. «Questa è la vita che vorrei» dice il Vietnamita mentre indossa il giacchetto in pile. «Camminare levigando i pensieri più spigolosi, quando viene sera occuparmi di trovare un buon posto per la tenda, e


non perdere tempo dietro le poltrone da dentista.» Ri-de, trascina lo zaino all’interno e da là sotto lo senti ridere ancora. «Comincia a fare fresco» dice, e dopo un po’ che fiuti l’aria del tramonto carica del profumo di campi a maggio, decidi di sfilare gli scarponi per vedere cosa sta succedendo di preciso ai tuoi piedi. Sfili con cura i lacci dai passanti, allarghi le linguette a fisarmonica e, mentre la fitta si prolunga, un poco alla volta fai scivolare fuori il piede sinistro. Il cotone del calzino Tekso è macchiato di scuro intorno all’alluce e sul rinforzo del calcagno, e i cerotti Secundapelle sono attaccati anche al cotone. Ci metti un paio di minuti, a srotolare via il dannato calzino, e il Vietnamita, da dentro la tenda, ride e dice che non sa più dove ha messo i pantaloni della tuta. Si vedono piaghe all’attaccatura delle dita, e anche l’unghia dell’alluce è sporca di sangue. Pensi che dovrebbe bastare l’acqua ossigenata, ma sul tallone, sotto il cerotto dai bordi scollati, si è sviluppata una nuova vescica dalla superficie tesa e biancastra, grande quanto una noce. Non hai mai visto una bolla così grande sui piedi di nessuno e ci vuole un po’ per accettare che quello schifo fa parte del tuo corpo. «Ho capito perché camminavo così» gemi verso la tenda. «Sono messo male, amico.» «Non perdere mai la fede» lo senti ghignare, e quando sbuca dall’igloo ha un sorriso strano, e i pantaloni della tuta sono in cotone pesante, color grigio melange, lo stemma d’una squadra di basket universitario stampato vicino a una delle tasche. Si solleva in piedi a un passo dalla veranda, con questi calzoni che hanno tutta l’aria di tenere caldo e la zip della giacca in pile chiusa fino alla gola. «Il sole è andato giù» dice. «Però c’è ancora luce» e in mano stringe un mazzetto di foglie a punta di lancia dal margine seghettato. Somigliano alle foglie di menta, ma sono troppo grandi, e come venate di ruggine. «Cos’è quella roba?» Il Vietnamita ti guarda, nota il piede e per un po’ lo vedi inspirare a denti stretti. «Stralunami» dice. «Dove vuoi andare, con quella specie di Alien attaccato al piede?» «Prima di bucarlo dovrei levare il Secundapelle, ma sulle istruzioni dice che il cerotto non va staccato in nessun caso.» «Se non lo levi, come speri di riuscirci, a infilzare l’Alien del menga?» Dice così, arrotola a sigaretta una delle foglie, la piega a metà e poi ancora a metà, e quando l’ha ridotta a una pallottola compatta la infila in bocca. «Alla fine cosa sarebbero? Sembrano foglie di menta molto grandi, ma non fanno odore di menta.» «Non è menta» dice lui. «Sono la mia sorpresa.»


Pensi che il Vietnamita vuole fare il misterioso, e pensi che i cerotti Secundapelle resistono alla doccia. Dovrebbero rilasciare un imprecisato principio attivo e, nel giro di pochi giorni, fondersi con il corpo, ma tu con calma prendi a lavorarne i margini. La bolla tesa sotto il velo del cerotto è circondata da un alone livido, e mentre strappi la porzione centrale, una fitta più cattiva delle altre si propaga per le terminazioni nervose fino alle spalle e i denti. Speri che almeno la bolla si sia rotta, invece quell’appendice grottesca è ancora gonfia e biancastra, tutt’uno col tuo piede di sempre. «Una cosa del genere non si è mai vista, sui libri di medicina» biascica il Vietnamita. Sta ruminando la foglia fra i denti e la guancia, e sembra un uomo in preda a un ascesso. «Forse dovremmo scattare un paio di foto» insiste, «per inviarle a “Lancet”, o qualche altra rivista del menga.» «Sono contento che tu sia qui» dici. «Non mi ricordavo, di quanto sei bravo a tirare su la gente.» «Se vuoi» dice, «il temperalapis è già fuori dallo zaino. Lo arro-ventiamo sulla fiamma del fornello, ti scoli un po’ d’alcol, e in un attimo sarà finita.» «Non c’è bisogno di una scimitarra da tre palmi» dici. «Di solito, basta un ago.» «Perché tu» ridacchia, «speri ancora di salvare il piede. Ma la cancrena, amico, è una brutta bestia.» Guardi l’alone livido della vescica, pensi che presto sarà finita e ti sporgi in ginocchio verso lo zaino. Mentre rovisti nel ventre del Salewa, il tuo amico si piega verso l’igloo, e in un attimo lo vedi sorridere mentre ti mostra per l’en-nesima volta il cimelio di famiglia. Il fodero in cuoio trattato, con cinghietto di sicurezza e passante per la cintura, è un optional recente ma l’impugnatura, rivestita da piccoli cerchi in metallo scuro, sarebbe ancora quella originale commissionata da Jean-Lue Lagrange al migliore artigiano di Saigon. «Mio nonno ci scuoiava le tigri, giù in Vietnam, e poiché sono l’unico nipote maschio, anche se figlio di un itahen, il temperalapis oggi appartiene al sottoscritto» dice il Vietnamita soppesando il coltello. «Una volta con questo ci ha ucciso una tigre», e tu pensi che il tuo, di nonno, è stato convinto fino all’ultimo di possedere un frammento della vera Croce. L’aveva comprato a vent’anni, a Genova, ma al Vietnamita non lo racconti. «Fa sempre paura, quell’affare» dici sfilando la busta per il rammendo e il flacone d’acqua ossigenata. «Lo faccio lucidare e affilare tutti gli anni. Alla fine, è l’unico ricordo che ho di mio nonno. A parte l’espressione imperturbabile con cui, a tavola, si sporgeva a colpirti con i suoi scappellotti. Per Natale passavamo una settimana da lui, in Costa Azzurra, e ogni tanto quest’uomo di settantacinque anni lasciava andare uno scappellotto devastante a me o uno dei fratelli. Nostra madre non voleva, ma lui diceva che dovevamo essere sempre pronti, e fidarci solo di noi stessi.» «Doveva essere una persona incredibile» dici. «Ma le foglie le mandi giù, alla fine?»


«Macché» dice lui. «Si masticano per fare uscire il succo, e dopo un po’ le sputi.» «Che roba sarebbe» dici. «Medicina alternativa?» «Medicina tradizionale» sorride lui. «Le ho conosciute quando vagavo per il Madagascar in compagnia dei miei libri di Chatwin, lontanissimo dalle farmacie. Da questa parte del mare conosco un tizio solo che riesce a procurarsele. Sono quello che ci vuole, a questo punto della giornata, per cacciare via la fatica e i cattivi pensieri della sera.» «Comunque, con quel cavolo di pallottola sotto la guancia, sembra che hai un ascesso.» «Il succo mette euforia» dice il Vietnamita senza smettere di ruminare. «Voglia di ridere e stare un attimo sereni. Però» dice guardando di sbieco i tuoi preparativi con l’ago, «il meglio arriva dopo, quando l’euforia scende e tutto il corpo si rilassa. Sento la schiena che si scioglie, i nervi cervicali che si sciolgono e tutto torna come dovrebbe sempre essere.» «È un po’ come fumare l’erba.» «È un po’ come tornare a casa. È la tua sorpresa, e dovresti provare, appena hai sistemato quel piede marcio. Anzi» dice piegando per te una foglia in quattro parti «visto che sei in fin di vita, prova subito.» «Non è che sono foglie di menta andate a male, e ti stai divertendo a prendermi per il culo?» «Si chiama khat. Cerca su un buon libro di botanica, se non mi credi.» E per mostrarti che non scherza aggiunge anche il nome latino. «È una pianticella benedetta» riflette ad alta voce, mentre contempla con occhi liquidi il piccolo boccone verde e ruggine che t’aspetta sul palmo aperto. «Già Chatwin mi teneva una gran compagnia, ma è quando ho conosciuto questa pianticella che ho perso i paraocchi.» Prendi la foglia che il Vietnamita ti porge. Fra le dita è tenera e fresca. Per un po’ ne esamini il margine seghettato, la superficie ancora brillante, poi lasci perdere la cautela e la porti alla bocca. «Di fianco» t’istruisce il tuo amico. «Fra i denti e la guancia. In Madagascar è una cosa normalissima. A Diego Suarez, nel nord dell’isola, ci sono i banchetti al bordo della strada, stracarichi di fronde fresche, e l’andirivieni di clienti è ininterrotto, come da noi in una tabaccheria del centro.» Dopo un po’ che mastichi, la foglia comincia a secernere un succo aspro, che immagini biancastro e come elettrificato in superficie. «Seduti di fianco al venditore» riprende il tuo amico scivolan-do a sedere di fianco a te, «vedi i vecchi aficionados, i masticatori cronici senza lavoro. Sono stralunatissimi, tengono in mano i ra-moscelli di khat ancora freschi, li agitano come ventagli e, di tanto in tanto, li accostano alla bocca per strappare un’altra foglia.» Scaldi l’ago e all’inizio non ti riesce di bucare la superficie tesa della bolla. Sbagli l’angolazione, in qualche modo, e la punta dell’ago scivola senza raggiungere il cuore di Alien. «I loro denti, i pochi che restano, sono rossi come le zanne di una belva feroce, ma sono gente


inoffensiva, e tutto quello che fanno è osservare l’andirivieni dei clienti e ridere a occhi sbarrati. Ma la maggior parte mica si riduce così. È un po’ come il vino per noi. Il khat fa parte della loro cultura e, da quando ho avuto il piacere di masticarlo la prima volta, anche della mia.» Punti al cuore, ritrai l’ago e il siero zampilla fuori per conto suo. «E così» dici, «ti sei fatto spedire a casa le foglioline benedette da qualche amico di laggiù.» «Più o meno» dice il Vietnamita. «Per essere precisi, se l’è fatte spedire Gabrio Spichisi.» «Mai sentito. Chi sarebbe, Gabrio Spichisi?» senti la tua voce che domanda incolore. «Una specie di pusher?» Premi con le dita i margini della bolla, la svuoti del siero fino alla fine. «Non è un pusher» dice. «È un compatriota che ho conosciuto in Madagascar, mentre celebravo la mia liberazione dall’Arida.» «Con un nome del genere» dici, «ti viene subito in mente un pusher.» «È un bel tipo, invece, estroverso e ottimista. Praticamente, ha viaggiato in tutta l’Africa. All’inizio ha aperto un ristorante italiano nella capitale del Gabon, poi ha rilevato un villaggio turistico in Senegal, ma nessuna delle sue attività ha avuto fortuna.» «Ci vuole tempo, per mettere in pratica tutti questi disastri. Ormai avrà i capelli bianchi.» «A occhio e croce può avere una quarantina d’anni. È estroverso, te l’ho detto, e anche ai disastri va incontro sorridendo, senza rallentare. Quando l’ho conosciuto io, sulla terrazza di un bar per bianchi a Tana, sfoggiava un indimenticabile paio di pantaloni a scacchi, e appena ha saputo da dove arrivavo, ha insistito per of-frirmi da bere e farsi raccontare cosa succedeva in Italia.» Mentre parla, il Vietnamita va avanti a masticare, e anche tu, mentre il siero cola sull’erba e la vescica si sgonfia, rumini piano la tua foglia appallottolata. «A quel punto, Spichisi viveva in Madagascar già da parecchi mesi, ed era titolare di una piccola impresa che installava impianti di condizionamento in giro per l’isola. Aveva una dozzina di dipendenti, fra magazzinieri e impiegati che lavoravano con lui in un ufficio vicino al Parlamento, e dopo un po’ che beveva-mo mi ha confidato di essere un amico personale del ministro per il turismo. Non somigliava veramente a un nababbo, ma neppure a un uomo cui la fortuna potesse girare le spalle senza preavviso. «Poi, poche settimane dopo la mia partenza, l’opposizione è scesa in piazza, i governativi hanno fatto saltare i ponti per la capitale, e l’isola è sprofondata nel caos. Quasi tutti gli imprenditori europei sono rientrati, ma Spichisi no. Lui è troppo ottimista. Pensava che le cose si sarebbero sistemate in fretta, e che molti impianti di condizionamento, nei mesi a venire, avrebbero dovuto essere sostituiti.»


«Poteva essere un bagno di sangue» considera la tua voce, «e lui aspettava d’installare i suoi fottuti impianti.» «Non c’è stato nessun bagno di sangue, alla fine, ma finché l’isola era nel caos, Spichisi non ha installato un bel niente. Ha resistito laggiù venti mesi barricato in casa, visto che i dipendenti avevano spogliato di ogni cosa l’ufficio e il magazzino, prima di tornare ai villaggi.» «A certi colonialisti luridi» dici allegro, «le sommosse popolari stanno bene come un vestito nuovo.» «Alla fine è cambiato il governo, e il nuovo ministro del turismo non si è neppure degnato di riceverlo. Spichisi ha fatto una specie di scena madre in anticamera, e la sera stessa un paio di agenti in borghese sono andati a trovarlo a casa. Cordiali, ma senza l’aria di lasciarsi corrompere, hanno spiegato che quando il cielo si fa minaccioso, partire di fretta non è mai scortesia. Così più o meno sommerso dai debiti è riparato in Italia.» «Mi sa che di fare l’imprenditore lontano da casa» galleggia la tua voce elettrificata e bianca, «deve averne piene le scatole, ormai.» «Conoscendolo non ci giurerei» dice il Vietnamita. «Ma tu come lo sai» domandi all’improvviso, «quel che gli è capitato quando l’isola era nel caos?» La voce ti esce fuori controllo, piena di picchi, e ti dispiace se il Viet penserà che non gli credi. «È stato lui stesso a raccontarmi ogni cosa» spiega. «L’ho incontrato un paio di mesi fa ai Giardini Margherita, e all’inizio non credevo potesse essere lui. Correva sotto il sole, tutto storto, in canottiera e calzoncini con gli spacchi a coda di rondine, e intorno alla testa portava una fascia a treccia in spugna. “Stralunami”, mi sono detto. “Cosa ci fa Gabrio Spichisi da questa parte del mare?” Così l’ho fermato, e lui, dopo quasi due anni, mi ha riconosciuto subito. Tutto accaldato, mi ha voluto abbracciare. Faceva le feste, mentre mi guidava verso una panchina. «È stato allora che ha raccontato dei venti mesi di caos, e di co-me gli agenti in borghese l’hanno convinto a lasciare l’isola. Pensavo che aveva del fegato e, seduti su quella panchina del menga, Spichisi ha spiegato che potevo considerarlo un uomo d’affari in anno sabbatico. Però, ha voluto precisare, un uomo d’affari resta sempre un uomo d’affari. Se lo vedevo in città, era perché stava studiando con calma una nuova strategia. “Ci vuole un guizzo” diceva, “e sbarco da capo sui mercati emergenti dell’ex Africa Francese”.» Elettrificato e bianco come ti senti, provi a pensare che nome dare a una sensazione che non ti appartiene. Guardi il tuo amico che accartoccia una seconda foglia dalle venature di ruggine, e pensi a come dev’essere, di preciso, conoscersi fra compatrioti sulla terrazza d’un bar per bianchi, nella capitale d’un’isola re-mota, e finire per incontrarsi al parco come due poveri reduci. «E così» riprende il Vietnamita, «nel bel mezzo dei nostri discorsi sull’isola, Spichisi ha sorriso e, guardandomi negli occhi, ha sussurrato che qualche oncia di khat, e le buone bottiglie di rum agricolo, in


qualche modo riesce ancora a farsele spedire.» «Il piede non lo sento più» dici, «e anche le gambe mi sembrano leggere. In ogni caso» aggiungi dopo un po’, «ho paura che questo tizio sia uno sbruffone.» «Non è una persona modesta, ma con me è stato gentilissimo. Appena l’ho sentito nominare il khat mi ricordo dei venditori a Diego Suarez e di come stavo bene, sotto il ventilatore della mia stanza, a leggere Le vie dei canti mentre il sole tramontava oltre la baia. Dopo anni con l’Arida, stavo bene anche da solo, e il khat mi ha rallegrato fino alla scaletta dell’aereo che mi ha riportato in Italia.» «Ho capito» dici. «Praticamente Spichisi ti ha adescato con l’effetto-nostalgia.» «“Non siamo in molti a conoscere la benedizione delle foglioline di khat” mi provocava. “Peggio per gli altri” rideva con questi occhi da matto e la fascia a treccia che gli traversava la fronte co-me una ferita mortale. Solo dopo un po’ ha proposto di fare un salto da lui per ruminare un po’ di foglie e fare un brindisi in no-me dei vecchi tempi. «Avevo un po’ paura che, una volta dentro casa, si rivelasse uno di quei maniaci che pagano per farti una sega, ma pur di non perdere l’occasione e assaggiare di nuovo il succo aspro delle foglie di khat, mi sono offerto di accompagnarlo in macchina.» A poche braccia dai picchetti gemelli che mantengono tese le ali della veranda spicca il balzo una cavalletta, o qualcosa che somiglia a una cavalletta. La vedi librarsi in avanti, le zampe posteriori distese come molle liberate all’improvviso da un’enorme pressione. Ricade a cinque passi di distanza, s’inabissa con un piccolo fruscio sotto la linea dell’erba, ma il suo atterraggio deve avere avuto la precisione delle cose esatte, perché risbuca quasi subito, proiettata verso la prossima tappa del suo viaggio. «Questo eroe di nuovo modello vive in un appartamento spazioso, all’ultimo piano di un edificio ristrutturato di recente, appena fuori dal ponte di Stalingrado. Non mi dispiace, come zona. Da lì con una bici, anche scassata, in cinque minuti arrivi all’università e arrivi dappertutto.» Pensi che poco fa avevi fame, e adesso, all’idea di aprire il cartoccio del prosciutto, ti prende la nausea. «Siamo saliti in ascensore» il Vietnamita dice, «e appena dentro, nella penombra d’un salotto, c’era odore di sigarette spente, e seguendo Spichisi mi sono ritrovato lungo un corridoio ampio. Alla parete di destra era incorporato un armadio a muro, e le ante dell’armadio erano coperte da blocchi di citazioni dipinte a tempera. C’era una frase di Bukowski, e una specie di versione bla-sfema del Padre Nostro. «Spichisi ha sfilato la fascia a treccia dalla fronte, ha asciugato le mani sui calzoncini dagli spacchi a coda di rondine. “Acqua in bocca con le forze del disordine” ha sussurrato, poi ha aperto l’armadio, e dentro, stipate sugli scaffali, c’erano tre borse da tenni-sta. Ne ha presa una per i manici, l’ha deposta sul


pavimento, ha aperto la cerniera e dentro erano stivate a decine le pagine di “Mi-di du Madagascar” avvolte a caramella intorno alle foglioline benedette.» «Un uomo d’affari» dici, «è sempre un uomo d’affari». «Anche in anno sabbatico, sì. Comunque alla fine è stato splen-dido. Mi ha regalato un foglio intero, più di cento foglie fresche. E, nel caso avessi la curiosità, in cambio non ha voluto farmi nessuna sega.» Il succo aspro del khat comincia a darti alla testa, e per irrora-re d’acqua ossigenata il calcagno serve stringere il flacone a due mani. «Ormai non si vede un cavolo» il Vietnamita dice. «Vieni dentro la tenda.» «Brucia come la merda» affermi mentre l’acqua ossigenata fermenta intorno al foro d’ago. «Forse i tessuti sono ancora vivi.» «È una roba schifosa» dice lui guardando via. «Domani, al primo paese, ti porto a fare visita alla guardia medica.» «Domani sarò in gran forma. Ho espulso il marcio, ormai. Piuttosto, passami un’altra di queste foglioline.» «La senti, tutta la gioia che c’è dentro? Dopo una giornata di cammino, è come essere i principi delle colline.» «Non è che adesso salta fuori la Forestale?» domandi mentre cerchi nel Salewa un paio di calzini puliti. «All’improvviso credo di sapere che ci hanno seguito, circondano la tenda nella notte e ci arrestano.» «Su» il Vietnamita dice. «Vieni dentro la tenda. Prenderai freddo, in calzoncini.» «Perché, voglio dire, queste foglie non sono legali, vero?» «Hai un piede in cancrena, è quasi buio e ti preoccupi della Forestale?» «Il mio piede può essere brutto da vedere, ma il peggio è passato. E al posto d’un Secundapelle, più tardi metterò un cerotto normale.» «Comunque non lo so, se possono arrestarci.» «Non lo sai.» «Nelle tabelle delle sostanze stupefacenti, il khat del Madagascar non l’ho mai notato.» «Allora è tutto a posto» ti rilassi mentre sistemi il cerotto. «Se non è proibito, è legale per forza.» «A quanto racconta Spichisi, le foglie arrivano in Europa nascoste dentro i container di banane.»


«Magari è solo contrabbando.» «Dici?» «Un conto è il contrabbando» dici sforzandoti di guardare il Vietnamita senza ridere, «un conto è farsi arrestare dalla Forestale.» Mangiate al buio, di malavoglia, seduti senza scarpe sotto la veranda della tenda, e appena vi chiudete dentro l’igloo, le balze alberate prendono ad animarsi di stridori, squittii e grugniti som-messi. Alla luce di una candela posizionata sul piatto d’alluminio della gavetta, sdraiati sui bozzoli dischiusi dei sacchi a pelo, mettete di nuovo mano alle foglie, e la traiettoria del vostro di-scorrere perde quota solo quando lo stoppino è bruciato fino in fondo. «Forse sono già morto e non lo so» senti la tua voce che mormora nel cubicolo buio della tenda, ma il Vietnamita ride da solo inseguendo il filo dei suoi pensieri. «Queste foglie del menga» dichiara con voce sorda, «lo hai visto, mettono in chiaro un sacco di questioni.» «Non siamo morti» riprende la tua voce, come in apnea, «però siamo lontani da tutto. Potremmo restare qui, masticare una dopo l’altra tutte le foglie, morire davvero e la gente del posto se ne ac-corgerebbe fra molte settimane.» «Ascolta il mio piano» dice il Vietnamita. Accende la torcia elettrica, e lo vedi puntellarsi sul gomito come un ubriaco dell’antichità a bordo d’un triclinio. «È un piano già sperimentato da altri» sorride, e i suoi occhi sono gli occhi più rossi che tu abbia mai visto. «Sentiamo» dici. «Ma ho l’impressione che ascolteremo una stronzata.» «Adesso scendiamo in paese» t’ignora, «scegliamo le allodole che ci piacciono e le portiamo quassù prima dell’alba. Alla vecchia maniera, senza chiedere il permesso ai padri. Lo sai come so-no fatte, no? Se siamo buoni con loro finiranno per volerci bene, e non saremo più lontani da niente.» «È un piano interessante» dici. «Ma ho paura che Dina finirà per trovarmi, e non sarà per niente contenta.» «Hai fatto la cosa giusta» dice lui, e attraverso il cono di luce della torcia ti colpisce a una spalla. Non pianissimo. «Adesso hai un bambino» dice. «Stralunami, se al tuo posto non avrei un bambino. Però avevo sbagliato fidanzata, e adesso penso che il mondo pullula di allodole che hanno un disperato bisogno di aiuto. Se fai silenzio un attimo, sentirai nel vento il loro grido.» Fai silenzio, e senti solo grugniti in distanza, minuscoli rami che si spezzano e il canto sommesso del ruscello che scende nel buio. «Lo senti, cosa dicono le allodole?» ghigna il Vietnamita nel buio della tenda. «Dicono che un uomo non dovrebbe diventare egoista solo perché è sposato.»


GIORNO DIECI. Da Panicale a Sant’Arcangelo sul Trasimeno. Siete andati avanti fino a notte inoltrata, imbozzolati nei sacchi a pelo, a masticare foglie di khat, chiacchierare elettrici e ridere di naso. Prima dell’alba, hai sognato a lungo di essere arrivato nella ca-sa che la famiglia di tua moglie possiede ai piedi del Conero, la stessa in cui, un’estate dopo l’altra, quand’eravate fidanzati andavi a raggiungerla a cavallo della Vespa Px. L’hai fatto per quattro estati consecutive, traversando lungo strade secondarie la Romagna e i valichi del Montefeltro. Ormai era una tradizione, passare il primo giorno di vacanza a cavalcare la vecchia Px color argento. La tenevi al mare fino alla fine d’agosto, e quand’era tempo di tornare in città, da bravo ti riconduceva verso l’interno. Quest’anno ci sarà anche Malcolm, e per portarlo in giro non serve nessuna Vespa, solo la Polo con il seggiolino aeronautico assicurato ai sedili posteriori. Hai sognato a lungo il bambino, e nel sogno pregavi ad alta vo-ce che il cielo gli sorridesse per sempre. Ti sei svegliato arso dalla sete, e anche ora che il sole è basso, e gli ultimi passi della giornata vi guidano spalla a spalla lungo il pontile proteso sulle acque ferme del Trasimeno, nei vostri crani farciti di foglie ristagna il residuo incombusto della gioia. Questa mattina il paese di Panicale sembrava deserto, poi siete sbucati sulla piazza e avete trovato tutti laggiù, sprofondati in un’atmosfera pigra di agape. Al centro della piazza c’era una fontana, e due vecchi lettori de “l’Unità”, seduti sui gradini del basamento, rampognavano una coppia di turisti americani per via delle scelte dementi di Bush. «La gente in America» tentava di giustificarsi il marito, «sono tutti meglio di George Bush.» Si sforzava di parlare in italiano, e lo capivi ch’era costernato, all’idea che il suo Paese avesse una fama tanto cattiva in quest’angolo di Umbria. «Con tutto lo spazio che avete» insisteva uno dei vecchi, «dovreste costruire un recinto gigantesco, nel mezzo del Texas, e vedere se ne trova anche là dentro, di terroristi.» Avete superato la fontana, siete entrati al bar, e con tutta l’arsu-ra che v’accompagnava dalla sera prima, avete ordinato yogurt da bere e domandato che vi riempissero le borracce.


Quasi subito s’è liberato un tavolino, e voi vi siete seduti a bere il vostro yogurt. «Quando cammini tutto il giorno» ha detto il Vietnamita mentre allungava le gambe, «serve partire con il piede giusto», e seduto al tavolino accanto al vostro c’era un uomo in divisa da volontario della Croce Rossa. Il volontario beveva cappuccino in compagnia di una collega che reggeva fra le braccia un mazzo di fiori. Lo ricordi basso di statura, eppure appariva solido, e in testa aveva una chioma fittissima e ricciuta, orfana delle basette. È stato il volontario ad attaccare discorso. Guardava gli zaini e, quando ha imparato dove andavate, ha insistito per pagarvi la colazione e spiegare una scorciatoia. «Non per la Chiesa dove c’è il San Sebastiano del Perugino» si è raccomandato prima di lasciarvi partire, «ma giù per la discesa dello Scortico, dove c’è proprio da scapicollarsi, e da lì prendete per la Torraccia.» «Sei una persona caritatevole» ha detto il Vietnamita offrendo-gli la destra . «Sul serio» ha detto alla donna. «È fortunata, perché non sono rimaste tante.» «È più facile andarci che spiegarlo» ha detto con modestia il volontario, «e in ogni caso, basta tenere d’occhio i cartelli del sentiero numero 6.» Così, in pace col mondo e la popolazione di Panicale, avete imboccato la discesa dello Scortico. Scendeva a capofitto fino a un trivio, e lì avete preso l’unica strada non asfaltata. Seguendo i cartelli a freccia del sentiero numero 6 avete continuato a salire fra macchie sempre più fitte di ginestre e papaveri, e poi al riparo del tunnel vegetale d’una selva di querce giovani. Il sentiero guadagnava il crinale dell’anfiteatro di colline affacciato sul Trasimeno, e sulla sinistra il pendio digradava senza ostacoli fino allo specchio del lago. «Dobbiamo seguire la cresta fino alla fine» ha detto il Vietnamita, «dove il crinale torna a scendere verso la riva.» «Non sembra durissima» hai risposto valutando la catena di ci-me basse e arrotondate che si stendeva avanti a voi. «Capaci che, per una volta, arriviamo prima delle sette di sera.» Solo la vetta del Monte Solare spiccava fra le alture, e sul versante opposto, ai piedi del monte, doveva esserci già il paese con l’imbarcadero del traghetto e il vostro campeggio. Riuscivi di nuovo a camminare come una persona normale e, respirando in silenzio l’aria profumata della macchia, potevi pensare che era una splendida mattinata. Di tanto in tanto, distinguevate sprofondato fra gli ombrelli dei pini il costruito candido d’una villa discosta dal sentiero. Parlavate di come è impossibile fare un discorso razionale insieme a una donna. Pontificavate in calzoncini e maglietta, cucivate le braghe al mondo come a vent’anni, seguendo a vista il profilo scuro d’un minuscolo borgo fortificato. Sembrava l’unico insediamento a cavallo del crinale, e camminare era lieve, finché sotto di voi baluginava lo specchio ovale del lago. Il tracciato in terra battuta si allontanava dal crinale e per forse mezz’ora avete perso di vista i segnavia del sentiero. D’altronde, continuavate ad avvicinarvi al profilo scuro del borgo fortificato, e pensavate di


far bene. Vi siete insospettiti solo quando il sentiero ha cominciato a scendere ripido per un vallone. Poiché non c’e-ra nessun bivio, l’avete seguito fino a una provinciale che tagliava la pianura, e in mezzo a quella pianura si vedevano campi di grano e barbabietola, ma non c’era nessun lago. Così vi siete fermati all’ombra, avete spiegato la Kompass numero 662, interrogandone il disegno per scoprire a quale pena, di preciso, vi aveva condannato la vostra distrazione. «Stralunami!» aveva gridato il Vietnamita quando vi era riuscito di localizzare la vostra posizione. «Siamo ai piedi del versante sbagliato, e praticamente abbiamo sbagliato strada da un pezzo.» Poteva essere metà mattina, e voi siete risaliti fino al crinale, sgomenti a ogni passo mentre scontavate la condanna. Anche lassù, avete ripercorso i vostri passi per un buon tratto, ma i segnavia non si vedevano. «Non capisco» hai detto. «È come se li avessero cancellati nel frattempo.» «È l’unico sentiero che c’è» si disperava il Vietnamita. «All’imboccatura era pur segnato, e io di bivi non ne ho visti.» «Non ce n’erano» rifletti. «C’erano solo le sterrate che conduce-vano alle ville, ma se pure il sentiero entrava nel cortile d’una villa, ci sarebbe stato un cartello o qualcosa.» «Forse entrava nel cortile d’una villa, e noi siamo due baggiani.» «Così però» dici, «stiamo tornando in paese.» «Già» ha detto il Vietnamita. «E forse faremmo bene a tagliare per il bosco, anziché girare in tondo lungo questo sentiero del menga.» Si è fermato nel mezzo della pista in terra battuta, e per un po’ l’hai visto scrutare il profilo scuro del borgo fortificato. «Quell’uomo caritatevole ha detto di andare verso la Torraccia, giusto?» Avete imboccato una traccia che puntava la sella fra due colline, seguendo le impronte dei cinghiali fino a un rivo che doveva servire da abbeveratoio. Sotto il fitto d’alberi non si vedeva più il cielo, e l’unica cosa da fare era seguire la traccia fino alla fine e sperare sbucasse in vista del lago. «In linea d’aria ci stiamo avvicinando» t’assicurava ogni cento passi il Vietnamita, ma la sua voce usciva come un sussurro nella penombra. Siete risaliti oltre il rivo, dove la macchia era più fitta, e tu, piegato sotto il Salewa, seguivi il tuo amico sussurrante. In cima alla salita, la traccia usciva all’aperto per perdersi fra le zolle riarse alla base d’una collina sul cui fianco gemevano nel vento centinaia d’ulivi. Il lago non si vedeva, ma perlomeno si scorgeva di nuovo il crinale, e il profilo scuro del borgo fortificato non poteva distare più di un’ora. Avete attaccato in linea retta l’erta dell’uliveto e dopo un po’, come ti capita quando il fiato si fa corto e non si vede la fine della salita, ti sei fermato e hai scelto un sasso che affiorava dalla terra riarsa. È una tecnica per scuoterti che hai collaudato da ragazzo, e ti sei stupito che ti fosse tornata in mente solo a quel punto. Hai


raccolto il sasso, e senza neppure strofinare via la terra l’hai fatto scivolare nella tasca dei calzoncini in cordura. «E un piccolo pegno da conservare fino al termine della tappa» hai detto al Viet. «Quando arriveremo al la-go, me ne libererò, e allora proverò pietà e comprensione per il me stesso di adesso.» «È una specie di paradosso spazio-temporale» ha detto lui passando le dita fra le setole lucide. «Ieri sera eravamo comodi. Questa sera saremo comodi un’altra volta, ma negli intervalli fra una sera e l’altra puoi anche scoraggiarti.» A pensarci adesso che avanzate lungo il tavolato d’assi dell’imbarcadero, e il sasso pesa come un ricordo inopportuno nella tasca dei calzoncini in cordura, è difficile individuare il momento esatto in cui la fatica ha preso il sopravvento. Di sicuro, mentre aprivi la strada fra gli ulivi, piegato dal Salewa sotto il cielo senza nubi del mezzogiorno, credevi che un primo limite fosse già stato superato. Pensavi di essere in riserva ormai, e a un certo punto sono apparsi in cima al colle i comignoli, poi il tetto e le pareti intonacate di bigio d’un casale solitario. Salivate fra le zolle, e quando siete arrivati abbastanza vicini al casale da scorgerlo per intero, vi siete accorti delle donne sedute in cortile. Erano due donne bionde in caffettano da spiaggia, e sedendo a gambe accavallate su un paio di poltrone in bambù sembravano guardare nella vostra direzione. «Donne» ha considerato il Vietnamita. «Donne sole in mezzo alla campagna.» «Prendono il sole, e il posto non sembra male.» «Chissà quanto si annoiano, mi dico.» Hai levato un braccio, una delle donne ha risposto al saluto, e voi avete ripreso a salire lungo il filare d’ulivi. «Con quelle tuniche del menga, si vedono le cosce fino alle mutande» ha detto il Viet. «Sempre che ci siano, le mutande.» Quando mancavano cinquanta passi, il vento vi ha portato il riverbero delle loro voci che parlavano fitto una lingua del Nord, e poi le avete sentite ridere. «Così però è da spudorate» ha sussurrato il Vietnamita asciu-gandosi la fronte con l’avambraccio. «Così vogliono proprio farte-lo capire, che c’è da far bene.» «Manteniamo la calma» hai detto al tuo amico. «Comportiamo-ci da gentiluomini e, soprattutto, non facciamoci illusioni, che poi ci si resta male.» Non volevi farti illusioni, però c’era il casale dalle pareti intonacate di bigio, c’era il cortile e c’erano queste donne bionde in caffettano da spiaggia, che anziché scappare vi aspettavano sorridendo, sedute spalla contro spalla. Mancavano solo una ventina di passi, le guardavate e loro vi guardavano, dentro un avvicinarsi che


custodiva tutte le pirotec-niche possibilità del futuro. Avete coperto spalla a spalla gli ultimi metri, le donne sorridevano, e il frinire degli insetti sembrava qualcosa di assordante, finché non era risuonata attraverso il cortile una voce baritonale e carica d’irritazione. «Vi siete persi?» aveva detto la voce, e i vostri sguardi erano corsi verso la porta aperta del casale. «Si perdono tutti, porca l’o-ca.» Anche le donne si erano volte verso la facciata, e l’uomo che parlava era inquadrato dall’orbita di una delle finestre al piano alto. Era un orco dalla barba rossa, non indossava maglia né camicia, e tu hai pensato che, se era già in vedetta da un po’, doveva avervi scorto fra gli ulivi molto prima delle donne. Ridevano del vostro stupore, e voi le avete abbandonate sulle poltrone di bambù senza scambiarci neppure una parola. Sentivi che ti avevano ingannato, e anche per il Vietnamita doveva essere così. L’orco è sceso in cortile indossando soltanto un paio di calzoncini lucidi del Bayern Monaco. Il suo ventre teso era coperto da un fitto pelame fulvo, e tu, con la voce da paloma, hai domandato come si faceva a tornare sul sentiero numero 6. «La contrada è meravigliosa» ha detto lui. «Peccato solo che qualcuno si diverta ad abbattere i pali della segnaletica.» Vi guardava come fosse colpa vostra, e tu, sforzandoti di non fissare lo sguardo sul suo ventre teso, hai detto che forse erano stati i bracconieri. «Prima o poi, uno di quei bastardi non torna a casa» ha detto l’orco. «Così imparano a buttare giù i cartelli.» Era un uomo che metteva soggezione, e a un certo punto ha puntato l’indice in mezzo al petto del Vietnamita. «A voi pare giusto» ha detto «che i cristiani si perdono e finiscono tutti a casa mia?» Per un po’ vi ha guardato in silenzio, e anche le donne vi guardavano. «Adesso andiamo» il Vietnamita ha detto. «Se ci spiega come si torna sul sentiero, leviamo subito il disturbo.» «Via» ha sbuffato l’orco. «Datemi le borracce, almeno.» Avete consegnato le borracce alle sue grandi mani coperte di peli rossicci, e scuotendo la testa l’orco è entrato in casa. «Io sono una persona tranquilla» il Vietnamita ha detto, «ma se continua a fare il prepotente, forse dovrei mostrargli il temperalapis con cui mio nonno ha ucciso quella tigre.» «Lascia perdere» hai detto. «Non è prepotente, è solo un po’ burbero.» Le donne vi sorridevano, adesso che lui non c’era, e il Vietnamita ha detto fra i denti che non capiva cosa ci trovassero, due bionde così, in un ciccione maleducato. Il profilo del borgo che puntavate da tutta la mattina, adesso svettava arroccato sulla cima del colle più vicino, e tu non vedevi l’ora di tornare a camminare sul fondo battuto del sentiero.


Poi l’orco è tornato, vi ha restituito i cilindri delle borracce di nuovo freddi e pesanti. «Quella specie di paesino» ha domandato con cautela il Vietnamita. «Quello a cavallo del crinale, si chiama Torraccia o come si chiama?» L’orco ha levato lo sguardo verso le poche case cinte dalla cerchia di mura, e poi vi ha guardato come due poveri sciocchi. «La vedete, la strada padronale che sale dietro la casa?» ha indicato. «Prendete quella, e in un attimo sarete sul sentiero e sarete dove cavolo vi pare.» Poi è rimasto a fissarvi, le braccia incrociate sul torace, e se pu-re non diceva niente era chiaro che aspettava solo di vedervi partire. La strada padronale andava a morire su una sterrata solcata dai pneumatici delle jeep, e la sterrata era abbastanza larga da consentirvi di procedere affiancati. Ormai il borgo era così vicino da distinguere gli scuri delle finestre, e quando vi siete trovati abbastanza in alto da vedere il casale sotto di voi, il cortile vi è apparso simile a una terrazza agget-tante sul declivio dell’uliveto. Le donne erano ancora sedute sulle poltrone in bambù, e adesso l’orco era in piedi in mezzo a loro, le mani posate sugli schienali. Scrutavano a valle, e forse l’orco parlava di recintare la proprietà. Il Vietnamita ha trovato un segnavia dipinto su un masso, e più avanti avete scorto un cartello metallico del sentiero numero sei, assicurato con il filo a molla al tronco di un nocciolo. Così potevate quasi esultare, mentre vi avvicinavate al borgo fortificato. Se pure avevate perso tempo e vi eravate lasciati ingan-nare dalle donne che vi aspettavano in cima alla collina, ormai sarebbe bastato seguire il sentiero e non abbandonarlo più fino a sera. «Sembra abbandonata, la Torraccia del menga» il Vietnamita ha detto, ma a quel punto vi bastava trovare un po’ d’ombra per allungarvi sull’erba e mangiare qualcosa. Oltre l’arco dell’unica porta, un cane bianco giocava con un gatto giovane, e il gioco consisteva nell’inseguire il gatto, pren-derlo per la collottola e fingere di ucciderlo. Appena lo lasciava andare, il gatto schizzava a nascondersi fra l’erba, e a parte loro, non si vedeva fra le mura creatura vivente. Al centro del borgo c’era una chiesetta in disuso, e di fronte alla chiesetta una quinta di case risistemate con grazia, le facciate in pietra rivestite da graticci carichi di rosa canina. Oltre la chiesa, il selciato conduceva agli spalti; anche laggiù crescevano i cespugli di rosa canina, e voi siete andati ad affac-ciarvi sicuri di scorgere le sponde amiche del Trasimeno. Invece il lago proprio non si vedeva, e al suo posto spiccava, in mezzo alla pianura coltivata, il gigantesco rocchetto color cemento di quello che sembrava un reattore nucleare, e ai piedi del rocchetto distinguevi la piscina del bacino di raffreddamento.


Il Vietnamita aveva sfilato in silenzio la Kompass dalla tasca a rete del tuo zaino e, per quanto vi affannaste sulla carta e nelle triangolazioni a vista, restava il fatto che l’immenso occhio tondo del lago era scomparso. Faceva un caldo del diavolo, in mezzo a tutti quei cespugli di rosa canina. Il cane bianco strapazzava il gatto finché questo, per dargli soddisfazione, non fingeva di essere morto, e in un certo senso avresti voluto accartocciare la Kompass e darle fuoco con l’accendino. Per un po’ avete poggiato gli zaini contro gli spalti delle mura e siete rimasti seduti a pensare. Solo dopo, ti è venuto in mente che potevi dare un’occhiata alla bussola. La sua lancetta vi ha spiegato con amore che, se sotto di voi non si vedeva il lago, quel posto non poteva in nessun caso essere la Torraccia. Allora avete abbandonato gli zaini contro gli spalti e, scortati dal cane bianco, vi siete messi a esplorare il borgo, con la speranza di trovare un indizio. Affisso sul fianco di una delle case puntellate con le assi, avete trovato un pannello con le indicazioni di legge: sul pannello era scritto il nome della ditta incaricata al restauro ed era scritto il no-me della località. «Non si chiama Torraccia» ha detto il Vietnamita in un grido di dolore. «Si chiama Mongiovino, puttana Èva.» Mongiovino Vecchio, specificava il cartello, e voi siete tornati agli zaini odiandone fino all’ultimo gli invisibili abitanti. Con ma-ni tremanti, avete spiegato di nuovo la Kompass per capire dove vi eravate cacciati, e quando avete individuato il nome del borgo sulla carta, il Vietnamita ha ricominciato la sua sagra di “Stralunami” e “Puttana Èva.” «Abbiamo preso il sentiero dalla parte sbagliata» diceva cercando di strapparti la Kompass. «Fin da casa del ciccione, almeno.» A stare un attimo calmi, invece, la carta ti rivelava un sacco di cose. Ad esempio che la famosa Torraccia, più che un borgo, era il nome d’un colle, uno degli ultimi prima di Monte Solare, e distava almeno due ore di marcia. Il cane bianco e il gatto che teneva in ostaggio vi hanno scortato fino all’arco della porta, e voi avete imboccato la sterrata verso la casa dell’orco. È servito doppiarla e camminare ancora un pezzo, prima che il sentiero guadagnasse l’ombra delle querce. Il sentiero vi ha condotti alla Buca dei Calcinari, una radura da cui dipartivano a stella piste capaci di inoltrarsi nel fitto del bosco. Una tabella in metallo sfiorata da una rosa di pallini proibiva in maniera esplicita la raccolta di funghi, asparagi e altri frutti della terra, e al limitare degli alberi si apriva la grande volta annerita della fornace che dava il nome alla radura. Sembrava di trovarsi davanti a un monumento nascosto nel bosco di querce, l’estrema memoria di quando i mattoni necessari alla fabbricazione dei casolari dovevano essere cotti sul posto.


Così vi siete fermati a mangiare a pochi passi dalla volta in pietra annerita e, mentre tagliavi il pane, il Vietnamita ha detto che, prima di sera, avreste dovuto disegnare una mappa precisa del vostro itinerario. «Magari» ha detto, «prima o poi salta fuori, un’altra pattuglia di pazzi che si mette d’impegno per traversare il Paese a piedi. Salta fuori, e la fatica da muli di stamattina, tutti gli errori e i giri a vuoto, si trasformerà in qualcosa di nutriente.» «Non ci avevo pensato» hai detto. «Ma bisogna essere capaci, di disegnare una mappa precisa.» Dopo pranzo, il Vietnamita ha sciolto il foulard rosso che portava intorno alla gola, e mentre si massaggiava il collo, è saltato fuori con l’idea delle foglie. «Se dobbiamo faticare come muli fino alla riva del lago» ha detto, «tanto vale che stiamo allegri.» Tu all’inizio non volevi, avevi paura che il khat non vi avrebbe aiutato a prendere le decisioni giuste ai bivi. «Parli come una persona con i paraocchi» diceva lui. «Basta non uscire mai dal sentiero, e queste foglioline ci porteranno dritti alla riva.» Così ha preparato un paio di foglie a testa, e ruminando avete ripreso il cammino. Dovevano essere le due, più o meno, e tutto quello che sai è che da allora avete seguito i tornanti d’una strada bianca senza smettere di masticare khat, ma l’ordine di quello che avete visto si confonde. Di certo vi siete lasciati indietro la Stonehenge di cipressi e pini marittimi che incoronava la cima della Torraccia, e di certo la danza dei passi vi ha condotto attraverso la frazione abbandonata di Scarnabecco, un posto lugubre infossato nel punto più profondo d’una conca senza luce. Siete scesi verso un fiume dall’acqua melmosa e avete risalito la collina fino a un altro villaggio deserto, dove l’unico segno di passate attività era un capannone dal tetto in lamiera, all’ombra del quale era posteggiato un vecchio camion Bedford color oliva, e i rovi che assediavano il perimetro del capannone ne lambivano il grande radiatore. C’erano segnavia biancorossi del Cai, lungo le pendenze andine della strada di breccia che conduceva alla vetta del Monte Solare. Il succo elettrificato e bianco entrava in circolo, e tu riuscivi a pensare a te stesso come a un punto luminoso in movimento attraverso i paesi fantasma dell’Italia Centrale. Avete sbagliato strada ancora un paio di volte, ma non vi è più dispiaciuto. E poi, in un tratto in cui i segnavia si lasciavano seguire in maniera pedissequa, vi siete trovati nel cortile a ghiaia fina d’un resort di lusso. C’erano Bmw e Jaguar parcheggiate, e una portiera in divisa vi ha spiegato come uscire dalla proprietà privata. È stato più avanti che il tuo tallone ha ricominciato a pulsare, ma tutto accadeva sottotraccia, compresso per lasciare spazio alla gioia di essere vivi. Dovevate aver superato da poco il passo di Porta Materna, quanto il Vietnamita, gli occhi resi lucidi dal khat, ti ha posato una mano sulla spalla e, sorridendo, ha dichiarato che il futuro era disteso davanti a voi.


«Ho visto la luce» insisteva. «Stralunami, ho visto l’uovo di Co-lombo. La mappa è solo il primo passo. Dobbiamo fondare una cooperativa, amico. In fretta, prima che ci rubino l’idea, e l’obiettivo della nostra cooperativa sarà quello di attrezzare il sentiero dei due mari.» «Niente meno» hai detto. «Ci metteremo d’accordo con le istituzioni» insisteva da dietro la montatura leggera degli occhiali. «Contatteremo le province, prometteremo di valorizzare lealmente il loro territorio, e con i fondi che otterremo sarà un gioco da ragazzi attrezzare la prima via pedonale dal Tirreno all’Adriatico.» In Australia ce li avevano, in America ce li avevano. Sentieri a lunga percorrenza. In Madagascar non li avevano, ma solo perché tutta l’isola, da Diego Suarez all’estremo Sud, poteva essere consi-derata un sentiero a lunga percorrenza. Se eravate convincenti a esporre l’idea, sarebbero accorsi a frot-te i volontari, per aiutarvi a sviluppare l’iniziativa. Sarebbe bastata un’estate, e poi il sentiero sarebbe rimasto molti anni a disposizione di quanti, per una tappa o per tutto il tempo necessario alla traversata, desideravano perdere se stessi nel cuore verde della Nazione. «Noialtri della cooperativa» delirava sputando di tanto in tanto una pallottola di foglie ormai priva di succo «potremmo lavorare sul terreno in pianta stabile, come ranger. Per fare le cose sul serio, c’è bisogno di una manutenzione continua della segnaletica, e serve gente decisa, capace di scoraggiare i bracconieri del menga.» La stampa, sosteneva fra una citazione di Chatwin e un’altra forse di Terzani, si sarebbe occupata senz’altro, di una cooperativa del genere. Più tardi vi siete ritrovati esausti, e le foglie che masticavate non servivano più a stare allegri, e anzi vi separavano, sospingen-do ognuno lungo la china spoglia dei propri pensieri privati. Adesso il Vietnamita non parlava più, e alla Chiesa dei Montali eravate così stanchi da incespicare sui sassi che affioravano sul fondo della sterrata. Davanti al cimitero erano parcheggiate due vecchie Fiat, e un gruppo di uomini giocava a bocce lungo la strada deserta. Vi è venuto naturale, procedere oltre il ciglio per non disturbarli, ma loro hanno ringraziato uno per uno e poi, attraverso la sforcatura dell’ultima onda di colli, il Vietnamita t’ha indicato l’abitato di Sant’Arcangelo, simile a un uccello candido posato sull’acqua scura. Siete scesi verso un bassopiano punteggiato di poderi, costeggiando un grande recinto per i cavalli, e tu pensavi ai giocatori di bocce, alla portiera in divisa del resort di lusso e a tutte le persone che vi avevano aiutato a tornare sulla buona strada. «Quando la cantonale muore contro un greppo» era un brandello di frase che tornava in superficie, «prendete in discesa.» Qualcuno l’aveva detta, ma non ricordavi chi fosse stato.


Un grosso cane pastore era sdraiato in mezzo alla strada, fra le prime case di Sant’Arcangelo, e alle sue spalle s’indovinava già il traffico sostenuto della litoranea. Un ragazzino in canottiera che sembrava uscito da un film neorealista è sbucato da un cortile, ci ha detto di non aver paura, che il suo cane era mansueto. Allora il Vietnamita, con gli occhi d’un uomo che ha pianto a lungo, ha domandato al ragazzino se per caso sapeva dove fosse il campeggio. Il ragazzino vi ha spiegato una scorciatoia fra le case, e quando siete usciti sulla litoranea avete trovato quasi subito la terrazza d’un bar. Avete bevuto birra e gazosa in piedi al banco, e poiché non vi sembrava di esservi riavuti del tutto, una seconda birra seduti sulla terrazza. Mentre fumavate guardavate le macchine passare, e guardavate tutta quell’acqua quieta e lontanissima dal mare. Ce n’era a non finire, oltre la litoranea e il sipario rado di tife e papiro della riva. La brezza ne increspava appena la superficie, e tu potevi pensarla come il liquido ombelico del Paese. La prospettiva del viale bordato di pini che conduce all’ingresso del campeggio prosegue dritta fino all’imbarcadero dei tra-ghetti. Ti sei ricordato del sasso che porti in tasca da questa mattina, e hai pensato che, prima ancora di piantare la tenda, sarebbe bene offrirlo in pegno d’amicizia alle acque del lago. Una draga gialla è ancorata presso la riva, una seconda più grande alla piattaforma d’attracco in fondo al pontile, e se pure la prossima corsa partirà solo domani mattina, vicino all’ingresso del campeggio c’è traffico di stranieri in vacanza. Lungo le ringhiere del pontile fioriscono a intervalli regolari coppie di lampioncini che si preparano a illuminarne il fondo di tavole, e il crepuscolo avvolge già i paesi e le fattorie che punteggiano di luci la sponda opposta. «Mi hanno sempre messo malinconia, i laghi» dice il Vietnamita mentre vi trascinate lungo il sentiero di tavole dell’imbarcadero. «L’acqua non fa mai buon odore, e io praticamente non ci vedo più dalla fatica, ma questa volta sento che ne è valsa la pena.» Percorrete il pontile fino alla piattaforma d’attracco, e laggiù siete di nuovo soli. «E poi è tranquillo, qui» dice il Vietnamita. Mentre sfili di tasca il sasso raccolto questa mattina fra le zolle riarse, lo vedi che si schiaffeggia un orecchio. «Il posticino ideale, se sei una zanzara, per venire a fare le tue cose in pace.»

GIORNO UNDICI. Da Sant’Arcangelo sul Trasimeno a Perugia.


Dormite finché la luce del giorno non filtra attraverso la vela color oro brunito del sovrattelo, e dentro i vostri bozzoli, con la cerniera chiusa fino al torace, fa un caldo d’inferno. Il Vietnamita si gratta la testa, si solleva sui gomiti e scruta le macerie degli zaini, il caos di maglie sporche e posate della gavetta che cingono d’assedio i sacchi a pelo. «Che notte del menga» dice subito mentre si puntella sui gomiti, e scruta a occhi stretti tutta la devastazione dentro l’igloo della casetta surriscaldata. «Ho sognato che camminavamo senza incontrare mai nessuno.» «Sarà per via dei villaggi fantasma di ieri» dici. «Ieri però qualcuno l’abbiamo incontrato. Invece nel sogno camminavamo da settimane, e tutti i paesi erano disabitati. A un certo punto mi sono svegliato con il cuore a mille. Avevo la tuta fradicia, e non so come nel sonno mi ero girato, con il sacco a pelo e tutto, ed ero finito con la testa dalla parte della veranda.» Pensi che ieri sera s’è addormentato di fianco a te, con la testa dalla parte dell’abside com’è ora, e se davvero si è girato nello spazio esiguo della tenda, ci dev’essere stata una fase in cui ti è passato sopra con le gambe. «Avevo la testa laggiù» ripete indicando l’estremità del sacco a pelo tesa dai piedi, «e pensavo fossi stato tu, a girarmi.» «Amico» dici, «ho paura che tu abbia fatto tutto da solo.» «Dopo è servito un quarto d’ora, per cambiarmi al buio e siste-marmi da capo in posizione.» «Ci abbiamo dato dentro, ieri, con le foglie di Spichisi.» «Non sono le foglie, il problema. È la vicinanza del lago che mi mette ansia.» «Sarà il lago» dici levandoti a sedere. «Qua sotto in ogni caso» dici spalancando il doppio sorriso a cerniera dell’entrata, «comincia a fare tiepido.» La prima folata che lambisce l’igloo ti fa rabbrividire, ma la porzione d’erba al largo della veranda è indorata dal sole, e lungo il vialetto si vedono un paio d’ospiti del campeggio dirigere in costume e canottiera verso il casotto dei bagni. «Il bello del campeggio» dici, «è che almeno, la mattina puoi fa-re una doccia.» «È un piacere che non puoi capire» mormora il Vietnamita sollevandosi a sedere, «se non sei abituato ad accamparti nelle radure del menga.» Deve stare gobbo, per non premere con la testa contro la sommità dell’igloo, e gobbo tasta nelle macerie


ammassate fra il sacco a pelo e la parete inclinata della casetta. «Se cerchi le sigarette» dici, «le ultime sono nel Salewa.» «Non cerco le sigarette» dice il Vietnamita a occhi stretti mentre svuota la tasca di sinistra. «Sto cercando i maledetti occhiali.» Nella tasca c’è il portafoglio del Viet, c’è la torcia elettrica e il barattolo esagonale del balsamo di tigre, e il tuo amico apre la zip del sacco a pelo, sguscia fuori e lo solleva per metà. «Puttana Èva» lo senti gemere. «I miei occhiali Armani», e quando lascia ricadere il lembo del sacco a pelo, vedi che in ma-no stringe la carcassa della montatura leggera. Le lenti ricordano vetrine bersagliate da una sassaiola, e una delle stanghette pende come un’ala spezzata. «Ci ho dormito sopra, stralunami l’uccello.» Nel casotto c’è posto per dodici docce, e le scocche splendenti dei phon a parete, i loro tubi corrugati simili a boccagli da astro-nauta, spiccano contro le piastrelle opache. Ieri sera, all’ingresso del campeggio, nessuno vi ha chiesto i documenti, e così, mentre riprendete coscienza sotto l’acqua tiepida, carezzate l’idea di sgattaiolare fuori senza passare dalla cassa. «Come risarcimento» insiste il Vietnamita sfoggiando in anticipò la sicurezza degli abusivi di successo. «Costavano duecento euro, i cazzo d’occhiali, e a Perugia mi tocca comprarne un paio nuovo.» Vi asciugate ai phon a parete, e la testa del Vietnamita, con i capelli ancora umidi schiacciati all’indietro, per un attimo ti ricorda quella di una grande lontra. Lungo il decumano asfaltato di quella piccola città di tende sorge uno spaccio. Vendono carte Kompass e Multigraphic, bombole celestine campingaz, cibo e tabacco. Scegliete dagli scaffali un barattolo di carne salata, comprate pane e succo di frutta. La cassiera è una signora giovane, con le foto dei figli appese dietro le spalle, e appena nota la maglia del Vietnamita, una t-shirt fiammante con il logo del parco dei Monti Sibillini, domanda se arrivate da là. «Pensavo di portarci i ragazzi» ha detto mostrando le foto. «Ci sono stata da ragazza, e voglio che anche loro vedano quei posti.» «Sono posti magnifici» ha sorriso il Vietnamita, e tu non sapevi che fosse mai stato laggiù. «Se conosce i sentieri, forse conosce quello che sale al Pian Grande.» «Come no» il Vietnamita dice. «È uno dei sentieri più belli d’Italia.» «E secondo lei, è adatto per dei ragazzi di dieci anni?» «Non è solo adatto, è indicato. Si divertiranno, vedrà.» Appena siete fuori, domandi al Viet in quale fase della sua vita è stato sui Monti Sibillini, e lui solleva le


sopracciglia. «Mai visti» dice. «Ho solo la maglietta. Me l’ha regalata una ragazza.» «Non Greta» dici. «Greta adesso sta con un porco di quarantasei anni, lo sapevi? No, comunque non Greta. Un’altra ragazza.» Vorresti domandargli chi è, ma poi non dici niente, e pensi che un tempo non eravate così discreti. «Quindi» dici, «speriamo che il sentiero sia adatto sul serio, ai figli della signora.» «Ma certo» il Vietnamita dice. «Non hai visto che moriva, dalla voglia di portarceli?» «Forse non è quello il punto» dici, e adesso ti batte in testa la sensazione che sgattaiolare via da un posto del genere sarebbe una sciocchezza, e una cosa che a Malcolm non ti piacerebbe raccontare. Lo dici al Viet, e lui dice che, nei tuoi panni, sono molte le cose di cui non parlerebbe a suo figlio. «D’accordo» dici, «su alcune faccende servirà mantenere il segreto un po’ di anni, ma questa è una cosa di cui proverei pena e basta.» «Non insisto» dice il Vietnamita. «So solo che non vedo l’ora d’essere lontano da questo lago del menga.» «Basterebbe non perdersi di nuovo» dici mentre rientrate verso la piazzola. «Se non ci riduciamo anche oggi come due storditi, per questa sera potremmo essere a Perugia.» Percorrete a ritroso il viale dell’imbarcadero accompagnato dalla fuga dei pini; per un po’ seguite l’asfalto della litoranea, e quando questa si discosta dalla riva scendete lungo una ciclabile in terra battuta. La ciclabile si inoltra fra i canneti e i fazzoletti d’orto ricavati dalla terra limacciosa che le acque del lago un tempo arrivavano a coprire. Adesso avanzate fra banchi di moscerini lungo il ciglio del cratere, ed è come un giro senza parole sul camminamento d’un torrione, i cui merli sono poggi verdeggianti e colline capaci di racchiudere il cerchio del lago. Mentre camminate lungo la ciclabile, guardi tutta quell’acqua destinata a evaporare, e pensi che a Perugia potete fare i conti sulla casa di Galerio. Siete cresciuti a poche strade di distanza, e l’anno scorso si è trasferito in Umbria per rilevare una libreria specializzata in testi universitari. Si è fidanzato con una delle sue prime clienti, e poco dopo è andato a vivere nell’appartamento che la sua ragazza divide con due compagne di studio. È stabilita dall’inizio, questa sosta d’un giorno a metà traversata, ma mentre camminate sul fondo fangoso della ciclabile, puoi sentirti preso in contropiede, all’idea che domani resterete ospiti a casa del vostro amico come signorini in vacanza, senza bisogno di portare lo zaino da nessuna parte.


«Chi troveremo, di preciso, laggiù?» domanda il Vietnamita a un certo punto. «Da Galerio, intendo.» «La sua fidanzata e le compagne d’appartamento, credo. Ma potrebbe esserci anche qualche amico di passaggio. Potrebbe esserci chiunque. Lo sai come sono, le case degli studenti.» «Dal mio punto di vista, è meglio se non c’è nessun amico di passaggio. E comunque Galerio non è uno studente, è una specie di punkabbestia travestito da libraio.» «Ex libraio, ormai. L’ha capito, alla fine, che passare la giornata a vendere testi universitari non faceva per lui.» «Per forza. Se lo vedi sembra un ragazzo come tanti, ma dentro è un punkabbestia. Io mi chiedo che diavolo aveva in mente, quando ha deciso di trasferirsi a Perugia.» «All’inizio voleva restare in città, ma in città la concorrenza era troppa, così quando ha trovato la bazza a Perugia, è partito senza un rimpianto. Lo sai com’è fatto. Uno che emigra a Londra senza conoscere le lingue straniere, mica s’impressiona per trasferirsi in Umbria.» «È un punkabbestia, e ogni volta cambia progetto. Non aveva deciso di restarci, a Londra?» Lo sei andato a trovare, quando lavorava allo Stromboli’s di Camden Town. Se la passava bene, ma diceva che quella non era una città adatta ai camerieri. “Con tutti i soldini che girano qui” diceva, “ti diverti di più a fare il commerciante”. «Piano piano» dici, «si sta avvicinando a casa anche lui», e pensi che solo tu, in questi anni, hai sempre lavorato dentro un appartamento. «Sono discorsi che mettono malinconia» dice il Viet. «E comunque, se abbiamo fortuna, le amiche della ragazza di Galerio potrebbero essere entusiaste, di vederci arrivare.» «Le hai conosciute?» «Per ora conosco soltanto la fidanzata di Galerio.» «E com’è?» «È carina ed è una brava ragazza, ma spero che le sue amiche siano autentiche allodole sportive.» «Se solo si rendessero conto della forza che riescono a infonder-ti» dici, «sarebbero tutte un po’ più sportive.» «Siamo la crema della nobiltà psicoatletica» insiste il Vietnamita. «Arrivi a piedi dal mar Tirreno. A piedi. Dal Tirreno. Lo senti come suona? Non possono ignorarti.» «Non penso che ci ignoreranno.» «Posso dire che arrivo anch’io dalla costa?»


«Spero solo di non fare cazzate» dici. «Cose di cui dopo mi pento.» «Sei innamorato di tua moglie, giusto? Se sei già innamorato, mica puoi fare cazzate. L’unica cosa di cui pentirsi, a questo punto, sarebbe innamorarsi di un’altra.» «Vorrei crederti» dici. «Sul serio. Ma vorrei ancora di più che Dina capisse come ci si sente dopo dieci giorni lontano dalle donne. Se lo capisse, forse sarebbe più facile parlare di determinate questioni.» «Loro non possono capirlo. Va contro la loro natura, amico mio. Ascolta» ti dice. «Le donne sono i contadini pazienti, e noi i pastori nomadi. E tutto quello che dispongono intorno alle loro casette ordinate, a noi appare come un bene che sarebbe interessante portare via.» «Non sono sicuro che vada così.» «È la natura, amico.» «Così, però, è la natura vista dai rapaci.» «Ci guida, il nostro rapace» sorride il Vietnamita, «e poiché non può volare via senza di noi, ci trascina con sé.» In un certo senso, sono le stesse gag paradossali che a vent’anni facevano del Vietnamita una specie di artista giovane, ma sono passati dieci anni da allora, dieci anni nei quali il tuo amico si è addestrato soprattutto a diventare un farmacista. «L’hai capita, almeno?» domanda dopo un po’ che camminate in silenzio fra i canneti e le piante di papiro. «Suppongo di sì» dici, e pensi che ormai s’aggrappa alla verve come al fantasma di ciò che sarebbe potuto diventare. La ciclabile risale l’argine della litoranea nei pressi di un bivio, e voi imboccate l’erta asfaltata che sale verso un paese chiamato Agello. Non c’è un filo d’ombra, ma quasi subito trovate verniciato su un masso al margine della strada un segnavia del sentiero numero 6. «Arriva fino a Perugia, il dannato» considera il Vietnamita, e tu dici che perlomeno va in quella direzione. Seguendo i segnavia, nel giro di poco vi trovate su una aiuola erbosa, circondata da alberi ancora troppo giovani per crescere senza sostegno, e al centro dell’aiuola una stele ricorda che in quel luogo esatto, cinquant’an-ni fa, tedeschi e fascisti fucilarono venti contadini. Il Vietnamita dice che la nazione è disseminata di monumenti del genere, cippi e steli e targhe che portano i nomi di giovani e donne e famiglie intere, e per un po’, mentre vi lasciate alle spalle quel posto in cui venti vite sono state spezzate, il tuo amico se la prende con i revisionisti del menga. «Negli ultimi tempi» dice,


«basta ricordare che siamo stati noi, a scatenare la guerra, per rischiare di essere giudicati male.» «Ultimamente c’è un pizzico d’ignoranza, in giro.» «Si chiama disinformazione» il Vietnamita dice. «E finché al governo ci sono i reduci di Salò, ne sentiremo di incredibili.» «Ho paura che quando Malcolm andrà a scuola, agli studenti racconteranno le puttanate all’acqua di rose. Tipo che Hitler, a parte la svista dell’Olocausto, non ha fatto niente di male. Era so-lo malato, poverino, e in ogni caso ha osato attaccare al cuore il Comunismo. Questo racconteranno, i reduci di Salò e i loro sostenitori. E Mussolini, alla fine, era solo un simpatico romagnolo fissato con le divise e le bonifiche.» «Ci saranno ancora, le steli e le lapidi» il Vietnamita dice. «Basterà portare Malcolm a vederle. Un ragazzino lo capisce subito, da che parte stare.» Pensi che i monumenti resteranno, ma tuo figlio non potrà mai parlare con i reduci della 36a Garibaldi, né andranno a scuola i vecchi partigiani con l’accento della sua terra per raccontare di quando, a vent’anni, tennero in scacco la Wehrmacht a Porta Lame. «Dove cazzo sono tutti» domanda il Vietnamita quando ormai siete in mezzo alle case, e l’unico negozio che trovate aperto in tutto il paese di Agello serve da edicola, drogheria e rivendita di alimentari. Comprate due panini al salame di cinghiale, un sacchetto di pesche, e vi ritirate sulla terrazza di un locale chiuso per turno. Alla parete esterna è ancorato un distributore di gomme Brooklyn vecchio di venticinque anni e, secondo l’insegna, il locale si chiama Bar Sventola. Mangiate seduti a uno dei tavolini d’alluminio abbandonati sulla terrazza, e quando avete finito il Vietnamita sgombra il ripiano dalle briciole, raduna i rifiuti e li va a gettare dentro un ce-stino in plastica azzurra, omaggio dei gelati Eldorado, sagomato come un barbapapà dalla bocca spalancata. Quando torna al tavolo, con gesti meticolosi, apre la zip che difende la tasca sulla sommità dello zaino e ne estrae l’astuccio dentro il quale ha nascosto le foglie tenere del khat. Fa scattare il bottone automatico che ne governa la chiusura, e ti dispiaci quando vedi che ormai solo mezza dozzina di foglie opache spiccano contro la fodera di iuta. «Poco male» dice il Vietnamita rovesciandole sul ripiano lucido del tavolino, «questa sera facciamo rifornimento.» «Come sarebbe, rifornimento?» dici considerando la superficie delle foglie che comincia a raggrinzire, e i riflessi color ruggine stanno virando lentamente al bruno. «Non dirmi che hai un appuntamento a Perugia con il tuo fornitore.» Il Vietnamita sorride misterioso, mentre prende ad arrotolare la prima foglia.


«Mi sono premunito» dice. «Ho intercettato Galerio, la settimana scorsa, e ho affidato a lui il grosso delle foglie. Sono una cinquantina almeno, ancora custodite nel foglio di giornale dentro il quale me le ha consegnate Spichisi.» «D’accordo» dici. «E perché tutti questi passamano?» «Nello zaino, lo vedi, non resistono più di tre o quattro giorni. Invece Galerio rientrava a Perugia la sera stessa, e a quest’ora le foglie che ci condurranno di slancio oltre l’Appennino aspettano freschissime dietro lo sportello del suo frigo. È o non è un piano geniale?» «Nettamente» dici, e pensi che se il tuo amico s’industria tanto per queste foglie, forse anche il suo fornitore ha trovato il pollo che stava cercando. «Questa sera le facciamo provare alle ragazze» dice il Viet mentre ti porge una foglia. «Se sono autentiche sportive, ci divertiremo.» «Chissà se Galerio immagina» dici piegandola a metà, «che razza di bomba a tempo custodisce per noi.» La pieghi per due volte, come fa lui, e mentre l’arrotoli a sigaretta, ti stupisci che la tua bocca si riempia in anticipo di saliva. «Questa sera» dice il Viet inghiottendo la prima foglia, «anche Galerio sarà premiato per la sua fedeltà. Ho in mente di preparare una tisana un po’ speciale. Tanto domani non camminiamo, e se pure questa sera facciamo un po’ festa, nessuno se la prenderà.» «Una tisana al khat?» domanda la tua voce da sotto un vetro molto spesso. «In una casa piena di ragazze?» «Li spediamo in orbita» dice il Vietnamita stringendoti il polso. «Galerio e la sua fidanzata e tutte le allodole, e quando siamo cu-cinati a puntino, liberiamo i rapaci che facciano il loro dovere.» «Non voglio fare il guastafeste» biascichi con la pallottola fra i denti. «Però siamo quasi a Perugia, e anziché sentirmi disteso, mi preoccupo.» «Di cosa, ti preoccupi?» «Vuoi scommettere che Galerio non avrà neppure preparato lo zaino?» «Ho capito cosa intendi» il Vietnamita dice. «È impegnato a vendere la libreria del menga, e alla fine servirà sradicarlo, dalla città.» «Basta che non ci attardiamo» dici. «Non vorrei che ci troviamo troppo bene, fra una tisana e l’altra, e alla fine il viaggio va a ramengo.» «Ascolta, amico» il Vietnamita dice. «Il sette giugno, l’uomo che vado in giro a rappresentare sarà a pranzo da noi. Al mattino lo vedrò in ufficio, riprenderemo le fila del lavoro dopo una settimana di ferie.


Per quel giorno non andrò a incontrare nessun dentista, perché mia madre ci aspetta all’una. Conosce l’uomo da an-ni, e se non mi presento, stralunami, il doppio pacco si ritorcerà in fretta contro il mio culo.» «D’accordo» dici. «Lo sapevo che non saresti potuto restare di più.» «Se potessi v’accompagnerei fino al mare, ma posso restare so-lo fino a domenica prossima, e finché saremo insieme non andrà a ramengo un bel niente.» «Finora» dici, «non abbiamo fatto una piega rispetto al tabellino di marcia.» «Tranquillo, amico. Questa sera diamo retta ai rapaci, domani si vedrà, e all’alba del giorno dopo, se pure le allodole si disperano, ci mettiamo in marcia. Per dove già, ci mettiamo in marcia?» «Assisi» dici. «C’è l’anniversario della basilica.» «Ti ricordi quando ci siamo andati con gli scout?» «Mi ricordo, sì. Ci siamo presentati ubriachi alla messa del ve-nerdì santo, e qualcuno è svenuto.» «Non sono svenuto» dice il Vietnamita sciogliendo il nodo del foulard rosso che gli ripara il collo. «Ho avuto un semplice man-camento.» Le villette adesso si succedono, e ogni fazzoletto di giardino è cinto da ringhiere sulle quali spiccano le insegne metalliche di PROPRIETÀ PRIVATA e mille varianti, in gara fra loro per buzzurrag-gine verbale e grafica, del nobile ATTENTI AL CANE. Sul fianco della pieve del Rosario, isolata presso un bivio, ritrovate verniciati i segnavia d’un sentiero, ma non è più il numero 6. Così scivolate all’ombra verso Passo del Lupo, costeggiando un colle che il Viet, ruminando le ultime foglie, non smette di trovare straordinariamente simile al dorso di una bestia preistorica. Il paese di Corciano balugina davanti ai vostri occhi, arrampicato a mezzacosta sul versante occidentale d’una montagna fitta di macchia chiamata Malbe che vi nasconde il centro di Perugia, ma non le sue propaggini distese lungo la statale. Quando siete sbarcati sulla banchina della stazione d’Orbetello in vista della costa, ti sembrava una scommessa azzardata l’idea di raggiungere l’Umbria con gli stessi mezzi a disposizione dei pellegrini medioevali. Ormai dovresti aver percorso più di centocinquanta chilometri, e se terrai a bada il dolore ai piedi, e conti-nuerai a curarli ogni sera, in pochi giorni vi troverete a scavalcare la dorsale dell’Appennino, il confine di creste e crinali oltre il quale l’acqua dei fiumi scende in fretta verso l’Adriatico. Finirete per vederlo sotto di voi, il mare in cui nuotavi da bambino, la stessa acqua nella quale imparerà a nuotare tuo figlio. Scendete sotto il sole incontro alla città, e ti piace immaginare che un giorno lo zaino sarà leggero, e potrete tirarla in lungo per viottoli di campagna, fermandovi ogni poco solo per ritardare il piacere


dell’arrivo. «Sono un uomo di trent’anni che ha bisogno di masticare un casino di foglie» biascica il Vietnamita mentre imboccate il rettilineo perfettamente pianeggiante, simile a una pista d’atterraggio, della vicinale che conduce al mulino di Ponte Forcione. «So-no un uomo che ha dormito sopra un paio d’occhiali Armani» considera a occhi stretti, «ma sono anche, e soprattutto, una for-midabile pistola carica. Quindi, per cortesia» grida a braccia spalancate verso la distesa dei campi, «non mi si prenda sotto-gamba, popolo.» Anche a te, una volta, quando s’apriva il nuovo orizzonte, capitava di urlare ai campi che stavi arrivando, agli alberi di stare in guardia, ma è da un po’ che non ne senti più il bisogno. E nemmeno contro le città ti piace più alzare la voce. Ormai siete schiacchiati a valle, e in vista del Mulino vi fermate a studiare la Kompass. L’itinerario vermiglio del vostro sentiero supera la massicciata della ferrovia infilando un sottopasso, e in qualche modo si congiunge alla strada panoramica che risale la montagna chiamata Malbe fino al parco della Trinità. «Per fare le cose come si deve, dovremmo arrivare a piedi fino a casa di Galerio. Dov’è che abita, Galerio?» «In via Eugubina, mi pare, ma il numero bisogna domandarlo al telefono.» «Oppure facciamo un’improvvisata alla maledetta libreria, sempre che ci lavori ancora dentro.» «I mobili dovrebbe averli già venduti» il Vietnamita dice. «Quando l’ho visto io, parlava di andare a venderli al mercato di Portobello.» «Ogni volta che ha qualcosa da vendere, dice che dovrebbe venderla lassù.» «Non so se ci sia andato davvero, alla fine. Ma ormai la libreria è vuota, per quel che ne so.» Vi inoltrate in un labirinto di orti abusivi delimitati da lamiere e filo spinato: i cani alla catena vi latrano contro, e ancora una volta il sottopasso segnato sulla carta è impraticabile, invaso di rovi e detriti. La massicciata sviluppa in curva, come un cattivo presagio, ed è molto più ripida di quella che avete superato l’altro ieri. «Non facciamo cazzate proprio adesso che le allodole sono a portata» dice il Vietnamita, e così percorrete il viottolo a ritroso attraverso il labirinto d’orti. Il sole è ancora alto, ma tu cominci ad avere voglia di stendere le gambe. Mentre riemergete dai campi e vi portate sul tracciato della vecchia statale, potete stupirvi di vedere di nuovo un marciapiede, il po’ di zozzerie gettate lungo il ciglio e la scocca invasa d’af-fissioni abusive d’una pensilina delle corriere.


Le cubature disumane dei capannoni industriali affollano la terra di nessuno fra la statale e le carreggiate sopraelevate del raccordo per l’Autostrada del Sole. La semplice espressione “strada veloce” in questo momento preciso ti da il voltastomaco, e annusarne le esalazioni dopo una giornata fra i campi ti sembra una pena ingiusta. Ovunque si vedono persone sole in viaggio dentro gusci di lamiera. Marciate attraverso la furibonda desolazione della periferia di Perugia, e non fosse per il profilo di pietra dell’Appennino che chiude l’orizzonte da presso, potreste essere ai margini di qualunque città. Sfilate sotto il cavalcavia del raccordo, e la strada che secondo la Kompass vi condurrà lontani da tutto quell’orrore motorizzato, verso il palmo aperto del parco della Trinità, smuore dopo cento passi contro il cancello d’una palazzina di periferia. Ci sono bandiere della pace appese ai terrazzi, e una signora dai capelli color stoppia sta scuotendo una tovaglia oltre il davanzale d’una finestra al piano rialzato. «Dovrebbe esserci un sentiero, signora» la fa breve il Vietnamita. «Una strada panoramica o forse un sentiero, che sale al Parco della Trinità ed entra in città evitando la statale.» La donna vi guarda e dice che da quelle parti non è mai passato nessun sentiero. «La panoramica che sale alla Trinità si prende molto più indietro» dice reggendo per le cocche la tovaglia. «Si prende a Cordano» dice, e per un po’ la guardate come fosse esattamente colpa sua, se adesso vi tocca scendere di nuovo alla statale. Raccomandate le vostre anime al cielo e prendete a camminare lungo la canaletta che separa l’asfalto della statale dal muraglione di contenimento, incontro alla fuga di cetacei metallizzati e cetacei color pastello. Tu apri la strada, il Vietnamita ti segue a tre passi, e in curva le auto v’incrociano a due braccia scarse di distanza. I piloti non si accorgono di voi fino all’ultimo, e quando scorgete la tolda d’un camion vi stringete in anticipo al muraglione per non farvi sbilan-ciare dallo spostamento d’aria. La rampa del raccordo autostradale adesso si stacca da terra, prende quota grazie a un impressionante viadotto. «Vorrei sapere chi l’ha costruito, quell’ottovolante del menga» dice il Vietnamita mentre seguite la curva del guard-rail lungo il po’ d’erba bruciata, costellata di preservativi e pacchetti di Merit, che presidia l’esterno della strada. «Così giriamo intorno alle pendici del monte» dici, «e non riusciremo mai a vedere la città dall’alto.» Andate avanti, sfiorati dai cetacei in fuga e sfiniti d’asfalto, finché non riuscite ad abbandonare la statale scendendo contromano una rampa in vista del grande stabilimento Ellesse.


Più in là, le cubature immense di un centro commerciale che sviluppa per terrazze vegliano il cartello lungo la strada maestra, tempestato d’adesivi degli Ingrifati, che segna il confine fra i sob-borghi e la città. Ci sono edicole e rosticcerie, panettieri, tabaccai, e tutto quello che si può desiderare sembra in vendita dietro le vetrine dei negozi che si aprono lungo il marciapiede. «Forse potremmo chiamare Galerio» il Vietnamita dice. «Ormai a Perugia ci siamo, e almeno ci facciamo spiegare dove ra-giungerlo.» «Forse è un buon piano» dici. «La città è tutta in saliscendi, e arrivare a casa sua per scoprire che è fuori, sarebbe da geppi.» Per un po’ andate avanti sulla spinta dell’inerzia, poi vi fermate sulla terrazza d’una pizzeria al taglio che affaccia sul corrai d’un parcheggio. «Entro a comprare qualcosa per rompere il digiuno» dice il Vietnamita sfilando lo zaino. Tu resti fuori col Siemens e all’inizio prendere la linea è una specie di impresa. Le nuvole fanno in tempo ad assumere la tonalità rosata che annuncia il tramonto, prima che la scocca color antracite della Golf, fiorita di graffi e ammaccature, appaia lungo la carreggiata. Allora vi sbracciate, ma anche senza accorgersi di voi, Galerio si tuffa fuori dal traffico e, dentro lo stridore d’un arco di curva in sottosterzo, costringe la Golf nel corrai del parcheggio. Mentre raccogliete gli zaini e scendete lungo la gradinata, vedete spalancarsi in simultanea le ali delle portiere anteriori, ma all’inizio solo il vostro amico esce dall’abitacolo. La chioma lunga alle spalle, lucida come un berretto di castoro, e una barba di alcune settimane destrutturata per chiazze e radure, mimetizzano il volto vigile da ex ragazzo della via Pal, e sotto il profilo pugilistico del naso riconosci il sorriso a labbra cucite dei giorni migliori. «Siete neri come il carbone» dice Galerio mentre vi arriva incontro. «Ve lo dico col cuore in mano, regiz. Incutete un certo timore.» «E tu?» dice il Vietnamita. «Lo sai cosa ti aspetta, sì?» «Veramente, reganz» insiste Galerio senza smettere di studiar-vi. «Sembrate portatori neri sopravvissuti al disastro della spedizione.» «Diventerai come noi» dici mentre lo abbracci. «Tempo tre giorni, sarai anche tu un portatore nero.» «In fondo anch’io, reginaldz, posso considerarmi una specie di sopravvissuto» dice mentre vi scorta verso la Golf posata ad ali aperte nel cuore del corrai. «Non sapete quanto mi sta facendo sudare, lo sbirro.» «Quale sbirro?» domanda il Viet.


«Il maledetto che lunedì rileverà la licenza e i muri della libreria» Galerio dice. «Così te ne liberi, alla fine» dice il Vietnamita, e tu pensi che lunedì è il giorno in cui dovreste partire all’alba verso Assisi. «È andata per le lunghe. Sembrava che il maledetto avesse il pe-pe al culo, pur di entrare entro la fine del mese. Invece, quando siamo andati a stringere, è saltato fuori che non aveva i soldi. Non tutti, almeno. Però domani, mentre voi riposate ufficializziamo davanti a un notaio.» «Mi raccomando» dice il Vietnamita. «Ti faccio presente che una sosta più lunga del previsto potrebbe risultare fatale al nostro amico.» «Trànquili» vi rassicura. «Il maledetto lo sa da un pezzo, che lunedì devo partire.» Siete a dieci passi dalla Golf quando la ragazza di Galerio esce dall’abitacolo, leggera sui piedi calzati da sandali in cuoio. È giovanissima, senza un filo di trucco, e il suo vestito in cotone grezzo, color giallo acceso, sembra arrivare dall’Africa. «Benvenuti ragazzi» vi sorride in controluce, «voi sarete stan-chissimi.» Pensi che è più carina, delle altre ragazze che Galerio ti ha presentato, e pensi che forse non ha ancora compiuto ventun anni. «Io mi chiamo Sara» dice avanzando verso di voi, e anche se siete sporchi e sudati, sembra intenzionata a baciarvi. «Pace» la senti sussurrare prima di sfiorarti la guancia con le labbra, e finché non s’allontana, cerchi di tenere le braccia molto aderenti al corpo. «Non ho mai dubitato che sareste arrivati» dice Galerio mentre apre per voi il portello del bagagliaio. «Però, regi/, è bello vedervi qui.» Vi aiuta a incastrare gli zaini, e poi non resta che stringersi sulla seduta posteriore della Golf e lasciarsi cullare fino a casa, co-me due autostoppisti cui una coppia di freak giovani abbia offerto un passaggio. Puoi seguire dal finestrino mezzo abbassato la fuga di facciate e vetrine piene di merci, sentirti felice perché dalle casse dello stereo di bordo esce limpido, sorprendente come lo ascoltassi per la prima volta, il buon rock sudista, tirato a mille e pieno di corda, d’un gruppo che una sera hai visto suonare in piazza insieme a Neil Young. Galerio guida sorridendo a labbra cucite lungo le strade sel-ciate della città che l’ha accolto, e la ragazza di nome Sara vi mostra la chiesa di San Francesco al Prato, racconta delle buone serate che vi si possono trascorrere durante la stagione di Umbria Jazz. Quando passate sotto il palazzo che ospita la sede della sua facoltà, per un po’ parla degli esami che l’attendono a fine mese, ma la sua voce mette allegria lo stesso, come tutte le cose all’inizio. Anche lei di tanto in tanto, con il gruppo di Pace e Democrazia, si trova a percorrere i sentieri dell’Umbria, e adesso vuole sapere dove avete piantato la tenda, e se la notte, in due soli, non avete mai avuto paura. L’atrio dell’appartamento di via Eugubina è invaso da una quantità di elmi e teste di drago in


gommapiuma, allineati lungo le pareti e sul piano della cappelliera a muro. «Non sono mica mie» spiega Galerio con un tono a metà fra lo sconcerto e le scuse. «Appartengono alle amiche di Sara.» «Studiamo insieme» lei dice, «ma nel finesettimana organizza-no feste per bambini, e questa volta le hanno ingaggiate per un compleanno in stile medioevale.» «Io le ammiro, le persone che sanno tenere buoni i bambini» considera il Vietnamita. «Una volta, ho dovuto fare il baby sitter alla figlia di mio fratello per tutto il pomeriggio, e ho capito che serve un grande equilibrio interiore.» «Benvenuti, in ogni caso» dice Galerio precedendovi attraverso un grande salotto luminoso, pregno dell’odore simile ad anice che sale dalla cupola in terracotta d’un bruciatore per aromi. Due pilastri ravvicinati, alti fino al soffitto, separano la cattedrale di mensole e fornelli dallo spazio destinato al convivio, il cui centro è occupato dal grande occhio d’un tavolo rotondo. Intorno al tavolo vedi solo sedie pieghevoli del modello che impiegano i registi, e sugli schienali in tela spicca a stampa il logo di Umbria Jazz. «Qui abbiamo tirato giù un muro in cartongesso» dice Galerio indicando il vano fra i due pilastri. «Con l’accordo quasi completo della padrona di casa.» «Il vostro amico è pazzo» ride Sara, e sulle pareti spiccano a diverse altezze un poster del reverendo King e la locandina a tinte forti d’un musical indiano. «Complimenti» dice il Vietnamita valutando con sguardo incerto il paio di divani di recupero che occupano l’angolo più lontano, «è luminosissimo, qui.» Guardi oltre la doppia anta della porta-finestra, e il monolite d’una pianta di cactus presidia il ridotto del terrazzo. «Non abbiamo la televisione» Sara dice. «Spero non vi dispiaccia.» Sotto la finestra ci sono due letti quasi accostati, le federe dei cuscini color zafferano che profumano di pulito, e ai piedi dei letti sono pronte due pile d’asciugamani in spugna. «Allora, regiz» dice Galerio quando torna, «sembra che non abbiate mai visto prima una camera da letto. Poggiate gli zaini, invece di guardarvi intorno come personaggi di Pirandello.» «È simpatica» dice il Vietnamita, «la tua ragazza.» «Simpatica» dici tu «e gentile. Non c’era bisogno di lasciarci la stanza.» «Sul serio» il Vietnamita dice. «A noi bastava un angolo per stendere i sacchi a pelo.»


«È stata Sara, a insistere. È molto credente, lei, e ci tiene a queste cose.» «Che bellezza» dice il Vietnamita sfilando lo zaino. «E come ha fatto, uno come te, a trovare una brava ragazza credente?» «Insegna catechismo ai ragazzini» Galerio dice. «E anche le sue amiche, le proprietarie di tutta la gommapiuma che ingombra l’atrio.» «Stralunami» dice il Vietnamita. «Questa la devi sposare, amico.» «Forse» dice Galerio, e si vede che ha voglia di cambiare discorso. «Devono essere simpatiche anche le sue amiche» dice il Viet mentre siede su uno dei letti. «Scommetto che non sono catechiste bigotte» dice pieno di speranza, e con grande lentezza si piega in avanti per liberarsi degli scarponi. «Non sono bigotte» Galerio sospira. «Sono di Pace e Democrazia. E comunque sono felice che vediate questa casa. È possibile che l’anno prossimo non ci avrò più niente a che fare.» «Sento che nessuno» mormora il Vietnamita «ha più bisogno del sottoscritto, di una buona doccia.» «Però» dice Galerio, «dovevate venire prima, se volevate trovarmi in gran forma. Mi sarebbe piaciuto, che vedeste come avevo sistemato la libreria. È un’ex bottega di carbone nel cuore della zona universitaria» dice passando fra i capelli le grandi mani callose, «a due passi dal portone di Lettere. Speravo di diventarci almeno un po’ ricco, ma quando la fortuna non ti bacia in fronte, c’è poco da sperare.» «Anche tu hai avuto un bel coraggio» dice il Viet. «Ce n’è pochissimi, che diventano ricchi con le librerie, e tu, senza offesa, eri una specie di debuttante assoluto.» «Mi sembrava un investimento sicuro» ammette Galerio, «e invece ci ho solo speso dietro.» È rimasto in piedi in mezzo alla stanza, e parlando gesticola, ma non hai mai l’impressione di trovarti di fronte un narcisista o qualcosa del genere. «Pensavo che gli studenti, i libri li devono comprare per forza, ma le cose non vanno più così da molto tempo. L’avevano capito tutti tranne me, che nelle vicinanze dell’università bisogna mettersi d’accordo con i professori. Se ti metti d’accordo, ti lasciano vendere le dispense in esclusiva, e ti fanno persino la pubblicità in aula, alla fine della lezione. «Io non mi ero messo d’accordo con nessuno, e verso ottobre ho ordinato al distributore venticinque copie del Manuale di Italia-nistica al Femminile della casa editrice Taunus. Qui è una lettura quasi obbligatoria, per le studentesse di Lettere. Ne ho ordinate venticinque copie e aspettavo che le matricolefiorellini, perlomeno quelle sbarcate in città da poche settimane, si azzuffassero per procurarselo. Invece entravano, chiedevano il prezzo del Manuale e degli altri titoli semiobbligatori, e poi uscivano perplesse senza aver comprato quasi niente. Le vedevo attraverso la vetrina, pian-tate appena fuori dal negozio, chiamare le amiche al cellulare. Domandavano consiglio, e se pure non potevo sentire, dopo un po’ ho capito che il consiglio era sempre lo stesso. Proseguire cento metri verso Porta Pesa, e entrare da Grifocopy.»


Il Vietnamita sfila da sopra la testa la maglia fradicia con il lo-go dei Monti Sibillini. Sulle clavicole spiccano i solchi, simili a frustate perfettamente simmetriche, impressi dagli spallacci dello zaino. «Quei maiali di Grifocopy» riprende Galerio, «sono venticinque anni che tessono le loro trame con i professori, e da loro il Manuale di Itaìianistica al Femminile si trova, fotocopiato e rilegato, a metà esatta del prezzo di copertina. Sarebbe illegale, ma solo da me, col fatto che ero nuovo, i vigili venivano a controllare i permessi e fare i pignoli.»


«Magari te li mandavano quelli di Grifocopy» insinua il Vietnamita. «La gente diventa aggressiva, quando si tratta di spazzare via la concorrenza.» «Mi hanno odiato da subito perché la mia libreria era arredata con buon gusto. Era un posto che non passava inosservato, e loro non potevano sopportarlo. Però non mi ero messo d’accordo con nessun professore, e gli affari, cazzo, non decollavano mai. Così, dopo qualche mese che i fiorellini entravano e uscivano senza comprare quasi niente, mi sono reso conto che, invece di aprire una libreria con punto internet, avevo spalancato un buco nero nel mio conto in banca.» «Mi dispiace» mormori. «Non siamo una generazione di imprenditori, a quanto pare.» «E impossibile farcela» commenta il Viet. «Chi ha già i soldi li usa per stritolare vivi i concorrenti giovani.» «Deve essere così» ammette Galerio. «O qualcosa del genere. Però all’inizio ci credevo, regiz. Volevo impormi, e così ho puntato soprattutto sull’immagine. Non volevo saperne, di mettere su il solito posto schifo.» «È triste, non riuscire a imporsi» il Vietnamita dice. «Ma quando avrò preparato la mia tisana, non ricorderemo più nemmeno l’odore, della tristezza.» «Il Viet» dici «vuole preparare una tisana con le foglie di khat. Ha deciso di mandarci tutti in orbita.» «Facciamo qualcosa, stasera» dice Galerio. «Per festeggiare il vostro arrivo, e il fatto che alla fine ho trovato un acquirente per la libreria.» «Però» il Vietnamita dice «lo sbirro non lo invitiamo. Quello è un attimo che ci vede su di giri e inizia a fare domande.» «Se tardava sei mesi» dice Galerio, «rischiavo di andare a fondo ammanettato al timone. Avevo già intorno gli amici di tutti, gli squali che si offrono di prestarti denaro, e a un certo punto ho pensato anche di scappare.» «A Londra, scommetto» dici tu. «Quella è una città dove un commerciante può ancora fare fortuna» Galerio dice. «Ci sono stato la settimana scorsa a vendere i mobili, e la sera, a Camden, ci si diverte sempre.» «Non posso farmi trovare in questo stato, quando arriveranno le ragazze» dice il Vietnamita sollevandosi in piedi. Studia la piccola pila di asciugamani ripiegati sul letto, ne saggia fra le dita la diversa consistenza, e alla fine sceglie di portarli tutti con sé. «Se adesso ti racconta che ha dovuto trascinarmi, farmi coraggio o altre panzane del menga» sorride a Galerio, «non credergli neppure un minuto. È la rabbia, che mi ha fatto da benzina» dice mentre traversa la stanza a piedi nudi, gli asciugamani stretti al petto. «E


le foglie benedette di khat» puntualizza «sono state il nostro lubrificante.» «Forse il Viet ha ragione» dice Galerio appena il vostro amico è uscito dalla stanza. «Di questi tempi, solo un pazzo furioso proverebbe a vendere libri. Ma non sono pentito di niente. Abbiamo da fumare?» s’informa. «Se mi passi l’occorrente, ci penso io.» Prendi la busta del tabacco e tutto quello che serve dalla testa del Salewa reclinato sul pavimento, lo consegni alle grandi mani callose del tuo amico. Per non insozzare il letto, prima di sdraiarti stendi l’asciugamano più grande a proteggere il lenzuolo e la fe-dera color zafferano. «La mia libreria» dice Galerio mentre apre la lista adesiva della busta del tabacco «era arredata da cima a fondo in stile arte povera, compresa la stanza riservata al punto internet. È una zona di grande passaggio, e qualche studente che ha fretta di scaricare la posta c’è sempre.» Il letto è soffice. Pensi che, alla lunga, potrebbe persino inghiot-tirti, e pensi che il tuo amico non farebbe male a sposare Sara. «Era un posto speciale, credimi, e per arredarlo ho speso un occhio della testa.» Senti il rumore dell’acqua che scroscia oltre la parete, e gli occhi un po’ ti si chiudono. Devono essere le foglioline del Viet, che al-l’inizio ti elettrizzano e dopo un po’ finiscono per affossarti. «C’è questo tizio, un ex di Prima Linea, che ha un magazzino vicino all’aeroporto.» «Sì» mormori. «Qui a Perugia?» «Vicino all’aeroporto di Bologna. Vende mobili di seconda ma-no. Catafalchi da due lire e pezzi autentici d’arte povera, tutto ra-strellato gratis nelle cantine che va a sgomberare.» «Certo» ti sforzi di seguire. «L’arte povera ha il suo fascino.» «Non è un brutto lavoro, con tutti gli anziani che abitano soli, andare a sgomberare le cantine. Se ci sai fare, in pochi anni metti insieme una discreta collezione. A me è bastato vederli una volta, i mobili di quel tizio, per decidere che la mia libreria avrebbe avuto la stessa personalità, solida e un po’ sciupata.» Intravedi fra le palpebre socchiuse il bagliore d’una fiammata d’accendino, e l’aroma deciso della sigaretta comincia a diffon-dersi nella stanza dalle pareti tinteggiate a spugna. «Nelle segrete del magazzino, l’ex di Prima Linea ha il suo laboratorio puzzolente d’acquaragia, e al centro del laboratorio c’erano un bel tavolo rustico e sei sedie impagliate. “Tutto quello che vedi apparteneva all’Osteria delle Dame” ha detto il tizio posan-domi una mano sulla spalla. “Su queste sedie” mi fomentava, “Lolli, Guccini e il resto della compagnia tiravano tardi la sera. E comunque la pensi su Francesco Guccini, le ho restaurate di persona e sono un pezzo di storia della città”.»


Pensi a tutta la campagna che avete traversato, a come sembrava quieta e priva di tentazioni. Pensi alle città, la vostra, quella che vi ospita e tutte le altre, come a un groviglio di storie che si in-trecciano all’insegna della simulazione e il desiderio. E poi vedi Galerio che t’arriva incontro. Vuole passarti la sigaretta, e un mezzo cocco svuotato che fin qui ha impiegato come posacenere. «“Vuoi che non sappia quanto è impegnativo aprire un’attività?” m’inferlava l’ex di Prima Linea. “Lo so che per voi giovani è dura. Adesso le porti a Perugia” insisteva, “i soldi me li darai quando arrivano”. Faceva il filantropo, e intanto portava le sedie fuori dal magazzino, verso la Golf parcheggiata nel piazzale.» «E così» dici sollevandoti a sedere, «hai comprato le reliquie dell’Osteria delle Dame.» «Pensavo che quel legno fosse carico di energia. Pensavo avrebbe protetto la mia nuova attività. I ragazzi ci andavano matti. Credevano fossi un pezzo grosso, su a Bologna.» «È un peccato che sia andata come è andata» dici a Galerio. «In culo alla sfortuna.» «In culo, sì» lui dice. «E in ogni caso passeranno secoli, prima che quaggiù si veda spuntare un’altra libreria arredata in stile ar-te povera.» Il Vietnamita entra nella stanza con un che di furtivo, l’asciugamano più grande legato intorno ai fianchi e il resto di salviette e vestiti premuti al petto in un unico fagotto. «C’è nebbia da queste parti» dice mentre ripara verso il letto. «Nebbia e profumo» e Galerio dal fondo della stanza sorride a labbra cucite. «Si parlava d’affari» dice. «Basta parlare di soldi» dice il Vietnamita. Si vede che la doccia l’ha rinfrancato, e adesso dovresti trovare il coraggio di alzarti e seguire il suo esempio. «Non potremmo parlare di donne, invece?» «È la stessa cosa» Galerio dice. «Se ne parla sempre quando non ci sono.» «Cos’è, un proverbio?» dice il Viet lasciandosi cadere seduto. «Un proverbio o una massima?» Sorride da solo, mentre si frizio-na la testa con la salvietta più piccola, e dopo un po’ dice che è tempo di preparare la tisana. «Stasera si vola» dice. «Vi porto in orbita, amici, e voi sarete i miei co-piloti.» «Salgono a bordo anche le ragazze?» domandi a Galerio, ma lui guarda verso il pavimento, come cercasse qualcosa. «Dove lo tieni il giornale?» domanda il Vietnamita. «Il giornale?» domanda Galerio, e la sua voce ritratta non lascia presagire niente di buono.


«La pagina di “Midi du Madagascar” che ti ho affidato. Quella con avvolte dentro le foglie benedette di Spichisi. Dove le tieni?» «Erano in frigo» dice Galerio senza guardarvi, e ormai l’hai capito il genere di putiferio che sta per saltare fuori. «Te lo chiedo» dice il Vietnamita senza smettere di asciugare la testa, «perché mi sono permesso di dare un’occhiata in frigo, e in frigo le foglie non c’erano.» Poi scoppia a ridere, lascia cadere sul letto la salvietta fradicia, e con i capelli ritti in capo tende il braccio verso Galerio. «Ti conosco, mariolo» ghigna. «Non hai resistito alla curiosità, e hai provato a masticarne un paio.» Galerio solleva lo sguardo e resta a fissarlo senza dire niente, la testa carica di capelli inclinata sulla spalla. «D’accordo» il Vietnamita dice, «ti perdono, mariolo, ma adesso tira fuori il resto del tesoro. Fra poco le allodole saranno qui, e io voglio darmi da fare con la tisana.» Pensi che non vuole darsi per vinto, ma se continua a seguire la curva del suo ragionamento, se ne renderà conto da solo, della fi-ne che hanno fatto le sue foglie. Lo capirà da sé, se non si impunta, e forse non gli farà tanto male. «Non ti scaldare» Galerio dice, «pensavo di trovare il modo per procurarmene altre.» «Dove le tieni, per la miseria?» s’inalbera il Viet. «Dove sono le foglie?» «Sono finite, le foglie» dici. «Lo vuoi capire, cazzo.» Il Vietnamita si volta verso di te. Per un po’ ti guarda, e forse guarderebbe allo stesso modo un uomo sorto dal nulla per rivelare qualcosa di spiacevole sul passato di sua madre. Potrebbe scoppiare a piangere, con il suo asciugamano legato alla vita, oppure partire con un manrovescio. «È vero?» domanda a Galerio, con la voce che esce compressa e in ritardo. «Sul serio sono finite?» «Devi perdonarmi» Galerio dice. «Non ci sono più.» «Te le avevo affidate» dice il Vietnamita con una vibra di delu-sione autentica nella voce. «Sapevo che erano qui ad aspettarmi. E adesso come cazzo faccio?» «Proviamo a procurarcene altre» Galerio dice, ma deve saperlo anche lui, in mezzo alla nebbia che raggela, che sta dicendo un’as-surdità. «Ma tu» si scalda il Viet, «che cazzo avevi in mente, mentre ti infilavi in bocca le mie foglie?» «Se vuoi saperlo» Galerio dice, «era la sera di una giornata durissima.» «Se vuoi saperlo» replica il Vietnamita, «mi ci deodoro il culo, con le tue giornate durissime.»


«Ti stavo solo rispondendo. Pensavo ti facesse stare meglio, sapere com’è andata.» «Magari un’altra volta» dici a Galerio, e ti dispiace che questa sera, anziché andare in orbita, finirete per tenervi il muso. «Ascoltatemi» lui dice. «Lo sbirro mi aveva giurato che, grazie ai risparmi di sua moglie, poteva pagare per intero e in con-tanti. “Guarda” salta su l’altro giorno, “se la matta mi lascia a piedi, non so come fare. Di mio posso darti solo la metà, il resto a rate”. Me l’ha smenata così, davanti ai clienti, dopo che eravamo d’accordo da mesi. Quando sono tornato a casa ero a pezzi. Poi ho discusso con mia madre. L’ex di Prima Linea li chiamava a casa per essere pagato, e fuori di testa com’ero, a cena ho discusso anche con Sara. “Basta” mi sono detto. “Qui vado a letto o impazzisco”. Per un po’ sono rimasto sul letto a occhi chiusi, poi mi sono venute in mente le tue foglie, di quando hai detto che tiravano su, e ho pensato che non ti sarebbe dispiaciuto se ne prendevo un paio in prestito. Così ho aperto la pagina di giornale, ho sfilato due foglie e sono tornato sul letto a masticar-le. E, cazzo, con tutti i problemi che avevo, e i soldi che correvano veloci lontano da me, dopo un po’ ho cominciato a ridere da solo. Ridevo e sognavo a occhi aperti.» Il Vietnamita è piegato in avanti, sta cercando di infilare un paio di mutande senza rinunciare al riparo dell’asciugamano. Un paio di mutande, o forse di calzoni. «Con che diritto» ruggisce. «Con quale cazzo di diritto?» «Non so cosa mi è preso» riprende Galerio. «Ridevo e avrei fatto a pezzi i cuscini solo per la curiosità di vedere le piume dell’imbottitura volare come coriandoli. Dopo un po’ Sara s’è inso-spettita, è venuta in camera a vedere se per caso mi sentivo male. Allora, cercando di tenere a bada l’allegria, le ho spiegato di questa pianta che arriva dalla costa dell’Oceano Indiano. Le voglio bene, e in quel momento mi sembrava la cosa più giusta del mondo, che ne mangiasse anche lei.» «Sara» mormora il Vietnamita, «è l’unica che ho già perdonato.» «Ci è voluto un po’ per convincerla, e quando il succo delle foglie ha cominciato a riempirle la bocca, Sara tremava. Pian piano è andata in orbita, e abbracciandomi sussurrava che le sarebbe piaciuto, un giorno, fare l’amore in mezzo alla campagna. La situazione stava prendendo una piega da sogno, e Sara è andata avanti a straparlare finché non è diventata pallida. Allora si è ran-nicchiata sul bordo del letto» sussurra Galerio, «e quasi subito è stata male di stomaco.» «Porca miseria» dici. «Così, oltretutto, è stato uno spreco.» «Dopo si vergognava. Ha insistito per pulire, ma anziché aiutarla a passare lo straccio, ridevo come un ossesso. Così ha avuto il pretesto per rimettermi il broncio praticamente da subito.» «È una storia tenerissima» dice il Vietnamita. Con un paio di calzoni lunghi color kaki al posto dell’asciugamano si sente più a suo agio, e una volta in piedi la sua presenza non è più qualcosa che ti faccia venire voglia di ridere. «Ma c’è qualcosa che non quadra» dice aggirando il perimetro del letto


fino a darti le spalle. «Tu l’hai capitocosa non quadra?» si gira a sorriderti. «Ti avrei affidato almeno cinquanta foglie» dice piano a Galerio, «e adesso dovrei credere che le hai finite in una sera sola. In un momento d’esaltazione. Cinquanta foglie. La prima volta che provavi il khat. Insieme a una ragazza che, al massimo, ne avrà masticate un paio.» «Da allora ne ho prese tutto il tempo» ammette Galerio. «Facevo l’alba a sognare a occhi aperti. Mi venivano in mente progetti meravigliosi, un flusso ininterrotto di buone idee. Una notte, vi giuro, ho persino scritto una poesia.» «Madonna» dice il Vietnamita colpendosi sulla coscia con la mano aperta. «Era l’unica gioia dopo una giornata di cammino. Ti staccherei la testa dal collo, lo sai?» «Credo di averti già chiesto scusa» Galerio dice. «E se vuoi te lo chiedo di nuovo, ma non ci credo, che alzeresti la mano contro il tuo vecchio amico.» Perfetto, pensi. A questo modo tocca restare a sorvegliarli, e la doccia salta di sicuro. «Devi crederci, invece» dice il Vietnamita. «Appena siamo al-l’aperto, prendo il coltello con il quale mio nonno chiudeva gli occhi alle tigri e, senza lasciarmi impietosire dal sangue e i gorgo-glii, ti stacco quella testa da ladrone.» «Non chiamarmi ladrone» dice Galerio. «E non spararne di grosse.» «Vuoi vederlo, il coltello con cui penso di tagliarti la testa?» «No» dice Galerio, e ti guarda. «Non voglio vederlo.» «Lo usava mio nonno» insiste il Vietnamita. «Per le tigri. Nel delta del Mekong. Sei sicuro che non vuoi vederlo?» «Non lo vuole vedere nessuno, adesso» dici tu. «Però tu, Galerio, sei un bel deficiente.» «Io non so neppure cosa siano, di preciso, quelle foglie. Però con tutto il traffico di pusher che incrocia in zona universitaria, ero quasi sicuro di riuscire a trovarne altre.» «Da quale cazzo di pusher?» perde la pazienza il Vietnamita. «Nessun pusher tratta queste foglie» grida, e la voce gli esce strozzata. «Ho sbagliato» Galerio dice. «È un periodo difficile, e mi sono lasciato prendere la mano. Ma adesso basta. Arrivate a piedi da non so dove, e ci aspettano un sacco di giorni insieme.» «A chi?» sibila il Vietnamita. «A chi, l’aspettano?» «Parlo del nostro viaggio» Galerio dice. «La camminata.»


«Perché noi dovremmo camminare insieme? Non credo, sai. Non credo proprio. Io non ci vado da nessuna parte, con i la-droni.» Galerio sorride a occhi bassi, ma il Vietnamita ormai è attento a ogni movimento e pronto a insorgere. «Sei un cretino» dice. «Prima finisci le foglie che ti affido, e adesso magari pensi di essere simpatico.» «Ma perché» Galerio dice, «tu credi di essere simpatico?» «Io credo solo che con te non vado da nessuna parte. E se non smetti di ridermi in faccia, forse ti chiederò di accompagnarmi giù in strada.» «Non sto ridendo» dice Galerio. «Ma se vuoi che ti accompa-gni, ti accompagno dove vuoi.» «Adesso basta» dici. «Invece di litigare come deficienti, pensiamo a come rimediare, porca puttana.» Poi la porta si apre per due palmi, e Sara si affaccia sulla nebbia satura di malessere. «Cosa succede» dice, e subito Galerio le mostra i palmi delle grandi mani callose. «Perché» domanda pslòmico. Poi ammette che sì, avete alzato la voce, ma stavate solo scherzando. «Sono arrivate le ragazze» dice lei poco convinta. «A questo punto» Galerio dice, «sarà meglio che cominciamo a occuparci della cena, regiz.» «Io sul serio gli taglio la testa» dice il Vietnamita quando restate soli nella stanza. «Faccio finta di fare pace, e appena siamo in mezzo alla campagna, sguaino il temperalapis.» «Si è comportato da deficiente» ammetti, mentre dietro la porta il salotto si riempie di voci allegre. «Anch’io avevo voglia di bere la tisana.» «Stralunami» il Vietnamita dice, «non c’è il minimo problema. Gli taglio la testa e me ne vado a vivere sull’isola, dove le foglie di khat le vendono agli incroci. Neanche gli avessi chiesto di trovarmi un fiore raro» si strugge. «Doveva solo conservare un maledetto foglio di giornale.» «Però devi ammettere che sembra dispiaciuto.» «Lo sai cosa me ne faccio, del suo dispiacere.» «In ogni caso» dici, «cerchiamo di non scatenare risse da deficienti.» Di là, in salotto, impazzano le voci giovani di Sara e delle amiche. Fervono i preparativi per una minestra d’orzo, e in qualche modo, anche inchiodato alla responsabilità della cucina, Galerio trova il modo di far ridere le ragazze. In sottofondo il giullare Ca-parezza canta di un tizio che viene dalla luna, e non si capisce se è un ed o la radio.


Poi vedi il Vietnamita che nasconde la faccia fra le mani. «È un incubo, cazzo» lo senti che mormora. «Uomo» dici, «ho paura che quelle foglie non facciano troppo bene ai tuoi nervi.» «Quando saremo vecchi» dice il Viet, «avremo un casino di tempo per piangerci addosso. Adesso, invece, pensiamo a come raggiungere Spichisi.» «Pensi gli avanzi qualcosa per te?» «Ne aveva tre borse piene, in quell’armadio del menga. Sessanta chili almeno di foglie fresche.» «Se gli avanza qualcosa ci facciamo prestare la Golf e, con la superstrada, in tre ore siamo sotto casa sua.» Un po’ ti ripugna, l’idea di interrompere l’arco del cammino, snaturarlo con un intermezzo automobilistico, ma ti ripugna di più l’idea che tutto finisca a carte quarantotto per colpa dei due deficienti. «Quando andiamo?» dici. «Questa notte» lui dice. «Oppure domattina presto.» Le ragazze adesso ridono, prendono in giro il vostro amico perché non vuole ballare, e tu non ne puoi più di restare nascosto in stanza. «Che ne pensi, uomo. Ce la facciamo a presentarci di là?»

DOMENICA 30 MAGGIO. (Riposo). A giudicare dalla condensa sui vetri della porta-finestra, la notte fuori deve essere stata rigida, e se pure è giorno pieno, il cielo è fosco, carico di riflessi metallici. «Le ragazze dormono» Galerio dice. «Se vuoi c’è del caffè caldo.» A piedi nudi, scivoli verso la cattedrale di mensole e fornelli. «Se la strada per l’Adriatico fosse lastricata di piastrelle come queste» dici, «non servirebbero scarpe, e nessuno soffrirebbe di vesciche.» «Il Vietnamita dorme ancora.»


«Russa, più che altro. Non sono sicuro riesca a dormire sul serio, con quel casino. Io dalle sei non ci sono più riuscito.» «Le ultime due bottiglie le ha bevute da solo.» «Già» dici, mentre versi il tuo caffè. «Era su di giri anche senza foglie, ieri sera.» Mentre vai verso l’occhio rotondo del tavolo, guardi di nuovo la luce metallica che colma il rettangolo della porta finestra. «Non capisco se piove» dici mentre ti siedi sulla poltroncina da regista di fianco alla sua. «All’alba cadeva una pioggerella fine» dice, e tu speri non fosse l’avanguardia di qualcosa di serio. C’è un sacchetto di biscotti alla crusca, aperto al centro del tavolo. Ne prendi uno e prima di morderlo lo bagni nel caffè. «Oggi è il giorno del summit supremo» dice Galerio ravviando i capelli dietro le orecchie. Indossa una camicia nera di lino, e le ipotcnuse spericolate del colletto sono messe in risalto da cuciture a vista in filo argentato. «È per questo che ti sei vestito elegante.» «Il maledetto mi ha dato appuntamento a casa sua. Spero la moglie sia fuori, e se chiudiamo, domani dal notaio sarà una formalità di mezz’ora.» Pensi che domani dovevate partire all’alba, e in qualche modo ti senti incastrato. Poi pensi a quando la tua vita ti sembrava di-pendere da un accredito che non arrivava mai, e un po’ ti vergogni. «In bocca al lupo» dici. «Oh, crepi. Se il maledetto non si tira indietro, per domani avrò rimesso in sesto il conto in banca. Posso pagare l’ex di Prima Linea, saldare le ultime bollette e gli arretrati con i distributori. Sarò di nuovo un uomo libero, e non avrò mai più paura di rispondere al cellulare.» L’avevi immaginato molte volte, lungo le salite assolate e al-l’ombra dei castagni, il vostro giorno di pausa a Perugia, ma non ti era mai venuto in mente che sarebbe potuto essere così lontano dalla terra e carico di tensioni figlie della città. «E le foglie» dici. «Quello si è fatto prendere la mano, e adesso pensa che, se non mastica un po’ di khat, si sente malissimo.» «Ieri sera» dice Galerio, «con le amiche di Sara, non sembrava stare così male.» Poi raccoglie una giacca dalla seduta del divano, e forse è ancora arrabbiato per come il Viet si è lasciato trasportare dal vino. «Poteva giocarsi le sue possibilità, invece di chiamar-le galline chiesaiole solo perché non volevano giocare a strip poker.» «La compagnia delle ragazze lo manda su di giri, e alla fine era ubriaco fradicio. Ma da qui all’Appennino ne incontreremo po-chissime, e ho paura che, appena finito il tuo summit, dovrai pre-starci


la Golf.» La giacca è in velluto lucido color turchese, carico di riflessi, e addosso al tuo amico fa pensare alla giacca di un cantante da night. «Questa» dice carezzando uno dei revers, «è una sciccheria che arriva dritta da Londra. Hai notato i bottoni in osso?» «Non li avevo notati» ammetti. «È osso vero» Galerio dice. «E se il Viet non vuole più tagliarmi la testa, appena mi libero possiamo andare tutti insieme.» «Andata e ritorno. Una specie di blitz, d’accordo?» «Tranquilo. Da quando sto qui, sono diventato uno specialista della tratta Bologna-Perugia.» Il biscotto alla crusca, anche inzuppato non è il massimo. Però ti senti debole e ne peschi un altro dalla busta. «Tu lo conosci, il fornitore del Viet?» «Mai visto» Galerio dice. «Comunque tratta delle gran primizie.» Pensi che hai un figlio. Una moglie e un figlio. Sanno che stai camminando attraverso il Paese, e sarebbe complicato spiegare che sei finito nei guai in città, non lontano da casa, dentro l’appartamento d’un trafficante internazionale. «Magari al fornitore non resta neppure una foglia, e facciamo un blitz per l’anima del cavolo.» Oltre la porta finestra, uno sprazzo di luce bianca rischiara la facciata del caseggiato di fronte, e se c’è questo tempo anche sulla costa, oggi Dina non potrà portare in spiaggia Malcolm. «Prima o poi i nodi vengono al pettine» dichiara Galerio. «Glielo devo, e al peggio sarà un viaggio a vuoto.» «Però lasciamo qui gli zaini, che il matto non si faccia prendere dalla fregola di restare in città.» Risalite la valle del Tevere lungo il nastro a due corsie della E45, sotto una pioggia obliqua che dilava e rende lucidi i teloni dei camion. Ogni quarto d’ora riuscite a coprire la distanza che, a piedi, vi costa una giornata intera di marcia, ma oggi non puntate la costa, e il viaggio ha il sapore di una parentesi segreta. In vista degli svincoli aerei che conducono ai paesi, ci sono posti ristoro e chioschi che vendono piada. Galerio, a suo agio nella giacca da cantante color turchese, sprona la Golf in corsia di sor-passo, e il Vietnamita, seduto al posto del navigatore, insegue le sintonie radio con il nottolino dello stereo di bordo. «Allora siamo d’accordo» dice Galerio quando avete passato da poco Città di Castello. «Si va dritti a casa di Spichisi e, se non c’è, peccato e tutti a Perugia.»


«Nettamente» lo incoraggi dalla seduta posteriore. «Ci proviamo, ma questa sera si torna senza drammi agli zaini.» «Come volete» dice il Viet. «E poi me l’avete fatto giurare prima di partire.» «Domani serviranno un bel po’ di ore» esageri «per arrivare ad Assisi.» È una tappa semplice, attraverso la pianura, e milioni d’anziani l’hanno testata prima di voi nel corso delle marce della pace. «Quanti chilometri sono?» s’informa il Viet. «Credo venticinque» dice Galerio. «Ma quando ci sono le marce della pace, i faccioni dei politici si fanno scaricare dall’auto blu in testa al corteo. Passano davanti a tutti quelli che hanno marciato sul serio, e percorrono solo gli ultimi cinquecento metri, dove ci sono le telecamere.» «Che vergogna» il Vietnamita dice. «Manco a camminare senza zaino son capaci.» «È uno schifo, ed è per questo che non ho voluto accompagnare Sara alla marcia della pace. Magari cammini tutto il giorno, e la sera compari in tivù alle spalle di Marcello Pera. O di Bondi. Chi la sistema dopo, la tua immagine?» «Domani partiamo appena hai finito dal notaio, e sento che non incontreremo nessun politico.» «Io invece» dice il Viet, «spero che per domani il qui presente Galerio abbia preparato lo zaino.» «Perché dubitate, regiz. Mi sono fatto prestare il sacco a pelo da Sara, e la borsa da fotografo è già pronta.» «Ascolta» dici. «Serviranno almeno tre giorni, per scavalcare l’Appennino e sbucare da qualche parte dove c’è un negozio.» «Ma sì, Reginaldz.» «Lo so che ti chiedo molto» dice il Vietnamita, «ma dovresti concentrarti mezzo minuto, e pensare a tutto quello che serve per vivere all’aperto.» «È che mi piace camminare leggero. E già la borsa da fotografo pesa un bel po’. Penso di portare un kway, un paio di magliette e poco altro.» «E una borraccia» dici. «È un casino, senza borraccia.» «E una gavetta del menga?» infierisce il Viet. «Oppure pensavi di mangiare da terra come le bestie?» «Coalizzatevi, allora» Galerio dice. «Scaricate pure le vostre tensioni su di me. Da quando ho convinto il maledetto a pagare l’ottanta per cento subito e il resto entro sei mesi, mi sento praticamente invulnerabile.»


Scavalcate le montagne a Vergherete, sotto il fitto di nubi che nascondono la sommità del Fumaiolo, e per la prima volta dall’inizio del viaggio ti ritrovi nella metà del Paese in cui le acque scendono verso l’Adriatico. Imboccate la via Emilia in direzione Nord, e in meno di un’ora la Golf si trova a percorrere a passo di ronda la vasca colma di foschia della Stalingrado Avenue. Siete in città, e se incontraste qualcuno fra gli amici più urbanizzati e mods, si meraviglierebbero a vedervi con gli scarponi impolverati e i calzoni multitasche color kaki. «Abita qui l’uomo» dice il Viet indicando una palazzina d’angolo alta quattro piani, e quasi tutti i balconi sono occupati dalle grandi padelle bianche delle parabole tivù. «Sono pronto a supplicarlo, se serve», va su di giri mentre Galerio parcheggia lungo una laterale silenziosa che lambisce uno degli ultimi prati del quartiere. Risalite verso la foschia più densa della Avenue camminando in mezzo alla carreggiata. Galerio occupa il centro della formazione, e ora che ha aperto i primi due bottoni della camicia, le smisurate ipotcnuse del colletto riescono a nascondere i revers della giacca. Tu e il Viet presidiate le ali, come guardaspalle in tenuta da campagna, e solo la differenza di statura rende il quadro asimmetrico. Mentre svoltate in vista della palazzina, il Viet cerca di trarre auspici dalla posizione delle saracinesche all’ultimo piano, e confessa che è pronto a restare tre giorni senza mangiare, pur di mettere le mani su un po’ di foglie. «Tre giorni senza mangiare» promette, «e tre settimane senza sfilare le mutandine a nessuna.» «Così non vale» Galerio dice. «Questo è un fioretto che non ti costa niente.» «Non sarò lo scopatore mascherato» s’offende il Viet, «ma il mio carniere è pieno di bei nomi, e non so i vostri.» «Una volta, agli scout, il Viet ha sedotto una capo-guida, e da allora pensa di essere Casanova» dici «Casanova degli scout.» «Dopo ti è toccato sposarla?» lo sfotte Galerio mentre coprite gli ultimi metri. «Stralunami» dice lui. «Avevo solo diciott’anni, e lei era già sposata.» «Sono belle esperienze, vero Viet? Cose alle quali puoi ripensa-re un sacco di volte anche da solo.» «Ora basta cazzate» dice lui mentre studia la plafoniera color ottone dei campanelli. «E soprattutto, con l’uomo tratto io.» La scritta SPIGHISI in rilievo sul fondo rosso della targhetta letraset, irradia speranza attraverso i comparti della pulsantiera fitta di nomi. Il bottone del campanello ricorda una pasticca di liqueri-zia, e per quanto il Viet insista a suonare, dall’interno non giunge risposta.


«Dorme sempre, il pomeriggio» prende tempo. «Mangio un bricco, se non è in casa a quest’ora.» Arretra con cautela attraverso il marciapiede, esplora la facciata dell’edificio. Ha paura che non vogliate aspettare, e così non si allontana dal portone più di tre passi. «Quelle finestre all’ultimo piano» dice indicando un davanzale carico di vasetti in terracotta, «dove si vedono i bonsai, quella è camera sua.» Pensi che il Vietnamita non dev’essere venuto qui una volta so-la, e Galerio sfila dalla tasca della giacca la chiave della Golf. «Se pensi che da sopra è più facile» dice. Infila la punta della chiave nel poco spazio fra le due ante del portone, l’abbassa lentamente finché non incontra il blocco, lo spinge verso l’interno, e sotto una spinta leggera della mano l’anta libera ruota docile sui cardini. Nella penombra dell’atrio stagna odore di cavolo, e al doppio sipario d’alluminio dell’ascensore è applicato con il nastro adesivo un avviso scritto a mano. «Io aspetto giù» dice Galerio spalancando la porta al Viet. «So-no appena tornato un uomo libero, e preferisco non farmi vedere, a casa di certa gente.» Una grande pianta di ibisco dalle foglie accartocciate presidia la piattaforma che immette alla tromba delle scale. Il Viet attacca di slancio la prima rampa, e tu lo segui, che non ti va di lasciarlo solo nelle mani del trafficante. Sulle targhette dei campanelli si stagliano solitari i cognomi da vedova, infittiscono le sillabe difficili da pronunciare dei ca-sati migranti. Salite spediti, senza perdere il ritmo fino all’ultimo piano. La fuga delle rampe si arresta contro un pianerottolo, e la luce del pomeriggio afoso spiove incerta da un grande lucernario. Dietro il lucernario, il sipario dell’ascensore è ostruito da una seggio-la, al cui schienale è affisso un foglio a quadretti. Sul foglio spicca la parola ATTENZIONE, senza punti esclamativi, e due porte si fronteggiano sui lati corti del pianerottolo. «Sta dormendo» sussurra il Vietnamita. «Me lo sento.» Punta con sicurezza l’appartamento di destra, e solo quando siete davanti alla porta t’accorgi dell’etichetta letraset applicata sui nomi degli inquilini precedenti. Sullo zerbino è scritto in spagnolo “La mia casa è la tua casa” e per un po’, mentre il Viet bussa contro il legno, osservi il quartiere dalla prospettiva a vertigine del lucernario. Il traffico d’auto e furgoni lungo la Stalingrado Avenue procede scansionato nella foschia, e solo dopo un po’ ti accorgi di Galerio. S’aggira lungo il marciapiede e la giacca, anche vista dall’alto, non sembra qualcosa di adatto a passare inosservato. Il Vietnamita insiste a bussare, suona da capo il campanello, accosta lo sguardo all’occhio tondo dello spioncino. «Puttana Èva» dice la sua voce piena di paura. «Purché non sia partito.»


Ti spiace vedere il tuo amico in ansia per una manciata di foglie, ma pensi che Spichisi forse è partito sul serio, e ne provi sollievo. «Ci abbiamo provato» bisbigli, «ma non possiamo stare qui ad aspettarlo. Così sembriamo dei malintenzionati.» «Aspetta» dice il Viet. «Un minuto soltanto.» Poi lo vedi ingi-nocchiarsi a un passo dalla porta, di fronte allo zerbino, e all’inizio non capisci cos’ha in mente. Afferra il bordo dello zerbino, lo solleva con cura, come fosse il cofano che protegge un meccani-smo delicato. «Lo vedi» dice mentre si risolleva in piedi. «Qualcuno che si fida del prossimo c’è ancora.» Ti mostra il profilo argenteo d’una chiave, e tu pensi che il trafficante avrà i suoi buoni motivi, per lasciare la porta praticamente aperta. «Forse è qui in giro» sussurri. «Forse è solo sceso in cantina.» «Non c’è problema» sorride il Viet, e con la chiave indica la scritta sullo zerbino. «Lasciamo i soldi.» «Tu sei da legare» dici. «Io comunque non vengo.» La chiave entra senza fatica, e basta un giro perché la serratura scatti. «Ci metto un secondo» sussurra il Vietnamita aprendo la porta per un terzo, e il suo sguardo non ha più niente di addomesticabi-le. «Se arriva qualcuno, avvertimi senza attaccarti al campanello, d’accordo?» Poi scivola nell’ombra dell’appartamento, accosta la porta dietro di sé, e adesso che sei solo sul pianerottolo, riesci a misurare il peso e la densità del silenzio. Con l’ascensore impraticabile, l’unica via di fuga sono le scale. E se il trafficante dovesse rientrare, non resta che dare l’allarme e disporsi palòmico a incrociarlo. Ma se quello vede il Viet, c’è poco da fare i pesci in barile. Lo riconosce, fa due più due e capisce che è venuto, Dio mio, a rubargli in casa. Tieni d’occhio il lucernario. Galerio non si vede più, né si vedono pattuglie lungo la Avenue. Segui le traiettorie dei passanti sul marciapiede e preghi che nessuno si fermi ai piedi del portone. Immagini il tuo amico dentro l’appartamento che apre sportelli e cassetti, fruga pieno di febbre sotto i cuscini dei divani. Sempre che tu sia veloce a dare l’allarme. Se Spichisi torna e lo trova dentro, potrebbe anche perdere il controllo. Magari arriva insieme a un po’ di compari. Oppure arriva solo, come le vere persone feroci, e prima di chiedere come mai ti trovi davanti alla porta mezza aperta di casa sua, scarrella la calibro nove, oppure prova a staccarti un orecchio a morsi. Ti accosti alla soglia dell’appartamento, e qualunque cosa stia facendo il tuo amico, sembra trattarsi di un’attività silenziosa. Pensi che dovresti farti sentire, annunciare che l’ansia, là fuori, ha superato il limite percussivo.


Poi senti il tramestio d’una porta che s’apre al piano di sotto, e dentro un tuffo che non controlli, ti ritrovi seduto a terra sotto il lucernario, le spalle premute contro la parete. «… è una questione di qualità» dice una voce rauca e priva d’accento. Sembra rintanata nel profondo dell’appartamento sot-tostante quello di Spichisi. «Come sempre» aggiunge, e la mola della tua paranoia viaggia a pieni giri. «Ma infatti» echeggia per le rampe una seconda voce maschile. «Lo sostenevano anche i CCCP», e il tono danneggiato e pieno di compiacimento fa pensare a un drogato. Un drogato giudizioso. Oppure un trafficante. Non possono vederti in nessun modo, ma adesso ogni cosa t’appare chiara. Spichisi era sceso a bere un caffè dal vicino del piano di sotto, e la tua traversata potrebbe concludersi nei prossimi trenta secondi su un pianerottolo schifo della Stalingrado Avenue. «Ci siamo capiti» scolora la voce del rauco. Tossisce, reprime un colpo di tosse, riprende quota. «Come i CCCP, adesso si tratta di restare fedeli alla linea.» «Una linea che alla fine non c’è» ride l’altro. Si divertono, e potrebbero essere il tuo carnefice e il suo complice. Pensi che forse, sgattaiolando fuori dal lucernario, potresti rifu-giarti su un cornicione, e poi pensi che devi mantenere la calma e avvertire il Viet. Così, mentre i due al piano di sotto vanno avanti a chiacchierare e scambiarsi quelli che t’appaiono messaggi in codice, provi a risollevarti in piedi al rallentatore. Cerchi di non far scricchiolare neppure le giunture delle ginocchia, dentro una cautela da ginna-sta a fine esercizio che gli scarponi in Gore-Tex non riescono a propiziare fino in fondo. Guardi lo spiraglio aperto della porta, e adesso preferiresti di gran lunga essere dentro col Viet, piuttosto che trovarti esposto a questo modo. «Allora siamo d’accordo» dice il rauco in tono congedativo. «Metti insieme la pilla e giochiamo le nostre carte decisi come la dinamite.» «Come la dinamite, porco zio» dice in allontanamento quello che dovrebbe mettere insieme la pilla. «Pum!» dice il rauco. Ride, e mentre si rintana a quattro mandate, distingui lo scalpiccio dell’altro lungo la rampa. Ti prepari a veder spuntare la testa perico-losa del trafficante, invece non arriva nessuno, e forse sta scendendo in fretta verso l’atrio. Mentre la grancassa del cuore dirada i colpi, ascolti il riverbero dei passi che attutisce. Sfiori la porta che ha inghiottito il tuo amico, e adesso che la tromba delle scale è tornata a essere un luogo silenzioso, ti


sembra di riconoscerlo, il tramestio di oggetti spo-stati in fretta che il Viet produce all’interno dell’appartamento. «Viet» lo chiami sottovoce, e l’unica cosa che distingui all’interno è una maschera tribale, forse una maschera di guerra, appesa sopra l’attaccapanni deserto dell’atrio. «Luca» lo chiami, e quando s’affaccia dalla soglia del corridoio il tuo amico sembra invecchiato. «Non sto mica trovando un cazzo» dice. «Vieni via, deficiente. Io vado via.» Poi sai solo che imbocchi la prima rampa e prendi a scenderla senza fretta. Superi il pianerottolo da cui parlava il rauco, e adesso sei di nuovo un bocconcino innocente digerito dal ventre del palazzo. Fuori l’aria è greve di smog, e Galerio è in attesa all’angolo della via in cui avete parcheggiato. La giacca gettata sulle spalle, sta leggendo un giornale d’annunci, e s’accorge di te solo quando sei già vicino. «Si può sapere cosa fanno?» riesce a dire. «Prendono il tè con i pasticcini?» Lungo via del Lavoro, il volto di Cofferati è affisso in serie sui pannelli a disposizione dei candidati sindaco. DA BOLOGNA TU A BOLOGNA NOI è l’ermetico slogan. Mancano due settimane alle elezioni, e se non vi perdete di nuovo arriverete all’Adriatico in tempo per tornare in città a votare. In caso d’emergenza, quando il Paese è in pericolo, puoi farlo anche se in fondo ti senti anarchico. «Almeno in città, si vince a mani basse» dice il Vietnamita. Forse dopo quattro anni vedrete Bologna tornare rossa, ma per stasera fuggite a bordo della Golf senza salutare nessuno, come fosse una città di cui non v’importa. «Comunque Spichisi ha un volume d’affari impressionante» dice il Vietnamita. «Pochi giorni fa nell’armadio c’erano tre borse stipate, almeno sessanta chili di foglie fresche, e adesso nell’armadio non restavano neppure le borse. Volevo andarmene subito, poi mi sono fatto coraggio e mi sono detto che, da qualche parte, una piccola scorta doveva pur esserci.» «Stavo per morire d’infarto, su quel pianerottolo» dici. «Che poi non serviva a niente, stare lì.» «Mi guardavi le spalle» dice il Viet. «Dovevo scendere subito, e controllare l’ingresso del palazzo, se mai.» «Hai messo la casa sottosopra» dice Galerio, e la sua voce ha qualcosa di gioioso. «Solo la camera di Spichisi» dice il Viet. «Ho cercato nei cassetti, ho cercato fra i vestiti. Ho trovato i pantaloni che indossava in Madagascar e un paio di giornali porno, ma delle foglie nemmeno l’ombra.» «Li hai presi, i giornali?»


«No» dice il Viet. «Ma potete farlo voi, se avete il fegato. La chiave sapete dove trovarla.» «Adesso fa il fenomeno» dici. «Non faccio il fenomeno. Me la sono fatta sotto tutto il tempo.» «“Lascio i soldi” dicevi. Li hai lasciati i soldi?» «Mi stava scoppiando la testa, là dentro. Forse tiene le foglie in frigo, mi sono detto in mezzo a quello sfacelo. Così sono scivolato in cucina, e la cucina era un posto di gran classe, pieno di manifesti d’epoca incorniciati.» «Che genere di manifesti?» domanda Galerio. «Pubblicità francesi, mi pare. Dell’Air Afrique, soprattutto.» «Stampe originali o riproduzioni?» «Non sono stato a controllare» ammette il Viet. «In frigo c’erano solo sottaceti e bottiglie di birra. Ho aperto gli sportelli alla rinfusa, e solo dopo un po’ ho notato il cazzo di vaso sul tavolo. Era un vecchio vaso panciuto da caramelle, in vetro spesso, e attraverso il vetro vedevi i pacchetti di carta di giornale stipati dentro. E così, sentendo che stavo per abbandonare quel posto di gran classe, ho rovesciato il vaso sul tavolo. C’erano sei cartocci farciti di foglie, e io ne ho scelti tre.» «Metà per uno» lo prende in giro Galerio, «dopo tutta questa strada.» «Mi sembrava una cosa equa. E poi, appena li ho fatti scivolare in tasca, mi sono dimenticato dei soldi e di tutto. Sono schizzato verso la porta, senza perdere tempo a controllare dallo spioncino, e mezza scoreggia più tardi eravamo seduti in macchina. Però con Spichisi sistemo tutto appena torno. Garantito.» «Non so quanto siete amici, ma forse è meglio che fai l’indiano» dice Galerio. «Nettamente» dici. «Noi qui non ci siamo mai stati.» «Magari a Spichisi mando i soldi in busta anonima» dice il Vietnamita. «La vostra privacy del menga sarà tutelata in ogni caso.» «Spero solo non serva fare altri rifornimenti, da qui alla fine del viaggio» dici. «Non ne faremo altri, vero?» «Adesso abbiamo centinaia di foglie» Galerio dice. «Qui dentro c’è gioia quanto basta per scavalcare l’Appennino a zoppo galletto» dice il Vietnamita. «E da questo momento dobbiamo fare gioco di squadra. Aiutarci a vicenda per dosare le foglie senza fare gli ingordi.» «Ci credi almeno un po’, mentre lo dici?»


«Per questa sera, ci sarebbe una tisana in arretrato. Ma da domani, giuro che proviamo tutti insieme a comportarci da omarini morigerati.»

GIORNO DODICI. Da Perugia a Assisi. «Hai fatto male a non venire con me» dice il Viet mentre scendete lungo l’asfalto d’una via che porta il nome del vento Grecale. «Il centro all’alba era un posto da paura.» «Ci credo» dici, «ma se non dormivo qualche ora, adesso invece di camminare dovevo trascinarmi.» «C’era una quantità di chiese. Si può camminare nel ventre della città lungo gallerie, e le gallerie sono illuminate da faretti tipo Ikea.» «Fantastico» dici. «Era l’unica città che traversavamo, e io non ho visto niente.» «Alle sei e mezzo il sagrato del Duomo era pieno di gente. C’erano frati, suore e aspiranti beati che recitavano il rosario prima d’affrontare la giornata di lavoro. Sembrava una città molto devo-ta, poi mi sono accorto che a due passi c’era il palazzo che ospita la sede della Massoneria. Allora ho capito qualcosa di più, su questa città.» «Quelli hanno sedi ovunque» consideri. «Ovunque, credo, ma di solito non di fronte al Duomo.» «Comunque Galerio non lo capisco» dici. «Giura che partiremo tutti insieme a mezzogiorno, ci fa aspettare, e alla fine salta fuori che non riesce a liberarsi prima di sera.» «È pazzo, secondo me. Però si è sistemato alla grande, e fossi in lui diventerei mormone.» «Ci abitavo vicino, alla chiesa dei mormoni. Sembravano brava gente.» «Mi piacciono perché non sono moralisti. Lo sanno che dev’essere una specie di supplizio, vivere insieme a tre ragazze e poter-ne baciare una sola.» «Dice che lo accompagna il maledetto con l’auto di servizio, direttamente al Camping San Francesco.» «Secondo me è un trucco per arrestarlo. Lo fa salire in macchina, chiude le sicure, accende la sirena e non lo vediamo più.»


Pensi a tutte le volte che insieme a Galerio, vi siete trovati mascherati dalle sciarpe in mezzo alle cariche d’un cordone di celeri-ni. In quei momenti di febbre senza sogni l’unica certezza era che non vi sareste piegati alla prepotenza degli elmetti e di nessuno. Avevi poco più di vent’anni e pensavi che, grazie a quel carnevale di bastonate, la città poteva considerarsi viva anche la domenica pomeriggio. «Al massimo prenderà una corriera» mormori, «o si farà portare dalle ragazze.» La via Grecale scende per tornanti ripidi fra i giardini di villette bifamiliari, e ora capisci in che senso l’altura sulla quale sorge Perugia domina la valle del Tevere. La riva da questa parte è così ripida da costringervi a procedere spigolando. Allargate le curve per non sbilanciarvi, mentre sulla sponda opposta si stende una campagna fertile e pianeggiante di cui non supponevi l’esistenza. La furia industriale e meccanizzata sembra catalizzarsi intorno al tracciato della E 45. La superstrada corre appena oltre il fiume, seguendo da vicino le anse che disegna serpeggiando al riparo degli alberi, e al di là i casali sembrano di nuovo fortini di mollica. Punteggiano l’aperto dei campi, ma non sembrano davvero presidiarli. Sembrano vegliare su di loro, e oltre quella piana fertile Assisi appare già vicinissima. Potete abbracciare per intero lo scosceso di tetti e campanili che risalgono lo sperone del Subasio, ed è facile riconoscere in primo piano la teoria d’archi che accompagna la salita verso la Basilica. «Sembra l’ultima pianura del mondo» dice il Viet. «Dopo Assisi, si vedono solo montagne.» «Oi» dici, e pensi a una frase di Goethe che descrive a perfezione la natura intricata della dorsale. L’hai letta, l’hai copiata da qualche parte, ma per quanto ti sforzi non c’è verso di fartela tornare in mente. «La gente non lo caga» dice il Viet dopo un po’, «ma fa sempre impressione il vecchio Appennino, visto dal basso.» Pensi che ci si potrebbe passare tutta la vita, a camminare su quelle montagne, lungo il sentiero Doppio Zero e le sue dirama-zioni, ma questa volta la partita è diversa. Dovete passarci in mezzo, in qualche modo. Infilarvi nei boschi, e risalire il versante umbro della dorsale. In due o tre giorni arriverete a un punto di valico, forse un Passo segnato sulla mappa, ma personalmente ti sentirai dall’altra parte solo quando distinguerete il canto originario d’un torrente che accompagna la vostra discesa verso Est. «Dici che troveremo la neve, quando saremo inculati là in mezzo?» domanda il Viet scrutando la fortezza di roccia che serra l’orizzonte per intero. «Lo so a cosa stai pensando. Ma questa volta stiamo più bassi. Nettamente più bassi.» «Io non ce l’ho, l’attrezzatura da neve» dice il Viet. È strano parlare di queste cose mentre scendete fra i giardini in fiore verso la piccola stazione di Pretola, e il vento porta con sé lanugine di pioppi. «Galerio non ce l’ha di sicuro» considera ad alta voce.


«Non vuole portare un cazzo. Dice che fa le foto, lui.» «Evitiamo le montagne più imbusonite, senza strafare, e la ne-ve la vedremo solo da lontano.» «Abbiamo fatto bene, a non fermarci un giorno in più. Non ho fatto in tempo ad abituarmi alla vita civile, e così lo zaino non pesa tanto. Il primo giorno pesava un casino anche se è mezzo vuoto.» «Il primo giorno insieme, pensavo di essere diventato zoppo. Però mica se ne vanno del tutto, le vesciche bastarde. Provano a riorganizzarsi durante la giornata, e non posso mai abbassare la guardia.» «Comunque credevo che quelle di Pace e Democrazia fossero meno bigotte, rispetto ad altre organizzazioni.» «E cosa te lo faceva pensare?» «Non so, una di loro sta con Galerio. Pensavo non fossero le so-lite bigotte del menga. Invece sanno divertirsi solo a metà.» «Le hai rase al suolo, con la tisana. Se speravi di agire, forse dovevi metterci meno foglie.» «Può darsi» dice. «Come si chiamava, quella che si è messa a cantare in piedi sul tavolo?» «Non mi ricordo. Né lei né l’altra, ho paura. Però è stata una bella serata.» «Galerio sembra un altro, insieme a quella ragazza.» «Nettamente» dici. «Sembra una persona posata, quando sono insieme.» «Lo so come va a finire» dice il Viet. «Va a finire che fate tutti un sacco di bambini, e io resterò solo, lungo via del Fratello a notte fonda come un cacciatore patetico di giovanotte.» Scavalcate il corso ampio e limaccioso del Tevere grazie a un ponte sospeso riservato a pedoni e ciclisti, e i suoi tiranti d’acciaio ti richiamano alla mente il vecchio distributore di gomme Brooklyn che avete visto l’altro giorno, in un paese di cui non sapresti più di-re il nome. Il sentiero del Parco Fluviale corre all’ombra degli alberi lungo l’argine sinistro. Ampie pozze ne costellano il fondo sconnesso, e il Vietnamita dice che è bello, tornare a sporcare le pedule di fango fresco. Dove il sentiero lambisce le ultime case del paese di Valleceppi, sorgono panchine distanziate una cinquantina di passi l’una dall’altra, e ognuna è un mondo. Si vedono anziani che complottano in dialetto e più in là, dove la macchia stringe il sentiero da vicino, tossichelli solitari leggono fumetti a poca distanza dalle bici scas-sate. E poi, sprofondata nella penombra della boscaglia ripariale, scorgete un’ultima panchina abitata da una strana bestia che calza quattro scarpe. Ne distinguete nettamente due dalla zeppa in sughero, illuminate da una lama di luce a un palmo da terra, e solo quando siete a venti passi vedete con chiarezza di cosa si tratta.


Una donna non tanto magra, i capelli acconciati ad alveare, siede di traverso sulle gambe d’un uomo dalla testa lucida. L’uomo indossa scarpe da lavoro con la suola in gomma e un grembiule scuro da artigiano. Sostiene la donna sulle cosce, come il peso di lei fosse lieve, e abbracciandola sembra intento a strofinare il naso contro la sua scollatura. Sorridete, a sentirlo chiamare la donna “amore” e chiamarla “bella tettona”, ma non rallentate. Quando la donna vi vede, sussurra all’amico di calmarsi, e allora anche lui vi guarda, e per un po’ pensi che somiglia a un ne-goziante vicino casa tua. Adesso osserva le pozze del sentiero co-me una persona assediata dalle preoccupazioni, e sembra essersi dimenticato della donna che gli siede addosso. «Non me li vuoi regalare, i fiori?» domanda lei con accento sla-vo, e se pure la sua voce ha qualcosa di civettuolo, più che altro sembra parlare all’uomo per consolarlo. «Adesso basta parlare di fiori» lui dice. «Se la smetti con questa solfa, dopo andiamo a mangiare in trattoria.» Sono strane coppie, quelle che adesso incontrate sulle panchine, e dopo un po’ lo spettacolo di tutte queste persone desiderose d’amore rifugiate in riva al Tevere finisce per mettervi una strana allegria. Il sentiero per Assisi si discosta dal gomito della riva vicino al paese di Collestrada. Scavalcate il letto d’un canale affluente sulla schiena curva d’un ponte in legno, e all’uscita del ponte vi trovate a traversare la terra di nessuno fra il lungofiume e la massicciata della superstrada. Cinquecento passi più avanti sbucate sul grande spiazzo asfaltato d’un parcheggio. È il parcheggio d’un iper-mercato, e mentre ne lambite l’estensione potete leggere lo stupore negli occhi delle famiglie che vi scorrono a fianco spingendo carrelli pieni di surgelati. «Chi sono?» grida un bambino indican-dovi alla madre, ma lei lo conduce via in fretta. «Diffidente del menga» mormora a mezza voce il Viet. «Potrei farti felice tutta la notte e non lo sai.» «Ci schifano proprio» dici. «Sarà per via degli zaini?» «Che ne so» dice il Viet. «Mi ci deodoro il culo, con la loro diffi-denza.» «Cammini in santa pace, e appena incontri qualcuno, ti rendi conto che sembri sospetto. Com’è ‘sta storia?» «Forse credono di essere belli loro» dice il Viet mentre sfilate a venti passi dal varco che immette alla galleria coperta dell iper-mercato. «Invece fanno cagare dal primo all’ultimo, e la guardia giurata sembra un povero scemo di guerra che il resto del plotone ha lasciato indietro.» «Diventi polemico, quando rimani sveglio tutta la notte.» «Non dico che debbano stenderci il tappeto rosso, ma certi sguardi dovrebbero risparmiarseli.»


Per un paio di chilometri seguite una secondaria semideserta raddoppiata dalla statale, e in località Ospedalicchio una strada bianca si inoltra ad angolo retto per i campi verso una chiesetta solitària. All’inizio è un ronzio meccanico che sembra insistere sul cuore coltivato della pianura, e dopo un po’ che scrutate il cielo distinguete la sagoma d’un aereo da turismo color zucca. Vola basso e la sua traiettoria sembra parallela al rettilineo della vostra sterrata. «Quello è un Cessna» dice il Viet bloccandosi. «Sembra un Cessna.» Adesso l’aereo perde quota a vista d’occhio, la fusoliera inclinata avanti dentro una picchiata disastrosa, e tu pensi che non hai mai visto cadere un aereo in tutta la vita. Senti la mano del Viet stringere la tua spalla come una specie di morsa, e solo quando l’aereo è a venti piedi da terra lo vedete rallentare il precipizio della discesa. «Via da qui» grida il Viet fuori sincronia, e dentro una virata che può lasciarvi impietriti l’aereo ronzando riprende quota. «Fanculo» dice il Vietnamita dopo un po’. «È un modellino del menga.» «Basta che non ci piombi in testa» dici, e all’altezza della chiesetta vedete una Panda ferma lungo il ciglio della traversa sterrata. Il bagagliaio è aperto, e anche lo sportello dal lato del guidatore è aperto. Solo dopo un po’ che avanzate vi accorgete di un uomo con il cappello da baseball accovacciato nell’erba a venti passi dalla macchina. La visiera del cappello sembra calamitata dall’aereo, e l’uomo stringe fra le mani una piccola scocca nera da cui origina l’antenna del trasmettitore. «Testa di cazzo» mormori. «Far morire d’infarto la gente.» «Adesso gliele canto chiare» dice il Viet, e quando s’accorge di voi l’uomo pilota il modellino al largo sopra la distesa dei campi. Saluta in fretta col braccio, e mentre andate verso di lui scatena tutt’un repertorio di loop, picchiate e virate a bassa quota. «Vuol farci vedere quant’è bravo» dici. «Questo fanfarone.» «È impressionante, però» dice il Viet senza perdere d’occhio il modellino. «Io l’avrei già fracassato un centinaio di volte.» Quando siete abbastanza vicini da distinguere i pollici bianchi dell’uomo sopra le leve del radiocomando, lui conduce il Cessna ad alta quota. Gli fa compiere un ultimo giro ampio di ricognizione, verso le case sparse di Ospedalicchio, e quando lo vedi scendere in assetto d’atterraggio, la fusoliera perfettamente in asse con il nastro bianco della sterrata, capisci che l’uomo ha deciso di lasciarvi a bocca aperta. «Vuole farlo arrivare qui lungo la pista» dice il Viet, e adesso l’uomo con il cappello da baseball vi


sorride in mezzo a due guance immense. Peserà un quintale abbondante, e la tuta in fel-pa che indossa non gli dona. «Guardate» grida mentre il Cessna scende con precisione in mezzo agli ombrelli degli alberi. Pensi che ha deciso di farlo atterrare nel punto esatto in cui vi ha visti arrivare, e adesso il Viet segue la manovra a bocca aperta, una mano aggrappata al foulard che gli cinge il collo. «Mi diverte quando si schiantano» sussurra, «ma questa volta, quasi quasi faccio il tifo per lui.» Il ronzio dell’elica dev’essere a meno di cento passi, quando il Cessna scende all’altezza dei cespugli che in quel tratto delimitano la sterrata, e fra un attimo raggiungerà la sua ombra che gli corre sotto al centro della pista. Il carrello e il ruotino anteriore toccano il suolo quasi insieme. Vedete questa nuvola bianca sollevarsi dalla carreggiata e poi c’è solo l’elica che spazza via la polvere. Il muso color zucca della fusoliera irrompe avanti e le ali sono rimaste miracolosamente in asse a un passo da terra. Il modellino vi arriva incontro rallentando addomesticato, e adesso la sua fusoliera ti fa pensare a una strana scialuppa, le ali al bilanciere che la mantengono in equilibrio. «Puttana Èva» dice il Viet mentre il Cessna si ferma a meno di dieci metri da voi. «Lei deve andare ai campionati del mondo» dice all’uomo. «Non è facile, guidare questi apparecchi» dice lui sollevandosi in piedi. «Ho un brevetto» dice. Resta a guardare il Cessna incolu-me fermo al centro della sterrata, e le ali da un’estremità all’altra non misurano meno d’un buon braccio. Per un po’ l’elica sembra girare al contrario, poi smette del tutto. «Quanto può pesare, un affare del genere?» domanda il Vietnamita. «È in fibra di vetro» l’uomo dice. «Pesa solo il motore. Però, anche con un radiocomando a sei canali, ho sempre paura di perdere il controllo. Se finisce in strada» dice indicando il tracciato lontano della statale, «si scatena il finimondo. È per questo che vengo qui.» «E tranquillo qui» dici. «Come si chiama questo posto?» «Madonna di Campagna» dice l’uomo. «Bisogna stare attenti alle linee elettriche delle fattorie, però non passa nessuno.» «Solo noi» puntualizza il Viet. «In ogni caso resto vicino alla macchina» dice l’uomo. «Per sicurezza.» «Di cos’ha paura?» domandi. «La gente è cattiva» dice l’uomo infilando la scocca del radiocomando nella tasca della tuta. Deforma il tessuto, ma in qualche modo ci entra. «Ti prendono in giro perché giochi con i modellini. Ma questi non sono giocattoli, sono apparecchi costosi e compli-cati da governare.» L’antenna sembra uscirgli dal fianco, mentre taglia in mezzo all’erba verso il Cessna color zucca. Il Viet ti guarda, fa segno che l’uomo dev’essere un po’ tocco, e tu sorridi. «Adesso basta» dice l’uomo sollevando l’aereo in modo delicato per la fusoliera. «A volare si scalda, e appena ti diverti un po’


c’è sempre qualcuno di invidioso che chiama la polizia. S’inventano che gli hai sfiorato il tetto di casa, o che hai messo paura ai bambini, e la polizia non aspetta altro. Si divertono a fare i severi, ed è un pezzo che ce l’hanno con me.» Va a riporre l’aereo e il radiocomando nel bagagliaio della Panda, poi apre una portiera e si sporge all’interno dell’abitacolo. Quando torna verso il bagagliaio ha in mano un lenzuolo. Con il lenzuolo copre l’aereo, poi abbassa il portello e lo vedete estrarre di tasca un pacchetto di Diana. «Quando il pilota è capace, le uniche noie possono arrivare dal radiocomando» dice quando ha acceso la sua sigaretta. «Se finiscono le batterie, la ricevente non capta più nessun segnale. L’apparecchio si trova in volo fuori da ogni controllo, e allora è meglio buttare il radiocomando, salire in macchina e filare.» «Le è capitato spesso?» domanda il Viet. «Una volta sola» l’uomo dice. «E ne possiedo nove, di apparecchi. Quello che ho perso per via delle batterie era un Mo-squito De Havilland in resina. La polizia è venuta a casa a mo-strarmelo fracassato com’era. Per fortuna era solo precipitato in una serra. Chissà come, se lo sentivano che era mio» ride, e la sua bocca sembra troppo piccola per le guance che la stringono. «Facevano le loro domande tutti severi, ma io pensavo che se confessavo mi levavano il brevetto. Così ho tenuto la bocca chiusa» dice soffiando via il fumo, «e da allora me l’hanno giurata.» La traversa sterrata muore sull’asfalto in prossimità d’un sottopasso dalle pareti in cemento. Sono tappezzate di scritte spray dedi-cate al Grifo che deve volare sempre in alto, e più in là scorgi maiuscole a vernice che inneggiano sghembe all’unità dei lavoratori. «Non dormo da due giorni» dice il Vietnamita mentre i vostri passi rimbombano là sotto, «e ormai è un pezzo, che non massag-gio più il collo col balsamo.» «E gli occhiali» dici. «Non dovevi ricomprare gli occhiali?» «Lascia perdere gli occhiali» dice il Viet. «Non ne ho davvero bisogno, finché non devo guidare di nuovo, e lunedì, in città, me ne faccio preparare un paio in meno d’un’ora. Più che altro, pensavo che ci siamo meritati un po’ di foglie.» «Non possiamo piantare la tenda, prima? Siamo quasi arrivati.» «Appunto» dice il Viet sfilando il primo spallaccio. «Se vogliamo arrivare sul serio, sarà meglio che mastichi qualcosa.» Tira fuori dallo zaino l’involto in carta di giornale arrotolata al-le estremità, lo apre, e nessuno fra gli automobilisti che passano in fretta sopra la vostra testa saprebbe indovinare quanta gioia c’è dentro. Il succo aspro vi riempie la bocca, e mentre scivolate sotto la statale pensi che forse il Vietnamita va avanti da un pezzo, a masticare khat tutti i giorni. Per quanto ti riguarda è un vizio come un altro, ma se


procurarsi le foglie è così complicato, devono esserci portelli a tenuta stagna, nella sua vita di rappresentante, dietro i quali la ruota dello sbattimento produce il suo lavorio inesausto. Alle porte di Bastia Umbra trovate un vecchio casale che un tempo era un convento e oggi ospita un bed and breakfast, e da lì il sentiero segue quasi in piano la riva destra d’un fiume. Il Vietnamita domanda se è di nuovo l’acqua del Tevere, ma sembra più pulita di quella del Tevere, e dici che forse è solo un affluente. Sulla sponda opposta, la cupola di Santa Maria degli Angeli riluce come metallo levigato nel cuore della piana, e adesso che siete ai suoi piedi Assisi non si scorge più. Quando arrivate a un ponte, le indicazioni del sentiero invitano a proseguire lungo l’altra riva ma voi prendete un viottolo che punta verso l’interno, dritto al campeggio dove avete appuntamento con Galerio. . Seguite la recinzione, e il piazzale di fronte all’ingresso del Camping San Francesco è invaso da una piccola carovana di Har-ley Davidson. Aspettano a motori spenti davanti alla sbarra ab-bassata, e possono essere una dozzina fra piloti e passeggeri. Gli uomini portano i baffi, le donne pantaloni in cuoio a frange, ma il riverbero delle loro chiacchiere non ha niente di sguaiato, e quando li raggiungete salutano per primi. Le moto sono targate Padova, e sulle spalle dei giubbotti di tutti loro è ricamata ad arco la scritta “Gesù Salva”. Allora ti accorgi degli adesivi con la croce attaccati ai caschi, dei Golgota stilizzati e le corone di spine che ornano i parafanghi. «Brutti, questi» sussurra il Viet mentre aggirate il piccolo arci-pelago di serbatoi e cromature. «Però, a livello di stile spaccano il culo ai passeri.» Dentro il prefabbricato della reception un motopellegrino barbuto, la misteriosa scritta Giobbe 18, 76 tatuata sull’avambraccio, sta sbrigando le formalità d’ingresso per tutta la comitiva. I pannelli d’abete che rivestono le pareti interne donano all’ambiente una luminosità propria, e appesi a puntine da ingegnere riconosci i calendari scout e altri mai visti, stampati a cura degli ordini missionari. Ci sono almeno venti carte d’identità squadernate sul bancone, e la ragazza di turno è una diciottenne atletica con l’apparecchio dei denti e i capelli tagliati alla maschietta. Vi da il benvenuto, si scusa e dice che ha bisogno di un momento per annotare sul registro tutti i nomi. «E così domani andate a Fonte Avellana» dice al motopellegrino, riprendendo il filo d’un discorso che non dev’essere mai decollato sul serio. «Domani sera dormiamo lassù» dice l’uomo. «E prima di tornare a casa scendiamo a Loreto.» «Caspita» la ragazza dice. «È un bel giro», e tu pensi che da Loreto si vede il mare e si vede la casa di tua moglie ai piedi del Conero . Quando arriva il vostro turno, la ragazza prende in consegna i documenti e posa sul bancone una mappa


fotocopiata del campeggio. «C’è posto vicino alle docce» sorride casta e metallica, e tu speri che dai bagni non salga odore. Con un pennarello rosso evidenzia la vostra piazzola. «Non c’è bisogno di pagare in anticipo» dice, e mentre ti consegna la mappa ti guarda negli occhi piéna d’un amore freddo. «Siamo tutti volontari qui, e il camping è affidato al senso di responsabilità degli ospiti.» «Stronza diffidente» sussurra il Viet mentre uscite. «Se pensa che scappiamo senza pagare, può anche farsi dare i soldi, invece di intristirci così.» C’è un passaggio pedonale, di fianco alla sbarra, e voi dovreste seguire la comitiva dei motopellegrini verso il cuore fitto d’alberi del Camping San Francesco. I piloti spingono le moto curvi sui manubri, adesso, e i passeggeri li aiutano a condurle in silenzio verso il parcheggio, come una carovana di moto in panne. Mentre sfilate attraverso il passaggio pedonale guardi le scritte sui loro giubbotti, e pensi che il Paese si sta popolando di sette gi-rovaghe e tribù timorose del futuro, come capita nei tempi bui, quando la gente comincia pian piano a confondersi e cercare un nemico. I caravan sono allineati con ordine, e sotto le verande ci sono famiglie di francesi e tedeschi intenti a cucinare su batterie da campo. Solo i bambini più piccoli sono esentati dai preparativi della cena, e un drappello a cavallo di bici da cross solca i vialetti del camping per la ronda serale. «Dov’è la piazzola del menga?» s’informa il Viet. «A muro con i cessi? Dentro i cessi?» «C’è un’area riservata al barbecue» dici studiando la mappa fotocopiata. «Non siamo lontani neppure da lì», e poi ti sembra di sentire alle spalle la voce di Galerio che saluta qualcuno. «Ce l’ho fatta, regiz», si sbraccia mentre imbocca il passaggio pedonale. «Sono arrivato» grida, e oltre la sbarra fate in tempo a vedere la coda mozza dell’Alfa verniciata di celeste che s’allontana attraverso il piazzale. Arriva di mezza corsa, il vostro amico, sorridente come non l’avevi mai visto. Regge in mano uno zainetto viola da finesettimana, e sul petto della sua vecchia maglietta del Bulldog s’incrociano a doppia bandoliera la tracolla della borsa da fotografo e il cordoncino giallo d’una sacca da marinaio. «Allora andiamo in montagna conciati come i profughi» sospira il Viet. «Dove pensi d’andare» ride di naso, «con tutta la zavor-ra fuori dallo zaino?» «Sono un uomo libero, amici» esulta Galerio, e il suo volto sembra mandare luce da sotto la chioma lucida e compatta. «Pensate di restare a guardarmi come personaggi di Pirandello, o si fa un po’ festa?» «Era un secolo, che non me ne stavo sdraiato sotto le stelle» considera la voce stravolta del Viet. «Senza una donna» si corregge quasi subito, e in questa porzione di prato al largo delle basi in muratura per le griglie, un odore acuto di mentolo e cannella sembra contagiare ogni filo d’erba.


Poi solleva i piedi, e per un po’, schiena a terra come sei, il profilo dei suoi scarponi alti alla caviglia ti nasconde il disco della luna. «Che numero porti?» domanda Galerio. «Il cinquantadue come Bud Spencer?» «Fai pure lo spiritoso» mormora il Viet, e le gambe dopo un po’ gli tremano, ma lui continua a puntarle a candela, gli scarponi che si toccano. «Vediamo quanto ridi domani» dice quando riappog-gia i piedi a terra. «Mi invidierete, quando vi staccherò in salita leggero come un camoscio.» «T’invidio l’ottimismo, forse» dice il Viet. «Nemmeno il sacco a pelo, riesci a infilare nello zaino?» «È uno zaino da lupetti» dici. «Hai bisogno d’uno zaino vero, amico.» «Sei ancora vivo, tu? Pensavo dormissi.» «Fra poco striscio fino alla tenda. E fareste bene a seguirmi, se domani non volete essere dei rottami.» «Lui è una specie di capospedizione» dice il Viet. «Però la guida vera è il khat.» «Foglia della staffa e andiamo tutti a dormire?» «Serviranno tre staffe» ride il Viet. Cercando tastoni l’involto di carta finisce per urtarti. «Però se il capospedizione si addormenta non vale.» «Adesso tengo gli occhi apertissimi» dici. «Penso all’infinità della via lattea e mi lascio traversare da sensazioni ad alta gradazione poetica.» «Come nei libri di Asimov» dice Galerio. «Più o meno.» «Ascolta, Asimov» dice il Viet, «prendi questa fogliolina tenera, e mentre la mastichi ringrazia San Culo che non ti ho dovuto tagliare la testa.» «C’è tanta rabbia, in questo ragazzo» dici mentre il Viet ti passa quella che devi considerare la tua foglia della staffa. «Da quand’è che viaggi sulle volanti?» domanda a Galerio. «Devo cominciare a preoccuparmi?» «È la prima volta che ci salgo, e solo perché abbiamo fatto tardissimo e lui doveva montare in servizio» e dopo un po’ dice «È stato strano.» «E l’elmetto che ti ha salvato, molla la carriera da elmetto e diventa libraio?»


«È uno sbirro ma è un bravo ragazzo» dice Galerio, e voi non dite niente. «L’ho conosciuto perché lavora nella zona dell’università. È pieno di pusher, intorno a Porta Pesa, e laggiù l’attività principale degli sbirri consiste nel fingersi tossici per smascherare i pusher e catturarli.» «Oi» dici. «Sempre meglio che restare chiuso in ufficio.» «Corre come una scheggia. Da ragazzo era una specie di atleta promettente e, se non fosse stato infortunato, avrebbe corso per l’Italia alle Olimpiadi di Seul.» «Poverino» dice il Viet. «Scommetto che, se non era infortunato, portava a casa la medaglia d’oro.» «Allora stava a Roma, con il gruppo sportivo della Polizia. Poi è diventato troppo lento per le gare, e l’hanno spedito qui a inseguire i pusher.» «Per forza, che non vede l’ora di rintanarsi in un negozio.» «Di solito ne parlava ridendo, dei suoi inseguimenti a piedi e degli stratagemmi assurdi di quella gente. Però oggi, mentre mi portava qui insieme a un collega che sembrava muto, mi ha raccontato una cosa che non sapevo. Un paio d’anni fa, nel corso di un’operazione a Porta Pesa, un pusher anziché fermarsi ha raccolto da terra un mattone e per poco non gli spacca la fronte a metà. Ha visto il mattone che gli volava a un palmo dalla testa, il tizio si è messo a scappare, e lui, invece di tirare fuori la pistola si è intestardito a catturarlo a mani nude.» «Tanto è l’uomo più veloce del mondo, no?» «Dice che il tizio ci dava dentro. Si è fatto tutti i vicoli a ridosso delle mura, in salita e in discesa, e lui sempre dietro a dieci passi, fedele all’idea di non mollare.» «Forse anche il pusher, da giovane, doveva andare alle Olimpiadi» dice il Viet mentre mastica. «Era un ragazzo di ventidue anni, ma lui ancora non lo sapeva. Si è buttato nel portone di un palazzo, ha salito quattro piani di scale, e lui l’ha inseguito attraverso la finestra di un abbaino che affacciava sui tetti.» «Doveva essere fuori di testa dall’incazzatura, per non mollar-lo.» «Dice che voleva ammanettarlo, e prima di portarlo via chiedergli perché aveva provato ad aprire la mela proprio a lui. Il pusher gridava “Pace, adesso basta”, mentre correvano sulle tegole, fra le antenne e i camini. Quando si è accorto che non c’era verso di staccarlo, ha spento il cervello. Era un salto impossibile, cinque o sei metri a strapiombo su un vicolo che conosco, ma quello è saltato e basta. Dice che l’ha visto piombare braccia avanti sullo spiovente del tetto di fronte, senza riuscire ad aggrapparsi a niente, e poi l’ha visto cadere.» «Stralunami» dice il Viet. «È morto?» «Muori quasi sempre, se cadi schiena a terra dal tetto di una ca-sa di quattro piani.»


«Me la sentivo che finiva male» dici, e il succo del khat che ti riempie la bocca sembra allo stesso tempo prosciugarla. «Striscia-mo verso la tenda?» «È da allora che ha deciso di comprare la mia libreria. Intanto ci mette dentro la moglie, e quando potrà smettere di inseguire la gente sui tetti, ci andrà a lavorare anche lui.» «Se vuole rilanciarla» dice il Viet, «sarà meglio che smetta di trattare testi universitari.» «Più che libri, venderanno oggettistica.» «Oggettistica» considera il Viet mentre le ciglia ti s’abbassano. «Vanno di brutto, certe puttanate come le bombe di sapone ri-generante, o le orecchie di pelliccia sintetica da attaccare al casco.» «Stralunami se so di cosa stai parlando» dice il Viet e anche lui sembra pronto a dormire qui. «Cazzate che compri a due euro, tu dettagliante», e se pure si tratta di una seconda persona generica, la voce di Galerio è così indignata da scuoterti. C’è forse in te qualcosa del dettagliante? «Le compri a due euro dai grossisti cinesi, d’accordo, e in negozio le rivendi a quindici o venti senza che nessuno protesti.» Ti dispiace, non avere visto quel posto quand’era pieno di libri, e forse, con un piccolo sforzo, avresti potuto comprarli tu, il tavolo e le sedie appartenute all’Osteria delle Dame. «La trasforma in una cartolibreria del menga» biascica il Viet sollevandosi a sedere. «È un ragazzo con le idee chiare» Galerio dice. «A forza di conoscere gente di tutti i tipi, gli sbirri fanno l’occhio lungo, per il bisness.»

GIORNO TREDICI. Da Assisi alla Rocca di Pastigliano. La giornata è tersa e fresca, e all’inizio Galerio si ferma ogni poco per puntare l’obiettivo della Nikon verso lo scrigno di tetti d’Assisi. «Se continua a scattare ogni dieci passi» si lamenta il Vietnamita, «a Nocera Umbra non ci arriviamo mai.»


«Ti ho sentito sai?» grida Galerio. «Vedrai che sei contento, alla fine, di avere le foto.» La borsa con gli obiettivi e la sacca da marinaio ondeggiano a ogni passo, e il peso esiguo dello zainetto viola da finesettimana non basta a controbilanciare il doppio effetto a pendolo. Così Galerio è costretto a camminare piegato in avanti, e ti sembra spen-dere una quantità d’energie solo per avanzare in linea retta. È uno spettacolo che all’inizio fa sorridere, poi preoccupa e mette pietà, e mentre seguite sotto il sole la sterrata che sale di petto verso le mura, le oscillazioni fuori fase delle due zavorre fanno pensare all’espressione “eguale e contrario”. «Forse dovremmo cercare un negozio» dici. «Trovare uno zaino vero e buttarci tutto dentro.» «Sono sempre stato uno sportivo» dice Galerio salendo a occhi bassi. «È qualche tempo che non faccio niente, ma sono sempre stato uno sportivo.» «Nettamente» dici. «Sei una delle migliori ali sinistre in circolazione. Ma così fai il triplo della fatica.» «Ascolta» dice. «La macchina fotografica mi serve a portata di mano, e anche la borsa con i rullini e l’altro obiettivo. Quindi, alla fine, l’unica cosa strana è che ho il sacco a pelo fuori dallo zaino» ti sorride inclinato in avanti, le basette imperlate di sudore, mentre la sacca da marinaio gli sbatacchia contro la coscia. Le sagome gialle delle ruspe che riposano in cima all’erta ti fanno pensare che l’anno prossimo l’imbrecciata sarà sepolta sotto uno strato d’asfalto, e per il momento solo voi tre avanzate a elastico nel polverone che la brezza del mattino smuove e insinua sotto i vestiti. Oltre le ruspe, si staglia l’arco di Porta San Francesco, e subito dentro le mura le strade risuonano di canti e rulli di tamburo. «C’è il palio, ad Assisi?» domanda il Viet, e Galerio sospira che non ne ha mai sentito parlare. Un paio di vigili urbani e il servizio d’ordine delle maestre pre-cedono un corteo di studenti delle elementari. Li senti cantare in coro Caravan of Lave con le parole in italiano, e ad aprire il corteo ci sono due piccoli alfieri con il tricolore e la bandiera arcobaleno inastate su tubi di plastica. Dietro gli alfieri viene un drappello di tamburini sui dieci anni, compresi e felici di darci dentro sulle pelli d’asino. A pochi passi di distanza una fila di ragazzine regge a mano uno striscione in plastica sul quale campeggia la scritta PACE SUBITO IN TERRA SANTA E MESOPOTAMIA. Dietro puoi Contare i bambini a centinaia, che cantano e agitano foulard colorati, e li guardate passare fino alla fine, imbottigliati fra i turisti che s’ac-calcano estasiati. Qualcuno applaude, molti scattano foto, e Galerio scatta a raffica. Un ultimo drappello di maestre controlla che nessuno s’attardi, e voi vi accodate come vecchi anarchici senza insegne, seguite il corteo a distanza di pochi passi mentre risale verso la spianata della Basilica. Comitive d’anziani, famiglie straniere e mistici so li tari in ber-muda affollano il po’ d’ombra davanti all’ingresso laterale della Basilica. Una formula incisa sul fregio che asseconda l’arco a sesto acuto del portale garantisce indulgenza plenaria e perpetua a quanti passeranno la soglia.


«È ancora valido, l’annuncio?» sorride il Viet. «Perché se è ancora valido, per non sbagliare io entrerei.» Depositate gli zaini a pochi passi dall’ingresso, uno contro l’altro. A turno, prima il Vietnamita e poi tu e Galerio, visitate la Basilica che ospita il sepolcro di San Francesco. Dentro è freddo, e i banchi sono pieni di persone inginocchiate che pregano il più umano e punk fra tutti i santi che la Chiesa considera degni di culto. Pensi alla fede intatta di quelle persone inginocchiate, e più che esprimere speranza o desideri, ti sembrano vittime miti, pronte a offrirsi in sacrificio per riscattare qualcun altro. Su una targa incorporata a una parete è riprodotto con cura l’ultimo itinerario di Francesco. Non sapevi che si trovasse a Nòcera Umbra, quando sentì avvicinarsi l’ombra di som nostra morte corporale. Era là, e al pari di tutte le creature della terra provò l’istinto di tornare a casa. Nobili cavalieri lo scortarono fino a Assisi, e ti stupisci di trovare il percorso riprodotto sulla targa identico a quello che la mappa del Parco Regionale chiama sentiero 51. L’idea di avere scelto il sentiero che conduce a Nocera senza sapere che percorre a ritroso gli ultimi passi di Francesco riuscirebbe a turbarti anche in pieno sole, e mentre segui Galerio che cammina a testa bassa verso l’uscita della Basilica ti senti scom-bussolato. Fuori, lungo la rampa che conduce al sagrato, gruppi di ragazzi con gli zaini scattano foto-ricordo, ma pochi fra loro calzano scarponi da trekking. Risalite una strada sulla quale affacciano banchi di cartoline e souvenir, e oltre alle statue in terracotta del Santo e il portachiavi francescano, i pellegrini possono levarsi lo sfizio di acquistare una bandiera della Ferrari, o le maglie non ufficiali dei calciatori Cassano e Kakà. «Io penso che se torna, per prima cosa ribalta questi banchi di merda» dice il Vietnamita mentre fendete la folla in fila indiana. «Non può essere contento, di vedere la sua città trasformata in una bottega a cielo aperto.» «Sai con quanta gente ti devi mettere d’accordo, per aprire un banco qui?» Galerio dice. «Anche i frati e le suore vorranno dire la loro, oltre al sindaco e i vigili.» «Però così è uno schifo» dice il Viet. «Le cassette di Leone di Lernia cosa c’entrano?» Più a monte i banchi lasciano spazio a normali negozi. Entrate in una bottega d’alimentari per comprare un po’ di formaggio, e anche lì trovate l’immagine del Santo riprodotta sull’etichetta delle caciotte. «Allora ditelo, che è una barzelletta» dice il Viet mentre uscite. «Scriveteci Las Vegas, all’ingresso della città, così è tutto chiaro.»


«Il Viet faceva il chierichetto» dici. «Ce l’ha a morte, con i mercanti del tempio.» Bevete a una fontanella vicino al palazzo del Comune, già in disparte dal trambusto di turisti, e ti senti felice mentre salite per vie ripide verso l’oasi di quiete di Porta Cappuccini, dove l’abitato smette d’arrampicare lo sperone del Subasio. È la porta attraverso la quale Francesco rientrò morente in città, ed è il punto di partenza del sentiero che traversa i boschi alle pendici del monte fino a Nocera Umbra. All’inizio il sentiero è scortato da una doppia ala di cipressi, ma quasi subito penetra nella macchia e voi salite in silenzio verso mezzacosta, misurando il fiato e la forza, via dal grumo bianco di case, conventi e collegiate. Dopo un po’ che scavalcate radici e scivolate in silenzio all’ombra dei carpini neri, il Vietnamita batte le mani un paio di volte e dice che gli è sembrato di vedere una biscia, o forse una vipera. «Se vi mordono» dice fermandosi, «non lasciatevi iniettare il siero. Ho letto su “Lancet” che il siero ne ammazza più del veleno. Per via dello shock anafilattico del menga.» «Te lo ricorderò, al momento giusto» dici. «Se mi dimentico, te lo ricorderà Galerio.» «L’unica cosa da fare è incidere, succhiare via il sangue infetto e sputarlo fuori» dice il Viet, e prima di sfilare l’Invicta rosso smuove col piede il tappeto di foglie. Poi deposita lo zaino, lo scoperchia e sfila il temperalapis nel suo fodero di cuoio. Nella luce fioca del bosco, l’impugnatura rivestita da piccoli cerchi di metallo sembra mandare barbagli oscuri. «Con questo, d’accordo?» dice mentre apre la cintura dei pantaloni color kaki per assicurarvi il fodero. «Fa sempre così, quando si va in montagna?» domanda Galerio. «Ora almeno possiamo difenderci dai cinghiali, e incidere quello che c’è da incidere» dice il Viet caricando da capo lo zaino in spalla. Adesso salite sgranati, e sei tu che apri la strada. Il dolore ai piedi, ormai, è qualcosa con cui riesci a convivere. Il Vietnamita fa da elastico, e dopo mezz’ora lo senti chiamare la sosta. «Tempo» dice. «Galerio non si vede più.» Allora battezzi il cono d’ombra successivo, e quando lo raggiungi, senza sfilare il Salewa ti siedi sulla terra argillosa ad aspettare i tuoi amici. Il Vietnamita sorge per la salita con la sua falcata ampia e dubi-tativa, mormora qualcosa a proposito dell’equipaggiamento inadatto di Galerio e viene a sedersi di fianco a te. Fate in tempo a chiudere gli occhi, prima che il vostro amico compaia, ondeggiando al rallentatore, in fondo alla discesa. «Ma tu, omarino, sei un omarino spacciato» lo assale il Viet mentre viene a gettarsi di fianco a voi. Galerio lo guarda come non fosse sicuro di chi si trova di fronte. Con le grandi mani aperte fa cenno


d’aspettare un attimo, poi netta gli angoli della bocca e lo sentite sospirare. «Sono rimasto un po’ indietro» mormora a occhi chiusi. «Ma solo perché mi so-no fermato a scattare un sacco di foto.» «Sarà meglio che ci procuriamo uno zaino all’altezza dell’impresa» insiste il Viet. «Così sembri uno sfollato.» «Lo ringrazierai, lo sfollato» dice Galerio sfiorando la cinghia della Nikon, «quando vedrai che razza di capolavori saltano fuori.» Per un po’ masticate in silenzio le foglie che il Viet vi passa, e quando la curiosità si fa troppa glielo domandi, quanto valgono sul mercato tre cartocci di foglie come quelli che avete prelevato a casa di Spichisi. «Non saprei» dice lui. «Il prezzo dipende sempre dalla quantità. Forse seicento euro. Sei o settecento euro.» «È una passione costosa, se ne vuoi masticare tutti i giorni.» «È una passione costosa, sì. Ma non possiamo parlare di qualcos’altro?» «Scusa» dici. «Mi sembrava un commento da uomo di mondo, e invece è venuto fuori da censore del cazzo.» «Se la gente non avesse vizi» Galerio dice, «non avrebbe quasi bisogno di lavorare.» Dici che anche tuo fratello la pensa così, e lui ha meno vizi di tutti. «Su, uomini» dici quando ti sembra che una pausa più lunga fi-nirebbe per piegarvi le ginocchia. «Non dobbiamo ammazzarci, ma avremo fatto sì e no tre chilometri.» «Let’s go» dice Galerio saltando in piedi. «Ho già recuperato le forze.» In ripartenza provate a tenerlo in testa, ma l’ondeggiare delle zavorre lo porta lontano dalla traiettoria ideale, e nello spazio di cento passi vi fa segno di andare senza preoccuparsi di lui. A un certo punto vi trovate davanti a una cava di pietra a cielo aperto, simile a una voragine bianca sul fianco del monte fitto d’alberi. Il costruito dell’impianto affaccia sulla carrabile di mezzacosta e sembra abbandonato da anni. La recinzione è stata ab-battuta in molti punti e le pareti esterne sono solcate da scritte sa-taniche, ma quelle invocazioni al maligno appaiono maledizioni infantili e come sfiatate, al cospetto del fianco vivo del Subasio scavato in profondità con le ruspe e la dinamite. Ora avanzate quasi in piano fra i cespugli di bosso, e anche Galerio, al di là della fatica enorme che deve abitarlo, sorride a labbra cucite e sembra di buon umore. «Ormai siamo troppo lontani per tornare indietro» dice, «e non sapete che sollievo ne provo.» «È sempre così all’inizio» dice il Viet. «Sei tentato di dargliela su prima ancora di cominciare.» «Se dici così però, sembra che siamo appena partiti. Non siamo appena partiti.»


«Facevo il chierichetto, non il teologo» dice il Viet senza badar-gli, «ma credo ci sia più santità in questi boschi che in tutte le chiese di Assisi.» «Non saprei» dici. «Com’è che si finisce sempre per parlare di queste cose?» «A un certo punto, mentre salivamo prima della cava, mi sono sorpreso a pregare. Ripetevo le parole fra me e me, e chissà da quanto andavo avanti. A voi non capita di pregare?» «Pregare pregare no» dice Galerio. «Però in tutto questo silenzio, con la borsa della Nikon che ti ostacola a ogni passo, ti fai dei gran esami di coscienza.» «Pensavo di essere l’unico» dice il Viet, «e cominciavo a sentirmi solo.» «Ora che la libreria è andata» riprende Galerio, «mi chiedo co-s’ho combinato in questi anni, e cosa si può tentare nei prossimi. Perché lo so cosa mi piacerebbe fare sul serio, ma in giro non c’è tutta questa richiesta di fotografi. Né a Londra né qui, e a questo punto devo specializzarmi. Trovare un maestro che mi eviti di cadere sempre negli stessi errori.» «Intanto che ti specializzi, un lavoro dovrai pur farlo» dice il Viet. «Non lo dico per metterti tristezza.» «Ho vissuto un anno lassù, nessuno ha comprato le mie foto e parlo l’inglese come può parlarlo il cameriere d’una pizzeria di Camden. Almeno ho fatto esperienza, e anche con la libreria ho fatto esperienza. Adesso però devo mettermi a fare le cose sul serio» dice. «Imparare bene l’inglese e trovare un maestro. Ho la fortuna che con la gente lego subito, e forse a ventott’anni non sono troppo vecchio perché un professionista mi prenda con sé.» «Anche il mio rappresentante doveva insegnarmi un mestiere, e stralunami se ho imparato qualcosa da lui. Mi usa come galop-pino, e mi sa che presto il dottor Rappini Luca saluta tutti e si ritira in provincia.» «Ale» dici. «Sentite che piano. Vado a fare il farmacista in qualche paesello del menga, come quello dove mi hanno spedito per il servizio civile. Trenta case, una parrocchia e una trattoria con il menu scritto a macchina.» «Così però» dice Galerio, «è l’anticamera della morte.» «È solo una tecnica per trovare moglie. Quando l’ho trovata torno in città. E allora mi scateno, faccio lavorare lei e provo a vivere di musica. Prima però, devo spacciarmi un paio d’anni per un vero farmacista rassicurante, una persona senza una briciola d’interessi. Alle donne l’eclettismo fa paura.» Mentre li ascolti parlare ringrazi in silenzio per tutte le giornate chiuso nell’ex ripostiglio grande, alle prese con il computer e il lavoro che ti sei scelto. Il sentiero sbuca sulla strada asfaltata in una località che secondo la carta del Parco si chiama Costa di Trex, e i segnavia numera-ti del sentiero per Nocera, verniciati sui rari pali della segnaletica stradale, ne


accompagnano la salita fino alla sommità d’un colle. Un pannello metallico segna il punto in cui abbandonare l’asfalto per addentrarsi da capo nel fitto d’alberi, verso una gola sul cui fondo corre ripida l’acqua d’un torrente. L’antico Ponte dei Lupi ne scavalca il letto, e tu speri di trovarlo ancora intatto come lo videro Francesco e i cavalieri che lo accompagnavano nell’ultimo viaggio. Il sentiero scende deciso, invaso da uno strato di foglie morte e rottami d’alberi giovani. Si fa più ripido man mano che distinguete il riverbero argentino del ruscellare che promana dal fondo, e mentre scendete frenando fra i tronchi esili dei salici ripaioli, puoi provare a intuire il genere di sforzo che vi toccherà oltre il ponte, quando dovrete risalire il versante opposto. Sul fondo della gola fa fresco anche all’una di pomeriggio, e le infiorescenze dell’astragalo punteggiano la macchia simili a calici rosati screziati di porpora. Il cielo è solo una ferita nel tetto d’alberi, e le spallette del ponte appaiono all’improvviso dietro un’ultima quinta di vegetazione, gelide e sgraziate come le opere figlie del Genio Militare. Valutate la spaccatura del terreno sul cui fondo scorre l’acqua, e più che un letto ricorda una faglia, il confine netto fra due porzioni di mondo. «Speravo fosse ancora in piedi il ponte medioevale» consideri. «Mettevo su il bianco e nero» Galerio dice. «Questo è solo un prefabbricato.» «Sarà crollato mille anni fa» dice il Viet mentre percorrete il tavolato d’assi sospeso sopra un salto di molte braccia, e oltre le spallette vedete l’acqua ribollire fra i massi. «Sembra di essere sul fondo di un canyon» dice, «e non dev’essere stato semplice trasportare fin quaggiù questa passerella del menga. Né portarla qui, né posizionarla fra una riva e l’altra senza farla precipitare di sotto.» Stendete i moduli su un fazzoletto d’erba soleggiato a dieci passi dall’uscita del ponte. Galerio, sgravato dai suoi fardelli, cammina in maniera innaturale, senza quasi piegare le ginocchia, e per non sbilanciarsi deve accompagnare i passi con le braccia piegate a squadra, come un marciatore delle Olimpiadi. Per un po’, mentre tu e il Viet preparate il pranzo, si aggira a quel modo, la Nikon a tracolla, esplorando i dintorni del bivacco e le pendici della sponda ancora sconosciuta. Il minuscolo scatto dell’otturatore è un tributo che rivolge volentieri ai fiori d’astragalo, alle cime degli alberi e gli affioramenti di scaglia cinerea erosi da rivi minuscoli che scendono verso il letto profondo del torrente. «Non è che ci sviene lungo la strada?» domanda il Viet sciogliendo il foulard rosso che gli ripara il collo. «È testardo» dici. «Se la godrebbe di più, con uno zaino adatto, ma non sarà facile convincerlo.» «Questa è bella, regiz» grida Galerio fra i cespugli di cornetta venti passi sopra di voi. «Questa è da bianco e nero», e basta seguire con gli occhi la traiettoria del suo indice puntato verso la ri-va per capire


cosa lo esalta. Il camminamento messo in opera dal Genio Militare non è sospeso nel vuoto, ma poggia sopra la volta in pietra sorpendentemente intatta dell’antico Ponte dei Lupi. «Bello stare qui come lucertole e sentire le forze che affluiscono da capo» dice Galerio. «Passa la sigaretta» dici. «Oppure ne preparo un’altra. L’ultima e poi andiamo.» «Fai così» ti strizza l’occhio Galerio. «Ancora le forze non sono affluite del tutto.» «Per un pezzo è tutta salita» rifletti ad alta voce mentre ti passa la busta del tabacco, e il Vietnamita scruta immobile il versante opposto della faglia. «Sento dei rumori» dice. «Voi non sentite niente?» Fate silenzio, e anche a Galerio sembra di sentire qualcosa. «Sarà un animale» dice aspirando dalla sigaretta. «Non si chiama Ponte dei Lupi, questo posticino del menga» dice il Viet, e in fretta si solleva in ginocchio, libera dal cinghietto di sicurezza l’impugnatura del coltello. «Non credo siano lupi» dice Galerio puntellando i gomiti sul modulo. «I lupi di giorno non dormono?» Il Vietnamita va in fretta fino all’uscita del ponte. Carezza il fodero in cuoio del cimelio di famiglia e scruta oltre i venti passi della campata, verso la macchia che, sulla sponda opposta, avvolge il sentiero fin quasi all’attacco delle spallette. «Chi è là?» grida con voce incerta, e solo il ruscellare del torrente sul fondo della gola in qualche modo gli risponde. «C’è qualcuno, appena di là» dice fra i denti, «qualcuno che gioca a nascondi-no.» Allora lo raggiungete, e oltre la campata, nel primo fitto della macchia, ti sembra di distinguere la tinta elettrica d’uno zaino o qualcosa che occhieggia ai piedi d’un salice. «Forse è una famiglia in gita» dice Galerio sottovoce, «e noi li abbiamo spaventati.» «Sì?» sussurra il Vietnamita. «E allora perché giocano a nascon-dino?» «Oi» dici, «non siamo più tanto belli, e schierati a questo modo sembra che facciamo la posta ai viandanti.» «Siamo noi i viandanti» il Vietnamita sorride. Poi smette di stuzzicare il fodero del temperalapis, si asciuga la fronte con il dorso della mano. «Allora» grida mostrando le mani aperte sopra la testa. «Siamo brava gente, amici. Viandanti come voi. Precisi. Parliamo la stessa lingua, sì?» Appena i ventagli delle fronde si smuovono, un minuscolo smottamento fa sfarinare una manciata di terra umida verso l’imboccatura del ponte. Il Vietnamita allarga le braccia per tenervi indietro, e dal fitto della macchia vedete sollevarsi due raga/ze che, a un palmo di distanza una dall’altra, vi guardano spaurite.


Indossano magliette e calzoncini in tela grezza simili ai vostri, e la più alta porta una fascia biancadi cotone sulla fronte. I capelli scuri le ricadono sulle spalle, mentre la chioma color cenere dell’amica è radunata in grossi dreadlock. «Trànquile» proclama sorridendo Galerio. «Il nostro amico pensava fossero animali feroci», e a mezza voce aggiunge che gli sembra di avere già visto le ragazze in mezzo al traffico di turisti di Assisi. «Anch’io le avevo notate» sussurra il Vietnamita. «Sono passate mentre voi eravate dentro la Basilica, e non speravo di vederle un’altra volta.» «Siamo pellegrini, in pratica» dice ad alta voce. «Ci avete messo paura» protesta la ragazza con la fascia sulla fronte. Porta a tracolla un tascapane, e subito credi di sapere che sua madre dev’essere una donna bellissima. «Nessunissimo vi scambierebbe per pellegrini» dice l’altra chi-nandosi ai piedi del salice per raccogliere una borsa in tela jeans che sembra cucita in casa. Vi guarda imbronciata dall’altro capo del camminamento, e in nessun modo si preoccupa di tenere indietro le vibre del rimprovero. Le ragazze si chiamano Flora e Vanna e, poiché il Vietnamita praticamente le supplica, accettano di fermarsi a bere un caffè insieme a voi prima di riprendere la strada. Posano la borsa e il tascapane di fianco ai vostri zaini, e mentre l’acqua scalda dentro la gavetta posizionata sul campingaz, fate a gara a metterle a proprio agio. Galerio offre il suo modulo che siedano comode, tu metti a disposizione la busta del tabacco mentre il Viet si agita e infiora d’episodi avventurosi il vostro viaggio lungo le piste a sud del Trasimeno. Tutt’intorno a voi è bosco, e di tanto in tanto, sopra lo stormire di fronde e il canto dell’acqua prigioniera sul fondo della gola, guizza l’ombra celeste e vermiglia d’un martin pescatore, e le ragazze non sembrano più impaurite da voi. Arrivano da Valbruna, un paesello di poche centinaia d’abitanti non lontano da Spoleto, e quando parlano fra loro in dialetto sembra di riconoscere il suono d’una lingua fossile, una cadenza che credevi prigioniera delle antologie medioevali. Dopo un po’ che siete seduti a fumare nel poco d’ombra presso l’uscita del ponte, Galerio decapita i cannelli di caffè solubile e ne rovescia in acqua il contenuto, mescola adagio con il cucchiaio della gavetta. Le ragazze vi raccontano della vita schifa che si fa in paese, di come tutti i giovani di Valbruna, all’inizio dell’estate si trasferiscono a lavorare nelle località turistiche, e il contrasto fra l’incar-nato olivastro di Flora e quello latteo dell’amica sembra contenere in sé qualcosa di stupefacente e doloroso. … forse altri, al vostro posto, non proverebbero nessuna pietà. Immagini le grida soffocate delle ragazze, l’accanimento con cui proverebbero a difendersi, e ne provi nausea, come capita quando sei costretto ad assistere a una scazzottata che non ti riguarda…


Flora domanda se conoscete un albergo, in Riviera, dove hanno lavorato l’estate scorsa, e il Viet dice di conoscerlo. Sua madre dev’essere ancora un incanto, e pensi che se fosse nata a Roma o Milano, oggi Flora sarebbe sicuramente la figlia d’un milionario. «A lavorare fuori» dice, «almeno si riesce a vedere un po’ di mondo. Su da noi non succede un cavolo di niente.» «Niente proprio» dice l’altra. «E non da ieri. Dai tempi che l’acqua andava in salita.» «E così siamo rimasti jente de macchia» sorride Flora stringendo-si nelle spalle. «Così ci chiamano, quelli dei paesi vicini.» «]Gente de macchia» ripete il Vietnamita. «È un soprannome simpatico.» «Su da noi» dice Flora «c’è solo la corsa con gli asini, il giorno di Sant’Antonio. La corsa degli asini, il palio della cuccagna e, la sera, il concerto in piazza di qualche vecchia gloria.» «Quest’anno è venuto Scialpi» sbuffa Vanna, e le estremità di-seguali dei grossi dread sembrano oscillare di disapprovazione. «E così l’estate, finché non abbiamo un marito che ce lo impedi-sce, andiamo a lavorare negli alberghi, nei rifugi di montagna o dove serve.» Quando il caffè smette di fumare, bevete a turno dalla gavetta, e la grazia iniziale che abita le ragazze di vent’anni sembra ac-compagnarsi in loro a un’intraprendenza sobria, una capacità d’adattamento che le donne cresciute in città devono avere smar-rito da tempo. «Domani attacchiamo a lavorare in un campeggio» dice Flora. «Nelle cucine di un campeggio. Vanna è diplomata all’alberghie-ro, e anch’io ormai ho la mia esperienza.» «E questo campeggio lo raggiungete a piedi?» domanda il Viet. «Che ci vuole» sorride la ragazza che si chiama Flora. «Sono tiv giorni di strada, è una specie di passeggiata.» «Già» il Vietnamita dice. «Ma la notte? Come fate la notte?» Le ragazze si guardano, e Flora sorride. «Che v’importa, a voi, come facciamo?» «A Assisi abbiamo dormito dalle suore» dice Vanna. «E anche a Nocera, dormiamo dalle suore. Abbiamo una lettera bollata del nostro parroco.» «Garantisce per noi. Scrive che ci ha impartito di persona i sa-cramenti fino alla cresima, e domanda ospitalità per le sue pecorelle Vanna e Flora.» «Stralunami» dice il Viet. «Proprio come una volta.»


«Cos’è, “stralunami”?» domanda Vanna. «Niente» sospiri. «È un modo suo di dire.» «È un modo buffo» Flora dice. «E la tenda?» domanda Galerio indicando la borsa in tela jeans dalla quale sporgono le teste a cilindro della paleria. «Lavorate al campeggio e quei negrieri vi costringono a dormire in tenda?» «No» dice Flora, e forse la domanda l’ha imbarazzata. «La canadese è solo in caso d’emergenza.» «Però» il Vietnamita dice. «Avete fegato, ragazze.» «Fegato è una parola che piace sempre, a voi maschi» sorride Flora. Per un po’ il Vietnamita la guarda, poi guarda te e anche Galerio ti guarda. «Anche noi andiamo verso Nocera» dici. «Possiamo fare un pezzo di strada insieme, se volete.» «Siete gentili, ma forse per voi andiamo troppo lente» dice Flora. «Siamo solo ragazze de macchia, e voi sembrate una specie di spedizione professionale» dice Vanna. Il Vietnamita lascia andare una risata che ricorda le proteste d’un asino. «Ma no» dice, «andiamo pianissimo, noi», e tu spieghi che di professionale avete solo la tenda. L’attacco è violento, i segnavia spiccano a molte decine di metri l’uno dall’altro lungo il versante assolato, fitto di roverelle, che il sentiero risale uscendo dalla gola. Procedete sgranati, tu e il Viet in testa, Galerio insieme alle ragazze. Se sollevi lo sguardo e misuri quanto manca al falsopiano, senti il fiato farsi corto e lo zaino pesare per intero sui lombi, ma anziché buttarti a sedere sotto gli occhi delle ragazze, stringi più forte gli spallacci e forzi l’andatura quel tanto che basta per sfilare accanto al Viet e dargli il cambio. Se riuscite ad accamparvi nei pressi di Nocera, è il pensiero che ti sprona, domani sarà il gran giorno. Attaccherete a viso aperto l’Appennino e supererete la linea dello spartiacque in un modo o nell’altro. Sai già che non troverete un cartello né niente del genere, ma semplicemente vi si spalancherà davanti un nuovo orizzonte, prima un po’ alla volta e poi a perdita d’occhio, e quando incontrerete un ruscello saprete che la sua acqua è destinata a raggiungere l’Adriatico. Al solo pensiero di trovarti di là, dall’altra parte, ti prende la smania che per molti giorni hai tenuto sotto controllo. Pensi alla penisola che si protende nel Mediterraneo come all’immenso ponte di coperta d’una nave, e alla vostra traversata come ai pochi passi d’un marinaio deciso a spostarsi da una fiancata all’altra.


Vorresti staccare le ragazze, staccare tutti e andare solo, e ti torna in mente il titolo d’un libro che hai letto a quattordici anni. Si chiamava I fiumi scendevano a Oriente, ed era la cronaca di un’esplorazione nell’alto bacino del Rio delle Amazzoni. Tu per quest’anno, ti sei limitato a risalire l’Albegna e il Tevere, e al posto della Cordigliera delle Ande hai arrampicato solo l’Amiata, ma non conta.L’approssimarsi del valico ti riempie di tensione e gioia. Il corridoio d’erba è delimitato da balle di fieno pronte per essere sigillate e stivate all’asciutto. Risale verso una fattoria isolata, al-l’ombra della quale sviluppa il costruito in legno d’una stalla. C’è un grande abbeveratoio, a pochi passi dal portone, e da qualche parte dietro la stalla risale il canto di gola di colombi prigionieri. Per un po’ scrutate la valle coltivata che si apre a oriente, simile a un imbuto di cui dovete risalire il bordo inclinato. Seguirete il crinale lambito dalle ginestre fino alla cappella di Satriano che si staglia fra le querce in testa alla valle. Fino a quando giungerete lassù non incontrerete altre case, così studiate l’abbeveratoio incerti se approvigionarvi d’acqua. «Non abbiamo i filtri per renderla potabile» considera il Viet. «Potrebbe anche esserci un topo morto, sul fondo della vasca», e Flora stringe i denti e guarda via. «Non ho nessuna voglia di bec-carmi un’infezione del menga» aggiunge lui. «Dal cannello esce acqua corrente» dice Galerio. «Chi se ne frega, di cosa c’è nella vasca.» Dopo un po’ che vi confrontate, due anziani escono con circo-spezione dalla stalla. Il primo indossa una tuta da meccanico e calza in testa un cap-pellino da ciclista con la visiera in plastica. L’altro è un vecchietto che forse non raggiunge il metro e mezzo di statura, porta un abito intero marrone, e in testa un impeccabile borsalino. Salutate, e solo il vecchietto col borsalino risponde e vi viene incontro. Il suo amico preferisce accovacciarsi a metà strada, e resta a guardarvi di sottecchi massaggiandosi i polsi. «Questo è il Poderaccio Basso» dice il vecchio. Dice di essere il padrone di casa e spiega che l’acqua dell’abbeveratoio è buona da bere, anche se il vino è più buono. Si fa raccontare da dove arrivate, e mentre i tuoi amici riempiono le borracce ti prende in disparte e domanda se le ragazze sono le vostre mogli. «Per la verità no» devi ammettere. «Sono ragazze di Valbruna che abbiamo incontrato poco fa. Facciamo un pezzo di strada insieme.» «Lassù sono gente di macchia» dice l’uomo guardando le gambe scoperte delle due. «Non come qui che lavoriamo la terra.» Poi indica l’imbuto della valle, le grandi querce isolate e i muri diruti che punteggiano lo scosceso dei coltivi. «Qui prima della guerra c’erano quattordici fattorie, e la più


picccola aveva intorno quaranta ettari di terra coltivata. Eravamo tutti mezzadri della famiglia Fanesi. Li conoscete i Fanesi?» «No» dici. «Non mi pare.» «Siete forestieri» sorride l’uomo da sotto la tesa del borsalino. «A Perugia lo sanno tutti, che gente sono i Fanesi. Ora di queste fattorie, ne restano abitate solo tre. Questa, il Poderaccio Alto e un casale lassù a Satriano» dice muovendo un gesto con la piccola mano verso la chiesetta a capovalle. «L’ha comprato un cugino dei Fanesi, un architetto di città che ci viene solo pochi giorni l’anno. Se l’è sistemata per bene e nessuno va mai a di-sturbarlo.» Per un po’ l’uomo guarda Galerio e il Viet che riempiono le borracce sotto il cannello dell’abbeveratoio e scherzano con le ragazze. «Se non sono le vostre mogli» scuote la testa, «saranno pu-re le figlie di qualcuno.» Poi vuole sapere dove siete diretti, e lui l’Adriatico non l’ha mai visto in tutta la vita. «Ormai sono troppo vecchio, per venire con voi, ma quando arrivate al mare potete mandarmi una cartolina.» Annoti sul taccuino il suo nome e l’indirizzo postale del podere, e pensi che mantenere le promesse fatte in viaggio è qualcosa che i ragazzi non fanno, ma gli uomini sì. Galerio scatta un paio di foto, poi il vecchio vi augura buona fortuna e riprendete a seguire il tracciato del sentiero. Si stacca pian piano dalle macchie di ginestre e coltivi che digradano sui due versanti, sale dove la volta del cielo si fa più ampia. Dovevi immaginarlo, che in cinque le soste si sarebbero fatte più lunghe, e il punto in cui le gambe di tutti vanno a pieni giri si sposta più lontano a ogni ripartenza. Cammini di fianco a Galerio, adesso, e il Viet scorta le ragazze in coda. Li senti parlare fitto, ridere, e pensi che adesso avete un problema serio, qualcosa che può portarvi fuori strada. Vorresti parlarne al tuo amico, ma lo vedi avanzare curvo e non vuoi affliggerlo. Così gli domandi dell’ultimo viaggio a Londra, e lo vedi illuminarsi, mentre racconta col fiato corto degli affari d’o-ro che si potrebbero fare lassù. «Dovremmo comprare un pied-à-terre in società» dice. «Così vai a Londra quando ti pare. Tanto il biglietto è quasi gratis. Io arrivo ogni volta che rastrello qualcosa d’interessante da vendere ai ricconi di lassù. Tanto quelli comprano tutto. Lo sai come sono gli inglesi. Collezionano le cose più incredibili. Manifesti della Vespa, lampade che da noi la gente butta via, mobili anche brutti.» «È lassù che hai venduto le reliquie dell’Osteria delle Dame.» «Già» dice. «E dietro un banchetto preso a nolo, ho capito molte cose. Che l’euro è una truffa, ad esempio. E anche la sterlina. Diventare ricchi è tutta una questione di apnea. Basta comprare nei paesi poveri e trasportare la roba in apnea dove la vita costa di più.»


Pensi che anche Spichisi fa qualcosa del genere, ma non dici niente. «Era eccitante, vedere tutti quegli inglesi felici di pagare ogni oggetto il triplo del suo valore. Eccitante e istruttivo. Se non sfondo come fotografo, forse sarebbe la mia seconda vita ideale. Basta essere svegli, cavarsela con l’inglese e riuscire a sbattersi un po’ più degli altri.» «Devo parlarvi, amici del menga» dice il Vietnamita mentre vi raggiunge a falcate distese. «Ho fatto i conti» sorride. «Siamo in tre e qualcuno, stanotte, deve restare a reggere il moccolo.» «Quanto corri» Galerio dice. «Stai un po’ sereno.» «No» dice il Viet. «È una questione matematica. A Flora piaccio io, giusto?» «Così è troppo facile, no?» dice Galerio. «Anche l’altra è carina» insinua il Viet. «A parte l’accento, Flora somiglia a una principessa, e l’altra, al massimo, può sembrare la sua scudiera rasta» dice Galerio. «Non voglio farti concorrenza, ma almeno racconta le cose come stanno.» «In ogni caso, per voi Flora è troppo alta.» «È inutile che ti agiti» Galerio dice. «Alla fine sono sempre le donne, a scegliere cosa fare. Noi al massimo possiamo dire di no. E per tua conoscenza, ho avuto un sacco di fidanzate più alte di me.» «D’accordo» il Viet dice. «Sono carico come una molla. Rumi-niamo un po’ di khat?» «Dai» dici. «Dalle ragazze però non vuoi farti vedere.» «Non voglio spaventarle» dice il Viet voltandosi in fretta a controllare quanto sono rimaste indietro. «Questa sera però ne faremo assaggiare anche a loro. E poi andiamo a leggere cosa succede, in mezzo a queste montagne.» Adesso camminate in gruppo fra pascoli scoscesi dai quali sale l’odore greve del fieno che fermenta. Più avanti traversate un bosco di cerri, e le ombre proiettate dal sole ormai basso rendono agevole l’ultimo tratto di marcia in salita. Il punto di valico che conduce fuori dalla valle è segnato da una minuscola cappella in pietra, restaurata di recente, che sorge al limitare d’una spianata a prato. Sul prato trovano posto un tavolino da picnic, uno scivolo e un paio di cavalcature a molla per bambini, ma è difficile immaginare famiglie prive di un fuoristrada spingersi fin quassù. All’estremità opposta della spianata, un rudere monolitico, simile a una zanna di pietra che sorga dal terreno, domina il tornante ove la sterrata esce dal Parco e comincia a scendere verso Nocera.


Il crepuscolo ormai vicino carica il rudere di riflessi rosati, e forse doveva trattarsi della parete esterna d’un edificio, ma è impossibile stabilire se fosse una torre, una chiesa o cos’altro. «È tardissimo» dice Vanna lasciando cadere a terra la borsa in tela jeans della canadese, e tu pensi che a questo modo la paleria non avrà vita lunga. «Così arriveremo in città che fa buio da un pezzo, e troveremo chiuse le porte del convento.» È accaldata, e anche Flora dev’essere stanca, ma sorride e dice che se nessuno apre loro, vorrà dire che si accamperanno fuori dal paese. «È pericoloso camminare di notte» dice il Viet, e anche Galerio, mentre si libera della sacca da marinaio, le guarda di traverso. «Chi ve lo fa fare?» dice. «Sai come si dice da noi?» domanda Vanna. «Meglio sole, che male accompagnate.» Poi ride, e cerca lo sguardo dell’amica come per chiedere se l’ha cantata abbastanza chiara. Forse dovreste dire qualcosa, ma adesso le ragazze vi guardano, tutti insieme e uno a uno, e tu pensi che stanno facendo la commedia e ormai hanno deciso di fidarsi. «Voi cosa pensavate di fare?» domanda Flora dopo un po’. «Perché non ci accampiamo insieme» dice il Viet, «e domani andiamo dove bisogna andare, senza che nessuno stia in ansia.» Si passa una mano sulla testa fitta di setole lucide, e poi lo vedete sorridere. «Non ce la farei a riposare sapendo che siete ancora per strada» dice. «Con tutte le storie che si sentono in giro.» Le ragazze guardano via, ma il Viet ormai è deciso. «Siamo brave persone, e come vi dicevo lui è anche sposato.» Ti fa l’occhiolino, il paraculo, mentre fruga nelle tasche esterne dell’Invicta. Galerio scuote la testa sorridendo a labbra cucite, e Vanna dice che, senza offesa, ormai avete tutti e tre l’età per essere sposati. «Può darsi» il Viet dice. «Però io ho fatto altro» dice squader-nando il portafoglio. Pesca con due dita quella che ti sembra una carta di credito e la mostra impettito alle ragazze. «Farmacista iscritto all’albo» lo senti dire. «Non per vantarmi, ma mi rintrac-ciate in mezzo secondo.» Scendete nell’aria fresca della sera, assecondando le curve a gomito della sterrata che digrada verso la conca di Nocera. Le difficoltà della marcia per oggi sono finite, così non resta che guadagnare terreno e tenere gli occhi aperti alla ricerca d’un buon posto per le tende. I dorsi delle mandrie spiccano in distanza, si stagliano opale-scenti contro i pascoli ormai bruni, e voi puntate a vista il colle occupato dai resti della rocca di Postignano. Una cascata di grandi pietre affiora dai fianchi erbosi dell’altura, e il pensiero ti corre a quando hai stabilito il tabellino di marcia aiutandoti con le mappe e il curvimetro, nella quiete dell’ex “ripostiglio grande”. Fin da allora un bivacco da queste parti sembrava l’ideale, per tentare il giorno successivo l’ascesa verso il valico.


«Non pensavo si potesse fare tanta fatica in un giorno solo» sorride Galerio mentre aprite la strada trenta passi avanti al gruppo. «Forse avevate ragione. Era meglio portare uno zaino più grande, ma ormai siamo in ballo.» Pensi che ha un gran cuore, per camminare curvo da stamattina, urtando le zavorre con le cosce a ogni passo. «Non abbiamo perso niente, rispetto al tabellino di marcia» dici. «Domani passiamo di là.» «È il ginocchio il problema» dice in una smorfia. «A forza di camminare storto, il peso mi finisce tutto sul ginocchio destro. È dal ponte che stringo i denti.» «Ho del Voltaren, nello zaino.» «Il Voltaren è la pomata preferita dai calciatori.» «L’avevo portato, ma non ne ho ancora avuto bisogno.» «Se ho resistito fin qui» dice, «domani con la pomata sarà da ridere.» «E le ragazze?» dici. «Da queste parti è gente dura» dice lui. «Te le immagini due fi-chette di città, a camminare sole fra i monti per andare a lavorare?» «Saranno contadini, i loro genitori. Contadini o taglialegna.» «Certo» dice Galerio, «preferivo incontrarle l’anno scorso, quando sono tornato da Londra e non conoscevo più nessuna.» «Il giorno in cui Dina scoprirà chi c’era a camminare con noi, mi farà una testa così. Servirà bruciare le foto dove compaiono, e tenere per sempre a mente che non bisogna parlarne.» «C’è una verità in cui credo» Galerio dice. «I nodi prima o poi vengono al pettine.» «Vuoi bene a Sara» dici. «E io voglio bene a mia moglie. Ma forse la sto prendendo larga.» Poi gli racconti di Alena, e come ti sembra d’avere capito qualcosa di fondamentale, mentre aspettavi fuori dall’Osteria del Vapore sperando che non arrivasse. «Perché ridi?» domanda il Viet mentre picchettate l’igloo. «Pensavo a Dina» dici. «Proprio ora che mi stavo abituando al-l’idea di tornare da lei, spuntano queste due.» «Sono ragazze simpatiche» dice. «E mi dispiace averle spaven-tate, oggi al ponte.» Guardi lungo la sterrata, e Galerio e le ragazze sono abbastanza lontani. Lui sta illustrando il


funzionamento della Nikon, e forse hanno deciso di fotografare le ultime pietre della Rocca sotto la lu-ce del tramonto. «Quello che hai in mente di fare, uomo, vedi di farlo stasera.» «Io non ti capisco. Sono giorni che parliamo di allodole, e adesso che le allodole sono qui fai il guastafeste?» «Viet» sospiri. «Adesso non m’importa delle allodole. Penso che sarebbero un impiccio.» «Le hai viste bene, amico? Alla fine, anche la piccoletta non è da buttare.» «Dammi retta. Prima ce le scrolliamo di dosso, meglio è.» «Ma perché?» dice. «Non siamo andati così male, oggi.» «Lascia perdere» dici. «Hai visto come camminava Galerio quando ha posato i bagagli?» «Come Maurizio Damilano, senza piegare le gambe. Ma adesso cammina quasi normale.» «Non hanno neppure montato la tenda» dici indicando al Viet la borsa in tela jeans adagiata sul prato insieme ai vostri zaini. «Forse non sono capaci. Sono abituate a dormire dalle suore.» «Stralunami se conosco un altro egoista come te» dice il Vietnamita. «Quelle due vanno a lavorare a piedi attraverso i boschi. Lo sai cosa rischiano due ragazze sole, con tutti gli stronzi che ci sono in giro?» «Va be-ene. Saremo le loro guardie del corpo fino a domani. Monteremo la tenda per loro e le lasceremo soltanto all’ingresso del campeggio.» «Non rovinare tutto con quel tono polemico» lui dice. «È da quando ho visto Flora che mi sento una persona molto fortunata. Quanti anni avrà?» «Dieci meno di noi.» «Vorrei convincerla a proseguire insieme. A proseguire con me» sussurra, e ti sembra di rivederlo sbarbo, mentre discutevate insieme le strategie da mettere in atto per organizzare una prima telefonata. Servivano ore di discussione e i migliori consigli dell’altro, per dare appuntamento alle compagne di liceo soavi, capaci di rischiarare con la propria luce le paludi infestate da carlot-te velenose e temibili puttansuore. «Sarebbe un capolavoro, se la convincessi a salire in treno con me.» «Che cazzo dici, Viet.» «Sì, eh. Se non sono pazzo come sostiene l’Arida, questa me la porto in città. E poi mamma lo dice da sempre» ride, «che ho bisogno di una ragazza dal bel portamento.»


«Per favore, uomo» lo guardi negli occhi. «Io ti capisco, il mio uccello poi ti capisce alla grande, ma queste non c’entrano niente con il nostro viaggio.» «Se Chatwin avesse avuto la tua stessa apertura mentale, non avrebbe mai scritto una riga. Sarebbe rimasto direttamente a bere birra al pub sotto casa.» «Cosa c’entra adesso Chatwin? Domani proviamo a passare dall’altra parte. Immaginavo un po’ di raccoglimento, una cazzo di veglia d’armi, e invece dopo due settimane di marcia ci trasfor-miamo in una gita scolastica.» «In viaggio gli imprevisti non dovrebbero spaventare» dice il Viet con una calma che t’invoglia a colpirlo con un buon montante. Poi ti guarda negli occhi e sorride. «Ti ricordi quando ti sei sposato?» domanda. «Era un giorno molto caldo ed era meno di un anno fa.» «È stata una bellissima festa, e ti ringrazio ancora di avermi lasciato suonare i Pixies in municipio.» «Cosa stai cercando di dire?» «Quello che si sposava quel giorno eri tu. Non io. Io ero solo il chitarrista ufficiale del matrimonio, e non puoi fare il geloso perché trovo da far bene, d’accordo?» Mangiate intorno al fuoco, e le ragazze sembrano conoscere una a una le feste e le sagre che, in quest’ultimo scorcio di primavera, fioriscono in tutta la regione. Qualche settimana fa sono andate a Gubbio, insieme al parroco che le chiama pecorelle e mezzo paese, per partecipare alla festa dei ceri. «Le immagini dei santi sono fissate in cima ai ceri, che sono al-te clessidre di legno» spiega Flora. «E le clessidre sono montate in verticale su barelle che gli uomini portano a spalla. C’è un cero per ogni quartiere della città, e ogni quartiere ha il suo santo.» «Corrono in salita verso la Basilica» Vanna dice. «Ai margini della corsa la gente è ubriaca, e vedi scoppiare di continuo le risse fra i parenti dei ceraioli.» ^Potremmo tornarci insieme, l’anno prossimo» dice Flora. «Sempre che vi piacciano le feste religiose un po’ selvagge.» «Stralunami» sorride il Vietnamita. «Mi hanno sempre fatto andare giù di testa, le feste religiose un po’ selvagge.» «Allora» Vanna dice «dovremmo andare alla Fiera dei Pauliani. C’è la gente che si rotola a terra, e i vecchi che sono stati in Terra Santa si lasciano mordere dalle vipere senza che succeda niente.»


«No» il Vietnamita dice. «Magari salterebbero fuori delle discrete foto» dice Galerio cercando il tuo sguardo. «È una festa incredibile» insiste Flora, «e il posto non è lontano da qui.» «Dove sarebbe questa Fiera dei Pauliani» dici rimestando le braci con un ramo. «Non è lontano» dice Flora. «Verso Gubbio» dice Vanna, e tu pensi che la geografia non dev’essere il loro forte. «Ci tocca valicare dalle parti di Fabriano dopo» dici scrutando il profilo nero dell’igloo e quello sbilenco della canadese che il Viet ha preteso di montare a pochi passi. «Per vedere la gente che si rotola a terra, allunghiamo la strada di quattro o cinque giorni.» Il Vietnamita lascia andare un sospiro, e per un po’ ti sembra che tutti, intorno al fuoco, l’abbiano con te. Nel giro d’un minuto qualcuno proporrà di masticare foglie, e credi di sapere che le ragazze non si tireranno indietro. «Signorine belle» dici. «Fratelli viandanti. Perdonate ma sto morendo dal sonno.»

GIORNO QUATTORDICI. Dalla Rocca di Postignano a Nocera Umbra e Casaluna. Hai sete, i piedi si trovano a monte rispetto alla testa e i ragazzi sono dentro l’igloo insieme a te. L’orologio segna le sei meno un quarto, e dopo un po’ che provi da capo a dormire ti rendi conto della pioggia che scroscia senza pietà. E una percezione inaggirabile e cruda, e all’inizio pensi che le ragazze portano sfortuna. Il sovrattelo appesantito dall’acqua ha perso tensione, e nella poca luce che filtra all’interno distingui macchie scure d’umidità sullo spiovente in seta della casetta, due palmi sopra il tuo naso. Di tutti i giorni in cui poteva piovere questo è il peggiore, e provi a misurare in anticipo la fatica che vi costerà valicare l’Appennino sotto l’acqua. «Viene giù da un pezzo» mormora il Vietnamita a occhi chiusi.


È il più alto, e dorme nel mezzo. «Se qualcuno non esce a regolare i tiranti fra poco ci pioverà in testa.» «Sentito che roba» dici. «Mancano solo i tuoni.» «Godiamoci gli ultimi minuti di pace, prima che i sacchi a pelo si trasformino in spugne.» «Cos’è successo, ieri sera?» Sussurri, ma con tutta l’acqua che cade, le ragazze non potrebbero sentirvi neppure se parlassi a vo-ce alta. «Niente» il Viet dice. «Abbiamo guardato un casino le stelle. Ma se le convinciamo a proseguire con noi, sento che stasera la vecchia Flora capitola alla grande.» «Ti prego» dici, e poi pensi che la canadese non può reggere il temporale più a lungo del vostro igloo. «Non devono andare a lavorare?» «Con questo tempo» dice, «c’è caso che il campeggio ritarda l’apertura d’un paio di giorni.» «Volevi le foglie e ti ho accompagnato a prenderle, ma adesso seguo il tabellino di marcia e basta.» «Non ha mai conosciuto suo papà» sospira il Viet. «Non è stato semplice, per la madre, tirarla su da sola in un paese dove tutte le donne hanno un marito.» «Vuoi sapere come farei? Il prossimo finesettimana salgo in macchina e la vengo a trovare. Puoi farlo anche tutti i finesettimana, se lei ti piace sul serio. Uno dopo l’altro, e in agosto passare le ferie qui.» «Per te è facile» dice. «Tu hai una moglie che t’aspetta a casa.» «Se anche non l’avessi, non credo manderei a puttane un viaggio con gli amici. Ma fai quello che vuoi, senza mezzo problema. Tanto stasera saremo dalla parte giusta delle montagne. Galerio dorme?» «Ci sono» dice la sua voce da sotto lo spiovente opposto al tuo. «Quanta autonomia ha la tenda, secondo voi?» «Venti minuti» dici, «se qualcuno non esce a regolare i tiranti.» «Il capospedizione mi stava sgridando» dice il Viet. «Non ne vuole, di donne a bordo.» «Rallentiamo troppo con le ragazze» brontola Galerio. «Vanno più piano di me che ho un ginocchio devastato.» «Allora siete invidiosi» dice il Viet. «Non capite cosa faccio alle donne, e congiurate contro il mio rapace.» «Ieri sera non sei stato timido» Galerio dice. «Hai giocato la tua partita, e se alla fine le ragazze si sono chiuse in tenda, forse un motivo c’è.»


«Vi odio» dice il Viet. «Mi invidiate perché sono spigliato. E fra poco ci pioverà in testa.» «Ho capito» dici. «Dobbiamo tirare a sorte.» «Vado io» dice Galerio. «Sono l’ultimo arrivato.» Lo vedi sollevarsi a sedere oltre la mummia del Vietnamita, e la sua chioma bruna adesso non ha più niente di compatto. «Mi pare che il ginocchio va un po’ meglio» dice mentre si puntella sul gomito, e con il dorso dell’altra mano massaggia gli occhi pesti. «Le scarpe» dice, «le scarpe dove sono?» «Sotto la veranda» dice lento il Viet. «Sempre che ieri sera, ac-cecato dall’invidia, tu non le abbia lanciate in mezzo al prato.» «Io sono una persona fedele» Galerio dice. «È inutile che mi tiri in mezzo.» «Comunque è carino, quel sacco a pelo a fiori» ride di naso il Viet. «Così più che un punkabbestia somigli a un hippie del menga.» «È di Sara, fenomeno» dice Galerio aprendo la zip fino in fondo. «Adesso esco io, ma la prossima volta, sai già a chi tocca.» «Nettamente» dici. «Se vale l’anzianità, il Viet è il penultimo arrivato.» Galerio esce in calzoncini dalla crisalide aperta del sacco a pelo, infila una k-way stropicciata. Tasta la parete d’ingresso lungo il sorriso rovesciato della cerniera, e un istante più tardi il velo di seta e la zanzariera s’afflosciano sul catino. Fuori il cielo è color bronzo e l’aria che entra nel cubicolo della tenda sembra ghiaccia-ta. «A che cazzo di quota siamo?» domanda, e il Viet dice che per ora siamo solo in collina. Stringi intorno al collo il margine superiore del sacco a pelo, resti a guardare Galerio che si sporge ginocchioni verso il po’ d’erba asciutta sotto il riparo intermedio della veranda. Infila gli scarponi senza perdere tempo ad annodarne i lacci. «È inverno su queste colline» dice sollevando sulla chioma sconvolta il cappuccio scuro della k-way, e poi è fuori. Sotto l’acqua che scroscia, allenta e tende da capo, uno dopo l’altro, i tiranti d’angolo e quelli che mantengono in tensione l’abside. Anche se la seta della casetta è umida in molti punti, pensi che ci vorranno ore, prima che il sovrattelo s’appesantisca di nuovo fino a toccarla. Un tempo in cui fareste bene a recuperare le forze, essere mansueti e prepararvi a salire sotto l’acqua come sull’Amiata. Galerio ricompare attraverso la bocca spalancata della tenda. Sorride a labbra cucite per aver portato a termine un buon lavoro, ma il Viet si leva sui gomiti come un uomo colpito da un manga-nello elettrico. «La canadese regge?» domanda. «L’hai montata storta. Però regge, e le ragazze sembrano dormire.»


«Provateci voi a piantare una canadese con un palo di meno» dice il Viet. «C’è un ramo, al posto della traversa. L’ho fissato ai montanti a forza di nastro adesivo.» «Che trapper» dici. «E come mai mancava un palo?» «L’hanno portata così da casa» dice il Viet. «Finora non l’avevano mai aperta.» «Amori» dice Galerio. «E vorresti portarti dietro queste due?» «Fra un po’ vado a vedere come stanno. Se là dentro è troppo umido, le invito al riparo.» Pensi che la tenda è tua, e pensi che non potete lasciarle sotto l’acqua. «Dovremo stare seduti uno sull’altro, per entrarci in cinque.» Quando vi decidete a uscire dalla tenda sono le nove passate. Non piove più, e il cielo sembra avere assunto una tonalità meno metallica. Le ragazze hanno già smontato la canadese, e mentre preparano la colazione insieme al Viet, tu e Galerio svuotate l’igloo, sfilate i picchetti e stendete sull’erba il sovrattelo, che il vento e la luce lo asciughino. «Pare che oggi si cominci a lavorare» dice Vanna, le gambe fa-sciate da una tuta scura tagliata alle caviglie. «Con il sole, il campeggio apre di sicuro.» Il suo viso è ancora gonfio di sonno, e la testa carica di tentacoli sembra quella di un’idra svogliata. «È stato carino, passare la notte in tenda» dice Flora. Ha dormito in calzoncini, e addosso ha la giacca in pile del Vietnamita. «Stralunami» dice lui. «Sono stato sveglio tutto il tempo a controllare che non arrivasse nessuno.» «Anch’io ho fatto fatica a dormire» dice lei. «Tengono svegli, quelle foglioline.» «Le prime volte sì» dice il Viet. «Dopo è diverso. Ti portano a casa, più che altro. Dovunque tu sia, ti prendono per mano e ti conducono a casa.» Le ragazze sorridono, e il tuo amico sfila dallo zaino le poche foglie che restano dentro il primo cartoccio recuperato in casa di Spichisi. Riprendete la sterrata, il Viet e le ragazze staccati di molti passi, e quasi subito vi lasciate alle spalle il viottolo che conduce ai ruderi della Rocca di Postignano. In distanza fra i prati si vedono fattorie dalle porte murate, case in pietra rovinate su se stesse, e tu pensi che se le ragazze insiste-ranno a seguirvi oltre Nocera Umbra è perché si sono innamorate delle foglioline del Vietnamita.


«Forse dovremmo bruciarle, quelle foglie del cazzo» dici a Galerio. «Mi sembra che non portino tanto bene.» «Adesso» dice lui. «Dopo lo sbattimento che ci sono costate, bruciarle è uno spreco.» «Il Viet è obnubilato. Parla tanto del rapace, e alla fine al posto del rapace manda sempre avanti le foglie.» «È una persona sensibile» dice Galerio voltandosi a guardare. «Però a volte sembra che abbia sedici anni. L’avrà capito, che lei non ci sta?» «Era un uomo quasi sposato. Poi si è ritrovato solo, e adesso in-torta le ragazze come faceva al liceo. Sii gentile e sorridi a tutte, è la sua convinzione, e prima o poi qualcuna ti raccoglierà dal bordo della strada.» «È la tecnica dell’orfanello» Galerio dice. «Non ne avrebbe bisogno, se avesse un po’ più di fiducia in se stesso.» I segnavia del sentiero francescano annunciano una scorciatoia nella macchia in grado di tagliare larghi tornanti. Quando risbucate in gruppo sulla carreggiata vi trovate a un quadrivio. Secondo la carta dovreste essere presso la frazione chiamata Villa di Postignano, ma anziché case si vedono solo una mezza dozzina di container bianchi. «Che diavolo è» dice il Viet. «Un deposito di scorie ai piedi delle montagne?» Il terremoto del 1997 ha provocato danni gravissimi a Nocera Umbra e a tutte le frazioni a cavaliere dello spartiacque. A sette anni dal sisma, migliaia di persone sono ancora lontane dal poter rientrare a casa, e anche nel paese dove vivono le ragazze la terra ha tremato a più riprese. «La prima scossa è stata di sera» dice Flora. « Ero in prima superiore, mancava poco a cena, e io stavo facendo i compiti.» «Flora non è ignorante come me» dice Vanna. «Ha fatto il liceo, sapete.» «Sei anni di liceo a Spoleto» sorride Flora, «e uno a Foligno. Quella sera stavo provando a raccapezzarmi con la versione di latino. Mi ricordo solo che parlava di Catilina, e a un certo punto il libro mi salta fra le mani. Penso che sto impazzendo per colpa di Catilina, poi noto il lampadario. Sembrava che qualcuno lo facesse dondolare, e dopo mia madre urlava che dovevamo uscire subito di casa.» «Stralunami» dice il Viet. «Non è crollata, spero.» «Si è solo crepata un po’ la facciata» dice Flora. «È andata bene, ma per sei mesi ci è toccato dormire dai parenti.» «Mia nonna è impazzita del tutto, con il terremoto» dice Vanna.


«Non è più voluta entrare in casa, neanche quando i tecnici hanno dato il via libera. Diceva che le case sono trappole, e confondeva il terremoto con i bombardamenti della guerra.» «Povera» dice il Viet. «E dove dormiva?» «Si fidava solo delle tende della Croce Rossa. Era già molto an-ziana, e così qualcuno doveva restare a tenerle compagnia. A volte restavo io, a volte mio padre. Alla fine dell’emergenza, quando la Croce Rossa se n’è andata è stato un colpo bruttissimo, e in pratica non s’è più ripresa fino alla fine.» «Puttana Èva» dice il Viet, e tu pensi che è strano, vedere le ca-se devastate e i boschi intatti. Sfilate fra i container lungo il ramo asfaltato che scende verso la stazione, e ormai potete abbracciare con gli occhi la conca di Nocera. Sviluppa da Nord a Sud, parallela alla catena di cime che chiude l’orizzonte, e il Viet finge di riconoscere quale fra i denti affilati di quella bocca di pietra sia il monte Pennino. Galerio cerca di catturare con la Nikon la magia dei banchi di nebbia dorata che diradano. «Tanta bellezza» mormora, «tutta gratis», e tu pensi che adesso basta incunearsi a vista attraverso una delle scanalature fra i denti affilati. Da fondovalle vi raggiunge il basso continuo di grandi macchi-nari al lavoro nei pressi della stazione. L’edificio non lo scorgete fino all’ultimo, quando la strada piega sulla sinistra. Adesso in lontananza si distingue un merci fermo lungo il binario morto e il passaggio a livello sulla Flaminia. Sulla Kompass hai trovato il valico da puntare. Si chiama Passo del Termine, un nome che ti è parso triste e troppo solenne. «Dov’è, di preciso, il campeggio in cui vi aspettano?» domandi a Vanna mentre scendete a ventaglio lungo la carreggiata. «Al Pian delle Stelle» dice Vanna indicando la mole d’una cima che deve incombere sul paese. «Un paio di chilometri prima di Passo del Termine.» È sulla vostra strada, ma almeno valicherete da soli. «E com’è lassù?» chiede Galerio. «Bisogna volerci andare. Il grosso del traffico viaggia sulla nazionale.» «La nazionale scavalca le montagne a Fossato di Vico» dice Flora. «Molto più a Nord. Però da Nocera c’è una strada che sale diretta al Passo del Termine.» Allora ti dici che se quel posto dev’essere la fine di qualcosa, sarà la fine del viaggio nella metà del Paese rivolta al Tirreno, e questo pensiero basta a cullarti anche sotto la pioggia che ricomincia sottile a cadere. «La chiamano strada Clementina» dice Vanna infilando una mantella quasi trasparente. «Di là dal passo,


parlano già marchi-giano.» «Oggi è una specie di scorciatoia, ma una volta ci passavano tutti» dice Flora. Lei non ha neppure una mantella, e il Viet le presta la berretta di lana perché non si bagni i capelli. «Stai benissimo» dice. «Perché poi non ci passano più?» «Un cocchiere e un cardinale hanno rovinato la valle» risponde Flora divertita. «È una storia che conoscono tutti, ma alla fine credo sia una leggenda.» «Non è una leggenda» dice Vanna mentre riprendete la marcia. «Dove oggi sorge il campeggio, ai tempi in cui i signori andavano in carrozza, c’era una locanda» racconta Flora. «E una sera si fermò là un cardinale che scendeva a Roma. Come si chiama, quando eleggono il nuovo Papa?» «Conclave» s’affretta a rispondere il Vietnamita. «Esatto. Il cardinale andava a Roma per il conclave. E la sera, mentre mangiava alla locanda, sentì un cocchiere che bestemmia-va. Andò a rimproverarlo, ma quello lo trattò male, e allora lui spiegò chi era. “Sono il cardinal della Genga” disse, ma il cocchiere non aveva mai sentito nominare quel posto, e pensò di avere di fronte un ciarlatano.» La parola ti fa sorridere, sulla bocca d’una ragazza giovane, e anche il Viet sorride, ma come una persona malata. «“Cardinale della Genga” disse il cocchiere mollandogli un ceffone, “pigli questo e se lo tenga”.» «Chissà poi com’è andata, in verità» dice Galerio. «Aspettate» dice Vanna. «Non è mica finita.» «Il cardinale partì nella notte. Nessuno l’aveva mai scambiato per un ciarlatano, e doveva essere furibondo. Arrivò a Roma, e nel giro di pochi giorni il conclave lo scelse come nuovo Papa.» «Che culo sfrenato» dice Galerio. «Per il cocchiere, intendo.» «Adesso il cardinale era l’uomo più potente del mondo, e fece cercare in ogni modo la persona che poche sere prima l’aveva malmenato. Visto che non si trovava, fece demolire la locanda. Per non lasciare le cose a metà, ordinò di cancellare dalle mappe la strada di Passo del Termine, e da allora Nocera Umbra ha perso il suo valico.» «Mi dispiace» Galerio dice. «Ma io mi sono immedesimato con il cocchiere, e sono felice che l’abbia fatta franca.» «Così la zona intorno al Passo è praticamente disabitata, dice. «Di qua ci sono solo boschi, e immagino anche sull’altro versante.» La banchina della stazione è deserta, come se l’intera rete fosse fuori servizio. Al passaggio a livello superate l’unico binario della ferrovia e da lì seguite la Flaminia che sale leggera, verso il paese che


perdette il suo valico per colpa d’un papa vendicativo. Piove ancora, ma il cielo ormai è pieno di luce. Il centro di Nocera è arroccato su una rupe cinta da impalcatu-re, e sopra le chiese e i palazzi svettano i giganteschi bracci mec-canici delle gru al lavoro. Solo in periferia, ai piedi della rupe, il sisma sembra avere risparmiato le costruzioni, e nel quartiere Africa una brutta piazza oblunga, dominata da una monumentale fontana in pietra bianca, vi appare all’improvviso come l’adatto campo-base, un buon posto dove riprendere le forze per tentare l’attacco al valico. «Dev’essere un’installazione futurista» dice Galerio mentre sfila le zavorre e le depone ai piedi d’una panchina a pochi passi dalla vasca. Anche tu depositi il Salewa, e in breve contro la panchina sono allineati tutti i vostri bagagli. «Resta l’ultimo strappo» dici. «Cinquecento metri di dislivello, e saremo al Passo.» «Mi dispiace che fra poco ci separiamo» dice il Viet, e lo vedi carezzare furtivo la mano di Flora. Lei non la ritrae, e resta a guardare il tuo amico come una specie di animale mansueto che si lascia condurre senza un lamento verso la fine. Pensi che sarà complicato abbandonare le ragazze al Pian delle Stelle senza che il Viet tenti qualche colpo di testa. «Così finirà che piangiamo» dice Vanna seduta a pochi palmi dalla borsa in tela jeans che contiene il relitto della canadese. «Assolutamente no» dice il Vietnamita. «È finito per sempre, il tempo delle lacrime. Finirà che ci scambiamo gli indirizzi e sarà l’inizio d’una amicizia magnifica.» «Che dite, lo cerchiamo un passaggio da qualcuno che va su?» propone Vanna. «Se non perdiamo tempo a camminare, al campeggio vi prepariamo la torta al testo.» Eccoci. Due settimane a camminare fino alle sette di sera, un giorno dopo l’altro, per arrivare qui. Ai piedi del valico. E anziché studiare insieme la mappa, si parla di prendere un passaggio. Im-maginavi che avreste pregato, offerto sacrifici incruenti per propiziare l’ascesa. Galerio invece non parla, e il Viet fa il cascamorto, dice che dall’altra parte del mondo aiutarsi con le foglie è una co-sa normale e insiste per avere il campingaz. «Acqua ce n’è a biz-zeffe» dice accennando alla fontana con un sorriso remoto, «acqua miracolosa, magari. Una buona tisana di foglie e sarà come esserci appena svegliati.» «Presto, mi raccomando» lo attacchi. «Non si riesce più ad affrontare nemmeno una salita, senza le cavolo di foglie?» «Non fare il moralista» dice il Viet vuotando il cilindro della borraccia nel bicchiere d’alluminio. «Non tu, per favore.»


«Omarini morigerati» dici imitando la sua voce. «S’è visto.» «Siamo svegli dall’alba» dice Galerio. «E il ginocchio ricomincia a farsi sentire. Se il Viet prepara un po’ di tisana, sinceramente gli tengo compagnia volentieri.» Così sganci la copertura dello zaino, e il bruciatore del campingaz sporge dalla bocca a elastico, stipato fra le buste compatte di vestiti sporchi e biancheria di riserva. «È tutto vostro» dici porgendo il fornello al Viet. «E adesso, se non vi dispiace, il sottoscritto andrebbe a fare un po’ di medita-zione nei dintorni.» Vedi il Vietnamita scuotere la testa coperta di setole scure, mentre libera i bracci a elle del campingaz, e Galerio ti guarda dispiaciuto di sotto in su, ma ormai hai annunciato la tua decisione. «Mi fai un po’ pena, Luca» insisti, e gli sguardi preoccupati di Flora e Vanna, anziché indurti alla calma in qualche modo aumentano la pressione della tua rabbia. «Ci vediamo qui» dice il Vietnamita liberando la fiamma. «Appena hai finito di meditare.» :<Nettamente» dici. «Una valanga di pena.» Te ne vai già pentito di aver parlato così, ascoltando il rumore dei tuoi passi sul selciato. Oltre la fontana e l’ala di case che chiude la piazza, trovi una via in ombra che sembra condurre alla riva d’un fiume. La percorri fino in fondo, cerchi un posto tranquillo sul ciglio d’erba riarsa che cresce a ridosso degli argini murati. Più a valle ci sono ragazzini che pescano, e tu pensi che se qualcosa ti riempie di rabbia è vedere i tuoi amici così lontani dall’essenzialità del camminare. Allora sciogli i nodi degli scarponi, siedi all’indiana, e prestan-do orecchio alle voci dei ragazzini che pescano provi a interrogare il tuo dispiacere. Quel che ci fa arrabbiare nelle persone più vicine, ormai l’hai capito, è innanzitutto quello che vorremmo rimproverare a noi stessi. Lo ripeti in silenzio, e ti sembra un punto d’inizio dannatamente buono. Se ti fa rabbia che il Viet e Galerio desiderino le foglie, è perché ti dispiace scoprirti a desiderarle. Molto molto semplice. Se temi che possano cedere, è perché hai paura di cedere. La tentazione non c’entra e il peccato non c’entra. È la vicinanza di Babilonia, credevi un tempo, che fa sentire ri-dicoli gli uomini capaci di interrogare l’essenziale. Perché anche tu sei disposto ad ammettere che altrove, come dice il Vietnamita, per queste cose esista ancora un luogo. Lui l’ha visto, un luogo del genere. Laggiù la gioia e l’eccitazione racchiusa nelle foglie di khat sono


considerate benedette, come tutte le sensazioni capaci di avvicinarci al Cielo. Solo che per crederci sul serio servirebbe vivere laggiù, sull’isola, in un mondo che ci crede. Quello in cui vivete voi, vuole credere solo alle storie peccami-nose della televisione e alle profezie di sondaggi che si autoavve-rano. E in questo mondo che perde pezzi, si confonde e cerca nemici da braccare, la piccola tribù che ti attende intorno al campingaz forse è ancora qualcosa di santo e intatto. Se ti dispiacerà non trovarli a pronunciare formule magiche per propiziare l’ascesa al valico, è perché nel vostro tempo disabitato dalla magia quel tipo di devozione non ha più spazio. Ne conosci, tu, di formule magiche? Siamo seri, uomo. Non ricordi più nemmeno le preghiere imparate a catechismo. Non resta che rassegnarsi, stringere le schiere contro l’orrore che avanza e provare a interrogare le ultime vibrazioni percettibili. Se quelle foglie crescono sulla terra senza bisogno che nessuno le coltivi, forse un motivo che ti sfugge c’è. Guardi i ragazzini che pescano, e senti la rabbia che ti riempie svaporare, come qualcosa che raffreddi al contatto con l’aria. «Cosa fai, piangi?» domanda la voce di Galerio alle tue spalle. Sei contento di vederlo sorridere con la borsa da fotografo a tracolla e la Nikon pronta in mano. «Quei ragazzini» dice. «Quelli che pescano. Rischia di essere uno scatto straordinario.» Fumate seduti vicino alla riva, e quando rientrate verso la piazza, i ponteggi che sullo sfondo avvolgono la città alta sembrano l’espressione d’una volontà testarda, l’ostinazione umana nel non abbandonare i luoghi dei padri. «Prima di ripartire avrei bisogno d’un altro po’ di pomata» dice Galerio. «Sarebbe il Viet il farmacista» dici, «ma lui ha solo il balsamo di tigre.» La brutta fontana bianca colma l’angolo più vicino della piazza. Seguite il profilo della vasca fino alla panchina, e alla panchina non c’è nessuno. Pensi che il Viet è uno stupido, a lasciare gli zaini incustoditi e il campingaz incustodito, ritto sul selciato come un totem in miniatura intorno al quale non siede nessuna tribù. «Dove sono andati, vorrei sapere» dice Galerio, e fra i bagagli manca il tascapane di Flora. Poi t’accorgi delle chiavi di casa che baluginano attraverso la cerniera aperta sulla testa del Salewa, e quando te ne sei andato quella tasca era chiusa. «Il mio zaino» grida Galerio. «Qualcuno ha frugato nel mio zaino.»


Sotto il sole dell’una potete fare l’inventario del disastro. Il tuo portafoglio non si trova più, e anche quello di Galerio e il suo cellulare sembrano avere preso il volo. «La tessera del telefono» Galerio dice. «Devo avvertire da qualche parte per bloccare la tessera prima che i ladri telefonino in Australia.» «Merda» dici. «Il bancomat, e la maledetta carta di credito.» «Per fortuna la Nikon non la mollo mai.» «Già» dici. «Almeno le foto sono salve.» «Io li prendo a calci tutti e tre» dice. «Non siamo nel bosco. Co-me cazzo fanno ad abbandonare gli zaini qui?» «Per fortuna non hanno trovato il Siemens» dici. Continui a frugare in tutte le tasche. I ladri hanno risparmiato le mappe e il curvimetro, eppure ti sembra che allo zaino continui a mancare qualcosa di fondamentale. «Aspetta aspetta» dice Galerio, e dietro il profilo pugilistico del naso lo sguardo vigile si trasforma nell’espressione d’un uomo i cui pensieri franano uno sull’altro in una slavina senza fine. «Siamo fatti» dice. «Dove cazzo è la tenda?» Allora ti rendi conto che il Salewa è orfano dell’essenziale. «Da quanto tempo te ne sei andato?» mormori con l’inverno nella voce. «Dieci minuti, non lo so. Capito come è andata, sì?» «Cristo sì. Quei coglioni hanno lasciato la roba incustodita, son passati due tossichelli e hanno pensato di essere al self service.» «Guarda» dice indicando all’altro capo della piazza, e c’è il Vietnamita che sbuca da sotto la tenda a strisce d’un bar. Regge a due mani un vassoio carico di calici e bottigliette, e avanzando sul selciato sembra sorridere. «Deficiente» dici. «È andato a prendere l’aperitivo.» «Sono state loro» dice Galerio. «E pensavamo di proteggerle.» Adesso anche tu hai capito come sono andate le cose. «Devono essere ancora in giro» dici. «Se facciamo in fretta le troviamo, e da brave restituiscono tutto e chiedono scusa.» «Hanno aspettato di essere qui in paese per prendere un passaggio» mormora Galerio senza urgenza. «Oppure erano d’accordo dall’inizio coi loro amici tossichelli.» Tu sei così stravolto che vorresti prendere Galerio per le spalle, scuoterlo che t’aiuti a cercare in giro le ladre e i loro complici. «Fai che sono ancora in giro. Li facciamo diventare giudiziosi, loro e i tossichelli di Nocera Umbra.»


«Ma figurati» Galerio dice. «Da qui prendi un passaggio per la Flaminia e in cinque minuti sei sparito per sempre.» Pensi alle decine e decine di auto che avete visto sfrecciare lungo i viadotti della nazionale, e ora sai per certo che non rivedrai più la sacca antistrappo con la casetta a igloo e il sovrattelo che fin qui vi hanno fatto da casa. «Mai visto un uomo con un vassoio?» dice il Viet quando è a dieci passi da voi. «Ci ho messo un casino, a convincere il pro-prietario a prestarmelo. Vedrai» dice allegro, «se non mi sta tenendo d’occhio da dietro la vetrina.» Per un po’ viene avanti a passi cauti, il bordo del vassoio pun-tellato contro il torace, e oltre alle bibite e i calici vedi piccole scodelle in ceramica traboccanti d’olive e cubetti di mortadella che sotto il sole paiono trasudare grasso. «Le ragazze ci offrono questo giro» dice. «Frizzante e campari per darci forza verso il Passo.» Guarda la panchina e guarda voi che lo osservate in silenzio. «Allora» dice. «Si può sapere dove so-no le nostre amiche?» «Tu» gli ringhi contro. «Minorato masticatore di foglie.» Seduti sulla panchina guardate i vostri zaini violati, le cerniere a zip dalle quali sono fuggiti i portafogli ancora aperte nel loro sorriso a denti guasti. Per quel che ne sai, con poche telefonate puoi bloccare le carte di credito e i bancomat, ma sarà impossibile ottenerne di nuovi senza rientrare in città. «Le carte d’identità le rivendono» Galerio dice. «A Perugia ci sono tizi che le pagano all’istante, cinquecento euro l’una. Dopo, basta cambiare la foto.» «Dici che dobbiamo andare dai carabinieri? Sporgere una schifosa denuncia contro ignote, seduti davanti a un brigadiere che ti riempie di domande?» «Non con questi occhi lucidi di foglie» dice Galerio. «Con questi occhi, finisce che ci legano a noi.» «Magari adesso» il Vietnamita dice, «si vergognano di quello che hanno fatto.» «Saranno come minimo addolorate» ride nero Galerio. «C’era qualcosa, fra noi» sorride il Viet. «Ci dev’essere ancora, qualcosa. Mi ha raccontato della sua famiglia, questa notte. Non sapete che difficoltà ha dovuto affrontare sua madre per tirarla su da sola.» «Ma allora sei scemo» dice Galerio. «Era vero, quello che mi ha raccontato» insiste il Viet. «Era vero e ora so perché me l’ha detto.» Guardi Galerio e anche lui, da sotto la massa compatta di capelli lunghi alle spalle, osserva il vostro amico come fosse il ritratto d’un povero pazzo. «Credevo si stesse innamorando di me, invece aveva già tutto in


mente e, povera, mi domandava scusa in anticipo.» «Povera ‘sto gran paio» Galerio dice. «Lei e l’altra troia.» «Era stata ovunque quella tenda» mormori. «Quasi ovunque.» «Forse sono molto povere» dice compreso il Viet. «Oppure cleptomani, ma almeno ci hanno lasciato la canadese.» «Che culo sfrenato. Manca solo la traversa, ma con un ramo ri-solverai la situazione anche questa sera.» «Già» dici calciando la borsa di tela jeans. «In mezzo alle chiap-pe, devi mettertelo. Lì sotto ci dormono al massimo due persone, e solo se stanno quasi abbracciate.» «Piano» il Vietnamita dice. «Non è neppure nostra», e tu vorresti bastonarlo con i pali. «Ma parliamo un attimo di cose serie, regiz. Quanti soldi restano?» Perquisisci con metodo i pantaloni in cordura, e in fondo alla tasca posteriore, rintracci una banconota da cinque piegata a fisarmonica. A Galerio resta solo una buona manciata di monete, e contando i risparmi superstiti nel portafoglio del Vietnamita mettete insieme il capitale in miniatura di ventuno euro e quindici centesimi. «Per passare le montagne, è anche troppo», sorride il Viet. «E appena siamo di là, al primo paese prelevo col bancomat. Non vi era mai capitato un imprevisto?» «Io non so che cazzo ci trovi di così divertente» dici. «Sembra che ti diverti.» «Cosa devo fare?» il Vietnamita dice. «Vi fa sentire meglio, se mi dispero?» Poi impallidisce, porta una mano alla gola e adesso il foulard rosso sembra una ferita mortale. Si alza in piedi, annaspa, e dentro un automatismo fluido da ex chierichetto lo vedete inginoc-chiarsi da capo ai piedi dello zaino. «Il resto è perdonato» mugola infilando una mano nella bocca dell’Invicta. «Il telefono, d’accordo amore, il Motorola e i numeri dei dentisti persi per sempre, quello è tutto perdonato.» «Cosa spera, adesso» dice Galerio. «Dopo il viaggio che ci sono costate», dice il Vietnamita, e ormai non vuole più dare retta a nessuno. «Le foglie, amore, ti prego no», e con il volto tirato strappa fuori i calzoni lunghi color kaki e la maglia dei Monti Sibillini, li lascia cadere sul selciato insieme alla custodia degli occhiali, la berretta di lana e il resto di cose che le ragazze non hanno voluto. «Quelle mica fanno a metà come te» dice Galerio, e mentre il Vietnamita, sull’abbrivio della foga, continua a esplorare tentoni il fondo della tasca, il suo sguardo è rivolto in alto, da qualche parte oltre il sommo dell’orrida fontana futurista. «Lo scolo a tutte e due, gli deve venire» dice quand’è sicuro. Monta a cavalcioni dello zaino, lo colpisce a ganci larghi. «I vermi al culo, troie disgraziate.»


Per un po’, mentre Galerio prepara con dita tremanti una sigaretta, e il Vietnamita si dispera per le foglie, siedi sulla panchina, chiudi gli occhi e pensi a come venirne fuori. L’importante è fare in fretta, prima che la carovana si disgreghi dalla parte sbagliata dell’Appennino. Se non fai in fretta, il Vietnamita insisterà per scendere da capo verso la stazione. Lo sai come la vede, in determinati momenti. Lo guardi, e le sue labbra sono le labbra sottili di un uomo pron-tissimo a salire senza biglietto sul primo treno diretto a Nord. «Ascoltate» dici. «Io il telefono l’ho ancora, e forse c’è un modo.» Appena passate le ultime case, la strada per la fontana del Centinò si stacca ripida sulla sinistra. Il primo tratto è asfaltato, ma non passa nessuno e siete liberi di occupare a ventaglio tutta la carreggiata. Non ti stupiresti, se Galerio svenisse prima del valico. Ne avrebbe tutto il diritto, invece marcia a testa bassa, senza chiamare mai la sosta, e con le grandi mani spalancate tenta a ogni passo di compattare al corpo l’ingombro delle zavorre. Il Vietnamita, con la sua lunga falcata indolente taglia le curve meno ripide, tu le abbracci per intero e macini passi lungo il cor-dolo con stile più tarchiato e tenace. I tratti in rettilineo hanno pendenza costante, e mentre salite fra gli alberi ciascuno con il proprio passo ti sembra abbiate un che di meravigliosamente sincronizzato. Ormai riuscite a sgranarvi e tornare in formazione senza bisogno di chiamare soste, e quando mancano due chilometri al valico, la strada si trasforma in un sentiero vero e proprio. All’inizio sale con una pendenza da tagliare il fiato, e tu ripensi a quando con tuo fratello marciavate lungo il fianco dell’Amiata sotto una specie di tempesta. È passata una settimana o forse dieci giorni, ma sembra sia trascorsa una stagione intera, e adesso fa abbastanza caldo da camminare in maglietta. Oltre la cortina d’alberi sulla destra del sentiero sale il canto sommesso d’un rivo giovane. Arrivate a lambirne il letto in prossimità della sorgente, e forse è l’ultima volta che vedete acqua destinata a scendere verso il Tirreno. Tracce non battute da molte settimane infilano la macchia, e il sentiero adesso piega verso Occidente. Sotto di voi torna a mostrarsi la conca di Nocera e, oltre un colle che vi nasconde il paese, distinguete i viadotti in costruzione della Nuova Flaminia. «Basta che non torniamo indietro» dice il Vietnamita, ma i segnavia non lasciano dubbi, e riprendete a seguirli lungo un crinale secondario. Un bosco misto di faggi e roverelle riempie il vallone sulla destra, mentre sul lato opposto del sentiero, quando la vegetazione dirada, il vento porta fino a voi il riverbero del passaggio di moto e automobili. Adesso che ci siete in mezzo, non è più tanto semplice pensare alla dorsale come ai denti d’una bocca, e


viene in chiaro la sua natura di fortificazione complessa, composta da cime e controcime, innervature infinite di crinali ai piedi dei quali si apre il labirinto delle valli tributarie. Controlli la bussola e vedi che puntate a Nord-Est, la direzione ideale dell’intera traversata. Ne provi conforto, come per un buon auspicio, e il rifugio di Monte Alago compare all’improvviso. Oltre il rifugio, un ramo di strada bianca vi riconduce sull’asfalto della strada comunale: sulle pietre ai margini della carreggiata fioriscono inattesi i segnavia con il Doppio Zero del Sentiero Italia, il tracciato che ricalca la linea naturale dello spartiacque. Superate la costruzione in muratura d’una trattoria isolata, alle spalle della quale si apre il perimetro d’un campeggio che sembra abbandonato dall’estate scorsa. “Pian delle Stelle” recita l’arco dell’insegna che sormonta il cancello d’ingresso. È chiuso con due grossi catenacci, e il Vietnamita raccoglie da terra un sasso, traversa la strada di corsa e lo lancia teso oltre la recinzione. «Puttane del menga» grida con il pianto nella voce. «È l’ultima volta che mi fido di qualcuno», e tira un calcio alla base del cancello. «È incredibile, quanta cattiveria c’è in giro. La gente non ci pensa due volte, a rovinarti» dice Galerio a bassa voce. «Non guar-darlo nemmeno, questo posto» dice al Viet. «Fai conto che fra po-co è Capodanno e abbiamo buttato via le cose vecchie.» «Tu però la Nikon del menga ce l’hai ancora. Se te la fregavano, che Capodanno passavi?» Pensi che la tenda poteva accompagnarti ancora per una vita, e non vedi nessuna logica nel castigo che vi è toccato, ma forse Galerio ha ragione. «Stralunami» geme il Viet lasciandosi cadere in ginocchio ai piedi del cancello. «Era una ragazza dolcissima.» La quota sfiora i mille metri, e appena traversate una radura provate la sensazione di avanzare lungo un camminamento aereo sospeso fra i due versanti della penisola. A ogni passo potete interrogare la scarpata che affaccia verso Oriente alla ricerca di una traccia, finché non si apre sotto di voi una valle d’abeti da cui sale in silenzio odore di resina, e dalla piega più profonda di quel mondo nuovo, intona il suo canto giovane un ruscello chiamato Capo d’Acqua. Adesso avanzi incerto nel po’ di commozione che ti prende al pensiero di aver portato il Salewa fin qui. Quando i segnavia con il Doppio Zero vi conducono di nuovo sull’asfalto della comunale, siete all’imboccatura d’una ripida imbrecciata. Si chiama vocabolo di “Casaluna”, e scende la costa sinistra della valle d’abeti, verso la metà del Paese in cui i fiumi corrono a Est. Una coppia di transenne ostruisce la carreggiata, e ai loro piedi spicca il rettangolo giallo d’un cartello. Una frana rende impossibile percorrerla in sicurezza, ma basta un controllo veloce alla Kompass per capire che si tratta del percorso, evidenziato da una teoria di puntini verdi, che conduce alla minuscola frazione dallo stesso nome. Puoi immaginarlo come la rampa da cui domani comincerete una lunga planata attraverso l’interno delle Marche, e secondo la legenda i puntini verdi corrispondono agli itinerari consigliati per le gite in mountain bike.


Così aggirate le transenne e prendete a scendere i tornanti incassati nel fianco della dorsale, e la strada bianca è ampia e battuta bene. Le nuvole corrono come draghi d’oro nell’aria pura del pomeriggio, sopra le creste nude e il vallone che si apre oltre il ciglio della scarpata, così scosceso e fitto d’alberi che solo gli animali, là in mezzo, devono essere capaci di trovare la direzione. «Non sarà un valico famoso, questo Passo del Termine, ma il posto ha qualcosa di mitologico» dice il Vietnamita. «È che sembra di essere sulle Alpi» dice Galerio. «Con tutti questi abeti.» I contrafforti del monte sono ingabbiati da gigantesche reti metalliche; all’inizio scendete in fretta, avete paura di trovarvi di fronte a uno smottamento inaggirabile, ma dietro ogni curva l’orizzonte si apre da capo, e distinguete in distanza il nastro bianco della strada serpeggiare sostenuto da immense muraglie di contenimento, composte da blocchi di pietra impilati a centinaia co-me mattoncini d’un plastico. «Ormai siamo passati, sì?» domanda Galerio. «Non ci stiamo imbucando giù per una meravigliosa valle senza uscita?» «Non so», il Vietnamita dice. «Io me la sento bene. E tu, capospedizione, come te la senti?» «Bene» dici guardando il mare d’abeti sotto di voi. «Forse dovremmo restare qui, se solo ci fosse un fazzoletto di terra pianeggiante.» «Qui non verrebbe nessuno a disturbarci» dice il Vietnamita. «Si potrebbe fondare una repubblica e provare a difenderne i confini in maniera adeguata. A suon di guerriglia, intendo.» «Questa l’ho già sentita. Ma a fare il guerrigliero, finiresti per annoiarti prima di tutti.» «D’accordo» dice il Viet. «Senza donne nella brigata, diserterei subito. Resta il fatto che l’umanità mi ha deluso, e finché coi soldi non ci puoi comprare un cazzo me ne sto volentieri alla larga.» Più a valle colossali tamburi in legno per il trasporto dei cavi giacciono abbandonati come immensi rocchetti sul fondo d’imbrecciata. È facile immaginare il lavorio di ruspe e betoniere pronte a devastare col catrame la silenziosa bellezza del luogo, ma per oggi questa pista sinuosa consigliata per le gite in mountain bike costituisce il vostro passaggio personale verso la valle del fiume Potenza. Scendete e scendete il vallone del fosso Capo d’Acqua, sempre più schiacciati ai piedi delle cime. Superate le transenne poste alla base della strada bianca, e il vocabolo di Casaluna conta meno di cinquanta camini. Se pure circondati dal bosco non ve ne rendevate conto, qui le ferite del terremoto sono ancora aperte: le porte di molte abitazioni sono murate, e i vecchi con i loro cani sembrano gli unici che non se ne sono voluti andare.


Mette i brividi, immersi in tutta questa grazia, l’idea della dorsale che trema sotto le radici degli alberi. Ora che uscite nell’aperto di praterie baciate dall’ultimo sole del pomeriggio, solo vol-gendo lo sguardo verso il Passo riuscite a figurarvi cosa deve essere stato, trovarsi bloccati lassù in quei giorni di panico. Grandi roveri solitari e boschetti di faggio delimitano l’aperto dei prati, e sotto i vostri occhi si apre a ventaglio un villaggio di casette in legno prefabbricate il cui centro è occupato dal dorso curvo d’una cisterna. Le casette sono tutte uguali, e si vedono fiori ai davanzali, come un villaggio disegnato da bambini. «Bello qui» dice il Viet. «Sembra un fortino.» Pensi che devono abitarci gli inquilini delle case che avete visto con le porte murate. «Dopo sette anni» dici, «forse mi annoierei, a vivere in un fortino.» Un paio di setter maculati si inseguono fra i cespugli che crescono a ridosso della spianata, e tutt’intorno è pace, silenzio e profumo d’erba. C’è un ragazzo di diciassette anni che attinge acqua dal rubinetto d’una fontana collegata alla cisterna, e non devono essere molti i giovani che vivono qui. Oltre le casette, sul lato opposto al costone che ospita le abitazioni superstiti di Casaluna, una collina tondeggiante alta forse cento piedi si staglia contro l’orizzonte della boscaglia. La sommità è incoronata da un giro di noccioli, mentre i fianchi sono privi d’alberi, coperti d’erba fresca e senza placche di roccia in vista. «È una specie di cerchio mistico» dice il Vietnamita. «Eredità celtica. O forse longobarda.» «Accampiamoci lassù» Galerio dice. «Peccato solo che non restino un po’ di foglie per festeggiare.» «Se il Viet aveva dietro la chitarra come quando eravamo giovani, stasera si poteva fare un po’ di musica.» «Sì» dice Galerio. «Lui suonava, e noi facevamo le cubiste.» «Possiamo sempre invitare i vecchi di Casaluna» dici su di giri. «Magari in cantina hanno qualche bottiglia, e mentre loro bevono, si balla a turno con le mogli.» Salutate il ragazzo che vi segue di sottecchi già da un po’, e trascinando i piedi che vi hanno condotto oltre lo spartiacque andate verso di lui per chiedere se potete accamparvi nei paraggi. «Un attimo» mormora il Vietnamita quando siete a mezza strada «Magari ha delle sorelle.» «Malcolm ha fatto per la prima volta il bagno in mare» annunci ai tuoi amici. Siedono sotto l’ultimo sole, a due passi dalla caricatura storpia di tenda canadese, e adesso ti guardano in modo strano. «Cosa c’è» dici. «Niente» sorride il Viet. Con la lama da tre palmi del temperalapis, sta liberando dalla corteccia un ramo


di nocciolo. Galerio è intento a spalmare la pomata sul ginocchio, ma guarda via, verso la distesa di prati stretta ai piedi delle montagne. «Ho capito» dici. «Non è una notizia che vi cambia la vita.» «Che permaloso» dice il Viet. «Era solo che urlavi come avessi-mo vinto i mondiali.» «Oi» dici. «Finora non s’era voluto avvicinare alla riva, e quando arriveremo là sarà già abituato.» «Nuota a dorso magari» dice Galerio, e il Viet scoppia a ridere di naso. «Va bene» dici, «e fa i tuffi dal trampolino. Siete degli stronzi, ma sono contento di essere qui. Io, voi, e una tenda che sembra progettata da Picasso.» «Pensavo si sentisse ancora il suo profumo» dice il Vietnamita saggiando fra le dita un lembo del sovrattelo color bottiglia. «Invece ho messo la testa dentro, ed è incredibile che due ragazze abbiano dormito in un posto che fa tanto odore di muffa.» I cani di Casaluna ululano verso valle, e cento passi sotto di voi, i setter alla catena presso la cisterna uggiolano pieni d’inquietudi-ne. Però, anziché sentirti minacciato, ti sembra che da lassù possiate vegliare in modo adatto sul ventaglio di chalet prefabbricati e i cinquanta camini superstiti dell’antico vocabolo. «Adesso è tutta discesa» dice Galerio muovendo un cenno va-go verso Est. «Quasi, vero?» «Domani seguiamo l’acqua da vicino. Però dopo, in mezzo alle colline, sarà da capo un bel su e giù.» «Non vedo l’ora» dice il Vietnamita. «Tanto domenica è qui che arriva, e per domenica sera il qui presente Rappini Luca sarà dentro la vasca da bagno a Borgo Panigale e maman avrà preparato i sali. Voi fortunelli invece, sarete ancora a camminare gobbi. Voi, e l’uomo che da Est arriverà a salvarci.» «E così ci arrivano i soccorsi, come a una spedizione polare in difficoltà» dice Galerio «Nettamente» confermi. «L’uomo ci viene incontro con una tenda nuova di zecca.» «Cos’è» domanda il Viet. «Una gag per tenere alto il morale della truppa?» «Il mio è abbastanza alto» dice Galerio. «Ce l’ho fatta con un ginocchio di meno e abbiamo ancora qualcosa da fumare.» «Una prateria al tramonto protetta dalle montagne» mormora il Viet. «Mentre guidavo in autostrada, non facevo che sperare di trovarmi in un posto così. Stralunami» ride. «E come ci fossi già stato, ma anziché sentirmi a casa, sento che manca l’essenziale.» «Chi è l’uomo che verrà a salvarci?» dice Galerio. «Il vostro amico Luther?» «Non è Luther» dice il Viet. «Luther è in Valmadero con la famiglia.»


«Tutte le squadre hanno almeno un uomo pronto in riserva» te la tiri. «Il nostro è un ex giocatore di rugby e si chiama Leo Pagani.» «È uno dei tuoi nuovi amici sposati?» domanda Galerio. «È una gag» dice il Vietnamita. «Non arriverà nessuno.» «Non è una gag» dici. «Aspettava un messaggio, e il messaggio che ho mandato stamattina l’ha convinto a liberarsi in fretta.» Se adesso riveli che Leo è semplicemente il tuo vicino del piano di sopra, e che a rugby ci giocava forse ai tempi delle superiori, i ragazzi ci resteranno male. Ma quello che non devi fare adesso è rivelare che lo conosci appena. Fino a un mese fa vi limitavate a salutarvi e commentare con favore generico le rare vittorie del Bologna. È stata la sua compagna che ha saputo per prima della traversata, non ricordi più se da Di-na o dal tabaccaio sottocasa. Un pomeriggio che l’hai incrociata per le scale ha sponsorizzato con vigore la partecipazione di Leo. «Gli farebbe bene dopo tutto l’inverno chiuso in ufficio» ha detto col suo accento entusiasta da italoamericana dell’Ohio. «Camminare sotto il sole» ha aggiunto stringendoti il gomito «l’aiuterebbe a buttare giù un paio di chili.» La solidarietà che hai provato in quel momento per Leo, stritolato fra l’ufficio e le preoccupazioni della compagna per la sua linea, ti ha fatto decidere d’istinto che dovevi fare qualcosa per lui. Però della sua resistenza non sapevi quanto potevi fidarti, e nei tempi stretti della vigilia, con l’ansia di partire che ti si mangiava vivo, hai preferito non rischiare. Avevi evitato di formalizzare l’invito, ma la mattina in cui scendevi le scale con lo zaino per andare all’appuntamento con tuo fratello in stazione, l’avevi incontrato che accompagnava la bambina all’asilo. Ti eri un po’ vergognato ma lui sembrava contento per te. «Ho giocato a rugby, una volta mi sono lanciato col paracadute, ma il viaggio in tenda mi manca. E anche staccare un po’, mi manca» aveva detto. E poi aveva insistito per lasciarti il suo numero di cellulare. «Non per saltare sul carro della banda» aveva precisato. «Ma mi piacerebbe che mi chiamassi, il giorno che arrivate al mare. Salgo in moto e vengo a festeggiare con voi.» Dev’essersi stupito, quando ha ricevuto il tuo messaggio. Ma anche tu ti sei stupito, della rapidità con cui il Siemens ha annunciato vibrando la sua risposta. «E quando lo vedremo, il salvatore?» dice Galerio. «La ferrovia risale la valle fino a Castelraimondo» dici. «Per domani sera dovremmo esserci. Il nostro appuntamento è alla seconda stazione. San Severino Marche. Il centro più grande della valle.» «Cos’è, disoccupato, che può prendere e partire così?» «Non è disoccupato. Dice che per la tenda non c’è problema, e forse porterà delle primizie dalla città.» «Primizie» dice Galerio sorpreso. «Mo-olto bene.»


«Andiamo a leggere, chi arriva» dice il Viet. Fa lo sbruffone ma non deve dispiacergli, pensare che qualcuno in città sa di voi persi con pochi spiccioli ai piedi dell’antico vocabolo di Casaluna. «Adesso però, dobbiamo tirare a sorte chi sta fuori dalla tenda» dice il Viet. «Sarà una notte tersa» dici. «Ci sto volentieri, fuori da quella tenda scalognata.» «Siamo in alto» dice il Viet. «Farà freddo, fra poco.» «Ci copriamo bene e questa volta dormiamo sotto le stelle» dici. «La canadese la teniamo come rifugio» dice Galerio. «Se attacca a piovere, corriamo a sederci là sotto. Perché più che seduti, mi sa che in tre non ce la facciamo.» «Ma sì» dice il Vietnamita. Per un po’ guarda il cielo scrutando il telo color bottiglia chiazzato di muffa. «Sapete cosa c’è? Forse dovremmo bruciarla.»

TERZA PARTE. da Casaluna a Portonovo. GIORNO QUINDICI. Da Casaluna a Pioraco e Castelraimondo. È il primo mattino d’una nuova era, e voi avanzate fra prati in fiore e basse colline, lungo la carreggiabile che scende verso la stretta valle del fiume Potenza. È stato bello aprire gli occhi rintanati fianco a fianco nei sacchi a pelo e vedere subito le pareti di roccia nuda della dorsale indo-rate di sole. Il telo color bottiglia della canadese che avete impiegato come una


grande coperta svaporava umidità, e tutto il fianco della collina, fin giù al ventaglio di chalet disposti intorno alla cisterna, sembrava coperto di rugiada. Pensavi che ti sarebbe piaciuto, svegliarti così per tutta l’estate, scendere a scarponi aperti fra le case provvisorie in cui famiglie di gente dura vivono da sette anni e dare loro il buongiorno, condi-videre sigarette e caffè dopo essersi lavati con l’acqua della cisterna. Ascoltare le loro storie, raccontare la tua e diventare qualcuno di familiare per i setter maculati del villaggio. Arrampicato sull’ultimo costone in vista sotto il Passo, il prese-pe di Casaluna sembrava sospeso fra il serraglio di pietra della dorsale e un regno mite di colline, ma ancora adesso dietro ogni curva appaiono valloni e radure in cui varrebbe la pena di piantare la tenda, se solo ne aveste ancora una. Sui pali della linea elettrica che affiancano la strada compaiono i segnavia del sentiero 215, e l’idea di perdere quota ti sembra un peccato, dopo tutta la pace che siete riusciti a guadagnare. È da prima di Perugia che non annoti nulla sui taccuini, e ti piacerebbe passare qualche tempo a riordinare le idee prima di consegnarvi da capo alla furia meccanizzata della pianura. «Pensavo sarebbe stato fatale, per il mio povero collo, dormire all’aperto» dice il Vietnamita. «Invece sono solo un po’ indo-lenzito.» «Quel balsamo di tigre è una bombas» dice Galerio. «Diventi un uomo nuovo, dopo i massaggi.» «Fra il balsamo e le pomate da calciatori» dici, «i cerotti normali e i Secundapelle, al Viet non deve mancare troppo l’ambiente farmaceutico.» «Spiritoso» dice lui. «Ma non ero sicuro di farcela. A me, amico, se s’infiammano le vertebre cervicali, dovete portarmi a spalla.» «Non avevo mai dormito sull’erba usando un telo ammuffito come coperta» Galerio dice. «E non è stato freddo come pensavo.» «Eri imbottito come l’uomo Michelin» dice il Vietnamita. «E comunque, il modulo in poliuretano è stato l’invenzione più importante del secolo scorso. T’isola dal terreno che è una meraviglia, e se nel sonno non rotoli lontano, il sacco a pelo resta asciutto e il collo non subisce danni.» «Quando ti sei svegliato non eri così di buon umore» dici. «Non sono mai di ottimo umore, quando mi scuotono a metà di un bel sogno. Flora ansimava, m’implorava di non smettere, e quando ho visto la tua brutta faccia pensavo volessi spodestarmi.» Il vostro sentiero raggiunge la strada maestra della valle presso il Ponte delle Pecore, un altro nome che sulle mappe hai notato da molte settimane, e il fiume Potenza corre sulla destra della strada, governato da stretti argini coperti d’erba lucida. Pensi alla sua valle stretta, e a quelle che scendono in parallelo dalla dorsale verso Oriente, come a lande benedette dal giro del sole che ogni giorno sorge dall’Adriatico.


Se pure la sorgente dista mezza giornata di marcia, il canto del fiume risuona incorrotto. Grandi libellule ronzano a pelo d’acqua, e contro le fronde dei salici spicca il volo, simile a un cangiante specchiarsi di petali, delle farfalle Vanessa migrate fin qui dalla costa. Un tempo qui sorgeva la città romana di Dubios, posta a guardia del tracciato di fondovalle, ma è molti secoli che il controllo di quest’area non appare una priorità strategica, e prima la guerra, poi la mancanza di lavoro e infine il terremoto hanno contribuito a spopolarla sempre più. Una Panda grigia della Forestale vi supera, e quando scompare oltre il sipario d’una curva scavata nel fianco della montagna, trascorrono molti minuti prima di percepire la vibrazione d’un secondo motore. Sulla sinistra, si stacca una provinciale che risale verso la valle dell’Esine: ne distinguete i primi tornanti attaccare cauti il fianco della montagna, e sul lato destro della carreggiata, opposta alla biforcazione, sorge una fontana in muratura. L’acqua è quella limpida del fiume, buona da bere anche a stomaco vuoto, e il luogo porta da chissà quanto tempo il nome di Bivio Èrcole. «Di cartine non me ne intendo» dice Galerio mentre riprendete la marcia lungo il ciglio della strada maestra, «quindi è inutile che me le mostri. Dimmi solo una cosa. Se seguiamo l’asfalto fino alla fine, arriviamo all’Adriatico, sì?» «Preciso» dici, «ma lo seguiamo solo per oggi. Più a valle, si trasforma in una specie di strada veloce.» «Però resta vicina al fiume.» «Fino alla foce, credo. Da qualche parte vicino a Civitanova Marche.» «Allora dovremmo costruire una zattera capace di portare noi e gli zaini, e farci portare dall’acqua. Ce ne stiamo sdraiati sulla zattera a prendere il sole, e guardiamo sfilare i campi e i paesi fino alla foce.» «Sempre che più avanti non ci siano cascate.» «L’importante è arrivare per domani a San Severino. Non possiamo mancare l’appuntamento con Leo.» I tuoi amici ti guardano come se avessero dimenticato che c’è un uomo determinato a venirvi in aiuto, e anche tu adesso pensi con fastidio a quando avete creduto di essere quasi spacciati per così poco. Come quando vi avvicinavate a Perugia e le gambe giravano per conto loro, ti spiace l’idea di rallentare la marcia per far saltare a bordo qualcun altro che come camminatore è un’incognita to-tale. Però Leo Pagani, con tutto che nella vita fa il piccolo industriale, ha una casa in Sardegna e non ha mai viaggiato a piedi, non ci ha pensato due volte a risponderti. Se c’era da arrivare in un paese mai sentito dell’entroterra maceratese con una tenda per quattro persone, lui l’avrebbe fatto. «È pronto» dici, «è deciso, e chiede se ci serve qualcosa dal mondo civile.» Per un po’ ci pensate, e al di là d’una tenda e le primizie già promesse, non c’è niente che vi faccia gola. «Sai che sorpresa» insiste Galerio, «se ci presentiamo all’appuntamento a bordo di una zattera.»


«A parte le cazzate» dice il Viet, «quand’è che troviamo un bancomat? Comincio a sentirmi nudo, senza un soldo.» Il paese di Spindoli è ormai vicino, e il passaggio d’auto lungo la maestra si fa più frequente. Galerio e il Vietnamita camminano lungo il ciglio dell’asfalto, portandosi sull’esterno della carreggiata ogni volta che si avvicinano a una curva stretta. Tu li segui lungo il camminamento sopraelevato formato dal continuo delle gabbie di sassi che rinforzano l’argine sinistro del fiume. Il letto del Potenza è ancora stretto e pulito. L’acqua viaggia veloce nonostante la pendenza modesta, così limpida che puoi interrogare il verde sottomarino delle alghe pettinate dalla corrente. Il bar che sorge all’ingresso del paese è chiuso per turno, così proseguite sulla maestra fino a un postoristoro cui si accede tramite la rampa d’una scalinata. Entrate per bere un succo di frutta, e la donna al banco può avere cinquant’anni ed è una romagnola di Bagnacavallo. «Io sono arrivata quaggiù per amore» dice con l’accento rilassato delle vostre parti, «ma a voi chi caz ve l’ha fatto fare?» Raccontate del viaggio, e all’inizio crede la vogliate prendere in giro. «Saranno contente le vostre mogli» dice quando si convince che non siete semplicemente partiti ieri da Nocera. «Io non so co-sa darei, perché se ne andasse un paio di settimane anche mio marito.» Parlando di lui lo chiama traditore, e oca morta, ma lo fa senza rancore, con l’affetto ruvido tipico della sua terra. È una donna dalla spiritosaggine quasi incontenibile, e quando siete pronti a partire vi accompagna sulla soglia. Indica una cabina dell’Enel al-l’ombra della quale parte una scorciatoia che si inoltra a fondovalle. «Così» dice, «andate sicuri, come unti, e non vi cuocete i piedi sull’asfalto.» La scorciatoia è una strada bianca che segue il profilo della ri-va, collega casali sgranati a poche centinaia di metri uno dall’altro fino al ponte di Fiuminata. Ormai è ora di pranzo, e lungo il ramo di strada che scende dalla frazione Castello arriva un prete in bicicletta. Per essere certo d’intercettarvi comincia a rallentare da una certa distanza, e quando è vicino il lamento dei freni a tamburo copre il canto dell’acqua. «Siete scauti?» vi domanda gioviale fermandosi a un braccio da voi. «Voglio dire, scauti adulti.» L’inaudito plurale stona con il clergyman impeccabile, e ci vuole un po’ a capire che la domanda riguarda il movimento educativo fondato da Baden Powell. Allora il Vietnamita spiega che tu e lui siete ex caposqua-driglia del Bologna 16, mentre Galerio è stato contrario fin da piccolo, all’idea d’indossare un’uniforme che non fosse da calcio. «Però la cresima l’avrai fatta» lo mette in mezzo il prete. «Senta, don» reagisce lui. «Non sono più i tempi dell’Inquisi-zione. Si renda utile, piuttosto. Dov’è che un assetato può comprare un po’ di frutta?» L’aquila bronzea del monumento-agli eroi di Vittorio Veneto sembra vegliare sul decoro del luogo, e non si vede nessuno sulle panchine, nessuno sul prato traversato a croce da vialetti selciati.


Lasciate scivolare gli zaini sull’erba, non lontani dal monumento, e al capo opposto l’ovale del giardino è chiuso da una schiera di tabelloni della propaganda elettorale. Le teste giganti dei candidati sorridono a gara, e Galerio dice che sembrano mostri, mostri che sorgono spalla a spalla dalle vi-scere della terra. Verso l’estremità più lontana della schiera, spicca un manifesto che non riproduce le fattezze di nessun candidato, ma reca stampata a caratteri di scatola la disarmante scritta “GRAZIE DARIO”. La semplicità quasi confidenziale del messaggio attira l’attenzione più di qualsiasi slogan, e così decidi di dare un’occhiata da vicino per capire quale Dario s’intenda ringraziare, e perché. Sopra la scritta intuisci una mappa, e nella parte bassa è stampata qualche riga. Ti avvicini come in sogno all’infilata di teste, e da venti passi di distanza cogli la seconda parte del messaggio. GRAZIE DARIO. PER IL QUADRILATERO. «Questa è roba esoterica» dici ai ragazzi. «Esoterica, o legata al-le guerre d’Indipendenza.» Solo quando sei abbastanza vicino da poter toccare la superficie ancora umida della carta, metti a fuoco la mappa riprodotta sulla parte alta del manifesto. È una mappa muta dell’Italia centrale, solcata da un rombo i cui angoli sono uniti da possenti tron-coni scuri scriminati al centro di bianco. È il tipo di tratto che, sulle mappe, distingue le autostrade, e nella parte bassa del cartello puoi leggere che tanto è stato fatto, grazie all’impegno di Dario e tutto il Governo, per migliorare la viabilità nel cuore d’Italia. «Okay» informi i ragazzi. «Niente di esoterico. È il solito progetto di devastare le vallate con i viadotti. Così la gente crede che, se appena ti puoi permettere le rate d’una Fiat, nessun luogo è lontano.» E poi, come si stagliasse dal manifesto per colpirti alla base del naso, il cognome dell’onorevole Dario spalanca per te la magia parossitona delle sue sillabe. Quel cognome, in qualche modo, lo conosci da molti anni. Mentre torni verso i ragazzi, lo ripeti fra te e te finché non si affaccia alla mente la frangia castana d’una ragazza. Si chiamava Valentina, e ai tempi del liceo ti spingevi volentieri a casa sua per ripetere la lezione. Era originaria delle Marche, certo, e suo padre all’epoca faceva un lavoro normale. Solo più tardi hai saputo che si era messo in politica. Ti è anche capitato di vederlo un paio di volte ospite da Bruno Vespa, l’ormai onorevole Dario. Ricopriva un qualche incarico di governo, ma non riuscivi a stare ad ascoltare cosa dicesse. Per tutto il tempo, nel tuo narcisismo sfrenato, ti domandavi se avesse mai avuto notizia di quando tu e la figlia ripetevate la lezione fino a sera tardi.


Adesso che puoi vedere da vicino quale genere di progetti cova in mente, e per quale tipo di idee al catrame viene ringraziato, ti prende una sorta di spaesamento, come se ti sentissi in qualche modo complice del progettato Quadrilatero. «L’ho quasi conosciuto di persona, quel Dario» dici ai ragazzi. «Se le cose fossero andate in un’altra maniera, potrei essere il suo unico genero. Eppure il suo progetto e quello della nostra cooperativa di ranger non potrebbero essere più diversi.» «Il manifesto non parla di sentieri a lunga percorrenza» domanda il Viet. «Neanche per scherzo» scrolli le spalle. «Solo di autostrade.» «Non esiste in nessun partito» dice il Viet, «un politico disposto a battersi per una raggiera di sentieri a lunga percorrenza in grado di condurti da un capo all’altro del Paese.» «Sentite questa» dici. «Dina mi ha regalato il libro di un camminatore emerito, uno che scrive su “Alp”, e il libro s’intitola A piedi da Firenze a Siena e a Roma. Bel giro anche quello, ho paura, e praticamente questo camminatore famoso spiega tappa per tappa co-me coprire più di quattrocento chilometri attraverso la Toscana e l’Alto Lazio. Ti conduce per mano sempre più vicino a Roma, così come ci arrivavano i pellegrini. È solo una guida, ma quando vai a leggere l’ultima tappa, il viaggio a piedi finisce al capolinea dell’Arac. Dopo, se vuoi arrivare a San Pietro o il Colosseo, devi salire in autobus, perché non esiste un modo decente di entrare in città superando l’anello del Raccordo.» «Eppure le richieste della nostra cooperativa sarebbero richieste miti. Una segnaletica decente ai bivi, la possibilità di rifornirsi d’acqua e, ogni tanto, una piazzola di bivacco. Anche una ogni venti chilometri andrebbe benissimo.» «Qualcuno che ha dormito sotto una tenda, da giovane, ci sarà pure. Magari fra i Verdi. O qualche prete mancato ex DC.» «Di sicuro non Dario» ghigna il Vietnamita. «Però scusa, se conosci sua figlia è quasi fatta.» «Non la vedo da dodici anni, minuto più minuto meno.» «Eppure vale la pena di tentare. Altroché farmacie, code in autostrada e puttanate varie. Mettiamo nero su bianco il progetto, tu lo passi alla tua ex fidanzatina, e lei lo presenta al padre.» «Non fa una grinza» Galerio dice. «Da un giardino pubblico in provincia di Macerata a Monteci-torio in tre mosse. Scusa, amico, se ti devo insegnare tutto.» «A noi non ci ascoltano, ma se è la figlia di uno di loro, a proporre l’idea, devono darle retta per forza.» Ormai si sono convinti che la tieni in pugno, Valentina. Potrebbe essere sposata anche lei, per quel che ne sai. Avere dei figli. Da un ingegnere, probabilmente.


«Così Dario può farsi bello con le piume del pavone, e vantarsi con gli altri sottosegretari che l’idea dei sentieri è stata della sua bambina» ti spiega il Viet. «Per te si tratta solo di alzare il telefono ed essere un po’ gentile.» «Non è facile come credete» li freni. «L’ultimo appuntamento, dodici anni fa, non è andato tanto bene.» «Cose che capitano» dice il Viet. «L’importante è lasciarsi senza rancore.» «Avevo bevuto al pub, prima, e l’Assiro quella sera aveva versato delle gocce di Vellocet nelle birre di tutti. Così non ero tanto in me. Lei poi, anziché capire la situazione e assecondarmi, voleva discutere di noi e del passato. Ho paura d’averla abbandonata su un prato dei colli, quella ragazza. A notte fonda, e lei abitava in centro.» «Stralunami» dice il Viet. «Mi sa che tramite Dario non si combina un bel niente.» «So’ senza divisa, ma so’ sempre scautì» commenta a mezza vo-ce il prete con un paio d’avventori del bar, e forse li sta rassicu-rando. Uscite dal paese di Fiuminata, imboccate da capo la strada maestra che conduce verso Est, e adesso a camminare sull’asfalto le piante fanno male. Il carrarmato dei tuoi scarponi in Gore-Tex, gli unici da quando calzi un numero da adulto, ormai è liscio, e la suola smangiata verso l’esterno costringe il piede in una postura sempre più scorretta. Sulla destra del fiume, oltre la linea dei salici, la valle si apre, come se la catena dei monti che la chiudono da quel lato cono-scesse un’ansa, e laggiù si aprono i primi campi coltivati. Sulla sinistra, invece, balze coperte di bosco incombono sull’asfalto ormai caldo. «Sapete cosa c’è, regiz?» dice Galerio. «Non possiamo stare qui a sperare che qualche politico ci dia retta. Se ci crediamo, il sentiero dal Tirreno all’Adriatico dobbiamo tracciarlo e basta.» «Già» il Vietnamita dice. «I veri pionieri mica chiedono il finan-ziamento alla Comunità Montana. Per prima cosa bisogna disegnare una mappa completa, con i paesi e tutte le svolte segnate in maniera inequivocabile. Così, se anche i bracconieri del menga abbattono i segnali, la gente sa come andare avanti.» «A cinque anni» esageri, «ero un ottimo disegnatore.» «A mano salta fuori una fetenzia» dice Galerio. «Oggi le mappe si disegnano al computer. Con il computer è un attimo.» «D’accordo. La mappa bisogna farla disegnare al computer, da qualcuno che è capace sul serio. Però i segnali lungo la strada dobbiamo posizionarli noi.» Provi a mettere a fuoco quale può essere l’esistenza di un uomo che, come secondo lavoro, apre sentieri e li mantiene in ordine. Per un po’ ci pensi e non arriva niente che ti spaventi. «Mica si può, andare in giro per le colline a verniciare segnavia senza autorizzazione» il Vietnamita dice. «Magari non li verniciamo. Facciamo preparare delle piccole targhe metalliche e le fissiamo agli alberi con il filo a molla. Oppure le inchiodiamo ai pali della luce e i montanti delle palizzate.»


«Certo» dice sarcastico il Vietnamita. «Ricominciamo dalla costa del Tirreno e ci seminiamo le targhette dietro come Pollicino.» «Oi» dici. «È così che si segnano i sentieri.» «Alla Forestale basterà seguire la scia, per piombarci addosso. Ci beccano in tre giorni, e appena scoprono che siamo senza autorizzazione, sono cazzi.» «Che paura, regiz. Scommetto ci obbligheranno a staccare le targhette con i denti.» «Voi ci scherzate» il Vietnamita dice. «Ma un conto è la mappa, un conto è modificare il territorio.» Le alte pareti di roccia che custodiscono il lembo di prati compreso fra il fiume e la strada maestra s’allargano a tenaglia per richiudersi pochi chilometri avanti a voi, come l’argine estremo di quel regno luminoso e in pace, e non fosse per la Kompass non riusciresti a indovinare il punto in cui il fiume si fa largo attraverso la gola. All’ingresso dell’abitato, un cartello arrugginito vi da il benvenuto nella Terra della Carta, e cento passi più in là, discosto dalla strada maestra, c’è uno chalet in legno enormemente più lussuoso di quelli destinati alla popolazione sfollata di Casaluna. Sembra un rifugio di montagna dimenticato a fondovalle, e sulla terrazza spicca l’insegna d’una marca di caffè. «Fermiamoci un minuto» propone Galerio. «Giusto il tempo di raffreddare il ginocchio.» Pensi che siete appena ripartiti da Fiuminata, e poiché il Vietnamita non dice niente, cominci a temere che la faccenda andrà per le lunghe. Ti tornano alla mente le giornate con tuo fratello attraverso la montagna spopolata della Maremma, quando il miraggio d’un bar bastava a spronarvi per tutto il pomeriggio. Fra i tre uomini giovani e devastati che si trascinano attraverso il cortile a ghiaia dello chalet, sei l’unico che ha visto le cose dall’inizio. Così ti senti in grado di pensare alla traversata come a qualcosa che all’inizio era puro e adesso, non fosse per te, sarebbe condannato alla degenerazione. Salite la breve scaletta che conduce alla terrazza. Al riparo dello spiovente del tetto c’è un tavolo circondato per tre lati da panche di legno, e voi occupate con gli zaini quella addossata alla parete. La barista dev’essere una studentessa delle superiori che si ci-menta per la prima volta con un lavoretto stagionale. Ordinate i vostri caffè, e lei sorride impacciata mentre si gira verso la Gaggia e prende a studiarla con la stessa confidenza che sfoggerebbe al cospetto d’un acceleratore di particelle. L’unico cliente, seduto a un tavolo in fondo al locale, sotto una finestra che affaccia sul verde brillante dei campi, è un ragazzino di forse otto anni che indossa i pantaloni della tuta e quella che i vecchi chiamano “maglia della salute”. I suoi capelli sono biondi e ritti in capo senza bisogno di brillantina, il volto accaldato, co-me il ragazzino fosse arrivato fin qui di corsa. Adesso è sprofondato dentro la pace ipercinetica dei suoi coetanei, e mentre gusta un ghiacciolo dondola senza sosta i piedi che non arrivano a


toccare l’impiantito d’assi. Mentre aspettate i caffè il ragazzino prende a osservarvi, e quando Galerio se ne accorge gli domanda che tipo di ghiacciolo sta mangiando. «Quello con lo stecco di liquirizia» dice lui indicando il frigo dei gelati alle vostre spalle, e non sembra intimorito, ma solo curioso. «Stralunami» dice il Viet muovendo due passi da trampoliere verso il frigo. «Saranno secoli, che non mangio un ghiacciolo con lo stecco di liquirizia.» «Prendilo anche per me» dice Galerio, e va a finire che nemmeno tu resisti al vibrante richiamo della nostalgia. La studentessa serve sui piattini i vostri caffè, ed è come se qualcuno avesse ordinato un ristretto e qualcun altro un americano. Pagate senza fiatare e vi trasferite all’esterno, ciascuno con il proprio ghiacciolo e il po’ di caffè che il destino gli ha riservato. «Secondo me, per avere il permesso di segnare un sentiero bisogna telefonare al Cai» dice il Viet. «Telefonare e prendere appuntamento con qualche pezzo grosso.» «Al Cai è pieno di ex alpini» dice Galerio. «Gente come noi, estroversa a questo modo, agli ex alpini non piace quasi mai.» «È un peccato» dici. «Sono gli unici militari che mi stanno simpatici» e per un po’ pensi alla volta che hai avuto la fortuna di pranzare insieme a Rigoni Stern. «Diventerebbe il nostro lavoro» Galerio dice. «Tenere il sentiero in ordine e farlo conoscere. Iniziano ad arrivare gli stranieri ed è fatta. Sono sempre loro che devono mostrarci come passare il tempo libero. Guarda com’è andata col calcio.» «Piano» dice il Viet. «Meglio cominciare un po’ alla volta, durante le vacanze, senza fare il passo più lungo della gamba.» «No» Galerio dice. «O ci credi, nelle cose, o le lasci fare agli altri.» «Per le targhette e la vernice dovremo autofinanziarci. Lo sai quanta vernice servirà? Come faccio ad autofinanziarmi se lascio il lavoro?» Il ragazzino esce oltre la soglia e resta a guardarvi, le spalle poggiate alla parete. Ormai il ghiacciolo è finito, e quello che resta dello stecco di liquirizia gli sbuca fra le labbra simile a un mozzicone, ma non c’è niente, nel suo atteggiamento, che potresti defi-nire strafottente. Ascolta quieto i vostri discorsi, le mani dietro la schiena, dondolando la testa in modo leggero, come uno scudiero in miniatura. «Siamo seri» dici. «Quanta gente c’è, che lascia la poltrona e parte per traversare il Paese?» «È che hanno paura» dice Galerio. «Della fatica e di non so co-sa. Ma se esistesse un sentiero segnato


partirebbero in molti.» «Non lo so» dici. «Forse basterebbe diffondere la credenza che, se non cammini con gli amici da un mare all’altro, non passi la maturità.» «Oppure il rapace ti resta per sempre incapace di trovare un ni-do. Sono timori che, a quell’età, sono in grado di tirare fuori il meglio di te.» «Fai conto» Galerio dice. «O qualcosa del genere. Se lavoriamo bene, diventa una specie di cerimonia di iniziazione.» Poi lo vedi bloccarsi, come se un ricordo improvviso l’avesse raggelato. «Basta che non ci snaturino l’idea» dice. «Non snaturano un bel cazzo» dice il Vietnamita. «Le regole so-no troppo semplici. A piedi. Da una parte all’altra. E i nostri nomi per quei ragazzi saranno nomi leggendari di pionieri.» «Non dire parolacce davanti al piccoletto» dice Galerio. «Non c’è problema» dice il ragazzino. «Le conosco già le parolacce.» «È sveglio» il Vietnamita dice. «Come ti chiami, giovane?» «Lorenzo» il ragazzino dice. «E già che state per chiedermelo, ho sette anni e mezzo.» Pensi a Malcolm, a come potrebbe essere fra pochi anni, e ti piacerebbe che avesse lo stesso piglio amichevole e sicuro. «Abiti da queste parti?» domandi. «Abito lì» dice il ragazzino, indicando oltre la strada. Alle pendici del colle si vede un nucleo di villette moderne circondato per tre lati dal bosco. «Anche i miei amici abitano lì.» È un ragazzino simpatico e vorresti invitarlo a sedere con voi, ma pensi che potrebbe mettersi paura e non dici niente. «Siamo andati in missione nel bosco, ma il sentiero saliva tan-tissimo» dice mostrando il taglio della mano inclinato su una pendenza esagerata. «Dopo un po’ mi fermavo sempre. Così mi hanno detto di tornare qui e aspettarli.» «E gli altri sono ancora in esplorazione?» «Sono più grandi, loro. Io sono il più giovane.» «Anche noi arriviamo dal bosco. Da quelle montagne laggiù» dice indicando la vetta del Pennino e le altre cime in testa alla valle. «Avete lasciato indietro qualcuno?» domanda il ragazzino. «O


hanno lasciato indietro voi?» «No» dici. «Siamo tutti qua.» «E dormite fuori, sotto gli alberi?» «Prima dormivamo in tenda» Galerio dice. «Ma poi l’abbiamo persa, e adesso dormiamo fuori.» «Si sta più larghi» dice il Vietnamita. «E all’aperto non devo sentire la puzza dei loro piedi.» Il ragazzino sorride. «Io avrei paura, quando viene buio. Ma di giorno no. Sono coraggioso, di giorno.» «Bene» dice Galerio. «Vedrai che fra qualche anno non avrai paura neppure di notte.» «Noi non abbiamo mai avuto una tenda» il ragazzino dice. «Però abbiamo le nostre capanne. Sono laggiù» dice indicando il mantello d’alberi che risale il fianco del colle. «Se non le vedete» dice, «è perché sono mimetizzate.» «E cosa ci fate, nelle capanne?» «Le riunioni» il ragazzino dice. «Siamo una banda, noi. Ogni pomeriggio, andiamo alle capanne a discutere i piani per le mis-sioni segrete.» «Anche noi alla tua età facevamo parte di una banda» dice Galerio. «E dopo?» «Anche dopo» dice. «Però non dirlo a nessuno.» «Adesso giriamo l’Italia a piedi per contare quante vere bande rimangono» dici lento al ragazzino. «Quante ne rimangono?» «Eh» dici. «Non so se possiamo dirlo.» «È la nostra missione» sorride il Vietnamita. «Ma tu non sai niente, vero?» «Con me potete parlare» il ragazzino dice. «Nessuno lo saprà.» «Sono settantasette» dici. «Settantasette in tutto il Paese» e se volevi impressionarlo dovevi stare più basso. «E così voi siete la banda di Pioraco» dice il Viet. Il ragazzino lo guarda con aria dubbiosa, schiocca la lingua.


«Qui siamo a San Rocco» dice mentre le guance gli vanno a fuoco per l’indignazione. «Pioraco è dove si va a scuola.» «Scusami» dice il Viet. «È il cartello lungo la strada, che dice Pioraco.» «Lì ci sono altre bande. Anche di ragazzi grandi.» «Cavolo» dice Galerio. «Speriamo che ci lascino passare attraverso il loro territorio. Quanto sono grandi? Come noi?» «Ma no» scoppia a ridere il ragazzino. «Hanno sedici anni.» «Speriamo» sospira Galerio scrutando la strada maestra. «Dici che ci daranno noie?» «Corrono dietro alle femmine, quelli» dice il ragazzino. «Vanno in scooter e danno noia solo alle femmine.» «Voi non date noia alle femmine?» domanda il Viet. «A noi del Kappa Gi Esse» dice solenne il ragazzino, «non importa un fico secco, delle femmine.» «Bel nome, Kappa Gi Esse. Cosa significa?» «Visto che me lo chiedete» il ragazzino dice, «significa Kommando Giovani Sanroccari.» «Kommando con la K suona bene» Galerio dice. «Da stadio.» «E stato il capo ad avere l’idea» dice il ragazzino. Muove due passi verso il lato libero del vostro tavolo. «Ha undici anni, lui, ed è mio cugino.» «Quanti siete» domandi al ragazzino, «se posso chiederlo?» «Siamo in cinque. E ognuno ha un nome in codice.» «È sempre utile, avere un nome in codice. E che nomi in codice avete? Nomi da pellerossa?» «Macché pellerossa» dice il ragazzino schifato. «Io sono il compagno Numero Cinque. Mio cugino è il Numero Uno, e in esplorazione con lui ci sono i compagni Numero Due e Numero Tre.»


Pensi che questo sistema di nomi in codice ti ricorda qualcosa, qualcosa da legato alla vanità dell’infanzia, ma non riesci a capire di preciso cos’è. «E il compagno Numero Quattro?» domanda Galerio. «Lui non esce mai» dice il ragazzino. «Sta chiuso in casa e gioca a PlayStation fino a ora di cena, sdraiato sul divano come un pap-pamolla.» «E che cavolo» Galerio dice. «Fa parte di una banda e se ne resta a putrefarsi in casa.» «Se non viene neppure oggi» dice il ragazzino con l’aria di con-fidarvi un segreto, «dice mio cugino che da stasera il nuovo Numero Quattro sono io.» «Sacrosanto» dice Galerio. «Se ha deciso di putrefarsi, mica può pretendere di tenere il posto occupato.» «Sacrosanto, sì» ripete il ragazzino mentre lancia uno sguardo oltre la scaletta, verso il piazzale coperto di ghiaia che si apre intorno allo chalet. «Appena tornano gli altri, glielo dico.» «L’ultima sigaretta» dice il Viet. «L’ultima e poi andiamo, e giuro che apro la strada fino a stasera.» «Non vuoi sederti?» domanda Galerio indicando al ragazzino la porzione libera della panca. «Sto bene così» lui dice. «Mi sono già riposato dentro.» «E una bandiera ce l’avete?» domandi mentre il Viet cerca da fumare. «No» dice il ragazzino sorpreso. Per un po’ pensa a come potrebbe cambiare la vita del Kappa Gi Esse se adottasse un vessillo. «Appena andiamo in missione con la bandiera lo capiscono tutti che siamo una banda.» «È il bello delle bandiere» dici. «Quando serve restare in inco-gnito, le puoi tenere nascoste da qualche parte.» «Poi la tirate fuori quando conquistate un posto nuovo» dice Galerio. «Non so» dice il ragazzino. «Alla fine su queste cose decide il Numero Uno.» «In fondo è tuo cugino» dice Galerio. «Un minimo t’ascolterà.» «Prima che andate» dice a bruciapelo, «non vi va di vedere le nostre capanne?» Galerio scruta il ragazzino di sotto in su, come gli fosse apparso sotto una luce nuova. «Forse è meglio di no» dice. «Quella di Numero Uno è tutta di legno, con il pavimento, e dentro c’è un divano. È lì che facciamo le riunioni. Però se ci attac-cano la mia è la più sicura. C’è una trappola, davanti all’uscio. Se non lo sai, ciao, finisci in un buco fondo così» dice, e con il taglio della mano si colpisce fra le costole.


In questi tempi paranoici, ti risuona in testa la telescrivente della prudenza, meglio non andare a visitare nessunissima capanna con i figli degli altri. Nemmeno per complimentarsi delle trappole ingegnose che le circondano. «L’ho riempito per metà di ortiche» ride. «Però se venite con me vi spiego in tempo tutte le trappole.» «Sei gentile» dici, «ma abbiamo ancora un sacco di strada da fare, prima di sera.» «E poi» dice il Viet, «magari il resto della banda non è d’accordo, con l’idea di mostrarci le capanne.» Il ragazzino solleva ad arco le sopracciglia, e il suo sguardo è contrito, in qualche modo stupefatto dalla puntualità del messaggio. «Però devi salutarceli, Numero Uno e gli altri ragazzi» dici sollevandoti in piedi. «È stato un piacere, sapere che esistono anche qui bande come voi, che vanno in missione e tutto il resto.» «Bande a cui non importa un fico secco delle femmine» dice il Viet. «State allegri finché dura.» Prima di infilare le braccia negli spallacci, pensi che ti piacerebbe regalare qualcosa di adatto al ragazzino, e l’unica cosa che ti viene in mente è la carta in scala 1:50.000 che vi ha condotto fin qui. «A noi ormai non serve più» dici porgendola al ragazzino. «Co-sì» dici, «quando il Numero Uno deciderà di portarvi in missione verso il valico, non vi perderete né niente.» Lo aiuti ad aprire la Kompass sul tavolo, e presso il margine destro, quasi a ridosso della cornice bianca, gli mostri la frazione di San Rocco assediata dal disegno corrugato degli affioramenti rocciosi, e il capoluogo posto a cavaliere del fiume nel punto in cui le acque superano le strette della valle. Adesso i segnavia biancorossi sono verniciati direttamente sul guard rail della strada maestra, e un ampio marciapiede lastricato ne accompagna il percorso, costretto tra il fianco della montagna che incombe sulla sinistra e il solco rettilineo d’un canale artificiale. Il Potenza serpeggia oltre la distesa brillante dei campi, ai piedi della tenaglia di roccia che chiude la valle a Sud. La piana irrigata compresa fra i due corsi d’acqua è simile a un unico grande orto. Se segui con gli occhi la processione d’alberi che fa ala al fiume, ti accorgi con esattezza di come il canale si appresti a confluire nel suo letto, e di come tutto quell’aperto sia destinato a trasformarsi in una strozzatura. Marciate incontro all’abitato, il campanile romanico e il gregge di tetti aggrappati alla riva del fiume, e la prospettiva sembra chiudersi a ogni passo come se il regno in pace dell’alta valle fosse separato in maniera netta dal resto del Paese. Una targa assicurata alla roccia che strapiomba sulla strada svela l’antico segreto di quella via. Si tratta d’un’antica variante militare della Flaminia, non meno ardita del tracciato che esce dai monti alla Gola del Furio, e tu puoi immaginare schiene a centinaia di prigionieri e schiavi condannati a erodere il fianco della montagna. Tutto quello che resta dei campi brillanti di cui non vedevi la fine è un estremo corridoio di terra che conduce a un ponte basso, proteso sugli argini che imbrigliano la confluenza delle acque.


L’unico nome dell’orizzonte, adesso, è la sforcatura fra le pareti opposte di roccia, le ganasce ravvicinate della tenaglia che fanno apparire il paese di Pioraco arroccato al limitare d’un grande salto, sospeso fra gli elementi come l’ultimo paese del mondo. Case simili a tane arroccate dominano il minuscolo centro, e già l’ombra immensa della dorsale s’allunga dietro di voi. Ci sono vecchi seduti all’ombra sulle panchine del lungofiume, e mentre saluti quanti non distolgono lo sguardo all’ultimo momento, cerchi di indovinare quale può essere l’aspetto della valle oltre questo nido di case stretto fra acqua e cielo Aggirate il municipio lungo la strada maestra, e lo stemma del comune è un crostaceo circondato da una panoplia di elmi e co-razze da legionario, a memoria di quando qui era stanziata in permanenza una guarnigione. Sei mangiato vivo dalla curiosità per il nuovo orizzonte, ma quando la strada piega a gomito verso valle è come se tutto si congelasse. Ci vuole qualche secondo per ammettere con te stesso che la carreggiata va a gettarsi, scendendo con inclinazione invi-tante e quasi beffarda, nell’orbita in cemento d’una galleria. «Puttana Èva» dice il Viet. «Va bene seguire l’asfalto, ma dentro i tunnel del menga non ci entro.» «Non c’è neppure il marciapiede» dice Galerio sporgendosi verso l’imboccatura. «Come cavolo facciamo?» «Forse» dice il Vietnamita «c’è una corriera che arriva dall’altra parte, senza rischiare la vita per l’anima del cazzo.» «Altrimenti facciamo l’autostop fino all’uscita» Galerio dice. «Sono arrivato a piedi fin qui, e non ci doveva essere nessuna galleria. Quindi calma» scandisce la tua voce che calma non è. «Ci dev’essere per forza, un’altra strada senza tunnel.» Piccole carovane d’auto in viaggio verso valle, e di certo le persone a bordo non sanno quanto hai speso per studiare un percorso che ti portasse da un mare all’altro senza imboccare nessunissima galleria. Fra le soglie delle case affacciate sulla strada si apre la luce di una bottega aperta; è la bottega di un cartolaio, e il titolare, sostenuto dalla sua unica cliente, vi garantisce che esiste il modo di evitare la galleria. «Per i forestieri» conviene la donna, «può essere un’impresa, trovarla da soli.» Parlando un po’ per uno, mettono assieme i pezzi di una spie-gazione articolata e apparentemente troppo fitta di deviazioni per poter essere ospitata dal modesto nido di case arroccate da centinaia di anni nel punto più stretto della gola. Alla fine, l’unica cosa chiara è che la vecchia strada oggi passa attraverso il cortile di una cartiera. «Ma non c’è da avere paura» dice la donna. «Gli operai sono bravi ragazzi, tutti del paese.»


«Vi fanno passare» l’uomo garantisce. «Alla fine, si tratta solo di traversare il cortile.» Quando arrivate in vista della recinzione della cartiera, avete perso quota e siete come schiacciati ai piedi delle pareti a strapiombo. C’è un cancello aperto, entrate, e ci sono magazzinieri in canottiera che stivano bobine di carta all’ombra di una tettoia. «Dovete proprio passare di qua?» domanda uno di loro. «Questione di un secondo» dice il Vietnamita mentre puntate il varco stradale all’altro capo del cortile. Se insistono toccherà litigare, che quel cortile per voi è l’unico passaggio possibile verso l’Adriatico, ma restano a guardarvi senza farla tanto lunga. Presso l’uscita della cartiera, la bocca colossale d’un nuovo tunnel in costruzione incombe sul tracciato, e una gigantesca talpa meccanica capace di scavare il ventre della montagna riposa incustodita contro il fondo della cavità. Poi la strada si insinua all’ombra di una struttura costituita da un castello di tubi innocenti sui quali poggia un tetto d’assi, e camminando nell’ombra del passaggio obbligato non riuscite a capire se la struttura è pensata per puntellare il fianco della montagna o piuttosto per riparare la strada nel caso di una frana. È come traversare l’antico cassero d’una porta che separa due parti ben distinte della vallata, e quando tornate a camminare lungo la riva nella luce sobria delle quattro di pomeriggio, l’acqua del Potenza è già torbida. La strada maestra scavalca il fiume grazie a un ponte in muratura, e l’imboccatura del vostro sentiero occhieggia fra i cigli erbosi, orgoglioso di mantenersi a mezzacosta. Procede per curve lente che aggirano le sommità di colli sempre più modesti, finché sotto di voi non si spalanca a perdita d’occhio lo scenario da incubo d’una piana fitta di capannoni industriali. Sorgono ai lati della strada e sorgono a scacchiera attraverso la distesa dei campi. I loro dorsi piatti biancheggiano sotto il sole con l’insolenzà delle cose giovani, progettate per costare poco. È un paesaggio che leva la forza, e l’aria calda che stagna a fondovalle è qualcosa che all’inizio puoi quasi toccare. Nella rabbia che provi, pensi che se qualcosa ti ha condotto fin qui, forse doveva essere una cattiva magia. Verso Sud, sullo sfondo di montagne ancora verdi, si staglia il centro di Camerino, arroccato lungo la cresta d’un colle, e forse in quella direzione ci sarebbe ancora speranza, ma non a Est dove andate voi. L’hai visto giovane, il fiume, hai camminato lungo le gabbie di sassi dell’argine, e non è semplice vederlo ridotto a scorrere lento nel suo nuovo letto deputato a raccogliere gli scarichi delle industrie. È come se la fatica di duecentocinquanta chilometri di marcia ti fosse piombata addosso tutta insieme, e dentro le pedule in Gore-Tex senti i piedi frollarsi a ogni passo sotto il peso dello zaino.


«Domani» dici «recuperiamo Leo e come prima cosa abbando-niamo la valle.» «Sì» dice il Vietnamita. «Qui si prospettano bivacchi da vomito.» «Potremmo camminare anche stanotte» consideri, ma nessuno ti prende sul serio. Se l’orrore vi sfida, voi psicoatleti dovreste accettare la sua sfida. Se la bruttezza vi chiama per nome, dovreste essere abbastanza forti da raccogliere il suo guanto. «Troppo facile» dici cercando di tenere sotto controllo le gambe, «avere sempre a che fare con la bellezza. Roba da fighetti.» Non procedi proprio in linea retta, e forse dovresti fermarti un attimo a rifiatare. «L’aria di questo posto avvelena» dice Galerio, e poi dice che ormai Castelraimondo non può essere lontana. Hai letto che è un paese grazioso, e niente di quello che si stende intorno a voi lo è. A metà strada, dove il sentiero passa sotto all’edificio restaura-to d’un piccolo castello chiamato Villa Lanciani, il Vietnamita sfila lo zaino e si lascia cadere seduto sull’erba. «Così ci ammazziamo» dice. «Io non ce la faccio più.» Anche Galerio sembra esausto. All’inizio si sdraia a occhi chiusi, ma quasi subito chiede il Voltaren per massaggiare il ginocchio. «Non possiamo restare qui» dice. «Ormai che ci siamo avvicinati alla civiltà dobbiamo trovare dei soldi e rimetterci in forze.» «Io mi sarei rotto il cazzo, di faticare come una bestia.» «Arriviamo in centro» mormori, «ci sarà un parco o qualcosa del genere.» «Ho il bancomat e non voglio dormire in un parco» il Vietnamita dice. «Sono a pezzi, e se questa notte non dormo in un letto ve-ro, da domani potete considerarmi un cadavere.» «Per me va bene» dice Galerio. «Se troviamo una pensione da poco, per me va benone.» Cosa fanno, ti si ammutinano sotto il naso? «Ho il ginocchio gonfio» aggiunge Galerio. «Una notte in un letto vero potrebbe farmi bene, no?» Guardi il ginocchio di Galerio, le tracolle posizionate a doppia bandoliera che gli segano le spalle, e poi guardi le mani del Viet, le dita avvinghiate agli spallacci dell’Invicta. Se questo è un ammutinamento, hai di fronte gli ammutinati più gentili e supplichevoli che si siano mai visti. «D’accordo» dici. «In paese però dobbiamo arrivarci con le nostre forze. O volete chiamare un taxi?» A Castelraimondo fervono i preparativi per la festa dell’Infiorata, e il viale principale è pavesato di bandiere scarlatte.


«Sembra un’accoglienza da campioni» dice Galerio, «anche se per strada non c’è quasi nessuno.» I negozi hanno già chiuso, ma per fortuna trovate subito un bancomat, e con i soldi in mano il Vietnamita sembra rianimarsi. «È stata colpa mia se ci hanno derubato» ammette per la prima volta. «Ma stasera mi faccio perdonare. Vi voglio vedere ubriachi come marinaretti appena sbarcati a Gibuti.» Poi s’infila nel primo bar, e poco dopo ne esce sorridendo. «Ho prenotato una tripla nell’albergo migliore del circondario» dice. E, con la forza dei rituali che affiorano dalla memoria, sbarra gli occhi e indica il cielo. «Primo a fare la doccia.» L’Hotel Kappa è un edificio moderno che sorge sul fianco d’un colle, appena fuori dal centro del paese. In fondo al corridoio che conduce alla vostra camera, basta abbassare il maniglione rosso di una porta antipanico per ritrovarsi su un’ampia terrazza dal fondo impermeabilizzato a catrame. Da lassù lo sguardo può spaziare sui tetti del paese e il mare d’alberi che risale verso l’alta valle. Le prime finestre illuminate producono un alone fioco, che sfuma sulle facciate color cenere delle case, e domani lascerete la strada maestra per tornare a rifugiarvi fra le colline, dove non si vedono luci e nessuna automobile potrà seguirvi. Quando ormai è buio scendete in paese per mangiare qualcosa senza lasciarvi costringere al ristorante dell’hotel come villeg-gianti qualsiasi. Interrogando un paio di giovani venite a sapere di un pub irlandese, e per tutto il tempo in cui restate seduti al bancone i boccali non sono mai vuoti. «Alla fortuna» dice Galerio, «e all’uomo che verrà a salvarci. Se dobbiamo dormire in albergo da qui al mare, siamo rovinati un’altra volta.» «Intanto qui ci siamo arrivati» dici. «E domani Leo dovrà svegliarsi presto, se non vuole mancare le coincidenze.» «Non viene in macchina.» «Dopo gli tocca tornare a prenderla» dice Galerio. «Parte in Eurostar verso Ancona, laggiù aspetta un’ora l’inter-regionale per Fabriano, e forse a San Severino arriverà su uno di quei carrelli da ferrovieri che avanzano sui binari a forza di braccia.» «Comunque è assurdo» dice Galerio. «Ci sono le tipe sedute al tavolo in fondo vestite da fan degli Oasis, beviamo birra irlandese e l’unica cosa che servono da mangiare a quest’ora sono olive al-l’ascolana.» «Intanto siamo qui, ha ragione il capospedizione» dice il Vietnamita osservando in controluce la fuga delle bollicine di birra.


«Ma il capospedizione, se non era per me, era ancora fermo al primo paesello dell’Umbria.» «Addirittura» dici. «Quella radura del menga vicino al convento in restauro. Te lo ricordi come stava il tuo piede, sì?» «Adesso va meglio» dici. «Niente più bolle sul tallone, né bolle sotto la pianta. Stanno diventando calli, credo. Ma non sono sicuro sia merito tuo.» «Mio e delle foglie. Sono loro che ci hanno sostenuto e guidato.» «Va bene» dici. «Però per cento e passa chilometri con mio fratello siamo andati avanti senza neppure sapere cosa fossero, le tue foglie.» «Non essere ingrato» il Viet dice. «Eri l’uomo più felice del mondo. Volevi persino scendere in paese a rapire le vergini.» «Non ne so niente» Galerio dice. «Usciamo a prendere un po’ d’aria?» «Era lui, che voleva rapire le vergini. Io magari, su di giri com’eravamo, gli avrò dato corda per non deluderlo.» «Però eri felice. Adesso dimmi che facevi finta, per non deluder-mi, e su in albergo ti taglio la testa.» «Ma sì» dici. «È solo che non so bene cosa pensarne.» «Il mondo deve conoscere questa benedizione. Altroché articoli su “Lancet”. Migliaia di ragazzi che marciano per il paese sostenuti dalle foglie d’una pianta mite. Li vedo a dozzine di migliaia. Com’è che si dice, già? Non verbis sed herbis redeunt in corporei vires.» «Devi pagare tu, Viet. Sei l’unico che ha i soldi.» «Stralunami. Sto ancora bevendo.» Quando il barista abbassa le luci non serve insistere più di tanto per ottenere il grappino della staffa. Il pub affaccia su una piazza, e appena fuori vi accorgete che presso l’angolo più remoto sorge una scultura in marmo a forma d’anello, montata su un basamento verticale che spicca dal lastricato per forse un metro. A te ricorda semplicemente una ciambella, e poi, man mano che vi avvicinate, un cerchio di fumo rappreso in aria. «Questa non è roba futurista» dice Galerio. «Facevano tutto a spigoli, loro.» Non c’è una targa né niente, e forse la scultura è opera di un qualche maestro locale.


«Siete proprio dei balenghi» dice il Viet fiutando il marmo. «Lo so io cosa rappresenta questo buco.» Poi aggira la scultura, arretra di cinque o sei passi, e lo vedete sgranchirsi e ruggire come il leone che si prepara a saltare attraverso il cerchio di fuoco. «Dite che non ci passo in mezzo, se prendo bene la rincorsa?» «Lascia perdere» dici. «È bassissimo. Lo sai che da sdraiate sono tutte alte uguali, no?» «È fuori» dice Galerio. «È fuori e parla da fuori.» «Sarà un metro scarso» insiste il Viet, «e per quanto è largo il buco, ci passerebbe un ciccione.» «D’accordo» dici. «Ma tu ubriaco come sei inciampi e ti sfracel-li contro il piedistallo.» «Su» dice il Viet. «Un po’ di spettacolo. Ci passo in mezzo. Voi state esattamente dove siete e mi salvate la vita prima che atterro. In due non è difficile.» «Ci vorrebbe un materasso» dice Galerio. «Due o tre materassi.» «Io non ti prendo» dici. «Mi preparo una sigaretta, uomo» dici mostrando la busta del tabacco attraverso l’occhio della scultura. «L’alcol potrà offuscare la mia agilità» proclama il Viet, «ma niente può arrivare a sterminarla del tutto.» «Sterminarla?» domanda Galerio, e ridete tutti e due mentre il pazzo prende la rincorsa e si tuffa braccia avanti.

GIORNO SEDICI. Da Castelraimondo al Rifugio Manfrica. Alle undici le poche case di Valeano appaiono inondate da un so-le abbacinante, e l’aria calda che risale da fondovalle produce la sua particolare forma d’attrito che vi costringe ad attaccare le salite a zig zag. Galerio cammina con una ginocchiera elastica, sforzandosi di non poggiare il peso sulla gamba malconcia, e mentre riprendete quota pensi che più tardi il treno del Vietnamita e quello di Leo s’incroceranno da qualche parte, lungo una galleria dalle parti di Fabriano o chissà dove.


Un compagno ha abbandonato per kappaò tecnico, e un ragazzo di cui non sai quasi niente sta arrivando a salvarvi. Cambia tutto, sì, e l’unica cosa che resta uguale a se stessa è la danza dei passi, la sorpresa e il piacere di portarsi con le proprie forze lontano dal traffico della strada maestra per attaccare da ca-po la salita e vedere se almeno lassù, fra gli altopiani e i pascoli sterminati che dominano il fondovalle, c’è ancora spazio per la terra selvaggia. In località Collina abbandonate la strada asfaltata, prendete a seguire i segnavia che conducono per i campi al paese di Crispiero. La pendenza adesso è lieve, ed è un sollievo camminare sul fondo d’una sterrata lungo la quale non arriva nessuno, attraverso una campagna dura, assediata dai monti. L’addome bianco delle gazze e le loro code graduate, lustre come di velluto, spiccano fra le fronde degli alberi, e sparsi lungo i crinali che dominano la contrada potete contare i profili delle torri d’avvistamento in rovina. «Abbiamo fatto bene, a mollare la strada maestra» dice Galerio. «Laggiù la fatica ti abbrutisce. Quanto ci ha lasciato il Viet?» «Tutto quello che gli restava dopo aver pagato l’hotel e il biglietto del treno. Non so se basterà.» «Potevamo farci prestare il bancomat.» «Così appena becchiamo Leo, ci toccherà chiedergli un prestito fino al mare.» «Avrà capito la situazione?» «C’è poco da capire. Mi sembra un ragazzo a posto, e uno che dice le cose come stanno. Se non voleva saperne, non avrebbe promesso di venirci a salvare.» «In fondo abita sopra casa tua. Non è che può tirare il pacco e sperare di farla franca per sempre.» «Già» dici. «Spero solo non si sia sentito in obbligo, ma non credo. Sembrava contento, e a quest’ora sarà sul taxi per la stazione.» «È uno dei tuoi amici di nuovo modello» fa Galerio, e in nessun modo quel che dice somiglia a una domanda. «Un padre di famiglia, suppongo.» «Lo è» dici sgomento. «Infatti prima di lui ho conosciuto il pianto di sua figlia. Era una neonata, quando mi sono trasferito nella nuova casa, e adesso la cara Darma ha già cinque anni.» «Darma. Bel nome da fricchettoni» approva Galerio. «La madre è un’italoamericana di Akron, Ohio» dici. «La stessa città dei Devo. E anche se non sono i Devo, quella di Leo è una famiglia simpatica.» «Lui è fricchettone?»


«Non da fuori. È un piccolo industriale e un tifoso del Bologna.» «Per i nomi ha gusto» dice Galerio. «E il fatto che non abbia sposato una fichetta della presunta Bolognabene mi fa quasi perdonare che è un industriale. Io, l’unica volta che ho lavorato in un’industria, facevo i turni alla catena di confezionamento della Pasta Corticella.» «Un paio di estati fa.» «Prima di Londra» sospira Galerio. «Dovevi stare in piedi otto ore a raccogliere nidi di tagliatelle e disporli quattro alla volta dentro le scatole che sfilavano sul nastro. E dovevi sbrigarti, perché il nastro portava le scatole alla macchina che le sigillava. Appena ti distraevi iniziava a sigillare delle gran scatole vuote, ogni dieci scatole vuote scattava la trattenuta dal salario. Ho resistito meno di un mese. Da allora ho deciso che con le industrie non voglio più avere a che fare.» «Quella di Leo è una piccola ditta di parti meccaniche. Credo che fra lui e i dipendenti siano una dozzina in tutto.» «A parte che è molto più ricco di noi, come se la cava l’uomo?» «Oi. Deve resistere solo quattro giorni.» «Se resisto io» proclama Galerio, «con questo ginocchio devastato, un uomo sano ce la fa di sicuro.» Pruni in fiore spiccano sul fianco dei colli che fanno da sipario al sentiero, e per un po’ potete illudervi di essere tornati a camminare attraverso la terra selvaggia. Il borgo di Crispiero è una trincea di case alle pendici del monte che porta lo stesso nome. Affaccia verso meridione dominando una curva della provinciale per Camerino. Evitate l’asfalto e risalite piegati fra le case dalle facciate in sasso, e adesso la vedete rosata e maestosa davanti ai vostri occhi, l’antica capitale del Ducato. La città sviluppa in lunghezza lungo la cresta d’una dorsale secondaria, e da qui non si distingue più la stretta valle del Potenza. L’aperto di colline ondulate sembra rendere omaggio al profilo vicinissimo e circonfuso d’azzurro dei monti della Sibilla. Pensi che al Viet sarebbe piaciuto essere qui, e pensi che adesso l’infiammazione alle vertebre cervicali è solo il penultimo dei suoi problemi. «Ce la farà» dici, «a scendere dal treno da solo?» «Poteva ammazzarsi, ma non si è mica rotto niente, alla fine. Gli è andata bene che siamo riusciti a fare da cuscinetto.» Ripensi al siluro da ottanta chili in cui si è trasformato il vostro amico la notte scorsa, alla stupefacente traiettoria con la quale si è tuffato braccia avanti attraverso la scultura ad anello per rovinar-vi addosso.


«Passare è passato, la sfiga è che ha perso l’assetto alla fine» di-ce Galerio. «Era impossibile che ce la facesse, con gli scarponi e tutto. Non so cosa sperava.» «È già tanto che non ha battuto la testa contro il marmo. Se batteva la testa, altroché lividi e distorsioni.» Forse ha ragione la sua ex. Se pure il Vietnamita non sta marciando a grandi falcate verso la follia, c’è qualcosa in lui di urlan-te e indomabile che lo rende inadatto alla vita civile. In piedi sulla scaletta del vagone, ha voluto stringervi le ma-ni, per come riusciva a stringerle col polso malconcio e le noc-che scorticate. Le sue gambe erano chiazzate dalle pennellature di mercurocromo, e anche se la guardia medica aveva assicurato che non c’erano fratture, non riusciva a muovere il braccio sinistro. Lo portava appeso al collo con il foulard, e diceva che se al Rizzoli gli trovavano qualcosa, la guardia medica di Castelraimondo avrebbe avuto presto notizie da un suo cugino avvo-cato. Dal finestrino poi diceva di avere capito un sacco di cose, durante questi giorni. Che si sente concentrato come un grande ju-doka, adesso. E vuole ribaltare gli avversari senza muovere un di-to. «Subire finché non si stancano di colpirlo e cadono da soli. A un certo punto non lo seguivi più.» “Subire è solo una questione di respirazione”. Cosa stava vedendo mentre diceva così? «Però» sospiri, «alla fine sembrava davvero sereno.» «Faceva paura, tumefatto com’era. Comunque hai ragione. Sembrava in pace. E quando ha detto che non si deve piangere sui compagni caduti ma andare avanti anche per loro?» «Si raccomandava di mirare alla vittoria con l’aiuto degli dèi.» «Quando ha tirato fuori gli dèi, regiz, mi ha lasciato di sasso.» «Poi però s’è corretto. “Fate ben senza, che con gli dèi a favore ce la fanno anche i codardi.» «Quel ragazzo» dice Galerio. «Dovremo stargli vicini, quando torniamo in città.» Oltre il cimitero, la lingua d’asfalto finisce e lascia a nudo il tracciato della mulattiera scavata nella terra rossa e sassosa del monte. Un solco di pneumatici da cross è l’unica traccia d’un passaggio recente, e voi lo seguite finché sul lato opposto non s’apre un sentiero che punta a vista un altopiano incolto e disseminato di ginestre. La gobba di prati dell’altopiano di Crispiero si protende verso Nord sulla valle del Potenza ed è strano pensare che, sprofondate ai suoi piedi, corrono affiancate la statale e la ferrovia mentre qui potete camminare di nuovo vicini al cielo. Dopo mangiato, riposate allungati sull’erba tiepida, e le nuvole sembrano immobili sopra di voi. Pensi a quale forma prenderà il gruppo quando Leo sarà a bordo, e pensi a quando, insieme a Galerio e


gli altri amici più urbanizzati e mods, viaggiavate lontano dai treni speciali verso Ma-rassi o il Rigamonti. Portavi uno stendardo piegato sotto il giubbotto, e tante volte hai avuto paura ma non ti sei mai nascosto. «Te lo ricordi» dici, «quella sera che i Commandos Tigre ci hanno accerchiati sotto l’entrata ospiti di San Siro?» «Ce la siamo giocata» dice. «Anche quando la curva del Marsiglia ha caricato attraverso i distinti e ci siamo trovati in prima linea.» «Qualcuna l’abbiamo fatta.» «Però in un’altra vita, in un certo senso.» «Da qualche parte avranno i filmati.» «Non staremo diventando vecchi, vero?» «Può darsi» ridi. «Era diverso» dice Galerio. «Avevo meno pensieri.» Lo guardi, e in fondo anche per te è così. «Ogni tanto penso all’Assiro» dice a bassa voce. «A quando abbiamo seguito la squadra a Reggio Ca-labria e lui ha voluto fare il bagno.» «Era febbraio» dici, e rivedi il vostro amico con i calzoncini ufficiali da gioco e coperto di tatuaggi com’era alla fine, mentre scende incontro alle acque gelide dello Stretto per tirare su il morale del pullman dopo dodici ore di viaggio. «È alla fine perdem-mo anche. Una partita ventosissima con rete di Possanzini.» Parli della partita e pensi al pomeriggio in cui Galerio ti chiamò per darti la notizia. «Hai saputo?» era l’unica cosa che aveva detto. Poi si era messo a singhiozzare, e dopo un po’ che singhiozza-va aveva chiamato per la prima volta l’Assiro con il suo vero no-me. E tu, anziché raggiungerlo per bere insieme all’anima del vostro amico, se non ricordi male ti informasti su come era accaduto. D’altronde eri occupato. Avevi da fare, pietà per la tua testa di cazzo, al computer. E così ti limitasti, più o meno, a domandare se era già stata fissata la data per la cerimonia. Là poi c’erano tutte le brigate della città, perché l’Assiro lo conoscevano tutti, e solo quando un ultimo applauso ha accompagnato la discesa del fere-tro hai fatto in tempo a realizzare che il suo sorriso non avrebbe mai più fatto innnamorare nessuna ragazza, né mai sarebbe ri-suonato su questa terra il suo grido di battaglia. «Tu ci credi, che adesso è da qualche parte?» domanda Galerio. «Che lo rivedremo, la sua anima, o quello che è?» «Non lo so» dici. «Da piccoli ci hanno abituato a crederlo, e vorrei che fosse così.» «Non so se è un giardino o cosa» Galerio dice. «Ma credo che si vive una volta sola, e dopo si finisce in una specie di giardino.»


«A Malcolm racconterò così» dici. «Che ci rivedremo tutti. Altrimenti ho paura che non gli basterà il coraggio.» «Sono dei disgraziati» dice Galerio sollevandosi a sedere, «quelli che credono di aprire gli occhi ai ragazzini e in realtà li di-silludono.» A metà pomeriggio distinguete l’eco di spari, e il sentiero solca l’altopiano fino a ricongiungersi con una rotabile imbrecciata. Conduce verso un lungo edificio bianco cinto da un giro di cipressi, e Galerio dice che forse è il tiro al piattello. Invece è una villa, e poco dopo ne superate una seconda e una terza, e il fiotto degli irrigatori automatici frusta fasulli prati all’inglese, isole se-questrate fra la recinzione e le volumetrie luminosissime progettate da architetti di città. Poco più avanti la rotabile va a gettarsi su una strada asfaltata, e per tutto il tempo in cui vi avvicinate all’incrocio sentite l’eco dei colpi risalire dall’intrico d’alberi della gola che scende alla vostra sinistra. S’incunea fra il ripido versante orientale dell’altopiano che avete traversato e il cono del Monte d’Aria, e sembra solcata in profonità dal corso d’un ruscello. Così, prima di tornare a cuocervi i piedi sul bitume, controlli la tavola dell’Istituto Geografico Militare, e il ruscello scende a gettarsi nel Potenza un paio di chilometri a monte di San Severino. Una buona sterrata scende sulla costa destra fino al Rifugio Manfrica, e da lì potete scegliere se proseguire diretti per il paese oppure arrivarci lungo il sentiero che si tiene alto sulla riva del ruscello. «Le curve di livello non scherzano» dici. «Sembra un passaggio sospeso sull’acqua, e dopo qualche chilometro ci sono delle grotte.» «Grotte di Sant’Eustachio» legge Galerio. «Sarà un posto da eremiti.» «Vediamo a che ora siamo al rifugio» dici piegando in modo approssimativo la mappa. «Il sentiero delle grotte sembra più bello, ma non mi va di fare aspettare Leo in paese.» La sterrata inclina a valle in modo dolce. È quasi tutta all’ombra, e adesso non si sente più sparare. «Dov’è l’appuntamento?» dice Galerio. «Rigorosamente alla stazione. All’inizio pensavo di farlo arrivare con le sue gambe fuori dal paese, ma era già abbastanza preoccupato all’idea delle coincidenze.» «Vedrai che per le sette ci siamo.» «Chissà che tenda ha portato.» «Non una canadese, voglio sperare.»


«Figurati» dici. «È uno che va alle riunioni dei piccoli industriali, lui. O forse lo invitano e non ci va.» «Dici che è passato da Playsport e ha comprato una nove posti da safari?» «Qualcosa del genere» dici. «Basta che si stia comodi.» «Sono un po’ intimorito» dice Galerio. «Un conto è dormire in tenda con il Vietnamita o i reginaldz, un conto è insieme a qualcuno che non hai mai visto.» «Fossi in te starei tranquillo. È lui che in questo momento si starà domandando in che razza di avventura s’è cacciato.» Il Rifugio Manfrica è un edificio in muratura a un solo piano, e le ante arrugginite dell’ingresso sono chiuse da un lucchetto per rompere il quale non basterebbe un normale tronchese. Sotto lo spiovente del tetto, oltre all’ambiente principale trova posto un ricovero cui si accede tramite una porticina d’assi chiusa da un semplice gancio. È un ambiente che ricorda una piccola stalla: l’impiantito è coperto di paglia asciutta, e sulla parete opposta al-l’ingresso sono murate a un braccio di distanza due anelle coperte di graffi. «Sarà uno di quei posti in cui la Forestale cura gli animali feriti» dice Galerio. «Non ne ho mai visti, ma li ho sempre immagina-ti così.» Non sono ancora le cinque e voi infilate la macchia lungo una traccia da boscaioli che scende verso il ruscello. Scavalcate grandi rami e le radici affiorano all’improvviso sotto il fondo di foglie morte, seguendo il profilo della costa che verso sinistra precipita. «Quanto ci vorrà per le grotte» domanda Galerio dopo un po’ che avanzate in silenzio, misurando ogni passo e preparando il successivo senza distogliere lo sguardo dalla terra. «Non saprò leggere le mappe, ma sembravano quasi all’inizio del sentiero.» «Secondo me» dici, «aggirato il prossimo costone ci siamo.» Continuate a testa bassa, sempre più immersi nel bosco, e il Rifugio Manfrica dev’essere l’unica costruzione della valle, perché qui non si vede un fazzoletto di terra pianeggiante, né il sommo della costa alberata. Ormai avrete camminato due o tre chilometri, e oltre alla traccia che snoda sempre più tenue fra i cespugli e i tronchi grigi dei castagni, c’è solo la cima degli alberi arrampi-cati fra voi e il letto del ruscello. Quando la boscaglia si fa meno fitta, potete vedere vicino in linea d’aria il versante opposto della gola, le pareti a nudo che rendono inaccessibile per quella via l’altopiano. Pensi che doveva essere una tappa tranquilla, e invece ti stai trasformando da capo nel grande Mascheradi-Sudore. Fronde ostruiscono il sentiero, e nei passaggi esposti serve fare attenzione ai piccoli smottamenti che si producono sotto gli scarponi. «Servirebbe un machete» dice Galerio alle tue spalle, «o perlomeno il temperalapis del Viet.»


«In questo modo, quando arriveremo alla stazione di San Severino, faremo la nostra figura. Io mi sto graffiando le gambe a tutto spiano, e ho visto ortiche dalle infiorescenze violacee che devono essere perlomeno velenose.» «Non dire così» geme Galerio. «Già mi brucia da impazzire, e se dici che erano velenose m’imparanoio.» «A me pare che non stiamo andando da nessuna parte» dici. «Ancora un costone, e se non si vede qualcosa che somiglia a una grotta, forse abbiamo sbagliato strada.» «Però siamo scesi.» «Già, ma sulla carta le grotte sembrano vicinissime al ruscello. Invece noi non ci schiodiamo da mezzacosta, e il ruscello è sempre più in basso.» Guardi giù, e forse neppure una biglia potrebbe scivolare fra gli alberi fino alla riva senza restare prigioniera nel fitto della macchia. «Quasi non la sento più, l’acqua.» «Neanch’io» dici. «E in questo silenzio non mi sembra un buon segno.» «Quindi il sentiero giusto è sotto di noi.» «Molto sotto, mi sa.» «Stai per dirmi che dobbiamo tornare indietro, vero?» Così imboccate la traccia a ritroso, scendendo verso le pieghe della gola dalle quali sgorgano minuscoli rivi e risalendone il pendio opposto, e adesso non è più così semplice trovare la strada fino al rifugio. La mappa militare in scala 1:25.000 è piegata in tasca e chiazzata di sudore, del po’ di sangue che una spina t’ha fatto uscire da uno sgraffio sul dorso della mano. Adesso non fai altro che aggirare cespugli, schivare fronde e seguire i polpacci di Galerio. Sbucano dai calzoncini che le prime sere ha impiegato per dormire, e ormai ha imparato a gestire a perfezione l’ingombro delle zavorre. Ha trovato un ritmo e uno stile, e sei contento che guidi lui la risalita. «Comunque sparano, da queste parti.» «Oi.» «Chissà a cosa sparano.» «Tu quando hai visto l’ultimo biancorosso?» «Fammi pensare. Ne ho visto uno solo. Verniciato su un tronco a dieci metri dal rifugio, dove ci siamo


infilati nel bosco.» «Ho paura che non abbiamo visto un bivio.» «Allora doveva essere all’inizio» dice Galerio. A un certo punto trovate ai piedi d’un cespuglio una dozzina d’aculei d’istrice ancora lucidi, e tu ne raccogli uno lungo mezzo braccio da portare a Leo. «Domani lasciamo la valle» dici mentre lo infili in orizzontale sotto le cinghie nere del Salewa. «Non so se dove andiamo ne troveremo altri.» Quando risbucate in vista dell’edificio, vi sembra di sentire qualcuno che canta a mezza voce. Avanzate cauti, e fino all’ultimo l’erta vi nasconde il piccolo spiazzo davanti al rifugio. «Io voglio amare chi ama me» va avanti una voce d’uomo. «Chi notte e giorno» si corregge «sta in prigion per me.» Galerio avanza in diagonale per scorgere in anticipo chi sia il cantante. Lo vedi scrollare le spalle, e un attimo dopo anche tu scorgi il telaio giallo d’una mountain bike abbandonata nell’erba, i catarifrangenti che adornano i pedali dentati e il profilo d’un ragazzo pasciuto che cantando legge una rivista. Quando vi vede smette di cantare e si solleva di scatto in piedi. La faccia è larga e pare devastata dagli effetti d’una rasatura alla cieca. Il giro argenteo d’una catenina spicca intorno al collo mas-siccio, e sotto la carne arrossata della gola risplende una piastrina da militare. «Trànquilo» dice Galerio. «Siamo in gita e ci siamo persi.» Il tipo resta a guardarvi indeciso se saltare in bici e riparare verso la sterrata che conduce in paese, ma voi avanzate mostrando le mani aperte, e quello ride. «E che non passa mai nessuno da qui» dice. «E dove andate in gita, alle grotte?» «Ci stiamo provando» dici. «Ma non abbiamo trovato il sentiero.» «È impossibile sbagliare» dice. «È segnato fino alla fine, e parte proprio da qui sotto.» Galerio ti guarda storto, e la rivista aperta a due passi dalla bici è un mensile dedicato al modellismo. «Mi sa che le grotte non le vedremo» dici. «Da qui è tutta discesa» dice il ragazzo, e per essere arrivato fin qui a cavallo della mountain bike, pesante come sembra, deve avere due gambe non comuni. Pensi che sono le sei passate e dovresti chiamare Leo per sapere se è in arrivo, ma guardi il primo tratto della strada bianca che sa-le cattiva, e adesso che avete risalito la traccia fin qui ti dispiace rinunciare alla discesa che il ragazzo promette. «Che razza di posto sono le grotte?» domanda Galerio sfilando la sacca da marinaio e la borsa del


materiale fotografico. «Hai presente quando cominci a fare il bullo con gli amici» sorride il ragazzo. «Quando credi di essere il primo, che va nel bosco a fumare e fare cose strane?» «Eh» dice Galerio. «Noi di San Severino andavamo sempre alle Torri di Crispiero, oppure giù alle grotte» dice indicando verso la macchia. «All’improvviso giri un costone e ti trovi davanti alla facciata di una chiesa che sbuca dalla montagna. Sembra un miraggio, ma non è un miraggio, è che la chiesa è proprio scavata dentro la montagna dove pregava Sant’Eustachio.» «Non ho ancora scattato oggi» dice Galerio. «Subito prima del crepuscolo, mi sa che il posto rende.» «Ha qualcosa di magico, solo che nessuno portava mai via la spazzatura, e a forza d’andarci l’abbiamo un po’ rovinato.» «Dev’essere magnifico» dice Galerio. «Ma per arrivarci bisogna essere degli atleti estremi.» «Non so dove vi siete ficcati» dice. «Basta seguire un vecchio lastricato che scende di fianco al fosso. Non è difficile, e poco sotto le grotte il sentiero diventa una strada larga abbastanza per le jeep. Posso venire con voi se volete» dice raccogliendo la rivista. «Quanto ci si mette, dopo, ad arrivare in paese?» «Un’ora» considera il ragazzo sollevando la bici per il manu-brio. «Io per le sette e mezza ho un appuntamento in piazza.» Così scendete da capo lungo la traccia, e anziché infilarsi nella macchia al primo segnavia, il ragazzo accompagna la bici lungo un dosso alle spalle del rifugio che sembra digradare fino alla ri-va. Un guado permette di varcare le poche braccia del torrente, e dalla parte opposta la traccia risale a curve verso le pareti di calcare dell’altopiano che si tingono già d’ombre lunghe, mentre il sentiero per le grotte scende ampio mantenendosi sulla vostra riva. «L’imboccatura è grande come una casa» ammetti. «Se invece di infrattarci davamo un’occhiata in giro, forse a quest’ora eravamo in paese» e Galerio ti guarda con rassegnazione. Scendete lungo il sentiero, e l’antico lastricato di cui parlava il ragazzo emerge qua e là fra l’erba e i calici color malva delle cam-panule. «È un tesoro d’arte, la nostra città» dice il ragazzo. «Domina la valle e l’ha sempre dominata.» «Scusa» dici, «ma non sembra così difficile.» «In che senso?» domanda sospettoso. «È una bella valle, ma a parte voi e Castelraimondo, gli altri so-no solo villaggi.»


«Non era così semplice» dice. «E a un certo punto, eravamo quasi spacciati. Non per colpa di Castelraimondo. Per colpa dei Goti.» «Parliamo di molto tempo fa» dice Galerio. «Anziché restare ad aspettarli, i nostri antenati hanno spostato la città durante la notte. Sul serio» ride mentre infila la rivista piegata a metà sotto la cintura. «È stato un colpo di genio.» «Ah, non c’è dubbio» dice Galerio. «Sono usciti in processione dalla città vecchia, che si trovava in pianura e portava il nome di Septempeda. In testa alla processione hanno messo un carro tirato da buoi, e sul carro c’erano le reliquie del vecchio vescovo Severino. È stato lui a guidare la popolazione verso la cima del colle dove oggi c’è la città. E per ringraziare Severino che li mise in salvo dai Goti, i nostri antenati gliel’hanno dedicata.» «Non sono in tanti, a conoscere la storia del proprio paese» dici. «Se non sappiamo da dove veniamo» dice serio il ragazzo, «ca-sa nostra diventerà in fretta casa di qualcun altro.» «Non sei no global» lo provoca Galerio. «Preferisco l’Italia» vi gela il ragazzo. «Non so se significa essere no global come lo intendi tu. So solo che quando arrivano i barbari, questa volta non potremo spostare la città durante la notte.» «Già» dici. «Non ci avevo pensato.» «Non è grave» dice il ragazzo. «Neppure io ci pensavo, fino a pochi anni fa. Poi ho iniziato a frequentare un laboratorio di rin-novamento sociale.» «Cos’è» domanda Galerio. «Una specie di workshop.» «È un’associazione di giovani militanti» dice il ragazzo. «Si chiama Giovinezza Identitaria, e visto che il reggente nazionale è di Macerata, l’anno scorso il campo base è stato organizzato qui da noi.» «È un’associazione di centrodestra» dice Galerio. «No» sorride il giovane frenando la bici. «Di destra e basta.» La sella poggiata alla coscia, solleva una manica della maglietta. Il tatuaggio sulla spalla raffigura il sole, e al centro del disco spicca un pugno nero che stringe una fiaccola tricolore. «L’ho capito subito che siete compagni» dice abbassando la manica. «Ma io non ce l’ho coi compagni. Non con quelli che camminano nei boschi, almeno.» «Ci credi, eh?» dice Galerio. «Sono pronto a combattere» dice riprendendo la discesa. «Siamo in tanti pronti a farlo. E voi che camminate nei boschi, vi trovereste bene con noi. Al reggente piacciono le persone ruvide.»


«Sei simpatico» dici, «ma se stai provando a convertirci, forse è fiato sprecato.» «Parecchi di noi sono ex compagni» dice il ragazzo. «Gente senza pregiudizi che, a un certo punto, ha capito che era meglio serrare le fila. Ma non sto provando a convertirvi. Verrete da soli, quando i barbari saranno alle porte. Tu sei sposato» ti dice. «Posso chiederti se hai bambini?» «Uno» dici. «Piccolo.» «Sarai contento quando avrà paura di giocare in strada perché gli stranieri lo picchiano?» «La vedi un po’ drammatica» dice Galerio. «Magari giocano insieme.» «Infatti» dici. «E comunque non sarò io a chiuderlo in casa.» «Se hai piacere che tuo figlio faccia banda con quella gente, non parlo più» dice il ragazzo. «Magari speri che sposi una di loro, quando arriva il momento, e al matrimonio mangiate spiedini d’agnello e cuscus.» «Oi» dici. «Sposerà chi cazzo gli pare.» «Non te la prendere» dice il ragazzo. «Anch’io ci sono rimasto male, quando il reggente mi ha fatto le stesse domande.» «Sono le sette adesso» dici. «Quanto scende questo sentiero?» «Ci siamo» lui dice. «È dall’estate scorsa che non passo di qua, e me le ricordavo più vicine.» «Leo starà smadonnando in stazione» dice Galerio. «Appena siamo alle grotte lo chiamo» dici. «Non mi va di fer-marmi adesso per telefonare.» «Certo» il ragazzo dice. «Con lo zaino, ogni volta è una specie di decisione strategica.» «Finché si scende, non viene tanta voglia di fermarsi» dice Galerio. «In bici è lo stesso. Ma dopo, quando avrete beccato il vostro amico, dove andate?» «Cambiamo valle» dici. «Puntiamo a Nord, verso Treia.» «Immaginavo» il ragazzo dice. «Seguite la vecchia consolare.» «La Flaminia?» domanda Galerio. «Non la Flaminia. La consolare scomparsa che collegava Nocera Umbra al porto di Ancona.» «Può darsi» dici. «Abbiamo visto una targa, a Pioraco, e parlava di una strada militare romana.» «È lei» dice il ragazzo. «Nuceria ad Anconam. La consolare dell’Alto Piceno.»


Forse anche la sterrata che conduceva dal Passo del Termine al vocabolo di Casaluna, un tempo ne faceva parte, così come la sua prosecuzione fino al Ponte delle Pecore. Se è così, sotto l’asfalto infuocato della strada maestra deve riposare il basolato, e il pensiero di avere calcato le orme dei carriaggi suona come una conso-lazione postuma per la bruttura traversata ieri pomeriggio. «La vecchia Septempeda era più o meno a metà del percorso. Adesso vi resta da San Severino a Passo di Treia, da Passo di Treia…» «Va bene che sei una specie di appassionato d’archeologia» lo interrompe Galerio. «Però così non vale. Hai detto che saremmo stati alle grotte in un attimo, ed è un’ora che scendiamo.» «Chi me lo fa fare d’accompagnarvi?» scuote la testa il ragazzo. «Siete pure rossi.» «Il camerata Musolesi s’allarga» dice Galerio. «Io ho un po’ paura» dici. «Tu hai paura?» «No» dice lui. «Mica s’allarga, il camerata Musolesi» dice il ragazzo. «È abituato a vivere fra i rossi. Mio padre vota quei disperati dei Comu-nisti Italiani.» Pensi che ha del fegato, a scherzare mentre conduce a mano la bici e cammina in mezzo a due sconosciuti, e per un po’ scendete in silenzio. «Se non vedo questa cazzo di chiesa entro tre minuti, io torno al rifugio» dici. «Prendiamo la strada bianca, e a un certo punto vedremo il paese sotto di noi.» «Arriviamo lassù che fa buio» dice Galerio. «D’accordo» dici. «Ma il camerata Musolesi secondo me si è perso e non ha il coraggio di dircelo. È così, camerata Musolesi?» «Guardate» dice lui. «Ci siamo quasi.» La traccia di lastricato piega a destra con una curva abbastanza ampia da permettere la svolta a un convoglio, e ti aspetti di vedere il gigantesco oculo del rosone e le bifore sulla facciata della chiesa scavata nella pietra, invece il vostro sentiero scende invaso di sassi e detriti fino a un punto in cui il fianco della montagna sembra averlo inghiottito. Il solco d’una frana immane scopre le radici degli alberi più vicini, e la boscaglia da qui al torrente appare devastata. Giovani roveri sradicati giacciono imprigionati fra i tronchi ancora in piedi, e dalle grandi zolle strette alle radici degli alberi morti spuntano già i pennacchi brillanti di piante nuove, destinate a rimarginare la ferita dello smottamento. «Fantastico» dici. «E tu qua in mezzo ci passi in bici.»


«L’estate scorsa non era così» si giustifica il ragazzo. «Si passava comodi, per la miseria. E le grotte sono là dietro» dice indicando la voragine che ha inghiottito il sentiero. «Adesso sì che ci tocca fare gli atleti estremi» dice Galerio studiando la devastazione vegetale che ha trasformato il vostro sentiero in un’illusione senza uscita. «Così non arriverò mai all’appuntamento» dice il ragazzo. «E non arriverò neppure a cena.» «Cazzi tuoi, scusa» senti Galerio che sibila. «Pensavo di accompagnarvi alle grotte e da lì scendere senza pedalare neppure una volta fino alla nazionale. Adesso mi tocca tornare al rifugio.» «Bel problema, con una bici e senza zaino» ringhia Galerio mo-strandogli la salita a mano aperta. «Fossi in te mi strapperei i capelli dal dispiacere.» Provate a cercare una via fra i tronchi trascinati a valle dalla frana, arrampicando pendii scoscesi e scavalcando intrichi di ra-mi che vi feriscono le gambe, e in quel mondo sottosopra si levano già le sillabe lamentose dei gufi. Di tanto in tanto il canto dell’aria che vibra per il movimento d’ali sembra vicinissimo, e per quanto vi spingiate avanti e perlustriate ogni anfratto, la montagna sembra avere cancellato del tutto il profilo originario del costone. Così ti convinci che dopo la frana, della chiesa di Sant’Eustachio potrebbe non restare in piedi un solo angolo. «Torniamo al rifugio» dici col fiato corto. «Di qua non si passa.» «Buona, la bazza del fascista» dice Galerio. «Per fortuna che conosceva i luoghi.» «Se gli si tronca la catena a metà salita, un po’ sarei contento» dici mentre ripiegate verso l’ultimo tratto di sentiero percorribile in sicurezza. «Così da Leo ci arriviamo a notte fonda.» «Non ci voglio credere» dice Galerio. «Una volta che qualcuno viene a salvarti gratis.» Visto dal basso, il sentiero che riconduce al rifugio è una corda tesa che rimonta attraverso le balze alberate. Qua in mezzo il Siemens non riceve nessun segnale, e cammini stringendolo in pugno, controlli il display ogni pochi passi e ti dici che finora non avete mai dovuto camminare al buio. «Comincio a essere stanco» Galerio dice. «Avessimo ancora la canadese non ci sputerei sopra.» «Dove sarà la mia tenda?» dici, e da qualche parte oltre il torrente sparano di nuovo. Sentite il gracchiare di colpi lontani che si spegne contro le pareti della gola, e dopo ogni sparo si levano nell’aria bruna del bosco latrati lunghi e interrogativi, come se a cacciare fossero mute di cuccioli. «Fra un po’ non si vede niente» dice Galerio. «E la torcia è in fondo allo zaino.»


«Basta che non ci scambiano per selvaggina, le teste di cazzo.» «Al prossimo falsopiano ci fermiamo a decomprimere e la tiro fuori. Devo decomprimere, e in maglietta comincio a gelare.» «D’accordo» dici. «E io provo a chiamare il poveretto, gli dico che si trovi un tavolo al ristorante mentre proviamo a scendere per la strada bianca.» Lo dici e non ci credi neppure tu. Mentre sfilate gli zaini, pensi che saresti già contento di rivedere le pareti solide del rifugio. «Dormiamo nello sgabuzzino della Forestale» ti anticipa Galerio. «Sulla paglia. Se non ci vede arrivare, l’uomo capirà che c’è stato un problema.» «Basta che non si rompa le palle di aspettare» dici sedendo a terra, e l’erba è umida. «Se si rompe le palle e torna in città, noi due siamo da capo.» «Dina» dice Galerio. «Non è già al mare, lei? Può venire in macchina ad allungarci i soccorsi.» «Sì» dici. «Ma Dina ha il suo da fare col bambino. E poi non voglio farmi soccorrere da lei.» Un cane abbaia vicino, in fondo alla discesa, e abbaia come se l’avessero ferito. Lo vedete ritto sulle zampe magre, bianco contro la cenere del sottobosco. Solo le orecchie sembrano scure, rosse forse, e anche se latra a gola scoperta, la sua voce più che una minaccia sembra contenere una domanda. «Che diavolo è?» dice Galerio. «Non lo so» dici sollevandoti in piedi. «Sembra malato.» Guaiti gli rispondono dal fitto della boscaglia, e per un tempo che vi sembra molto lungo il cane resta a fissarvi in silenzio. Poi emette un ultimo latrato doloroso, e senza fretta prende la macchia dal lato del torrente. «Non mi piace più questo posto» dice Galerio. «Andiamo al rifugio» dici. «Adesso.» Infili in fretta gli spallacci e avete ripreso da poco la marcia quando sentite un frastuono di rami spezzati attraverso il bosco a monte del sentiero. Galerio si immobilizza e tu pensi che la terra stia ricominciando a tremare. È come un respiro pesante che si avvicina, ed è come se qualcuno stesse risalendo la gola a bordo d’un carro fantasma che dietro di sé lascia solo distruzione. E poi vedete il grande capofila dalle zanne ritorte, la curva della schiena che scende netta dietro la mole delle spalle, e possono essere quintali di volontà selvatica lanciati paralleli all’argine del sentiero. Passa così vicino che distingui le setole del fianco screziate d’argento e una cicatrice nera attraverso la coscia. Dopo di lui, a un braccio di distanza, corre una seconda ombra scura, una terza le insegue senza scarti. Dietro viene una teoria d’altre più piccole, e gli ultimi correndo mandano grugniti di protesta. Traversano il bosco come un convoglio guidato da un’urgenza ottusa, e forse sono otto o dieci bestie in tutto.


Solo quando torna il silenzio, Galerio ti stringe il gomito. «Non voglio cazzi» lo senti dire. «Al rifugio ci asserragliamo sul tetto.» Arrivate che distingui a malapena la punta in gomma dei tuoi scarponi sul fondo del sentiero, e davanti alla porticina del ricovero fai strada a Galerio, che ti sei accorto di aver percorso gli ultimi metri quasi di corsa. Una volta dentro, sporgendoti oltre il sommo della porticina, assicuri il gancio all’occhiello murato sulla parete esterna, ma solo quando appoggi il Salewa a rinforzare lo sbarramento ti sembra di essere al sicuro. «Abbiamo avuto fortuna» dice il tuo amico smuovendo la paglia col piede. «Se ci arrivavano incontro lungo il sentiero, ci passavano sopra.» «Dicono che sono veloci a scartare, ma secondo me correvano dritti e basta. Come i bisonti.» «Non ne avevo mai visti» dice Galerio srotolando il modulo sulla paglia. «Per un po’ sto bene anche se non ne vedo più. Prende, qui, il telefono?» «Il telefono» dici tastando le tasche vuote dell’antivento. «Non ce l’ho più.» «No-o» dice lui. «Cerca bene.» Affondi le mani nelle tasche dei calzoncini, e il telefono non si trova. «Non ci voglio credere» dici. «Così è da mettersi a piangere.» «Quand’è l’ultima volta che hai provato» dice Galerio paziente. «Lascia perdere» dici. «C’è di tutto, là fuori.» «Almeno non sparano più.» «Non m’interessa. Peccato per il Siemens e peccato per Leo. Spero solo non torni a casa.» «Devi averlo perso lungo il sentiero» dice Galerio. «Per forza.» «Magari tre chilometri fa.» «Magari qua sotto.» «Domattina vado a cercarlo» dici, e pensi che è solo un cazzo di telefono di seconda mano, e la tessera è una prepagata. La vera tessera con la rubrica e i numeri di lavoro è a casa. «Avevo messo in conto di perderlo, prima o poi.» «E il poveretto?» dice lui, e ha già in mano il cilindro scuro della torcia elettrica. «Dobbiamo provare ad avvertirlo prima che torni a Bologna» dice puntando a terra il cono di luce che fionda fuori dall’occhio rotondo, e se vuole andare a cercare il tuo Siemens non puoi lasciarlo andare da solo.


«È una sciocchezza» dici, ma ormai la porticina è aperta, e tu stai seguendo Galerio attraverso lo spiazzo che conduce all’imboccatura del sentiero. «C’è la luna quasi piena, ma qua sotto non si vede niente» dice allegro mentre scendete a passi minuscoli il dosso che conduce al-la riva del ruscello, i sensi vigili a captare ogni frullo d’ali. Sfilate lenti dietro il rifugio Manfrica, avanzate perlustrando ogni palmo di terra finché il rifugio non si vede più, e tu pensi che non è giusto spazzare il bosco con il fascio della torcia. «Può essere ovunque» dici raccogliendo un sasso, «e abbiamo lasciato la porta aperta. Se entrano le bestie, è la fine.» «Te la stai cagando?» domanda quando siete in vista del guado. «Anch’io» dice, e ridendo si ferma. Sull’altro versante, le pareti di calcare a picco che chiudono l’altopiano sembrano l’ultima cosa solida e sicura sotto la luna, mentre qua in mezzo migliaia di voci sussurrano incerte. «Forse è meglio tentare domani» dice Galerio. «Appena fa giorno. Si torna su di corsa?» «Di corsa mi schianto di sicuro» dici, e mentre risalite verso il Manfrica parlando ad alta voce per farvi coraggio, sembra che il sentiero rischiari man mano. A torcia spenta, lo spiazzo t’appare pervaso da una luce pallida che non ricordavi, e ringrazi la Guardia Forestale o chi per Lei, per l’idea impagabile di costruire un rifugio esattamente qui. «Vorrei sprangarla» dici agganciando la porticina appena siete dentro. «Peccato che il vero rifugio sia chiuso.» «Non avevo mai dormito sui prati, e non avevo dormito sulla paglia» dice Galerio, e nell’ombra senti lo scricchiolio del modulo di poliuretano che si comprime sotto il suo peso. «Ma a questo punto del viaggio anche un ricovero della Forestale va di lusso.» Prima di bloccare la porticina con lo zaino, sfili anche tu il modulo dall’elastico del Salewa e lo deponi sulla paglia vicino a Galerio. Poi apri la zip della tasca inferiore, prendi il sacco a pelo e lo srotoli sul modulo. «Forse ci conviene ammucchiare un po’ di paglia» dici. «Così dormiamo sull’impiantito.» «Ascolta» dice lui sollevandosi a sedere con le spalle contro la parete. «Adesso che siamo al sicuro sento la fame di un popolo in marcia.» «Acqua ne abbiamo?» «Giù al ruscello» ride lui nascondendo la faccia fra le mani. «Allora ho paura che resti poco. O apriamo una busta e mangiamo il riso crudo, o resta davvero poco.» «Neanche del pane?» dice Galerio nella penombra, e dal lato della porta si leva il cicalio elettrico d’una suoneria arabeggiante che conosci bene. Allora ricordi di avere riposto in fretta il telefono nella tasca superiore del Salewa, mentre eravate seduti


nel bosco. Prima che arrivassero gli animali. O subito dopo. «Ma vaffanculo» gridi raccogliendo la torcia per illuminare lo zaino. «Dai, allora» esulta Galerio nel buio mentre gli mostri sul display del Siemens il nome dell’uomo che da ore vi aspetta a valle. «Non siamo ancora i personaggi di una tragedia.»

GIORNO DICIASSETTE. Dal Rifugio Manfrica a San Beverino e Passo di Treia. Scendete attraverso i pascoli nell’aria pura delle sette, e nessuno sorveglia le grandi vacche pezzate che stazionano in mezzo alla strada bianca brucando l’erba dalle bordure. Avete fame, ma la conca del Potenza è aperta sotto di voi e i tornanti che conducono alle prime case di San Severino si possono contare uno a uno. Il fatto di avere dormito in un ricovero di fortuna, più che un inconveniente, adesso ti sembra una marachella combinata ai danni di Leo. «Basta che non si sia offeso» dici. «Non sembra permaloso, ma se lo è, non ce la farà passare liscia.» «Dove avrà dormito, l’industriale?» domanda Galerio ravvian-dosi i capelli dietro le orecchie, e ormai anche lui è abbronzato co-me un tagliatore di canna da zucchero. «Il posto sembra abbastanza grande» dici indicando a valle. «Non può averci messo molto, a trovare una stanza. E secondo i patti, a quest’ora è di nuovo al bar della stazione.» «Ci sono anche le industrie» dice Galerio. «Le cave e le industrie. Così non avrà sofferto di nostalgia.» «Non trattiamolo male» dici. «Lo so che adesso non ci sembra più di avere bisogno di lui.» «Trànquilo» dice Galerio senza guardarti. «Con la gente lego subito, e se ha portato sul serio la tenda lo farò sentire fra amici.» «Mi dispiace che ha aspettato. Magari crede che non lo vogliamo a bordo.» «Se te lo posso dire, da quando frequenti i padri di famiglia stai diventando una persona un po’ troppo


responsabile.» «Pensi?» «Parli come se fossi il suo psicologo. Sembra che lo vuoi proteggere, ma sei tutto sporco di paglia e lui come minimo avrà dormito al quattro stelle.» «Forse hai ragione» dici. Senti la sabbia in mezzo ai capelli, ma non può essere sabbia. Potreste fermarvi dal barbiere, a San Severino. Per un po’ ti culli all’idea di farti radere la barba e lavare i capelli, poi pensi che così male in arnese nessun barbiere vi farebbe entrare nel suo negozio. «Più che altro» dici, «dovremmo passare dai carabinieri a fare la denuncia.» «Sì» ride Galerio. «A quest’ora, le nostre carte d’identità le starà usando qualche pusher di Porta Pesa.» «Una convivenza vertiginosa» dici. «Basta che non ci arrestino gli alter ego.» «Questa l’hai copiata» dice Galerio puntandoti l’indice al petto. «Questa è la classica idea di Pirandello.» Leo Pagani siede a un tavolino addossato alla parete esterna, e sembra essere l’unico cliente del bar. Il gomito piantato sulla superficie opaca del ripiano, sostiene la fronte col pugno destro. Davanti ha una copia stropicciata della “Gazzetta dello Sport”, ma i Polaroid dal design aggressivo t’impediscono di capire se abbia davvero gli occhi aperti. «È lui» dici a Galerio mentre vi avvicinate raso al muro. «Ma va» dice lui. «Pensavo fosse il sindaco del posto.» Sulla sedia di fianco alla sua, Leo ha sistemato uno zaino vecchio stile dall’intelaiatura in alluminio, e se resta in equilibrio senza franare a terra dev’essere mezzo vuoto. Fra i suoi piedi scorgi una sacca argentata a maniglie, e i polpacci che escono dai calzoncini militari sono i più bianchi e glabri che tu abbia mai visto. «Non siamo in anticipo» dici quando gli siete a fianco. La camicia a scacchi da boscaiolo è aperta sul petto, scopre una maglietta dell’Hard Rock Café di Detroit, e il posacenere sul tavolino già a quest’ora trabocca di mozziconi. «Mi spiace che hai dovuto aspettare.» Leo solleva lo sguardo dal giornale con un’aria smarrita. Ha un viso da ragazzo, e la barbetta da malvagio che sfoggia non riesce a conferirgli nessuna minacciosità supplementare. «Se non si riprende nelle prove di oggi, la Ducati parte decima» considera sollevando i Polaroid sulla fronte. «Non riusciamo a farci rispettare neppure al Mugello.» Poi si solleva in piedi e ride. È più alto di voi, più pesante, e speri che le sue gambe glabre spingano come devono. «Alla buon’ora» dice mentre ti offre la destra alla maniera dei neri del ghetto. «Pensavo vi avessero mangiato i lupi,


ormai.» Stringe la mano allo stesso modo anche a Galerio, si presenta e mentre vi sedete dice che nel posto in cui ha dormito lo guardavano come un pezzente. «Era un albergo e un centrocongressi, e non ci credevano, che la carta di credito fosse mia» dice indignato. Pensavi vi avrebbe riempito di domande, ma per il momento sembra già appagato di vedervi. «Mi sa che non avevano mai ospitato un vagabondo con la carta oro» ride poi, e più che ai va-gabondi, fa pensare ai frequentatori veterani dei rock club all’aperto dell’estate bolognese. «Si va?» dice. «Un attimo» lo fermi. «Ieri sera abbiamo mangiato pane secco. C’è un cameriere o bisogna ordinare dentro?» «Arriva il tizioo» dice Leo. Tira fuori di tasca un pacchetto di Lucky Strike, ve ne offre e tu ne prendi una. «La fumo dopo» dici sentendoti una specie di miserabile. «A stomaco vuoto ci resto secco.» Ti sporgi verso l’interno del bar, e c’è un ragazzo magro dai capelli tagliati a zero che pulisce le mensole. Indossa un grembiule sul quale spicca un segnale giallo con la scritta “Pericolo: uomini in cucina”, e ai piedi porta anfibi da battaglia così nuovi che cigo-lano ancora. «E così vi siete persi nel bosco come Cappuccetto Rosso» dice Leo accendendo la sua sigaretta. «Al massimo come Pollicino» dici. «Ma eravamo a corto di mollica.» «E stato un domino di sfighe» dice Galerio. «Un tizio ci ha guidato per errore verso una frana e siamo dovuti tornare indietro.» «Le mappe non sono aggiornate» dici. «Era pieno d’animali e gente che andava a caccia, là in mezzo, ma il sentiero non c’era più.» «Ve la siete spassata» Leo dice, «mentre io facevo la figura del vagabondo al centrocongressi.» «Comunque hai fatto bene a portare uno zaino leggero» dici cercando d’attirare l’attenzione del cameriere. «Il tuo non sembra leggero» ride Leo. «Se vuoi facciamo scam-bio.» «Ormai che l’ho portato fin qui» dici, «mi sembrerebbe una specie di tradimento.» «Dentro il mio c’è una boccia di whisky per stasera» dice Leo sporgendosi sul tavolino. «Bourbon?» domanda Galerio. «Jack Gran riserva, dritto dritto dagli States» dice Leo. «Filtrato due volte nel carbone, goccia dopo goccia.»


«Una volta sono stato male col bourbon, ma questa sera potrei ricominciare a prendere confidenza» dice Galerio. «Il Jack è whisky americano» dice Leo senza ostilità. «Non bourbon. Il bourbon non lo filtrano nel carbone.» Galerio si sporge perplesso all’indietro. «Scusami» dici al cameriere, ma quello non sente. «È il carbone, che ti fa sentire caldo al cuore anche circondato dai lupi» dice Leo, poi batte le mani due volte per costringere il ragazzo a occuparsi di voi. Uscite dall’abitato lungo una provinciale che all’inizio si mantiene parallela alla strada maestra, guadagnando quota poco alla volta. Leo apre la fila, vi sopravanza a grandi passi che sembrano quelli d’un cavallerizzo a fine giornata. Quando è chiaro che non passa nessuno, rallenta perché lo affianchiate e dopo un po’ domanda se anche Galerio è cresciuto dalle parti della Saragozza Avenue. «Preciso» dice lui. «Abitavamo a due passi, noialtri.» «Da ragazzo stavo in via Vittorio Veneto» dice Leo. «Giusto dall’altra parte dello stadio.» «Chissà quante volte ci siamo visti» considera Galerio. «In che ballotta eri, tu?» «Da cinno, in nessuna ballotta. Solo a quindici anni ho cominciato a vedere il mondo, e con gli amici ci trovavamo alla baracca dei gelati di via Andrea Costa.» «Quella di fronte alla chiesa del Ravone» dice Galerio. È una delle chiese del quartiere, e gli fa piacere nominare un posto vicino a casa. «Quella che era, di fronte alla chiesa» precisa Leo. La conoscevi anche tu, la baracca in muratura intorno alla quale fiorivano risse e amori, ma al massimo andavi a prenderci una cestina all’amarena. Solo se incontravi qualcuno degli scout, avevi il permesso di restarci a chiacchierare. «Quando ho scoperto che era stata una Mercedes e non il missile di un elicottero Apa-che, non ci volevo credere» dici. «L’ha rasa al suolo.» «E il bello» dice Galerio, «è che il tizio alla guida non si è fatto niente.» «Se invece d’una macchina un po’ seria avesse avuto una Fiat» dice Leo convinto, «mi sa che non la raccontava agli amici.» Camminate in silenzio lungo l’asfalto, e pensi che quel mattino il traffico su via Andrea Costa sembrava più rallentato del solito.


Tu andavi a scuola in bicicletta. Procedevi lungo la striscia gialla della preferenziale risalendo la colonna di Panda e Peugeot dai motori imballati sulla seconda marcia. Eri un bassista punk, il futuro era disteso davanti agli Sleepo Marx, e a quell’ora dovevi solo stare attento a non stamparti contro gli autobus e le corriere lanciate lungo la preferenziale. Presto avreste suonato al concerto del liceo, e tu pedalavi con bell’abbrivio in sella alla vecchia Atala. Quel mattino però, di autobus e corriere non se ne vedevano, come nelle giornate in cui i ferro-tranvieri sfilavano in centro con le bandiere rosse. Potevano mancare cinquanta colpi di pedale per arrivare alla chiesa del Ravone, dove la strada curva sulla destra per poi procedere in rettilineo fino alla Porta. All’inizio, sembrava solo polvere rossa piovuta chissà come sull’asfalto. Poi hai visto i lampeggianti color cobalto sfarfallare all’altezza del sagrato, e d’istinto ti sei portato più all’interno, a ridosso della colonna. Procedevi sul filo della striscia gialla e sentivi la polvere che copriva la carreggiata scricchiolare sotto i copertoni, come as-sumesse via via una grana più grossa. Un’autopattuglia della Municipale era parcheggiata di traverso sul marciapiede, e un vigile che conoscevi di vista, a gambe larghe in mezzo alla preferenziale, mulinava la paletta per invitare gli automobilisti a procedere. Era come avessero sparso del pietrisco durante la notte, e contro lo zoccolo del marciapiede c’erano schegge di mattoni. Neppure quando il corteo impazzito dei Laziali aveva devastato il quartiere, avevi visto così tante pietre per terra, ma questa volta non si vedevano ambulanze, e le vetrine sembravano intatte. “Oi, ragazùl” aveva detto il vigile che conoscevi di vista mentre gli arrivavi incontro. “Credi di essere il più bello, che non stai in fila con gli altri?” Eri un bassista punk, ma bastava poco a farti rigare dritto. Così ti sei infilato in colonna a occhi bassi, e hai preso a chiederti se sul serio eri così brutto che veniva voglia di prenderti in giro appena spuntavi in sella all’Atala. La questione dei mattoni ti era proprio passata di testa. Pedalavi lento fra le auto senza più osare avvicinarti alla striscia gialla. Il pietrisco scricchiolava sotto il peso della bici, e quando la strada ha cominciato a piegare sulla destra, la facciata della chiesa ti è apparsa simile a una vela opaca e immobile, identica a come la conoscevi. Altri lampeggianti sfarfallavano in silenzio sopra il dorso liscio d’una pantera del 113, e la porzione più lontana del sagrato era circondata dal nastro bianco e rosso di celluloide. Era teso a formare un quadrato che ballava senza bisogno di vento, e al centro del quadrato spiccava sul marciapiede il basamento in mattoni della baracca. Allora hai capito che la polvere e le schegge di mattoni erano state le pareti d’un posto che non sarebbe esistito mai più, e hai provato dispiacere per non esserti lasciato coinvolgere abbastanza dalle risse e gli


amori che fiorivano da quelle parti. Al quarto chilometro, la provinciale che conduce a Pollenza prende a serpeggiare fra i colli, e voi l’abbandonate per un viottolo chiamato Contrada San Giuseppe. Infila in saliscendi la campagna, e appena vi fermate a riposare all’ombra di un fico, Leo estrae il pacchetto di Lucky Strike e da fiato all’accendino. «Bella, però, la vita del vagabondo» sospira soffiando fuori il fumo. «Fa-ticosa, finché non rompi il fiato, ma bella» e dentro di te sai che d’ora in poi andrà sempre meglio. «Dove stiamo andando?» domanda Galerio. «A Passo di Treia, dove c’è il ponte. Cambiamo lato del fiume e domani usciamo dalla valle.» «È una settimana, che dobbiamo uscire dalla valle» dice Galerio. «Ma almeno qui si cammina in mezzo al grano.» «Mi sembra di essere un fuggitivo» dice Leo. «Come quando dicevo che andavo a scuola e invece andavo ai giardini a giocare a rugby. Non mi ero mai preso quattro giorni di ferie fuori stagione da che lavoro» dice. «E ho iniziato presto, cazzo. Però, a parte che nella vita produco tritacarne, alla fine sarei un gran maraglio.» «Bene» dici. «Siamo rimasti in tre e siamo i più maragli.» «Tu non sei un vero maraglio» Galerio dice. «Non so se Leo lo è, ma tu non lo sei. Sei figlio d’insegnanti, scusa.» «E cosa sarei allora? Un fighetto?» «Sei una specie di mod con la barba» dice Galerio. «Io sono un maraglio. Sono cresciuto fra la Avenue e via delle Bombe. Ai tempi in cui ci abitava Vasco.» «Sì» dici. «Quando Vasco non era ancora Vasco e veniva a mangiare in pizzeria dai tuoi.» «Magari Leo ancora non lo sapeva» protesta Galerio. «È vostra, la pizzeria all’angolo di via delle Bombe?» domanda Leo. «Da sempre. Adesso la gestisce mio zio.» «Allora devi conoscere Giordano.» «Giordano» dice Galerio, «è mio fratello.» «È il bello di Bologna» dice Leo. «All’inizio ti sembra una città, ma quando cominci ad avere qualcosa più di vent’anni, capisci che è un paese.» «Oi» dici. «Non è mai sembrata Tokyo.» «Eravamo in classe insieme all’Iris» dice Leo. «Giordano sì che era un maraglio. Cantava sempre, e una


volta a carnevale è entrato a scuola in Vespa.» «Adesso ha messo la testa a posto» dice Galerio. «Devono avergli fatto il lavaggio del cervello» commenta Leo. «E come se la passa, con la testa a posto?» «È quasi sposato» dice Galerio, «e anche lui non fa che lavorare». «Devi salutarlo. Digli che lo saluta Osbourne Pagani, e si ricorderà subito». È passato da poco mezzogiorno quando superate il pugno di case radunate intorno alla parrocchia di San Giuseppe. L’asfalto finisce quasi subito e la sterrata disegna una traiettoria a ottovolante fra i campi di frumento pronto per essere falcia-to: per un po’ salite sgranati, resi di nuovo mansueti dalla fatica, e adesso nessuno parla più. Seguite le curve della sterrata che si fa largo fra i campi, e in mezzo al biondo delle messi mature scorgi le teste dei contadini al lavoro. Le labbra secche, ricordi tutta la pioggia che cadeva sulle colline della Maremma, e pensi che a forza di camminare hai fatto arrivare l’estate. «La conoscete Anzola?» domanda Leo all’improvviso. «C’è la mia ditta, ad Anzola». «Ci sono passato un migliaio di volte» dici. «Ma non posso dire di conoscerla». «È una specie di paese-dormitorio per gli operai della GiDì. Non è il massimo della vita, ma anche le industrie da qualche parte bisogna pur metterle. Gli operai sono contenti di arrivare al lavoro in cinque minuti, e intorno al Novanta ad Anzola si suonava il miglior metallo della regione. C’erano almeno dieci bande, anche se non avrebbero mai potuto esibirsi in simultanea, perché quasi sempre il chitarrista di un gruppo suonava la batteria in un altro. Però ci credevamo tutti. Nella forza primitiva del metal e in quella del cioccolato.» «Alla forza del cioccolato» Galerio dice, «abbiamo sempre creduto anche noi della Avenue.» «Avevo i capelli lunghi ed ero un bel ragazzino, quando ho cominciato a suonare la batteria. Dieci chili fa, forse dodici, e la mia banda si chiamava Discredito.» «Avete mai inciso niente?» t’informi, e Leo ti guarda stupito. «Solo una canzone per la compilation Anzola Rocks 1993. Le so-lite cose a circolazione ridotta sponsorizzate dall’assessorato.» «Ci avrei fatto la firma, quando suonavo. Noi eravamo gli Sleepo Marx» dici con un sorrisetto da


sedicente reduce. «Sleepo Marx» dice Leo. «Li ho anche visti al Covo, mezza vita fa, ma non mi ricordo di te.» «Ci suonavo prima, io. Più di mezza vita fa. All’inizio proprio.» «Ti hanno buttato fuori?» «No» dici. «Mi rendevo conto che facevo cagare, e a un certo punto ho smesso di ammorbarli. Se stavano pensando di buttar-mi fuori, sono stato più veloce.» «Il basso però ce l’hai ancora.» «In cantina.» «Allora un sabato ti porto in ditta da me e facciamo una jam basso e batteria» propone Leo. «La batteria la tieni in ditta?» domanda Galerio. «Ho cominciato a lavorare presto» dice Leo. «Non ho potuto neppure provarci, a fare sul serio. Ma anche se tutte le mattine va-do in ufficio, ogni giorno mi ritaglio almeno mezz’ora per suonare seduto alle pelli, con del buon metal nelle cuffie.» «Sei un uomo fortunato» dici. «Ma proprio il metal devi ascoltare.» «Lo so che agli intenditori non piace. Però è la musica con più tiro. Ma se vieni suoniamo quello che vuoi. Tutto tranne lo ska.» «Guarda» dici. «Ci resteresti male» e sei felice che debba crederti sulla parola. «Una jam per ridere» insiste. «Tu suoni, Galerio?» «Non suono e non canto, ma se la fate vengo volentieri. Magari saltano fuori un paio di scatti simpatici.» «Appena torniamo in città» dice Leo. «Sono dieci anni che non prendo il basso in mano, e anche quando suonavo tutti i giorni ero una specie di disastro» senti il bisogno di sottolineare. «No problem» dice. «La mia è una ditta meccanica, e non diamo fastidio a nessuno.» Il paese di Pollenza domina questo versante della valle, unico testimone di salite che vi trasformano in mostri dalla faccia gron-dante, cui succedono discese morbide e quasi irreali. Poiché ormai siete usciti dall’area mappata sulle tavole militari, per orientarvi non resta che la fotocopia d’una carta stradale. Quella e un rosario di nomi annotati sul taccuino prima di partire, così in vista dei bivi andate a


domandare ai contadini. C’è un camion parcheggiato oltre il limitare della carreggiata. Il rimorchio è carico di balle di paglia, e voi vi fermate a mangiare sull’erba all’ombra del rimorchio. Da seduti, la polvere bianca e appicicosa sembra attecchire in gola e giù fino ai polmoni, ma è qualcosa che dopo un po’ non da più fastidio, e all’ombra si sta bene. Mentre mangiate Leo vuol sapere come avete fatto a perdere la tenda. Glielo raccontate, gli raccontate del Viet, e adesso che sa ogni cosa sembra ancora più felice di essere a bordo. «Sono fiero di avere preso il posto di un musicista» dice serio mentre bolle l’acqua per il caffè. «Adesso suono mezz’ora al giorno ma da giovane era il centro della mia vita. Ero l’erede di una ditta di tritacarni, ma il mio idolo era Ozzy Osbourne.» «Hai capito» dice Galerio. «Ad Anzola ti raccontavano che Ozzy, durante un concerto con i Black Sabbath aveva strappato a morsi la testa d’un pipistrello.» «Se ne sentivano di ogni» dici. «Io ci ho creduto fino a ieri, alla leggenda che il vecchio cantante degli Ac/Dc era morto folgorato dal microfono.» «Era un bel circo» sorride Leo. «Ma Ozzy era un passo avanti a tutti. Anche ai Twisted Sisters che suonavano vestiti da donne.» «Sono solo nomi per me» Galerio dice. «Ma il metal, o piace o non piace.» «Con i Discredito provavamo due sere la settimana, nelle salette messe a disposizione dal Comune di Anzola. Suonavamo cover dei Black Sabbath, ma anche pezzi nostri, e quando fu pronto il primo demo, lo inviammo a Ozzy Osbourne per avere la sua opi-nione.» «Come facevate a avere l’indirizzo» dice Galerio. «Lascia perdere» dice subito dopo. «Lo inviammo al suo quartiere generale, a Londra.» «Non è americano?» «È un inglese selvaggio come le corse dei cani, e nel giro d’un mese rispose di persona.» «Sicuro che fosse lui?» domanda Galerio. «Fu il custode del parco in cui sorgevano le salette-prova, a consegnarci la risposta. Era una busta lunga e stretta, filettata di rosso e blu, fuori formato rispetto alle nostre. Era indirizzata per posta aerea ai Discredito, Anzola Emilia, Italy, e al posto del mit-tente c’era un timbro strafico con la scritta “Ozzy Rules”.» «Io avrei pensato a uno scherzo» dici. «Noi una volta abbiamo mandato l’assistente sociale a casa del


nostro chitarrista.» «Il Viet?» domanda Galerio indignato. «Oi» protesti. «Mica lo sapevamo, dodici anni fa, che era destinato a sfracellarsi nel tentativo di attraversare il monumento alla ciambella.» «Anche noi all’inizio pensavamo fosse uno scherzo» riprende Leo. «Credevamo fossero stati gli invidiosi delle salette vicine, ma una busta così, in tabaccheria da noi non si trovava, e sui franco-bolli c’era il profilo della regina. E oltre al timbro schifo dell’ufficio postale di Bologna Ovest c’erano quelli da appassionati di fi-latelia della Royal Mail. La busta arrivava sul serio da Londra, e poteva contenere una cartolina, o un biglietto. Forse addirittura un biglietto d’invito. «Qualcuno di noi aveva un temperino, e facendo attenzione a non sfrangiare la carta, aprimmo la busta che arrivava dal quartiere generale di Ozzy, e dentro c’era una foto di lui vestito da imperatore romano, con la corona d’alloro e le fiamme sullo sfondo. Non una cartolina, capito, una vera foto stampata su carta professionale. «Poteva essere il fotogramma d’un video, o uno scatto realizzato per qualche rivista di lassù. La tunica lasciava vedere i tatuaggi sulle braccia, e sul retro della foto era scritto a mano con un pennarello a punta fine “To Discredito - Never surrender - Ozzy”.» «Hai capito» dice Galerio. «È stato gentilissimo. Con tutti gli impegni che avrà avuto.» Se avessero scritto a te, di non arrenderti, come minimo avresti pensato che il demo non era piaciuto, ma Leo sembra compreso, come avesse appena raccontato un momento cruciale e fortifican-te della propria giovinezza. «Era l’imperatore in persona» dice dopo un po’, «che ci chiedeva di non mollare in nome del metal. E sulla foto di Ozzy vestito da imperatore abbiamo giurato di insistere a scrivere nuovi pezzi e suonare gratis in giro fino a trovare una casa discografica.» «E com’è andata dopo Anzola Rocks?» «Ci voleva la Warner» ride Leo. «Dopo Anzola Rocks, un cazzo. Però almeno siamo andati a suonare a Lugano e Bellinzona, e la foto di Ozzy era sempre con noi sul pulmino. Ecco perché mi ha fatto svenire vederlo in tivù. Avete visto quant’è patetico?» «Sì» ammetti. «Mi è capitato di vederlo, ed è abbastanza triste.» «E tipo un reality» dice Galerio. «Sembra un reality, ma nel profondo è un’altra cosa. Lo tengono in ostaggio, imbottito di tranquillanti sul divano di casa. Lui. Lo stesso uomo che ci ha scritto dall’Inghilterra di non mollare in nome del metal. Lo rendono ridicolo


per mostrare che un rocker, alla fine, è solo un patetico padre di famiglia.» Ride, ma si vede che gli brucia ancora, e Galerio lo guarda paziente. «Se Leo Pagani diventa un patetico padre di famiglia non fa male a nessuno» riattacca caldo in viso. «Anche voi forse non farete male a nessuno, ma sono sicuro che Ozzy non avrebbe mai voluto mostrarsi così, in catene.» «Lo copriranno d’oro a ogni puntata» dice Galerio. «Se vai a vedere nel profondo, lo costringono per offendere chi ancora ci crede e fargli capire che non ha scampo. Staccare le teste dei pipistrelli, Never surrender e tutto il resto, era anche per lui una buffonata a tempo, una commedia prima di rientrare nei ranghi.» «Magari» dice Galerio, «quando staccava le teste ai pipistrelli aveva meno pensieri.» Riprendete la strada, e dopo un po’ vedete una nube bianca che vi arriva incontro lungo la carreggiata. È così fitta da distinguerne i pennacchi ma non il cuore, e solo quando mancano cento passi vi rendete conto che sono due uomini a cavallo. Anche vicino a casa di tua moglie c’è un maneggio, e ti chiedi quante ore servono, in groppa a un cavallo, per arrivare fin laggiù. Liberate la carreggiata, in piedi sull’argine sollevi la maglietta a coprire il naso e la bocca. Chiudi gli occhi per non restare ac-cecato dal polverone, e per la prima volta senti l’ansia di arrivare. Una lepre traversa il viottolo con due balzi, e l’ultimo pugno di case che vi siete lasciati dietro porta il nome di Cuccagna. Procedete all’ombra attraverso la pianura coltivata, e andare non è più fatica. Galerio e Leo hanno finito d’annusarsi, parlano come si cono-scessero da molto tempo. Galerio racconta della vostra trasferta a casa di Spichisi, e tu pensi che seguendo da vicino i fiumi si potrebbero coprire distanze immense. Fantastichi imprese, e l’abbazia di Rambona t’appare inattesa con il suo triplo abside assediato dall’erba alta. «E la tenda?» dice Galerio. «Ti è preso un colpo, quando hai scoperto che ci serviva la tenda?» Leo sorride e indica la sacca argentata legata in bilico sullo zaino. «Questa è una di quelle che si montano in fretta» dice. «Il mio amico Tigella ci ha dormito a Jerez de la Frontera, per il Gran Premio di Spagna.» «Basta che si monti» dice Galerio. «Ne ho abbastanza, di notti all’addiaccio.» Il costruito di antichi mulini punteggia i campi, e l’unica compagnia sono rondini e ghiandaie, poi il viottolo piega brusco e nello spazio di pochi passi sfocia sull’asfalto. Una pattuglia della Guardia di Finanza sosta di fronte all’edificio d’una trattoria, e la strada scende al paese di Passo di Treia, allungato lungo la statale in prossimità del ponte sul Potenza.


Un manifesto affisso al muro d’una casa avverte che in zona si vendono galline vive, e Leo, gli zigomi rossi e gonfi per il sole, di-ce che per lui avere camminato fin qui è già una piccola impresa. «E adesso viene il bello» dice. «Decidere il posto per l’accampamento. Voglio proprio vedere come si fa» dice. «È un ragazzo a posto» dice Galerio osservando la copertura in fibra rosa che ondeggia sopra di voi nel vento della notte. «Peccato, che invece di una tenda abbia portato una specie di riparo da spiaggia.» «Trenta euro, gliel’ha fatta pagare il suo amico Tigella» dici ag-giustandoti nel sacco a pelo. «Usata, e non c’è neppure il sovrattelo.» «Bell’amico.» «Se piove, qui è come stare sotto la carta velina.» «C’è gente che se ne approfitta, appena sa che c’è da spolpare.» «Almeno è una notte chiara. E poi ormai siamo in basso. Mi sa che da qui al mare non piove più.» «È passata, la perturbazione grossa. Comunque è carico, Leo. Mi aspettavo una specie di morto di sonno, ma non lo è neanche un po’.» «Lo conosco poco, ma non me lo aspettavo così carico. È come fosse in preda all’euforia, e avesse l’ansia di farci capire che in fondo siamo uguali.» «Per via che suonavate tutti e due.» «Non solo io e lui. Tutti e tre. È come se urlasse che è uno di noi. Di fidarci perché è uno di noi.» «Già» dice Galerio. «Ci tiene di brutto, a farti sapere che anche lui è uno dei reginaldz.» «Comunque è uscito da un pezzo. Dove s’è cacciato?» «Non ha preso la carta igienica.» «Ha preso la “Gazzetta dello Sport”. Non penso stia leggendo al buio in mezzo ai cespugli.» «Dici che si offende, se beviamo un altro goccio senza di lui?» «No» dici. «Non credo.» «Metà ce la siamo fatta fuori» dice Galerio svitando il tappo. «Ormai il sapore di carbone mi sta arrivando agli occhi.» «Sarò un cattolico marcio, ma quando mi sembra di essermela meritata, una buona bevuta non mi da


nemmeno un filo di mal di testa.» «È così che si comincia» dice Galerio, e beve. «Thanks» dici quando ti passa la bottiglia, e dovresti sollevarti a sedere ma non ne hai voglia. «Adesso mi sbrodolo» annunci. «Eccolo che torna» dice Galerio. Bevi in silenzio, e in silenzio un po’ di whisky ti cola sul mento, goccia sul sacco a pelo. «Ecco» dici. «Mi sono sbrodolato.» Il cono della torcia di Leo ondeggia sull’erba, sempre più bianco e vicino. Senti i suoi passi che arrivano. Provi a ricordare che scarpe porta ma non ti viene in mente, e appena il cono di luce scompare, per un po’ guardate le gambe di Leo fuori dalla tenda. «È pieno di pipistrelli che volano basso» dice mentre sfila le scarpe. Un paio di Timberland da corsa campestre. «Finché sei in piedi volano alto, ma appena ti accovacci, con i loro sensori del cazzo lo capiscono subito e se la prendono comoda.» «Qualche testa l’hai staccata?» domanda Galerio. «A morsi, di-co.» «Anche tuo fratello a scuola era così. Il vecchio Giordano. Sempre con la parolina giusta sulla punta della lingua.» «Scherzo» Galerio dice. «Scusa se ho offeso quel ciccione di Ozzy.» «Era sempre allegro, Giordano. Tu sei il fratello serio.» «Può darsi. Abbiamo bevuto un goccio, mentre non c’eri.» «Dobbiamo finirlo» dice Leo. «L’ho portato apposta. Il bello di avere una moglie americana è che ogni volta che vai a trovare i suoceri, torni con dei gadget da paura.» «Com’è che vi siete conosciuti, poi?» «Con la Terry? A una fiera in Ohio. È uno stato di pazzi, ma c’è la fiera più importante del mondo di tecnologia domestica.» «Perché è uno stato di pazzi?» domanda Galerio. «Sono tutti pazzi. Se in America c’è un pazzo, è dell’Ohio per forza. Marylin Manson. I cascatori di Jackass che si lanciano in skate dal tetto delle case. Il Mostro di Milwaukee.» «Non credo Milwaukee sia in Ohio» mormori. «Non è la città di Fonzie?» «È in Wisconsin, ma il Mostro era originario dell’Ohio.»


«Non ne scappa uno, allora.» «Non fanno che spostarsi da casa al lavoro, da lì al mall e di nuovo a casa. Mettono fiori alle finestre per riconoscere casa propria da quella del vicino, e se proprio sei in sfrombolo, la sera vai a bere in un posto dove una cameriera che potrebbe essere tua madre ti fa l’occhiolino. È una vita un po’ così, appartata dai si-gnificati profondi, e qualsiasi cosa tu veda in giro, sai già che qualcuno può dirtene il prezzo.» «Sto per mettermi a piangere» dici. «Passatemi la bottiglia.» «Ce l’hai tu, la bottiglia» dice Leo sedendosi fra voi sotto il riparo da spiaggia in tela rosa. «La Terry comunque studiava ancora al college. Lavorava da interprete alla fiera della tecnologia domestica per guadagnare qualcosa, e io ero lì come tutti gli anni a vendere tritacarni elettrici agli americani.» Pensi a Leo che vende i suoi tritacarni porta a porta in Ohio. Te lo vedi che suona a casa di Marylin Manson, a casa dei cascatori di ]ackass. «Il nostro prodotto più classico è il tritacarne manuale» va avanti la sua voce. «Quello a manovella che hanno tutti i macellai del Paese attaccato al bancone. Ne vendiamo in Libano e ne vendiamo in Brasile, ma negli States porto solo i modelli elettrici. So già che è fatica spre-cata, spiegare loro che un tritacarne manuale dura tutta la vita, mentre uno elettrico prima o poi, per quanto buono, cederà. È fuori dalla loro logica, fare la fatica di girare la manovella quando puoi premere un pulsante. E i nostri modelli manuali sono la cosa più semplice del mondo, due elementi assemblati a vite, così anche una vecchia può smontare il suo tritacarne per lavarlo.» «Sembra semplice» dice Galerio. «Lo è» dice Leo. «Se non c’è, non può rompersi. È da sempre la filosofia della Pagani Srl ed è una delle mie massime di vita. Ad esempio, l’amante meglio non averla.» «Se non c’è, non può rompersi» ripeti. «Si presta a un sacco di interpretazioni. » «Con la Terry non siamo sposati. Per molti buoni motivi, ma anche per semplicità. La sera in cui ci siamo conosciuti, ero ubriaco fradicio. Le fiere sono una rottura di coglioni. A vent’anni, quando mi trovavo a una fiera da solo, magari a Atene, appena chiudevo lo stand filavo a sprangarmi in albergo. Invece con gli anni ti rendi conto che c’è sempre la stessa gente, e pian piano si è formato un gruppo di amici carichi. Così adesso è una festa, ve-dersi in giro per il mondo, e la sera usciamo a divertirci. C’è Miguel di Valencia, un argentino pazzo che si chiama Carles Aba, e poi c’è Tiago, un tossicofilo assoluto. È di Lisbona lui, e rappresenta il più importante gruppo mondiale del sughero.» «Del sughero.» «È un consorzio fra cinque multinazionali, e il gruppo ha filiali in tutti i paesi del mondo. Ma lui è tossico, e nel suo computer portatile, oltre ai dati di lavoro ha solo foto che lo ritraggono abbracciato a piante di maria alte due metri.»


«A proposito» dici. «Sei poi riuscito a fare niente, per quelle primizie?» «Tigella, l’amico della tenda, mi ha lasciato anche della skunk. Me l’ha fatta a un prezzo onesto, se conti che è olandese.» «Vogliamo tenerla nello zaino, in una notte così?» dice Galerio. «Io non la faccio» dice Leo. «La tiro fuori, ma non la faccio. Mi sono già messo la crema per le mani.» «Tirala fuori» dici. «Vediamo se a qualcuno viene voglia di farla.» Leo ride. «Non c’è nessuna crema per le mani. Però non ho più la concentrazione necessaria. Perché un minimo di concentrazione ci vuole.» «E la boccia?» domanda Galerio. «Si è arenata dalla parte sbagliata della tenda.» «Comunque con la Terry è stata una cosa strana» dice Leo rovi-stando nello zaino alla luce della pila. «Lascia perdere che ero ubriaco fradicio. Quella sera Carles Aba aveva preso un tavolo nel migliore locale di Akron. Giravano caraffe di daiquiri, e con noi c’erano un po’ di venditrici e interpreti che avevamo conosciuto in fiera. È stata una di loro a presentarmi la Terry. Una sua amica. E anche se ha visto che ero stregato dalla Terry, ci ha provato anche lei.» «Anche nel mio lavoro ci sono le fiere» dici. «Ma metà della gente ha settantanove anni.» «Alla fine Miguel di Valencia ha bloccato l’amica, e io sono potuto uscire a fare due chiacchiere con questa ragazza italoamericana che mi aveva stregato. Ci siamo visti altre quattro volte, dopo, e poi è venuta a vivere da me. Sono fatti così, loro. Prendono e partono.» «Per questo, mi piacciono» dice Galerio. «Quasi solo per questo, però.» «Non sono i fighetti di New York. Sono i pazzi dell’Ohio. La gente più dura degli States.» «Sono un po’ l’Umbria d’America, allora» dice Galerio. «Non so se l’Umbria c’entra qualcosa. Il padre della Terry è un figlio di siciliani. Truman Campisi, si chiama il nonno di mia figlia. Ha combattuto in Vietnam, e tutte le mattine alza la bandiera nel giardino di casa. In Vietnam ha perso il suo migliore amico ed è il suo modo per ricordarlo.» «Come nei film» dici. «Li hanno inventati loro, i film, e non credono sia soltanto cinema. Credono sia il racconto della loro storia.» «Neanche tu li ami così tanto» dice Galerio. «Però parlerai l’inglese benissimo.» «Non è uno di quelli che sono scappati in Canada, tuo suocero»


dici. «Era un militare di professione. Anche il suo amico. Cresciuti insieme, nello stesso quartiere» va avanti Leo, «italoamericano anche lui. Si erano arruolati insieme e praticamente gli è morto di fianco. Sono saltati su una mina, e al padre della Terry hanno dovuto ricostruire un braccio.» «Merda» dice Galerio. «Peccato non ci sia il nostro amico» dici. «La sua mamma c’è nata, in Vietnam.» «Comunque il padre della Terry non ne parla volentieri. E se non avessi visto in casa il basco verde, non ne avrebbe parlato per niente.» «La mamma del Viet» sussurri impastato, «studiava alle elementari francesi di Saigon. Insieme a Riccardo Cocciante, lo sapevate?» «Le primizie sono qui» dice Leo. «Di fianco al sacco a pelo. Se qualcuno ha ancora un briciolo di forza nelle dita e pensa di riuscire a concentrarsi, il momento è adesso.»

GIORNO DICIOTTO. Da Passo di Treia a Osterianuova. Treia sembra posata sul banco d’arenaria in cima alla collina, me-no di cento metri sopra di voi, ma ormai dormire non basta più a recuperare del tutto le forze. I piedi cominciano a non sopportare l’asfalto, e mentre salite lungo la Provinciale sotto il sole già alto, hai l’impressione di una vena fossile di carbone aperta attraverso la fronte. Galerio si trascina la gamba danneggiata, e anche Leo avanza cauto, come fosse preoccupato di risparmiare le forze. «Praticamente» considera «viaggiando da Ovest verso Est, avete avuto il sole in faccia tutte le mattine.» «E nella nuca il pomeriggio» dice Galerio. «Pensavo una cosa. Avete presente le meridiane? È come se la mia testa fosse una meridiana, e il sole ci viaggia sopra pian piano.» «Interessante» dice Galerio.


«Se non accelera un po’, rischio di non vedere il mezzogiorno» spiega Leo, e il suo sorriso sembra contenere un anticipo di scuse. Disseminate ai piedi della collina si vedono vecchie abitazioni costruite impilando pani di terra cruda mista a paglia. Sono poco più che ruderi dalle finestre sbarrate, ma le tracce d’intonaco sulla superficie fibrosa delle pareti parlano ancora del tempo in cui co-stituivano l’unico riparo per le grandi famiglie dei mezzadri. Verso monte, invece, si staglia nella macchia una villa in stile neoclassico sul cui fregio campeggia maiuscola la scritta “LA QUIETE”. Quando la raggiungete ne imboccate il viale di pini, ma appena sedete all’ombra vi accorgete della donna che vi scruta dalla soglia del casotto presso il cancello d’ingresso. Non risponde ai saluti, e non fa niente per domare il paio di botoli che, senza osare allontanarsi da lei, vi abbaiano contro tutta la loro disapprovazione di minuscoli animali territoriali. «Sembra che le dia fastidio, se ce ne stiamo qui a fumare in pa-ce» si sorprende Leo. «Signora» grida sopra l’abbaiare dei cani «venga qui che le offro una paglia e si rilassa un po’ anche lei.» «Lascia stare» dice Galerio. «Abbiamo già abbastanza problemi così. E se la vecchia chiama i carabinieri, non so neppure che documenti mostrargli.» «Garantisco io» dice Leo soffiando via un fiore di fumo. «Con me siete al sicuro.» «Perché dici?» domanda Galerio. «Sono un uomo di trentatré anni che passa le sue giornate in ufficio, dentro un capannone industriale ereditato da mio padre che l’aveva ereditato da mio nonno. Produciamo tritacarne e spremipomodoro. Di cosa devo avere paura?» Guardi Galerio, e pensi che alla fine nessuno di voi è un rivolu-zionario pericoloso. «C’è chi si fa strada grazie alla tenacia» dice Leo. «Io li ammiro, ma non è la mia storia. La mia è la storia di un ragazzo che sognava di suonare la batteria, studiare all’università e guardarsi intorno come tutti. Invece non ho deciso un bel niente. Non avevo ancora vent’anni quando mio padre se n’è andato.» «Mi dispiace» dici, e Leo ti strizza l’occhio. «Era una domenica di novembre» riprende. «Una giornata freddissima, e la prima neve gelava sui marciapiedi. Mio padre era andato allo stadio con il solito paio d’amici, e mentre rientra-vano lungo via XXI Aprile si sentì male.» I botoli ormai hanno perso il fiato, ma la vecchia è sempre lì che controlla, e Galerio fu-ma nascondendo la sigaretta sotto le dita. «I suoi amici pensavano avesse preso freddo, o una sciocchezza del genere. Credevano che riposando un attimo si sarebbe ripreso, e così l’hanno portato sulle sue gambe fino alle panchine di fronte alle scuole elementari. Ci avevo sempre visto sedere le


donne che aspettavano l’uscita delle classi, e quando me l’hanno raccontato mi è sembrato strano che mio padre avesse chiuso gli occhi in quel posto. Scusate se vi intristisco» dice. «È così che ho iniziato a fare il lavoro che faccio. Per continuare quello che mio padre ha dovuto lasciare a metà. «E poi ci sono gli operai. Quando mio padre se n’è andato, con mia madre abbiamo dovuto decidere cosa fare della ditta. A liqui-darla, campavo vent’anni suonando gratis in giro, mi laureavo e facevo la vita da signorino. Peccato che questo avrebbe significato, fra le altre cose, mandare a casa dodici persone, e mio padre mi aveva sempre detto che un capitano è responsabile di tutto l’e-quipaggio, compreso l’ultimo dei mozzi. Così insieme a lui ho se-polto anche un po’ di sogni. «Il giorno stesso del funerale ho parlato con Comastri, il vecchio capofficina che aveva cominciato sotto mio nonno, e ho chiesto la sua fiducia. “Di’ alla gente di stare tranquilla” gli ho detto, e a pensare come mi guardava quell’uomo mi viene ancora la pelle d’oca. Io ero un ragazzo spaventato iscritto all’università, e lui era talmente comunista che l’estate andava a Mosca per vedere di persona il comunismo realizzato. “Non liquido un bel niente” gli ho detto, “e spero che insieme riusciremo a lavorare bene”. Lui mi ha abbracciato, e da allora non sono mai partito in vacanza durante la stagione delle fiere.» «Mi sta simpatico, Comastri» dice Galerio. «Ufficialmente è pensionato da un pezzo. Però non voleva saperne di restare a casa. Era ancora in gamba, gli operai gli davano retta, e nel giro di pochi giorni l’ho assunto da capo con un con-tratto da consulente. Niente lavoro pesante, nessun cartellino da timbrare, ma a sessantanove anni veste ancora la tuta ogni mattina, e tutti i pomeriggi alle sei, la tuta sporca di morchia, passa a salutarmi. “Anche oggi è stata una buona giornata” mi dice prima di scendere negli spogliatoi. “Quella volta ha fatto bene a non vendere”. Il giorno che non me lo dirà più, dovrò farmi venire in mente una buonuscita degna d’un lavoratore del suo calibro. Perché secondo me, alla fine vuole ritirarsi in Russia, da qualche parte sul mar Nero.» Dal Cinquecento fino al termine del Diciannovesimo secolo, quando si diffuse in tutta Italia la passione per il calcio, il gioco del pallone col bracciale era il divertimento più popolare. Si di-sputavano regolarmente incontri in tutte le città, e negli sferisteri si radunavano migliaia di persone per assistere alle sfide fra le squadre dei professionisti più titolati. Il piccolo centro di Treia era una delle capitali italiane di questo gioco, e a un campionissimo locale dedicò un’ode Giacomo Leo-pardi. Oggi il pallone col bracciale si pratica in poche piazze dell’Italia centrale, e le squadre superstiti convengono qui ogni anno per darsi battaglia sotto gli occhi dei turisti. A metà mattina il corso principale è tutto in ombra, e i capan-nelli commentano la notizia della liberazione degli italiani rapiti in Iraq. Sembra una notizia che ha destato scalpore, e insieme alla pietà per l’ostaggio ucciso escono a mezza voce le parole “riscatto” e “propaganda”. «Mi spiace per quello che è morto, ma sono solo dei mercenari» proclama un ragazzetto in canottiera. «Lo sapevano che la gente di laggiù non li vuole.»


«Manca poco alle elezioni» dice un altro con la faccia da studente. «E adesso che il Governo li ha liberati, come minimo bisognerà accoglierli come eroi.» «Eroi ‘sto cazzo» protesta l’amico. «E io, allora, che guadagno ottocento euro al mese e ancora non ho messo una bomba da nessuna parte?» Il corso sfocia sul grande invaso d’una piazza soleggiata, al centro della quale sorge una fontana dai riflessi bluastri. Tre lati della piazza sono chiusi dai portici dei più importanti palazzi cit-tadini, mentre a Oriente corre il davanzale d’uno spalto, e una lunga balaustra di marmo ne difende il camminamento che spazia sull’aperto. Salite sullo spalto, e oltre la balaustra vi appare un paesaggio di colline dolci a perdita d’occhio, e i borghi medioevali spiccano ravvicinati nel po’ di foschia che sfuma i crinali delle ultime valli. Sotto di voi è distesa una terra ricca, coltivata fino al sommo delle colline, e da qui si capisce perché le Marche fossero ritenute il granaio dello Stato Pontificio. La costa è ancora al riparo dell’ultimo orizzonte, ma verso Nord-Est riconosci già il dorso boscoso del Conero. Per come si vede dal giardino della casa di Dina, hai sempre pensato al monte come a un immenso animale preistorico, una creatura pietrificata mentre era intenta ad abbeverarsi con la testa sott’acqua, e ora che di quell’animale scorgete il dorso, basterà non perderlo mai d’occhio fino alla fine. «Vi faccio una foto» dice Galerio, e mentre ti stringi a Leo sforzandoti di assumere un’espressione naturale, pensi che fra pochi giorni risalirete per intero il dorso del monte. Da Camerano basteranno poche ore, e a un certo punto vedrete sotto di voi la baia di Portonovo, riparata come all’inizio, il po’ di stabilimenti e ristoranti che occupano la striscia sottile di terra fra i laghetti e l’arco della prima spiaggia. Sfilerete a piedi lungo i tornanti della rampa che tante volte hai sceso in Vespa con Dina. Sprofonderete per l’ultima volta nel bosco, e alla fine, quando davanti a voi sarà solo mare, forse capirai perché ti sei messo d’impegno e hai scomodato tanti amici per questa impresa che farebbe sorridere qualunque professionista del trekking. «Leo va benissimo» dice Galerio. «Tu invece hai un’aria da funerale» e scatta. Due volte. «Se hai l’aria che credo, le cancello subito» dice. Uscite dalla porta settentrionale, di nuovo in mezzo allo spolve-rio di colori della campagna. Allora, mentre Leo e Galerio ti prece-dono di pochi passi, provi a pensare cosa ti ha spinto a partire. Sarebbe un buon inizio, nettamente, così provi a riordinare le idee. C’è una ragazza a cui hai promesso di volere bene per sempre. Molto prima di sposarvi e senza bisogno di testimoni. C’è un piccolo che comincia adesso a camminare gattoni. Ed era deciso dall’inizio che saresti tornato da loro. Su questo non ci piove. Ma perché te ne sei andato, ancora non lo sai. Sai solo che hai ubbidi-to a un istinto. Una specie di paura. Se semplicemente avessi avuto a disposizione un posto per lavorare fuori di casa, l’assedio non ti avrebbe colto così impreparato. Avresti potuto organizzare delle sacche di resistenza. Invece sei rimasto


fermo come la paloma condotta al sacrificio, a guardare il circo che si scatenava intorno al tuo lavoro, appena fuori dall’ex “ripostiglio grande”. «È chiaro» dici. «Devo trovarmi un ufficio» e Leo ti guarda co-me avessi interrotto un’emozione. «Stavo pensando che la civiltà è tutta una sfida fra l’uomo e la terra» dice. «Se te ne vieni fuori con le bestialità prosaiche mi de-ludi.» Ormai ogni incrocio ha un nome, e intorno a te non vedi terra incolta né macchia, ma rami di provinciali che solcano le coltiva-zioni intensive e il baluginio del sole sugli hangar delle serre. Rivorresti indietro le strade bianche dei giorni scorsi, i sentieri lungo i crinali, e adesso ti senti in colpa per avere trascinato Leo e Galerio lungo questo budello asfaltato. Dopo un paio di chilometri la strada smette di scendere e sulla destra s’apre una porzione di prato sulla quale un vecchio ciliegio dai rami frondosi proietta la sua ombra. Leo si lascia cadere seduto, accende a occhi chiusi una Lucky Strike e tu tenti di rilevare la posizione sulla fotocopia di carta stradale. «Con la ginocchiera schiatto dal caldo» dice Galerio. «Dove siamo?» «Mi dispiace avervi portati qui» dici. «La strada fa schifo, e in un’ora abbiamo fatto meno di tre chilometri.» «Ci stiamo un po’ trascinando» dice Leo. «Già che riusciamo solo a stare seduti, perché non allunghiamo le gambe sotto un tavolo?» «Sì» dice Galerio. «Quale tavolo?» «È contrario allo spirito del viaggio? Se è contrario, fate conto che non ho detto niente.» «A questo punto vale tutto» dici. «Basta che arriviamo» e subito ti dispiace averlo detto. «Fra un po’ ci alziamo in piedi e cominciamo a camminare lungo la strada» dice Galerio. «Ci sarà pure un camion di frutta, prima o poi.» «È possibile» dici. «Speriamo di trovarlo prima di sera.» «Ho in mente qualcosa di meglio del camion di frutta» dice Leo. Dalla tasca dei calzoncini militari spunta un videocellulare a mattonella che pare cromato. Sul grande display spicca la foto di sua figlia Darma, e Leo preme una combinazione breve di tasti. «Chissà se si trova un take away cinese» sorride mentre aspetta di prendere la linea. La trattoria è discosta dalla strada, segnalata in distanza dai dorsi immobili dei camion parcheggiati attraverso la piazzola.


Siete pronti a mangiare a uno dei tavolini allineati all’esterno, ma la cameriera insiste perché vi accomodiate dentro. La seguite attraverso il bar e i camionisti, osservando i vostri zaini, commise-rano ad alta voce gli sentiti. La cameriera vi guida nel cuore di una grande sala banchetti, e ti sembra strano sedere a tavola a metà giornata. Ordinate antipasti e tagliolini, e Leo insiste per provare il rosso della casa. «Partiamo con un litro» annuncia, e la cameriera sta ancora raccogliendo l’ordinazione quando la mattonella cromata del telefono prende a vibrare sul tavolo riproducendo l’attacco di Smoke on thè water. «Non fai in tempo ad accenderlo» sbuffa, poi controlla il display e sorride. «Ciao piccola» lo sentite rispondere. «Sì piccola. Daddy sta benone. Very good. And you?» «Devo chiamare Sara» dice Galerio sottovoce. «È un po’ di giorni che non ha notizie. E neppure a casa hanno notizie.» «Hai già pensato a cosa fare dopo?» gli domandi. «Mi serve un lavoro di transizione» dice Galerio. «Qualcosa per incassare mentre mi guardo in giro alla ricerca d’un maestro.» «Io pensavo che sarei arrivato con le idee meravigliosamente chiare, e tutto quello che ho in mente è che ci sono le elezioni, e il 19 a Imola suonano i Pixies.» «E i Cure» dice Galerio. «Forse ci vengo, a Imola.» «Il Viet ha già il biglietto. Se non gli trovano niente di rotto ci sarà di sicuro.» «Hai fatto i disegni?» va avanti Leo con il telefono all’orecchio. «Veri/ good, piccola. Cos’è che hai fatto? Ah. Daddy deve indovinare? Me lo dici un indizio, almeno?» «Possiamo fare una macchina» dice Galerio. «Se viene anche Leo si va tutti insieme.» «Il muso viola?» domanda Leo nel microfono. «È un animale raro, allora.» «Oggi mi sento uno schifo» dici. «Sembra che il mondo sia stato asfaltato per intero, e penso che è colpa mia se il Viet si è fatto male.» «Mica l’hai spinto tu a saltare. Si va insieme, ma ognuno è responsabile del proprio culo.» «Ha la coda?» tenta Leo. «Okay. È un animale della fattoria?» «Un modo più stupido per farsi male non l’avrebbero trovato neppure quelli di Jackass» dice Galerio. «E quelli li pagano.» «Quando tutto questo sarà finito, voglio tornarci, a vedere quella scultura. Tornarci con lui e domandargli cos’aveva in mente di preciso.»


«Un animale della fattoria con il muso viola» dice Leo coprendo il microfono con la mano. «Lo conoscete?» Gli antipasti arrivano che ancora è al telefono con la bambina, poi parla a lungo con Terry, le racconta che ieri sera avete dormito in un prato e che adesso siete in pausa. «Abbiamo fatto venti chilometri, ieri» dice, «e oggi già un altro po’.» Sembra così entusiasta che per un po’, mentre mangi il formaggio e le olive, pensi che sarebbe valsa la pena di partire anche solo per contagiare Leo Pagani con la passione per il camminare liberi. Quando riattacca si scusa e sorride, poi lo vedete leggere sul display e rabbuiarsi da capo. «C’è un messaggio di mia madre. Dice che in ditta la gente si diverte, e vuole sapere quando torno. Che ne so quando torno? Prima dobbiamo arrivare a Ancona a piedi.» «Stiamo andando a Ancona?» dice Galerio. «Credevo a Numana.» «Fra Ancona e Numana» dici. «Non è abituata, a vedermi partire così, e in pratica è strippata. Se la chiamo mi fa uno sfogo» dice Leo scrivendo in fretta con i tasti. «Vuole sapere in anticipo quando sarò via, perché così va in ditta a controllare.» «E tu non avevi avvertito» dice interdetto Galerio. «Pensa che se non ci sono, gli operai chissà cosa combinano» dice Leo. «Non si fida neppure di Comastri. E forse questa volta non l’avevo avvertita. Non che stavo via finché non s’arrivava a Ancona, almeno.» «Tua moglie l’avevi avvertita?» domanda Galerio. «O in città ti aspetta la guerra civile?» «Le ho mandate apposta in Costa Azzurra, lei e la bambina.» «Hai anche la villa in Costa Azzurra» dice Galerio. «Se rinasco faccio te.» «È una specie di residence con la piscina in comune» minimiz-za Leo. «E appena torniamo in città, il patto è che salto in moto e le raggiungo. Sono andate là in macchina da sole, e forse non sapete cosa può essere la Terry, dopo cinque anni che vive qui, alle prese con le autostrade italiane.» «Un disastro?» dice Galerio. «Dice che non riesce a leggere i cartelli. È possibile che per arrivare laggiù abbia fatto un paio di volte il giro della tangenziale di Milano.» Alla fine, con tre porzioni di crema, i caffè e gli amari spendete venti euro in tutto. Pensi che dopo un pranzo del genere non arriverete da nessuna parte, invece il vino vi ha rimesso in


forze, e mentre Leo progetta di mettere insieme una guida dedicata alle trattorie meglio nascoste del Paese, il sole prosegue il suo viaggio verso le cime dell’Appennino. Malcolm potrebbe non riconoscerti, all’inizio, ma tua moglie ti riconoscerà di sicuro. Pensi alla casa al mare di Dina, a tutte le volte che l’hai raggiunta laggiù a cavallo della Vespa. È una strada che conosci a memoria. Basta seguire la via Emilia, uscire a Cesena e risalire la valle di Mercato Saraceno fino al punto in cui la Romagna comincia a chiamarsi Montefeltro. Si passa la vecchia Linea Gotica e si traversano i luoghi in cui Pier Vittorio Tondelli ambienta alcune sequenze di Rimini. Per cabala, a Novafeltria fai benzina al distributore dove Marco Bauer, il protagonista del romanzo, si ferma con la sua Rover. Si esce dai boschi di querce e castagni poco prima di Urbino, e poi si seguono per un pezzo i binari abbandonati della ferrovia costruita durante la Grande Guerra per evitare i bombardamenti au-striaci, che bersagliavano la linea costiera. Fermandoti a chiedere informazioni nei paesi, hai imparato a conoscere il punto preciso in cui l’accento degli abitanti cambia in maniera inequivocabile, e dal sound familiare e disteso del romagnolo si passa ad ascoltare il ritmo spezzato dei dialetti centrali. Sono sempre state cavalcate magnifiche, sotto le chiome degli alberi e nel cuore di valloni dimenti-cati, e conosci anche il punto esatto, fra i filari di vite, in cui si staglia all’orizzonte il gomito di costa a ridosso del quale sorge Ancona, ai piedi del dorso immenso del Conero, e la vastità del mare appare l’unico degno traguardo per il viaggio d’un uomo libero. Di solito, le sere in cui arrivi in Vespa dalla città, finite per litigare. Litigate perché sei arrivato tardi a cena, litigate perché non hai chiamato per tutto il giorno, ma spesso non serve neppure una scusa. Sei tu che ti senti pieno di rabbia a essere arrivato. È come se il perimetro della casa non bastasse a contenere tutta la libertà che hai assaggiato fin lì. Come se tua moglie ti apparisse l’unica colpevole di un’esistenza ordinaria, dove solo di tanto in tanto ti è concesso di dimenticare ogni cosa e partire. Oppure senti di avercela con lei perché non ha mai voluto essere con te in questo genere di viaggi. Dopo tutto questo tempo fuori casa, dovrai essere bravo, a non fare il selvaggio una volta arrivato. Per Malcolm, però, hai in serbo grandi novità. Non marcirà in città, lui. Molto presto lo porterai con te. Lo porterai sull’Appennino, che conosca da subito la possanza della dorsale che traversa il Paese e lo taglia in due bacini distinti. Lo condurrai lungo l’argine del Grande Fiume e a navigare sulle barche dal fondo piatto che usano gli abitanti del Delta. Oh sì, lo farete, e appena avrà l’età per capire gli mostrerai su una carta d’Italia la rete invisibile di strade antiche ed antichissime che riposa sotto la sua tomba di breccia. Allora sarà curioso d’andare, e tu lo accompagnerai. Al quadrivio fra Filottrano e Macerata proseguite dritti fra i campi, e se questa era davvero la strada consolare dell’Alto Piceno, nessuna prò loco sembra essersene ancora accorta. Se mai ad ogni chiesa vedete i manifesti dei pellegrinaggi a Loreto, e in prossimità del paese di Appignano la carreggiata torna a essere assediata da lunghe teorie di villette in costruzione. Gli uomini al lavoro dentro gli scheletri in cemento armato non sono mai più di due. Li vedete impastare


la calce in piccole betoniere, e Galerio dice che potrebbero essere tutti padri e figli. Se è così, ogni gesto dei primi deve contenere in sé l’amore che basta a insegnare un mestiere. «Tempo di condoni facili» dice Leo, e t’accorgi che il sole lo sta rendendo paonazzo. «Si costruisce a tutto spiano, tanto i permessi prima o poi arrivano.» Prima di metà pomeriggio siete nel cuore del paese. Galerio fotografa la facciata coperta di piastrelle multicolori d’una bottega di ceramiche, e poco dopo entrate in un bar per chiedere se nei dintorni esiste un posto adatto a piantare la tenda. Dentro, l’aria condizionata è sparata a tutta forza. C’è una bandiera rossa, appesa dietro al bancone, e sulla bandiera l’immagine di Che Guevara è affiancata all’emblema dell’Ancona. Bevete succo di frutta, e a sentire il barista ormai i campeggi più vicini si troverebbero sulla costa. «Ci sono degli agriturismo per coppiette, dalle parti nostre, ma nisciun campeggio. E il cun-tadì, se ve becca a pianta la tenda nel campo suo, ve spara nel culo.» Uscite dal paese avvolti dai pennacchi della skunk, decisi a dimostrare che i veri psicoatleti, se hanno bisogno di piantare la tenda, un posto lo trovano sempre. A passo ridotto imboccate una strada chiamata Contrada Verdefiore che procede per saliscendi e curve dolci in direzione di Montefano. Valutate qualsiasi praticello, ma anziché perdere tempo a domandare il permesso ai padroni delle fattorie vicine preferite andare avanti. Inseguite il miraggio di una radura non cintata che, a volerci credere sul serio, potrebbe aprirsi dietro la prossima curva. Superate la deviazione per un agriturismo, vi lasciate indietro anche la cancellata di una villa trasformata in ristorante, e lungo il percorso obbligato delle siepi che cingono la carreggiata, verso le sei di sera giungete a un pugno di case che sembra sorto intorno a una chiesetta. Il sagrato è abbastanza ampio da ospitare un campo giochi, e oltre la distesa di giostre e panchine l’asfalto di Contrada Verdefiore va a gettarsi sulla strada che unisce Macerata a Osimo. In vista c’è solo una vecchia che fa girare la giostra per il nipotino, mentre sul retro della chiesa, ai piedi del campanile, si apre un cortile chiazzato d’erba. «Non si dispiacerà nessuno» dici lasciando scivolare a terra lo zaino «se per questa sera ci accampiamo qui.» I ragazzi non si fanno pregare, ma dalle giostre la vecchia vi osserva sospettosa e prima di aprire la tenda decidi di chiederle il permesso. Mentre avanzi verso di lei, la vedi strappare il nipotino dalle giostre. «C’è il parroco?» domandi, ma quella inizia a spostarsi di buon passo verso l’asfalto. «Cosa fa» dici, «scappa?» «Non decido niente, io» dice prima di sparire col nipotino oltre la siepe che perimetra il sagrato «Non conto niente.»


Allora provi a entrare in chiesa, ma la porta è chiusa, e anche le finestre dell’oratorio sono tutte chiuse. «Il parroco non c’è» dici ai ragazzi. «Non diamo fastidio a nessuno.» «Cos’ha detto la vecchia?» domanda Galerio. «Era solo una pazza. Il genere di pazza che scambia chiunque per un malintenzionato.» Così ti sdrai sull’erba, deciso a confezionare una sigaretta, e Leo dice che non sarebbe male, prima che faccia buio, provare a spingersi verso una fattoria per comprare una bottiglia di vino sincero. «Quando torniamo dobbiamo organizzare una festa» dice Galerio. «Con tuo fratello, il Vietnamita e tutti quanti.» «Una festa come a vent’anni, però» dice Leo. «Senza prigionieri. Ne ho abbastanza di cene tristi insieme ai vecchi soci e le loro famiglie. Quelle cene in cui si mangia scondito per non scontenta-re i bambini, e alla fine le donne si addormentano sul divano guardando i Pokemon, mentre i bambini si eccitano a vicenda e poi non dormono più.» «Pensavo che il peggio fosse quand’erano piccolissimi» dici. «Pensavo che dopo tornavi a gestire la situazione.» «Non c’è più nessuna situazione da gestire, dopo. Semplicemente, non trovi più un amico che riesca a liberarsi per una serata decente. O devono rientrare per le undici e ti lasciano a bere con il barista, oppure ti convincono direttamente a vedervi per un caffè. Se guardi nel profondo, è solo che si perdono i contatti. E va a finire che uno suona la batteria da solo.» «Così, però, mi scoraggio» dici. «Non dovresti» dice Leo. «Magari si è un po’ più soli, ma fai cose che a vent’anni neanche ti sognavi.» «Per quello ne faccio» dici. «Vivi del tuo. Permetti una vita libera alla tua famiglia. E forse fai anche un lavoro che ti piace.» «Vai avanti» dici. «Fra un po’ mi sentirò così meschino che fug-girò per i campi.» «Lo sai come ti guardano i ragazzi di vent’anni, mentre porti a spasso per il centro una bambina e una moglie perfettamente civi-lizzata, benché dell’Ohio? Ti guardano come un reduce, come carne morta, e non ci credono che anche tu un giorno ti sei fatto ta-tuare. E anche noi li guardavamo così, i padri di famiglia. Sii onesto. Li guardavamo male. Ma non è una questione di guerra fra generazioni. È solo che prima non puoi sapere com’è, mentre dopo, dimenticare è impossibile.» Le campane non ci sono più da molti anni, ma un altoparlante collegato a un registratore rimanda alle colline il clangore dei suoi rintocchi registrati. È una cantilena metallica che parte senza preavviso tutti i quarti d’ora, e anche sotto la tela rosa del riparo da spiaggia, ogni volta sussultate da capo.


«I contadini non mi incutevano timore, prima di partire» dice Galerio. «Pensavo fossero gente all’antica che si fa gli affari propri.» «Questi due sono speciali» dice Leo. «Devono essere una specie di milizia paramilitare alle dipendenze del parroco, come in Co-lombia.» «Sembra» dici. «È da quando siamo arrivati, che ci tengono d’occhio.» «Pensavo che noi camminavamo, e loro seminavano. Non credevo dovessimo implorarli per piantare la tenda. Non per piantarla di fianco a una chiesa, almeno.» «Non si fidano. Magari credono che siamo dei terroristi» dice Leo. «È la vecchia che li ha aizzati» dici. «Chissà cos’ha raccontato. Che la inseguivo con una scimitarra, forse.» «Eccoli che tornano» dice Galerio. «Non si può neppure cucinare in pace, cazzo.» «Si credono i padroni del posto» dice Leo. «Adesso glielo spiego, che devono lasciarci in pace.» «Buonasera» dice il vecchio per la terza volta, e il nipote che gli cammina a fianco scruta gli zaini e il po’ di disordine sotto il riparo come per imprimersi in mente ogni particolare. «Abbiamo provato di nuovo a chiamare Don Mauro» dice. «Allora?» dice Leo. «Possiamo restare?» «Non l’abbiamo trovato» dice il vecchio. «E se non dice di no, per noi potete stare. È solo che il parroco è lui, e bisogna domandare il permesso. Per correttezza.» «D’accordo» dici. «Ma ormai è buio. Forse è inutile, continuare a cercare il parroco.» «Vede» dice il vecchio, «se qualcuno si ferma sulla mia terra, Don Mauro mi avverte di sicuro.» «Perché non ci lasciate il numero» Leo dice. «Proviamo noi a chiamarlo.» «Vediamo di conoscerci un attimo, invece» dice il vecchio, e s’accovaccia di fianco alla tenda. «Così sarà più facile fidarsi.» «Sicuri che non cercate da lavorare?» domanda il ragazzo affondando le mani nelle tasche del giubbotto jeans. Ha una faccia che non ti piace, occhi troppo piccoli e sfuggenti per ispirare fiducia. «Assolutamente no» dice Leo. «Te l’ho già detto.» «Va bene» il ragazzo dice. Guarda il vecchio, aspetta di vedere cosa fa. «Lo dico perché di lavoro ce ne sarebbe.» «A noi non importa, se siete in regola con i permessi» dice il vecchio. «I permessi non li controlla


nessuno. Ma qui è capitato più d’una volta, che arrivasse qualcuno per lavorare, e il giorno dopo era sparito qualcosa.» «Fantastico» dici, e se non fosse tardi, raccoglieresti tutto nel Salewa per andarti ad accampare duecento metri più in là. «Ora basta» dice Leo. «Se pensate che siamo ladri, chiamate la polizia. Ma adesso lasciateci in pace.» «Quante parole» il vecchio dice. «Si vede che arrivate dalla città.» «Dicono che i contadini non ci si dovrebbero fermare troppo a lungo» dice Leo. «Si dice anche qui?» «Qui a Osterianuova» dice il ragazzo, «si dice che fidarsi è be-ne, ma non fidarsi è molto meglio.» «Dite che ci stiamo divertendo?» domanda il vecchio. «Noi non contiamo niente. Non decidiamo neppure. È per Don Mauro che lo facciamo.» «È vostra, la macchina fotografica?» dice il ragazzo. «Regiz» dice Galerio. «Quest’interrogatorio sta cominciando a darmi ai nervi.» «Posso chiedervi dove l’avete comprata?» «Gesù» dici. «Dov’è Don Mauro? Gli telefono adesso. Vado da lui a piedi.» «Volete il numero. E se poi non lo chiamate? Dobbiamo parlar-gli in tutti i casi.» «Ma perché vi siete messi in testa che siamo ladri» domanda Leo. «Di cosa, poi? Di galline? Non possiamo essere brave persone che camminano e basta?» «Potreste» dice il vecchio. «Ma le intenzioni non sono scritte in fronte.» «Neppure la fedina penale» dice il ragazzo. «Bel ragionamento» dice Galerio. «E comunque il nostro amico è un industriale.» «Non deve andare molto bene, la sua industria» dice il ragazzo. «Senza offesa, ma non ho mai visto un industriale dormire per terra.» «Aspettate» Leo dice. «Ce l’avete in casa un tritacarne? O la spremitrice per i pomodori?»

GIORNO DICIANNOVE.


Da Osterianuova a Spaccio Bagnolo e Osimo. Il cielo è senza nuvole e non tira un filo di vento, così prima di partire vi bagnate la testa alla fontana della chiesa. Solo dopo un po’ che camminate, Leo sospira e dice che non gli era mai capitato di doversi difendere da un interrogatorio, né di vedere una bombola celeste del campingaz decollare sotto una tenda. «Fortuna che avevo la sigaretta spenta» dici. «Ma il merito è stato suo, che l’ha buttata fuori.» «Pensavo fossi capace di cambiarla» dice Galerio. «“Spingi pu-re” mi dicevi, e io ho spinto.» «Non mi ricordavo che si svitava anche il bruciatore» dici. «Do-po tutte le domande di quei due abbiamo cenato alle dieci, e dovevo essere stanchissimo.» «Appena s’è bucata, è schizzata in aria come un bolide» dice Leo. «Per poco non ti portava via il naso.» «È andata bene che ho sentito solo un fiotto gelido sulla faccia, ma se avevo la sigaretta accesa, mi sa che erano cazzi.» Dopo è servita un’ora, per arieggiare l’interno del riparo, e se non ti avessero avvertito avresti continuato a dormire fuori. «Nella mia guida alle trattorie meglio nascoste del Paese lo scriverò senz’altro, che il posto di ieri sorge al centro di un’area inospitale» dice Leo. «Le badìands di Osterianuova.» «Secondo voi esiste, Don Mauro?» domanda Galerio. «O la chiesa era una chiesa fantasma, e i tipi stavano valutando se valeva la pena di tagliarci la gola nella notte?» «Lo capisci subito, che non vale la pena» dici. «Forse erano solo curiosi.» «Io mi sono sentito minacciato» dice Leo. «Non so voi, ma pensavo che avremmo dovuto cacciarli, invece se ne stavano a un passo dalla tenda come se fosse la cosa più naturale del mondo. Adesso mi alzo, mi dicevo, e li caccio a pedate nel culo. Ma più li guardavo, più mi convincevo che dovevano essere armati.» «Brutti erano brutti» dice Galerio. «Ma anche noi non scherzia-mo.» «Comunque ce l’ho in memoria, il numero del Don. E un giorno o l’altro lo chiamo. Vorrei sapere se è a conoscenza del fatto che i paramilitari presidiano la sua parrocchia. Glielo vorrei ricordare, che i primi cristiani erano ladri e prostitute. Chissà se l’ha mai sentito dire.» «Gli telefoniamo solo a notte fonda, però» dice Galerio. «Cristo non ha detto di accogliere i poveri?» domanda Leo. «E questa che razza d’accoglienza sarebbe? Se non rispondevo bene ai loro indovinelli di merda sulla


spremitrice, forse ci accoppava-no.» «Adesso» dici. «Non saremo andati un momento in paranoia?» «Sì, e i tipi erano fantasmi, e Don Mauro non esiste come dice Galerio. Bella storia. Viviamo in un’allucinazione. E il castello laggiù è l’unica cosa reale.» «Come si chiama quel paese?» domanda Galerio. «Montefano» dici. «È l’unico paese che attraversiamo oggi.» «Anzi, non è reale neppure quello» s’esalta Leo. «Quello è più fasullo del resto. Siamo reali solo noi, e le badlands di Osterianuova sono precisamente un sogno.» Per un po’ ridendo va avanti a esporre quei suoi incubi concen-trici, e in meno di un’ora, prima che l’asfalto s’arroventi, arrivate sotto le mura del paese. Il paese ha un’aria operosa, come fervessero i preparativi per una festa o una fiera, e ormai la gente è vestita come nel cuore dell’estate. Calzano ciabatte e sandali, e a vederli pensi che ormai i tuoi scarponi in Gore-Tex hanno fatto il loro tempo. Non lontano dal castello si apre un parco pieno di bambini, e al limitare del parco sorge un chiosco circondato da un semicerchio di tavolini in ombra. In bella vista sul bancone c’è un blocco di cartoline che invitano a votare la lista di Alessandra Mussolini. Vi fate preparare sandwich da mangiare lungo la strada, e quando la ragazza che vi serve impara che avete intenzione di raggiungere il mare a piedi, non fa nulla per nascondere il suo stupore. «Ci arriverete a notte, a Porto Recanati» dice, e tu spieghi che non state andando là, ma oltre il Conero, e il suo volto sembra illuminarsi. «Perché lo fate?» domanda, e sembra una persona soggiogata dalla curiosità. «È una specie di pellegrinaggio» dici. «Un pellegrinaggio verso casa.» «Arriviamo da San Severino» carica il colpo Leo, « e il mio amico è partito dal Tirreno, per venire a fare il bagno da queste parti.» «Oh» dice la ragazza. «Altroché gli invertiti della televisione. Voi sì, che siete uomini.» Ti guarda felice, e confuso come ti senti ordini ghiaccioli Calip-po per tutti. «Quella ti tira addosso» dice Leo appena prendete posto a uno dei tavolini. «Hai visto come ti guardava?» «Mi ha imbarazzato» dici. «E comunque domani rivedo mia moglie.» Sedete, e racconti ai ragazzi di quando hai detto al vecchio Rigoni Stern che stavi per sposarti. «“Adesso la finirai di andare in osteria” mi ha detto. Io l’ho guardato negli occhi, sorridendo senza capire, e lui mi


ha stretto il polso nella sua grande mano. “Solo i matti” ha sorriso, “vanno in osteria quando hanno già il vino in casa”.» «Ne sanno, i vecchi» dice Galerio. «Sono stati pazzi anche loro, e solo dopo sono diventati saggi.» «Il vecchio Rigoni ne sa eccome» dici. «E con la storia del vino a casa, mi ha steso per sempre.» Al tavolino si sta all’ombra e si sta bene, ma la campagna intorno a voi sembra scintillare sotto il sole come se le colline fossero di bronzo. I vostri zaini attirano l’attenzione d’un ragazzino che forse non arriva ai sei anni. Ha la testa rasata come gli scolari d’una volta, e conducendo a mano la piccola bici prende a ronzare intorno al tavolo senza il coraggio di avvicinarsi. Solo quando Leo lo saluta, come fosse in attesa di un’autorizzazione, lascia la bici e viene a poggiarsi con i gomiti al bordo del tavolino. «Perché avete gli zaini grandi?» domanda guardandovi con cautela. «Andiamo al mare» dice Galerio. «Dentro ci sono le palette e i secchielli.» «Non avete la macchina?» domanda il ragazzino. «Mio padre ce l’ha. Se volete vi faccio portare da lui.» «Ce l’abbiamo» dice Leo. «Andiamo a piedi apposta.» «E le macchine dove sono?» «A casa» dici. «A Bologna. E la sua Golf a Perugia.» «Non potevate venire in macchina?» «Vuoi mettere» dici. «Così non ci perdiamo niente, e quando vediamo un paese possiamo uscire dalla strada e visitarlo con calma.» I] ragazzino vi guarda uno a uno, e non sembra molto convinto. «Guardate» dice, «che anche in macchina si può. Non sapete mettere la freccia?» La frazione ai piedi del castello fa già parte del comune di Recanati. Il paese però è lontano, distinguete appena la torre del borgo, e fra le ultime case costeggiate il cortile di una scuola elementare. Il cortile è pieno di bambini, e appena vi vedono molti s’addensano dietro le maglie della recinzione. Formano una massa compatta, dalla quale emergono volti e mani a decine, e per un po’ restano a guardarvi in silenzio, come per giudicarvi, ed è una sensazione che si fa subito opprimente. «Siete brutti» vi urla contro una bambina lentigginosa. «Siete ma-rocchini» nitrisce, ed è come il segnale d’inizio per un pogrom fatto di grida stridule. «Zingari luridi» gridano i ragazzini. «Albanesi!» Ridono, ma nella loro allegria distingui la codardia naturale degli animali gre-gari. «Ugoslavi» vi gridano contro, e tu pensi che la tolleranza non fa parte in nessun modo del nostro bagaglio naturale. Va insegnata, ma le maestre chiacchierano dall’altra parte del cortile.


«Tu» dice Leo puntando l’indice contro la bambina lentigginosa che ha cominciato la cagnara, «tu sei la bambina più ignorante che abbia mai conosciuto.» Quella a sentirsi messa in mezzo ci resta male, ma ormai i compagni paiono ammattiti e premono contro le maglie della recinzione. Un ragazzino prova a sputarvi, ma finisce per sporcarsi le mani. Ti piacerebbe sfilare il Salewa e saltare dentro. Giusto per mettere loro paura. Almeno imparerebbero che è imprudente, confi-dare nell’impunità solo perché si è protetti da una recinzione alta meno di due metri. «Qual è il punto?» insiste Leo invece di andarsene. «Cosa vi hanno fatto di male gli stranieri?» «Lasciali perdere» dice Galerio fermo dieci passi avanti. «Con i genitori, dovremmo prendercela.» Leo però non è arrabbiato, cerca solo di farsi sentire. «Siamo tutti uguali» grida. «È chiaro?» E poi la piccola folla si apre, e la figura d’una donna dai capelli rossicci e il naso a punta appare a un braccio da voi. «Cosa sta succedendo qui?» domanda mentre il solito ragazzino tenta di scalare la rete per sputare da sopra. «Lei sarebbe la maestra?» domanda Leo sopra il putiferio. «Le sembra normale che insultino la gente?» «È proibito sostare nei pressi di una scuola elementare» dice la donna senza avvicinarsi alla recinzione. «Mi hanno detto di andare con loro» piagnucola la bambina lentigginosa. «Volevano portarci via» e la maestra le carezza la testa. «Tu dici solo bugie» la accusa Leo severo. «Non fare la furbina, okay?» «Lasci stare i bambini» dice la donna, su di giri. «Per carità» dice Leo. «Pensano che siamo stranieri e che questo li autorizza a urlarci contro.» «Sembrate stranieri» dice la donna. «E in ogni caso li avete spaventati.» «D’accordo» dice Leo. «Andiamo subito. Mi dica solo come si chiama questa scuola di nazisti.» La maestra non risponde, ma il ragazzino aggrappato alla rete dice che sono le scuole Diaz. «Elementari Armando Diaz» specifica, poi risucchia e ti sputa. «Bravo Yuri» dice la maestra mentre i bambini ridono. «È giusto non avere paura dei primi barboni che passano» e una specie di saracinesca s’abbassa dentro la tua testa. «Lei ruba lo stipendio tutti i mesi» dici alla donna. «Cosa può insegnare, una persona che non capisce un cazzo?»


I ragazzini, a sentire la parola proibita sbandano e quasi fanno silenzio. «Se non ve ne andate, chiamo i carabinieri» dice lei, e la voce le trema. «Il mio fidanzato è brigadiere, e sarà qui in quattro e quattr’otto.» «Lasciatela perdere» dice Galerio. «Non sa a cosa aggrapparsi e scoreggia dalla bocca.» Dice così nel silenzio putrefatto che è sceso, e la donna grida come l’avessero colpita. «Scusi» ride lui. «È solo che sembra un dialogo fra sordi.» «Voi pezzenti» dice la donna, ma non le viene il verbo. «Adesso chiamo sul serio i carabinieri» proclama, ma anziché cercare un telefono si mette a singhiozzare con il naso fra le mani, e qualcuno dei bambini adesso sembra spaventato sul serio. «Fai bene a piangere» dice Leo mentre lo trascini via per un braccio. «Sono amico del provveditore. Giochiamo a tennis insieme, e l’anno prossimo finisci a insegnare alle capre, no ai bambini.» «Su» dici. «È solo una stupida, e l’abbiamo fatta piangere.» «Non dovrebbero affidare i bambini a una stupida. Se penso che mia figlia può finire in mano a una così, una razzista, mi viene voglia di conoscer lo sul serio, il provveditore.» All’inizio è talmente arrabbiato che cerca sul cellulare il numero di Telefono Azzurro. Dice di voler denunciare la maestra, e ci vuole un po’ a convincerlo che sarebbe solo una perdita di tempo. «Sono cazzi, decidersi ad affidare tua figlia a qualcuno» dice do-po un po’. «Darma la manda allo stesso asilo che frequentavo io.» «Sì» dici, e sei contento che parli con voi, anziché con la centra-linista di Telefono Azzurro. «E dove? Vicino a casa?» «Vicino allo stadio» dice. «Dalle Maestre Pie.» «Io sarei contrario alle scuole private» dici. «Ma anche la pubblica di poco fa, non fa venire tanta voglia.» «Alle Maestre Pie non ci sono quasi più, le suore» dice Leo. «Nessuna donna in Italia fa più la suora. Ci sono le insegnanti lai-che, e l’unica suora mi sa che è la direttrice con la quale ho parlato per iscrivere Darma. Prima di staccare l’assegno, volevo sapere se l’avrebbero fatta sentire diversa dagli altri perché non era battezzata. La suora ha detto di no. C’è anche un ragazzino musul-mano, pensate.» «Alle Maestre Pie» dice Galerio. «Già. E dopo qualche giorno salta fuori che il ragazzino musul-mano non vuole parlare con mia figlia. Allora indaghiamo, e si scopre che il padre gliel’ha proibito. E sapete perché? Perché mia figlia sarebbe americana.»


«Si comincia presto» dici. «A parte che mia figlia non è americana e ha sempre abitato qui, avrei voluto parlarci con quest’uomo. Spiegargli che se li mettiamo uno contro l’altro a cinque anni, c’è poco da stupirsi. Volevo andare a casa sua e dirgli che i nostri figli dovevano diventare amici, ma alla fine non ho mai trovato il tempo di farlo. Malcolm è battezzato?» domanda subito dopo. «No» dici. «Non ancora. Eravamo contrari, ma adesso ci sto pensando.» «Secondo me la gente dovrebbe essere battezzata da adulta» dice Leo. «Mi sembra assurdo, decidere per lei adesso. Però di Gesù le parlo. Mi fa un sacco di domande, e a volte sono in imbarazzo. Perché Gesù voleva bene anche a Giuda?» «Bisogna avere la stabilità economica, per diventare genitori» dice Galerio. «Però serve anche essere dei teologi.» «Io mi sento impreparato» dici. «Pensavo che un giorno avrei capito quasi tutto, e invece Malcolm comincerà fra non molto a gelarmi di domande. L’unica cosa che posso fare è spiegargli le cose come le ho capite fin qui.» «Per forza» Leo dice. «Cosa vuoi, spiegargliele come le ha capite un altro? Non sarebbe molto onesto, alla fine.» «Nettamente» incassi, e pensi che Leo Pagani, nella semplicità dei suoi argomenti, si mantiene sempre vicino all’essenziale. Osimo dista solo dodici chilometri. La vedete ormai a portata, e mentre preparavi il tabellino di marcia avevi stabilito che sarebbe stata l’ultimo posto-tappa. Pensavi che dormendo lì, anche se ci fossi arrivato zoppo, saresti riuscito in ogni caso a raggiungere il mare prima del tramonto successivo. Ora senti la fine arrivarti incontro troppo in fretta, e nel punto più profondo d’una curva gioisci nel vedere una strada bianca che sprofonda via dal crinale e si tuffa dritta verso il cuore punteggiato di papaveri d’una delle ultime contrade in pace. Per questa via i chilometri diventano più di venti, ma ai ragazzi, mentre prendete a scendere lungo il fondo polveroso, non dici la verità. Dici che così s’allunga d’un niente, e se menti è perché sai che ce la faranno. Arriverete a Osimo per la campagna, e ve lo guadagnerete passo passo, il diritto di riposare laggiù. «In ogni caso» dice Leo «non esiste nessun santo, con i nomi dei nostri figli. E un po’ sono contento. I figli non dovrebbero avere nomi troppo comuni.»


«Credo anch’io» dice Galerio. «Ma voi proprio non rischiate, che si trovino in classe qualcuno col nome uguale.» «Darma significa “la Distruttrice”» sussurra Leo, e tu pensi che sua figlia, al massimo, avrà distrutto delle piramidi di Lego. «È un nome che deve proteggerla» spiega. «E Malcolm perché si chiama così?» «È un omaggio» dici. «Avevo tredici anni, quando ho letto l’autobiografia di Malcolm X, e per un sacco di tempo mi sono sentito in colpa di essere bianco. Uno come me, pensavo, come minimo dovrebbe essere mulatto. Però non è solo un omaggio a Malcolm X.» «Un’idea ce l’ho» dice Leo. «Si chiama così anche il chitarrista degli Ac/Dc. Il fratello timido di Angus.» «Lascia perdere» dici. «Malcolm significa “Seguace della colomba”.» «Un po’ diverso da Darma» Leo dice, «ma anche questo è un nome che deve proteggerlo.» «Regiz» dice Galerio. «Mi sembra di camminare insieme a due druidi.» Mentre avanzate fra la polvere, pensi che i tuoi genitori hanno passato la vita a insegnare, e pensi che una volta era più semplice: sceglievi un lavoro, o lui sceglieva te, e bene o male il lavoro ti avrebbe accompagnato per sempre. Soprattutto se era un lavoro per il quale ti eri preparato e avevi studiato anni. Guardando gli adulti, temevi i guasti della stabilità, l’immobilismo borghese, ma erano preoccupazioni fuori luogo. Intorno a te vedi solo gente che fugge urlando dal posto di lavoro, gente che piangendo ne cerca uno qualsia si e altri ancora che pensano di emigrare. Solo Leo è ragionevolmente sicuro del timone che stringe fra le mani, e quanto a certezze, secondo staccato arrivi tu. Non faresti cambio con Galerio o il Viet, né con tuo fratello. Il dottor Luca Rappini è malato d’indecisione e sbalzi gravi d’umore, e gli altri ti sembrano ancora all’inizio del sentiero. Ammiri il coraggio quieto di tuo fratello, la forza d’animo che guida Galerio a non abbatter-si mai e ricominciare ogni volta. Speri per loro una vita di meraviglie, ma li senti dietro le spalle, qualunque cosa voglia dire essere più giovani. Gli unici capaci di farsi carico d’una famiglia, a un’età in cui tuo nonno non si sentiva più né un giovane né un ragazzo, siete tu e Leo Pagani. Un uomo che fino a un mese fa salutavi appena, e adesso è felice di abbrutirsi insieme a voi e guadagnare terreno verso il mare. All’inizio pensavi che tutto questo camminare ti avrebbe condotto a un traguardo, e se una volta sulla riva sentirai tremare le ginocchia come il pomeriggio che Firenze ti è apparsa dopo cinque giorni di marcia, la vittoria di Leo non sarà più piccola della tua. E lui è stato l’unico finora, a capire che non si può sempre scegliere, e che in ogni caso andare è meglio di restare fermi a prepararsi per un futuro che non verrà, la vita di puro entusiasmo come la sognavate da ragazzi. Pensavate che i trentenni fossero lenti, ma non sapevate che razza di botte avevano preso nel frattempo,


né quanta gente avevano già visto cadere. Ma adesso, al di là delle bandierine da piantare sulle carte, al di là dei brindisi che non mancheranno e delle sensazioni sublimi che proverai sulla riva e dentro al mare, per restare un attimo fedeli a quello che conta, bisognerebbe fare in fretta a scrivere ogni cosa. Mettersi d’impegno e raccontare com’è andata. Parlare della bellezza che ti ha riempito il cuore a ogni nuovo orizzonte che s’apriva, e farlo subito, prima che si spenga l’amore che hai provato per ogni prato. Prima di scordare i posti in cui avete dormito, e tutte le colline che ti sono apparse luoghi adatti in cui restare a vivere. Non dovrebbe essere difficile. Basterà raccontare dei ragazzi che hanno camminato con te, di chi c’era ad aspettarti e di tutti quelli che t’hanno accompagnato fin qui senza saperlo. Servirà raccontare le cose in modo onesto. Senza voler sembrare qualcuno di diverso da un padre giovane che, dopo tre settimane, vuole svegliarsi in un letto pulito insieme a suo figlio e la ragazza che ha sposato. Adesso sono loro i compagni con i quali rilanciare l’andatura, e non ti dispiacerai se non avranno subito il tempo d’ascoltare la storia del tuo viaggio. A loro, e solo a loro, hai una vita per rac-contarla. La sterrata risale le alture una dopo l’altra, congiunge fattorie isolate sulla sommità delle colline, e ogni volta si tuffa da capo verso fossi di cui nessuno può dirvi il nome. Galerio dice d’avere i talloni in fiamme, e appena vi trovate in testa a un tratto in discesa, Leo accende una Lucky Strike. «Sento di avere un disperato bisogno di un Moment» dice a un certo punto, e la sua voce bianca e piatta non ha nulla di scherzoso. «Ci saranno quaranta gradi, e il sole mi sta facendo impazzire.» «Ho le ultime aspirine» dici. «Compresse masticabili.» «Con tutto questo sole che pialla la testa, preferirei affidarmi al-le medicine che uso di solito.» Vi state inoltrando lungo una sterrata polverosa, nel cuore di vallette dove gli unici veicoli in vista sono le mietitrebbia al lavoro nei campi. «Non c’è neppure un paese» dici. «Mi sa che per il Moment devi aspettare stasera.» «Okay» dice pallido. «Va bene un’aspirina, allora.» Ci sono momenti in cui pensa di non farcela, e allora dovete scendere a patti per spostare la prossima sosta cento passi più in là. Quando è l’una vi fermate a pranzare, addossati agli zaini, nel poco d’ombra che una macchia di roveri proietta intorno alle rovine d’un casale. «Ma a te» dice Leo «com’è saltata fuori, ‘sta fregola del camminare? È la cosa più semplice del mondo, ma non siamo in tanti.»


«Non saprei» dici. «Forse è solo che i miei nonni abitavano in campagna, ed erano abituati ad andare a Bologna a piedi. Mia madre ha preso da loro, e io ho preso da lei. Va ancora a camminare in montagna» dici. «Anche da sola.» «E poi sei stato negli scout» dice Galerio. «Anche lì, mi sa che si marcia un bel po’.» «Si marciava» dici, «ma c’erano anche le ragazze, così non si facevano mai cose troppo impegnative. Il bello è partire fra amici, arrivare al punto in cui non ce la fai più e passare dall’altra parte.» «Morire, intendi» dice Leo. «Scherzo» dice subito, «è solo che nel profondo è un po’ come morire e diventare un altro.» «La luce sembra gialla, qui» dice Galerio. «Come nel deserto. E sono curioso di vedere cosa diventa al tramonto.» La lingua d’asfalto ricomincia a coprire la strada in vista delle quattro case di Spaccio Bagnolo. C’è una fontana sul fianco della chiesa, e mentre vi rifornite la perpetua vi spia dietro la finestra. Visti da qui, i colli di Osimo e Castelfidardo sembrano ospitare città gemelle, mentre la torre del borgo di Recanati è riemersa ormai dietro di voi. Scendete a rotta di collo verso il fiume, senza preoccuparvi se perdete quota e la città scompare dall’orizzonte. Adesso siete schiacciati nel cuore disabitato della valle, di nuovo sulle montagne russe d’una sterrata che collega casolari sparsi. Alla base degli strappi più impegnativi, con tutta la polvere che vi si attacca addosso, Leo sfila il videocellulare a mattonella, fotografa la nuova salita che vi attende e invia l’immagine al telefono di Terry, che lei e la piccola Darma si rendano conto a quali imprese si dispone. Perdete quota, la riguadagnate da capo per tre volte, e senza preavviso vi trovate a camminare attraverso un pianoro dove i gabbiani volano bassi sulla terra rivoltata, e la brezza che risale da Oriente odora di sale. Un grande rovere solitario domina il pianoro, e appena siete all’ombra Galerio si blocca, e per un po’ lo vedi annusare l’aria. Poi stende il braccio oltre il colle di Castelfidardo, indica qualcosa che sembra un capannone, o forse un container, molto più lontano delle case e dell’ultima linea di campi, e il container balugina vago sotto il sole, come sospeso in aria. «Regiz» dice con l’eccitazione che gli sale in gola, «quella laggiù è una cazzo di petroliera» e interrogando l’enorme distanza metti a fuoco per la prima volta la linea vaga che separa il cielo dall’orizzonte curvo dell’Adriatico. Pensavi che avresti gridato il nome del mare, invece senti qualcosa che ti chiude la gola, e tutto quel che riesci a fare è stringere in un abbraccio Galerio. Poi abbracci anche Leo, che fino a un me-se fa salutavi appena, e vedi che ha gli occhi lucidi. «Ce l’ho fatta» mormora. «E non mi ero allenato per niente.»


Allora sfilate gli zaini ai piedi del rovere, vi sedete per celebrare a modo vostro con quello che resta delle primizie di Leo. Il gusto selvatico della skunk mescolata al tabacco vi inonda di gioia. Fumate e vi riempite i polmoni di tutto il profumo di terra e sale. Restate là un pezzo ad ascoltare i gabbiani, e di tanto in tanto senti il bisogno di alzarti per controllare che la grande petroliera ci sia ancora, e riempirti i polmoni di tutto quel profumo di sale. Scendete verso la costa, lungo una vicinale che procede parallela al corso del fiume Musone. Non vedete il letto, ma solo il fitto d’alberi che gli fanno ala, e viottoli infilano la macchia alla vostra sinistra, ma si interrompono quasi subito. Aggirate lo specchio fermo d’un laghetto artificiale, e poco prima d’infilare il ponte sul Musone, un cartello segna il limite fra la provincia di Macerata e quella di Ancona. «Non fa buon odore, questo fiume» dice Leo mentre passate sull’acqua. «Non sai cos’è alla foce» dici. «All’inizio Dina aveva una spi-der, e quando la sera si andava a Porto Recanati, nel punto in cui la strada s’infila nei canneti vicini alla foce, c’era da tirare su la ca-pote.» «Adesso però non l’avete più» dice Leo. «È un secolo che non la vedo parcheggiata in strada.» «Adesso abbiamo la Polo» dici. «Tre porte. Se avessi saputo che i ragazzini devono sedere in un seggiolino speciale fino all’età delle medie, almeno prendevamo una cinque porte.» «Tu tanto vai in Vespa» dice Leo. «Ormai, per la famiglia, ti conviene pensare a una monovolume.» «O un furgone» dice Galerio. «Così fino a nove ci state.» Oltre il ponte la strada piega fra i campi di barbabietole e gira-sole. La cresta del colle di Osimo si allunga a Nord-Est, e dove le estreme propaggini lambiscono la pianura si staglia il profilo oscuro d’una cupola che sembra sorgere direttamente dal terreno. Secondo un uomo a bordo d’un Ciao, si tratta d’una frazione chiamata Campocavallo, e per arrivare a Osimo evitando la statale vi conviene passare da là. «Per un tratto seguite la pista ciclabile, e appena trovate uno stradello che si stacca sulla destra e punta il cupolone, andate sicuri.» La pista ciclabile è intitolata al grande Girardengo, un campione cui sei affezionato da sempre, e leggere il suo nome su una targa ti sembra di buon auspicio. «Ci sarà una farmacia, in questa Campocavallo?» si informa Leo, e ormai trascina i piedi. «Se non trovo un Moment e mi siedo mezz’ora al fresco potrei sentirmi male.» «Su» lo sprona Galerio, la maglietta appicicata alla schiena fradicia, «gente che va al mare a piedi mica si dovrebbe spaventare per un po’ di caldo.» Poi sorride a labbra cucite, ma anche lui ormai si fa forza stringendo le tracolle. Il sole ti batte sulle tempie, e pensi che se vi fermate in un posto senz’ombra, forse non riuscirete più a partire.


I pochi anziani in giro per Campocavallo vi guardano come fo-ste evasi in fuga e voi vi trascinate fino a una fontana a colonna, vi lavate la faccia e riempite le borracce. Il display a cristalli liquidi di un calendario-termometro installato sulla facciata di una banca vi informa che l’aria avrebbe raggiunto la temperatura di trentasette gradi. Ora tornate a vedere la città di Osimo, che vi sovrasta dalla ci-ma del colle come mai ha fatto in tutta la giornata; sembra galleg-giare in una nube d’acqua in sospensione, abbastanza vicina da lasciarti contare i campanili, ma i profili degli edifici appaiono scontornati nella luce scabra del pomeriggio. «Madonnina» dice Galerio, «sono ridotto a una poltiglia.» «Io non lo so» mormora Leo, «se dopo riesco a salire lassù.» Per un poco scruta controluce le chiese e i palazzi racchiusi dall’anello delle mura. «Al limite noleggio una moto» dice. Poi ti guarda e sorride. «Ma forse più tardi, col fresco, sarà tutto diverso.» «Volete andare a Osimo a piedi?» domanda quasi indignato il barista. «Ma per Osimo» s’ingolfa per l’emozione mostrando le dita stese verso l’alto, «sono quattro chilometri di salita cuscì.» «Ehi» dice Leo inclinando la destra a rappresentare una salita più lieve «al massimo così.» «No, no» insiste il barista, «fidatevi che è proprio cuscì.» «Cosa vuoi che siano» dici, «a questo punto, quattro chilometri?» «C’è da morì» dice il barista. Sembra l’abbiano pagato per sco-raggiarvi. «Fuori segna trentadue gradi, e prima è arrivato a trentacinque.» «Trentasette» precisa Galerio. «Comunque siete bravi, da queste parti, a fare forza alla gente.» Il barista per un attimo fissa voi e fissa i vostri zaini. «Se volete, alle sei parte la corriera. Proprio da qui, davanti alla chiesa, e arriva fin su alle mura.» «Fate come volete» dici appena siete fuori. «Se siete morti, prendete la corriera e ci vediamo su in piazza.» «Il diavolo non è mai così brutto» dice Galerio. «In un’ora al massimo saremo arrivati, e non sarà come esserci andati in corriera.» «Io ci provo» dice Leo con occhi enormi. «Al massimo mi lascio cadere in un fosso e dormo lì, poi domattina all’alba vi raggiungo.» «Dai, allora» dice Galerio. «Senza restare a pensarci su.» Seguite una strada chiusa per lavori che sale in modo dolce, e quando varcate le transenne poste a monte state già camminando lungo il marciapiede d’una via alberata. Adesso incrociate mas-saie con la spesa e uomini in abito scuro e valigetta che rientrano dall’ufficio. Le mura bianche che da molti secoli custodiscono la città sono così vicine che puoi distinguere le imperfezioni e i chia-roscuri della pietra e, oltre quelle, gli occhi rettangolari di centinaia di finestre sono aperti sull’ora quieta che, in estate,


prolunga il pomeriggio e ne rende ricchi i colori. L’ultimo strappo fino alla circonvallazione esterna è costituito da una scorciatoia impraticabile alle auto. Forse è a questo budello di duecento metri che pensava il barista di Campocavallo quando mostrava le dita tese verso l’alto e faceva risuonare il suo cuscì. Puoi contare i passi uno a uno, abbassare lo sguardo per non sapere quanta fatica resta da fare, tutto il sistema di rituali senza parole che ti hanno sostenuto fin qui ogni volta che la forza sembrava venir meno. Una volta in testa al budello salite le rampe d’una scaletta e vi ritrovate ai piedi delle mura: adesso potete abbracciare tutta la terra fino al dorso boscoso del Conero. Nascosto dietro la plaga di Numana e Sirolo deve esserci lo scosceso delle falesie calcaree, il collo immane dell’animale, e in fondo allo strapiombo gli scogli delle Due Sorelle, a mostrare il punto esatto in cui la testa scompare per abbeverarsi in mare. A mezza via fra le mura e il monte, il rilievo del colle di Camerano e il suo campanile indicano la strada di domani, e la brezza di mare si mescola al respiro della terra carica di frutti. Sotto di voi, tutto risuona di pace a lungo desiderata e a perdita d’occhio si stende il biondo delle messi mature. Casali candidi spiccano fra i versanti tenuti a vigna, e ti pare che in ogni dove l’animo degli uomini debba assecondare la gentilezza del crepuscolo.

GIORNO VENTI. Da Osimo a Camerano e Portonovo. Sembra che anche oggi la morsa dell’afa non lascerà tregua fino a sera, ma è l’ultima tappa e ormai non sarà il caldo a fermarvi. An-drete a prendervela da soli, la brezza che sfuria la riva stretta ai piedi delle falesie che fino all’ultimo non si mostreranno. Mentre raduni per l’ultima volta le tue cose dentro la bocca del Salewa, lasci i calzoncini da bagno a portata di mano e pensi che finora li hai usati solo a Saturnia insieme a tuo fratello. Gli hai mandato un messaggio, ieri sera. Conosce anche lui quel tratto di costa in cui approdavano le triremi greche e le felu-che dei saraceni, e ti ha scritto di pensare alla vostra fatica sull’Amiata, quando davanti a voi sarà solo acqua. Se l’anno scorso con Dina avete scelto di sposarvi da queste parti, è perché quest’angolo di Marche affacciato sul mare è il vostro posto, quello in cui il vostro amore è nato e si è fatto qualcosa di forte, capace di generare vita nuova.


Per trovare la strada fin qui hai avuto bisogno delle Kompass e le tavole dell’Istituto Geografico Militare, ma ora non ti serve più nessuna mappa. La conosci a memoria la strada che, risalendo per tornanti le pendici del Conero, dal paese di Camerano si getta sulla strada del monte. Passerete dall’abitato del Poggio, poi giungerete al bivio per Portonovo, dove la vista si spalanca sul mare e sotto di voi vedrete aprirsi la spiaggia sterminata di Mez-zavalle. Non hai mancato un’estate, da quando hai conosciuto la ragazza che sarebbe diventata tua moglie. Con la riserva d’olio nel bauletto e tutte le soste panoramiche del caso, potevi metterci fra le sette e le nove ore. Dopo, avere la Vespa al mare risultava di una comodità stupefacente, ma ogni tanto ti capitava di confonderti, e allora potevi avere fatto tutta quella strada solo per il momento preciso in cui, dopo trecentocinquanta chilometri, issavi la Vespa sul cavalletto davanti al cancello della casa di Dina e, richiamata dal canto glorioso del motore, lei usciva attraverso il giardino, dorata di sole e ogni volta un po’ cambiata, per venire ad abbracciarti. Nella luce piena del mattino di giugno Leo e Galerio finiscono di approntare i loro zaini, e tu pensi che è rischioso, racchiudere il senso del viaggio nella bellezza di un momento, che sia un pano-rama sublime o l’arrivo fra le braccia della ragazza cui vuoi bene. Se quest’estate li hai percorsi a piedi, trecentocinquanta chilometri, è per sostituire il viaggio in Vespa con qualcosa di più incerto e faticoso. Volevi metterti alla prova, dimostrare a te stesso che non eri ancora un morto vivente, e un po’ d’aria fresca t’avrebbe senz’altro fatto bene. Pensavi che l’ossigeno ritarda la de-composizione, e anche se ognuno di noi è destinato a barcollare ogni tanto, camminare per un tratto come i morti viventi, sapevi che stare fra amici t’avrebbe fatto caldo al cuore. Con qualcuno sognavate di fare la rivoluzione, con qualcun altro di andare in tournée a Parigi. Leo poi non sapevi neppure che esistesse, prima di trasferirti nella casa nuova ma, con tutti, quest’estate avete fatto qualcosa di più che sognare e basta. Avete sognato in movimento, spalla contro spalla, bevendo dalla stessa borraccia e facendovi forza a vicenda, e di questa disponibilità a sognare insieme ti senti grato a ognuno di loro. Traversate Osimo, e prima d’uscire dal centro vi fermate a comprare un po’ di frutta per il pranzo. «Andate a Camerano?» domanda il bottegaio che sente i vostri discorsi. «Ma allora vi conviene seguire la via degli Zingari.» «Pensavo di scendere da dietro» dici, «evitando la stazione.» «Per i campi. È la via degli Zingari.» «Non sapevo si chiamasse così» dici. «Si va per i campi finché non si scavalcano l’autostrada e l’Adriatica, e praticamente sei già in paese.» «Proprio» dice l’uomo. «E il posto dove si scavalca, si chiama Scaricalasino.» «È magnifico» dice Leo. «E noi zingari carichi come asini, quando saremo laggiù potremo quasi levarci lo zaino.»


Per un po’, scendendo lungo il marciapiede, parlate di tutti i nomi strani incontrati lungo la via, e nel loro succedersi ti sembra di intravedere gli accenni d’una storia misteriosa parallela a quella del tuo viaggio. «Con mio fratello» dici, «abbiamo traversato posticini come la Polverosa, Mala Mulier e Monte Nebbiali, e il prato fuori Santa Fiora si chiamava Piscina Mignottaia.» «Allegria» dice Leo. «Sì. Mettevano fiducia, se conti che era solo all’inizio del viaggio. Poi col Viet abbiamo incrociato due torrioni che presidiavano un confine vecchio di secoli, e si chiamano Beccati questo e Beccati quest’altro. Proprio il giorno in cui pensavo di essermi giocato i piedi.» «Anche il Ponte dei Lupi non scherzava» dice Galerio. «Chissà che fine hanno fatto, gli agnellini che abbiamo incontrato laggiù.» «Già» dici. «A quest’ora avranno raccontato le loro balle strap-palacrime a un sacco di gente. Adesso che cominciano ad arrivare turisti in massa, sarà una festa per tutta l’estate.» «E poi c’è stato il Passo del Termine» dice Galerio. «Lì, regiz, pensavo di terminare io. Solo il fatto di avere salvato la Nikon mi ha dato la forza necessaria per andare avanti.» «Dopo lo spartiacque, anche i nomi sono diventati più dolci» dici. «Non avevo mai visto un posto chiamarsi “vocabolo”.» «E quando ci saremmo passati?» domanda Galerio. «La strada di Casaluna» dici, «si chiamava così. Vocabolo di Casaluna.» «La strada, non il paese.» «Però “vocabolo” significa anche “frazione minuscola”» dici. «Sul dizionario.» «Bastava Casaluna» dice Leo. «Casaluna è bellissimo.» «Ascoltate» dici. «Ponte delle Pecore.» «Era più bello Ponte dei Lupi» dice Galerio, e poi capisce anche lui. «Li abbiamo fatti tutti e due» dice. «Quale prima?» domanda Leo. «Questo sposta un sacco di cose.» «Prima i Lupi» dici. «E le Pecore dopo il Termine.» «Allora si va verso la pace» dice Leo, e per un po’ camminate in silenzio. Poco più avanti, attraverso le ante spalancate di un garage che un tempo deve essere stato un fienile, vi


appare una fila di vecchi poster di calciatori incollati alla parete di mattoni; stinti dal tempo ma ancora sorridenti riconoscete Haller e Bulgarelli, e sotto i poster qualcuno ha scritto a vernice bianca w BOLOGNA. È bello pensare che anche qui esistono, o sono esistiti, tifosi ros-soblù, e mentre Galerio prende le misure per una foto, dal garage esce la padrona di casa. È una signora che può avere pochi anni più di tua madre, e sorridendo si scusa per il disordine che vi trovate davanti. «Ma fatele pure, le foto» dice. «I miei figli hanno deciso d’intonacare tutto, e presto i manifesti non si vedranno più.» «Ma come, signora» protesta Leo. «Le mando le Belle Arti, se lo dice di nuovo.» «Siete tifosi?» domanda la donna. «Io sono tifoso» dice Leo. «Questi due erano hooligans. E siamo cresciuti tutti e tre intorno al Dall’Ara.» «Ho dei bei ricordi di Bologna» dice la donna. «C’è ancora la bocciofila in via Andrea Costa?» «Certo» dice Galerio. «Ci abito di fianco.» «Andavamo a festeggiare lì, dopo le partite. Prima di salire in pullman e tornare a casa. Giocavano quei signori» dice indicando i poster. «Io andavo con mio fratello, altrimenti i miei non mi avrebbero lasciato partire. E fra gli amici di mio fratello c’era un ragazzo bello come Raf Vallone.» La donna ride. «Il tempo passa per tutti» dice. Vi guarda, ed è come se vi guardasse attraverso, poi la sua voce riprende confidenza. «Sapete quand’è che ha chiesto di sposarmi? Durante lo spareggio di Roma. Sulle gradinate dell’Olimpico, subito dopo il gol di Fogli. A volte mi chiedo come sarebbe andata se avesse vinto l’In ter.» «Signora» mormora Leo, «dica ai suoi figli che salvino la scritta e i poster. Non possono intonacare tutt’intorno e lasciarli in pace?» «Quando i nostri ragazzi andavano a scuola, il Bologna non vinceva più niente» sorride la donna con dolcezza. «Così sono tutti e due della Juve.» «Che gusto c’è» dice Galerio. «Così sai già come va a finire.» «I miei figli la pensano diversamente» dice la donna: «Loro dicono che la Juve è sfavorita dagli arbitri di centrodestra. Perché ha già vinto tanto, e in questo momento storico c’è bisogno che vinca il Milan.» La via degli Zingari scende decisa verso la pianura compresa fra le pendici del colle di Osimo e il dorso del Conero picchiettato dal giallo delle ginestre. Una volta a valle, piega a gomito e si fa largo fra i campi. Scavalcate le acque lente d’un canale, superate un paio di dossi in successione. La zona industriale di Scaricalasino è un orrido di-stretto in cui sorgono a poca distanza l’uno dall’altro capannoni di mobilifici e corrieri-espresso. Adesso vedete davanti a voi il paese di Camerano, isolato su un’altura secondaria ai piedi del monte, e


sembra il primo posto in salvo oltre le cicatrici della ferrovia e le strade veloci che qui s’allontanano dalla costa. Riconosci gli ombrelli di pini d’un parco pubblico che costeggia la provinciale per Numana, ed è il posto dove ti fermi l’ultima volta quando arrivi in Vespa. Dopo tutte quelle ore in sella, ti piace fermarti a bere una birra, per darti da solo il benvenuto e darlo all’estate. Di solito quando arrivi al parco di Camerano è quasi l’o-ra del tramonto, mentre adesso che sfilate fra le alte pareti prefabbricate dei capannoni, il sole arroventa questa pianura colonizzata senza gentilezza, e altro calore sembra sorgere direttamente dal flusso ininterrotto di auto e caravan sull’A14. La superate lungo un cavalcavia che poco dopo guada anche la statale. Passate per l’ultima volta anche i binari della ferrovia. Corrono a perdita d’occhio verso Sud, ma non distingui nessuna stazione. «Sentite che silenzio, di qua» dice Leo appena cominciate da capo a camminare all’ombra. «Voglio ricordarmelo, questo cavalcavia. È una specie di confine» «Adesso c’è un po’ da salire» annunci. «Però ho in mente un posto in cui possiamo fermarci per pranzo.» «Una trattoria?» dice Leo. «Non è una trattoria» dici. «È un parco. C’è un chiosco, però, e il gestore è un tipo simpatico che tifa Ancona. E Juve. E tutti gli anni, quando arrivo, passo a bere una birra da lui.» «Stasera però in trattoria, obbligatoria. Ce ne sarà una dove andiamo?» «Sì» dici. «Ce n’è finché vuoi, e c’è anche abbastanza spazio per stare in pace vicino al mare. Facciamo quello che volete, stasera.» «Non abbiamo più un soldo» sussurra Galerio. «Se andiamo in trattoria, ci tengono a lavare i piatti.» «Non c’è problema» dice Leo. «Cerchiamo un posto dove conoscono la carta oro.» Mentre imboccate l’erta da capogiro che conduce in paese, pensi che se festeggerete, dev’esserci anche Dina. Poi ti scopri a pensare che sarebbe una specie di tradimento nei confronti dei ragazzi, un modo di spegnere prima tutto quello che è stato fin qui il vostro viaggio. Al supermercato del paese vi fate preparare tre panini, e prima di congelare del tutto per via dell’aria condizionata, comprate anche frutta e yogurt da bere. Poi entrate al parco, e il chiosco ha una veranda nuova, in plastica arancione, che crea una sorta di terrazza coperta sulla quale sono disposti tre tavolini e la scocca scura d’un televisore rivolto verso il bancone. Il groviglio di cavi e prolunghe, sospeso a uno dei montanti della veranda, serpeggia attraverso la terrazza fino alla porticina socchiusa del chiosco. Pensi che forse il posto ha cambiato gestione, e l’inserviente dietro il banco non è il ragazzo che conoscevi tifoso di Ancona e Juve. È un tipo con la coda di cavallo e una barbetta rada che vi guarda senza gioia, mentre scaricate gli zaini su una panchina a ridosso della terrazza coperta. Galerio sfila la maglia bagnata, e per un po’ resta a guardarvi come se fosse pentito. «Non c’è nessuno» dice. «E siamo


quasi al mare, no?» Allora anche tu levi la maglia, e il salto cromatico fra le braccia e il torace è qualcosa che fa venir voglia di ridere. «Dovrò abbron-zarmi con i manicotti, quest’estate» dici, ma nessuno si diverte. «Sembri il re dei muratori» dice Leo. È paonazzo, con gli zigomi gonfi di sole, e oggi ha già consumato un paio dei Moment comprati a Osimo. «A vederti così, non lo direbbe nessuno» dice, «che nella vita lavori seduto.» «I migliori lavoravano in piedi, dall’alba a mezzogiorno. Forse quando mi sarò raffinato, ce la farò anch’io.» «Non raffinarti troppo» dice Galerio. Dopo dieci giorni di marcia ha sviluppato ampie basette da trapper, e quando non ravvia i capelli dietro le orecchie, la frangia gli nasconde la fronte per intero. «Mica devi piacere alle contesse del cazzo» argomenta. «È l’una e mezzo» dici. «Se anche beviamo una birra, abbiamo tutto il tempo per smaltirla, prima di riprendere la strada.» «Io tanto prima delle tre non mi muovo» dice Leo. «Non senza maschera a ossigeno.» Sotto la veranda in plastica sprigionano temperature vicine ai quaranta gradi, e nello schermo del televisore va in onda una puntata di Futurama. Saluti il nuovo gestore e ordini le vostre birre. Nello specchio i tuoi capelli sono una massa compatta, i baffi spiovono sugli angoli della bocca, e la barba comincia ad arricciarsi e fare volume. Pellegrino o muratore, hai un aspetto molto diverso da quello di tre settimane fa. Il nuovo gestore vi serve le birre, e anche se non dice niente si capisce che vorrebbe protestare per l’accampamento di zaini e maglie fradicie che avete installato a due passi dalla terrazza. Dopo un po’ che bevete, sudate e tentate di seguire Futurama, dal casotto del bagno esce un secondo ragazzo dalle braccia coperte di tatuaggi. Traversa la terrazza in silenzio e va a raggiungere il gestore dietro il banco. Dopo un po’ si lamenta per via del caldo, e l’altro dice che hanno fatto male, a rilevare il chiosco. Quando avete finito di bere, tornate agli zaini e stendete i moduli sotto i pini marittimi carichi di grandi pigne brune. Mangiate i vostri panini, fumate e all’improvviso sei così stanco che senti le palpebre farsi pesanti, e i pensieri vanno in risonanza per conto loro. Ora ti sembra di capire con chiarezza cosa non va con tua moglie, e non è qualcosa di cui ti senti fiero. Da quando è arrivato, Malcolm regna giorno e notte sulla casa, senza interruzioni di sovranità più lunghe di cinque ore, il tempo del sonno che riesce a concedersi prima della poppata successiva. Così tu e Dina, nel passaggio dal vecchio regime di vita garan-tito a questa nuova sudditanza volontaria,


assoluta e stupefacente, vi siete trovati lontani, ciascuno a imparare per proprio conto cosa significa diventare un padre e una madre. Avete sprecato tempo per delimitare con rabbia i vostri spazi privati, quello del lavoro e prima ancora quello necessario del riposo, e ora dovete imparare da capo a vivere insieme come una coppia che non sarà mai più una coppia di ragazzi. Qualunque cosa accadrà, siete nel palmo della stessa mano, e anziché tenere Dina fuori dai tuoi progetti migliori, dovreste camminare spalla a spalla finché il Cielo ve ne darà la possibilità. Avete già visto una volta com’è essere annientati insieme dalla meraviglia, e sperare che l’altro non se ne vada. Insieme avete portato un piccoletto in più su questa terra, e presto il piccoletto camminerà con voi. Conosci luoghi che devono vedere, e pensi che alla fine non è difficile. Basta partire, anziché fantasticare sulle mappe. Quando ti svegli la calura ha cominciato ad attenuarsi; Galerio sta preparando una sigaretta e Leo è seduto sull’erba di fianco a te. «Parlavi nel sonno» sorride, e dice che sono le tre passate. Tornate alla veranda per un giro di caffè che vi aiuterà ad affrontare lo strappo della salita fino al Poggio. Il tatuato non si vede più, e quando sente i vostri discorsi, il nuovo gestore ci tiene a dirvi che nessuno si spinge a piedi lungo la strada del Poggio. «Ci è passato il giro d’Italia, qualche anno fa» dice. «Quando c’era Pantani» aggiunge per intimidirvi, ma a te ormai viene solo da sorridere. Non sa che eri sotto al podio a Parigi, e non sa che lo spirito del Giro, il vostro procedere in drappello rilanciando a turno l’andatura, vi ha sostenuti e accompa-gnati fin qui. Così risalite senza fretta le rampe in terra battuta scavate nel terrapieno che chiude il parco verso monte. Puntate il cimitero del paese, e da lì vi tuffate verso la bassura che separa Camerano dal dorso del Conero. La strada aggira la piccola chiesa di San Germano, sfiora le facciate delle case e s’inoltra attraverso un corridoio d’alberi. Abbandonata l’ultima frazione, superate il cartello che segna il confine del comune d’Ancona, dove la strada comincia ad arrampicare il fianco del monte. Guadagna quota a strappi, uscendo allo scoperto poco alla volta, poi comincia a disegnare i suoi tornanti più temibili, e allora dovete camminare curvi e spingere con i polpacci, ma è quasi una gioia. Apri la strada staccato dagli altri, come un padrone di casa troppo premuroso, e per quel che ne sanno i ragazzi, l’asfalto potrebbe continuare a salire così per molte ore. In capo a pochi tornanti, però, la strada si stende di nuovo in rettilineo attraverso un pianoro fiorito, e allora riconosci il posto in cui insieme a tua moglie vi siete fermati tante volte rientrando da Portonovo. L’entroterra è aperto sotto di voi, e le poche frazioni sprofondate nella macchia di corbezzoli sembrano


candidi ricoveri per i viandanti storditi dalla calura pomeridiana. «Vuoi fare la lepre fino al traguardo?» grida Leo staccato di cinquanta passi. «Fermati un attimo. Avevo promesso alla Terry di arrivare vivo.» «Pausa, allora» dici mentre esci dalla strada e punti l’ombra dell’unico albero del prato. Più in là, la scarpata scende ripida verso il fitto di cespugli, e non si vedono sentieri. «Nella valletta qui sotto c’è una grotta» dici a Galerio. «Si chiama il buco del diavolo, ma non l’ha scavata il diavolo. L’hanno scavata gli antichi romani, o qualcuno prima di loro, e dentro la grotta si apre un camminamento alto quanto un uomo, che si perde sotto la montagna.» «Forse era un acquedotto» dice Galerio. «Chissà» dici. «Non hanno mai capito dove finisca, ma a forza di cercare l’uscita hanno trovato altre sette imboccature che conducono sotto la montagna, e tutti i camminamenti hanno la stessa forma e le stesse dimensioni.» «È un bel mistero» dice sfilando le zavorre. «Chissà sopra quanti tunnel abbiamo camminato senza saperlo.» «Porca miseria» dice Leo. «Volete farmi scoppiare l’ultimo giorno? Quanto dobbiamo salire ancora?» «Ci siamo quasi» dici, e cinquanta metri sopra di voi riconosci il viadotto della strada del monte che scavalca un burrone. «Io mi metto il costume» dici scaricando a terra il Salewa. «Mi sa che non ci fermiamo più fino alla fine.» «Cosa facciamo, poi?» dice Galerio. «Questa sera, dico.» «Hai degli impegni?» domanda Leo. «Ho una fidanzata e un’auto che cade a pezzi, a Perugia. Ma per stasera non ho nessunissimo impegno.» «Allora facciamo così» dici. «Chiamo Dina, le dico di venire a cena con noi, e questa sera si dorme a casa sua. Possiamo restarci un po’ di giorni, se volete.» «Io mi sa che domani filo a Bologna, prendo la moto e vado dalle donne» dice Leo. «Ma questa sera mi fermo molto volentieri.» «Non ci sarà bisogno di piantare la tenda in giardino. Ci sono letti per tutti» dici. «E domani o quando volete, vi porto in macchina alla stazione.» Sbucate sulla strada del monte poco prima del viadotto; lo percorrete fino in fondo. Incespichi un paio di volte, camminando fra gli sterpi che assediano la carreggiata, e ti ritrovi a pensare, sgomento di avercela quasi fatta, che ormai solo il più strampalato degli infortuni potrebbe impedirvi di raggiungere la riva. Superate la deviazione che sale al Poggio, i cui abitanti, una notte senza luna di cinque secoli fa, furono


rapiti fino all’ultimo dai pirati saraceni sbarcati nella baia, e adesso davanti a voi ci so-no solo campi coltivati che affacciano direttamente sul mare. Vi lasciate indietro l’hotel a picco sulla costa in cui tu e Dina avete trascorso la prima notte di nozze, appena un anno fa, e neppure lei può avere dimenticato la gioia di allora. La plaga di Portonovo, generata da un immensa frana staccata-si in tempi antichi dal versante a mare del Conero, si mostra trecento metri sotto di voi, dominata dalle chiome di lecci e pini che ricoprono il fianco del monte. Qua e là, dove l’opera di rimbo-schimento compiuta negli anni Trenta non ha dato i frutti sperati, costoni di calcare a nudo, colpiti dai raggi bassi del sole, biancheggiano come ferite sull’immenso dorso verde del monte che strapiomba. Una teoria di auto e scooter carichi di ragazzi emerge dal viottolo asfaltato che conduce alla spiaggia. Prendono quasi tutti la via d’Ancona, e per un po’ pensi a quando, con i compagni, si prefigurava per tutta la primavera una gita a Milano Marittima, o Riccione, per celebrare insieme la fine dell’anno scolastico. Così potete fermarvi discosti dall’imboccatura della strada, in mezzo al grano maturo, a scattare le foto che mostrerete come prova agli amici più urbanizzati e mods, e anche quando avrete finito di esibirle, sai già che resteranno a tenervi compagnia a lungo. «Non puoi fare un autoscatto?» dice Leo. «Tutti insieme.» L’arrivo si specchia nella partenza, e i laghetti salmastri di Portonovo, imprigionati da un sottile cordone di terra sul quale trovano posto gli stabilimenti e i ristoranti che fra poco cominceran-no ad affollarsi, ti ricordano da vicino la quiete della laguna delimitata dai tomboli che uniscono l’Argentario alla terraferma. E la chiesetta di Santa Maria di Portonovo, costruita in pietra bianca del Conero all’estremità più riparata della baia, si riflette nel santuario dei Passionisti sul monte Argentario. Da mare a mare, da un monte che svetta fra le acque a un altro che vi irrompe, e la strada fatta fin qui è solo il filo d’una collana che finalmente si chiude e prende significato. Fra poco chiamerai Dina, le dirai che siete arrivati e forse lei vi raggiungerà per cenare insieme in riva al mare e fare un po’ di festa. Magari porterà anche Malcolm, imbragato nel seggiolino aeronautico incorporato ai sedili posteriori. Servirà stringersi, fino a casa, ma in macchina sono appena venti minuti. A tutto questo penserai fra un attimo. Guardi l’orologio e sono le sette, come tutte le sere quando smettete di camminare. Superate il parcheggio dell’ultimo ristorante, ne traversate increduli la terrazza. Uno dei camerieri che apparecchiano per la cena vi guarda storto, ma voi gli sorridete lo stesso, e di certo non sa da dove arrivate.


Scendete la scaletta che conduce alla riva, e non c’è più strada davanti a voi, solo una breve spiaggia di sassi candidi e il mare che riempie la curva dell’orizzonte. Più in là ci sono un po’ di ragazzi che radunano le proprie cose e si apprestano a tornare a casa, ma nel giro di poco non c’è più nessuno tranne voi e i vostri zaini. «Che dite, regiz» fa Galerio dopo un po’ che nessuno dice niente. «Siamo arrivati fin qua per non bagnarci neppure i piedi?» Così ti spogli degli scarponi che ormai fanno solo caldo, della maglietta e dei calzoncini in cordura da trapper e della maglietta, e con passo incerto, i piedi feriti dai sassi, guadagni la riva insieme ai tuoi amici. Si tocca per una decina di passi, e poi sotto i piedi non avete più niente, e lo sapete tutti e tre, mentre nuotate verso la boa più lontana, che non ci sarà più nessun momento come questo. Pensi a tuo fratello, al Vietnamita e a quella volta che l’Assiro si lanciò in inverno nello Stretto, e mentre nuoti come fosse la prima volta, tieni gli occhi aperti su tutta quell’acqua che sembra sostenerti e accoglierti. Ti sembra che il tuo corpo si curi, che i tuoi piedi tornino qualcosa che presto sarà di nuovo sano, e finché non tocchi la boa continui a nuotare guardando il fondo che si fa scuro. Poi ti fermi a rifiatare, galleggi e basta, a occhi chiusi perché il sole radente t’acceca, ed è bello sentire di nuovo il sale sulle labbra. «L’hai chiamata Dina?» domanda la voce di Leo, e allora lasci affondare le gambe, le muovi il poco che serve a tenere la testa fuori dall’acqua e guardi i sorrisi galleggianti dei tuoi amici a poche bracciate da te. «Fra poco sarà qui» dici. «Possiamo restare a cena qui o andare dove ci pare.» «È stato un viaggio bellissimo» dice Leo. «Domani continuiamo camminando sulle acque» dice Galerio. «Fino alla Dalmazia.» «Era da una vita che non me ne stavo lontano dalla ditta e lontano dalle donne.» «Ancora dovete vedere le foto» dice Galerio nuotando lento a dorso. «E comunque questo posto è meraviglioso. Ci credo che ai saraceni piacesse.» Ormai la spiaggia è in ombra, e i camerieri stanno accendendo candele al centro dei tavoli, ma dove siete voi il sole si vede ancora, e seguendo la striscia d’oro che balugina fra le onde, la vedete perdersi verso il largo. «Peccato per il Viet» dici battendo i piedi per restare a galla. «Non avrebbe avuto tempo in ogni caso, di arrivare fin qui, ma se lo meritava.»


«Stasera lo chiamiamo» dice Galerio. «E a vedere i Pixies, ce lo portiamo anche in barella.» «Quand’è?» dice Leo. «Lo stesso giorno dei Cure o quello dopo?» «Nettamente lo stesso» dici. «Prima suonano i Pixies e poi i Cu-re. E anche un metallaro come te non dovrebbe mancare.» Poi senti Galerio chiamare il tuo nome.Strana magia aver pensato di festeggiare senza di loro. Lo vedi che ti indica la riva e Di-na là, in piedi di fianco agli zaini. In braccio ha il piccolo, e dieci passi più indietro, in testa alla scaletta del ristorante, vedi il pas-seggino e pensi che nessuno ti restituirà tre settimane della vita di Malcolm. Sollevi un braccio, anche i ragazzi salutano. Dina alza una ma-no e sorride. La vedi chinarsi sulla piccola testa di Malcolm, e mentre gli parla vi indica. Allora prendi a nuotare in diagonale verso riva, la testa fuori dall’acqua, senza mai perderli di vista.

Durante questi undici mesi. Durante questi undici mesi sei tornato molte volte sui luoghi traversati d’un fiato la primavera scorsa. Gli amici che ti hanno accompagnato e quelli che non hanno potuto farlo, chi ti aspettava e chi avete incontrato per caso, adesso ti appaiono persone legate da un solo destino, quello della terra che li ospita e nutre. Unica è la terra e unico l’amore, mentre gli uomini, presi uno a uno, sono molto meno unici e insostituibili di come credevi a diciassette anni. Ormai sei sicuro che le persone, queste presunte isole, non fanno che misurarsi a vicenda e trarre ispirazione dai propri simili. Anche nei boschi. Basta essere più di uno perché accada, ed è naturale come l’amore che si prova a primavera per le creature leggiadre. Ma tutto questo lo sospettavi già, e non sei partito per conoscerti meglio, o conoscere meglio i tuoi amici.


Volevi disconoscerti, se mai. Dimenticare il tuo nome e restare nudo con la fatica e la gioia, vicino a qualcuno di cui potevi fidarti e alle cose essenziali che conoscevi da sempre. Ora sai che si può, e se pure gli scarponi che ti hanno condotto da un mare all’altro sono arrivati sdruciti e senza traccia di carrarmato, prima della fine dell’estate ne avevi già comprato un altro paio. A novembre, quando ancora la temperatura era mite, hai ripercorso alcune tappe insieme a Galerio. Avete dormito sotto un igloo nuovo di zecca, e vi è capitato di essere sorpresi dal tramonto senz’acqua, e senza torcia, in mezzo a un altopiano di ginestre vicino al cielo. Avete visto di nuovo i cinghiali irrompere attraverso la selva, ma in quella stagione non c’erano più cuccioli spaventati, solo animali robusti pronti ad affrontare l’inverno. Finalmente durante le feste sei riuscito a portare Dina in Toscana per mostrarle le terre che avete traversato fra la costa e il limite della Valdorcia. Era la prima volta che lasciavate Malcolm ai nonni per più di una notte, e lei faceva da navigatore con le Kompass aperte sulle gambe. Era bello guidare la Polo a briglia sciolta lungo le strade bianche, riconoscere le svolte e i paesi e ritrovare ogni cosa addormentata, sognante, in attesa di rinascere a primavera. Mentre viaggiavate attraverso quei luoghi ti sembrava di dividere con tua moglie l’amore che finora avevi dovuto tenere per te. Il giorno dell’Epifania, prima di rientrare in città, siete saliti insieme sulla cima del Monte Labbro per vedere da vicino il tempio giurisdavidico e la grotta in cui Lazzaretti si ritirava a pregare. Enormi spirali di pietre bianche circondavano la sommità del monte, e le rovine degli edifici comunitari affioravano ai piedi del tempio simile a un antico nuraghe. Alcuni gradini tagliati nella roccia permettevano di salire fin sulla copertura, dove nelle notti di ferragosto gli ultimi fedeli di Lazzaretti accendono un grande falò in segno di pace. Cominciava a fare fresco, la parete del monte strapiombava a pochi metri, ma il breve giro dei gradini non era esposto, così anche Dina è salita con te. Da lassù l’Amiata, con la sua vetta coperta di neve, non sembrava così alto, e avevi l’impressione che ai suoi piedi s’aprissero solo contrade benedette, in cui l’uomo ancora non ha dimenticato che la terra è la nostra unica madre. Verso Nord, vedevi le zanne delle montagne di casa, il Cimone e il Corno alle Scale, e potevi provare a riconoscere la minuscola sforcatura che un giorno con i tuoi amici avevi scambiato per il Passo d’Annibale. Più in là, sotto il sole radente baluginava la fortezza candida delle Apuane, e sembrava di poter contare una a una le colline fra Siena e Grosseto. L’Argentario sembrava vicinissimo, e nel breve spazio d’un gi-ro su voi stessi avete visto la fuga d’alture vulcaniche in direzione di Roma, il Gran Sasso lontano verso Mezzogiorno e i monti della Sibilla. Da quella grande distanza, le creste della dorsale chiudevano l’orizzonte in un arco perfetto di pietra, e ai loro piedi il Subasio e la Valle del Tevere v’apparivano già in ombra.


Allora hai pensato a quando eri un pellegrino con il Salewa, a come ti sembrava che tua moglie si fosse dimenticata chi eri, a tutta la paura che sentivi per i cambiamenti cui andavate incontro. Se era stata lontana da te era per via del piccolo. Di Malcolm e di nient’altro, e adesso che per la prima volta eravate di nuovo so-li, non ti sembrava diverso da quando eravate ragazzi. Così le hai preso le mani, hai provato il bisogno di abbracciarla e sentire vicino l’odore dei suoi capelli. A fondovalle la caligine del crepuscolo confondeva già i profili delle cose, e tu hai sentito che ora il tuo viaggio era finito sul serio. Poche sere dopo il vostro arrivo, con tuo fratello, Galerio e il Vietnamita, eravate a Bologna, in mezzo a decine di migliaia di persone scese in piazza per festeggiare il nuovo sindaco. Dopo le settimane di marcia e i primi giorni con Dina e Malcolm, non eri più abituato a vedere tanta gente insieme, ed è stato bello cantare con loro le canzoni di sempre mentre l’estate cominciava per tutti. Clacson e sirene sono andati avanti fino al limite dell’alba, e mentre passeggiavate sotto i portici illuminati a giorno avete deciso che non aprirete nessuna cooperativa. A bocce ferme, vi sembrava un impegno troppo grosso dal punto di vista burocratico. Troppo per gente estroversa come voi, almeno, ma l’idea del sentiero a lunga percorrenza continuava a piacervi. Il Viet faceva i suoi preventivi basati sul costo al litro della vernice, e Galerio insisteva perché anziché una cooperativa vi limitaste a fondare un’associazione culturale. Però credevate ancora che, se pure saranno tre in tutto, i matti che decideranno di traversare il Paese da un mare all’altro, quei tre matti hanno diritto a una segnaletica decente. Vi eravate addirittura divisi i compiti, e sembrava che entro ferragosto la vostra associazione culturale sarebbe stata operativa, già in contatto con le amministrazioni locali, lanciata a pieno regime verso la realizzazione del Sentiero dei Due Mari. Oggi Luca Rappini detto il Vietnamita non è più un rappresentante di poltrone da dentista. Durante l’inverno ha resistito in mo-do semieroico alle minacce della madre che voleva farlo assumere da capo in farmacia. Quando le forze stavano per venirgli meno, l’ha raggiunto la telefonata d’un compagno d’università di ritorno dalla Germania. Apre un laboratorio tutto suo, e lo voleva a tutti i costi come socio di minoranza e collega. Così il vostro amico è tornato a occuparsi di analisi chimiche e tutto il resto di questioni esatte per cui s’è preparato all’università. Con il nuovo collega va d’accordo, e adesso esce in modo regolare insieme alla ragazza che l’anno scorso gli aveva portato una maglietta in regalo dal Parco dei Monti Sibillini. Ha detto che con lei vuole essere sincero, e il sabato la trascina negli studi di Radio Città Popolare da


cui trasmette di nuovo insieme al buon Luther. Parlano poco, e lasciano che a spiegarsi sia la musica, così riescono a programmare almeno dodici pezzi a trasmissione. Però quando li senti annunciare Debaser o Gouge Away, o commentare in diretta un’ultimissima d’agenzia, ti sembra che non sia passata più d’una stagione, da quando le loro voci uscirono per la prima volta da una radio, ai tempi degli scioperi scolastici contro la guerra di Bush padre. Quel che il buon Luther non sa, e non sa neppure la nuova ragazza del Viet, è cosa combini esattamente il mercoledì sera. Ufficialmente va a giocare a calcetto con il suo nuovo collega e altri amici, ma se lo chiami il giovedì senti che parla con la lingua im-pastata, ripete spesso il suo “stralunami” e si lancia in costruzioni azzardate. Per un po’ hai creduto avesse un amante, ma una volta ti ha detto che per il debito con Spichisi non c’è problema, e così hai capito che nel nuovo regime di vita da fidanzato e lavoratore soddisfatto, si è riservato una sera alla settimana per incontrare in pace quest’uomo pericoloso. Galerio è tornato a vivere in città. Non ha ancora trovato il maestro che sperava, ma il suo lavoro di transizione non gli dispiace, e lascia abbastanza tempo libero per seguire un corso di fotoritocco organizzato dal Comune. Sostiene che se non può liberarsi dagli errori, almeno così riuscirà a correggerli a tavolino. La sua storia con Sara continua, rinfocolata da spostamenti set-timanali lungo l’asse della E 45. Se l’hai mai visto innamorato di qualcuno è di lei, e saresti contento se un giorno o l’altro ti confi-dasse che sta pensando di tornare a viverci insieme, e questa volta non in una casa di studenti. In questi giorni poi, senti fervere al piano di sopra i preparativi per il trasloco di Leo Pagani e famiglia. Ci sono già due grosse valigie da aeroporto ferme sul pianerottolo, e all’inizio della settimana arriveranno gli uomini del taxi-merci a caricare i mobili, il letto di Leo e Terry e quello di Darma. Si trasferiscono ad Anzola, a due passi dal capannone della Pagani Srl e dalla casa della madre di Leo. Là avranno un grande giardino, così possono tenere d’occhio la bambina mentre gioca all’aperto. Ti dispiace che se ne vadano, e la settimana scorsa con Leo siete usciti a bere un paio di bicchieri. Era da un pezzo che ne parlava-te, ma con tutti gli impegni che avete in città ci avete messo più o meno un secolo, a organizzarvi. Solo dentro il pub ti sei reso conto che era la prima volta in assoluto che uscivate da soli, e all’inizio eravate sgomenti che fossero già trascorsi undici mesi dalla sera in cui, insieme a Dina, Galerio e il piccolo, avete cenato a lu-me di candela sulla terrazza di quel ristorante a Portonovo. Mentre bevevate, però, sentivi di non essergli meno amico d’allora. Parlavate senza schermi, come lungo le sterrate polverose sotto Pollenza, e così hai pensato che sono migliaia le persone con le quali basterebbe dormire qualche sera in tenda, o sotto un riparo rosa da spiaggia, per sentirsi legati nell’essenziale. A patto che ti aprano il cuore, e siano abbastanza coraggiosi da non voler sembrare qualcun altro, neppure con una persona che fino a un mese prima salutavano appena. Il lavoro all’università comporta aspetti imprevisti, e non tutti spiacevoli.


Mentre qui fiorisce timido il pesco, tuo fratello si trova a L’Ava-na insieme a un drappello di ricercatori politicizzati. Si preparano già a studiare il dopo-Fidel e il periodo di transizione che seguirà, e per notare domani le differenze, sono voluti andare a documen-tarsi come stanno le cose al momento. Tuo fratello spera che il dopo-Fidel arrivi il più tardi possibile e, nonostante la compagnia e la missione quasi pazzesca, forse in questo momento preciso non se la passa così male. Durante l’inverno, nel giro di pochi giorni, Malcolm ha imparato a camminare da solo. A camminare, e insieme a correre. Ti piace portarlo con te fino all’edicola, o al bar sotto casa, scor-tarlo lungo il marciapiede mentre avanza a piccoli passi veloci con le sue prime scarpe. Preferisce non darti la mano, e quando vede arrivare un altro bambino, oppure un cane che conosce già, diventa difficile governare il suo entusiasmo. Però è un piccoletto ubbidiente, e per il momento non prova ancora ad allontanarsi da solo. Saluta i bambini, saluta i cani e i negozianti che ha imparato a vedere giorno dopo giorno, ma ancora si stanca in fretta. Così al ritorno lo porti in braccio. Oppure a cavallo delle spalle, e allora senti le sue dita stringersi intorno alle tue e pensi che dovrete essere bravi, a farlo crescere sicuro in questi tempi confusi. C’è qualcosa che ti fa sorridere e qualcosa che ti strappa il cuore, al pensare che un giorno questo piccoletto sarà un ragazzo. Magari un ragazzo come sei stato tu. Critico coi genitori, pieno di curiosità e desideroso di partire, e se non sarete capaci di amarlo un giorno dopo l’altro, nessuno lo saprà ma tutto sarà volato via troppo in fretta.


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