Novelle del Decamerone - Estratto

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Novelle dal Decamerone Capolavoro in prosa della letteratura italiana

Giovanni Boccaccio, nato a Firenze nel 1313 e morto nel 1375, è uno dei più grandi narratori italiani di tutti i tempi. Scrisse poemi in rime, racconti, novelle. Il suo capolavoro, il “Decamerone”, fu composto intorno al 1350.

Completano la lettura un apparato finale di approfondimento delle tematiche e un fascicolo di comprensione del testo.

Novelle dal Decamerone Capolavoro in prosa della letteratura italiana

Novelle dal Decamerone

Giovanni Boccaccio

Giovanni Boccaccio ambientò il Decamerone nel 1348, l’anno in cui Firenze fu devastata dalla peste. Questa raccolta presenta alcune delle novelle più significative, divise per tematiche e scelte per il loro contenuto adatto alla secondaria inferiore. Sono racconti che parlano di avventura, d’amore e di beffe che si svolgono in un Medioevo meraviglioso e, nello stesso tempo, realistico, dove interagiscono re, nobili e popolani, uomini e donne comuni. È uno spaccato perfetto dell’epoca, una lettura sempre attuale ed entusiasmante, proposta in una briosa e intensa riscrittura.

Giovanni Boccaccio I C L AS S I C I

Giovanni Boccaccio

Giovanni Boccaccio

Capolavoro in prosa della letteratura italiana

Completano la lettura: Approfondimenti finali Fascicolo di comprensione del testo Schede interattive su www.raffaellodigitale.it

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Online: approfondimenti e schede didattiche www.raffaellodigitale.it Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).

€ 9,00

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Collana di narrativa per ragazzi


Editor: Paola Valente Redazione: Emanuele Ramini Progetto grafico e impaginazione: Mauro Aquilanti Disegno di copertina: Danilo Loizedda Approfondimenti: Paola Valente Schede didattiche: Redazione Raffaello Ufficio stampa: Salvatore Passaretta

Ia Edizione 2015 Ristampa

7 6 5 4 3 2 1 2022 2021 2020 2019 2018 2017 2016 Tutti i diritti sono riservati © 2015

e-mail: info@ilmulinoavento.it http://www.grupporaffaello.it Printed in Italy

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Giovanni Boccaccio

Novelle dal Decamerone Capolavoro in prosa della letteratura italiana



Antefatto

Nell’inverno del 1348, in gran parte dell’Europa si diffonde un’orribile epidemia di peste nera. Febbre alta, sangue dal naso, bubboni sotto le ascelle e piaghe violacee su tutto il corpo sono i segni specifici di questa malattia che i medici non sanno né curare né prevenire. E la gente muore. Ci si ammala con facilità: basta stare vicino a un appestato o toccare ciò che è infetto e naturalmente la sporcizia favorisce il contagio sia tra gli uomini che tra le bestie. Per paura di ammalarsi non ci si prende cura degli appestati, non si veglia in preghiera il morto e neppure lo si accompagna alla sepoltura. I cadaveri sono deposti sulla porta di casa o lungo la strada, in attesa che i becchini li trasportino, ammassati sopra carri, fino ai cimiteri delle chiese dove vengono sepolti in fosse comuni.

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A primavera di quello stesso anno, nella ricca e bella città di Firenze i morti di peste sono più di centomila. In poco tempo la città ha cambiato aspetto. Artigiani e bottegai non espongono manufatti e mercanzie, i commerci hanno ritmi più lenti; per le vie si cammina a volto coperto per proteggersi dall’aria infetta e si avvicinano al naso fazzoletti imbevuti di essenze profumate così da non sentire il fetore dei cadaveri. Soprattutto, le persone cercano di evitarsi. Meglio stare in casa. Tutti temono la peste, il morbo che non dà scampo. C’è una sola possibilità di salvezza: abbandonare la città; chi può farlo va a vivere sulle colline che circondano Firenze. Nel mese di luglio di quello sfortunato anno, un martedì mattina, sette giovani donne fiorentine, più o meno della stessa età e amiche fra loro, si incontrano nella chiesa di Santa Maria Novella. Distraendosi durante le preghiere, cominciano a parlare della peste, del numero dei morti che cresce, della tristezza sul volto della gente. – Ringrazio Dio di essere ancora viva, ma quanto soffro! Attorno a me non vedo che morti e appestati e persone che rubano approfittando delle disgrazie altrui – dice Pampinea, la meno giovane. 6


– Da quando la peste si è presa i miei familiari mi angoscia vivere in una casa vuota e silenziosa dove mi par di vedere fantasmi dappertutto! – risponde Filomena. – Io non mangio più, non dormo più, tanto ho paura di ammalarmi! – si sfoga Elissa, che è la più giovane. Anche le altre, la bella Lauretta, Neifile che ha capelli come l’oro filigranato, Fiammetta, dai grandi occhi neri, ed Emilia, la più timida, si lamentano per lo stesso motivo. A tutte fa paura la morte. – Care amiche, perché continuare a soffrire? Dobbiamo trovare un modo per vivere meglio – dice Pampinea. – Che stiamo a fare qui in città? Andiamo ad abitare nella mia villa sulla collina di Fiesole. Se piace a Dio, eviteremo il contagio, respireremo aria sana e non vedremo né morti né sofferenti. È più che sensato ma Filomena, saggiamente, dice: – Siamo donne giovani e vivere da sole non sta bene. Proprio in quel mentre vedono entrare in chiesa tre giovanotti loro amici, Panfilo, Filostrato e Dioneo. “Ecco chi può stare in nostra compagnia portandoci rispetto” pensa Pampinea. Senza indugio va a salutarli e li informa di ciò che lei e le amiche hanno deciso di fare. – Potete unirvi a noi per trascorrere un periodo di villeggiatura – propone. Gli amici ne sono ben lieti. 7


L’indomani, mercoledì, appena il sole fa capolino, le sette donne e i tre giovani si mettono in viaggio seguiti dalla servitù. Percorse poche miglia, le carrozze raggiungono Fiesole e, più oltre, sulla cima di un poggio, la villa. L’edificio è circondato da giardini e vialetti alberati. Ovunque si volge lo sguardo, si intravedono campagne e colline e, in lontananza, la città. Basta quel paesaggio per sentirsi sereni. – Da questo istante, via ogni tristezza! – esclama Dionèo entrando nella villa. – Giusto! Dobbiamo dimenticare ciò che ci ha addolorato finora e pensare solo a svagarci – aggiunge Panfilo. – Faremo un po’ di musica, danzeremo, giocheremo a scacchi – dice Pampinea. – Anzi, state a sentire cosa ho in mente: ciascuno di noi, a turno, come fosse un re o una regina, deciderà cosa si dovrà fare giorno per giorno. Dopo che si sono ristorati vanno in giardino e, mentre sono seduti all’ombra di un gelso, Pampinea, nominata regina di quel giorno, dice: – Da oggi in poi trascorreremo la prima parte del pomeriggio raccontandoci alcune novelle nell’attesa che venga l’ora adatta per andare a passeggiare. E poiché tutti sono d’accordo, li invita a iniziare: 8


– Ciascuno di voi per quest’oggi è libero di narrare a piacer suo; da domani, invece, sarà il re o la regina a decidere l’argomento. Fu così che ogni giorno, per dieci giorni, tranne il venerdì e il sabato riservati alla preghiera, la bella compagnia trascorre gran parte del tempo novellando. Quante novelle? Dieci al giorno: in tutto cento. Novelle brevi e lunghe, a lieto fine e non, novelle che fanno riflettere divertendo.

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Zio Ivan

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Giornata prima Novelle a tema libero

Novella sesta Il frate inquisitore Novella ottava Guglielmo Borsiere

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Giornata prima

Il frate inquisitore

Tra una novella e l’altra, le ore del pomeriggio volavano via, tanto erano piacevoli. Ad un certo punto toccò a Emilia continuare a narrare e disse: “In alcune circostanze un’osservazione piena di buon senso può essere più efficace dei fatti e può servire da insegnamento. Ebbene, a conferma di ciò, mi viene in mente la storia di un uomo che con garbo e intelligenza ha saputo castigare chi lo aveva castigato. State dunque a sentire…”

Non molto tempo fa, nella chiesa di Santa Croce in Fi-

renze, v’era un frate che aveva il compito di controllare se i concittadini si comportassero da bravi cristiani e, nei casi che ritenesse opportuni, trascinarli in tribunale. Tutti lo temevano perché era troppo severo e sospettoso e bastava poco per finire tra le sue grinfie, accusati di irreligiosità. Alcune voci sussurravano, invece, che forse egli non era tanto pio e onesto come dava a vedere. In realtà amava il denaro e, dove sentiva odore di soldi, lì andava a colpire. Una denuncia e la cosa era fatta: il malcapitato veniva condotto davanti al tribunale ecclesiastico e, per salvarsi, non gli restava che sborsare un bel po’ di monete d’oro. Un giorno, un ricco mercante fiorentino si trovava in un’osteria in compagnia di amici. Scherzando e bevendo in allegria, gli sfuggì di bocca: 12


Novelle a tema libero

– Che vino buono! Anche Cristo lo berrebbe! Non l’avesse mai detto! Qualcuno riferì questa frase al frate inquisitore che convocò immediatamente il mercante. – Sei un bestemmiatore! – lo aggredì. – Tu dici che Cristo si berrebbe il vino! Forse a nostro Signore piaceva il vino come agli ubriaconi? – Vostra eccellenza, no di certo. Nelle mie parole non c’era intenzione di offendere nostro Signore – si scusò il mercante. Il frate però non voleva sentire scuse. – Sei un mentitore e un bestemmiatore! Ti trascinerò in tribunale e ti farò condannare! Il mercante, terrorizzato, si vedeva già condannato a chissà quali pene e, Dio non volesse, perfino al rogo. No, no! Bisognava trovare una via d’uscita. Mentre si arrovellava disperato, gli venne in mente quello che si sussurrava a proposito del frate e della sua avidità. Perciò la mattina seguente mandò un suo amico dal frate con una borsa piena di monete d’oro sperando di salvarsi. Il frate alla vista di quell’oro si rabbonì all’istante. – E sia! – disse. – Riferite al vostro amico che lo perdono ma a condizione che tutte le mattine ascolti la messa qui, in Santa Croce, e poi si presenti a me all’ora di pranzo. Il mercante fu ben contento di avere evitato tribunale e condanna. Mese dopo mese, però, quell’obbligo cominciava a essere una seccatura. Una mattina, durante la messa, sentì un frate leggere le seguenti parole del Vangelo: “Per ogni cosa che farete, ne riceverete cento…” e un guizzo improvviso gli illuminò la mente. Finì di ascoltare la messa e all’ora di pranzo si presentò dal frate come al solito. 13


Giornata prima

– Sei andato a messa? L’hai seguita con attenzione? – chiese il frate. Il brav’uomo annuì. – C’è qualche parola del prete che non hai compreso? – No, no. Anzi, una frase in particolare mi ha colpito facendomi provare tanta pena per lei e per i frati di Santa Croce. L’altro lo guardò stupito. – Di quale frase si tratta? – Quella che dice: “Per ogni cosa che farete ne riceverete cento”. – Uhm, non capisco perché ti ha fatto provare tanta pena per noi frati. – Or bene, sono mesi che vengo qui e ogni giorno, all’ora del desinare, ho visto che date ai poveri del vostro convento soltanto misere minestre acquose. Perciò, se per ogni minestra ve ne saranno rese cento, alla fine avrete tante minestre da affogarci dentro. L’inquisitore si sentì colto sul vivo perché quell’uomo gli aveva rinfacciato l’avarizia e l’ipocrisia. – Vattene e non farti più vedere! – gli gridò indispettito. Era bastata una battuta intelligente e spiritosa a liberare il mercante da quella fastidiosa situazione.

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Novelle a tema libero

Guglielmo Borsiere

“Non è ancora giunto il mio turno ma lasciate che vi racconti una storia che m’è venuta in mente proprio ora” disse Lauretta. E tutta contenta cominciò…

Genova, città marinara, contava e conta tutt’ora potenti

famiglie di mercanti. Tra queste, una delle più potenti era la famiglia Grimaldi. Erminio de’ Grimaldi era un uomo ricco, ma così ricco che neanche lui sapeva dire quanto, almeno così si affermava. Erminio in più era colto, paziente e gentile di modi, ma estremamente avaro. Come poteva essere definito uno che per non spendere quasi pativa il freddo e la fame, andava vestito con abiti vecchi, stravecchi, e infliggeva ai suoi cari gli stessi suoi patimenti? I genovesi un soprannome glielo avevano trovato: Erminio Avarizia, tant’è che qualunque forestiero a Genova chiedesse di Erminio de’ Grimaldi sentiva rispondersi: “Ah! Sì, certo, Erminio Avarizia”. Un giorno arrivò a Genova un gentiluomo, faccendiere di corte, Guglielmo Borsiere. Costui era un personaggio di spicco, apprezzato dai potenti signori della nostra penisola per l’onestà, la discrezione e per tutte le altre doti necessarie a vivere a corte e a far diplomazia. Per tutta la sua permanenza in città non passò giorno che non fosse invitato da questo e da quello dei nobili signori 15


Giornata prima

genovesi, anzi pareva facessero a gara nel ricoprirlo di doni. E durante i banchetti in suo onore, accadeva sempre che qualcuno parlasse di Erminio messer Avarizia, con qualche aneddoto davvero stuzzicante sulla sua spilorceria. – Mi piacerebbe conoscere questo messer Avarizia – disse Guglielmo una sera durante un banchetto. – Sarà fatto. Vi accompagnerò a casa sua domani stesso – rispose un genovese che gli sedeva accanto ed era amico di messer Erminio. – Gugliemo Borsiere a casa mia! Che onore! Chi l’avrebbe mai detto?! – si inorgoglì Erminio appena seppe che il gentiluomo desiderava conoscerlo. E poiché era tirchio ma non stupido né maleducato accolse l’ospite come si conveniva, con eleganza e cordialità intrattenendolo con una piacevole conversazione. “Peccato che sia taccagno come dicono” pensava Gugliemo sentendolo parlare “perché è intelligente... garbato e onesto”. Ad un certo punto, Erminio volle mostrare al suo ospite una casa che si era fatto da poco costruire, vicinissima a quella dove abitava. – Mi è costata una fortuna! Mi sono dissanguato ma volevo qualcosa per cui valesse davvero la pena spendere il mio denaro – disse. E mentre gli mostrava stanza per stanza, giunti nella sala dei ricevimenti, chiese: – Cosa posso far dipingere su una parete di questa sala che non sia stato mai dipinto? Nessun altro può suggerirmelo meglio di voi che, da uomo di corte, avete visto e udito molte cose. – È una domanda difficile. Non saprei proprio – rispose Guglielmo. – Ma sì! Qualcosa che non si sia mai vista ci sarà pure! 16


Novelle a tema libero

Guglielmo Borsiere esitò, poi disse: – Pensandoci bene, una cosa c’è che potreste far dipingere in questo bel salone e che voi sicuramente non avete mai visto. – Suvvia, ditelo! – La generosità! Ecco cosa dovreste farci dipingere! Erminio rimase di stucco; un lampo gli illuminò la mente presentandogli la sua vita tutta vissuta all’insegna della grettezza e spingendolo a vergognarsene. E così disse: – Giusto! Ce la farò dipingere eccome! E così bene che nessuno d’ora in avanti dirà che Erminio de’ Grimaldi non ha mai visto la generosità. Le parole di Gugliemo Borsiere furono così efficaci che da quel giorno Erminio mutò animo e abitudini; trovò che era piacevole dare a chi aveva bisogno e gratificò se stesso e i suoi cari con una vita più decorosa. Così l’uomo più avaro di Genova divenne l’uomo più liberale e generoso della città.

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Giornata seconda Novelle a lieto fine

Novella quarta Landolfo Rufolo Novella quinta Andreuccio da Perugia

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Giornata seconda

Landolfo Rufolo

Filomena, eletta regina della seconda giornata, si fece seguire dalla compagnia nel boschetto poco distante la villa e lì ordinò che si sedessero tutti quanti attorno a lei. Filostrato, intrecciata una ghirlanda con rami di alloro, gliela pose sul capo. “Le novelle di oggi dovranno raccontare di casi fortunati” ella disse. Iniziarono a narrare Neifile, Filostrato e Pampinea, poi fu la volta di Lauretta e così parlò: “La mia novella, più delle altre che abbiamo ascoltato, vi mostrerà come la sorte sia mutevole e bizzarra e quanto può togliere o dare inaspettatamente a ciascuno di noi. Ebbene, voi tutti sapete che la Campania ha monti a picco sul mare, rocce cavernose e golfi ampi come abbracci. In questa terra, lungo la costiera presso Salerno, si affacciano sul mare cittadine belle e famose come Amalfi, Positano e Ravello. I commerci sono la ricchezza di chi le abita e proprio in una di queste città viveva l’uomo di cui parlerò”.

C

’era un mercante di nome Landolfo Rufolo. Costui possedeva a Ravello una villa terrazzata di giardini a strapiombo sul mare e un discreto patrimonio ma, desideroso di diventare ancor più ricco, acquistò una nave, la riempì di stoffe, vasellame, coralli, spugne e altre mercanzie e si diresse verso Cipro. 20


Novelle a lieto fine

“Questa merce andrà a ruba e tornerò a Ravello ricco e soddisfatto” egli pensava. Purtroppo, invece, quando giunse a Cipro, dovette ricredersi perché l’isola era gremita di mercanti che vendevano più o meno le sue stesse merci. Passavano i giorni, il suo carico rimaneva lì tutto intero e Landolfo per realizzare un po’ di soldi fu costretto a vendere sotto costo la merce, anzi molta ne abbandonò perché nessuno la voleva. “Questo viaggio è stato la mia disgrazia. Con che coraggio torno a casa dai miei figli e da mia moglie?” si chiedeva disperato. Per lo sconforto non mangiava e non dormiva e avrebbe voluto gettarsi in mare. Poi, finalmente, reagì alla disperazione: – Che diamine! Un modo per fare soldi c’è! Vendo la nave, ne compro una più piccola, la carico di armi e mi do alla pirateria! E così fece. Per un anno, in lungo e in largo nel Mediterraneo, derubò navi turche e greche finché ritenne di aver abbastanza ricchezze da potersene tornare a casa. Nel viaggio di ritorno, però, un vento impetuoso agitò il mare; onde violente colpivano la nave perciò Landolfo la diresse verso un’isoletta e si riparò in un’insenatura. Anche due navi genovesi erano ormeggiate proprio lì. Landolfo aveva appena gettato l’ancora che, numerosi come insetti, i marinai genovesi si calarono su barche a remi, si affiancarono alla nave, salirono a bordo e immobilizzarono l’equipaggio e il mercante. Poi, depredate le mercanzie, affondarono la nave. Landolfo si trovò senza ricchezze e, quel che è peggio, prigioniero. Il giorno dopo le navi dei genovesi con il prigioniero ripresero il viaggio verso il mar Ionio. 21


Giornata seconda

Al calar del sole, il cielo si coprì di nubi nere trafitte da lampi, quindi una tempesta d’acqua e vento si abbatté sulle navi. Quella con a bordo Landolfo andò a spezzarsi contro lo scoglio di un’isola e uomini e mercanzie schizzarono in mare: chi qua, chi là, chi sparì inghiottito dai flutti. Landolfo nuotava cercando disperatamente qualcosa cui aggrapparsi finché sbatté le braccia contro una tavola di legno; l’afferrò e vi si mise cavalcioni. Rimase lì, sballottato dalle onde, in quel buio fitto di cielo e di mare. – Che Dio mi salvi! Mi salvi! – pregava disperato. Ecco avvicinarsi qualcosa di massiccio e di scuro. – E questo cosa diamine è?! Era una cassa di legno: morte sicura se gli fosse andata addosso. – Va’ via! – gridava allontanandola con la mano. E più la respingeva, più quella si appressava, spinta dall’onda. D’un tratto un urto secco; Landolfo, scagliato via, sparì sott’acqua. Quando riemerse, non trovando la tavola, afferrò la cassa, salì sul coperchio e vi si aggrappò ben stretto, tenendosi con la forza che gli era rimasta. Stette così per tutta la notte. All’alba del giorno seguente, il mare si calmò. Landolfo, sopra la cassa, si lasciò trasportare dalla corrente e fu così che giunse, più morto che vivo, sulla riva dell’isola di Corfù. Il caso volle che due donne, madre e figlia, si trovassero su quella spiaggia a lavare le stoviglie con la sabbia e l’acqua di mare e, vedendo il naufrago, corsero a soccorrerlo. Lo trasportarono a casa, quindi tornarono a prendere la cassa. La donna lavò il forestiero, gli dette abiti puliti e gli fece tornare le forze con il cibo. Due giorni dopo, Landolfo era ristabilito e desideroso di rimettersi in viaggio, perciò la donna gli rese la cassa. 22


Novelle a lieto fine

“Che me ne faccio d’una cassa?!” egli pensava deluso. “A venderla ci prendo ben poco”. Ma più la guardava, più gli veniva voglia di vedere cosa mai contenesse. Quando la donna uscì di casa, prese quindi un martello, forzò le serrature, aprì il coperchio e… vide che dentro c’erano rubini, smeraldi, zaffiri e diamanti che luccicavano più delle stelle. Poco mancò che svenisse di fronte a tanta inaspettata fortuna. Trovò alcuni stracci e vi nascose i gioielli. Ma gli occorreva qualcosa per portarsi via quel ben di Dio. Quando tornò la donna, le disse allora: – Prima di andarmene vi chiedo un ultimo favore: datemi un sacco e in cambio tenetevi la cassa. Di notte riempì il sacco con gli stracci pieni di gioielli e, appena fu giorno, si diresse al porto col sacco ben stretto in spalla. Una nave era diretta a Brindisi e vi si imbarcò. Qui giunto, si recò da alcuni amici, mercanti come lui. Con il loro aiuto vendette il suo tesoro e ritornò a Ravello, ricco più di prima e consapevole che la sorte può davvero riservare sorprese del tutto impreviste e… anche fortunate!

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Giornata seconda

Andreuccio da Perugia

“La storia appena udita” disse Fiammetta “mi ha fatto venire in mente un curioso caso capitato a un giovane di Perugia. State dunque a sentire…”

Andreuccio, un giovane perugino, era un mercante di ca-

valli, come suo padre che si chiamava Pietro. Un giorno volle andare a Napoli per acquistare cavalli di razza a buon prezzo e partì con una bella somma di denaro: cinquecento fiorini d’oro. Era il suo primo viaggio. Quando giunse a Napoli, dormì in una locanda e il mattino seguente filò dritto nella piazza dove si svolgeva il mercato dei cavalli. Ce n’erano di tutte le razze. Guarda questo, guarda quello, chiedi qui, chiedi là, passavano le ore ma Andreuccio non si decideva a comprare. Però, durante le trattative, mostrava la borsa gonfia di monete per far vedere che i soldi ce li aveva, eccome. Caso volle che passasse di lì una siciliana belloccia insieme a una donna anziana che teneva a suo servizio. Per l’appunto questa era stata, anni addietro, la governante della famiglia di Andreuccio e come lo vide lo abbracciò. – Venite a trovarmi oggi pomeriggio alla locanda “Il Sole” e parleremo un po’ – lui disse ben contento di averla ritrovata. E si salutarono. – Chi è quel giovane? Come mai lo conoscete? – chiese la bella siciliana. 24


Novelle a lieto fine

La vecchia, quindi, raccontò nome, cognome e fatti di tutta la famiglia di Andreuccio. Giunte a casa, la siciliana tenne occupata l’intero pomeriggio la vecchia con mille faccende e mandò una serva alla locanda di Andreuccio. – La mia signora è una gran dama di questa città e vuole incontrarvi – essa disse. – Vi prego di seguirmi. “Chi sarà questa dama e perché vorrà vedermi?” si chiese Andreuccio sorpreso e incuriosito. Senza pensarci due volte, lasciò la locanda e la seguì. Attraversarono quasi tutta Napoli per un labirinto di vicoli, finché la serva si fermò davanti alla porta di un palazzo dalla facciata scalcinata. Qui entrarono. – Andreuccio mio! Ben arrivato in questa casa! Ringrazio il Signore per la grazia che mi ha fatto! – esclamò la siciliana andandogli incontro a braccia aperte. Andreuccio, se prima era stupito, adesso era del tutto confuso. “Perché mi accoglie così calorosamente, come se mi conoscesse da tempo?” si chiese. Essa lo accompagnò in un salottino e lo invitò a sedersi. Su un tavolo c’erano vino, biscotti e frutta. – Serviti, prendi ciò che vuoi – disse. Andreuccio assaggiò un po’ di vino e mise in bocca un biscotto, mentre lei parlava: – Ora che il buon Dio ci ha fatto incontrare, non ti lascerò più, caro fratello mio! Il biscotto gli andò di traverso; poco mancò che Andreuccio si strozzasse. – Il mio nome è Fiordaliso. Pietro, nostro padre, quand’era giovane visse per un po’ a Palermo dove conobbe mia madre e se ne invaghì… 25


Giornata seconda

Di seguito gli raccontò che da quell’amore era nata lei, ma purtroppo Pietro se n’era tornato a Perugia abbandonandola con la madre a Palermo. Lì era cresciuta, poi si era sposata e trasferita a Napoli. Andreuccio più l’ascoltava e più si convinceva, perché davvero il padre era stato in Sicilia in gioventù. Strano, però, che non gli avesse mai parlato di quella figlia. – Come avete fatto a riconoscermi? – le chiese. – La donna che vi ha salutato al mercato è stata anni fa a servizio da vostro padre a Palermo. Lei mi ha parlato di voi, dunque vi ho riconosciuto. Andreuccio rimase a parlare con Fiordaliso finché non venne notte. Voleva andarsene ma essa lo pregò di rimanere a dormire in casa sua, lo accompagnò in una camera e lo salutò. Egli si tolse il farsetto rimanendo in brache e camicia; dopo un po’ chiese a un servo dove fosse il bagno. – Andate là! E gli indicò un usciolino in fondo alla stanza. Andreuccio lo aprì e fece per entrare ma appena messo il piede su un’asse del pavimento, questa si ribaltò e… giù! Il ragazzo fece un volo di qualche metro e finì immerso nel bottino di una fossa, in un vicolo stretto stretto. – Aiuto! Aiutoo! – gridava annaspando nella lurida melma. Subito la perfida siciliana era corsa a prendere il farsetto di Andreuccio. – La saccoccia con le monete! Eccola! Appagata, la strinse in pugno, chiuse l’uscio del bagno e a lui non pensò più. Tenta e ritenta, finalmente Andreuccio riuscì a tirarsi su dalla fossa e, scavalcato il muretto all’estremità del vicolo, si trovò nella strada dove era la casa della siciliana. – Ehi, là dentro, aprite! – gridò tempestando di pugni la porta. 26


Novelle a lieto fine

– Disgraziato me! Rivoglio i cinquecento fiorini e… mia sorella! – urlava tirando calci alla porta. – Vattene o ti spezzo in due! – gridò una vociaccia. – Come osi molestare la gente perbene in piena notte?! Da una finestra un uomo con una barbaccia scura e occhi di fuoco lo minacciava mostrando i pugni. Ad Andreuccio, avvilito e frastornato, non restava che far ritorno alla locanda. Ma era lurido e puzzolente, aveva bisogno di lavarsi. Imboccò una via che portava al mare, ma, fatti pochi passi, vide avvicinarsi una lanterna portata da due figuri. Santo cielo! Sbirri? Altri guai! C’era un casolare lì appresso e vi entrò. Purtroppo entrarono anche quei due. Non restava che acquattarsi in un angolo e sperare in Dio. Ci fu un parlottio, poi un colpo secco e un rumore di ferraglie. – Che puzza di sterco! La senti anche tu? – disse uno ad un tratto. – Eccome se la sento! – rispose l’altro. Alzata la lanterna, scorsero il giovane rannicchiato nell’angolo. – Che fai qui? Quanto puzzi di bottino! Andreuccio non provò neppure ad alzarsi perché le gambe non lo reggevano dalla paura e meno che meno poteva parlare. – Chi sei!? Come sei finito nel bottino!? – quelli insistevano minacciosi. Dunque Andreuccio raccontò quel che gli era capitato. – Non ho più un soldo e non so come tornare a Perugia – concluse piangendo. – Un modo c’è; se fai ciò che ti diciamo tornerai a casa e con i soldi in tasca. Si tratta di una cosuccia facile. Seguici! Si avviarono quatti quatti verso il Duomo della città. Lì giunti, entrarono e si fermarono davanti a un sepolcro. 27


Giornata seconda

– Qui dentro, proprio oggi, hanno sepolto l’arcivescovo con tutti gli ornamenti d’oro e un anello con un rubino grosso quanto una ciliegia. Una fortuna per noi vivi! Ora apriremo la tomba e prenderemo tutto quell’oro. Che ne dici? Ci stai? – Ci sto! – rispose Andreuccio che non aveva nulla da perdere e tutto da guadagnare. I compari presero dal sacco un piede di porco e con quell’arnese forzarono il coperchio della tomba, lo sollevarono e lo puntellarono. – Calati giù e prendi tutto quel che c’è! – ordinarono ad Andreuccio. Ma lui, ghiaccio di paura, non ci voleva andare. – O ci entri o ti ci mandiamo noi a suon di botte con questo! – lo minacciarono mostrandogli un martello. “Povero me! Io mi calo, prendo gli ori, glieli porgo e quando sto per risalire questi due mi chiudono nel sepolcro” pensò Andreuccio. Ma non aveva altra scelta e scese. Che ribrezzo trovarsi accanto a un morto! Però si fece coraggio. Per prima cosa sfilò dal dito del morto l’anello col rubino e se lo mise nel taschino della camicia. Poi tolse via gli altri oggetti preziosi e li rifilò agli altri due. – L’anello?! Manca l’anello! Cercalo! – dissero dall’alto del sepolcro. – Non lo trovo. Non lo trovo! – rispose Andreuccio fingendo di cercarlo. I due un po’ pazientarono, poi tolsero via il puntello dal coperchio e scapparono. Il tonfo, il buio, il defunto: Andreuccio tremava di terrore vedendosi già ridotto come il morto. Tentò e ritentò di sollevare il coperchio ma esso non si alzava di un millimetro. Allora scoppiò a piangere maledicendo il giorno che s’era allontanato da Perugia, maledicendo la siciliana e la sorte che l’aveva fatto imbattere in quei due furfanti. 28


Novelle a lieto fine

Ad un tratto, ecco uno strusciare di passi svelti, poi un rumore di arnesi proprio lì attorno. – Santissimo! Stanno forzando il sepolcro? Mentre se lo chiedeva, sentì che sollevavano il coperchio, poi un borbottio, poi un tizio che diceva: – Se hai paura che il morto ti pigli, ci vado io. Appena costui infilò le gambe nel sepolcro, Andreuccio l’agguantò per un piede. Un urlo di terrore, un balzo fuori e via! Il tizio scappò come un ratto seguito dai suoi compari, folli di paura. Andreuccio uscì dal sepolcro e fuggì dalla chiesa. Mentre faceva ritorno alla locanda, ringraziava Dio per essere stato così fortunato e intanto si guardava il dito con quell’anello bello grosso. Il giorno stesso lasciò Napoli. A Perugia tornò senza cavalli ma questa esperienza gli insegnò a essere più accorto e non fidarsi del primo venuto.

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Zio Ivan

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Giornata quarta e quinta Novelle con amori difficili

Giornata quarta - Novella quinta Lisabetta da Messina Giornata quarta – Novella settima La salvia malefica Giornata quinta – Novella terza Pietro e Angiolina Giornata quinta – Novella sesta Gianni da Procida Giornata quinta – Novella nona Federigo degli Alberighi

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Giornata quarta e quinta

Lisabetta da Messina

Era pomeriggio inoltrato quando Filostrato, re della quarta giornata, riunì la compagnia attorno alla fontana del giardino e disse: “Le novelle di oggi parleranno d’amore perché non c’è niente di più bello al mondo, né di più forte e irresistibile di questo sentimento per il quale siamo disposti a tutto, anche a soffrire”. Fiammetta, Pampinea, Lauretta ed Elissa narrarono storie di amori infelici, poi fu la volta di Filomena che disse: “Ciò che ho udito mi ha fatto venire in mente una novella che vi commuoverà più delle altre. State dunque a sentire...”

I

n Sicilia c’è una bella e antica città che s’affaccia sullo stretto di mare che porta il suo nome, Messina. Lì viveva una fanciulla dolce di carattere, Lisabetta. I suoi tre fratelli, mercanti di professione, l’amavano assai e la proteggevano come avrebbe fatto il padre se fosse stato ancora in vita. Nella bottega dei fratelli capitò a lavorare come garzone un giovanotto di nome Lorenzo. A Lisabetta pareva un angelo, con i riccioli biondi e gli occhi azzurri, e se ne invaghì all’istante. Anche Lorenzo si innamorò di lei e, un giorno che erano rimasti soli in bottega, le dichiarò il suo amore. – Chiederò ai tuoi fratelli il permesso di sposarti – disse. Lisabetta arrossì. – Sono molto gelosi di me, non te lo daranno mai. 32


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– Ma io non posso rinunciare a te. Aspetterò e chissà! Siccome l’amore è più forte di tutto, si incontravano ogni notte in giardino quando tutti dormivano. Quella dolce abitudine andò avanti per qualche mese. Una notte, però, il fratello maggiore li vide baciarsi teneramente abbracciati. Un colpo al cuore quel tradimento! D’istinto avrebbe voluto acchiappare Lorenzo per il collo, riempirlo di botte e cacciarlo ma si trattenne… qualcuno dei vicini avrebbe potuto sentire o vedere o, peggio, il garzone avrebbe potuto parlare. Sarebbe stata una vergogna troppo grande per loro, e pure per Lisabetta! Il mattino seguente ne parlò quindi ai fratelli. – Nostra sorella non sposerà mai un garzone! – disse il minore dei tre. – Lorenzo si è approfittato dell’ingenuità di nostra sorella! – disse il mediano. – Egli ha tradito la nostra fiducia, deve pagare! – concluse il maggiore. Alcuni giorni dopo chiamarono il garzone. – Domani andremo ad acquistare granaglie fuori città e tu verrai con noi. Partirono all’alba. Giunti in un bosco nelle vicinanze di Messina, i tre fratelli ordinarono: – Lorenzo, ferma il carro e scendi! Lui non capiva perché ma lo fece. Scesero anche i fratelli, gli si appressarono, lo immobilizzarono. – Questa è per aver tradito la nostra fiducia approfittando di Lisabetta! – gridò il maggiore pugnalandolo al petto. Lorenzo s’accasciò senza vita. I tre fratelli sotterrarono il corpo e tornarono a casa. Passarono i giorni. 33


Giornata quarta e quinta

“Dov’è Lorenzo? Perché non torna? Perché questa lunga assenza?” si domandava Lisabetta. I giorni passavano e l’ansia cresceva, così, vinto il pudore, osò chiedere di lui ai fratelli e sempre con maggior insistenza. – Perché chiedi di Lorenzo? Che t’importa di lui? Finiscila! – la rimproverarono. Lisabetta smise di fare domande, ma continuò a tormentarsi: forse gli era capitata una disgrazia, forse era fuggito perché non la voleva più!? Passava le notti a piangere pensando a Lorenzo. Finché una notte ebbe una visione. Le apparve un’ombra, udì un respiro basso e affannoso, vide un volto pallido, quello del suo Lorenzo! La camicia era stracciata e insanguinata! – Lisabetta, i tuoi fratelli mi hanno ucciso. Prendi il sentiero che va nel bosco fuori Messina e quando sarai giunta sotto il fico selvatico, scava – le disse l’ombra. Lisabetta si svegliò in lacrime e disperata. Appena fu mattino, chiese ai fratelli il permesso di uscire insieme alla cameriera per recarsi in chiesa, invece si recò nel bosco. Dove finiva il sentiero, ecco il fico selvatico. Era quello il punto indicato. Si inginocchiò, affondò le mani dove la terra le sembrò meno dura e cominciò a scavare, zolla dopo zolla, finché toccò il corpo di Lorenzo. Soffocando un grido, pianse in silenzio. Povero amore suo! Lì sotto l’albero, senza una sepoltura, senza una croce! Doveva seppellirlo pietosamente altrove. Ma come trasportarlo? Allora, fattasi coraggio, prese un coltello che teneva legato alla cintola e recise la testa. L’avvolse in un panno di seta. – Nascondila sotto il grembiule! – disse alla cameriera. Giunta a casa, mise la testa in un vaso di coccio, la ricoprì di terra e vi piantò sette pianticelle di basilico, quindi sistemò il vaso sul davanzale della finestra di camera sua. 34


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Da quel giorno non uscì più dalla sua stanza. Se ne stava sempre vicino alla finestra, gli occhi fissi al vaso e lo stringeva a sé ogni volta che piangeva. Le lacrime bagnavano il basilico, che, in poco tempo, crebbe rigoglioso e verdissimo; Lisabetta, invece, smagriva consumata dal dolore. – Ma che avrà Lisabetta? Rifiuta il cibo e sta sempre chiusa in camera – cominciarono a preoccuparsi i fratelli. Un giorno sentirono un vicino di casa dire: – Lisabetta non fa che stare alla finestra: fissa il basilico e piange. Perché? E quant’è pallida e smunta! Così si misero a spiarla e la sorpresero più volte a piangere vicino al vaso. – Che stranezza! Portiamo via quel vaso! Così fecero un giorno, di nascosto. – Dov’è il mio basilico? Chi me l’ha portato via! – chiedeva a questo e a quello dei servi e anche ai fratelli che però non le davano mai una risposta. – Restituitemi il mio basilico! – implorava ogni giorno continuando a cercarlo di stanza in stanza. Per la pena, in poco tempo finì a letto ammalata. Eppure, sfinita e con un filo di voce, non cessava di chiedere del suo vaso. – Perché mai nostra sorella vuole quel vaso? Che ci sarà dentro? Insospettiti, i fratelli lo spaccarono e videro quel che restava della testa di Lorenzo. Temendo di essere scoperti, la sotterrarono nell’orto di casa. Lisabetta continuò a chiedere del suo vaso di basilico per giorni e giorni. Il dolore fu tale che a poco a poco la poveretta deperì, fino a morire per quell’amore che le era stato sottratto così crudelmente.

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La salvia malefica

Era appena terminata la novella che subito Filostrato fece segno a Emilia di continuare a narrare. Dopo averci pensato un po’, la giovane disse: “A proposito di amori infelici, ecco una storia che mi raccontava la governante quando ero bambina e che mi turbava assai”.

Nella nostra bella città, in un vicolo poco distante da via

Calimala dove, come ben sapete, non si contano, tanto sono numerose, le botteghe di lanaioli e artigiani addetti a dirozzare la lana, viveva, in una casuccia di due stanze appena, una fanciulla di nome Simona. Era l’unica figlia di un uomo anziano, malaticcio e poco in grado di lavorare. I soldi non bastavano mai, perciò Simona si era messa a filare la lana a un tanto l’ora. D’inverno se ne stava tutto il dì vicino al camino con il fuso in mano; d’estate sedeva nel cortile davanti casa e filava e canticchiava perché, per povera che fosse, il suo cuore era contento. Simona sognava l’amore. Sì, non vedeva l’ora di trovare un giovane onesto che l’amasse e la sposasse. Un giorno, il lanaiolo che distribuiva alle comari la lana da filare mandò un giovanotto, da poco assunto come garzone, a casa di Simona. Si chiamava Pasquino. – Devi filare tutta questa lana per domani, ben bene e senza nodi, intesi? – lui disse e lei annuì senza tirare fuori la voce che si era spezzata per l’emozione nel vederlo. 36


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Era bello come l’angelo di un dipinto in Santa Croce, la pelle chiara, gli occhi dolci. Fu amore a prima vista. Simona passò l’intera notte a filare pensando al garzone, vispa come un uccellino. L’indomani il garzone tornò. – Ecco la lana; spero che vada bene filata in questo modo – lei disse guardandolo negli occhi tanto amorosamente che il giovane si turbò e non poté più dimenticare né lo sguardo né il volto di Simona. Stregato da Amore, cominciò a pensare sempre e soltanto a lei. – Simona è la migliore filatrice; diamole anche questa partita di lana – prese a dire al padrone per poterla vedere più spesso. Quando andava da lei si intratteneva a lungo con la scusa di darle suggerimenti su come eseguire il lavoro. E così, giorno dopo giorno, Simona e Pasquino si scambiarono mille baci e una promessa d’amore. – Appena avrò messo da parte un bel gruzzoletto di fiorini, ti sposerò – le disse un giorno Pasquino. Venne una domenica di festa con tanto cielo azzurro e sole che era un peccato starsene in casa. Simona, avuto dal padre il permesso di recarsi alla Sagra di San Gallo, uscì in compagnia di un’amica di nome Lagina. Non era però certo uscita per andare alla Sagra. Da Porta San Gallo si diressero verso un giardino poco fuori le mura. Lì ad aspettarle c’erano Pasquino e un suo amico che tutti chiamavano lo Storto e che stravedeva per la bella Lagina. Sarebbe dunque stato un intero pomeriggio di spensieratezza e di dolcezze per questi innamorati. Nel giardino, Pasquino prese per mano Simona e disse: – Stiamo un po’ da soli. Andiamo laggiù, fra quei cespugli; se ti bacio nessuno potrà vederci. 37


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Si incamminarono per un viottolo erboso, dove la vegetazione era un groviglio di ginepri, mirti, allori, e si sedettero ai piedi di un grosso cespuglio di salvia. – Simona, se mi sposi sarò l’uomo più felice sulla faccia della terra – disse Pasquino stringendosela al petto. Le diede un bacio sul collo che odorava di rosa, un altro sulla fronte bianchissima, uno sulle labbra morbide e calde. Lei lo lasciava fare, vinta da Amore, e intanto, fra un bacio e l’altro, facevano progetti e progetti sul loro avvenire. A un certo punto Pasquino strappò due foglie di salvia. – Lo sai che niente più della salvia sbianca i denti e fa bene alle gengive? E così dicendo prese a strofinarsi i denti. – Provala anche tu. Prendi... Oddio! Che mi succede? – Cos’hai, Pasquino?! Paonazzo e con gli occhi sgranati, lui respirava a stento, cercava di parlare ma d’improvviso le crollò addosso. – Pasquino, per amor di Dio! Aiuto! Lagina! Storto! Venite presto! – gridava. La trovarono inginocchiata davanti al povero Pasquino, ormai privo di vita, col corpo gonfio e il volto livido di macchie. – Che gli hai fatto?! L’hai avvelenato! E perché?! – gridò lo Storto. Simona, intontita per lo spavento e il dolore, non si difendeva, né negava. – Dannata ragazza! Hai avvelenato il mio migliore amico! Sei una strega! – egli continuò ad aggredirla con rabbia. A sentir quello schiamazzo, accorrendo chi da una parte, chi da un’altra, una gran folla si era stretta attorno al corpo di Pasquino. – L’hanno avvelenato! – dicevano tutti vedendolo gonfio e paonazzo. 38


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– Sei stata tu! Chi altri se no! Perché non ci dici cosa gli hai fatto? – insisteva lo Storto. Ma Simona era muta e tremava. – Via! Portiamola dal podestà! Giustizia! Dev’essere fatta giustizia! – si misero a gridare tutti quanti compresa Lagina. E intanto spintonavano Simona perché camminasse svelta verso il palazzo del podestà. – Vossignoria, questa femmina ha avvelenato il mio migliore amico! – disse lo Storto appena fu dinanzi al podestà. – Come potete sostenerlo? Più impetuoso di un fiume in piena, il ragazzo raccontò che aveva trovato morto Pasquino e che Simona era una strega malvagia. Più l’accusava e più si infervorava. Da quel racconto confuso, il podestà non venne a capo di niente e, sembrandogli il caso davvero strano, alla fine si rivolse alla fanciulla: – Andiamo in giardino! Lì mi racconterai per filo e per segno quel che è successo. Si recarono tutti quanti nel giardino, proprio nel punto in cui, sotto il cespuglio di salvia, ancora giaceva Pasquino. Simona si fece coraggio e prese a raccontare come si era svolto il fatto. E, per meglio dimostrarlo, colse una foglia di salvia e la strofinò sui denti. – Bugiarda! Che sciocchezze! Quando mai la salvia fa schiattare! – gridavano lo Storto e gli altri amici di Pasquino, l’Atticciato e Guccio de’ Gucci, che si erano precipitati dal podestà, appena appresa la notizia della disgrazia. – Gli hai fatto un maleficio, brutta strega. Devi finire sul rogo! Mentre tutti così gridavano minacciandola, la povera Simona prese a tremare tutta. Strabuzzò gli occhi e cadde a terra. Era morta. 39


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Nessuno fiatò. Ciascuno guardava la faccia dell’altro; lo Storto abbassò gli occhi per la vergogna. – Questa fanciulla era sincera. Che nostro Signore l’accolga in pace! – disse il podestà. E, affinché quella salvia non nuocesse a qualcun altro, dette ordine al guardiano del giardino di sradicarla. “Che strano! Mai sentito dire che la salvia possa essere velenosa” ciascuno pensava vergognandosi di avere a torto accusato Simona. Il guardiano stava per dare l’ultimo colpo di badile quando un rospaccio nero balzò dalle radici della pianta schizzando bava nerastra. – Alla larga! Alla larga! Saltarono tutti, chi qua chi là, chi corse via ma il guardiano con un colpo netto tramortì il rospo, quindi lo ricoprì di terra e sterpi e gli dette fuoco. A sera tarda, le campane di San Paolino suonavano a morto mentre gli amici di Pasquino e Simona portavano a spalle i due sfortunati amanti fin dentro la chiesa. Lì, trovarono finalmente pace, per sempre assieme.

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Pietro e Angiolina

La bella compagnia trascorse il mattino del quinto giorno passeggiando in una verde pianura, e la pace e la bellezza del luogo resero tutti di buon umore. Nel pomeriggio, quando si sedettero attorno alla fontana per deliziarsi con i racconti, la regina Fiammetta così parlò: “Meglio non rattristarci con gli amori sfortunati; voglio, perciò, ascoltare vicende d’amore a lieto fine”. Iniziò Panfilo a narrare, poi fu la volta di Emilia, quindi di Elissa che disse: “Gli innamorati delle vostre novelle hanno sopportato molte difficoltà e sofferenze prima di essere felici, proprio come i protagonisti della storia che sto per raccontare…”

A Roma viveva un giovane di nobile famiglia, Pietro Boc-

camazza. Costui amava, riamato, Angiolina, una fanciulla bella ma povera, perciò il padre di Pietro rispose un secco no al figlio quando gli chiese il permesso di sposarla. – Dovrai prenderti una moglie adeguata al tuo rango! – disse severo. E fece di più. Andò a minacciare i familiari della ragazza perché la tenessero lontana da Pietro. Ma i due innamorati non si dettero per vinti; una mattina montarono su due cavalli e partirono alla volta di Anagni, dove Pietro aveva un amico pronto ad accoglierli. Dopo alcune miglia, sia per l’ansia di fuggire, sia perché non conoscevano il percorso da fare, imboccarono un sentiero che li portò in una boscaglia. 41


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Cavalca cavalca intravidero la sagoma scura di un castello. “Finalmente un riparo sicuro!” si augurarono i due innamorati e, spronati i cavalli, vi si avvicinarono. – Alto là! Chi siete? – urlarono dalle feritoie. E all’istante un drappello di soldati a cavallo irruppe fuori minaccioso. Pietro e Angiolina si dettero alla fuga. Il cavallo della fanciulla, più svelto del fulmine, la trascinò dove la selva si infittiva ma Pietro, rimasto indietro assai, fu raggiunto dai soldati e acciuffato. – Dicci chi sei! – ordinò brusco uno di loro. – Sono Pietro Boccamazza. – Allora peggio per te! I Boccamazza sono amici dei nostri avversari, gli Orsini, perciò ti impiccheremo! Stavano per avventarsi su di lui quando dai cespugli attorno sbucarono alcuni soldati armati di lance e spade. – A morte! A morte! – gridavano scagliandosi contro gli assalitori del giovane Pietro che, fulmineo rimontò a cavallo e fuggì, spingendosi più oltre nella boscaglia ansioso di raggiungere Angiolina. Cavalcò senza fermarsi un istante, senza una direzione precisa, senza rendersi conto di girare a vuoto. Già calava il buio. E con il buio i lupi famelici sarebbero usciti dalle tane. Allora, legato il cavallo a un albero, Pietro vi si arrampicò e rimase a cavalcioni su un ramo tutta la notte. Più del buio e dei lupi era però la preoccupazione per Angiolina ad angosciarlo. Si immaginava la fanciulla prigioniera di manigoldi oppure, disarcionata dal cavallo imbizzarrito, ferita e non più in grado di muoversi. Ma Angiolina fu più fortunata. Vagando per la foresta, preoccupata per l’assenza di Pietro ma fiduciosa che l’avrebbe raggiunta, imboccò un sentiero che la portò dritta a una casupola. 42


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Bussò alla porta e venne ad aprirle un vecchio. – Che ci fa una fanciulla nel bosco? – chiese l’uomo. – Mi sono smarrita, dovevo andare ad Anagni. – Anagni è assai lontano, conviene che tu passi qui la notte. Il vecchio e sua moglie le diedero pane, latte caldo e un letto. All’alba fu uno zoccolio di cavalli a svegliare Angiolina. Che si trattasse dei soldati inseguitori? Meglio nascondersi! Velocemente uscì nel cortile sul retro della casa e, vedendo un covone di fieno, vi si infilò più dentro che poté. A mala pena riusciva a respirare. Era una brigata di malintenzionati, armati di tutto punto. – Ehi, di casa! Dateci cibo e vino! – gridarono alcuni entrando di prepotenza. Altri, invece, rimasero fuori liberandosi di scudi e lance. Uno di essi, afferrata una lancia, la scagliò nel mucchio di fieno: sibilò sfrecciando rasente la spalla di Angiolina. I bravi vecchi dettero loro quello che avevano da bere e da mangiare e per fortuna i malfattori si accontentarono e si allontanarono senza altre pretese. Appena si rese conto di essere fuori pericolo, Angiolina uscì dal covone. – Sei stata fortunata – le disse il vecchio, – ma hai bisogno di un rifugio più sicuro di questa casa. Ti condurrò al castello di un nobile gentiluomo non lontano da qui. Lui e sua moglie hanno fama di essere ospitali e generosi. La fanciulla e il brav’uomo montarono a cavallo e giunsero al castello quando già imbruniva. Per Pietro la notte era stata invece tutta paure e tormenti; per giunta tre lupi si erano avventati sul cavallo legato all’albero e l’avevano sbranato. Senza cavallo, il giovane si vedeva già perduto. Appena fece giorno riprese il cammino con il 43


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cuore gonfio di incertezze: a piedi, senza conoscere il luogo, senza sapere da che parte dirigersi per trovare Angiolina, come avrebbe fatto? Ad un certo punto incontrò alcuni pastori che si rifocillavano attorno a un fuoco. – Venite a scaldarvi! – dissero porgendogli del cibo; il giovane se la doveva essere vista brutta, bastava guardarlo per capirlo. – Cosa fate a piedi nel bosco? – Cerco qualcuno che possa darmi un cavallo. – A due miglia da qui c’è il castello di un conte. Forse lui potrà aiutarvi. Vi accompagno – rispose uno dei pastori. Un’ora dopo, Pietro era al castello. Bussò. – Mi serve aiuto – disse al servo che venne ad aprirgli. – Mi sono smarrito nella boscaglia e il mio cavallo è stato sbranato dai lupi. Fatemi parlare con il conte, forse può aiutarmi. Il mio nome è Pietro Boccamazza e vengo da Roma. Il servo lo fece entrare in una sala e gli chiese di attendere. Pochi istanti dopo, ecco una signora di mezza età, elegante nel portamento. – Benvenuto al castello! – lo salutò con voce affabile. Il giovane si inchinò e disse: – Vi chiedo di aiutarmi. La donna che amo è in pericolo: si è smarrita in questi luoghi mentre, assieme, fuggivamo da un gruppo di malintenzionati. Devo trovarla! Mi serve un cavallo e qualcuno che mi faccia da guida. – Siete venuto nel posto giusto, ora capirete perché. Aspettate! Se ne andò lasciandolo perplesso. Poco dopo ritornò assieme a una fanciulla: Angiolina. – Pietro! Pietro! E corse ad abbracciarlo, bella più che mai per la felicità. La tensione e l’angoscia svanirono all’istante. 44


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– Mio marito è il conte Lello da Campo di Fiore. Conosco bene il legame di amicizia che c’è tra lui e la vostra famiglia – disse la castellana, – in quanto a me, anni fa, a Roma, ho avuto modo di conoscere Angiolina e i suoi genitori. Pietro ascoltava sorpreso e si rincuorava sempre più, tanto che prese a narrare tutte le peripezie vissute per amore. La castellana, commossa dalla storia dei due innamorati e presa dal desiderio di aiutarli, disse: – Penserò io a farvi rappacificare con i vostri parenti, intanto celebreremo le vostre nozze qui al castello. Fu così che Pietro e Angiolina, dopo tanti affanni, poterono tornare a Roma, felici e uniti per sempre.

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Gianni da Procida

Quando Neifile ebbe terminato la sua novella, Fiammetta ordinò a Pampinea di proseguire. “L’amore vince tutto!” lei disse. “Anche la novella che sto per raccontarvi, come le altre finora udite, dimostrerà cosa siamo capaci di fare per questo sentimento”.

Nel golfo di Napoli, di fronte al capo Miseno, c’è un’isola

di pescatori, Procida, non grande quanto la vicina Ischia ma altrettanto bella e pittoresca. A Procida viveva un potente signore il cui figlio, di nome Gianni, si era perso d’amore per una nobile fanciulla di Ischia. Restituta, così si chiamava la giovane, aveva riccioli biondi, pelle di rosa e occhi blu come il profondo mare di Ischia e Gianni l’amò fin dal primo istante che la conobbe. Anch’ella lo ricambiava d’intenso e puro amore. Gianni, per incontrarla, raggiungeva Ischia con la barca e magari si accontentava di rimanere a guardare il balcone dell’amata se lei non poteva affacciarsi. Ma entrambi erano felici e si scambiavano promesse d’amore. Un giorno la giovane si recò in spiaggia. Era piacevole passeggiare lungo la riva del mare: l’onda, urtando gli scogli, spandeva nell’aria nebbiolina iridata e odor di salsedine. Restituta si era tolta le scarpe e, sollevata la veste leggera, camminava lungo la riva, a fior d’acqua. Camminava distratta, pensando al suo Gianni. 46


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Si accorse troppo tardi di quei ceffi accovacciati dietro gli scogli: la pelle brunita dal sole, lunghe barbe, braccia possenti. Silenziosi e rapidi come belve affamate si mossero verso di lei e fu un attimo: si ritrovò imprigionata nella stiva di una nave. – Vogliamo litigare per questa giovinetta? Tanto vale che nessuno di noi se la prenda, piuttosto vendiamola al mercato delle schiave – disse un vocione. – È troppo delicata per fare la serva, nessuno la comprerà; ho un’idea migliore – disse un altro. – Portiamola a re Federico, lui sì che ne apprezzerà la bellezza e ci darà una ricca ricompensa. I tre marinai fecero così rotta verso la Sicilia, precisamente a Palermo. Appena giunti, condussero la fanciulla al palazzo del re. Re Federico rimase subito attratto da tanta bellezza, però, vedendola così giovane e spaurita, non volle approfittare di lei. Avrebbe aspettato e chissà, col tempo, essa avrebbe potuto accettare il suo amore. – Non temere, non ti farò del male; qui sarai trattata come una regina – egli disse a Restituta. Diede quindi ordine alla servitù di sistemarla in una palazzina poco fuori Palermo, chiamata la Cuba. Intanto a Ischia, gli isolani e il padre di Restituta non si davano pace. Una disgrazia? Scivolata da un dirupo? Affogata? Ogni ricerca non portò a niente. Restava solo l’ipotesi più probabile: il rapimento. Per opera di chi? La notizia della scomparsa di Restituta e di una imbarcazione che era approdata in una caletta tra gli scogli proprio quella mattina arrivò in breve a Procida e a Gianni. 47


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– O trovo Restituta o mi affogo in mare! – disse sconvolto. Senza indugiare, trascinato dalla forza dell’amore, salì su una barca e prese il mare con rotta verso Napoli. Da Napoli si spinse poi fino a Scalea, in Calabria, dove finalmente qualcuno seppe dirgli che era stata vista al porto un’imbarcazione con tre marinai e una fanciulla. – Dobbiamo portare una bella giovinetta al nostro re, a Palermo – si erano vantati quei tre all’osteria fra un boccale di vino e un altro; poi la barca era sparita ai primi albori. Gianni aveva saputo quanto bastava e riprese il mare. Il vento gonfiò le vele fino a Palermo. La città era zeppa di gente; brusii e cantilene dai vicoli. Al mercato, fra i banchi colmi di mercanzie, vagavano greci, arabi, siciliani. Chiedi qui, chiedi là venne a sapere che una fanciulla straniera era stata condotta nella Cuba. “Non me ne andrò da qui senza di lei! Che importanza ha la sicurezza, conta soltanto Restituta”. Perciò non si mosse da Palermo e ogni giorno e ogni notte si appressava alla Cuba e camminava attorno al muro di cinta del giardino sperando di vedere l’amata, finché un giorno il caso volle che Restituta si affacciasse a una finestra: lo vide e pure lui vide lei. Non c’era nessuno attorno e Gianni disse: – Stanotte verrò da te, aspettami alla finestra. E si allontanò. A notte fonda era alla Cuba. Arrampicarsi su quel muro di cinta non era facile. Dove le pietre erano più sporgenti, dove qualche pianta aveva messo radici, ecco un appoggio; piano piano le dita forzavano sulle pietre rugose che fornivano appigli, il cuore pompava a mille e il desiderio metteva ali ai piedi. Scavalcò il muro e fu in giardino; un raggio di luna posava sopra una scala dimenticata lì da qualcuno. Una benedizione di Dio quella scala! 48


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La prese e si mosse silenzioso verso la finestra della stanza di Restituta: era aperta, lo stava aspettando. Poggiò la scala al muro e salì, scavalcò la finestra e fu tra le braccia dell’amata. Rimasero abbracciati e silenziosi, poi le bocche si scambiarono gioie mai provate. – Vieni! – gli disse Restituta. – Stammi vicino, ho avuto tanta paura! Si strinsero assieme sul letto e nella tenerezza si assopirono. Il mattino portò luce, tepore e nell’animo del re Federico un desiderio nuovo. – Prepara un canestro di frutta e fiori! – ordinò al servo. E tosto che fu pronto si recò assieme a lui alla Cuba per intrattenersi con la fanciulla che non aveva più visto dal giorno in cui era stata condotta alla reggia. Il servo aprì la porta e nella penombra un cono di luce illuminò due corpi seminudi, abbracciati nel sonno. Sconvolto d’ira, il re afferrò il pugnale che aveva alla cintola, sollevò il braccio ma si fermò: uccidere nel sonno era da vigliacchi! Chiamò le guardie. – Prendeteli, legateli schiena contro schiena e conduceteli in piazza a Palermo. Che tutti li vedano! Al tramonto siano arsi vivi! Tanto dolce era stato scivolare abbracciati nel sonno, tanto orribile essere brutalmente svegliati, legati e condotti, sotto la luce accecante del sole, nella pubblica piazza con addosso gli sguardi curiosi dei più, pietosi di pochi. I due innamorati non potevano vedersi, legati com’erano, schiena contro schiena, ma l’uno sentiva tremare il corpo dell’altro. 49


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– T’amerò anche nell’altra vita! – disse Gianni. – Il tuo amore mi darà la forza di morire arsa viva! – lei rispose. Fu un nobile signore di mezza età, Ruggero de Loria, ammiraglio del re, ad avvicinarsi al giovane e a riconoscerlo. – Tu sei Gianni da Procida, nipote di quel Gianni da Procida figlio di Landolfo? – gli disse. – Sì, signore. – Perché sei qui? Dimmi, cos’è accaduto? Gianni raccontò la sua disavventura e quando ebbe finito disse: – Per l’amicizia che vi lega alla mia famiglia, fatemi una grazia: vorrei morire portandomi dietro lo sguardo della mia amata. Ordinate, dunque, di legarci viso a viso così che possiamo guardarci negli occhi fino alla fine. – Sarà fatto e che Dio vi benedica! – rispose l’ammiraglio. Si recò immediatamente dal re e gli chiese: – Maestà, di cosa sono colpevoli quei due giovani che avete intenzione di mandare al rogo? Federico glielo spiegò. – Se uno si macchia di una colpa è giusto che sia punito come è giusto che sia ricompensato chi ha fatto del bene a qualcuno. Però, maestà, sapete chi sono quei due? Federico rispose di non saperlo. – Ebbene, il giovane è nipote di messer Gianni da Procida, colui che ha lottato contro i vostri nemici perché poteste regnare in Sicilia; la giovane è figlia del potente Marino Bòlgaro, a voi fedelissimo: è per merito suo se Ischia è sotto il vostro governo. Vedendo che lo sguardo del re s’era fatto meno cupo, continuò: – Non è certo una colpa amare; quei due si amavano da tempo, ancora prima che la giovane fosse rapita e condotta a 50


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voi. Non sentitevi perciò offeso nell’onore perché essa non vi appartiene. Dal momento che siete un sovrano giusto e generoso, rimandateli dai loro parenti carichi di doni. Federico non dubitando delle parole dell’ammiraglio, ordinò che i due giovani fossero liberati, rivestiti e riportati nelle loro isole. Prima che partissero, fece caricare sull’imbarcazione preziosi doni a ricompensa di ciò che avevano patito per colpa sua. Gianni e Restituta si sposarono di lì appresso con la benedizione delle proprie famiglie.

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Federigo degli Alberighi

Venne il turno di Dioneo. Prima di iniziare la sua novella, egli però disse: “Molte donne accusano gli uomini di essere duri di cuore; eccovi una storia che dimostrerà, invece, fino a che punto può sacrificarsi un gentiluomo per conquistare l’amore di una donna”.

Federigo Alberighi era un giovane fiorentino di nobile fa-

miglia, gentile e generoso. I tornei d’armi e la caccia con il falcone erano le sue passioni. A Firenze, fanciulle nobili e belle da sposare non mancavano, tuttavia egli era innamorato di una vicina di casa di nome Giovanna. Purtroppo, lei aveva marito e figlio perciò non lo degnava di uno sguardo pur sapendo quanto egli l’amasse. Federigo, sperando di conquistarla, organizzava pubbliche feste, tornei e donava grosse somme di denaro ai poveri della città, ma Giovanna rimaneva indifferente. Spendi oggi, spendi domani, egli si trovò ben presto in miseria perciò fu costretto a vendere il palazzo dove abitava e andare a vivere sulla collina di Settignano, non molto lontano da Firenze. Abbandonato dagli amici, viveva da solo, curando i suoi campi e andando a caccia con il suo falcone, bravissimo a catturare piccole prede. Il caso volle che nel frattempo Giovanna rimanesse vedova e il figlio si ammalasse. La febbre aveva indebolito il ragazzo che non mangiava più. 52


Novelle con amori difficili

– L’aria di campagna gli farà tornare l’appetito – sentenziarono i medici, così Giovanna decise di trasferirsi in campagna nella sua villa che era nei pressi del podere di Federigo. Un giorno, passeggiando per i campi, il figlio di Giovanna incontrò Federigo che stava cacciando con il falcone: vide che il rapace si drizzava sulle zampe sopra il braccio del padrone, sbatteva le ali e, al suo comando, spiccava il volo, poi volteggiava in aria per precipitare, infine, sulla preda. Uno spettacolo che sorprese il giovane, facendolo appassionare al falcone. Cominciò quindi a frequentare Federico, che accettò volentieri la compagnia del ragazzo e più volte lo condusse con sé a caccia. Dopo qualche tempo la salute del fanciullo peggiorò, le forze lo abbandonarono e non si alzò più dal letto. Giorno e notte Giovanna lo vegliava al capezzale e gli parlava per fargli coraggio e per convincerlo a mangiare. Il figlio, però, non sorrideva più e lei avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vederlo almeno sereno. – Che cosa ti potrebbe fare felice? Dimmelo e l’avrai – gli disse un giorno la madre. – Oh! Sì, il falcone di messer Federigo; quello, davvero, potrebbe farmi felice! – Il falcone? Non so se potrai averlo. Messer Federigo se ne serve per la caccia – rispose dispiaciuta. Tuttavia si recò a casa di Federigo. – Che gradita sorpresa! Cosa posso fare per voi? – egli disse. Giovanna volle essere gentile con lui e, lì per lì, tacque il vero motivo della visita. – Sono venuta per farvi compagnia e pranzerò con voi, se vi fa piacere. Federigo ne fu immensamente felice e la fece accomodare in giardino, in attesa del pranzo. Ma era così povero che 53


Giornata quarta e quinta

nella sua dispensa non c’era niente di niente, né carne, né prosciutto, né un pezzetto di formaggio. Solo pane secco e verdure. Aprì un cassetto: nemmeno una moneta. Si sentì perduto. Proprio quel giorno, la sua amata era lì per pranzare con lui ed egli non aveva niente da offrirle. In quel mentre, il falcone, appollaiato su un trespolo, gridò. “Ecco! È l’unica cosa da fare!” pensò Federigo. E risoluto lo prese e gli tirò il collo. Chiamata la cuoca le ordinò di cucinarlo. – Fa’ del tuo meglio perché sia saporito e gustoso. Un’ora dopo, il pranzo era in tavola. Quando ebbero terminato, Giovanna si fece coraggio e gli parlò sinceramente. – Federigo, devo chiedervi un favore che so vi costerà molto. È per mio figlio che amo più di me stessa. Ebbene, lo farò felice se gli porto il vostro falcone, altrimenti sono certa che si lascerà morire per il dispiacere. Federigo fece un gran sospiro, poi disse: – Io ve lo darei con tutto il cuore, ma purtroppo non posso. Per farvi pranzare in modo decoroso ho fatto cucinare il mio falcone. E fece portare zampe, penne e becco come prova. – Avete rinunciato al vostro falcone per onorarmi, siete davvero generoso! – essa disse commossa. Dopo averlo cento volte ringraziato se ne tornò dal figlio malinconica e con poche speranze. Il fanciullo pochi giorni dopo morì. La madre rimase appartata in casa per un anno. – Devi rimaritarti, Giovanna, sei ancora giovane – cominciarono a dirle i fratelli. Lei non voleva saperne ma essi insistevano sperando di convincerla, finché un giorno Giovanna così disse: 54


Novelle con amori difficili

– Se proprio devo risposarmi, il solo uomo che accetto è Federigo Alberighi. – Perché proprio lui? Tu sai che non ha soldi. – Lo so, eppure preferisco sposare un uomo povero ma ricco di sentimenti piuttosto che uno ricco ma incapace di compiere sacrifici per amore. I fratelli compresero il ragionamento della donna e le concessero di sposare Federigo, la cui nobiltà d’animo era di gran lunga maggiore di qualsiasi ricchezza.

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Novelle dal Decamerone Capolavoro in prosa della letteratura italiana

Giovanni Boccaccio, nato a Firenze nel 1313 e morto nel 1375, è uno dei più grandi narratori italiani di tutti i tempi. Scrisse poemi in rime, racconti, novelle. Il suo capolavoro, il “Decamerone”, fu composto intorno al 1350.

Completano la lettura un apparato finale di approfondimento delle tematiche e un fascicolo di comprensione del testo.

Novelle dal Decamerone Capolavoro in prosa della letteratura italiana

Novelle dal Decamerone

Giovanni Boccaccio

Giovanni Boccaccio ambientò il Decamerone nel 1348, l’anno in cui Firenze fu devastata dalla peste. Questa raccolta presenta alcune delle novelle più significative, divise per tematiche e scelte per il loro contenuto adatto alla secondaria inferiore. Sono racconti che parlano di avventura, d’amore e di beffe che si svolgono in un Medioevo meraviglioso e, nello stesso tempo, realistico, dove interagiscono re, nobili e popolani, uomini e donne comuni. È uno spaccato perfetto dell’epoca, una lettura sempre attuale ed entusiasmante, proposta in una briosa e intensa riscrittura.

Giovanni Boccaccio I C L AS S I C I

Giovanni Boccaccio

Giovanni Boccaccio

Capolavoro in prosa della letteratura italiana

Completano la lettura: Approfondimenti finali Fascicolo di comprensione del testo Schede interattive su www.raffaellodigitale.it

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Online: approfondimenti e schede didattiche www.raffaellodigitale.it Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).

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