Memorabilia. Nel paese delle ultime cose

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Memorabilia

Memorabilia è il diciottesimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. Memorabilia. Nel paese delle ultime cose raccoglie gli atti dell’omonimo convegno che si è tenuto presso l’Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana nel maggio del 2015. L’incontro è stato il terzo appuntamento della serie “Ricicli immateriali” organizzata dal gruppo di curatori della sezione “Teorie del Re-cycle” del progetto di ricerca Re-cycle Italy. Memorabilia è impostato sulla scelta di un “oggetto” da portare nel futuro e sul senso e sulla struttura di un possibile archivio.

18 MEMORABILIA NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

ISBN

Aracne

euro 22,00

978-88-548-9007-7



MEMORABILIA

NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

A CURA DI SARA MARINI ALBERTO BERTAGNA GIULIA MENZIETTI


Progetto grafico di Sara Marini e Sissi Cesira Roselli Copyright © MMXV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978-88-548-9007-7 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre 2015


PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università Iuav di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma "La Sapienza" Università degli Studi di Napoli "Federico II" Università degli Studi di Palermo Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria Università degli Studi "G. d’Annunzio" di Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino


Memorabilia. Nel paese delle ultime cose raccoglie gli atti dell'omonimo convegno che si è tenuto il 9 maggio 2015 a Mendrisio presso l'Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana. Nella stessa data e nella stessa sede è stata inaugurata l’omonima mostra. I relatori al convegno e i contributi esposti nella mostra sono stati selezionati e raccolti attraverso una call che ha visto la partecipazione di professori e ricercatori, studenti italiani e stranieri appartenenti ed esterni al gruppo di ricerca del progetto PRIN Re-cycle Italy. L'incontro è stato il terzo ed ultimo appuntamento della serie "Ricicli immateriali" organizzata dal gruppo di curatori della sezione "Teorie del Re-cycle" all’interno del progetto di ricerca Re-cycle Italy. I precedenti due seminari, tenutisi a Roma e a Venezia, hanno affrontato il primo la nostalgia del futuro e di nuove utopie, il secondo il rapporto tra Re-cycle e Preservation. Il seminario Memorabilia è stato impostato sulla scelta di un "oggetto" da portare nel futuro e sul senso e sulla struttura di un possibile archivio. La serie di seminari "Ricicli immateriali" è stata curata da Pippo Ciorra, Nicola Emery, Francesco Garofalo, Sara Marini, Alberto Bertagna, Giulia Menzietti e Francesca Pignatelli.


INDICE

Esperimento di verità Sara Marini

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Distorsione e carattere Nicola Emery

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Nel paese delle ultime rose. Per un ri-ciclo ri-creativo Renato Bocchi

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MEMORABILIA Re-cycle as a Theory Pippo Ciorra

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Riciclare o conservare? Giovanni Corbellini

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La ricerca è circolare Francesco Garofalo

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NEL PAESE DELLE ULTIME COSE Il corpo umano Federico De Matteis

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Die urpflanze: la pianta originaria Luca De Vitis

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Futuro in rovina Antonio di Campli

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Archeologia autostradale Andrea Gritti, Marco Voltini, Claudia Zanda

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Il metodo Ledoux Caterina Padoa Schioppa

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The Way Things Go Francesca Pignatelli

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Souvenir Anna Riciputo

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ARCHITETTURE, STORIE, LUOGHI Il senso del ri-ciclo per le storie Enrico Formato

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Luoghi comuni. Note per un archivio Fabrizia Ippolito

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Dalla casualitĂ al progetto. Note a margine di un dibattito Andrea Oldani

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La fabbrica dei sogni Susanna Clemente

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L'anfiteatro e l'asilo Alberto De Giovanni

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Aeroporto come riserva Sara Favargiotti

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Il lago dell'ex-Snia Viscosa Romolo Ottaviani

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SPAZI, STRATEGIE, STRUMENTI Tante cose accadono senza che nessuno se ne accorga né le ricordi Alberto Bertagna

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Spazi della mente Sara Marini

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Collage Federica Caregnato

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Estate romana Federica Fava

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Poetics of Corruption. Riciclare il monumento Lina Malfona

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Stazioni fantasma a Parigi Enrica Pastore, Giulia Tönz

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Il caleidoscopio, ovvero il tema della riscrittura relazionale Isabella Santarelli

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OGGETTI, LIBRI, OPERE Alla ricerca degli elementi Alessandra Capanna

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Una valigia di oggetti "parlanti" Giulia Menzietti

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Oggetti e icone: riflessioni tra memorabilità e immemorabilità Dina Nencini

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Essere al mondo Martin Ambroise

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Una pietra di sogno Ludovica Battista

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Miracle Pine Antonia Di Lauro

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Il mito Alberto Petracchin

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A Pattern Language. Una strategia inclusiva e incrementale per la costruzione dello spazio Cristina Sciarrone

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MEMORABILIA DI UN COLLEZIONISTA Frammenti del mantello di Gea Piero Ostilio Rossi

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Riccardo Miotto, Sir John Soane's Museum (Remix), 2015



ESPERIMENTO DI VERITÀ Sara Marini >IUAV

Presupposti Memorabilia è stato e continua ad essere, attraverso questo ulteriore passaggio in forma di libro, un esperimento di verità. Qui si vuole affrontare la natura e la struttura dell'esperimento, poi si riprenderà il problema della verità. Il titolo Memorabilia raccoglie una serie di esperienze tutte sotto il segno della teoria. Il primo capitolo di questo ciclo è una call for position impostata per aprire il confronto tra i membri della ricerca Re-cycle Italy e studiosi italiani e stranieri che affrontano con altri strumenti o in altri contesti lo stesso tema. Il secondo capitolo è una mostra itinerante che raccoglie i centoventi contributi pervenuti in risposta alla call. L'esposizione è la somma di centoventi "schede" di oggetti scelti, di reperti catalogati con un'immagine – presente come testimonianza, e non come spazio atto ad evocare suggestioni altre – e un testo che articola le ragioni della scelta. Il terzo capitolo coincide con il seminario che si è tenuto presso l'Accademia di architettura a Mendrisio: questo volume ne ripercorre gli atti. L'appuntamento che si è svolto presso la sede svizzera ha visto l'esposizione orale dei contributi selezionati in doppia formula: alcuni a disegnare il sunto del paesaggio dei memorabilia, altri a precisare

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alcuni campi, alcune specifiche sezioni. La discussione è stata impostata chiedendo ai relatori di ripercorrere le tre domande poste anche nella call: cosa salvare, come portarlo nel futuro e perché. I tre passaggi: la formulazione della domanda, l'interpretazione del paesaggio delle risposte pervenute (e la loro archiviazione, tematizzazione a posteriori, collocazione), l'esposizione e la discussione delle differenti posizioni e ragioni della scelta rappresentano un vero e proprio esperimento collettivo. Va premesso che Memorabilia è stato l'ultimo capitolo di una serie di iniziative che hanno esaminato le ragioni e le impalcature teoriche del recycle. Due seminari precedono quello che si è tenuto a Mendrisio: Nostalgie di futuro. Altre utopie che si è tenuto presso il Museo MAXXI di Roma e Re-cycle vs Preservation. Racconti dall'Heritage svoltosi presso Palazzo Grimani a Venezia sempre nel 2015. In questi due appuntamenti gli ospiti invitati erano prevalentemente esterni alla rete Re-cycle Italy e i loro interventi sono stati utili a focalizzare, mettere in crisi, confermare, da punti di vista disciplinari altri o da chi opera nella professione o nelle arti visive, alcuni assunti. In pratica il ciclo di seminari Ricicli immateriali è stato un tempo e uno spazio di apertura e rimessa in gioco: i primi due incontri sono stati dedicati a riflessioni puntuali, il terzo e ultimo appuntamento è stato destinato ad una costruzione collettiva, sempre in forma ipotetica e dubitativa. Il seminario Memorabilia e i due passaggi che lo hanno preceduto (domanda e selezione) hanno chiesto e impostato, proprio come in un esperimento, alcuni ruoli precisi: il partecipante, i membri della giuria, i moderatori della giornata, tutto però è confluito in un unico disegno, certo diversificato ma orchestrato in forma di archivio vivente. La giornata è stata aperta dai saluti di Mario Botta, fondatore della Scuola di Mendrisio, che ha sottolineato quanto appuntamenti di confronto tra diverse Scuole siano occasioni per tornare a riflettere sulla formazione dell'architetto. L'appunto permette di fissare due questioni nodali che interessano la ricerca Re-cycle Italy: la prima si riferisce a come e quanto la ricerca debba essere anche un momento di formazione, la seconda riguarda l'accezione che re-cycle ha nella cultura italiana, al suo essere e una posizione culturale e una pratica, una posizione teorica e poi, di conseguenza, una questione tecnica. Per quanto riguarda il rapporto ricerca e formazione i laboratori istituiti in ogni sede coinvolta nella ricerca sono luoghi nei quali si attua il confronto tra le generazioni e spazi nei quali trasmettere modalità, principi e domande. Nel caso specifico dell'espe-

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rimento Memorabilia hanno partecipato professori, ricercatori e studenti, ciascuno dalla propria posizione e storia in un confronto diretto sul tema. Il contributo di Nicola Emery su riciclo ed estetica portato allo Iuav di Venezia nella sua recente attività di visiting professor ha messo in chiaro radici e intrecci delle differenti articolazioni della formazione dell'architetto. Pensiero e luoghi, Venezia in particolare, sono stati oggetto di riflessione così come il processo mentale di stratificazione e il suo tradursi in saper fare. Emery ha articolato un vero e proprio accerchiamento della nozione re-cycle, una critica circolare intercettando nessi con la produzione e con il capitale ma anche con alcune figure della religione quali la reliquia. Il riciclo lavora come disvelatore ma anche luogo del confondimento di verità assodate o ipotetiche. Tornando a Memorabilia, il ruolo dei giurati, così come quello dei moderatori e di chi ha tirato le fila dell'incontro di Mendrisio, è paragonabile a quello di archeologi che approdano oggi sulla terra con il compito di ricostruire le ragioni e di ipotizzare le prospettive di un pensare e di un fare analizzando un insieme di oggetti, apparentemente raccolti in modo casuale. Si tratta di testimonianze come quella di Piero Ostilio Rossi, vero collezionista di terre. Forse la terra è "veramente" l'ultimo oggetto da collezionare. Come scrive Rossi termini quali "collezione" e "collettivo" si ritrovano nello stesso territorio disegnato da reperti che raccontano storie personali, la cui somma parla di destini comuni. Anche chi legge questo testo è chiamato a rispondere alla domanda, a porsi nella condizione della scelta di una sola cosa da portare nel futuro. Il libro apre molti interrogativi sul progetto e sull'architettura, sulla cultura in generale. Un quesito che emerge è ad esempio se sia possibile e da quale posizione giudicare una scelta altrui. Altri appunti che si possono trarre da quest'esperienza interessano il senso profondo di re-cycle e la sua effettiva necessità. A tratti il riciclo sembra essere sovrastato dal problema della manutenzione, altre volte è invocato in forma reversibile e antimonumentale. In generale è difficile prefigurare il riciclo degli oggetti selezionati soprattutto quando questi sono oggetti d'affezione: in una sorta di transfert chi ha scelto subisce l'azione del tempo ma chiede che le cose, legate ad un certo momento, restino uguali a se stesse. Certamente l'autore svanisce nella trasformazione dell'oggetto, che spesso è semplicemente uno spostamento (in un archivio, in un museo), mentre è presente nel momento della scelta, agisce in una fase

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iniziale del processo progettuale che ne risulta ampliato. La firma dell'autore coincide con l'oggetto stesso, si attua una totale corrispondenza. Ricorre il timore di mettere mano a ciò che funziona, di modificarlo, c'è una maggiore attenzione a salvare ciò che non funziona più, a salvare ciò che sparisce, meno attenzione è riposta a criticare il corso delle cose. Come ricordato, ragionare su cicli di vita è sostanzialmente rivedere, smontare e ragionare sul rapporto architettura ed economia. Lo stesso archivio e ogni forma di archiviazione, soprattutto quella digitale che è particolarmente pervasiva, obbligatoria, onnipresente, produce nel suo procedere mutamenti tecnologici che, come ricordava Bruno Munari, sono e saranno altre forme di archeologia o di spazzatura, altri scarti in una produzione inarrestabile e incalzante. Il processo di archiviazione collettivo proposto da questo esperimento disegna un paesaggio dove il singolo è costretto al confronto, l'archiviazione non è un mero fatto privato: si torna a mettere così in campo il grande numero di oggetti, di partecipanti, di osservatori. Il grande numero forse troppo poco affrontato, per vicende che appartengono ormai alla storia dell'architettura, ritorna, non più in astratto, ma disegnato da folle, da torme come nei disegni di John Hejduk in Vladivostok. Infine, prima di entrare in gioco, l'esperimento ha chiesto di immaginare un'operazione, è stato virtuale, ipotetico. Anche questo carattere si offre come spunto di riflessione: in un tempo carico di concretezze forse all'architettura è chiesto di procedere in parte senza committenza, anticipando le mosse, investigando visioni, per superare il rischio che la realtà corra più velocemente del pensiero. Ad esempio in questi decenni qualche autore avrebbe potuto disegnare la città dell'accoglienza che la cronaca racconta da tempo, non per dare risposte che corrispondano precisamente al fattibile, ma per porre questioni, per vedere oltre, per sollevare la realtà ad altra quota e poi attendere che ricada, che la teoria diventi cosa. In gioco Experiment In Truth è il titolo di una raccolta di racconti scritti da Paul Auster nel 1992, il volume è dedicato al potere di verità e ai giochi del caso che la realtà è in grado di costruire. "Verità", "caso" e "realtà" ricorrono oggi quali termini chiave, anche se spesso è la contingenza ad avere, apparentemente, un ruolo dominate. La verità ondeggia insidiata da una comunicazione totale,1 il caso sembra legato ad un passato ormai distante: molti scienziati concordano sull'inizio di una nuova era deno-

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minata "antropocene"2 nella quale l'uomo determina non solo il proprio destino ma anche quello del pianeta. In questa sorta di neodeterminismo forse sono possibili solo esperienze simulate, esperimenti di verità per misurare azioni che poi nel paesaggio della realtà possono sembrare non possibili, mentre accadono silenziosamente. L'esperimento di verità qui proposto, ribaltando il rapporto tra i termini del ragionamento di Auster, è stato costruito invitando a ragionare sul potere decisionale che si può mettere in atto agendo sulla realtà, evitando per un istante di subirne il flusso inesorabile. Citando In the Country of Last Things è stato chiesto indirettamente di prendere posizione sul senso della memoria e su come questa convive con condizioni di necessità. Le condizioni imposte, come nel romanzo dello scrittore statunitense e come ricorre in molti studi scientifici, si riferiscono a uno scenario apocalittico, o sempre per dirlo alla Auster, ad un tempo, sempre l'attuale, onorando il presentismo3 imperante, in cui la catastrofe è imminente. Forse, con un ulteriore ribaltamento dei termini del discorso, l'invito a scegliere una sola cosa da portare nel futuro per disegnare il paese delle ultime cose propone un atto banale, che si compie quotidianamente. L'esercizio sviluppato all'interno di studi sull'architettura invita ad un'azione ricorrente che insiste sulla selezione e sulla condizione di necessità. "Selezione" e "necessità" sono termini che giacciono da tempo in disuso nel dizionario del progetto, a meno di incorrere in situazioni estreme. Lo scenario sostanzialmente è caratterizzato da uno stallo globale che, se sollecitato, serra le proprie maglie giuridiche ed economiche. Sul piano dell'impostazione teorica, l'affermarsi del neorealismo vede come inutili possibili azioni radicali, così come lo stesso termine "riciclo" sembra voler confermare continuamente ciò che è già dato. "Riciclo" ed "archivio" si incontrano nella capacità, comune alla strategia e allo strumento, di essere fortemente coprenti e nell'inglobare uno oggetto confermandolo e tradendolo allo stesso tempo. L'oscillazione che subisce la verità di fronte alla memoria, selettiva e non ferrea per definizione, è la stessa che possono provocare operazioni di riciclo o di archiviazione. Esperimenti di memoria, di riciclo, di classificazione pongono l'oggetto, il soggetto, l'azione in un'altra dimensione temporale, fisica o di significato. In questo spostamento prende corpo un tradimento che suona come una trasfigurazione nel permanere della cosa, della parola, dell'idea. Chiedere di scegliere e salvare un'architettura, un luogo, uno spazio, una strategia, uno strumento, un oggetto

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ordinario o un'opera, di raccontare i perché di questa scelta e come questa stessa cosa si presuppone possa costruire il futuro, sono tre passi di un esercizio di verità che apre a molti quesiti. Già solo la scelta mette chi la attua in condizioni di progetto, si tratta di guardare l'intorno e valutare non solo il ruolo di ciò che è salvato, ma anche il senso di quell'intorno che ipoteticamente non è preso in considerazione, è posto su un altro piano, in uno sfondo. La scelta è una sorta di operazione di scavo nella realtà. L'operazione di cancellazione4 può sembrare drammatica: tutto è in relazione e le posizioni tra le cose sono relative, a volte questi intrecci sembrano però ragnatele, d'acciaio, le cui ragioni fondative sono sfuggenti. La strategia del riciclo porta a guardare le cose in modo complesso: non è detto che un oggetto chiaro per forma ed uso sia più facile da riutilizzare di un oggetto articolato, non tutti i materiali si prestano al riciclo, non è scontato che si vada a rimettere in altro uso solo oggetti che hanno terminato il proprio ciclo vitale, in questo caso il progetto potrebbe giocare d'anticipo o rafforzare un funzionamento in atto. La domanda su come salvare ciò che si è scelto rimanda implicitamente al problema dell'archivio, anche se lo scenario evocato nel romanzo di Auster fa presupporre e mette volutamente in crisi questo diretto rimando. Nel libro dello scrittore statunitense le cose sono tornate ad avere valore in sé e non c'è né tempo, né spazio per valori di memoria anche se il racconto è la memoria di ciò che è accaduto, mentre tutto continua a scorrere. Un grande archivio divora questo tempo, tutto è archiviazione più che arte o paesaggio.5 L'archiviazione è una vera e propria malattia in Giappone denominata hokikomori, che corrisponde ad autoreclusioni in case, dagli spazi già costretti, che si riempiono progressivamente di un numero vertiginoso di oggetti. Il futuro del museo è già dentro le nostre case. Gli spazi si riducono, il corpo si volatilizza a favore di altri strumenti di rapporto con il mondo, restano tracce da rileggere ossessivamente come testimonia il filmato L'atlante di Francesco Jodice, non a caso esposto nella mostra Proportio a Palazzo Fortuny a Venezia: è nella ripetizione che si misura il mondo e il suo progressivo ridursi, è appunto un problema di proporzioni e non di misure. L'arte visiva scava nella ripetizione, nella riedizione non solo di opere ma anche di esposizioni fino però a perdere così l'aura come prefigurato da Walter Benjamin e confermato da Anish Kapoor costretto a portare in tribunale le autorità cinesi che hanno acconsentito alla costruzione a Karamay di una replica, non autorizzata, del Cloud

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Globe custodito nel Millennium Park di Chicago. Mentre il film Francofonia di Sokurov ricorda che si è quel che si raccoglie, quel che si protegge, quel che si continua ad interrogare. Certamente questo esperimento propone di lavorare sulla propria traccia e su quella della propria scelta che potrebbe insistere su un oggetto d'affezione piuttosto che su uno strumento salvifico per l'umanità, il come lo stesso materiale disegnerà il futuro ne restituirà l'intenzione. Molti oggetti presuppongono un'azione, almeno un riconoscimento, altri sono simboli e che come tali devono essere noti, sicuramente ogni cosa racconta una relazione. La configurazione d'insieme, l'archivio che raccoglie tutte le cose selezionate assume poi una configurazione instabile non conclusa in sé che istituisce altri nessi. Gli oggetti scelti definiscono possibili macro categorie di catalogazione, come in una raccolta differenziata, e sfumano all'interno delle stesse tipologie dall'utile all'evocativo, dal nostalgico al proiettivo. L'eredità di tale archivio è anch'essa oggetto di ragionamento, di scontri ideologici o occasione per esporre atteggiamenti differenti. Quel che emerge dai risultati di una scelta forzata è il palesamento di timori e certezze del progetto.

Note 3. Si veda a questo proposito F. Orilia, Filosofia del tempo, Carocci, Roma 2012. 4. Sul rapporto memoria e oblio si vedano F. Rella (a cura di) La memoria e l'oblio, Pendragon, Bologna 2002 e U. Eco, Dall'albero al labirinto, Bompiani, Milano 2007. 5. Si fa riferimento ai testi A. Vettese, Si fa con tutto. Il linguaggio dell'arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2010 e L. Kroll, Tutto è paesaggio, Testo & Immagine, Torino 1999.

1. Sul rapporto comunicazione e realtà e relative influenze nell'arte si veda A. Tolve, Ubiquità. Arte e critica d'arte nell'epoca del policentrismo planetario, Quodlibet, Macerata 2012. 2. Si vedano a questo proposito P. Crutzen, T.E. Graedel, Atmospheric change: An earth system perspective in «International Journal of Climatology», vol. 15, n. 5, 1995, pp. 585586 e P. Crutzen, Benvenuti nell'Antropocene!, a cura di A. Parlangeli, Mondadori, Milano 2005.

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DISTORSIONE E CARATTERE Nicola Emery >Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana

Confluiscono in questa giornata non solo numerosi amici e colleghi ma anche molteplici iniziative di ricerca, distinte ma tutte in qualche modo riconducibili a quella esigenza di altri modi di fare, altri rispetto a quelli del consumo e della distruzione, che costituisce una delle urgenze del nostro tempo. Già, perché «l’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, inevitabilmente, tratta anche se stessa come un'"umanità da buttar via"».1 La dismissione degli oggetti rinvia ad una dismissione dei soggetti, a una crescente fragilizzazione della loro condizione di vita e di lavoro, anche per questo ragionare sul salvataggio degli oggetti implica di riflesso ragionare criticamente sulla trasformazione contemporanea delle forme di vita, implica ragionare sulla vita offesa, sulle vite di scarto e le loro migrazioni. Significa pertanto ragionare anche sulla cessazione di un rapporto di risonanza percettiva-emotiva, propriamente un rapporto di risonanza estetica, che può legare e forse legava i corpi alle forme del mondo, la moltitudine delle anime alle città. Ad essere in gioco, dunque, non sono solo economia ed ecologia come criteri della sostenibilità, ma anche, e decisamente, il nostro rapporto estetico-esperienziale e poi politico con il mondo.

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Fra le iniziative e le attività di ricerca oggi qui confluite e vi sono quelle legate al programma di ricerca Re-cycle Italy, un programma che vede coinvolte ben undici università italiane e un centinaio di studiosi dell’architettura e vi è in particolare l’open call i cui esiti andranno discussi nella giornata. Sapete tutti che la nostra call evoca il titolo di un noto romanzo di Paul Auster, Nel paese delle ultime cose. Ebbene, già il titolo del romanzo di Auster riecheggia, ma dalla parte delle cose, quello che George Orwel avrebbe desiderato fosse il titolo di 1984. La sua distopia sul videocontrollo totale, poi divenuta giustamente celebre con il titolo 1984, avrebbe dovuto intitolarsi L’ultimo uomo in Europa. Nel paese delle ultime cose si consuma l’ultimo uomo: a perfetta riprova di quanto dicevo, ragionare sulla dismissione-distruzione delle cose, ragionare sulle ultime cose significa ragionare anche sulla fine dell’uomo nelle sue molteplici forme; ragionare anche sulla trasformazione-liquidazione tele-tecnologica delle sua esperienza percettiva del mondo oltre che della sua possibilità di autentica "vita activa". Ma in questa giornata confluisce anche il rapporto collaborativo avviato ormai da qualche anno da chi vi parla con lo Iuav, in particolare con i corsi e le numerose e sempre fortemente sollecitanti attività di Sara Marini. Durante il corrente semestre, anche grazie alla mia posizione di visiting professor a Venezia, ne è scaturito un corso congiunto, a carattere seminariale, dal titolo "Teorie del riciclo", e gemellato per altro con il corso di "Estetica moderna e contemporanea" da me tenuto qui in Accademia. Credo sia il caso di evidenziare come al di là dei rapporti personali, pur fondamentali, la presenza in Accademia di un corso di Estetica e di altri insegnamenti filosofici costituisca ormai quasi un unicum, e anche per questo esso sia sentito come un sicuro partner di dialogo da parte delle molte Scuole che per una tecnicizzazione crescente ne sono attualmente prive. Sara Marini più volte nel nostro seminario veneziano si è interrogata sui limiti di una formazione nelle discipline del progetto non accompagnata da una riflessione di fondo di tipo estetico-filosofico sulle questioni di senso legate al costruire oggi. E credo che abbia profondamente ragione nel sollevare questa questione, così come credo che Mario Botta sia stato senz’altro lungimirante nell’impostare l’Accademia di architettura secondo un modello umanistico, oggi insidiato, ahinoi, persino nei suoi luoghi d’origine… Il dialogo su questi temi, fra i nostri corsi, fra le nostre Scuole, va proseguito, non da ultimo perché Venezia con la sua storia vale come un para-

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digma delle pratiche di riclo e di riuso, di costruire sul costruito. Sul piano della teoria questo è ben chiaro da Ruskin a Bettini, sul piano della pratica non lo è meno da Torcello a San Marco a Ca' del Duca, dallo Scarpa del portale dello Iuav alla cinquecentesca Querini interpretata-stratificata in un continuo e sapiente spartito di innesti ancora da Scarpa, poi da Pastor e poi ancora da Botta. Nelle lezioni veneziane abbiamo sviluppato una archeologia, una fenomenologia e una simbolica del riciclo. Ne è emerso che forse nessun altro ambito più di quello del riciclo sembra intrinsecamente portare a una rivalutazione della dimensione estetica come dimensione in cui si afferma un altro principio di realtà. L’oggetto di riciclo infatti è quasi sempre al contempo un oggetto funzionale ma anche un oggetto che tende a porsi come fine in sé. Ciò che anteriormente non era che un mezzo, grazie alla ricontestualizzazione-traslazione-trasformazione diventa un fine: lo scarto, il rifiuto, il cumulo di macerie si salva e si emancipa trasformandosi entro un'altra forma di vita. Il riciclo oltrepassa il mero riuso in grazia di questa torsionedistorsione in varia misura sempre presente, segno e suono "sporco" di un'espressione che ascolta e riceve, ma anche sempre trasfigura, non da ultimo parassitandolo, l’invio dell’essere che ambirebbe a imporsi-offrirsi come un destino-heritage autoritariamente immutabile. La capsula di Nespresso schiacciata e spremuta diventa un orecchino; un pezzo del motore di una motocicletta diventa un arnese per montare la panna, come avviene nella latteria napoletana un po’ dada cara a Sohn Rethel;2 lo spazio interno di un silos diventa il teatro della luce da contemplare; una ferrovia sopraelevata diventa un giardino contemplativo. In forza di questa trasformazione dallo scarto allo scopo in sé, dal mezzo alla libera finalità senza scopo che sollecita il libero gioco rigenerativo delle facoltà immaginative, in forza di questa metamorfosi dal pragmaticoeconomico all’estetico, ogni oggetto di riciclo svolge una sua protesta, più o meno silenziosa più o meno percettibile, in ogni caso una critica, talvolta ironica se non ludica, nei confronti del regno della strumentalità assoluta (e della sua ontologizzazione), e dei ritmi nichilistici cui vi sono sottoposte le forme delle cose così come le forme di vita. Forse per questo possiamo cogliere, secondo una ipotesi che ho cercato di elaborare nei seminari di Venezia, nelle opere di riciclo anche il prolungarsi, in forma secolarizzata, del culto delle reliquie, che alla lettera erano e sono resti di una vita, resti capaci di manifestarsi sempre di nuovo nel tempo, capaci di bucarlo

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e strapparlo-straniarlo escatologicamente, opponendo alla accelerazione contemporanea la possibilità di una eterocronia. Anche per tutto questo, gli oggetti di riciclo se risuonano non possono farlo se non con il distorsore inserito a forte volume nell’amplificatore, ovvero apportando dissonanza. Ma in quanto è in gioco una critica del reale intriseca alla dimensione estetica, l’essenziale è che ad agire qui sia il movimento della forma riciclata-trasformata con la sua esplosiva logica interna, la sua potenzialità immanente che nel riciclo si libera come molteplicità, ai limiti dell’inutile e della stridente-dissonante macchina celibe, capace di riscattare, con questo suo improvviso assolo, la sua sottomissione anteriore al regime funzionalistico dell’usa e getta. Caratteri contro il destino.3 Nel riciclo il mutamento non si perde tuttavia nella "mania dell’inaudito", la contraddizione fra il passato e il futuro, fra l’oggetto ereditato e il soggetto-progetto, non significano certo qui due modi d’essere rigidi ed estranei, ma significano ascolto e ricezione-distorsione, rintracciamento e liberazione della "vita pulsionale" del dato ereditato, liberazione delle sue potenzialità non sedate sotto il giogo dell’ordine pragmatico. Caratteri oltre il destino. L’artista del riciclo può così certo rispecchiarsi in qualche misura, fatte le debite proporzioni, nella figura del compositore dialettico. Anche qui infatti – come avviene nel caso di Schönberg secondo Adorno4 – la contraddizione fra rigore, fedeltà e libertà non deve più essere rimossa nel miracolo della forma; può diventare piuttosto energia che resta tale, superamento del telos dell’armonia e della forma-sostanza come fine del ciclo. Atonalità. Da qui l’affinità fra il riciclo e il senso del frammento, l’ironia del "frammento come tutto" e ancora il legame fra il riciclo e la piccola, dissonante visione di un altro mondo e di un altro tempo possibili: il legame, già chiaro a Ruskin prima ancora che a Ernst Bloch, fra il riciclo e ciò che resta del principio speranza.

Note Opere Complete, Vol. I, Einaudi, Torino 2008, pag. 452 e seguenti. 4. Cfr. T.W. Adorno, Il compositore dialettico, in Impromptus, Feltrinelli, Milano 1973, pag. 37 e seguenti.

1. G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag. 35. 2. Cfr. A. Sohn-Rethel, Das Ideal des Kaputten, Verlag Ulrich Seutter, Bremen 2009. 3. Cfr. W. Benjamin, Destino e carattere, in

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NEL PAESE DELLE ULTIME ROSE PER UN RI-CICLO RI-CREATIVO Renato Bocchi >IUAV

Finché quella donna del Rijksmuseum nel silenzio dipinto e in raccoglimento giorno dopo giorno versa il latte dalla brocca nella scodella, il Mondo non merita la fine del mondo. Se la poetessa Wisława Szymborska avesse potuto rispondere alla call Memorabilia lanciata in occasione di questo seminario, mi piace pensare che ci avrebbe mandato questa sua poesia del 2009, intitolata Vermeer, candidando alla salvezza quel quadro e assieme ad esso il mondo intero.1 Questo sta a significare icasticamente come ella attribuisse un potere salvifico in primo luogo all’arte e al patrimonio culturale. Inutile dire che condivido convintamente questa sua posizione. Ma, proseguendo in questa "intervista impossibile", aggiungo anche che la Szymborska – dotata di una capacità di disincanto mirabile oltre che di una invidiabile ironia (forse al proposito potremmo chiamare in campo il concetto di "sprezzatura" ricordando Baldassarre Castiglione e le conseguenti

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opere d’arte e d’architettura del Rinascimento italiano, per esempio di un Giulio Romano) – avrebbe potuto suggerire anche quest’altra sua folgorante intuizione poetica del 1983, al titolo Autotomia,2 in cui si esercita da esperta naturalista nell’interpretare gli istinti di sopravvivenza delle oloturie. In caso di pericolo, l'oloturia si divide in due: dà un sé in pasto al mondo, e con l'altro fugge. Si scinde in un colpo in rovina e salvezza, in ammenda e premio, in ciò che è stato e ciò che sarà. Nel mezzo del suo corpo si apre un abisso con due sponde subito estranee. Su una la morte, sull'altra la vita. Qui la disperazione, là la fiducia. Se esiste una bilancia, ha piatti immobili. Se c'è giustizia, eccola. Morire quanto necessario, senza eccedere. Rinascere quanto occorre da ciò che si è salvato. […] Ho omesso l’ultima parte del componimento per favorire in certo modo un suo uso strumentale ai fini del nostro favorito concetto di "ri-ciclo", o nuovo ciclo di vita che dir si voglia. La metafora dell’oloturia ci consegna infatti una potenzialità inaspettata di ri-generazione, che suggerisce la capacità di conservare e re-inventare in un sol colpo le nostre "cianfrusaglie" – come sempre la Szymborska3 le avrebbe probabilmente appellate – ma anche di saperci disfare allo stesso tempo di inservibili fardelli. Vale a dire il ri-ciclo come invenzione di un nuovo ciclo di vita a partire dall’esistente e però insieme come scelta – radicale per quanto dolorosa – di abbandonare al suo destino la zavorra che potrebbe minacciare quella stessa nuova vita. In altre parole conservazione e valorizzazione del patrimonio ereditato ma anche abbandono e distruzione di quanto potrebbe soffocare quel patrimonio stesso. Ho usato le "illuminazioni" della Szymborska, e il suo incantevole saper guardare le cose (o le "cianfrusaglie", appunto) con amorevole cura e insieme con ironico disincanto, per introdurre le radici ideali (teoriche, se volete) che attribuisco al ri-ciclo e i modi con cui esso si può rapportare

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con la volontà di tramandare ai posteri quelle "cose" che è implicita nell’aver noi richiesto di argomentare sui valori dell’eredità culturale e fisica del nostro mondo: memorabilia per un paese delle ultime cose (avrete notato che nel titolo mi sono permesso la licenza, con uno slancio di ottimismo della volontà, di virarlo in ultime rose). Tutto questo ragionamento sfocia anche e soprattutto nella mia personale proposta – a proposito di ultime cose o rose - di valutare seriamente, come penso la stessa Szymborska avrebbe fatto, l’ipotesi di proporre la salvezza futura proprio per quel paradossale esercizio di fantasia creatrice che è ritrovabile in tutti quei procedimenti o meccanismi artistico-letterari o filosofici che cercano di trovare un senso nelle cose, con una ardita capriola, attraverso il sottile straniante eretico potere del capovolgimento di senso, dell’inversione, dell’associazione apparentemente casuale, perfino del non-senso: vale a dire il calembour, il non-sense, il limerick, l’objet trouvée, le macchine celibi, il merz-bau, il bricolage, il design surreale, e via dicendo, insomma tutti i procedimenti della manipolazione creativa. Un patrimonio di tecniche, questo, in grado di rivelare potenzialità inaspettate e quindi di re-inventare daccapo, sapendo anche che re-inventare può voler dire spesso semplicemente ri-trovare (re-invenire), quindi riguardare con un nuovo sguardo, per ri-attivare o anche per ri-articolare, onde dar luogo a nuovi cicli di vita. «So much depends upon a red wheel barrow glazed with rain water beside the white chickens» – scriveva un altro poeta a me caro, William Carlos Williams (The Red Wheelbarrow, 1923), proponendo semplicemente di ridipingere con lo sguardo le cose comuni, le "cianfrusaglie", così come sono. Che è un altro modo, meno spiazzante, più minimalista, di guardare con altri occhi le cose sussistenti e donar loro una nuova vita attraverso un semplice processo di decantazione e depurazione di ciò che è dato (forse nel campo del ri-ciclo architettonico i Lacaton e Vassal del Palais de Tokyo, per esempio, si troverebbero d’accordo su un simile procedimento). Chiosando l’ultima recente lezione veneziana di Nicola Emery e la sua proposta di rispolverare l’aureo libretto sulla Filosofia del Rotto di Alfred Sohn-Rethel,4 col suo inno alla creatività dei napoletani, notavo quanto sia interessante e significativo ragionare a questo proposito sul binomio creativo-ricreativo. Come cioè la creazione (o l’invenzione) – nella fattispecie l’arte creativa di aggiustare le cose dei napoletani – sia fantasticamente vicina alla ri-crea-

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zione, ossia alla dimensione ludico-ironica, ma profondamente educativa, del gioco e del divertissement. Sohn-Rethel elogiava infatti nel Napoletano «la sua abilità di bricolage e la prontezza di spirito con cui, dinanzi a un pericolo, riesce con irrisoria semplicità a ricavare da un difetto un salvifico vantaggio […] In lui – concludeva – c’è la suprema ricchezza inventiva del bambino». Oggi potremmo dire, nulla di meno tecnico-ingegneristico, bensì di prettamente creativo e in definitiva artistico, dell’italica "arte di arrangiarsi" – e il ri-ciclo di cui ragioniamo ha molto a che vedere con quella originale prassi "artistica". Ai tempi della mia giovinezza si proclamava "l’immaginazione al potere": forse, con maggiore disincanto e ironia, e con un pizzico di "moda" in più, il messaggio per un futuro da start up può essere oggi ancora qualcosa di simile a quello: investire sulla creatività e la ri-creatività. La nostra ricerca, infatti, invita a pensare che probabilmente l’unica vera forza vitale rimasta all’Europa e ancor più all’Italia è quella "energia creativa" che può attivare differenti start up cui sempre più affidiamo le speranze di futuro delle giovani generazioni. Start up ed energia creativa che in fondo sono concetti assai vicini ad un’idea di ri-ciclo non in quanto mera operazione tecnica di reimpiego o riuso di materiali scartati o abbandonati ma piuttosto come re-invenzione di significati vitali, riapertura di cicli di vita del tutto inediti e nuovi a partire dalle architetture o dalle infrastrutture o perfino dagli elementi naturali o geografici che costituiscono le città e i territori contemporanei. Una ricerca che ambisce comunque a continuare a fondarsi, pur in nome dell’innovazione e della creatività, sulla conoscenza e la re-interpretazione in chiave storico-geografica degli "strati profondi" del territorio italiano: e quindi considera con attenzione il patrimonio ereditato dal passato, ma fuori da ogni dimensione nostalgica («la memoria alla quale attinge la storia che a sua volta la alimenta, mira a salvare il passato soltanto per servire al presente e al futuro. Si deve fare in modo che la memoria serva alla liberazione e non all’asservimento degli uomini» – ammoniva Jacques Le Goff),5 considerando dunque quel patrimonio – anche l’archeologia profonda del territorio – un materiale per costruire il futuro secondo nuovi paradigmi. In questo senso il ri-ciclo si coniuga strettamente con l’eredità del passato, ma ricercando in quell’eredità o "tradizione" germi di futuro, a favore di nuovi processi evolutivi. Entro questa prospettiva anche le "cianfrusaglie" più o meno inservibili, più o meno affettuosamente con-

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servate – siano esse infrastrutture o edifici dismessi o abbandonati o obsoleti – diventano patrimonio prezioso per il progetto, perché la novità del ri-ciclo, nei confronti di altri concetti più o meno tradizionali come quelli di recupero, riuso, riqualificazione, o anche ricucitura e rammendo, sta proprio in questa capacità creativa e re-inventiva (la stessa che viene da tempo proposta nei campi dell’arte o del design) che riporta a una dimensione profondamente umanistica e non piattamente tecnica l’operatività del ri-ciclo architettonico e urbano-territoriale o dello stesso paesaggio. Ben oltre la "modificazione", a favore di una più sostanziale e ambiziosa re-invenzione o ri-creazione.

Note 1. W. Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), trad. it. L. Rescio, Adelphi, Milano 2009. 2. Ibidem. 3. A. Bikont, J. Szczesna, Cianfrusaglie del passato. La vita di Wisława Szymborska, Adelphi, Milano 2015. 4. A. Sohn-Rethel, Napoli: la filosofia del rotto, a cura di S. Custoza, Alessandra Carola editrice, Napoli-Milano 1991. 5. J. Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1977.

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MEMORABILIA



RE-CYCLE AS A THEORY Pippo Ciorra >UNICAM

Theory vs Curating L’inizio del XXI secolo ha visto un protagonismo inedito di musei e istituzioni nel campo dell’architettura. Mostre, installazioni, grandi raduni - insieme al proliferare inarrestabile e ubiquo di biennali e triennali – sembrano esercitare più attrazione rispetto agli edifici stessi. La biennale veneziana dei Fundamentals,1 che di certo ha provocato molta più discussione degli ultimi progetti del suo autore, sembra essere un buon argomento a favore di questo punto di vista. Così come il fatto che nel frattempo Frank, Daniel, Zaha, Bjarke e soci pretendano sempre più spesso di essere trattati come le star dell’arte, con sale dedicate nei musei, installazioni site specific da centinaia di migliaia di dollari, disegni e modelli venduti a peso d’oro e affidati alle cure di galleristi stellari.2 Insomma sembra che l’architettura voglia essere più curata che costruita, come se ci si rendesse allo stesso tempo conto del suo enorme potenziale di comunicazione e della sua crescente debolezza come strumento virtuoso di controllo dello spazio del mondo. Oppure si cerca una via di mezzo, come nella biennale che apre i battenti nell’anno in corso a Chicago,3 miscelando architettura ed esposizione in una sequenza di "chioschi" firmati. Tutto ciò da un lato ribadi-

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sce quanto l’architettura si sia in questi decenni avvicinata alle procedure dell’arte, e quindi alle ormai irritanti pratiche curatoriali,4 ma dall’altro ci induce anche a considerare con un po’ di ansia quanto potere e quanta responsabilità accumulino musei ed istituzioni espositive in genere nei confronti della produzione e della comunicazione "al mondo" del pensiero teorico in architettura. Per noi, Re-cycle5 ha significato esattamente una risposta a quest’ansia. L’idea era trasformare un progetto di mostra in un laboratorio di teoria e non solo in un’occasione di cura, intesa come libera selezione e messa in rassegna di un catalogo di opere da valorizzare. Per di più la scelta del tema riciclo – apparentemente così consonante rispetto ai temi d’attualità nella società intera – ci permetteva anche di spingere questa ambizione teorica verso un terreno che deve essere proprio della ricerca in ambito museale, e cioè quello della mostra come laboratorio di innovazione sociale. Why Re-cycle Appurato che Re-cycle altro non è che un’occasione di produzione teorica vale allora la pena di capire perché abbiamo deciso di concentrare le forze su un tema apparentemente populista, consumato da millenni come pratica edilizia, declinato in decine di altri e più specifici "re/ri" (-stauro, -cupero, -uso, -strutturazione, -generazione ecc.), già spremuto fino all’osso dal design, dall’ecologia, dall’educazione civica. La ragione è semplice: a metà strada tra arte e attivismo l’idea di un architettura fondata sul riciclo a noi è apparsa come la risposta più ampia e appropriata alla penuria di produzione teorica e di innovazione progettuale che caratterizzava l’architettura già dagli ultimi anni del secolo scorso, in coincidenza con le prime avvisaglie della crisi della hyperarchitecture. Re-cycle infatti permette(va) di sfuggire a una dicotomia assurda e paralizzante, tipica dei decenni conclusivi del XX secolo: quella tra ricerche concentrate sulla pura potenza figurativa e concettuale dell’architettura e quelle basate invece sulla sua capacità di produrre valore nel campo della vita pubblica, dell’ecologia, del buon funzionamento della democrazia. Da un lato raccoglie la sfida dell’arte concettuale e pop, che per tutto il novecento (da Duchamp a Warhol ad Acconci) ci ha insegnato a trasformare l’opera esistente nella materia prima mnestica e costruttiva dell’opera successiva. Dall’altro consente di trasformare istanze puramente tecnico-politiche – il risparmio di suolo, di energia, di risorse materiali – in un linguaggio esaltante e

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allo stesso tempo privo di regole espressive predeterminate e condivise, terribilmente aperto, coerente con le condizioni di pratica e di pensiero del XXI secolo. Why Now Re-cycle, in sostanza, è apparsa come un’urgenza della cultura architettonica. In Italia non ci si riusciva a scuotere di dosso il rimpianto di egemonie perdute6 e di utopie rimpiante. Nel mondo ancora non si capiva cosa sarebbe potuto venire dopo il trionfo del lusso geometrico-architettonico della generazione delle star (che ovviamente durerà ancora a lungo, in luoghi dove se lo possono permettere). Il concetto del riciclo, così com’è affrontato in questi nostri studi, ha indicato la via d’uscita ideale all’impasse teorico-politica, offrendo agli architetti uno strumento utilizzabile sia per appartenere alla dialettica tecno-sociale7 senza doversi dedicare all’archeologia delle ideologie, sia per spostare in avanti la frontiera della ricerca espressiva senza ignorare la questione della memoria. Re-cycle concide inoltre con un momento specifico della vicenda della città contemporanea, che ha oggi bisogno di strumenti architettonici più sofisticati e radicali di quelli elaborati in vista di un’inarrestabile espansione dell’edificato, o di un moderato ciclo di gentrification. Insomma, per collocare questa discussione in un contesto più ampio, si può dire che Re-cycle – insieme al suo (quasi) parallelo anglosassone della Preservation – è un dispositivo di modernità. Permette ancora una volta di legare alternative politiche e tecniche a una ricerca espressiva progressiva; consente di prendersi carico del passato senza dover necessariamente tornare su impronte architettoniche già calpestate. Elements Se vogliamo dare a questo approccio un valore didattico e di proposta operativa allora è necessario entrare all’interno del magma teoretico del Recycle e provare a sciogliere alcuni dei temi individuati e a identificarne i caratteri distintivi. Il primo carattere dominante di Re-cycle, fortemente legato allo zeitgeist, è l’impossibilità di attribuirgli una scala. L’evoluzione dell’idea di "misura"8 in un mondo in cui entità analogiche e digitali si intrecciano e si sovrappongono con frenetica intensità rende impossibile applicare ai mondi disciplinari specifici le pertinenze di scala direttamente ereditate

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dal Novecento. Soprattutto, ma è solo un caso specifico, se ci riferiamo alle discipline che ruotano intorno alla progettazione e alla pianificazione degli oggetti e dello spazio. Architettura, urbanistica, landscape architecture, design, grafic design, performance, arte pubblica sono definizioni che ormai indentificano settori i cui confini sono sempre più incerti, blurring. Con l’efficienza dei nomi e delle delimitazioni è andata in crisi l’efficacia degli strumenti che in ognuna di queste discipline dovrebbero supportare il tentativo di modificare la realtà attraverso progetti. Pianificare oggi un intervento valido in uno spazio urbano problematico implica la capacità di "ignorare" i limiti ufficiali che separano l’ambito dell’urbanistica da quello del progetto architettonico o del design, o dall’arte. O meglio implica la capacità di individuare strumenti concettuali, come quello del riciclo, che attraversano diagonalmente la misura dello spazio. Il riciclo va dall’oggetto minimo alla città ai territori, non ha limitazioni scalari e nemmeno limiti disciplinari, visto che si trova indifferentemente nel lessico della famiglia e in quello delle nostre ricerche scholarly. Ricicliamo – "attiviamo nuovi cicli" – è quindi uno slogan che implica un ripensamento degli statuti e del modo di forgiare strumenti operativi delle nostre discipline. Altrimenti è chiacchiera buonsensaia. Re-cycle, quindi, non mette in crisi solo la suddivisione in scale congruenti delle discipline del progetto. Agisce in modo più ampio e annulla i confini tra quelle discipline e ciò che sta loro intorno: l’arte visiva, la musica, il video, la letteratura, l’ecologia, le scienze ambientali, la biologia, perfino il bricolage di sopravvivenza [artistica].9 Consente in sostanza di ricostruire quello che gli architetti italiani adorano rimpiangere: una koinè precisa e ben contestualizzata nel nostro tempo. Ciò è infatti particolarmente rilevante nella cultura italiana, che dagli anni Sessanta in poi, per ragioni che sarebbe troppo lungo analizzare, ha perso ogni codice utile a rendere fruttuoso il dialogo tra l’architettura e le altre arti. Oggi la distanza che separa un’installazione parassita di Michael Rakowitz da un progetto "partecipato" dei Raumlaborberlin o dal progetto di riuso della rovina ferroviaria di Aldo Rossi a Milano proposto da Albori è minima. Molto minore di quella che correva tra l’assertività da "intellettuali organici" dei progetti della "Tendenza" e i lavori degli italiani dell’Arte Povera o dei concettuali loro coetanei. O tra Portoghesi e la Transavanguardia. Il tentativo che abbiamo fatto di mettere in evidenza la misura minima che hanno raggiunto queste distanze serve da un lato ad alimentare lo scambio tra il pensiero architet-

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tonico e il suo contesto e dall’altro a respingere il timore da noi ricorrente che l’identità dell’architettura si perda nella sua crescente contiguità con l’arte. Il riciclo dà un senso a questa contiguità, la bilancia con un contenuto forte sia dal punto di vista politico che da quello tecnico, la trasforma in una proposta operativa nella quale l’architettura può far crescere i suoi strumenti specifici. Un altro connotato cruciale e terribilmente contemporaneo della nostra idea del Riciclo è la sua capacità di muovere da una coscienza ipercollettiva per poi espandersi potenzialmente in infiniti indirizzi individuali. Re-cycle, come abbiamo detto più sopra, e come abbiamo cercato di dimostrare in diverse occasioni, è una specie di piattaforma infinitamente condivisa (o condivisibile). Da questa piattaforma ci si muove con un atteggiamento comune ma senza alcuna prescrizione linguistica da osservare. Ognuno ricicla a modo suo e ognuno elabora un linguaggio capace di dar forma alla sua idea di rapporto tra esistente e nuovo, tra memoria e futuro, tra "rovina" e ricostruzione. In fondo è la lingua perfetta che cercavamo per perpetuare l’utopia modernista e che abbiamo stressato alla fine del Novecento verso gli estremi dell’uncanny10 o dell’iperfamiliare a tutti i costi.11 Re-cycle consente una terza modernità customized e allo stesso tempo politicamente corretta, davvero una specie di utopia capace di negoziare con l’individualismo socio-tecnico-espressivo del XXI secolo. Ciononostante non si tratta di un’utopia facile e accogliente. Non si può "copiare": funziona solo se ognuno ne elabora la sua versione e la propone al mondo. Non è un caso che come reazione alla crisi perdurante abbiano oggi vita più facile proposte architettoniche più semplici e immediate da usare come "fonte", le visioni radicali anni Sessanta, l’utopia ideologizzata dei "neorazionalisti", le indulgenze post-postmoderniste che citavamo poco sopra. Ci fanno sentire più vicini e protetti, favoriscono il riconoscimento di amici e nemici, ma ci allontanano dalla realtà dei fatti e delle relazioni. E allontanano l’architettura dal dialogo con tutti quei soggetti che alla fine all’architettura danno nutrimento. Viva quindi la via individuale al riciclo, unica strada per il riscatto collettivo. Non c’è quasi bisogno, infine, di ricordare le virtù politiche del riciclo. Si basa su una consapevolezza profonda delle condizioni del presente, si confronta con le ambizioni della società e offre loro una risposta radicale, innesca un meccanismo eversivo sul piano della creazione del valore e del plus-valore a partire dalla merce e dallo spazio. La sua ovvia estendibilità

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alla sfera del privato e del corpo individuale ne rivela il carattere biopolitico, mentre la sua natura globale e creativa fa sì che la sua politica si rifletta facilmente in un’estetica collettiva. Che in fondo è quello che serve per tenere in vita la nostra disciplina, qualora qualcuno fosse preoccupato della sua sparizione. La massima virtù politica del riciclo è quindi quella di "rendere sostenibile" la sostenibilità, trasferirla da un ambito puramente etico-tecnico a uno nel quale è contemplato il ruolo dell’estetica, e cioè del progetto, così come vogliamo intenderlo noi. Senza un ragionamento di questo genere, che ovviamente può avere esiti diversi, non è difficile pensare a un mondo che possa fare a meno dell’architettura. O meglio che consegni l’architettura unicamente alle esigenze comunicative del mercato. Naturalmente anche Re-cycle ha un forte contenuto di comunicazione, ma è una comunicazione spessa e stratificata, nella quale è più semplice infiltrare antidoti e significati complessi. Per chiudere va ricordato che Re-cycle affronta (e si candida per risolvere) un problema che caratterizza da sempre l’architettura europea, quello della memoria. Nel suo librino sulla Preservation Koolhaas spiega come l’arcano della convivenza tra passato e progresso si risolva con un ritorno esasperato ("extreme engagement") del programma,12 vale a dire dell’allocazione delle funzioni nel nuovo palinsesto architettonico dell’edificio. Sembra una buona proposta, valida anche al di fuori dell’universo architettonico (si pensi appunto all’uso dell’aria di scarto di Rakowitz, o all’impiego specifico di materiali da demolizione nel progetto di Casa Sortino di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo) e particolarmente rilevante in Italia, dove ancora ci tormentiamo per risolvere il problema del rapporto tra tradizione e innovazione. Re-cycle consente di costruire il futuro senza voler cancellare il passato. Il passato – la preesistenza – è il nostro materiale da costruzione ma non condiziona lo sviluppo formale e concettuale di ciò che faremo. A ben guardare, volendo aprire un confronto, si può dire che Re-cycle contempli uno spettro operativo più ampio di quello della Preservation koolhaasiana, che sembra ancora limitata dall’idea di tutela contenuta nel nome. Applicando il dispositivo Re-cycle ogni approccio è concesso, dall’assenza totale di modificazione allo stravolgimento totale dell’esistente fino al suo riuso come puro materiale da costruzione. Insomma una strategia aperta per tenere insieme la sopravvivenza dell’architettura, quella delle idee e quella del pianeta.

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Note 2000, Pescara. 9. Va ricordato che il percorso espositivo di Re-cycle era multidisciplinare e partiva da un oggetto non architettonico e protoartistico, vale a dire le lastre radiografiche usate sulle quali venivano incisi i brani di musica "proibita" nei paesi dell’Unione Sovietica. Cfr. E. Cadava, X. Vytulewa, Music on Bones, in Re-cycle, cit. 10. Il difficile concetto di "uncanny" (tradotto con perturbante in italiano) ha però un suo codice più che efficace in A. Vidler, The architectural Uncanny, MIT Press, Cambridge MA 1992. 11. I variegati tentativi di "recupero" del postmoderno, inteso appunto come l’opposto dell’uncanny, hanno finora attecchito soprattutto nell’area londinese – basta osservare la virata recente nei lavori di Chipperfield e Caruso St. John. Il testo più completo è quello di R. Martin, Utopia’s Ghost. Architecture and Postmodernism, Again, University of Minnesota, 2010. 12. R. Koolhaas, P.S. Byard, Memorial Lecture, in R. Koolhaas con J. Otero-Pailos, Preservation is overtaking us, GSAPP Books, NY 2014, pag. 27. Il libro contiene anche un OMA’s Preservation Manifesto, redatto a posteriori da J. Otero-Pailos. Va però detto che il miglior manifesto della Preservation koolhaasiana e della sua alleanza possibile con Re-cycle è senza dubbio il nuovo museo della Fondazione Prada, aperto nel giugno 2015 a Milano.

1. XIV Biennale di Architettura, Fundamentals, a cura di Rem Koolhaas, Venezia, 7 giugno – 23 novembre 2014; catalogo Marsilio, Venezia. 2. Cresce velocemente il numero degli architetti che preferiscono affidare interamente la gestione del loro archivio ai galleristi piuttosto che a istituzioni, con tutto quello che ciò comporta. È noto il rapporto di Frank Gehry con Gagosian, così come quello di Arata Isozaki con la galleria di Misa Shin; altri vanno allineandosi. 3. 1st Chicago Architecture Biennial, The State of the Art of Architecture, October 3, 2015 – January 3, 2016. 4. Cfr. D. Bazler, Curationism. How Curating Took Over the Art World and Everything Else, Pluto Press, London 2015 5. Re-cycle. Strategie per l’architettura la città il pianeta, museo MAXXI, Roma, 1 dicembre 2011 – 29 aprile 2012; catalogo Electa (doppia edizione it. e ingl.). 6. È stato finalmente ripubblicato il saggio di J.L. Cohen, La coupure entre architectes et intellectuels, ou les enseignements de l’italophilie, Mardaga, Bruxelles 2015. 7. Il legame tra ricerca tecnica e significato politico nella fase finale del moderno è stato indagato a fondo in F. Scott, Architecture or Techno-utopia: Politics after Modernism, MIT Press, Cambridge MA 2007. 8. Cfr. P. Ciorra, Scaleless, Spaceless, Timeless, in «PPC (Piano Progetto Città)» n. 17,

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RICICLARE O CONSERVARE? Giovanni Corbellini >UNICAM [UNITS]

Prima che mi chiedessero di far parte, con Francesco Garofalo e Mario Lupano, della giuria di selezione dei materiali da presentare al seminario Memorabilia, da bravo componente della sezione "teorie" del PRIN Re-cycle Italy mi ero ripromesso di inviare una proposta. Il breve testo di presentazione della call mi aveva però messo in serie difficoltà: prima chiedeva una "raccolta differenziata" e subito dopo parlava di archivio e memoria, di "oggetti da portare nel futuro".1 Nella stessa frase si presentavano quindi opzioni tendenzialmente contrapposte, collegate da due possibili azioni, "riciclare e conservare", anch’esse concettualmente alternative. Si riciclano cose inservibili, scartate e abbondanti; si conservano oggetti cari, rari, preziosi. La conservazione presuppone una sospensione o, comunque, una operazione di resistenza all’azione del tempo; il riciclo si inserisce nel flusso della trasformazione, ne costituisce la modalità intrinseca. La prima aspira a una durata "minerale"; l’ultimo si nutre di obsolescenze e rinascite "biologiche". L’una mira a preservare configurazioni e qualità complesse indipendentemente dal valore d’uso; l’altro processa industrialmente materiali scartati verso stati più basici per offrirli a nuove possibilità d’impiego. La conservazione è fondata sulla

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memoria, guarda indietro a valori consolidati e alla volontà di traghettarli verso il futuro; il riciclo accelera l’amnesia, rovista nelle discariche alla ricerca di qualcosa che ci possa servire qui e ora. Da una parte troviamo la certezza delle risposte, dall’altra l’urgenza delle domande; oggetti statici e processi dinamici; autonomia vs. eteronomia; paradigma vs. programma; principio di autorità vs. prestazione; forma vs. materia; specifico vs. generico; collezionismo vs. accumulo... Momentaneamente sollevato dall’incombenza di cercare una soluzione plausibile a questa specie di gioco della torre (tra i miei scarsi appunti ritrovo solo interrogativi: il coltello di Rambo? qualche strumento concettuale saccheggiato da Umberto Eco? gli scarti della sostenibilita? un libro che non ho ancora letto...), sono poi precipitato nuovamente nelle medesime difficoltà quando, al fine di selezionare le molte proposte inviate al comitato organizzatore, ho provato a individuare qualche possibile parametro di valutazione. Siccome l’ambito è pur sempre quello di una ricerca che ha il riciclo nel titolo, la mia attenzione si è dapprima concentrata sugli approcci strumentali: se devo processare qualcosa, ho pensato, porterei con me nel futuro una cassetta ben fornita di "attrezzi" che potrebbero essere decisivi nel trattare (smontare, separare, catalogare, frammentare, filtrare...) i materiali fisici e concettuali già disponibili o che si rendessero tali in futuro. Lo spostamento dalla "cosa" al dispositivo poteva anche dare il via a soluzioni brillanti che, tuttavia, avrebbero avuto bisogno di una sorta d’ingenuità divinatoria, di una visione delle necessità che affronteremo. Qualcosa che il disincanto postmoderno ci ha reso quasi irraggiungibile. In mancanza di uno scenario in qualche modo definito, per quanto versatile lo strumento o capiente la cassetta di cui ci si vorrebbe dotare, l’ipotesi strumentale tende a guardare il dito invece della luna, perde così senso e fa fatica a evitare la sensazione di genericità e nostalgia che emerge da molte delle proposte di questo tipo (non mancano, tra i paper inviati, penne, matite, foto analogiche... anche cavatappi e schiaccianoci). Si sono quindi rivelate per me più appropriate, interessanti e, per coincidenza, meglio scritte le riflessioni rivolte a questioni e materiali già finiti nella spazzatura della storia o in procinto di esservi buttati. Si tratta di cose obsolete, presenti in copiosa quantità e di dubbio gusto. Anche senza sapere se e a cosa ci serviranno, anche se non abbiamo nessuna intenzione di portarcele con noi nel futuro possiamo essere abbastanza sicuri che ingombreranno il nostro orizzonte e sarà probabilmente lì che, nostro

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malgrado, troveremo spunti e occasioni di rinnovamento. Alcuni di questi elementi promettono di essere, poi, talmente esecrabili, inquietanti o pericolosi da richiedere un’accurata segregazione. Un oblio volontario che, se mai riuscisse a funzionare, potrebbe interrompere i legami di continuità culturale tra gli oggetti nascosti e la loro interpretazione, proiettandoli in una condizione di possibili "reperti" archeologici che, una volta riscoperti, si offrirebbero più liberamente alla manipolazione di esigenze, paure e desideri futuri. Tuttavia, questa lucida assunzione dello scarto come motore dell’invenzione s’indebolisce di fronte alla dimensione pervasiva dello junkspace, della quale peraltro si alimenta. La discarica della storia viene infatti continuamente riempita dall’enorme quantità di oggetti e pensieri istantanei prodotti quotidianamente e altrettanto rapidamente svuotata dal ritmo parossistico del recupero culturale che, ormai, ripropone cose, mode e teorie senza aspettare che siano state dimenticate. Tanto che l’attribuzione del valore e/o la condizione di rifiuto sono oggi totalmente reversibili e sottoposte a una sorta di effetto farfalla culturale, innescato da minime fluttuazioni dello spazio-tempo. Anche le proposte che timidamente provano a spingere i propri memorabilia sui terreni sempre intriganti del "cinismo" e della "perversione" finiscono così per estrarre dal fango oggetti di affezione, depurati, in definitiva, dell’odore di zolfo che ne accelerava il potenziale. La formulazione della call, nell’oscillare tra raccolta differenziata e archivio, riconosce quindi le contraddizioni di una situazione complicata e agisce da strumento rivelatore della stessa. Come le immagini ambigue utilizzate nella psicologia della percezione (coniglio o papero? vaso o volti?) si offrono a interpretazioni alternative a seconda della predisposizione dell’osservatore, così la commistione antinomica di riciclo e conservazione è stata compresa dai partecipanti secondo le rispettive inclinazioni culturali. Queste ultime hanno consentito a pochi di vedervi l’occasione per riflettere sui materiali più brutti, sporchi e cattivi. La grande maggioranza dei quasi centoventi paper inviati mostra un’attitudine difensiva: la tutela di edifici, libri, strumenti, posizioni teoriche è sembrata ai più una proposta virtuosa, politicamente corretta e "sostenibile". Sembra quindi che gli architetti siano progettati per agire come custodi del valore, per resistere al cambiamento piuttosto che diventarne motore. Tuttavia, la grande quantità di materiali esausti (oggetti, concetti, metodi, idee...) che accumuliamo senza sosta propongono il riciclo come una prospettiva inevitabile. Per poterla cogliere, dovremo riciclarci...

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Note 1. «La call chiede di selezionare ed indicare, in una sorta di raccolta differenziata, un’opera, un oggetto, un evento significativo da riciclare e conservare in un archivio di memorabilia, ovvero di oggetti da portare nel futuro. Due sono le questioni che vanno affrontate: la prima è la scelta dell’oggetto, del progetto, del libro, ecc.; la seconda è la spiegazione del perché proprio quella ‘cosa’ deve entrare a far parte di un archivio per costruire il prossimo futuro. La scelta dell’‘oggetto’ deve essere esplicitata riportandone l’immagine commentata da una didascalia. Il perché della scelta e i risvolti attesi dal salvataggio dall’oblio dell’‘oggetto’ vanno raccontati attraverso un testo». Memorabilia. Nel paese delle ultime cose, "Teorie del Re-cycle", Call for positions, 01.02.2015.

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LA RICERCA È CIRCOLARE Francesco Garofalo >UNICH

In una riflessione a posteriori il seminario Memorabilia solleva questioni interessanti. Chi è stato coinvolto dalla sua preparazione, ha fatto parte di una commissione che ha letto tutte le proposte e si è assunta la responsabilità di sceglierne alcune, vorrebbe raccontare di più su come si converge con Giovanni Corbellini e Mario Lupano, ma non è questo il compito di oggi. Sarebbe giusto aspettarsi qualche certezza, e invece queste righe mettono in fila dei dubbi, quando siamo a un punto avanzato della nostra attività di ricercatori del – e nel – PRIN. Per cominciare c’è un aspetto meccanico, e che sia tale non evita di rilevarlo e capirne le conseguenze. All’inizio ci sono decine e decine di proposte messe in un formato per essere confrontabili al meglio. La loro selezione, ma soprattutto il seminario diviso in due parti e il suo giro di conversazioni trasforma completamente il paesaggio. È un po’ come passare da un cimitero militare di piccole croci a uno romantico, per esempio quello che si estende dietro la Piramide Cestia a Roma. Dietro alcune di queste pagine ci sono monumenti, e altrove ruvide lastre di pietra con incisi i dati anagrafici e qualche circostanza di vita. Al membro della commissione vengono in mente due domande. La prima è: come ho fatto a non accorgermi della differenza? Questo non vuol dire

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rimettere in discussione la selezione, ma semplicemente che l’omogeneità del formato nascondeva un divario non del tutto visibile dagli strumenti intellettuali a nostra disposizione. A questa ne segue un’altra: tra le proposte necessariamente scartate ci saranno state una o due, o dieci cose che potevano formare una sintonia con quelle scelte? Nessuno si sorprende nello scoprire che le cose presentate per Memorabilia siano profondamente diverse; è soprattutto il caso di riferirsi alla massa di proposte piuttosto che ai pochissimi selezionati. Riaprendo le cartelle, e consapevole che si tratta di una strumentale semplificazione, neppure compiuta fino in fondo durante l’ennesimo weekend dedicato alla stesura di un testo, ho trovato cinque possibili classi. La prima è quella degli "oggetti". Alcuni sono proprio strumenti della vita quotidiana, non tutti destinati a una rapida obsolescenza come l’appendiabiti, la matita, l’apribottiglie, il pallet, la caffettiera. Altri invece sono collocati in una dimensione tecnico-storica più problematica, come la fotografia analogica, la tecnologia in terra cruda, o il monastero. Ho trovato una seconda categoria la cui distinzione con la prima apre un vasto ma abbastanza condiviso terreno gnoseologico, quella delle "opere"; la quale a sua volta ha un problema di confini con la successiva, quella degli "autori", e per esempio contiene il cenotafio di Boullèe, l’Autostrada del Sole, il Velodromo Maspes, Walden e perfino il Pattern Language di Christopher Alexander. Ovviamente qui cambia la prospettiva e si apre un problema su cui devo tornare: riscoperta o acquisizione per il futuro? Private passion o strumento di lavoro? Per passare dalle opere agli autori, la distinzione è un po’ aiutata dalle formule dei partecipanti al bando: Kavafis, Sacripanti, Liszt, Munch o Gio Ponti propongono tutti una riflessione specifica, ma lasciano intendere anche una proiezione dell’autore nel testo, una identificazione e una solidarietà autorevole. Curiosamente non pare che ci siano riflessioni su sconfitte e tramonti. Una distinzione meno precisa è quella che riguarda un quarto gruppo che si potrebbe chiamare, in un primo tempo, delle "situazioni". Il "manifesto" o il tema dello "smarrimento" erano già indicativi, ma poi in fondo anche i Flintstones, il teatro romano di Catania, un celebre edificio industriale in Romania, l’Holiday Inn di Beirut e le terrazze valtellinesi nella loro eterogenea lontananza sembravano avere qualche cosa in comune: una testimonianza del passato dal futuro meno che incerto.

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Tra situazioni e "teorie" c’è una differenza che non sarebbe giusto leggere come una gerarchia, come se questa schematizzazione fosse una scaletta che sale verso qualche vetta di importanza. Il mito e la misura, il collage non sono necessariamente più produttivi, salvo verifica; e la compiuta verifica è facile trovarla nei sette saggi che sono stati selezionati e hanno avuto a loro vantaggio la possibilità di uno sviluppo. Per questo, al momento della scrittura del testo, devo limitarmi alla lettura della proposta di Antonio di Campli che non è potuto essere fisicamente presente al seminario. Il taglio della sua proposta è coerente con le altre: le immagini di Arata Isozaki sono evocate per proiettare il senso della postmodernità giapponese su un futuro di città in evoluzione. La breve stagione delle infrastrutture decorate da protagonisti della scena urbana si sarebbe chiusa presto. Esse lasciano il posto a oggetti meno decorativi ma altrettanto efficienti (nel 2007, per un po’ di taccagneria, ho lasciato il catalogo Mazinga Architecture in una libreria di Tokyo). Seguendo gli appunti della giornata, Federico De Matteis si è chiesto se e in che modo porteremo nel futuro il corpo umano. Il confronto tra 2001 Odissea nello spazio ed Her, argomenta a favore della smaterializzazione, ma riflettendoci la personalizzazione del computer nel primo avviene in un contesto inusuale, sotto certi aspetti sovversivo della spazialità, mentre invece il contesto di Her è un rassicurante quadro home-less della metropoli mondiale, in cui tutti quelli che ci circondano possono essere normali e allo stesso tempo strampalati. La messa in questione da parte delle avanguardie novecentesche dell’inquadramento spaziale ha prodotto un più ristretto dibattito "prostetico" (sull’automa, l’ingerenza meccanica, all’epoca della Triennale di Pietro De Rossi): una delle tante sfere di discorso in cui i paper rilanciano e connettono i propri riferimenti. Da questo punto di vista, l’approdo di Her conferma, piuttosto che smentire, il fallimento di un’alterazione dell’inquadramento spaziale dell’uomo nell’architettura e nella città ingenuamente preteso da artisti e letterati, e dai loro petulanti critici: "Ooh come è indietro l’architettura!". Luca De Vitis risale a Goethe e alle sue passioni botaniche per costruire una genealogia che passando per Humboldt e Warburg ci porti a Ungers e Muratori: una genealogia morfologica e tipologica. È un discorso ambizioso ma alla fine deve collocarsi tra le datate, impolverate esperienze di Eisenman e Purini e la verifica sul campo dell’architettura.

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Il trio Andrea Gritti, Marco Voltin e Claudia Zanda incrocia una rivisitazione archeologica (come erano belle e semplici le autostrade di una volta), con una domanda aperta sul futuro che accenna a trasformazioni post-oil. Nell’ascoltare, chissà perché, tornano in mente un fumetto pubblicato da Linus di un mondo totalmente trasformato in autostrada – un archetipo dell’orribile The Car, e l’accuratezza medico legale di Crash di James Graham Ballard – anche questi potenziali raccordi con le suggestioni di altre presentazioni. Il film di Fischli e Weiss utilizzato da Francesca Pignatelli ci ha riportato alla domanda sfiorata ma lasciata aperta da alcuni: che cosa è specifico del riciclo? Le affinità tra il procedimento del video e le prime ricerche di Diller e Scofidio costituiscono una origine? Il bello dell’arte è che puoi passare un po’ di moda (non mi riferisco ovviamente a Fischli e Weiss), mentre il brutto dell’architettura è che quando sposti il paradigma (come è accaduto ai due americani, anche se in modo inconfessato), prima o poi se ne accorgono tutti che un edificio dura di più di una installazione. La rilettura di Caterina Padoa Schioppa di una casa di Ledoux ha costruito un’altra genealogia a noi molto familiare: la riscoperta fatta da un dottore di ricerca impiegato di banca, come era Emil Kaufmann, degli architetti illuministi come intransigenti anticipatori delle avanguardie e – pertanto – di neo avanguardie come i disegni del primo Koolhaas. E certo anche questo provoca una simmetria o una contrapposizione con le altre genealogie dei paper. Infine il lavoro sui souvenir di Anna Riciputo getta le basi per "la teoria di una nuova estetica dal souvenir alla architettura". E questo certamente è un segmento da andare a verificare per una definizione del riciclo, che riporta in luce i coniugi Venturi e Scott Brown incuriositi da Levittown e Las Vegas. Per chi si sente orribilmente vecchio, gli autori citati e anche i tanti non qui citati per ragioni di spazio, costituiscono una grande danza di fantasmi. Per quanto a Mendrisio abbia cercato di spiegare questo problema in modo non presuntuoso o arrogante, rimane il timore di apparire tale. Si arriva a una età in cui le facce proiettate dal powerpoint le hai conosciute quasi tutte, solo che ormai sono quasi tutti morti. E qui torna il punto: che ruolo svolge questo pensiero sulla architettura come disciplina riflessiva che si è coagulato dalla fine degli anni Cinquanta, diventando dominante dagli anni Sessanta in poi?

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A me rimane questo dubbio, un dubbio anche positivo: tutta la conversazione tende a comporre un mosaico, le concordanze e le differenze permangono, ma in effetti ci si capisce. Nell’architettura che si fa, invece, nonostante il nuovo pragmatismo emerso a metà degli anni Novanta, non ci si capisce – tanto meno nella ricerca PRIN. Oppure ci si capisce entro gruppi più ridotti di quello raccolto da questo seminario. Nonostante ciò, si tende a pensare che la parola sia ambigua e la forma sia chiara; e invece nel nostro PRIN è la parola ad essere chiara e la forma ad essere ambigua: godiamoci questo bicchiere mezzo pieno.

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NEL PAESE DELLE ULTIME COSE



IL CORPO UMANO Federico De Matteis >UNIROMA

Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’aver mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Aristotele (De part. animal. 687a) Nel 1542 Andrea Vesalio, medico fiammingo, pubblica il De humani corporis fabrica, testo fondativo dell’anatomia moderna, illustrato con 273 tavole di Johan van Calcar, allievo di Tiziano. Nelle illustrazioni i corpi scorticati sono rappresentati quali parti attive e in movimento di paesaggi, città, apparecchiature, quasi ad affermare l’impossibilità di astrarli dall’orizzonte che li contiene. Inversamente, possiamo considerare priva di senso una situazione di spazio reale alla quale venga sottratto l’oggetto primario del suo funzionamento, ovvero il soggetto umano incarnato nel "corpo vissuto". Con il proliferare di scenari filosofici e narrazioni artistiche – da sempre prodromiche ai mutamenti nello spazio architettonico e nella pratica della sua ideazione – incentrati sul concetto di incorporeità, propongo di portare nel futuro il corpo, quale mezzo insostituibile dell’esperienza, aggregatore di senso, minimo comune multiplo della condizione umana.

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La teoria dell’incorporeità è figlia di una tradizione antica: molti modelli filosofici basati sul principio di dualismo, infatti, alludono alla possibile esistenza della radice umana anche al di fuori del corpo, sovente considerato un ostacolo superfluo e dannoso, "tomba dell’anima", oggetto materiale che deve essere governato dal soggetto pensante che, quasi incidentalmente, si trova rinchiuso al suo interno. Questa separazione ha influito fortemente sulla struttura del pensiero occidentale, e soltanto nel corso del Novecento si è consolidata una concezione del corpo quale nesso inestricabile della presenza umana; in assenza del corpo la stessa mente non ha modo di esistere. Questa, come argomenta Bateson, non si arresta poi alle soglie del nostro corpo: «Supponiamo che io sia cieco e che usi un bastone e vada a tentoni. In quale punto comincio io? Il mio sistema mentale finisce all’impugnatura del bastone? O finisce con la mia epidermide? Comincia a metà del bastone? O alla punta del bastone? Tutte queste sono domande senza senso. Il bastone è un canale [e] il sistema va delimitato in maniera che la linea di demarcazione non tagli alcuno di questi canali in modi che rendano le cose inesplicabili».1 Le neuroscienze contemporanee hanno dimostrato, per via sperimentale, la fondatezza di questa interpretazione: possiamo dunque affermare con un discreto grado di certezza che la nostra mente fa parte di un sistema più ampio, che si arresta semmai all’orizzonte dell’esperienza.2 La collocazione topografica del corpo, il suo essere perennemente situato nello spazio, nonché il concetto di "mente estesa" che riunisce corpo e ambiente in un unico sistema, sono fondamenti imprescindibili per l’esperienza delle emozioni e lo sviluppo dell’affettività e della cognizione: come afferma Aristotele nell’epigrafe, è attraverso le mani, veicoli primari dell’esperienza tattile del mondo, che l’uomo acquisisce la propria intelligenza, superiore a quella di tutti gli altri animali. Voglio quindi pensare che le rappresentazioni di Vesalio esprimessero, intuitivamente, l’inestricabile continuità tra il corpo umano e l’ambiente di cui fa parte. A fronte dell’evidenza sempre più conclamata dell’embodiment, osserviamo quanto una parte consistente della produzione architettonica oggi tenda, al contrario, a porre la corporeità in secondo piano, vuoi per la deliberata adozione di forme di produzione che ne prescindono, vuoi per i limiti intrinseci di molte forme di rappresentazione.3 Nella narrazione artistica l’ipotesi della riduzione del corpo umano è già stata assunta come un dato di fatto, rappresentata emblematicamente, fra l’altro, dall’idea di

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Johan van Calcar, tavola p. 194 dal De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, 1542

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intelligenza artificiale. Può essere utile, in questo senso, confrontare due esempi di "A.I." assai distanti fra loro: il supercomputer HAL 9000 di 2001 Odissea nello spazio (Kubrick, 1968) e la Samantha di Lei (Her) (Jonze, 2013). La presenza "fisica" di HAL è palpabile: le telecamere sono i suoi occhi, la sala nella quale il comandante Bowman si introduce per disattivarlo è il suo "ventre": ciò è testimoniato sia dalla configurazione tubolare dei passaggi interni all’astronave, metafore di circolazione sanguigna e sistema digestivo, sia dal cambiamento cromatico che porta dalla luce bianca, esatta e clinica della sfera di comando al rosso sanguigno della sala del calcolatore. L’astronave stessa è poi dotata di "testa", "spina dorsale", "piedi"; lo spazio che HAL "abita" coincide con questa struttura antropomorfa. Possiamo dunque dedurre che il supercomputer di 2001 è – a suo modo – dotato di un corpo fisico. Samantha, al contrario, non ha corpo alcuno, non è localizzabile perché onnipresente, atopica. L’auricolare che consente a Theodore di interagirvi è un puro dispositivo tecnico, sostituibile e non strettamente legato a Samantha: i 45 anni che separano i due film confermano la teoria della smaterializzazione – non a caso HAL è hardware, Samantha è software. Provate a visualizzare nella vostra mente HAL: l’immagine compare all’istante. Lo stesso non avviene, invece, per Samantha: come dare corpo visibile a una voce? L’evoluzione di HAL in Samantha avalla il paradigma tecnologico di Albert Borgmann,4 secondo il quale la trasformazione dei dispositivi procede attraverso la progressiva riduzione dimensionale e visiva dei meccanismi, il superamento dei limiti spaziali e temporali della loro disponibilità, nonché l’annullamento di ogni coinvolgimento fisico o emotivo tra utilizzatore e dispositivo stesso, che può essere facilmente rimpiazzato a seguito del suo deterioramento. Disattivando il supercomputer, il comandante Bowman sta di fatto "uccidendo" HAL, che non è sostituibile, perché l’intelligenza coincide con il dispositivo/corpo stesso. Al termine di Her Samantha si "dissolve" in un orizzonte digitale, distribuito, mentre l’auricolare, il dispositivo attraverso il quale interagiva con il mondo, rimane immutato. Samantha non può morire, né essere uccisa, perché è postumana. Emblematico è anche il rapporto che i coprotagonisti stabiliscono con le due intelligenze artificiali: il comandante Bowman interagisce con HAL nella piena consapevolezza che, per quanto complesso, si tratta pur sempre di un dispositivo, molto più simile a una lavatrice difettosa che non

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a un essere umano, e la sua rabbia nel disattivare il supercomputer somiglia al tentativo di aggiustare un televisore con un calcio. Theodore, al contrario, da subito considera Samantha un essere "umano" a tutti gli effetti – salvo il "dettaglio" della mancanza di un corpo; questo, tuttavia, non gli impedisce di stabilire con la "ragazza" un coinvolgimento emotivo reale. L’interrogativo di fondo sembra essere: può effettivamente emergere un legame emotivo in assenza di corporeità? E per estensione, dato che i legami di affettività si stabiliscono anche con oggetti e luoghi: in che maniera può configurarsi l’esperienza emozionale dello spazio in assenza di un corpo fisico? Finora si tratta di argomentazioni dedotte da due opere di fantascienza; sappiamo che l’orizzonte che queste narrano non è necessariamente prossimo, né sempre attendibile. Il fatto che nel corso di quattro decenni l’idea di intelligenza artificiale sia profondamente mutata, annullando la pregnanza della fisicità che la sostiene, non significa che il corpo umano debba seguire la medesima strada. D’altro canto, l’evoluzione delle tecniche di trapianto dai soli organi interni ai primi esperimenti – finora nel complesso fallimentari – di sostituzione di arti, così come lo straordinario progresso delle protesi biomeccaniche, indicano un orizzonte sempre più vicino in cui il corpo "originale", quello specificamente gemellato con il sistema nervoso del singolo soggetto, possa essere rimpiazzato da altre parti, siano queste biologiche o meccaniche. Possiamo presumere, quindi, che nel prossimo futuro la tecnologia consentirà di realizzare la versione ersatz di un corpo umano, completa o quasi di tutte le sue parti, sino a raggiungere la frontiera, a oggi fantascientifica, della sostituzione del sistema nervoso stesso. Un corpo umano che può quindi essere rimpiazzato, sostituito a seguito del suo deterioramento, siano le nuove parti di natura organica, meccanica o ibrida, non diventa forse esso stesso un dispositivo? Se diviene dispositivo, non è destinato a evolversi, come teorizzato da Borgmann, secondo una linea di perdita di fisicità e visibilità? La sua parabola sarà quindi la stessa che ha condotto l’hardware HAL 9000 a diventare il software Samantha? Interrogarsi su quale sarà, nel futuro, il ruolo del corpo nell’esperienza dello spazio può apparire semplice esercizio speculativo, ma a ben vedere alcune modalità di interazione che già oggi possiamo osservare segnalano un progressivo spostamento del "centro", non quindi come orizzonte teo-

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rico bensì in riferimento a processi attuali, veicolati dalla pervasività degli strumenti comunicativi e propagandati, tra l’altro, dall’ideologia delle città intelligenti. L’intensificazione di alcuni canali percettivi rispetto ad altri – in particolare quello visivo – accentua la separazione del corpo inteso come medium rispetto all’ambiente cui appartiene.5 La natura sempre più atopica della comunicazione facilita e velocizza l’interazione tra soggetti anche distanti, distaccandoci però progressivamente dalla condizione di essere corpi situati, non semplice terminale di stimoli bensì parte attiva di una percezione precisamente incardinata nello spazio reale. Più la nostra attenzione viene distratta altrove, più il nostro corpo si distacca dal qui, lasciando il suo ruolo di nesso nell’orizzonte dell’esperienza. Se non siamo più hic et nunc, il corpo abbandona la sua aura, diventando così riproducibile, sostituibile; trascende le categorie di vero e di falso e perde la sua centralità: Verlust des Körpers. La prospettiva dell’incorporeità è affascinante e produrrà, in futuro, orizzonti di senso straordinari. Tuttavia, mi pare che la "scomparsa" del corpo umano non possa rappresentare una alternativa alla sua permanenza: non si tratta infatti di modelli confrontabili o interscambiabili, bensì di ipotesi fortemente polarizzate. Ci si può interrogare sul perché sia così importante mantenere l’ancoraggio del soggetto umano al suo corpo, e di questo allo spazio reale: come ben esemplificato dalle tavole che illustrano il De humani corporis fabrica di Vesalio, il corpo non è un’essenza aliena o separata rispetto allo spazio che lo ospita: ne è anzi parte integrante, inscindibile dal suo contesto come un albero dalla sua foresta o un edificio dalla sua città; tutti oggetti che acquisiscono senso dall’appartenere a una medesima struttura. Come sostiene Dalibor Vesely, «The structure of space has its source in the depth of culture and coincides with the overall coherence of our cultural world. Because our existence is always spatial, the nature of lived phenomenal space determines the topography, orientation, meaning, and the sanity of our existence».6 La presenza del corpo è, quindi, non soltanto strumento topografico e veicolo di significato, ma anche garanzia di ancoraggio ad una condizione lucida, non allucinatoria; esso ci consente di mantenere l’orientamento non soltanto rispetto al mondo esterno, ma anche in relazione al nostro spazio interiore, ancorandoci saldamente alla realtà e consentendoci di non perderci, né fuori, né dentro. Secondo Merleau-Ponty, «Ciò che garantisce

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l’uomo sano contro il delirio o l’allucinazione non è la sua critica, ma la struttura del suo spazio: gli oggetti rimangono di fronte a lui, conservano la loro distanza e […] lo toccano solo con rispetto».7 Se il corpo è indispensabile per rimanere noi stessi, per non andare alla deriva, diventa forse superflua l’idea di "conservarlo", perché con ogni probabilità anche nel più distopico degli scenari futuri non potremo mai farne del tutto a meno. "Conservare" mi pare peraltro un termine improprio, adatto semmai a descrivere ciò che si può fare con un vecchio album di fotografie o una tradizione familiare; "riciclare" dare nuova utilità a un oggetto che ha perso la sua originaria funzione, laddove il corpo conserva, tenacemente, la sua pregnanza. La "memoria del corpo" non può essere dunque quella registrata in un catalogo antiquario, ma deve porsi come "memoria viva", scavata nel nostro sistema nervoso secondo canalizzazioni irreversibili. La reale sfida che oggi si pone, dunque, non è tanto nell’assumerci l’impegno di "tramandare" un patrimonio per le generazioni future, quanto di prefigurare, nella specificità dell’architettura, quegli scenari ai quali sicuramente assisteremo e verremo chiamati a partecipare, sia come soggetti attivi, sia come spettatori. "Archiviare" il corpo per il futuro ne garantisce la sopravvivenza, quale luogo insostituibile di una parte imprescindibile dell’esperienza umana; ma al contempo dobbiamo imparare a comprendere e ribaltare a nostro favore tutte le sue possibili smaterializzazioni, riduzioni e persino perdite, dato che queste, inevitabili come qualsiasi forma di progresso, verranno. Con la consapevolezza, infine, di essere in movimento: come scrive Franco Rella, «La mia ipotesi è che siamo in uno stato di transizione, e che di questo stato non si diano definizioni, e tanto meno immagini precise. La mia ipotesi è che, come sempre quando si è in viaggio, dobbiamo sporgerci dai finestrini e cercare di cogliere frammenti e schegge di immagini. Alcune di esse certamente sono legate alla memoria (ma anche al luogo che non abbiamo definitivamente abbandonato), altre appartengono, in modo quasi allucinatorio, al mondo verso cui andiamo. Altre ancora, e sono quelle che più amo, sono le immagini di questo spazio di mezzo, su cui ci muoviamo, certe volte vivendolo come un nessundove, altre volte come una patria».8

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Note 1. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente [1972], Adelphi, Milano 1976, pag. 500. 2. Cfr., fra gli altri, H.F. Mallgrave, Architecture and embodiment, Routledge, New York 2013. 3. È questa la posizione espressa da Dalibor Vesely; cfr. D. Vesely, Architecture in the age of divided representation, MIT Press, Cambridge MA 2004. 4. A. Borgmann, Technology and the character of contemporary life, University of Chicago Press, Chicago 1984, pag. 41 e seguenti. 5. M.A. Killmeier, The Body Medium and Media Ecology: Disembodiment in the Theory and Practice of Modern Media, in «Proceedings of the Media Ecology Association», 10 (2009), pag. 37. 6. D. Vesely, cit., pag. 40. 7. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione [1945], Bompiani, Milano 2003, pag. 866 (ebook). 8. F. Rella, Pensare per figure, Fazi, Roma 2004, pag. 161.

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DIE URPFLANZE:

LA PIANTA ORIGINARIA Luca De Vitis >UNIROMA

Nel paese delle ultime cose, le ultime sarebbero anche le prime. La costruzione di un tale archivio rappresenterebbe, perciò, la fondazione di un nuovo e necessario sistema che rispetto a ciò che lo precede non ne postuli la cancellazione, bensì darebbe sostanza all’idea di continuità che è presente, per definizione, in ogni affermazione del "nuovo". Esso costituirebbe allora la narrazione delle scelte e delle ragioni che orientano la direzione di uno sviluppo conoscitivo, che, per determinarsi in quanto inizio, ridefinisce la propria origine a partire da ciò che si è scelto di escludere, cioè di essere rispetto a ciò che non sarà più. Questa tensione fra passato e futuro, fra origine e inizio, definisce una potente analogia fra le opere dell’uomo e i processi metamorfici della natura che stanno alla base dell’evoluzione. Il disegno dell’Urpflanze, la "pianta archetipa" o originaria, di Johann Wolfgang Goethe, è un tentativo di accedere alla chiave della metamorfosi, di cogliere il principio riproduttivo nel suo momento originario: l’origine stessa di questo disegno, l’osservazione e classificazione delle specie vegetali, non coincide con il suo destino, che si ascrive al piano della creazione artistica. Negli anni che precedono il suo personale grand tour (1786-88) in Italia,

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Goethe si interessa di scienze naturali (in particolare di botanica, mineralogia, meteorologia, anatomia e ottica), motivato nello studio profondo dei fenomeni dall’idea che scienza e arte condividano, per analogia, il medesimo rapporto con l’atto generativo delle forme, e che nei princìpi artistici vi sia dunque un fondamento genetico che legittimi l’arte, e in particolare l’architettura, come una «seconda natura, intesa alla pubblica utilità».1 Insoddisfatto dalle classificazioni delle specie del botanico Linneo, il cui lavoro Species Plantarum costituisce il principale riferimento scientifico nel Settecento, il poeta procede metodologicamente, attraverso la comparazione morfologica, nell’analisi e nella classificazione delle piante, mosso dall’intuizione che le sei fasi di sviluppo dell’organismo vegetale corrispondano in realtà alle trasformazioni progressive di un unico elemento: la foglia. Nell’orto botanico di Palermo, di fronte a una varietà di specie sbalorditiva per un tedesco, l’intuizione trova conferma: «Come riconoscerei altrimenti che questa o quella forma è una pianta, se non corrispondessero tutte a un unico modello? [...] il giardino d’Alcinoo scompariva e mi si schiudeva invece un giardino universale».2 Il motto Alles ist Blatt e il disegno della pianta originaria elaborano la conoscenza analitica in una sintesi che aspira a rintracciare il modello, il principio ordinatore della metamorfosi, cui corrisponde l’infinita varietà delle specie e il sistema di regole che ne governa gli sviluppi. L’esistenza di un tale modello ha ben poco a che fare con la realtà empirica – tanto che il termine Urpflanze non è utilizzato nella pubblicazione dei quaderni di Morfologia – e si definisce come l’idea, l’essenza della pianta, non nel senso di una sterile astrazione del pensiero bensì come realtà ideale immanente a ogni organismo vegetale, come concreto strumento razionale attraverso il quale è anche possibile "inventare" nuove piante. Il modello svela la legge per cui tutte le forme, diverse ma affini, si evolvono ma non si disperdono: è perciò rappresentazione della complessità morfologica in funzione di un "tipo". Quest’idea-strumento assume un ruolo chiave nel lavoro del poeta, che la sviluppa anche nelle ricerche di osteologia, procedendo alla comparazione delle figure esteriori degli animali e scoprendo nell’osso intermascellare l’elemento di svolta nella differenziazione tra animali e uomo; nella successiva pubblicazione della Teoria generale della natura il concetto si amplia fino ad assumere la portata generale dell’Urphänomen, il fenomeno originario, sintesi dell’ideale e del sensibile.

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Pierre Jean François Turpin, rappresentazione dell’Urpflanze basata sui concetti di Goethe, 1837

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Questa aspirazione alla sintesi estende l’interesse sul procedimento e sul suo esito al di fuori del campo delle scienze: la tensione fra stabilità e trasformazione – o tra Gestalt, la forma conclusa, e Bildung, il processo formativo – è questione centrale ed alimenta il tema dell’invenzione artistica. Non a caso, le ricerche scientifiche di Goethe si sviluppano in un momento storico peculiare per l’architettura, quando non solo il mondo tedesco si confronta con la crisi del linguaggio e con la prospettiva urgente di definire la nascente identità degli Stati nazionali. Il poeta partecipa al dibattito sullo stile in Germania con saggi e pubblicazioni in favore dell’ordine dorico, studiato da vicino nelle visite ai templi siciliani, e dei princìpi architettonici palladiani, influenzando attivamente una generazione di architetti, fra cui Friedrich Gilly e Heinrich Gentz, iniziatori di una linea che si estende in seguito con Karl Friedrich Schinkel e Leo von Klenze. Al di là della ricchezza e degli esiti della problematica storica, il dibattito sugli ordini condivide, per analogia, la tematica fondativa sull’origine e lo sviluppo delle forme, in questo caso architettoniche. Agli ordini architettonici è affidato il compito di stabilire la connessione con il passato, in un’azione di riciclaggio che è, allo stesso tempo, ricerca di continuità con il mondo antico e rinascimentale, luogo idealmente depositario dei valori ritenuti canonici, cui gli architetti fanno riferimento; la questione della tipologia, definita da Quatrèmere de Quincy come «oggetto secondo il quale ognuno può concepire delle opere che non si assomiglieranno punto tra loro»,3 nella costruzione della città civile richiede che gli ordini siano adattati alle nuove esigenze di rappresentazione della razionalità e della democrazia. La definizione del nuovo attraverso il riciclo si lega agli ideali di libertà e verità evocati dalla cultura illuminista, per cui la rappresentazione della continuità storica diventa legittimazione stessa del riciclo degli ordini, che «fino al XVII secolo si pensava fossero paradigmatici ed eterni, successivamente la possibilità della loro eternità dipendeva da una storicità che si riteneva fosse necessaria».4 Con le innovazioni tecniche della seconda rivoluzione industriale e poi con le Avanguardie, il riciclo degli ordini giunge a sublimazione e con esso la riproduzione escatologica dei contenuti rappresentativi di epoche passate: le rivoluzioni di Cubismo, De Stijl e Suprematismo rendono la frattura definitiva e aprono la via alla concezione del ruolo sintattico degli elementi, la cui funzione rappresentativa è allora da ricercarsi all’interno dei procedimenti costruttivi e non all’esterno di essi.

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Alla luce dell’evoluzione costante che anche nell’arte – intesa come produzione volontaria e non incessante riproduzione – riguarda il materiale "genetico" con cui essa operi, il metodo della comparazione formale mostra delle iniziali analogie fra arte e natura. L’Atlante della memoria di Aby Warburg e gli Studi di iconologia di Erwin Panofsky decodificano i sistemi figurativi dall’antichità all’Ottocento e vi rintracciano la presenza delle medesime forme simboliche: le metamorfosi della figurazione li trasferiscono dai codici linguistici pagani a quelli cristiani e viceversa, mutandone il senso specifico ma riproponendo gli schemi formali con cui essi si presentano e con cui continuano a veicolare il succedersi delle rappresentazioni. Anche nel mondo delle forme artistiche sembra esistere un principio di riciclo, benché connesso con l’idea della permanenza del significato generale della forma, ricostruibile attraverso le successioni delle sue manifestazioni specifiche nel tempo: «l’andirivieni dal particolare al tutto non torna infatti mai allo stesso punto; a ogni giro, esso allarga necessariamente il proprio raggio e scopre una prospettiva più alta in cui aprire un nuovo circolo: la curva che lo rappresenta non è, com’è stato tante volte ripetuto, una circonferenza, ma una spirale che amplia continuamente le proprie volute».5 Il principio trans-temporale che lega la successione delle forme è indagato nell’architettura da Colin Rowe, che mette a confronto le architetture di Palladio e Le Corbusier: spogliate dei loro registri linguistici, cioè della specificazione delle forme compiute, le piante delle due ville – La Malcontenta e Villa Stein – rivelano un’analoga struttura formale.6 La lettura di Rowe rinviene, inoltre, l’utilizzo strumentale della matematica, che è presente in entrambi i procedimenti come strumento di legittimazione delle scelte organizzative dell’edificio. La matematica riduce la complessità del fenomeno compositivo, e ne evidenzia la ricerca di un’intelligibilità atta a stabilire una maniera oggettiva nel conferire all’oggetto, poiché forma è spazio, una chiave per comprenderne la ragione della costruzione a partire proprio da quelle proprietà inscindibili della morfologia: la misura e le relazioni fra le parti. Rispetto all’impostazione comune, gli esiti formali dei due progetti sono chiaramente dissimili, non tanto da un ovvio punto di vista realizzativo e delle tecnologie impiegate, quanto per le operazioni di costruzione compiute rispetto a quell’impostazione: il rapporto struttura portante-elementi portati, il ruolo della partizione in campate, la maniera dell’oggetto di radicarsi al suolo, la successione degli spazi interni, la

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delimitazione della figura in pianta e in alzato, l’articolazione del volume. La decostruzione analitica evidenzia quello scarto fra la forma compiuta degli oggetti e la loro parentela con l’analoga struttura formale impiegata. La riconoscibilità della forma interessa perciò sia gli esiti del carattere metamorfico, nel suo agire all’interno dell’architettura, sia un’intenzione nel renderla riconoscibile: proprio in questa intenzionalità, intesa come insieme delle scelte, l’atto costruttivo in quanto azione artistica è separato definitivamente dall’incessante riproduttività della natura. I salti temporali della morfologia, che si ri-presenta in forme e contesti specifici aggiornando di volta in volta l’insieme dei suoi potenziali significati, dialogano, nella costruzione, con la continuità del tipo, strumento necessario «se si vuole esprimere la storicità consapevolmente, vale a dire considerandola come un elemento essenziale della composizione dell’opera architettonica».7 Il dualismo costruttivo di forma e tipo, sostanziale nel lavoro di architetti come Oswald Mathias Ungers e Saverio Muratori, «non sarebbe risultato così centrale senza le intuizioni goethiane»:8 a tal proposito la definizione dell’inizio per ogni costruzione, intesa come delimitazione fondativa del programma formale in vista di una finalità, è tesa tra superamento e sedimentazione, tra libertà esplorativa del linguaggio e esposizione riconoscibile della continuità. Il progetto si colloca in questa tensione, e nella costruzione di forme compiute esclude, per via compositiva e con più o meno intensità, quelle conoscenze che ne impediscano una "formulazione nuova", specifica e relativa. Se le ultime cose sono perciò le prime, a queste spetta il compito di impedire la damnatio memoriae. A questo proposito, lo sforzo analitico-creativo rappresentato dall’Urpflanze ci riporta all’idea che il nuovo, per affermarsi in quanto tale, necessita l’identificazione di ciò che lo precede, al fine di compiere rispetto ad esso una scelta determinante. In questa conflittualità tra conservazione e cancellazione sta il senso della costruzione come rappresentazione dell’evoluzione collettiva, esito di scelte e ragioni che ne esprimano la necessità, e che definiscono di volta in volta il ruolo che si attribuisce alla memoria. Scegliere è delimitare, e il progetto ne rappresenta tutta la difficoltà, necessaria al superamento futuro dell’orizzonte conoscitivo presente: riciclo, nuovi cicli e processi metamorfici sono allora accomunati dall’aspirazione alla sopravvivenza, da una parte, e dall’altra necessariamente separati dalle ragioni che, nelle opere umane, rappresentano le scelte che ne sostanziano l’evoluzione per via di un’evitabile cancellazione.

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Note 1. J.W. Goethe, Viaggio in Italia [1816], Mondadori, Milano 1993, pag. 133. 2. J.W. Goethe, op. cit., pag. 295. 3. A.C. Quatrèmere de Quincy, Dizionario storico di architettura [1832], Marsilio, Venezia 1985. 4. P. Eisenman, La fine del classico, Mimesis, Milano 2009, pag. 118. 5. G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005. 6. C. Rowe, La matematica della villa ideale [1947], in La matematica della villa ideale e altri scritti, Zanichelli, Bologna 1990. 7. F. Purini, Un aspetto della composizione architettonica, http://www.francopurinididarch.it/, 2013. 8. F. Purini, La composizione architettonica fra origine e inizio, in C. Di Domenico (a cura di), Sul futuro dell'origine. Novità ed originalità in architettura, Il Nuovo Melangolo, Genova 2014, pp. 53-54.

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FUTURO IN ROVINA Antonio di Campli >Universidad Técnica Particular de Loja

«The transformation of our cities begins with an enormous fissure. A new incubation process begins with the engulfment and destruction of a city of virtue and ease by viscous, formless matter welling up from the earth. The cataclysm is violent and indiscriminate; it will terrify and kill you. The task we are fated to undertake is to give dynamic order to formless matter. The joint core is the pint from which urban space will be generated. The city that has thus been incubated is destined to be destroyed. A ruin is the future of our city. and the future city is ruin itself. Our contemporary city therefore lives for a short "time", it emits energy and returns once more to matter. Our effort in each and every proposal is therein embedded, and the incubator is again built. That is the future».1 In un collage del 1962, Incubation Process, Arata Isozaki rappresenta la sua visione metropolitana intitolata City in the Air come una mega-struttura in rovina aggrappata sui resti di strutture colonnari giganti. Sistemi di trasporto, alloggi, uffici così come parchi e passerelle, retti da massicci piloni di sostegno, sorvolano la città esistente. Il testo a fianco del collage recita: «Incubated cities are destined to self-destruct, ruins are the style of our future cities, future cities are themselves ruins, our contemporary cities, for this reason, are

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Arata Isozaki, Incubation Process Joint-Core System, 1962

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destined to live only a fleeting moment, give up their energy and return to inert material. All of our proposals and efforts will be buried and once again the incubation mechanism is reconstituted, that will be the future».2 A partire dai primi anni Sessanta, attraverso tecniche narrative, dell’assemblaggio e utilizzando forme della comunicazione proprie di linguaggi di protesta, Arata Isozaki ha condotto un insieme di operazioni concettuali aperte verso orizzonti di sperimentazioni decentrate in cui si colgono, da un lato dislocamenti, tentativi di innovazione e mosse finali del modernismo, dall’altro, la formazione di specifiche idee post-coloniali del postmodernismo. Tornare a guardare a queste esperienze oggi, in particolare ad alcune ramificazioni non occidentali del postmodernismo connotate da una particolare attenzione alla dimensione sociale e politica del progetto, è utile non tanto per ricalcare i segni di rappresentazioni di declino o fallimento del progetto moderno o per insistere sulle codificazioni di un postmodernismo ludico a cui, molte di queste operazioni concettuali, spesso involontariamente, vengono ancora oggi accostate. Piuttosto il contrario. Il tentativo è alzare la posta in gioco presente in queste scommesse rendendo espliciti una pluralità di discorsi annidati all’interno di queste pratiche, cercando di capire quali di questi sia utile oggi recuperare pur appartenendo ad un momento storico diverso. Le critiche al moderno erano piuttosto popolari negli anni Sessanta. In particolare all'interno di movimenti contro-culturali si sono prodotti discorsi che hanno insistito sulla fine del telos modernista, sul declino delle nozioni di progresso e di avanguardia, sul desiderio di libertà del soggetto così come della singolarità del luogo, aprendo verso nuovi spazi di riflessione e di sperimentazione. Tuttavia, per meglio comprendere le particolari attitudini post-coloniali presenti nel discorso postmoderno di Arata Isozaki, è utile prendere in considerazione alcuni studi: tra questi un libro, scritto dal sinologo giapponese Yoshimi Takeuchi, What is Modernity,3 testo in cui l'autore ragiona attorno alla natura involontaria della modernità in ciò che non è Occidente. La modernità, in particolare per l'Oriente, secondo Yoshimi Takeuchi, corrisponde in primo luogo alla sua sottomissione al controllo politico, militare ed economico dell'Occidente. Solo quando l'Oriente diviene oggetto, esso entra nella modernità. La condizione o essenza della modernità per l’orientale, quindi, corrisponde alla sua capacità di reazione all’Occidente. In questo scambio conflittuale, insiste Takeuchi, l’invenzione dell’Oriente e della

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sua immagine è necessaria alla stessa formazione dell’idea di Occidente. Su posizioni simili si colloca lo studioso di letterature asiatiche Naoki Sakai: «The West [Europe] cannot be the West unless it continually strives to transform itself; positively the West is not, but only reflectively it is. [Europe] capital desires to expand her market; the missionaries are committed in the mandate to expand the kingdom of heaven. Inevitably the self-liberation of the West resulted in its invasion into the Orient. In invading the Orient, Europe encountered the heterogeneous, posited herself in opposition to it. Of course, the Orient reached to the West’s expansion and put up resistance to it. Nonetheless in this very resistance it was integrated into the dominion of the West and served, as a moment, toward the completion of Eurocentric world history».4 Così come dell'Oriente si mettono in evidenza una serie infinita di cose strane ed esotiche, la conoscenza delle cose orientali si definisce secondo le relazioni di potere esistenti tra questi due mondi. Una relazione, come mostrato da Edward Said in Orientalism,5 che l’Occidente ha continuato ad affermare e consolidare. Da un lato, l'Ovest è un luogo che si definisce in opposizione a ciò che è estraneo ad esso; esso necessita dell'altro per la sua identità. Dall’altro, l'Occidente è qualcosa di onnipresente e al tempo stesso invisibile in quanto si presume che solo in esso si diano le condizioni in cui stabilire la validità universale della conoscenza. Ma, Yoshimi Takeuchi sostiene, «l'Oriente resiste», la sua modernizzazione si produce in questo attrito. Di conseguenza, la modernizzazione dell’Oriente non deve essere pensata come una mera imitazione di cose occidentali, anche se ci sono stati sicuramente casi in cui la volontà di resistere è stata piuttosto debole. L’Oriente ha dovuto modernizzarsi, europeizzarsi, mutuando strategie e tecniche dall’Occidente al fine di resistergli. Se la modernizzazione dell’Oriente sembrerebbe attestare un avanzamento o un successo per l’Occidente, sembra che anche nella sua resistenza, l'Oriente sia soggiogato da modalità di rappresentazione occidentali e che il suo tentativo di resistere all'Occidente sia infine destinato a fallire. Ma Takeuchi e Sakai, pensando all’Asia, attribuiscono un particolare significato al termine resistenza. Per l'Oriente, la resistenza non si associa quasi mai alla ricerca o alla formazione di un’identità soggettiva. In altre parole, la resistenza non è una negazione per mezzo della quale un soggetto si pone in opposizione a ciò a cui si nega o che rifiuta. «Resistance, has to be likened to negativity,

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as distinct from negation, which continues to disturb a putative stasis in which the subject is made to be adequate to itself».6 Qui la resistenza è innanzitutto qualcosa che disturba una possibile rappresentazione di sé e della sua immagine. «It is something that resists the formation of those identities which subject people to various institutions. Yet this does not liberate them; this does not lead to emancipation because people are often subjects to what they most fear through the word emancipation"».7 Le strategie e gli strumenti con cui Arata Isozaki ha operato la sua critica all’ortodossia modernista e alle visioni e valori occidentali da essa, più o meno esplicitamente, espresse, sembrano avvicinarsi a questa concezione orientale della resistenza. L’elaborazione dell’evento traumatico di Hiroshima, delle sue conseguenze sociali e culturali, tra le quali la diffusione nel Giappone del dopoguerra di linguaggi e forme moderniste del progetto propagatesi all’interno di un contesto politico e culturale controllato dai nordamericani, è stata una tra le principali questioni al centro della ricerca di Isozaki durante gli anni Sessanta e Settanta. In questo processo si è definita una particolare declinazione del postmodernismo che lo distingue da quegli architetti che hanno ingenuamente immaginato la possibilità di superare le logiche del moderno attraverso l’adozione di atteggiamenti reazionari, ludici o tesi alla riscoperta delle tradizioni locali per definire una differenza orientale o giapponese. Isozaki ha intuito che coloro che si fanno promotori di questi gesti di emancipazione, semplicemente cadono nelle trappole messe in piedi dalla modernità.8 Richiamando la distinzione di Hal Foster tra un "postmodernismo di resistenza" e un "postmodernismo di reazione",9 il postmodernismo di Arata Isozaki mostra un carattere diverso dalle sue controparti europee e nordamericane. Pur comportando, come in quei luoghi, processi radicali di critica al modernismo, la concezione giapponese di postmodernità espressa da Isozaki è segnata da una particolare assenza di resistenza. In questo senso, nel conflitto tra due differenti potenze culturali, nell’attrito tra processi di modernizzazione e persistenze di forme tradizionali di abitare e di produzione spaziale, non deve sorprendere che la postmodernità di Isozaki sia associata all'immagine della rovina e alla distruzione intesa come l’ultimo strumento di controllo progettuale. La distruzione, come dimostrato da Yoshimi Takeuchi, rappresenta la capacità del soggetto di resistere senza opporsi, senza rivendicare una differenza, di sfuggire allo sguardo e al desiderio di alterità dei dominatori.

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Artista, hippy, poeta, radicale, Arata Isozaki, un architetto colto con forti legami con la generazione di scrittori, poeti, artisti e attivisti politici del Giappone degli anni ’60, è stato etichettato in molti modi. Attraverso operazioni concettuali come Incubation Process, Re-ruined Hiroshima o City Demolition Industry Inc.,10 Isozaki ha condotto una deriva allucinata verso potenzialità inesplorate del progetto urbano attraversando più volte le soglie tra territori Off-modern11 del progetto e la messa in scena di una specifica forma postmoderna di resistenza. Questo genere di operazioni concettuali oggi possono sembrare storicamente superate, fuori moda, o più semplicemente freak. Molte di queste contengono tuttavia potenzialità di riscatto in quanto sembrano contenere quello che Walter Benjamin provocatoriamente ha definito come un "indice segreto" o un "debole potere messianico".12 Oggi siamo in grado di guardare di nuovo a queste operazioni concettuali di Isozaki al fine di recuperare il loro particolare atteggiamento di resistenza nel loro preciso significato partigiano. Si tratta di un progetto culturale contro-militante che è importante riconsiderare oggi al fine di guardare di nuovo all'architettura e al progetto per la città come un atto civile liberandoci degli sguardi sfocati sulla città e sul suo progetto prodotto da discorsi come identità locale, cultura o creatività, che sempre più pervadono i discorsi sul design urbano contemporaneo.

Note particolare posizione nell'esperienza europea. L’orientalismo emerge durante l’Illuminismo europeo e nella prima colonizzazione dei paesi dell'est descritti come luoghi radicalmente diversi e inferiori, e quindi bisognosi del soccorso occidentale. L'Oriente ha contribuito a definire l'immagine e idea di Europa, è parte integrante della civiltà materiale e della cultura europea.» E. W. Said, Orientalism, Vintage Books, New York 1979. 6. N. Sakai, cit., pag. 119. 7. N. Sakai, cit., pag. 120. 8. È stato il critico Kenneth Frampton che ha definito il regionalismo come una strategia di resistenza. Identità regionali possono tenere fuori almeno per un tempo contro la

1. A. Isozaki, Unbuilt, Toto, Tokyo 2001, pp. 46-47. 2. A. Isozaki, Kukan he (Toward Space), Bijutsu Shuppansha,Tokyo 1971, pag. 40. 3. Y. Takeuchi, Kindai towa nanika (What is Modernity?), in Idem, Zensh (The Complete Works of), vol. IV, Chikuma Shobo, Tokyo 1980. 4. N. Sakai, Modernity and Its Critique. The Problem of Universalism and Particularism, in M. Miyoshi, H. D. Harootunian (eds), Modernism and Japan, Duke University Press, Durham, pag. 115. 5. «Gli europei hanno una lunga tradizione di orientalismo, vale a dire un modo di venire a patti con l'Oriente che si basa sulla sua

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massimizzazione del profitto e dell'efficienza. Nel 1977, difendendo il suo concetto di regionalismo, Frampton ha scritto che tutto dovrebbe dipendere dalla capacità delle culture radicate di ricostruire le proprie tradizioni pur appropriandosi di influenze esterne a livello di cultura e civiltà. Si veda: K. Frampton, Modern Architecture and Its Critical Present, Academy Editions, London 1982. 9. Il critico e storico dell'arte americano Hal Foster, in un saggio intitolato The AntiAesthetic ha esplorato la condizione di resistenza nella critica alla modernità, facendo una distinzione tra quello che ha definito un postmodernismo di resistenza e un postmodernismo di reazione. Questa distinzione può essere utile per rivedere il particolare discorso che Arata Isozaki ha inventato negli anni Sessanta, nel contesto di una discussione più ampia sui rapporti tra il Giappone e la modernità occidentale, dove la scena postmoderna è spesso vista solo come un altro modo per esprimere l'unicità culturale del Giappone. Si veda: H. Foster (ed), The Anti-Aesthetic: Essays on Postmodern Culture, Bay Press, Seattle 1983. 10. Arata Isozaki scrive nel 1962 City Demolition Industry, Inc., un testo concepito come un racconto e redatto secondo i canoni di una narrazione letteraria. Questo racconto

descrive un inquietante progetto di distruzione fisica delle città giapponesi al fine di ridefinire migliori condizioni abitative secondo forme non occidentali. La traduzione in inglese di questo testo può essere trovata in: «South Atlantic Quarterly» n. 106, 4/2007, Duke University Press, Durham, pp. 85358 (Edizione originale in giapponese: Toshi hakaigyo KK, in «Japan Architect», Jan-Feb 1962. Prima edizione in inglese intitolata City Demolition Industry, Inc. in: K. Frampton, A New Wave of Japanese Architecture, Institute for Architecture and Urban studies, New York 1978, pp. 48-67. Riflessioni specifiche su questo testo sono pubblicate in: A. di Campli, Working through Hiroshima. Arata Isozaki’s Destructive Visions, Carocci, Roma 2015. 11. Il concetto di Off-modern è descritto da Svetlana Boym come deviazione nelle potenzialità inesplorate del progetto moderno, come avventura lungo i suoi percorsi minori o laterali. Questo termine si colloca nel dibattito sui rapporti tra tarda modernità, ipermodernità e postmodernità. Si veda: S. Boym, Architecture of the Off-Modern, Princeton Architectural Press, New York 2008. 12. M. G. Levine, A Weak Messianic Power. Figures of a Time to Come in Benjamin, Derrida, and Celan, Fordham University Press, Fordham 2013.

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ARCHEOLOGIA AUTOSTRADALE Andrea Gritti, Marco Voltini, Claudia Zanda >POLIMI

Anche le autostrade saranno oggetto di indagini archeologiche? Sì, se la prospettiva temporale è di lungo periodo. La rete autostradale sarà oggetto di studio per gli archeologi del futuro come gli antichi itinerari lo sono stati per quelli del passato. Ma quanto è lontano questo futuro? La questione non è irrilevante se si pensa che nell’attualità tutti gli eventi sono accelerati e che la stessa rete autostradale si è estesa sul pianeta in meno di un secolo.1 Se la nuova disciplina seguirà l’esempio dell’archeologia industriale allora la scienza e il suo oggetto saranno co-esistenti. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, mentre si delineavano i segnali della transizione verso la società post-industriale, una specifica attenzione venne rivolta a luoghi produttivi un tempo emblematici e allora in stato di abbandono.2 Da quel momento l’archeologia industriale ha contribuito a precisare il significato del patrimonio costruito e dei giudizi di valore che gli sono sottesi, offrendo al progetto architettonico e urbano l’occasione per misurarsi concretamente con la proliferazione di scarti e rifiuti imposta dai modelli consumistici. Se anche quella in corso è una transizione – da una civiltà fondata sui valori energetici ed economici dei combustibili fossili ad un’altra basata sull’uso di risorse rinnovabili – inda-

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gare il potenziale archeologico di infrastrutture che sostengono processi di urbanizzazione destinati a contrarsi e a mutare potrebbe rivelarsi utile per anticipare le conseguenze dell’era post-autostradale e per alimentare gli obiettivi, gli strumenti e i metodi dei progetti che vorranno dedicarsi al riciclo dei territori infrastrutturati.3 Ad ogni modo per promuovere una nuova branca dell’archeologia si devono formulare ipotesi sui suoi reperti, i metodi e le tecniche, le fonti e i precursori. I reperti Il reperto fondamentale dell’archeologia autostradale sarà molto probabilmente la traccia lasciata sull’asfalto bituminoso di una carreggiata da uno pneumatico elastomerico, progettato per ridurre l’attrito del mezzo meccanico, alimentato da idrocarburi, che la stava percorrendo. Quando questo fossile della civiltà petrolifera farà parte della lista aggiornata che il British Museum dedicherà ai 100 oggetti capaci di raccontare la storia del mondo, i processi di urbanizzazione si saranno emancipati dal binomio pneumatico/asfalto.4 Ai brevetti di Mc Adam e di Dunlop sarà già stato restituito il ruolo che meritano nelle storie dedicate alle origini dell’architettura e dell’urbanistica moderne e si valuteranno con maggiore obiettività i progetti per l’addomesticamento dell’automobile e l’automazione della casa di Le Corbusier e di Buckminster Fuller o si riconosceranno in Moholy-Nagy, Hubner, Dardi e De Feo i pioneri e gli alfieri della “dromologia”.5 All’epoca in cui quell’impronta sarà entrata nelle collezione del museo britannico potrebbe non essere così facile comprendere come, nell’attualità, miliardi di persone possano transitare quotidianamente tra precise destinazioni grazie a strade d’asfalto, mezzi su gomma SBR, motori alimentati da combustibili fossili o perché si siano parcheggiati sulla Luna e su Marte veicoli destinati a riprodurre il modello terrestre dell’esplorazione su quattro ruote. Nel momento in cui l’archeologia autostradale sarà una disciplina operante gli idrocarburi saranno stati definitivamente sostituiti da altre fonti energetiche e sarà all’ordine del giorno la risoluzione di problemi di riciclo dalle inedite proporzioni: come de-pavimentare milioni di chilometri quadrati di strade asfaltate? che fare di miliardi di pneumatici? Malgrado siano evidenti i segnali di obsolescenza tecnologica dei supporti infrastrutturali e dei vettori meccanici che li percorrono, l’ipotesi di un’imminente fine del ciclo di vita delle autostrade è poco più che un espediente retorico. Con maggiore prudenza e realismo si può pronosticare

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Alfred Eisenstaedt, Michelin man on billboards at entrance to the Turin-Milan autostrada, 1947 [The LIFE Picture Collection / Getty Images] Nel punto di ingresso dell’autostrada Torino-Milano Alfred Eisenstaedt intuisce che le strade riservate al transito veloce dei veicoli sono il supporto di un allestimento. La scenografica giustapposizione di messaggi, manifesti, insegne, di tracce a terra e di strutture aeree contribuisce alla costruzione di un lessico sorretto da precise regole grammaticali e destinato a divenire universalmente familiare. La fortuna dell’autostrada è in effetti dovuta al fatto di essere stata allestita su scala planetaria come uno spazio dedicato all’accelerazione dei corpi in transito, basato sul ruolo essenziale degli elementi capaci di garantire la continuità delle prestazioni: la disciplina dei flussi, la regolarità dei supporti, l’omologazione delle componenti, la tassazione degli itinerari. Eppure sono gli scarti, le interferenze, le eccezioni, determinati dagli attriti topografici con i territori attraversati, a rendere ogni segmento di questa formidabile rete un unico che vale la pena di ricordare.

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che un’archeologia dedicata alle autostrade potrebbe affermarsi anche in presenza di un consolidamento, se non addirittura di un potenziamento, della loro rete. All’orizzonte sembra profilarsi il compimento della profezia di Marshall McLuhan, che, indicando nell’automobile un dispositivo più efficiente per le economie del tempo libero piuttosto che per quelle del lavoro, aveva implicitamente tratteggiato la parabola dell’era autostradale.6 In questa più verosimile prospettiva, autostrade non strategiche, come già avvenuto per pochi aeroporti, alcune metropolitane e molte ferrovie, passeranno dalla congestione al sottoutilizzo e infine all’abbandono a causa dell’insostenibile livello assunto dai costi di manutenzione rispetto alla contrazione dei ricavi derivati da pedaggi sempre meno frequenti.7 Questo scenario è già attuale in molte parti del mondo e anche nel nostro Paese grazie a precise scelte di politica dei trasporti. Le gallerie di Piedicastello sono state teatro di una sperimentazione progettuale dedicata alle infrastrutture autostradali per molti aspetti analoga a quella che un’altra archeologia ha rivolto alle testimonianze del passato industriale.8 Questo tipo di intervento tuttavia appare ancora un esempio isolato tra quelli che vorrebbero contrastare l’abbandono nel paesaggio di grandi opere di ingegneria civile ormai inutilizzate. Come dimostra la spettacolare demolizione dei viadotti lungo l’autostrada A3, Salerno – Reggio Calabria, è già in atto una forma di contrasto alla disseminazione nei territori della decrescita di una nuova tipologia di reperti. Del resto proprio questi fenomeni recenti ci inducono a riflettere meglio su quanto sta per accadere. Il rinvenimento di lunghi tratti d’asfalto usurato, di serie continue di spartitraffico incidentati, di insegne sfregiate, di caselli e di stazioni di servizio abbandonati, di ponti e viadotti ridotti alle sole spalle strutturali potrebbe non essere solo l’iperbole prediletta dalla letteratura o dalla cinematografia distopica, ma piuttosto la coerente rappresentazione di processi storici ordinari che semplicemente non sappiamo prefigurare. Il metodo e le tecniche Nel 1999 descrivendo la progressiva trasformazione in strada urbana di una parte dell’A4, Alberto Ferlenga registrava l’addensarsi di precoci “rovine” lungo “argini” contraddittoriamente composti da discariche e grandi centri commerciali.9 Questo tratto autostradale gli appariva come l’asse di una città dispersa in tormentato divenire, nella quale territori ricchi producevano paesaggi poveri, miscelando venturiani frammenti di strip

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commerciali e piranesiane rivisitazioni della via Appia. Nel testo si intuiva l’approssimarsi di una soglia critica oltre la quale ogni tipo di involuzione poteva essere considerata plausibile, compresa la rottura degli “argini” e lo sconfinamento delle “rovine” dentro i perimetri dell’infrastruttura. Lessico e concetti di quel saggio annunciavano l’urgenza di classificare i simboli della cultura autostradale, proprio mentre si esaurivano le spinte della modernità che ne avevano accompagnato l’origine e lo sviluppo. Come ogni altra archeologia anche quella dedicata alle autostrade dovrà documentare e ricostruire lo stato e le condizioni della cultura materiale dell’epoca nella quale si sono affermate.10 Per ottenere questo risultato l’archeologo opera, rispetto al tempo, accumulando conoscenze a proposito degli oggetti della propria indagine e, rispetto allo spazio, ricomponendo l’eterogeneità dei propri reperti dentro comuni unità stratigrafiche. Non vi è dubbio che il successo dell’archeologia nella contemporaneità si debba alla sua connotazione ecologica e al ruolo assunto nel suo statuto scientifico da tecniche ben definite e costantemente aggiornate: quelle di scavo che hanno reso possibile la classificazione comparativa dei reperti rinvenuti nel sottosuolo, quelle di rilievo che hanno codificato l’interpretazione delle vicende costruttive di tutte le strutture, comprese quelle fuori terra.11 Dal canto suo anche l’archeologia industriale si è affermata studiando le interazioni tra il potenziale tecnologico di uno specifico ciclo produttivo e il ciclo di vita del complesso architettonico dove era applicato.12 Sotto il profilo del metodo di indagine e delle tecniche di ricerca, l’archeologia autostradale dovrà misurarsi con inedite difficoltà, compresa quella di dover maneggiare con cura la metafora del palinsesto.13 Fin dalla sua inaugurazione un’autostrada è infatti sottoposta ad attività di manutenzione che condizionano la persistenza dei suoi elementi costitutivi e di conseguenza le relazioni con la cultura materiale cui si riferiscono. Per essere conservate in efficienza e corrispondere a requisiti di sicurezza sempre più elevati le autostrade sono percorse costantemente da cantieri che operano tramite scavi e interramenti, spoliazioni e sostituzioni, cataloghi e inventari, depositi e archivi. Se non fosse per le dimensioni, per le tecnologie impiegate e per la muscolare esibizione di forza queste attività potrebbero sembrare in sintonia con quelle degli archeologi. Purtroppo però la manutenzione delle autostrade, preventiva per definizione, non è solo una forma di cura priva di intenti conservativi, ma è una perturbazione del loro potenziale archeologico. Nel breve volgere di pochi

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decenni, ciclicamente e con la sola eccezione delle grandi opere civili, tutti i materiali che costituiscono le autostrade vengono rimossi e sostituiti con altri che progressivamente ne consolidano l’efficienza e ne aumentano le dimensioni. Malgrado gli sforzi delle opere compensative, l’incessante cantierizzazione non solo rinnova gli effetti originariamente prodotti dall’attrito tra il primo tracciato e il territorio che lo ha ospitato, ma scava solchi sempre più profondi e più ampi verso i quali scivolano frammenti degradati di precedenti ordini territoriali. D’altra parte è proprio questo addensamento di ragioni concorrenti e contraddittorie a stringere d’assedio l’autostrada e ad indurne il più evidente e recente cambiamento di stato: la trasformazione in edificio. L’innalzamento di barriere antirumore, voluto per salvaguardare l’eccezionalità dell’infrastruttura rispetto all’ordinarietà dei contesti urbani e rurali che attraversa, appare come il primo atto di una radicale riconfigurazione di cui l’archeologia autostradale dovrà documentare con cura il prima e il dopo.14 Se infatti stiamo assistendo alla progressiva conversione della rete autostradale in una forma spuria di “monumento continuo”, allora è necessario attrezzarsi da subito per offrire supporto tecnico e metodologico alla disciplina che lo dovrà rilevare.15 Le fonti e i precursori Che l’autostrada, nelle sue multiformi accezioni, sia allo stesso tempo un campione e un osservatorio ideali per lo studio delle trasformazioni territoriali è un dato storicamente acquisito grazie a studi, ricerche e progetti pubblicati e globalmente diffusi fin dalla metà degli anni Sessanta. Nella prospettiva qui delineata quei contributi valgono come le testimonianze su Pompei ai tempi in cui non se ne potevano presagire né la tragedia urbana né tantomeno la fortuna archeologica. Gli Archigram e i Metabolisti, per esempio, ponevano al centro della propria ricerca progettuale abitacoli estratti dal contesto autostradale e utilizzati per diffondere i principi insediativi della “capsularizzazione” del mondo.16 Lynch, Venturi e per certi versi anche Superstudio, indagavano i limiti tra autostrada e paesaggio, per dissolverli o per consolidarli sotto altre forme grazie alla mediazione dell’obiettivo fotografico.17 Imbracciando foto- e video-camere il rapporto con l’autostrada si esprimeva in modo proiettivo, naturalmente opposto a quello protettivo, adottato attraverso la fiducia incondizionata nelle protesi meccaniche usate per percorrerla. Nel loro insieme queste visioni si basavano su precisi riferimenti alla cultura materiale, assumendo impli-

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citamente una precisa prospettiva archeologica. Ma a ben guardare non è dentro i confini dell’architettura che si sono esercitati gli autentici precursori, coloro che per primi hanno affidato ad abitacoli e fotocamere il compito di sondare l’essenza autostradale e interpretarne il destino. In una notte del 1951 Tony Smith e tre studenti della Cooper Union avevano guidato lungo l’ancora incompiuta Newjersey turnpike, facendo l’esperienza di un’autostrada deserta e inospitale. Ritornato alcuni anni più tardi su quel viaggio inusuale, Smith aveva compreso di aver osservato, dal privilegiato punto di vista di un solitario abitacolo, un paesaggio completamente artificiale e in nessun modo interpretabile come opera d’arte, se non per il fatto di esserne il presagio della fine. Sospesa tra il non-ancora-in-uso e il già-abbandonato, quell’autostrada era la principale testimone dell’imminente affermazione di “mondi creati senza tradizione” né “precedenti culturali” alla cui ricostruzione era indispensabile dedicarsi.18 Qualche anno prima, in un giorno del 1947, in mezzo ad una carreggiata e quindi nell’occhio del ciclone autostradale, Alfred Eisenstadt aveva offerto al proprio obiettivo un campo visivo privo di ostacoli per riprendere il punto di ingresso della Torino – Milano dal suo stesso asse. Complementare al viaggio notturno di Smith, lo scatto diurno di Eisenstadt era la precoce intuizione dell’essenza autostradale. Metteva in mostra una “messa in scena unitaria” che coinvolgeva architettura, arte e grafica ed era già matura per divenire universalmente popolare.19 Nell’inquadratura prescelta erano protagonisti i messaggi, le sigle, le insegne, le tracce a terra, le sponde rialzate, le strutture aeree, tutte quelle componenti del lessico autostradale per le quali è tuttora difficile il repertorio ad esclusione di quello che si produce nel tempo reale dell’osservazione fotografica. Per questi motivi l’immagine della Torino-Milano è un capostipite di ogni successiva forma di conoscenza autostradale. La forza evocativa di questa fotografia solitaria è paragonabile a certe celebri serie dedicate all’affermazione dell’industria o alla costruzione dei grattacieli nell’America del primo Novecento.20 A distanza di tempo non vi si legge solo la testimonianza di un’epoca ma la proiezione di tutti i contributi che la storia ha trascritto su quei luoghi senza lasciarli sedimentare. A suo modo la fotografia di Eisenstadt è una rappresentazione del valore semantico di ogni archeologia, della sua intrinseca capacità di analizzare le relazioni strutturali tra gli oggetti e i modi in cui vengono descritti, cogliendo quel rapporto “al tempo stesso non visibile e non nascosto”21 che li lega e li

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rende disponibili all’azione progettuale: l’unica che può provvisoriamente e responsabilmente sottrarli allo stato di rovina che, inevitabilmente, assumeranno nel futuro.22

Note Archeologia dell'edilizia storica, Como 1988. 12. M. Palmer, P. Neverson, Industrial Archaeology: principles and practice, London 1998. 13. Cfr. A. Corboz, Le territoire comme palimpseste, in «Diogène» n. 121, 1983, pp 14-35. 14. Sull’argomento vedi i contributi pubblicati sui numeri 18 e 19 di «ARK» (2015). 15. Cfr. Superstudio, 1969-Monumento Continuo, Storyboard for a film, in «Casabella», n. 358, 1971, pp. 19-22. 16. Sul concetto di “capsularization” cfr. L. De Cauter, The capsule and the network, in «OASE» n. 54, 2001, pg. 122-34, sui progetti di Archigram e dei Metabolisti sul tema vedi M. Webb, Cushicle, in «Domus» n. 457, 1967 e K. Kurokawa, Metabolism in architecture, Littlehampton Book Services, Worthing 1977. 17. Cfr. D. Appleyard, K. Lynch. S. Myer, The View from the Road, MIT Press, Cambridge MA 1964 e R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas, MIT Press, Cambridge MA 1972. 18. Cfr. S. J. Wagstaff Jr., Talking with Tony Smith, in «Artforum», Dicembre 1966. 19. L. Molinari, Allestimento, in Enciclopedia Italiana, vol. VII Appendice, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2006. 20. Cfr. F. Langer (ed.), Lewis W. Hine. The Empire State Building, Prestel Publishing, London 1998. 21. Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971. 22. Sul rapporto tra progetto architettonico e archeologia cfr. S. Crotti, Verso un'archeologia del futuro urbano, in «Urbanistica» n. 88, 1987, pp. 32–38; sul significato progettuale della responsabilità nella prospettiva della lunga durata cfr. S. Brand, Clock Of The Long Now: Time and Responsibility, Basic Books, New York 1999.

1. La prima autostrada a pedaggio è la Milano-Varese, inaugurata il 21 settembre 1924. 2. Cfr. K. Hudson, Industrial archaeology: an introduction, J. Baker Publishers Ltd, London 1963. 3. Questa tesi è espressa in A. Gritti (a cura di), Mi-Bg. 49 km visti dall’autostrada, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2015, catalogo della mostra omonima, Dalmine 25 settembre – 18 dicembre 2015, promossa nell’ambito di TXtra – In viaggio con Triennale. 4. N. McGregor, La storia del mondo in 100 oggetti, Adelphi, Milano 2012. 5 Per una panoramica su questi argomenti cfr. M. Zardini, Asfalto, il carattere delle città, Mondadori, Milano 2003; A. Amado, Voiture Minimum, Le Corbusier and the automobile, MIT Press, Cambridge MA 2011; R. Marks (ed.), The dymaxion world of Buckminster Fuller, Reinhold, New York 1960; P. Virilio, Dromologie: logique de la course, in «Multitudes, Futur anterieur» n. 5, 1991. 6. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967. 7. Sulla transitorietà delle reti infrastrutturali nel sistema degli insediamenti umani cfr. L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, in Annali della Storia d'Italia, vol. 8, Insediamenti e territorio, Einaudi, Torino 1985. 8. Cfr. P. Ciorra e S. Marini (a cura di), Recycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta, Electa, Milano 2011. 9. A. Ferlenga, Tassonomia autostradale in «Casabella» n. 670, 1999, pp. 58-81. 10. A. Carandini, Archeologia e cultura materiale: dai lavori senza gloria nell'antichità a una politica dei beni culturali, De Donato Bari, 1979. 11. Cfr. E. Harris, Principi di stratigrafia Archeologica, Carocci, Roma 1983 e G.P. Brogiolo,

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IL METODO LEDOUX Caterina Padoa Schioppa >UNIROMA

Di realtà astratta ma minuziosamente e ossessivamente descritta, come quella rappresentata nello sconvolgente racconto di Paul Auster, parla l’oggetto che chi scrive desidera trasmettere nel paese delle ultime cose, la Maison des Directeurs de la Loue – la Casa dei Sorveglianti del fiume Loue – progettata dall’architetto francese Claude-Nicolas Ledoux tra il 1785 e il 1789. Situata alle sorgenti del Loue, a nord della città di Chaux, La Casa dei Sorveglianti è una macchina ambientale che interferisce con le acque torrentizie del fiume per captarne l’energia e per alimentare, a scala territoriale, la produzione industriale del sale nella Franca Contea di Luigi XVI. Si tratta di un ponte abitato da umani e dalla natura, un contenitore formalmente definito di funzioni eterogenee, apparentemente inconciliabili (come la sala da biliardo e il canale d’acqua sovrapposte al centro). Un genere ibrido, non ancora grottesco, come del resto altre architetture di Ledoux (le Guiguettes di Parigi, per esempio, insieme porte daziarie e case del piacere). Un piccolo manifesto di stereotomia in grado di affermare, nel rapporto fra natura e artificio, i due contrapposti principi di autonomia e di integrazione, e di conciliare architettura, paesaggio, ingegneria e un’idea di città in un unico condensato figurativo.

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Come sempre Ledoux combina con raffinatezza e ironia le ragioni simboliche – dare monumentalità all’ordinario – e le ragioni funzionali – la «pubblica utilità» della nascente società borghese, che in questi anni sta concependo a livello teorico e formale le proprie istituzioni e infrastrutture. Il vasto programma di industrializzazione e di educazione (o se vogliamo di «moralizzazione») sociale, ispirato agli ideali della Rivoluzione liberale, darà vita a quella colossale varietà di servizi – Michel Foucault usa il termine sciami per designare la proliferazione di cimiteri, ospedali, scuole, prigioni, mercati, borse, teatri fondati in quel periodo – di cui Ledoux, insieme ad altri suoi coetanei, è uno dei principali interpreti. In effetti, la Casa dei Sorveglianti è solo una delle 125 incisioni, che insieme alle 240 pagine di testo, compongono L’Architecture considérée sous le rapport de l'art, des mœurs et de la legislation, il monumentale libro – o «museo architettonico», come Ledoux stesso lo definì – pubblicato nel 1804, a pochi anni dalla nascita del primo museo (il Louvre, fondato nel 1793) e dell’Encyclopédie di Diderot, redatta e pubblicata nella seconda metà del XVIII secolo. Qui è raccolta tutta la collezione delle architetture pensate, immaginate (alcune anche realizzate) da Ledoux tra il 1780 e il 1802, essenzialmente per la città di Chaux e le Saline Reali di Arc-etSenans, ma anche per altre località e altri committenti. Più che un trattato di architettura L’Architecture considérée è un personalissimo romanzo erratico che, come scrive Anthony Vidler, usa il dispositivo del viaggio per «saldare realtà e utopia».1 Perché dunque scegliere di mettere in archivio un archivio? Perché in esso c’è qualcosa di sorprendentemente attuale. Esso infatti incarna un «metodo» col quale osservare o addirittura decifrare il nostro presente. Per cominciare, ci ricorda che l’antidoto al rigore è il rigore stesso. Come altri linguaggi – la musica e la matematica per esempio – anche l’architettura usa il rigore per approdare alla visione, all’invenzione, all’eccesso. E ci ricorda ugualmente che l’architetto fa teoria attraverso la pratica, ancorché in un regime di finzione, ovvero attraverso la laboriosa ricerca di forme, intese non solo come simboli ma anche come icone di relazioni. Se ne captiamo il significato più astratto – sia come singolo oggetto, sia come oggetto dentro un sistema urbano – la Casa dei Sorveglianti è molto più che una casa. Proprio come la Villa Malcontenta di Palladio e la Villa Garches di Le Corbusier per Colin Rowe,2 o le architetture di Terragni per Peter Eisenman, la Casa dei Sorveglianti è un diagramma da conoscere,

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Claude-Nicolas Ledoux, Maison des Directeurs de la Loue, 1785-1789 [Vista prospettica, sezione, prospetto, piante]

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da possedere, da manipolare per estrapolarne quella che alcuni chiamano «la scrittura bianca», la cartografia mentale di relazioni formali, funzionali e spaziali.3 Certo di diagramma si può ben parlare nell’architettura di Ledoux, che nel progetto delle Saline Reali di Chaux (1779) prefigura un Panopticon formato città. Una città che in una prima versione è pensata come struttura chiusa intorno a un grande spazio cavo, e in una seconda e definitiva versione come struttura aperta, che rinuncia all’unità e afferma l’autonomia degli elementi, anche se, ponendo al centro del semicerchio la Casa del Direttore, manifesta in modo dogmatico quel meccanismo di potere della società borghese, basato sul controllo visivo e sulla sorveglianza occulta e diffusa, che Foucault descrive in Sorvegliare e Punire (1975) e di cui il Panopticon di Jeremy Bentham (1791) rappresenta l’icona, il paradigma. E se è vero che il Panopticon è una «figura di tecnologia politica», che ha generato lo spazio moderno non solo delle carceri ma anche delle città, per dirla appunto alla Foucault, la Casa dei Sorveglianti può essere intesa come una figura di tecnologia ambientale e per questo merita, come forse tutte le macchine progettate da Ledoux, un attento studio. La Casa dei Sorveglianti, tuttavia, è importante soprattutto perché dà voce a un Ledoux disinteressato alla struttura complessiva della città e allo schema coerente, ovvero lo schema metafisico, cosmico, circolare della città ideale, che rimanda alla più classica immagine dell’immutabilità. Del resto, come scrive Giulio Argan in Progetto e destino (1965), «l’utopista è un essere stanco della vita storica» che rinuncia a vivere nella tensione, talvolta crudele, della storia. Nel progetto delle case Ledoux abbandona il principio scenografico, il punto di vista unico, la gabbia prospettica, l’effetto illusionistico, e comincia la sperimentazione nelle infinite forme dell’abitare. Le immagini del villaggio di Maupertuis, progettato dopo il 1784, mostrano che anche la tecnica di rappresentazione risente di tale cambiamento, prefigurando l’assonometria di Monge, che, come sosteneva Le Corbusier, mette in luce il carattere metamorfico delle forme. In questo montaggio privo di ordine gerarchico, si configura un universo pulviscolare, incompiuto, dove sono protagonisti il moto, la diversità, la crescita, e quindi la storia. Tale paesaggio incommensurabile e variegato è popolato da persone a cui si attribuiscono storie, e da case che portano un «nome» ad attestarne l’unicità. La Casa per un Uomo di Lettere, la Casa per un Operaio, la Casa

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per un Padre con Tre Figli sono solo alcuni dei molteplici oggetti parlanti raccolti nel libro di Ledoux, che sembrano rievocare la nomenclatura binomiale adottata da Linnèo per la classificazione scientifica alla metà del Settecento. Ma l’opera di Ledoux è molto più che un elenco di tipi, o una dogmatica tassonomia di forme. Oggi diremmo che sono prototipi, connotati da un codice genetico ben rintracciabile, e manipolabili attraverso operazioni topologiche per essere adattati alle condizioni mutevoli dei luoghi, per evolvere e ibridarsi. Le architetture di Ledoux sono numeri primi che associano a un programma una forma. Di essi scrive che sono «tanto variati quante forme esistono. Nessuno dovrebbe somigliare a un altro, anche se sono tutti composti nello stesso modo». In tal senso possono essere intesi come «diagrammi» di una vita potenziale, che rispondono al bisogno primordiale di distinguersi e di affermare la propria differenza. Nel liberarsi del superfluo, del posticcio, della decorazione e nel mettere a nudo la struttura, il rapporto fra le parti, Ledoux allude al principio di «separazione», di libera associazione di singoli elementi, contro l’universalismo dell’unità, dominata dall’ordine gerarchico e tipica del periodo barocco. L’affermazione della differenziazione però non significa l’annullamento di qualsiasi principio ordinatore. Come anticipato, in ogni pezzo della collezione è rintracciabile un sistema di relazioni ben preciso: relazioni geometriche, costruttive, funzionali, spaziali. Anche nel più semplice processo di decostruzione analitica risulta chiara la sintassi delle componenti formali, fortemente connotata da ragioni simboliche. Attraverso una sequenza specifica di soglie, ogni entità stabilisce un rapporto variabile di permeabilità, di simbiosi o di estraneità tra interno ed esterno. Al pari, ogni centro è una chiara metafora del modello di vita che si vuole trasmettere: il centro cavo della città, che è protetto ma senza scopo, il vuoto sublime al centro del cimitero, il centro denso di servizi condivisi per la casa comunitaria, la sala per la socialità nelle case più sfarzose. È chiaro che il suo è molto più che un trattato di architettura. Con i mezzi autonomi dell’architettura, attraverso la pratica dell’architettura e non per un dogmatismo aprioristico – potremmo dire attraverso un processo di immanenza, opposto alla trascendenza – Ledoux, come un combattente, propugna le sue idee politiche, sociali, religiose e morali, vicine a quelle più rivoluzionarie del tempo. È bene chiarire che l’uso iconografico che Ledoux fa dell’informazione è

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tra gli aspetti più controversi della sua opera. Applicando il principio di analogia, e attraverso quella che egli stesso definisce un’«appropriata manipolazione del modello», trasforma infatti l’architettura in una scrittura pittografica. La Casa Laboratorio dei Bottai, cioè dei costruttori di botti in legno, prenderà allora le sembianze di una doppia botte senza tuttavia contraddire la funzionalità, la regola strutturale. In effetti, questo principio non è solo il dispositivo narrativo con cui si spiega la feconda produzione di forme architettoniche, ma anche la matrice metodologica di una sperimentazione estrema e coerente, di un’esplorazione rigorosa e audace. In una conversazione con Rem Koolhaas all’Architectural Assocation – trascritta e pubblicata nel 2007 in un pamphlet4 – Peter Eisenman parla della differenza tra l’uso dell’informazione come indice iconografico che lascia quelli che Charles Sanders Peirce chiama «segni» (o simboli che dir si voglia), e dell’informazione come indice di trasformazione che governa le indagini all’interno del substrato dell’architettura. Ebbene, Ledoux lascia indubbiamente molti segni, ma non senza avere spinto la ricerca oltre i limiti del conformista apparato linguistico architettonico. Nell’Architecture considérée, ogni architettura incarna un’idea di società e riproduce quella intima tensione, molto personale e al tempo stesso universale, tra razionalità e sentimento, tra la ricerca di un ordine e l’affermazione della libertà, tra il bisogno di separatezza e quello di comunità. Più che una «città ideale» la sua è «un’idea di città», concretamente disegnata. Non è la «rappresentazione» di un’idea, ma la sua piena formalizzazione. Un diagramma nel senso deleuziano che non si limita ad alludere a una realtà virtuale, ma è anche in grado di prefigurarne l’attualizzazione, l’ingresso nel mondo contingente. Ledoux è stato definito «artista di frontiera» (una frontiera fisica e metaforica) perché ha vissuto in prima persona tutte le contraddizioni dell’epoca pre- e post-rivoluzionaria, ma anche perché con il suo eclettismo e il suo sagace positivismo, ha lasciato traccia di un pensiero fuori dal tempo. Del Ledoux precursore di teorie moderne e contemporanee si è abbondantemente scritto, soprattutto dopo il lavoro di «riscoperta» dell’architettura del secolo dei Lumi cominciato da Emil Kaufmann nel 1933 e durato più di trent’anni.5 A lui si deve l’attribuzione di una parentela intellettuale tra Ledoux e, fra gli altri, Adolf Loos e Le Corbusier, attorno al concetto di autonomia dell’architettura, opposto a quello di eteronomia e di unità. Ora, senza addentrarsi nel terreno quanto mai scivoloso delle parentele

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o delle presunte eredità, certo non può sfuggire che alcuni concetti presenti nell’opera di Ledoux – che, come detto, si compone di progetto e di testo – abbiano costituito un lascito per molti architetti del XX e del XXI secolo. Pensiamo a quelli già citati di autonomia, di differenzazione, di ibridazione, e altri che probabilmente sono qui tralasciati. Ma con la sua opera Ledoux trasmette qualcosa di ancora più immateriale che costituisce, almeno per chi scrive, un irresistibile richiamo. Nel sentirsi come un «Titano della terra» o addirittura un «rivale del Creatore» – «Ecco l’architetto avvolto nelle nubi» è quanto scrive accanto al Riparo del Povero, che riceve la munificenza non già dalle Muse ma dall’architetto – Ledoux dà la sua formula sul ruolo dell’architetto. L’architetto è chiamato a farsi laicamente interprete di un (inedito) rapporto di libertà e di responsabilità con la storia, con la natura, con la geometria, con il potere, con il piacere, con la diversità. In Ledoux amplificare l’architettura significa sublimare anche ciò che apparentemente è insignificante – «offrire al più piccolo oggetto tutto ciò che è ammissibile per il più grande» – non rendere ammissibile qualunque artificio. Qui è la differenza con la città generica – dell’informe o del purismo ideologico – abitata da infinite differenze. Con un accostamento improbabile alla Colin Rowe, viene in mente City of the Captive Globe (1972) di Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis, assemblaggio di pezzi unici, ma troppo fantasiosi per essere credibili, troppo astratti per prefigurare l’architettura. Più che un diagramma che evolvendosi può divenire architettura, questo è un ideogramma che rappresenta contenitori di processi di continuo e inafferrabile cambiamento. Alla visione intrisa di fiducia e di sentimenti di Ledoux – non dimentichiamo che il primo titolo del trattato era Architettura Sentimentale, contenente tutti i generi di edifici conosciuti nell’ordine sociale – nella più celebre teoria urbana della contemporaneità si contrappone una visione inesorabilmente cinica, arresa alle logiche del capitalismo più sfrenato, dove è bandita la recitazione dell’architettura e dove rimane solo il gioco che contraddistingue lo spettacolo in atto della città (recitazione e gioco che nella parola inglese play coincidono). Del resto, la metafora del teatro è molto efficace perché in esso sono presenti i due momenti, quello della formazione dello spettacolo – il re-citare, il ripetere il copione, il dare vita al personaggio – e il consumo dello spettacolo. Ecco un'altra ragione per portare nel paese delle ultime cose il libro di Ledoux: per non dimenticare di recitare l’architettura nel suo divenire.

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Note 1. A. Vidler, Claude-Nicolas Ledoux (17361806), Electa, Milano 1994. 2. C. Rowe, The Mathematics of the Ideal Villa and Other Essays, MIT Press, Cambridge MA 1976. 3. S. CassarĂ (a cura di), Peter Eisenman. Contropiede, Skira, Milano 2005. 4. B. Steele, Supercritical: Peter Eisenman Meets Rem Koolhaas, AA Publications, London 2007. 5. E. Kaufmann, Da Ledoux a Le Corbusier, Mazzotta, Milano 1973.

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THE WAY THINGS GO Francesca Pignatelli >UNICH

The Way Things Go è un cult nel genere della videoarte. È un film della durata di 30 minuti, realizzato dagli artisti svizzeri Peter Fischli e David Weiss, nel 1987. Il film documenta la reazione a catena che si sviluppa tra una serie di oggetti di uso quotidiano tra cui pneumatici, sacchetti di spazzatura, vecchie scarpe, sapone, scale, disposti dagli artisti all’interno di un magazzino, lungo un percorso di circa 100 metri. Un sacco per la spazzatura appeso ad un cavo scende lentamente ruotando su se stesso fino a sfiorare uno pneumatico che a sua volta comincia a rotolare fino a intercettare altri oggetti disposti lungo il percorso e lasciando al fuoco, l’acqua, la chimica, la forza di gravità, il compito di determinare il proprio ciclo di vita. È solo una delle scene che si susseguono in un effetto domino continuo, in un’infinita lotta tra ordine e caos. In trenta minuti le sequenze video catturano l’attenzione dello spettatore e lo invitano a riflettere sul "corso delle cose", sul rapporto causa-effetto, sulla precisione e sull’imprevedibilità, l’errore e la contingenza, sul senso e l’autonomia degli oggetti quotidiani. The Way Things Go ha inoltre la capacità di comunicare il piacere che gli

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artisti provano nel processo di produzione dell’arte: la concatenazione di eventi, in apparenza dati solo da fenomeni fisici naturali, nasconde invece una presenza molto forte degli autori, un’azione di controllo, cura del dettaglio e rischio allo stesso tempo. Questo lavoro, pur utilizzando il linguaggio cinematografico, suggerisce analogie con le pratiche di riciclo e il ruolo che in esse assume l’architetto: innescare processi / interrogare gli oggetti / smontare e rimontare / aprirsi all’imprevedibile e all’indeterminato / sperimentare. Due le questioni più rilevanti, messe in evidenza da Hans Ulrich Olbrist, critico e curatore che ha fatto dell’archivio uno dei suoi strumenti di lavoro privilegiati, il quale ha conosciuto e intervistato Peter Fischli e David Weiss proprio mentre lavoravano a questo film.1 La prima questione riguarda la constatazione che le sequenze chimiche e fisiche da loro messe in campo propongono in realtà un’allegoria della contingenza e dell’entropia. A ogni passaggio del film infatti, lo spettatore si chiede preoccupato come andrà avanti, ma con la netta sensazione che il trasferimento di energia risolutiva sia impossibile da ottenere. Se il disfacimento e il caos sembrano sempre imminenti, spesso proprio le irregolarità e le eccezioni impediscono al sistema di arrestarsi. Contingenza, entropia, energia sono tre termini ricorrenti in Re-cycle. Ogni azione di riciclo, intervenendo sul dato materiale, necessita di un trasferimento di energia il cui controllo ne determina il risultato in termini di efficienza, di convenienza economica e, più in generale, di "sostenibilità ambientale". In un’accezione etica ed ecologica del riciclo, in riferimento agli ambienti urbanizzati ad esempio, ogni azione dovrebbe tendere ad una riduzione dell’entropia del sistema. La misura dell’entropia (sinteticamente definibile come la quantità di energia non più disponibile in un sistema chiuso) ha contrapposto il concetto di limite a quello della crescita infinita ed è un indicatore importante per migliorare i processi di riciclaggio. La seconda questione rilevata da Olbrist risiede nell’illusione, suggerita proprio dal film, che gli oggetti abbiano misteriosamente conquistato l’indipendenza dal controllo umano. The Way Things Go vuole infatti apparire come un viaggio durante il quale gli oggetti più banali portano avanti l’azione. Ribaltando il punto di vista, potremmo anche dire che siano gli artisti a interrogare gli oggetti. La riflessione sul potere inaspettato delle cose rimanda ad una serie di esperienze che dal ready-made duchampiano, punto di svolta indiscusso

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Peter Fischli, David Weiss, The Way Things Go (Der Lauf der Dinge), 1987

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per l’arte del Novecento, conducono a un altro duo di artisti-architetti: Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio. Sono note alcune installazioni realizzate nella seconda metà degli anni Ottanta, in cui Diller e Scofidio, provano ad insidiare la consueta percezione dell’ambiente domestico, attribuendo agli oggetti della casa nuove capacità rivelatrici. Nell’installazione The with-drawing room, eseguita a San Francisco nel 1988, Diller e Scofidio indagano il tema del familiare, mettendo in scena le insidie più sottili che questo termine può nascondere. Nell’opera sono presenti gli elementi di base della vita quotidiana, come letti, tavoli, sedie che però, a ben guardare, vengono utilizzati in modo non abituale. Le sedie sezionate minacciano il corpo (seduto) in quello che è il suo punto più vulnerabile riportando alla memoria la macchina da scrivere di Kafka che incideva il nome della punizione direttamente sulla carne della vittima.2 Gli oggetti, abitualmente percepiti come sottomessi, rivelano il proprio potere e la propria autonomia che consiste anche nel contrattaccare l’uomo stesso. Il lavoro di Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio riprende il metodo della scrittura automatica delle generazioni del ready-made (ovvero l’aggregazione non consequenziale di frasi, o immagini, o oggetti tratte da un universo immaginativo il più vasto possibile), per smontare, dissezionare, confrontare i sistemi codificati del corpo, della casa. Gli oggetti che popolano le installazioni di Diller e Scofidio non svolgono la funzione di servi, né quella di padroni, limitandosi a rivelare, e a sbucciare gli strati di copertura dietro ai quali si cela il consumatore. Le televisioni vengono sventrate e i loro tubi, i fili e i collegamenti lasciati a nudo; sventrate e ferite, queste macchine appaiono da un lato deboli, ma al tempo stesso "minacciose quando ostentano l’enorme potere del microrganismo costruito tecnologicamente; quando questo microrganismo invade la casa".3 Le riflessioni di Diller e Scofidio trovano un punto di partenza nei lavori di Vito Acconci. A metà anni Settanta, Acconci abbandona la pratica artistica della performance per dedicarsi alle installazioni e nel 1976 realizza l’opera dal titolo Where we are now, nella Sonnabend Gallery di New York, che riproduce uno spazio domestico non convenzionale. L’installazione consiste in un tavolo che, sporgendo in parte dalla finestra, funge anche da trampolino e intorno al quale sono sistemati degli sgabelli per i commensali in attesa che uno di loro decida di lanciarsi nel vuoto. Dall’altoparlante posto al centro della sala, l’artista pone al pubblico delle domande.

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Procedendo ancora a ritroso, tutto ciò è riconducibile al Surrealismo con l’oggetto-sentimento, che si contrappone all’oggetto-tipo modernista, concepito invece per rispondere, come un docile servo, a bisogni-tipo dell’uomo. Nel collage dal titolo Le phénomène de l’extase, pubblicato in Minotaure nel 1933, Salvador Dalì, accosta un gran numero di corpi (fotografie e sculture) all’immagine di una sedia rovesciata, vuota "come se avesse scaraventato fuori dall’immagine il suo contenuto".4 L’oggettosentimento surrealista è espressione dunque di una realtà interiore o del desiderio onirico e per questo dotato di una sua autonomia. Re-cycle si muove tra queste due posizioni antitetiche, richiedendo un approccio nuovo nei confronti delle "cose", uno sguardo in grado di leggerle nel loro essere "materia" e al tempo stesso "prodotto culturale". Inconsapevolmente certi della finitezza dell’ambiente in cui viviamo, ci muoviamo in esso come i cercatori di oggetti del romanzo di Paul Auster da cui questo seminario prende il nome,5 alla continua ricerca di oggetti rotti o scartati, dove nulla è più come prima ma ad un certo punto limite tutto ricomincia a fondersi di nuovo. Secondo l’autore nello stato di rovina le differenze tra i frammenti di oggetti tendono ad annullarsi e il cercatore di oggetti deve salvarli prima che raggiungano lo stato di assoluta rovina. «Tutte le cose deperiscono, ma non in ogni parte di ogni cosa, almeno non allo stesso tempo. Il lavoro consiste nel centrare queste piccole isole intatte, nell’immaginarle unite ad altre isole simili, e queste ad altre ancora, e quindi creare nuovi arcipelaghi di materia. Devi salvare il salvabile e apprendere a ignorare il resto. Il trucco sta nel farlo il più velocemente possibile».6 Il ragionare per contingenze, per decisioni rapide, così come sembrano fare Fischli e Weiss nel film, rimanda a una concezione del tempo fortemente ancorata al presente. Il viaggio compiuto dagli oggetti in The Way Things Go è apparentemente senza inizio né fine, proiettato in un futuro meglio definibile come "presente continuo",7 espressione di una cultura fondamentalmente impegnata a gestire le più diverse crisi piuttosto che ad elaborare visioni utopiche. La principale caratteristica è quella delle decisioni real time: attraverso la tecnologia, i social network, l’accesso totale, tutto accade "qui e ora". È interessante notare come ciò riguardi anche l’atto del salvare. «Viviamo in un universo mela+s, una società in salvataggio automatico nella quale la registrazione e l’archiviazione dei fatti culturali sono estese e sistematiche», scrive Nicolas Bourriaud nel suo ultimo saggio Il radicante.8 «Se tra

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tutte le industrie della società dei consumi […] "lo smaltimento dei rifiuti è la più massiccia", si potrebbe altrettanto dire di quella che la riflette, ossia l’industria del salvataggio: così una fitta serie di riviste, musei, cataloghi, siti internet rende il mondo dell’arte una sorta di hard disk che immagazzina le produzioni più precarie, le riprocessa e le utilizza».9 Questa riflessione attribuisce ancora più importanza all’atto dello scegliere e del salvare e all’archivio come dispositivo progettuale in grado di guidare questa scelta verso una nuova estetica. Epilogo La bobina originale del film The Way Things go è stata venduta dal precedente proprietario per 860.000 dollari insieme ad una serie di oggetti del set del film, in un’asta a Zurigo. Peter Fischli e David Weiss nel 2003 hanno minacciato un’azione legale per plagio contro l’azienda automobilistica Honda, con l’accusa di aver "rubato" loro l’idea nel celebre spot pubblicitario "Cog" creato dall'agenzia Wieden + Kennedy di Londra, che a causa di questa polemica, non si è aggiudicato il prestigioso Grand Prix del Festival di Cannes nel 2004.10 L’inclusione del video The way things go in un archivio di memorabilia il cui scopo, forse, non sarebbe tanto quello di conservare la memoria, piuttosto di produrla, richiama dunque l’attenzione anche sul problema dell’autorialità dell’opera, che si conferma essere una delle questioni teoriche più centrali di Re-cycle.

Note 6. Ibidem, pag. 34. 7. Cfr. D. Rushkoff, Presente continuo. Quando tutto accade ora, Codice Edizioni, Torino 2014. 8. Nicolas Bourriaud, Il radicante, Postmedia books, Milano 2014, pag. 86. 9. Ibidem. 10 Si veda: Alex Brunori, Meccanismi di citazione: The way things go, from Fischli & Weiss to Honda, in «Engramma» n. 126, aprile 2015.

1. Si veda: H.U. Olbrist, Fare una mostra, UTET, Torino 2014. 2. A. Vidler, Case per Cybor. Protesi domestiche da Dalvador Dalì a Diller e Scofidio, in «Ottagono» n. 96, 1990, pp. 36-55. 3. Ibidem. 4. Ibidem. 5. P. Auster, Nel paese delle ultime cose, Einaudi, Torino 2003.

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SOUVENIR Anna Riciputo >UNIROMA

La banalità è miracolosa se vista nel modo giusto, se riconosciuta. Charles Simic Celebrare il souvenir è fare l’apologia della cianfrusaglia. Trovarne il valore è un’illusione positiva: parafrasando Mme de Châtelet,1 essa non ci inganna perché non cela ma riporta ai nostri occhi ciò che la non-utilità ha nascosto. Non-utilità vuol dire potenzialità: svincolato dalle necessità della funzione, il souvenir diventa oggetto in sé, pura forma – una palla con la neve, una tazza, un abat-jour, un grembiule, una statuetta – potendo così essere riconvertito e riciclato all’infinito. Il souvenir è vittima del sistema commerciale di cui è sovrano: serialità, mercificazione, afunzionalità lo rendono parte di quel superfluo sociale di cui non si può fare a meno. Gustav Pazaurek definisce il Kitsch basandosi sul principio di falsificazione catalogandone cinque tipologie – patriottico, religioso, da regalo, commerciale e sociale: il souvenir le contempla e le onora tutte.2 Il verbo francese souvenir, utilizzato come sostantivo, è l’evoluzione metaforica del latino subvenire, venire in aiuto, che da atto fisico diventa un atto mentale: il souvenir è un oggetto che viene in soccorso della memoria che cede nel

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tempo, è un segmento di passato che si proietta nel futuro. Il souvenir definisce ed è definito dall’identità di un popolo. Esso lavora per icone, intese come portavoce di un’unicità collettiva che si muove verso la coscienza e la conoscenza degli stranieri. L’icona può essere un luogo, una persona, un oggetto o un pensiero socialmente individuato come inequivocabilmente distinguibile; è quell’elemento naturale o culturale che crea un legame biunivoco tra identità e riconoscibilità. L’icona supera l’estetica e la storia diventando idea. Nel souvenir tutto serve a creare stupore e conforto, l’identità a portata di mano esalta e rassicura. Il souvenir parla chiaro, non sbaglia, non confonde. Quando l’icona è una persona, il suo valore rappresentativo raddoppia. Oltre a essere parte e simbolo del sistema culturale che l’ha generata – l’immagine di Elvis Presley è legata a Las Vegas per circostanza e a quella di King of Rock per essenza – essa è primariamente simbolo di se stessa e il corrispondente souvenir si evolve in memorabilia, proiezione della personalità di colui che lo acquista. Attraverso il souvenir ad quendam memorandum il collezionista cerca di stabilire con il soggetto un contatto che supera il ricordo attraverso la stipula di un legame profondo che può spingersi fino all’impersonificazione. In questo, l’aspetto emotivo-psicologico del souvenir prende il sopravvento sugli aspetti economici e materiali, sovraccaricando di significato oggetti che spesso non possiedono alcun valore monetario o artistico. Il memorabilia è la sublimazione del souvenir per la soddisfazione di un feticismo. Una cultura si rivela anche attraverso un gusto, che per la sua doppia accezione di "maniera" o "preferenza" rivendica – senza voler in questa sede approfondire questioni di estetica – una breve quanto tendenziosa riflessione sulla «forza inconscia»3 del volgare come manifestazione spontanea dell’animo umano. Il souvenir è l’immodificata testimonianza di un esprimersi popolare il quale, sfuggendo ai ripensamenti intellettuali, non passa mai di moda perché non è di moda mai. Trattazioni sistematiche e argomentate sulla questione del gusto si affacciarono in filosofia quando i pensatori illuministi prekantiani cominciarono a interrogarsi su quale sensibilità potesse essere definita di buon gusto. Secondo alcuni studi sugli scritti di David Hume, Voltaire e D’Alembert,4 il buon gusto era considerato un requisito ad appannaggio esclusivo dell’èsprit cultivé, ovvero di colui che era stato educato alla bellezza e alla grande arte. «Il volgare è il sublime del popolo, che ama vedere cose per lui e alla sua portata».5 Il cattivo gusto appaga i desideri dell’anima sincera, è il rifugio del semplice,

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Souvenir. Martin Parr, Fotografia e Collezionismo, mostra curata da Juan Pablo Wert presso il Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona, 29 maggio / 21 ottobre 2012 [Foto: Anna Riciputo]

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è quell’illusione che mostra agli occhi degli ingenui le cose come dovrebbero essere per la loro felicità,6 è l’espressione del nucleo psicologico più profondo e primigenio dell’essere umano e, in quanto tale, ci appartiene quanto noi gli apparteniamo. Al cattivo gusto si legano il sentimentalismo, l’emotività, l’istintualità, aspetti introspettivi alieni alle restrizioni della ragione o ragionevolezza voltairiana: con questi si definisce il folklore, insieme di tradizioni, gesti e racconti, che costruiscono non la storia – costituita da fatti – ma la continuità di un popolo. Alcuni artisti hanno saputo riaccogliere, esasperandoli, alcuni stereotipi culturali ai quali appartengono riconvertendoli in tendenza: le fotografie di Martin Parr, le sculture di Rutger van der Velde, le collezioni di Dolce e Gabbana ed Elio Fiorucci, solo per citarne alcuni. Alle categorie dell’irrazionale e del sentimentale appartengono anche religione e superstizione: dalla linea d’orizzonte sulla quale sacro e profano si congiungono il souvenir fa capolino. Dalle mete dei pellegrinaggi cattolici alle cattedrali protestanti, dalle feste messicane in onore della Santa Muerte alle bancarelle dei presepi in via San Gregorio Armeno a Napoli, ci si può portare a casa un oggetto che oltre al ricordo rechi con sé benedizione e fortuna. Il souvenir diventa un ex voto al contrario: non è un ringraziamento quanto una speranza di benevolenza. Una forma particolare di souvenir-identitario è il cinema. Se Antonio Pietrangeli nel film Souvenir d’Italie del 1957 ha provato a dare uno scorcio dell’Italia attraverso le immagini-cartolina delle città d’arte, il ritratto cinematografico che l’Italia – attraverso Roma – aveva scelto per sé era La dolce vita (1960) di Federico Fellini e quello che Hollywood aveva scelto per l’Italia era Vacanze romane (Roman Holiday, 1953) di William Wyler. La sensualità di entrambi è stata soppiantata, sessant’anni dopo, dal sordido edonismo della Grande Bellezza (2013) di Paolo Sorrentino e dalla noncurante ovvietà di To Rome with love (2012) di Woody Allen. In queste pellicole Roma agisce come un’attrice: è visiva e sonora (si ricorda la scena in cui Anita Ekberg, avvicinandosi alla fontana di Trevi ne sente il rumore prima di vederne la forma), ed è grazie alla sua architettura che le storie trovano senso e non il contrario. E così per ogni regista, ogni popolo, ogni paese. Il souvenir governa anche l’identità di chi lo compra: si profila la differenza tra viaggiatore e turista. Se la sua unica utilità è quella di oggetto-stampella per la memoria, ognuno può scegliere come memento l’oggetto che preferisce. Anche in questa scelta, vige la vanità da cultivé: il viaggiatore porta a casa testimonianze, il turista souvenir. Il primo scruta negli an-

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fratti della cultura straniera per carpirne un dettaglio privato; il secondo lascia che sia questa a scegliere per lui, se spaghetti sono che spaghetti siano. L’uno – si potrebbe dire – ha un atteggiamento attivo nel confrontarsi con l’esterno, i suoi sensi fungono da diaframma tra se stesso e una nuova realtà contaminante; l’altro ha un atteggiamento passivo, si pone come l’osservatore di uno spettacolo di varietà che guarda senza lasciarsi attraversare. Il viaggiatore cerca, il turista si fa trovare. Eppure, il gesto metafisico del sovvenire si attua lo stesso: l’oggetto-idea svolge il suo compito, attraverso l’ἰδεῖν permette di vedere con la mente prima che con gli occhi; qualunque forma esso abbia, attiva il pensiero con gli stessi automatismi, intensità, validità. La memoria custodita dal souvenir è molteplice: c’è quella di chi lo regala, che porta un pensiero lontano; c’è quella del luogo da cui proviene, che lavora per simboli; c’è quella di chi lo riceve, che acquisisce le prime due; c’è quella di chi lo ritrova, che aggiunge, o sopperisce a, sensazioni con l’immaginazione. È compresa anche quella che potremmo definire una memoria testimoniale: quando gli oggetti di riferimento non esistono più – architetture distrutte, riti desueti, persone scomparse e simili – il souvenir ne diventa una rappresentazione, più o meno fedele, con valore documentale. Il rapporto tra oggetti, consumismo, società e città descritto nei libri di Paul Auster, T.S. Eliot e Alfred Kubin, in una ipotetica trilogia della distruzione,7 perviene a una critica sociale non dissimile da quella del Diluvio di David La Chappelle, dalle provocazioni dei Radicali, dalle architetture da guerra di Lebbeus Wood, dalle macerie di Giacomo Costa. Le potenzialità del souvenir superano il nichilismo distopico per proiettarci in un futuro possibile. Attraverso esso scopriamo azioni progettuali, ci divincoliamo dalla definizione di bello canonico, individuiamo i caratteri identitari di un contesto nel suo duplice aspetto fisico e culturale e, attraverso l’icona, impariamo a trasmetterli alle nuove architetture affinché ne diventino componenti efficaci. Compositivamente, per quanto un souvenir possa sembrare un oggetto ottuso, esso contiene in sé una precisa progettualità, che con la Pop Art e la Neoavanguardia degli Anni Sessanta, verrà codificata e resa ufficialmente colta attraverso delle azioni esatte: spaesamento (si tratta sempre di un oggetto che rappresenta un altro oggetto tirato fuori dal proprio contesto); trasposizione di scala (monumenti rimpiccioliti, dettagli ingranditi); montaggio e/o assemblaggio; alterazione del materiale (la Tour Eiffel di

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plastica); colorazione eccessiva e stridente; contaminazione tra gli stili; comunicazione (esso è portatore universale di significati precisi, sfugge al confine linguistico grazie a una riconoscibilità che lo rende trasversalmente cittadino del mondo). Queste azioni, riportate in architettura, determinano la possibilità di agire con le forme, le proporzioni e i materiali superando la semplificazione della ricerca figurativa catalogabile attraverso gli -ismi. Esteticamente, il souvenir ci insegna che la distinzione tra buono e cattivo gusto non è più sufficiente, profilando la necessità di riconsiderare le categorie del giudizio. Se gli operatori dell’arte posseggono le doti per definire il buon gusto, posseggono anche quelle per definire un nuovo gusto: nel 1964 Susan Sontag, delinea il Camp: «L'essenza di Camp è il suo amore per l'innaturale, per l'artificio, per l'eccesso».8 La pietra filosofale che trasforma il Kitsch in Camp, è – secondo chi scrive, in opposizione alla Sontag – la consapevolezza. Se il Kitsch non sa di essere tale – è la vanità della trivialità – il Camp è la sublimazione del brutto elevato a diversamente bello, è il grottesco depurato dall’orrore, il feticismo dalla salacità. Questa consapevolezza agisce attraverso l’inversione: ciò che è serio diventa frivolo e viceversa. In architettura Robert Venturi nel 1974 introduce "l’estetica del brutto e ordinario".9 Quaranta anni dopo si può ancora imparare da Las Vegas, distinguendo gli errori dalle potenzialità. In Lina Bo Bardi, il "diritto al brutto"10 parte da figurazioni popolari senza passare dal Pop – e dal Kitsch – fondendo caratteri europei e brasiliani in un linguaggio ossimorico in cui la bellezza è rimandata al significato dell’architettura. Vittorio Gregotti definisce il Kitsch come una svalutazione di senso degli oggetti e, in riferimento alla città, come la «[...] trasposizione di interi monumenti trasformati in scenografie dentro contesti urbani del tutto impropri. È il disprezzo di un’altra specificità, quella dei luoghi, della loro storia e del loro valore».11 In questi approcci, il focus argomentativo viene spostato dall’aspetto al senso degli oggetti, definendo un metodo valutativo più preciso ed esatto. Data l’impossibilità di arrestare le mutazioni della sensibilità estetica, secondo chi scrive, la crisi del contemporaneo va ricercata nello scollamento tra la volontà contemplativa moderna – quello che ci si aspetta di vedere qui e ora – e la qualità abitativa – che anche nell’epoca delle smart city coincide con il "decor" vitruviano. I nuovi "fatti urbani" – le cui caratteristiche dimensionali e caratteriali spesso impongono come landmark – con-

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tribuiscono alla costituzione identitaria della città attraverso un processo inverso a quello che avviene nel souvenir. Per attivare questo processo di iconicizzazione l’architettura/oggetto deve essere contemporaneamente attrattore, comunicatore e trasmettitore. Attrattore in quanto aggettivo superlativo di riconoscibilità; comunicatore in quanto portatore di un significato che supera il segno (in questo ci si discosta dal binomio segno-insegna rintracciato da Robert Venturi come elemento sufficiente alla comunicatività) e trasmettitore in quanto capace di inserirsi in una continuità fisico-culturale diventando permanenza (questo inserimento non deve avvenire per mimesi, il diverso è accettato se il confronto è correttamente impostato). In questo modo, l’architettura dialoga con la città con un linguaggio che essa e i suoi abitanti possano comprendere, senza rifugiarsi in passatismi o in utopie. Nel paese delle ultime cose, il souvenir ci prefigura chi saremo ricordandoci chi siamo stati e, a volte, chi non vogliamo essere.

Note 1. «[L’illusione] non ci fa vedere le cose come sono, ma come dovrebbero essere. Così come le illusioni che può darci la vista; essa non ci inganna perché ci mostra le cose come noi vorremmo che fossero per la nostra utilità» in M.C. Leuzi, Mme du Châtelet. Discorso sulla felicità, Sellerio, Palermo 1992, pag. 45 citato in R. Campi, Divagazioni sui temi voltairiani. Gusto, stile, lusso, ironia, in «Montesquieu.it» n. 3/2011, pp. 117-139. 2. Cfr. A. Mecacci, Il Kitsch, il Mulino, Bologna 2014, pp. 73-74. 3. Cfr. ivi, pag. 19. 4. Cfr. R. Campi, cit, ci si riferisce in particolare all’affermazione: «Lo standard of taste, si riduce, in ultima istanza, all’opinione professata dall’uomo di gusto», pag. 118. Si confronti anche: A. Mecacci, cit., pp. 18-21. 5. Montesquieu, Goût, in Encyclopédie [1757] citato in A. Mecacci, cit., pag. 19 e pag. 55 in

nota n. 7. 6. Cfr. nota 1. 7. Cfr. F. Pedone, Terre desolate, in «Fili d’aquilone» n. 6 aprile/giugno 2007. 8. S. Sontag, Note sul Camp [1964], in Id., Contro l'interpretazione [1966], Mondadori, Milano 1967. Si legge ancora: «Camp è una forma particolare di estetismo. È un modo di vedere il mondo come fenomeno estetico». 9. Cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Imparare da Las Vegas [1972], Quodlibet, Macerata 2010. 10. Cfr. L. Semerani, A. Gallo, Lina Bo Bardi. Il diritto al brutto e il SESC-Fàbrica da Pompéia, edizioni Celan, Napoli 2012. 11. V. Gregotti, Il Kitsch urbano, in G. Dorfles, Kitsch. Oggi i Kitsch, Editrice Compositori, Bologna 2012, pp. 18-19. Sul Realismo Critico cfr. V. Gregotti, L’architettura del realismo critico, Laterza, Bari 2004.

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ARCHITETTURE, STORIE, LUOGHI



IL SENSO DEL RI-CICLO PER LE STORIE

Enrico Formato >UNINA

La triade "Architetture, Storie, Luoghi" – tema di uno dei tavoli tematici della giornata di studio – delimita un campo vasto, complesso quanto insidioso, di potenziali memorabilia. Il plurale usato per ognuno dei termini connota di certo fortemente il senso della riflessione che, orientata dai temi del ri-ciclo (re-cycle), si ritrae dal campo delle astrazioni, assumendo l’immanenza del presente come radice. Una prima insidia è così evitata; il paese delle ultime cose non può essere il posto dove portare l’"Architettura" né la "Storia" né alcun Genius loci. Appare invece come un mondo di architetture vere, con i loro intonaci talvolta cadenti o i riflessi scintillanti dell’acciaio; sequenza di storie sopravvissute alla bulimia da social-network, riecheggio di particolari luoghi, ognuno dei quali porta con sé odori, luci, rumori. L’immagine di questo paese non è univoca: mostra un’oscillazione figurale pressoché sterminata, dalla calda congerie di una soffitta straripante di ricordi, al freddo archivio ordinato del collezionista. Ciò che è chiaro è il carattere finito delle "ultime cose". Tre, dieci o mille: in ogni caso l’arca del ri-ciclo non può contenere tutto. Questa finitezza comporta l’esigenza di scegliere, discriminare ciò che va salvato da ciò che è

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necessario destinare all’oblio. Si staglia di fronte all’architetto la responsabilità della selezione. Utilità, bellezza, affezione, empatia, semplice casualità: quale sarà il modo delle scelte? Partendo dai centoventi contributi pervenuti e dalle altrettante immagini della mostra, provo a tratteggiare una sintetica trattazione in relazione al termine mediano della triade oggetto di riflessione: la parola "storie". Le riflessioni proposte dalla moltitudine di autori e dai relatori selezionati al tavolo, oscillano, a mio parere, tra due estremi: l’uno propriamente narrativo, che produce racconti legati a vicende autobiografiche e/o ad epopee collettive, racconto di ciò che è stato come monitum o exemplum per il futuro; l’altro, specularmente oggettivista, fondato sul tropo della sineddoche, che assume a feticcio un frammento a significare un mondo (i suoi prodotti sono i souvenir ma anche le medaglie di guerra o le coppe trionfali). Racconta storie di oggetti alludendo ad ambienti e narrazioni più complessi e vasti. Il primo orientamento – che potremmo dire "delle storie" – è connotato da sfumature piuttosto nostalgiche, tende ad una visione soggettiva, del tipo «io ricordo», «anch’io ho vissuto», «si tratta di una storia esemplare perché…». Oppure, in alternativa o anche intrecciando i registri, carica la sequenza narrativa di passaggi epici (trasformando la storia in epopea). In quest’ultimo caso, ferma restando la struttura del discorso, il soggetto narratore s’identifica con un tendenzioso «noi». Il carattere di queste narrazioni conferma ciò che scrive Ermanno Rea ne La dismissione: «devi riuscire a fare un inventario delle cose perdute»1. Ovvero, parafrasando lo scrittore napoletano: «scrivere è solo questo. Inventariare ciò che non c’è più».2 Così, le proposte per il futuro partono dal passato, dalle limacciose assenze del "non più" o del "come poteva essere". Le storie si pongono come veri e propri frammenti letterari e, anche presentando precipui caratteri strumentali, sconfinano non di rado in una pur vaga funzione pedagogica; ciò che Lukács individua come «equilibrio tra attività e contemplazione, volontà d’intervento nel mondo e capacità di riprodurlo fotograficamente».3 Il secondo orientamento emerso dalla discussione – chiamiamolo per semplicità "oggettivista" – oscilla tra una minimale, quasi gozzanesca attenzione per le buone cose (talvolta pur di pessimo gusto), e la proiezione verso un futuro lontano, dal tono visionario. Entrambi i registri assumono il dato figurativo come preponderante, trasformando l’oggetto in reperto; attribuendo allo stesso un surplus di significato rispetto all’ordinamento semantico di provenienza.

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Nel caso delle buone (piccole) cose il significato dell’oggetto rimanda al mondo da cui le stesse sono tratte, secondo il meccanismo testimoniale consueto dei memorabilia. Così, ad esempio, si potrebbe decidere di portare nel paese delle ultime cose alcune architetture o, a seconda dello spazio a disposizione, alcuni loro frammenti; salvaguardare taluni luoghi, preservandoli dalla scomparsa che il tempo ed il mutare dei tempi comportano. Dislocare frammenti di vita reale in uno spazio altro, simile al museo che la cultura illuministica pensò come edificio della vita pubblica. Operare come archeologi, mediante la selezione di manufatti da esporre a ricordo del mondo in dissoluzione (cosa fa nel suo romanzo Paul Auster se non accelerare iperbolicamente il corso del tempo?). Accompagnare ogni oggetto con il racconto della sua storia, strettamente dedicato alla descrizione della sua fattura e al suo uso originario, oppure, in alternativa, eleggere un luogo particolare a sede dei memorabilia più stravaganti connessi a quel medesimo sito, come nel Graceland Memorial dedicato ad Elvis Presley, visitato da seicentomila persone ogni anno «(to) see where Elvis lived, relaxed and spent time with his friends and family».4 Una storia, un luogo, addirittura un'architettura – la villa di Elvis nei sobborghi di Memphis – intrecciati in una eterotopica finzione, un pezzo d'America di quarant'anni fa trasportato nel mondo contemporaneo. Effettivamente anche questa è un'ultima cosa sottratta al disfacimento. Di contro, la proiezione di un frammento in dissoluzione (ad esempio un aeroporto dismesso, un canale tombato, un tessuto urbano sottoutilizzato) verso un futuro in cui il suo senso muta, persino si ribalta, grazie all’immissione di usi alternativi e alla costruzione d’inedite relazioni sistemiche. Così il ri-ciclo si orienta verso la costruzione di un atlante di oggetti da risignificare, l’elaborazione di strategie territoriali caratterizzate eticamente, organizzate su logiche sistemiche e di razionalizzazione delle risorse. Raccontare le storie di trasformazione di questi reperti moderni rischia però, se il racconto si sposta sulle strategie generali, di assumere caratteri fantasy (fantascientifici), a causa dello iato esistente tra le condizioni reali e le proposizioni future. D’altro canto, se si sposta l’attenzione sull’oggetto, il salto nell’iperrealismo e nell’adattamento "epidermico" a parità di conformazione ai nuovi usi è sfida affascinante quanto "generica", nel senso di generalmente applicabile. Torna dunque il tema della scelta: visto che non tutto va riciclato, quali sono gli oggetti da sovvertire nella forma e proiettare nel futuro "delle ultime cose"?

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Non sempre a dire il vero la scelta è possibile. Talvolta la soluzione giusta evita il dilemma modificando i termini generali del quesito. In questo senso appare promettente ed affascinante la sfida di un paese delle ultime cose "senza storie". La posizione che sostengo è che in questo particolare anfratto del re-cycle non ci sia proprio spazio per le storie – una scelta di fondo, da sperimentare nella pratica dei nuovi cicli di vita per gli spazi, gli elementi, i brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso e attenzione – ma solo per un numero peraltro non infinito di oggetti (ed idee). Tuttavia, scegliere tra souvenir o outil forse non centra il senso della sfida. C’è difatti da considerare la natura oggettiva del problema: il carattere sfuggente degli oggetti che nella narrazione di Paul Auster viene raccontato come progressivo ma inarrestabile sfocamento e dissoluzione. Allora il tema – già problema, per la cultura italiana, ossessionata dalla memoria persino nel secolo della rottura moderna con il tempo storico: il nostro, differente, Novecento – mi sembra non tanto quello di salvare oggetti quanto, invece, di portare nel futuro ciò che è utile a creare (costruire, nel senso tedesco di bau) altri oggetti, così da far fronte alla maledizione dello svanimento, cioè all’azione implacabile del tempo. Portare nel futuro il senso delle cose, le tecniche per la loro riproduzione, la giustezza delle loro potenziali reciproche relazioni. Questa posizione sposta il fuoco delle storie dal riecheggio del passato e dall'ossessione per la memoria, al presente e all’immanenza della produzione. Si evita così ogni tentazione contemplativa, romantica, formalista. Si immunizza preventivamente la prassi del ri-ciclo dal senso ruskyniano della rovina che ogni oggetto, estrapolato dal suo contesto di appartenenza rischia di assumere. Un’immagine particolarmente evocativa attinente al discorso sostenuto deriva da Fahrenheit 451,5 dove la difesa vincente contro la distruzione dei libri è fornita dalla loro introiezione nella memoria degli "uomini-libro", capaci di tramandarne parola per parola ogni pagina. Non l'oggetto né la sua storia ma esclusivamente le "storie" estratte filologicamente dai testi, deprivati del proprio carattere materico ed assurte a memoria collettiva. Una sorta di dissoluzione preventiva, accompagnata da una solida strategia orientata al futuro, per una sua consapevole trasformazione. Questa sembra la sfida impellente rispetto alla quale investire le nostre energie di ricerca e progetto. Integrando il presunto carattere salvifico dell'archivio e della provenienza con una propensione alla produzione di concetti operativi, persino capaci di destabilizzare l'attuale stato delle cose.

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Note 1. E. Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano 2002, pag. 107. 2. E. Rea, Forse ho l'anima del disertore ma siamo tutti perdenti, in «La Repubblica», 19 luglio 2015. 3. G. Lukács, Teoria del romanzo [1920], SE, Milano 1999, pag.128. 4. Riferimento alla pagina web dell'esposizione (ultimo accesso: 20 luglio 2015): http:// www.johnnyjet.com/2013/05/visiting-elvispresleys-graceland-in-memphis-tennessee/ 5. Fahrenheit 451 è un film del 1966 diretto da François Truffaut, tratto dall'omonimo romanzo distopico di Ray Bradbury del 1953.

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LUOGHI COMUNI

NOTE PER UN ARCHIVIO Fabrizia Ippolito >UNINA

Nella costruzione di un archivio di memorabilia, una sezione dedicata ad architetture, storie e luoghi tiene insieme spazi e modi di abitare. Tra le risposte a un’interrogazione che, sullo sfondo del tema del riciclo, riguarda cosa conservare, come, e per quale progetto di futuro, emergono, come materiali dell’archivio, architetture che si sono riciclate o si prestano al riciclo, storie di appropriazioni, contrattazioni e adattamenti, e luoghi sottoposti o predisposti alle modificazioni, come modalità di conservazione un archivio variabile e aperto, e come fine un progetto che costruisca futuro a partire dal rivolgimento di senso del presente. Attraversare questa sezione con un’attenzione particolare ai luoghi, alla ricerca di un patrimonio condiviso, può voler dire riconoscere il valore di spazi banali o marginali, confrontarsi con un archivio di mutazioni, e ripensare la conservazione e la condivisione in chiave di progetto di riciclo. Se nella selezione dei materiali di un archivio è implicita un’attribuzione di valore, in un archivio composto per liberi contributi intorno a un tema riconoscere a posteriori tra i materiali somiglianze, presenze ed esclusioni può servire a precisare il tema e a individuare le sue connotazioni significative. Nella rassegna di luoghi del riciclo, più che i modelli di città emer-

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gono le loro contraddizioni e contaminazioni; più che i tipi di architettura, gli spazi di incertezza e ibridazione; più che i progetti e i piani, i loro scarti e i loro fallimenti: spazi abbandonati – cinema Galli, Rimini; velodromo Maspes Vigorelli, Milano –, scarnificati – fabbrica Assan Mill, Bucharest; ex magazzini Montedison di Pierluigi Nervi, Porto Recanati –, occupati e sgomberati – torre Galfa, Milano –, inaspettati – lago dell’ex-Snia Viscosa, Roma –, latenti – stazioni chiuse della metropolitana di Parigi –, disastrati – Fukushima –, coinvolti in un immaginario di rovine – la città in distruzione di Arata Isozaki, lo svincolo stradale di James Ballard, le carceri di Piranesi –.1 Emergono i luoghi scartati rispetto a quelli eletti, i conflitti rispetto alle pacificazioni, la retorica della ritrazione rispetto a quella dello sviluppo e l’espansione. E d’altra parte il riciclo muove dallo scarto, approfitta dei conflitti e delle contraddizioni, e può trovare nella ritrazione un’opportunità di reinvenzione: non tanto una ricucitura dei frammenti, quanto una loro re-immaginazione. E se gli scarti sono gli effetti collaterali del progetto, quello che è fuori dalle scelte e dall’ordine consolidato, l’indicibile, il disturbante, il vecchio, raccoglierli in un archivio presuppone un loro nuovo riconoscimento di valore all’interno di una nuova narrazione. Come i resti di una storia privata prezzati in un catalogo d’asta, o come le cose perdute raccolte in una lista, o l’infra-ordinario scandagliato nei particolari, o i frammenti di presente guardati come archeologie, o i paesaggi banali archiviati in fotografie d’autore,2 gli scarti della condizione urbana attuale, selezionati, conservati e messi in mostra, sono elevati a reperti e consegnati alla memoria; ma più ancora, come in nuovi atlanti,3 sono archiviate le loro mutazioni, memorabili perché da memorizzare come mosse di partite già giocate in vista di partite successive, o da celebrare come contro storie necessarie.4 Se, rispetto alla definizione di un archivio che fissa i materiali alla memoria in uno spazio e un ordine prestabiliti, un archivio contemporaneo può essere uno spazio fluido, di relazione e di intervento, dove convergono memorie differenti,5 in un archivio contemporaneo del riciclo alla variabilità dei materiali può corrispondere una fluidità dei criteri di conservazione e un’attenzione al cambiamento. Tra i materiali dell’archivio, i luoghi del riciclo sfuggono a classificazioni, sguardi e rappresentazioni date: pubblico-privati, vuoto-pieni, ibridi tra città e campagna, natura e architettura, mutevoli nel tempo e nello spazio, reversibili nel senso e nell’uso, colti da sguardi indiziari, partecipi o laterali, rappresentati attraverso descrizioni,

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narrazioni o prefigurazioni, più che tipi di spazi mostrano tipi di mutazioni. Le aree dismesse sono ricovero per stranieri o deposito di merci – ex fabbrica Innocenti, Milano –, scenografia – Studios, Papigno – laboratorio – teatro dell’Opera di Roma di Clemente Busiri Vici sui resti del Circo Massimo –; le aree archeologiche sono sede di occupazioni e stratificazioni – asilo italo svizzero sui resti dell’anfiteatro di Rimini; piazza anfiteatro, Lucca –; le infrastrutture costruiscono paesaggio – autostrada del Sole – o, dismesse, diventano natura – aeroporto Maurice Rose, Francoforte sul Meno –, le architetture, disabitate, restano rovine – Istituto Marchiondi, di Vittoriano Viganò, Milano – o monumenti – Holiday Inn Hotel, Beirut –, ripopolate, diventano città – palazzo di Diocleziano, Spalato –; i vuoti urbani sono occupati temporaneamente – Plain de Plainpalais, Ginevra –, diventano playground – progetti di Aldo van Heik o Harmen de Hoop, Amsterdam – o scene per eventi – Estate romana –. Primo tra i luoghi del riciclo, l’archivio rimaneggia la sua storia, evocando le sue molte declinazioni: da accumulatore di immagini, che racconta il mondo per associazioni,6 o di temi, che traduce un’epoca in frammenti scelti,7 a campionario di situazioni, che identifica fenomeni in luoghi peculiari,8 e da manuale di forme, che propone modelli per un’arte civica o schemi per un linguaggio condiviso,9 a manuale d’uso degli spazi, che reinterpreta il rapporto tra pubblico e privato,10 a piattaforma per azioni urbane, che compone mappe partecipate e collettive,11 in una concezione fluida si reinventa, costringendo a rinnovare la memoria. Attraversare l’archivio in chiave progettuale può voler dire cogliere l’interrogazione sul rapporto tra la costruzione di memoria e il progetto di futuro come occasione per verificare le questioni della conservazione e della condivisione nell’ambito del progetto di riciclo.12 Da un archivio che supera la concezione fissa di memoria, attribuendo nuovi valori a cose note e collezionando mutazioni, emerge una prospettiva progettuale che più che la conservazione dell’esistente persegue la risignificazione; da uno spazio di condivisione di memorie che raccoglie storie e contro storie e accoglie sempre nuovi contributi, emerge una visione del progetto come occasione di contrattazione e processo inclusivo di trasformazione. Nei luoghi dell’archivio, visti come spie di orientamenti progettuali, l’attitudine alla risignificazione traspare dagli interventi, anonimi e d’autore, che lavorano sulla post-produzione tramite adattamenti, correzioni, contaminazioni; la pratica della contrattazione emerge dalle azioni, estemporanee o pro-

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grammate, che sperimentano la partecipazione tra conflitti e condivisioni.13 Il progetto, radicato nell’esistente, esercita revisioni; determinato dal luogo e dal momento, raggiunge grandi trasformazioni per cumulazione di piccoli cambiamenti e procede nel tempo per passi successivi; dettato dalle occasioni, agisce per tattiche, o comprende le tattiche in strategie inclusive;14 orientato a ripartire dalla fine, mette in conto la distruzione.15 Se nella costruzione di un archivio di memorie è implicito un progetto di futuro, in un archivio dei luoghi del riciclo il futuro è rivolgimento di senso del presente e il progetto è azione di rivelazione e reinvenzione.

Note 1. Gli esempi nel testo sono tratti da contributi al convegno Memorabilia. Nel paese delle ultime cose, PRIN Re-cycle Italy, Accademia di architettura di Mendrisio, 9 maggio 2015. 2. Si fa riferimento a L. Shapton, Importanti oggetti personali e memorabilia. Dalla collezione di Lenore Doolan e Harold Morris, compresi libri, abiti e gioielli, Rizzoli, Milano 2010; H. Lefebvre, The Missing Pieces [2011], Semiotext(e), MIT Press, Cambridge MA 2014; G. Perec, L’infraordinario, Bollati Boringhieri, Torino 1994; I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, in Id., Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980; A. Sacconi e R. Valtorta, 1987-1997 Archivio dello Spazio, Art&, Udine 1997. 3. S. Boeri, R. Koolhaas, S. Kwinter, H.U. Obrist, N. Tazi, Mutations, Actar, Barcellona, 2000. 4. Cfr. M. de Certeau. L'invenzione del quotidiano [1990], Edizioni Lavoro, Roma 2001; J. Agee, W. Evans, Sia lode ora a uomini di fama [1941], Il Saggiatore, Torino 1994. 5. Cfr. M. Foucault, Des espaces autres, in «Architecture, Mouvement, Continuité», n. 5, 1984; I. Chambers, The Museum of Migrating Modernity, in Cultural Memory, Migrating Modernities and Museum Practices, Mela Books, 2012. 6. A. Warburg, Mnemosyne, 1924-1929; G. Richter, Atlas, 1962-2013. 7. M. Biraghi, A. Ferlenga (a cura di), Architettura del Novecento, vol I, II, III, Einaudi, Torino 2012-2013.

8. Multiplicity, USE, Uncertain States of Europe, Skira, Milano 2003; R. Koolhaas, Monditalia, Biennale di Architettura di Venezia 2014. 9. W. Hegemann, E. Peets, The American Vitruvius. An Architects' Handbook of Civic Art, Architectural Book Publishing, New York 1922; A. Duany, E. Plater-Zyberk, R. Alminana, New Civic Art: Elements of Town Planning, Rizzoli International, 2003; C. Alexander, S. Ishikawa and M. Silverstein, A Pattern Language: Towns, Buildings, Construction, Oxford University Press, 1977. 10. D. Trottin, J. C. Masson, Usages: Analyse subjective et factuelle des usages de l'espace public, La French Touch, Paris 2011. 11. http://cca-actions.org, www.spontaneousinterventions.org, http://tacticalurbanismguide.com. 12. Cfr P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Recycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano 2011. 13. Sulla postproduzione, N. Bourriaud, Postproduction. Les presses du reel, Dijon 2004; sulla partecipazione, G. De Carlo, An Architecture of Participation, «Perspecta» n. 17, 1980. 14. Cfr. F. Ippolito, Tattiche, Il melangolo, Genova 2012. 15. Sulla fine, K. Lynch, Wasting Away, Sierra Club Books, San Francisco 1990; sulla distruzione, N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano 2011.

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DALLA CASUALITÀ AL PROGETTO NOTE A MARGINE DI UN DIBATTITO Andrea Oldani >POLIMI

Una questione apparentemente singolare, come quella di decidere cosa riciclare e conservare in un archivio di memorabilia, da portare nel futuro, per costruire un archivio capace di aprire a risvolti più o meno attesi, costituisce in realtà l’atto formale di una operazione che mette in campo una serie di questioni sicuramente rilevanti rispetto al dibattito più ampio che si sta conducendo sul tema del re-cycle. La scelta di un qualcosa, ragionata od estemporanea, affettuosa, distaccata, oppure intuitiva, introduce a ragionamenti più complessi, che spostano l’attenzione dall’oggetto al processo che lo coinvolge e aprono alla investigazione dei significati più reconditi sottesi al suo riscatto dall’oblio. Nel corso della discussione relativa ad architetture, storie e luoghi ci si accorge che, pur iniziando da un oggetto fisico, in breve ci si sposta verso la descrizione del carico di cui la storia lo ha provvisto, attraverso processi alternativi. Si parla così di un’architettura che risulta dalla stratificazione di episodi edilizi il cui valore non viene riconosciuto nell’oggetto ma nella corrispondenza tra forma e funzione e soprattutto, nel deposito di sapienza artigiana che l’attività insediata ha prodotto (Clemente). Così come di conflitti

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tra scale di valore in cui il rudere assume un interesse solo temporalmente superiore alla quantità di memoria che la stratificazione raccoglie (De Giovanni). Oppure di conflitti forti tra artificialità e naturalità prodotti dall’eccesso di scarti che la società moderna produce e i processi naturali riconducono a forme naturalizzate (Favargiotti). Situazione che si riscontra anche laddove l’errore è capace di evitare la cancellazione ed introdurre la variazione che consente il riconoscimento di una condizione esclusiva (Ottaviani). Tutte queste situazioni mostrano un evidente distacco da un’etica della conservazione e dalle modalità di attribuzione di valore che si sono prodotte nel corso dell’ultimo secolo, introducendo una predilezione verso le situazioni in cui la casualità si sostituisce alla intenzione e in cui il riconoscimento e il processo di sedimentazione nella memoria collettiva, avviene in seguito allo snodarsi di processi accidentali. Questo fatto pone una serie di questioni che assumono notevole interesse rispetto al tema di fondo del re-cycle, suscitando anche forti perplessità riguardo al significato che si tende ad attribuire a questa pratica, in relazione al senso stesso che l’operazione progettuale ha da sempre assunto. La necessità di identificare dei memorabilia ha condotto gli autori a praticare una attività simile a quella che Marc Augé descrive come il lavoro degli antropologi degli inizi che di fronte «ad un campo di rovine, al cui disordine essi davano il loro contributo pretendendo di ricostruirne l’ordinamento", operavano inconsciamente entro un "cantiere nel quale si redigeva l’inventario dei miti e degli oggetti perduti […] la cui ragion d’essere era l’avvenire, per quanto incerto».1 Il tentativo quindi di salvare dei processi e dei metodi, talvolta dettati dalla casualità, che sono riusciti a preservare una identità e a costruire una memoria rispetto a luoghi, spesso privi di significato, è esattamente il tentativo di trovare delle risposte alla delusione della condizione presente che necessita di reinvenzione e di operare alla ricerca di modelli in grado di avviare un vero e proprio rinascimento operativo e culturale. Questi memorabilia non possono però essere in grado di impostare questo processo, ma solo di orientarlo, perché ogni operazione tesa a formulare delle strategie e a definire delle metodologie, specie nel campo delle discipline dello spazio, non può escludere qualsiasi forma di progettualità ed affidarsi al succedersi degli eventi, al consenso popolare, o a processi modificativi spontanei.

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Se letti in questo senso i casi evidenziati fanno emergere una questione fondamentale rispetto alla natura e alla crisi del nostro mestiere, ossia quella relativa al problema della sua legittimazione. Il venir meno del riconoscimento del sapere disciplinare come forma di auto-legittimazione dell’architetto è chiaramente dovuta a una condizione di crisi, in parte legittima, derivata da una serie di fallimenti, contraddizioni ed equivoci, di natura diversa, che hanno minato nel profondo la fiducia rispetto ad una precisa modalità di decorso dei processi decisionali. Questa situazione si è ancor più enfatizzata nel corso degli ultimi anni per via del progredire di una consapevolezza ecologica che ha ulteriormente evidenziato le oggettive frizioni prodotte da una mentalità consumistica e speculatrice. Tutto ciò ha prodotto una stagione caratterizzata da una profonda incertezza operativa, incentrata sulla ricerca di nuove metodologie e forme di consenso. Il radicamento di questa condizione è tale da permettere di risalire, anche attraverso i pochi contributi selezionati, a tre dei modelli principali che oggi sembrano essere tra quelli in grado di giustificare una operazione trasformativa: l’eccesso partecipativo, o meglio la fiducia in una forma di legittimazione popolare che spesso esclude un vero apporto culturale; la rispondenza ad una definizione impropria di naturalità che non riconosce l’ambiente come una totalità antropizzata; la predilezione della temporaneità come forma reversibile e innocua rispetto alla lunga durata. Tutte modalità di intendere che, se assunte in modo radicale, possono condurre ad una concezione del progetto «a rischio, perché […] facilmente […] elusiva, effimera, irrilevante e quindi conservativa, per eccesso di disimpegno».2 La predilezione dei memorabilia presentati, indirizzata a salvare alcuni processi inscritti in questa logica, piuttosto che oggetti materiali o procedimenti progettuali, pone una questione fondamentale rispetto alla definizione teorica del re-cycle e alla determinazione del ruolo che il progetto può assumere rispetto a questa pratica. La disponibilità di risorse potenzialmente riscattabili tramite operazioni di riciclo è, infatti, pressoché infinita ma qualsiasi opzione di scelta non può prescindere da una visione strategico progettuale, implicando la necessità di procedere alla selezione e alla rinuncia rispetto ad alcune parti in favore della manutenzione e del consolidamento di altre situazioni, con l’obiettivo di inscrivere queste eredità all’interno di una realtà rinvigorita dall’individuazione di nuovi modelli di sviluppo.

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L’esistenza stessa dei presupposti che hanno consentito l’avvio della ricerca sul re-cycle sono la dimostrazione del fallimento di una pratica del progetto troppo insensibile alle pressioni esterne eticamente più sostenibili e proprio per questo la sua applicazione non deve ridursi a indicare una serie di soluzioni effimere, quanto a stimolare una reinvenzione del procedimento progettuale tale che, pur facendosi carico degli errori, riesca a conservare la sua essenza e soprattutto torni a rappresentare un metodo capace di una sintesi generale. Si tratta fondamentalmente di decidere se il re-cycle deve essere uno strumento utile a riscattare le realtà post-urbane da una condizione di crisi, secondo una visione sistemica o, al contrario, un espediente per arricchirle di alcuni episodi individualmente significativi. Tale scenario esclude la possibilità di una uscita che non preveda di restituire legittimità alla disciplina del progetto. Processo che potrebbe passare dal tentativo di ricostruire un sistema di valori in grado di risalire all’essenza primigenia dell’idea di trasformazione, delegando al dialogo interdisciplinare e sociale le scelte non strettamente legate alle questioni culturali che solo l’architettura è in grado di esplicitare. Tra queste la peculiarità unica di sapere interpretare i luoghi, generando una sintesi dello spazio che contempla tutte le componenti, tra cui il tema e il programma.3 Tornando ai memorabilia iniziali il tema diventa quindi quello di analizzare nel profondo e mettere a sistema questi casi isolati tentando di ricavarne una possibile lezione, instaurando un sufficiente distacco dalle vicende ed operandone una revisione fortemente critica. I quattro casi discussi nella sezione architetture, storie, luoghi ci invitano con più o meno forza a indagare alcune potenzialità che possono essere iscritte in una teorizzazione del re-cycle fortemente indirizzata al progetto. Un esame esterno e necessariamente distaccato, è sufficiente ad indicare alcune possibilità. Emerge in modo chiaro l’opportunità di concepire il re-cycle come pratica in grado di orientare, attraverso il progetto, il rapporto tra forma e funzione, contro l’indeterminatezza dell’idea di contenitore che si impone in molte pratiche di riutilizzo (Clemente). Similmente, assumere l’obiettivo di definire nuovi cicli d’uso può permettere il superamento di una visione fortemente selettiva rispetto alle stratificazioni prodotte dalla storia in favore di una valorizzazione o risignificazione del carico mnemonico che i luoghi hanno accumulato (De Giovanni). Anche rispetto al nesso tra natura e cultura l’osservazione dei processi di modificazione spontanea offre

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la possibilità di considerare il re-cycle come pratica che considera la dismissione e la conseguente rinaturazione come ulteriore possibilità progettuale, orientata entro una strategia modificativa specifica (Favargiotti). Infine il re-cycle può imporsi come modalità di riscatto delle condizioni derivate dall’applicazione di orientamenti speculativi, ponendosi come pratica condivisa ed effettiva, a partire da un orientamento politico e sociale che consideri la partecipazione come fase indispensabile di anticipazione del progetto vero e proprio ma non deliberativa, limitativa o sostitutiva ad esso (Ottaviani).

Note 1. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 2. P.C. Palermo, I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo, Donzelli, Roma, 2009. 3. AA.VV., Aurelio Galfetti, Oggetti Territoriali, Iiriti editore, Reggio Calabria 2008.

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LA FABBRICA DEI SOGNI Susanna Clemente >UNIROMA

Cominciando dalla fine, i laboratori del Teatro dell’Opera di Roma oggi sono un’eccezione, una particolarità, una tradizione tutta italiana. In essi viene tramandata, di giorno in giorno, una conoscenza artistica ed artigiana unica nel suo genere e, purtroppo, come amaramente e quotidianamente ricordato dalla cronaca, sempre più a rischio di estinzione. Qui sono custoditi i principali strumenti per dipingere secondo il modo cosiddetto all’italiana, dall’alto, in piedi. La canna scenica, le spazzole e i pennelli dal manico lungo, i colori in polvere sapientemente miscelati e trattati. Così come nelle botteghe del Rinascimento vi è la possibilità di imparare facendo, in costante contatto con i maestri e con i colleghi, dando vita a continui scambi verticali e orizzontali. Qui, negli ultimi due secoli, sono state realizzate opere artistiche sul progetto di scenografi di fama internazionale, ma anche di architetti, costumisti, pittori e scultori: Cambellotti, Chagall, De Chirico, Guttuso, Maccari, Manzù, Picasso, Pizzi, Visconti, Zeffirelli. Qui è possibile fabbricare sogni perché non solo il tempo e la storia lo permettono ma anche lo spazio. Clemente Busiri Vici operò tra il 1929 e il 1933 una riconversione dei locali dell’ex-pastificio Pantanella (ex-proprietà società Molini Pantanella), un

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riadattamento, un riutilizzo, un re-cycle di grande forza, che tuttora risponde alla funzione, ma che la materia sta tradendo. La pianta libera del salone della Scenografia era in origine una grande copertura piana, una terrazza sul Circo Massimo, che l’ingegnere chiuse con uno dei primi esempi di capriata in calcestruzzo armato, con una luce libera (23 metri) tale da consentire le lavorazioni dei grandi(osi) fondali per l’Opera, il più delle volte di centinaia e centinaia di metri quadrati d’estensione. Lo studio della luce naturale e la presenza di una passerella sospesa permettono agli artisti di controllare costantemente i risultati del loro lavoro. Procedendo a ritroso, l’edificio nella sua interezza (i laboratori lo occupano solo parzialmente) fu donato al Comune di Roma con la condizione che venisse impiegato per funzioni pubbliche di natura culturale. Nel 1930 vi inaugurò il Museo di Roma,1 che espose tra l’altro collezioni che dovevano testimoniare l’immagine della città medievale e moderna, anche e soprattutto sul piano della trasformazione e del riutilizzo urbano. Nel 1931 venne scoperto il Mitreo del Circo Massimo, su cui poggiano attualmente le fondazioni dell’edificio, durante i lavori per la realizzazione dei magazzini del teatro.2 Magazzini che si sono rivelati assai adatti alla conservazione dei costumi per il microclima interno, pensato in origine per l’essiccazione della pasta. Il Mitreo, risalente al III secolo d.C., era parte integrante del complesso sistema della Roma Imperiale, che prevedeva all’intorno il Pons Aemilius, il Tempio cosiddetto della Fortuna Virile e il Tempio di Vesta, oltre al già citato Circo Massimo.3 Questi brevissimi cenni contribuiscono a confermare sia quanto detto inizialmente circa il carattere di eccezionalità del luogo, sia, al tempo stesso, la possibilità di un utilizzo paradigmatico, esemplificativo del caso, esistendo nel nostro Paese svariate situazioni al pari particolarissime, che descrivono un rapporto con la preesistenza composito, di grande complessità, alle volte difficilmente ascrivibile a linee teorico-metodologiche, e da cui è necessario oggi ripartire. L’incontro con l’antico non è stato qui motivo di indecisione, incertezza e blocco, come accade sempre più spesso. Il centro storico, il cuore di Roma non è inviolabile ma vivo, perché l’utilizzo lo mantiene tale. Migliaia di turisti ogni anno rimangono affascinati dalla visita di un pezzo di città che non è un museo di rovine ma rischia di divenire una rovina di un museo. Abbiamo bisogno ora e in futuro di spazi come questo, che rappresentino

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Clemente Busiri Vici, riconversione dei locali dell’ex-pastificio Pantanella, 1929-1933 L’edificio fu donato al Comune con la condizione che venisse impiegato per funzioni pubbliche di natura culturale. L’ingresso è posto accanto alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin. La costruzione poggia le sue fondazioni sul Mitreo del Circo Massimo, scoperto nel 1931, durante i lavori per la realizzazione dei magazzini del Teatro. Per il salone della Scenografia, riprodotto nell’immagine, Clemente Busiri Vici creò uno dei primi esempi di capriata in calcestruzzo armato con una luce libera di 23 metri, coprendo e riadattando quella che era l’antica terrazza sul Circo Massimo dell’edificio. Esempio per eccellenza di stratificazione, riconversione, riutilizzo, riciclo, fucina di idee, fabbrica di sogni.

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un’innovazione formale e strutturale, che sia tuttavia continua nel tempo. La materia non può e non deve essere d’ostacolo, essa deve tradire l’opera secondo l’accezione latina del termine, ossia trasportarla, essere veicolo, occasione per presentarsi sotto vesti nuove, riciclarsi appunto. Il re-cycle stesso presuppone infatti, all’origine, un tradimento, una manipolazione, un utilizzo diverso del precedente, che diviene per questo salvifico. Difficile se non impossibile stabilire rapporti di priorità, giacché si è sempre di fronte a una nuova identità e mai alla surrogazione. Il degrado dell’oggetto architettonico rischia invece di cancellare una tradizione secolare, già minata dai sempre minori finanziamenti per i settori della cultura e più nello specifico dello spettacolo. I laboratori del Teatro dell’Opera di Roma dovrebbero poter approdare al futuro mantenendo la loro vocazione di fucina di idee. Lo spazio unico in tutte le sue accezioni, tipico di ciascun piano dell’edificio, ha notevolmente influenzato le relazioni e le produzioni. La contemporaneità delle operazioni e la compresenza delle specialità hanno infatti notevolmente accelerato la fabbrica. L’evoluzione delle necessità d’uso, e, conseguentemente, degli spazi e della materia, dovrebbe poter continuare indisturbata il suo corso. Una processualità che non andrebbe interrotta, in cui architettura e scenografia sono scambievolmente e reciprocamente contenitore e contenuto, ideazione e materia, entrambe forme di produzione nella fabbrica dei sogni. L’abbandono segnerebbe invece la cessazione di un ciclo virtuoso innescatosi sin dagli albori e giunto senza soluzione di continuità fino ad oggi. Il processo di re-cycle descritto è stato dunque di carattere spontaneo, naturale, è avvenuto perché si è istituito un rapporto strettissimo e sinergico dell’oggetto con il suo utilizzo. Dipinti, sculture, macchinari lasciano quotidianamente il segno del loro passaggio, intridono di colore e di storia le pavimentazioni lignee, le pareti, i soffitti. Della tela appuntata a terra, "brocchettata", rimangono le tracce, gli spettacoli che si susseguono vi lasciano una memoria di loro stessi materiale oltre che immateriale. Di rimando l’architettura rende possibile le realizzazioni, le ispira e le segna profondamente. In linea con episodi occorsi nella città stessa di Roma e più in generale in Italia, i Laboratori del Teatro dell’Opera sono oggi protagonisti di piani a breve e brevissimo termine, che mirano alla comunicazione e alla sensibilizzazione verso una rivalutazione sempre più completa degli stessi e

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del luogo. Queste iniziative si sostanziano in visite di natura archeologicomuseale, in eventi di carattere espositivo di respiro internazionale, legati alle eccellenze italiane dell’alta moda, della scenografia, dell’architettura. Questi programmi non sono tuttavia sufficienti, poiché di carattere occasionale, spesso poco strutturato. Quasi inaccessibile l’ambito gestionale, che tanto più dovrebbe svolgere un ruolo centrale, chiave, quanto più si è di fronte a un centro di produzione. L’iniziativa personale, anche portata dal basso, che (ri)accende senz’altro la speranza, tuttavia va inquadrata in un ambito appunto più generale, che abbia indirizzi e finalità comuni e dichiarate, nonché adeguati procedure e strumenti normativi. Non basta conservare, preservare, tutelare un’attività eccezionale perché essa non cessi di esistere, occorre riciclare. Il portato, l’aggiunta data dal re-cycle è vitale in ogni senso, specie in una città-organismo. Il rischio dunque, cui si accennava sin dall’apertura, ossia quello dell’estinzione di contenitore e contenuto, va scongiurato in primo luogo grazie all’archiviazione. Il significato profondo dell’archivio è quello di registrare il caso, di prenderlo come stimolo per la fondazione di altre e migliori fabbriche, poiché, si sa, i sogni sono alla base della nostra vita e sono contagiosi. Il primo passo della ricognizione è essenziale per compiere valutazioni e proporre soluzioni in linea con esse. L’elaborazione di un metodo non può prescindere poi dal confronto con la similare casistica. Portare nel futuro una fabbrica come questa è un’occasione duplice, poiché è in se stessa simbolo di cultura ma ne è produttrice al tempo stesso. Costruire scenari futuri facendo ricorso alla possibilità di musealizzazione, permanente e/o temporanea, prevista per l’area sin dall’epoca delle grandi trasformazioni degli anni Trenta del secolo scorso, appare un rischio qualora la si consideri isolatamente. Aspetto vocazionale, dominante, risulta, pari se non superiore al valore dei caratteri architettonici, il saper fare. Dotato al tempo stesso di un portato materico, quello del prodotto stesso, e non, quello della trasmissibilità, questo suggerisce di investire nella formazione. Trasformare la fabbrica dei sogni amplificandone un carattere già presente sembra il più corretto indirizzo. Vengono accresciute in questo modo la comunicazione, la diffusione dei saperi, implementati ulteriormente gli esiti anche in ambiti affini, con un vero e proprio effetto domino. Si auspica che i memorabilia inneschino dunque nuovi processi, estendendo in modo esponenziale i frutti del re-cycle. Tutto quanto finora descritto appartiene al mondo del dietro le quinte. Non

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si pensa, non si bada a cosa c’è dietro uno spettacolo, a cosa c’è dietro ogni forma di trasmissione della cultura. Con questo piccolo contributo si vuole (ri)dare pari dignità, forza e voce a tutto ciò che definisce la scena ma non è in scena.

Note 1. A. Bianchi, La sistemazione di Piazza Bocca della Verità e del Velabro, in «Capitolium», n. VI, 1930. 2. C. Pietrangeli, Il mitreo del palazzo dei Musei di Roma, in «Bullettino della Commissione Archeologica del Governatorato di Roma e Bullettino del Museo dell’Impero Romano», n. LXVIII, 1940. 3. R. Lanciani, Forma Urbis Romae, Milano 1894-96.

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L'ANFITEATRO E L'ASILO Alberto De Giovanni >Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana

Nel novembre 2014 ho partecipato ad una visita del neonato m.a.x. museo di Chiasso guidata dai progettisti;1 è stato interessante vedere come sono riusciti a inserire un museo contemporaneo in una città di frontiera, in un contesto industriale che ruota attorno al grande occhio dei binari. Una volta all’interno ha scoperto una mostra dedicata a Werner Bischof2 e ai suoi reportage fotografici. Alcuni scatti mi hanno colpito particolarmente, provocando in me quell’effetto flashback che sperimenta chi da anni vive lontano dalla sua città d’origine e la ritrova inaspettatamente in un museo. Fino ad allora non conoscevo la storia del fotografo e della sua compagna Rosellina Mandel, una delle prime educatrici dell’asilo svizzero di Rimini. Vedere l’asilo fotografato nell’immediato dopoguerra, con ancora le baracche in legno, ora in muratura, e realizzare che sicuramente anche io ho vissuto una scena simile a quella dell’immagine di Bischof che gioca con i bambini in riva al mare, io come parte di quei bambini ovviamente. Ricordo il cortile dell’asilo che confina con un anfiteatro romano. In realtà l’immagine che ho in mente è più di un ammasso di sassi e sterpaglie delimitati da un recinto senza un cancello per il pubblico. Nessuno allora ci ha mai spiegato cosa fosse. L’asilo ci sta comodamente sopra.

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L’anfiteatro romano di Rimini risale al II secolo d.C. e fu utilizzato dal municipium di Ariminum come arena gladiatoria della città posta al confine nord dell’impero romano; è di epoca adrianea. Il manufatto si trova in posizione periferica rispetto al foro: fu, infatti, eretto in riva al mare per renderlo visibile alle flotte navali.3 L’arena odierna è il prodotto di una serie articolata di eventi la cui sedimentazione sui resti materiali è evidente. La costruzione perse ben presto la sua funzione ludica e già nel III secolo d.C. veniva inglobata nel muro di cinta aureliano a protezione della città, successivamente in quello medievale, per poi essere dimenticata fino agli scavi archeologici dello storico Luigi Tonini alla fine del XIX secolo.4 Solo in questa fase fu riconosciuto come anfiteatro ipotizzando la sua forma e il ridisegno di pianta e alzati. Nel frattempo l’area, a margine della città costruita, aveva ospitato anche un lazzaretto e un convento con i propri orti. Gli scavi ripresero negli anni Venti del ventesimo secolo assieme alle ricostruzioni effettuate per celebrare il bimillenario augusteo.5 Durante la seconda guerra mondiale l’anfiteatro fu quasi completamente distrutto dai bombardamenti indirizzati sulla vicina stazione ferroviaria; rimane tuttora riconoscibile per circa metà della sua superficie, cosa che non si può dire, invece, delle sue stratificazioni archeologiche. Queste ultime risultano compromesse tanto che appare difficile distinguere quanto appartenga allo status quo anteguerra e quanto sia stato restaurato nell’immediato periodo postbellico con fantasiose ricostruzioni. L’evento che più si inserisce nella vita dell’arena romana allo stato attuale fu la costruzione del Centro Educativo Italo Svizzero sopra metà della superficie interrata dell’anfiteatro. L’asilo fu eretto nel 1945, per iniziativa del Soccorso Operaio Svizzero, con legname proveniente dalla Svizzera e pietre del posto (quelle dell’anfiteatro), grazie ad un progetto di aiuti destinati all’infanzia traumatizzata dalla guerra. L’idea era di creare un villaggio a misura di bambino dove l’ambiente interno doveva invitare a un rapporto non autoritario con lo studente: assenza della cattedra, gruppi di tavoli, angolo del racconto ecc. Il CEIS si inseriva in una rete di associazioni e piccole istituzioni impegnate nell’intervento sociale "dal basso", interessate alle pratiche assistenziali e di autogestione, e critiche verso la sussunzione del sociale nello statale. Inoltre si proponeva come un asilo laico gestito da una direttrice protestante in un contesto di scuole per l’infanzia amministrate dalla Chiesa Cattolica. Il CEIS divenne uno dei centri

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Rosellina Mandel, Werner Bischof mentre gioca con i bambini sulla spiaggia di Rimini, 1947

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propulsori della nuova pedagogia italiana. Vi confluirono per imparare e per insegnare studiosi da ogni settore: da Jean Piaget a Lamberto Borghi, da Ludovico Quaroni a Giancarlo De Carlo. Un’impronta permanente e ancora adesso apprezzata del CEIS consiste nell’organizzazione dello spazio esterno. La fondatrice Margherita Zoebeli e l’architetto Felix Schwarz teorizzarono alcuni criteri della scuola "attiva" decentrando i padiglioni lignei per creare autonomia di spazio e libertà nella composizione. Per esempio, la doccia pubblica appare indipendente dalla sala riunioni così come la biblioteca, i laboratori artigiani e le aule scolastiche. Nacque così l’urbanistica decentrata del CEIS, che è rimasta intatta fino a oggi: una piazza comune, spazi piccoli intorno alle singole baracche collegate con piccoli viali, permettevano a tutta la collettività di riunirsi, ma anche ai singoli gruppi di disporre di uno spazio proprio. Numerosi alberi, cespugli e fiori dovevano invitare al colloquio con la natura. Il progetto educativo era quello di trasformare la scuola autoritaria del ventennio fascista in una scuola-comunità. È interessante notare l’intreccio di diverse discipline in un unico avvenimento. In questi anni l’architetto Giancarlo De Carlo lavora per il comune di Rimini alla stesura del nuovo piano regolatore gettando le basi della sua "architettura della partecipazione": un’urbanistica legata all’ascolto e alla partecipazione attiva dei fruitori di uno spazio.6 Qui, nel 1964, progetta l’edificio la Betulla, un ampliamento dell’asilo svizzero che accoglie altre funzioni socio-educative.7 La prima ipotesi che storici e architetti avanzano riguardo alla conservazione e alla riesumazione della struttura dell’anfiteatro ipotizza la demolizione, quindi lo spostamento, dell’asilo per poter effettuare scavi archeologici. La mia esperienza mi porta a riflettere e, in un certo senso, a reinterpretare alcuni concetti base relativi alla conservazione del patrimonio storico. L’articolo 3 della Carta di Venezia recita: «La conservazione ed il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l'opera d’arte che la testimonianza storica».8 Le tredici baracche lignee, poi in muratura, del CEIS, sono una testimonianza storica per la città e per la popolazione nel momento in cui descrivono e documentano la situazione di Rimini nell’immediato dopoguerra. Una città posizionata sulla linea gotica che, essendo stata distrutta quasi completamente dai bombardamenti, aveva come prima necessità la ricostruzione delle case e del tessuto urbano. In questo periodo storico i monumenti passarono in secondo piano, molti furono spogliati per riutilizzare

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il materiale laterizio e lapideo per le abitazioni: esempi celebri sono il teatro Amintore Galli e Palazzo Lettimi che subirono un simile sciacallaggio. Nelle parole di molti autori della letteratura, del pensiero filosofico ma anche della gente comune si ritrova un frequente riferimento alle testimonianze del passato come fonti di ispirazione, come scenari necessari e fondamentali per la costruzione della vita individuale e della collettività. Il patrimonio aiuta gli individui e i gruppi a collocarsi nel tempo e nello spazio: i resti monumentali dell’anfiteatro posizionati vicino al mare consentono a me, riminese, di dichiararmi erede della civiltà che mi ha preceduto. Il passato e le tradizioni di un luogo sono delle risorse che danno forma e garantiscono una bussola per la vita sociale e il delicato passaggio da identificazione a identità. In questa prospettiva è preferibile al concetto di identità quello di identificazione, come costruzione, processo mai concluso, sempre in progress e sempre dipendente dal contesto. La difesa di un monumento o di un luogo di memoria va oltre la semplice ricerca di una traccia concreta di un’epoca storica remota e rappresenta un tentativo di preservare un punto di ancoraggio forte per l’identità di un paese. A questo proposito è utile ricordare le parole dello storico francese Jacques Le Goff che enfatizza la forte carica passionale legata al patrimonio derivata proprio dal vincolo stretto con l’identità: «il patrimonio è il luogo naturale e storico di origine e affermazione delle identità individuali e collettive. [...] La domanda di una misura di protezione, da qualsiasi parte provenga, mira innanzi tutto a un riconoscimento esteriore del patrimonio locale, manifestazione tangibile di un’identità».9 La necessità è di considerare il patrimonio come una trama, l’impronta e la testimonianza dell’azione umana che porta con sé informazioni sul momento e le condizioni dell’impressione. Il patrimonio, in questo caso, deve essere letto come un testo: esplorato come textus – tessuto e come testis – documento-testimonianza. L’architettura è da considerarsi come un fatto stratificato e ritengo sia necessario accettare la casualità quando si pensa ad un processo di riciclo. I fatti e le strutture, infatti, nascono da un caso o da un evento eccezionale che ha segnato la storia della città. Vorrei proporre a tutela l’intero complesso dell’anfiteatro e dell’asilo con un progetto che parta dalla valorizzazione architettonica e urbana dell’area in questione e arrivi a sensibilizzare la popolazione promuovendo l’identità, o, per meglio dire, l’identificazione di un popolo e di una città che

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un evento come una guerra mette sempre in discussione. Il progetto dovrebbe partire dalle scuole coinvolgendo i giovani cittadini e le famiglie. Educare quella che sarà la parte attiva della città di domani come non è stato fatto con la mia generazione. Dalle scuole si passerà ad iniziative promosse dal comune per i cittadini che non conoscono la vera storia del complesso e si limitano a criticare o prediligere l’anfiteatro o l’asilo in base ad una scala di importanza storica legata a interessi personali. Il progetto architettonico dovrà sì migliorare le condizioni di vita dell’opera romana che risulta essere in uno stato di completo abbandono, ma al tempo stesso non cadere in un intervento di conservazione inteso come ripristino dell’oggetto. Dal punto di vista teorico bisognerà incrementare la ricerca sulle fasi storiche che ci hanno consegnato questa sovrapposizione fisica di testimonianze per la città che risulta essere ad ora quasi inesistente, evitando di concentrarsi sull’analisi dello stato dell’arte delle murature con l’intento di rievocare la forma originaria dell’arena, magari per motivi turistici. Puntare solo sul turismo potrebbe rivelarsi un errore, non solo perché la concentrazione territoriale dei flussi turistici può provocare un conflitto negli usi del territorio fra turisti e locali, ma perché si tratterebbe di una strategia incompleta, in quanto si andrebbero a perdere molti effetti positivi del processo di identificazione. Sul piano urbanistico dovrebbe essere realizzato un percorso storico che in pochi chilometri unirebbe tutti i monumenti e momenti storici che identificano la mia città, un itinerario che permetta di migliorare la fruizione di questi luoghi pur mantenendo attive le sue funzioni. Il progetto dovrà aspirare ad essere uno specchio in cui la popolazione si guarda per riconoscersi, dove cerca la spiegazione del territorio al quale è legata insieme alla storia dei popoli che l’hanno preceduta. La logica comunitaria della proposta è definita dalla territorialità del campo di intervento e dalla partecipazione della popolazione che può svestirsi del ruolo di consumatore dell’oggetto storico (in questo caso è più rilevante l’anfiteatro) per mettersi nei panni dell’attore; ed ecco che si ritorna alla cittadinanza attiva che auspicava De Carlo. La mia intenzione è di portare nel futuro delle storie, delle relazioni e non delle cose. Il processo di riciclo qui si concentra su un patrimonio immateriale che usa degli oggetti privi di intrinseco valore artistico come mezzo di espressione di una civiltà.

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Note 1. Durisch + Nolli architetti, Massagno, Svizzera. 2. Esposizione: Werner Bischof (1916-1954), La trasformazione dell’immagine, m.a.x. museo, 12 ottobre 2014 – 11 gennaio 2015, Chiasso, Svizzera. 3. C. Clementini, 1617-1627, Raccolto istorico della fondatione di Rimino e dell’origine e vite de’ Malatesti, Forni editore, Rimini 1969. 4. L. Tonini, 1844, Dell’anfiteatro di Rimini relazione degli scavi fatti nel 1843-1844 alla scoperta di questo monumento con alcune brevi osservazioni storiche intorno al medesimo, Luisè editore, Rimini 1993. 5. M. Faedi, L’anfiteatro romano di Salvatore Aurigemma, Bruno Ghigi editore, Rimini 2002. 6. G. De Carlo, L’architettura della partecipazione, Quodlibet, Macerata 2013. 7. F. Tomasetti, Cambiare Rimini: De Carlo e il piano del Nuovo centro 1965-1975, Maggioli editore, Santarcangelo di Romagna 2012. 8. Carta di Venezia per il restauro e la conservazione di monumenti e siti. Testo approvato dal II congresso Internazionale degli architetti e dei tecnici dei monumenti storici riunitosi a Venezia dal 25 al 31 maggio 1964. 9. D. Audrerie, Questions sur le Patrimoine, Éditions Confluences, Bordeaux 2003.

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AEROPORTO COME RISERVA 1 Sara Favargiotti >UNIGE

Negli ultimi due secoli, la società ha introdotto un nuovo mezzo di trasporto ogni cinquant’anni: navi, treni, automobili e aeroplani. Tutti questi hanno influenzato in modo significativo le trasformazioni del territorio e gli sviluppi urbani. Tuttavia, gli aeroporti, più di altre strutture, stanno manifestando un’obsolescenza precoce rispetto alle precedenti infrastrutture che comporta una complessità di problemi non solamente legata ai sistemi della mobilità e del trasporto. L’obsolescenza, dal latino obsolescere ovvero «logorarsi, andare in disuso»,2 è lo stato che si verifica quando un oggetto, una struttura o un servizio non è più utilizzato, anche se in stato di funzionamento e ancora in buone condizioni. Il termine "obsoleto" fa quindi riferimento a qualcosa che è già in disuso, scartato o superato, per usura naturale o indotta da una pianificazione voluta. Spesso, nei prodotti commerciali, l’obsolescenza si verifica perché l’acquisto di un nuovo prodotto genera più vantaggi rispetto alle difficoltà insite nella sostituzione di singole parti. In questo senso, l’obsolescenza è in genere preceduta da un graduale declino in popolarità. Il concetto fu elaborato nel 1930, quando l’imprenditore Bernard London iniziò a sostenere che l’unico modo per rivitalizzare l’economia dal collasso economico del 1929 dovesse essere

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A place to live‌ Ex-aeroporto Maurice Rose, Frankfurt am Main, Bonames, Germania, 2015 [Foto: Sara Favargiotti]

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quello di stimolare i consumi. Con questo intento, propose di fare dell’obsolescenza programmata una pratica commerciale per limitare volutamente la vita dei prodotti e, di conseguenza, per favorire il consumo di nuovi. Nel 2011, riferendosi a tale prassi, Cosima Dannoritzer afferma che i prodotti sono intenzionalmente progettati per avere una durata prestabilita. Nel suo documentario, infatti, indaga scientificamente come i produttori adottino questa pratica nel ciclo di vita di un prodotto per aumentarne il consumo, con relativi impatti significativi sull’economia globale e ambientale. Per opporsi alle dinamiche indotte dall’obsolescenza programmata, Serge Latouche sottolinea la necessità di un cambio di mentalità: un cambio culturale in cui riuso e riciclo possono generare nuovi usi e "seconde vite" per molti oggetti.3 Oggetti specifici possono diventare funzionalmente obsoleti quando non funzionano secondo le modalità per cui sono stati creati. La stessa cosa accade per le infrastrutture, e in maniera significativa per gli aeroporti, ovvero quando diventano inadeguati a mantenere operative le attività di volo a causa di problemi spaziali, tecnici o ambientali. Sempre più spesso questo avviene per aeroporti di recente costruzione, realizzati per scopi principalmente economici o politici piuttosto che per reali esigenze di trasporto, e che ora si trovano in uno stato on-hold. Tale obsolescenza precoce si porta dietro problematiche più complesse di tipo tecnologico, economico ed estetico. Ci troviamo quindi di fronte a uno slittamento di approccio: da una "obsolescenza programmata" a una "pianificazione dell’obsolescenza" per infrastrutture aeroportuali on-hold.4 Il progetto per l’aeroporto Maurice Rose5 mostra chiaramente come la riconversione del campo d’aviazione esistente in un parco urbano ri-naturalizzato possa offrire nuove attività economiche e sociali per la valorizzazione degli ambienti ecosistemici locali. Questa reinterpretazione del paesaggio aeroportuale permette quindi di capire il passo cruciale che molti aeroporti di piccole e medie dimensioni possono offrire: tali infrastrutture on-hold possono essere rigenerate e possono trasformarsi in uno spazio nuovamente di supporto per le città, diventando un luogo da vivere ovvero a place to live before a place to leave. La seconda vita degli aeroporti Molti aeroporti abbandonati sono già tornati a essere parte integrata e integrante del tessuto urbano, inglobati dall’espansione della città. Altri

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sono rimasti isolati dalla città. Gli aeroporti on-hold, invece, si trovano in situazioni più marginali rispetto al contesto urbano. Queste "categorie di centralità" sono intese rispetto al sistema di flussi e di uso del suolo, piuttosto che a una vicinanza fisica e geografica alla città: gli aeroporti possono essere inglobati, isolati o marginali rispetto a un sistema di centralità, flussi e attrattori che determinano il valore territoriale. Questa premessa diventa rilevante nel pensare strategie di attivazione della seconda vita degli aeroporti. Per quelli che non si trovano al centro di un processo di trasformazione della città, in quanto isolati nonostante la città si sia espansa, c’è bisogno di una "iniezione" di nuove funzioni centrali. Per quelli che invece sono marginali e possono essere rapidamente raggiungibili dalla città, la riattivazione appare come un processo più lineare. La condizione temporanea dell’aeroporto on-hold consente proprio questo, ovvero la possibilità, per le infrastrutture aeroportuali esistenti, di trasformare lo stato di indeterminatezza e sospensione in un’opportunità per iniziare una seconda vita, valorizzando il loro potenziale attraverso diverse strategie di rinnovo che lavorano con le prestazioni specifiche di ciascun caso. A scala globale esistono numerosi progetti e sperimentazioni che mostrano diverse possibilità di attivazione della seconda vita degli aeroporti a partire dalla lettura che Sonja Dümpelmann definisce come Airport Afterlives.6 Una situazione che si osserva è quella inerente ai molti aeroporti (soprattutto militari) che, dopo la loro dismissione, rimangono inutilizzati e in stato di abbandono per anni. A causa della crescita della popolazione e della forte domanda di nuove abitazioni, molti di questi aeroporti sono stati trasformati e organizzati per ospitare nuovi quartieri urbani: partendo dalla trasformazione delle infrastrutture tecniche (pista di atterraggio, strade di servizio) nelle strade di scorrimento di questa nuova parte di città, lo sviluppo urbano procede con la costruzione di nuove case, servizi pubblici e commerciali, uffici e parchi urbani. Si tratta di vaste aree ben collegate alle città vicine, tuttavia la memoria dell’aeroporto viene quasi totalmente cancellata. Questo è il caso di Stapleton City in Colorado o di München Riem in Germania. In altri casi, gli aeroporti stessi si trovano in una condizione che non permette più la loro espansione o crescita perché la città li ha oramai raggiunti. Aeroporti che un tempo si trovavano lontano dalle città consolidate, sono stati inglobati dal contesto urbano diventando centralità non solo fisico-spaziali ma anche per la localizzazione di nuove funzioni.

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Questa condizione ne ha spesso semplificato la trasformazione in parchi urbani pubblici, come chiaramente dimostrato da Tempelhofer Park a Berlino o da Downsview Park in Canada. Infine, la proliferazione di compagnie low-cost ha promosso e rivitalizzato molti aeroporti secondari o militari. Dopo la dismissione del dopoguerra, numerose strutture di piccole e medie dimensioni sono rimaste inutilizzate per anni fino a quando alcune autorità locali hanno deciso di investire nella loro riconversione. Il ruolo fondamentale di questi aeroporti come hub strategici del nuovo modello di aereo low-cost e la loro stessa struttura di dimensioni contenute ma ben collegata, li ha resi infrastrutture aeroportuali cruciali su scala locale ed europea. Questi processi hanno altresì generato una rapida trasformazione dell’uso del suolo e della rete di infrastrutture connesse al trasporto terrestre. L’aeroporto di Stoccolma-Skavsta in Svezia e quello di Liegi in Belgio sono solo due dei numerosissimi esempi europei che hanno subito questo processo di trasformazione. Questi aeroporti mostrano inoltre come l’integrazione di nuove attività economiche, culturali e ricreative abbiano contribuito al rinnovamento attivo e dinamico dei territori circostanti, adducendo effetti positivi alle attività locali coinvolte. Così, gli aeroporti low-cost sono considerati punti di riferimento nel territorio e importanti elementi per lo sviluppo di economie locali. Nel paese degli aeroporti Ci si sta allontanando dall’atteggiamento moderno di dominazione e sottomissione dei territori che ha caratterizzato i decenni precedenti e le tendenze contemporanee. Soprattutto quando si affrontano progetti infrastrutturali o post-infrastrutturali, l’attitudine contemporanea ambisce a un atteggiamento di comprensione e di equilibrio con la condizione urbana, paesaggistica ed ecologica che è stata ereditata: una sorta di espiazione per gli eccessi del passato, per «risvegliare questi posti perduti e scuoterli dal loro sonno».7 In questo contesto, è possibile delineare alcune tendenze che sembrano guidare gli scenari futuri: la tecnologia che tende sempre più a una personalizzazione del trasporto, il paesaggio che recupera e compensa ciò che è stato distrutto, il riciclo come paradigma per rinnovare ciò che è stato abbandonato e che è in cerca di un nuovo significato. Tuttavia, dalle prime ricerche sugli aeroporti sembrano non esserci state evoluzioni significative nelle modalità di trasporto ma non si

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può escludere che in un futuro la tecnologia possa portare a nuovi cambiamenti. Si tratta di un tema mutevole e quello che risulta più evidente sembra essere uno scarto nell’evoluzione tecnologica. Da un lato, quindi, le questioni sono ancora aperte. Gli aeroporti sono anche caratterizzati da elementi in opposizione: sono isolati ma collegati alle città, sono spazi vasti ma delimitati, e integrano funzioni di trasporto con servizi urbani. Molte di queste strutture diventeranno obsolete, molte verranno utilizzate per altre funzioni e molte inizieranno nuovi cicli di vita generando un’attrattività diversificata per città, paesaggi e territori. Proprio per questo diventa interessante mantenere la grande estensione dei campi di aviazione per scopi che ancora non conosciamo. Forse, in futuro, ci saranno mezzi aeronautici differenti, che non possiamo ancora immaginare oggi. Forse, nei prossimi decenni, si scoprirà un modo per produrre energia che richiederà grandi spazi. Non si può prevedere. Allo stesso tempo, se l’aeroporto si dovesse, per esempio, trovare in un’area con grande pressione di urbanizzazione e richiesta per un nuovo sviluppo urbanistico, forse questo spazio potrebbe essere riutilizzato. Se così non fosse, una possibilità potrebbe essere quella di non riusare o riciclare l’area, ma di tenerla come riserva, in attesa di nuovi cambiamenti. Nel paese delle ultime cose diventa quindi importante salvare gli aeroporti, non solo quelli abbandonati e inutilizzati in cerca di nuova identità, ma anche i numerosi aeroporti on-hold che sono già in uso ma poco operativi e improduttivi. Tutti questi, infatti, sono occasioni per la città che non vanno sprecate per riattivare le potenzialità insite nel sistema aeroportuale, anche prima che questo entri definitivamente in declino. Gli aeroporti possono quindi essere considerati prototipi per la sperimentazione di un approccio urbano che porta verso infrastrutture resilienti. Partendo dai margini e reinterpretando gli aeroporti attraverso una resilienza creativa, si devono cercare alternative per un loro adattamento ad ambienti in continua evoluzione. In questo senso, gli aeroporti vanno salvati in quanto riserve di spazio e di energie per generare nuovi paesaggi, per ripristinare ecologie, per la produzione di cibo, per l’allevamento, per la gestione delle acque, per nuovi sviluppi urbani, per ricalibrare attività, per riattivare processi, anche temporanei.

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Note 1. Questo testo nasce come una riflessione specifica a partire dal tema trattato nella tesi di dottorato dell’autrice, intitolata Airports On-hold. Toward Resilient Infrastructures che indaga la condizione di "transitorietà" come potenzialità per infrastrutture obsolete, con un’attenzione specifica per gli aeroporti. 2. Vocabolario Treccani, dizionario della lingua italiana, edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, treccani.it, 2015. 3. Si fa riferimento alla conferenza di Serge Latouche tenutasi a Genova, il 5 marzo 2014, e al suo libro Usa e getta. Le follie dell’obsolescenza, Bollati Boringhieri, Torino 2013. 4. In Italiano la traduzione letterale di onhold non trova una corrispondenza esatta. Potrebbe essere tradotta con l’espressione "in attesa" che rende la condizione fisica degli aeroporti cui fa riferimento, ma non restituisce l’interpretazione concettuale insita nella formula inglese con cui è stata concepita. Infatti on-hold è diversa da espressioni simili come stand-by o in pause che esprimono un significato passivo. La preposizione "on", implica un’azione attiva, ovvero rivela un embrione di attivazione positiva. Occuparsi di aeroporti on-hold significa quindi intervenire su infrastrutture che hanno ancora un embrione di vita che può essere attivato o riattivato, per le quali il ciclo di vita non si è ancora concluso. Si fa riferimento a

una fase di transizione e in questo senso, lo stato di indeterminatezza di questi aeroporti potrebbe divenire un’opportunità. Pertanto il termine on-hold viene utilizzato in lingua inglese per tutto lo sviluppo del testo. 5. Progetto per il campo di aviazione Maurice Rose presso Frankfurt am Main, Bonames, Germania. Progettisti: GTL Landschaftsarchitekten, 2002-2004. 6. La mostra Airport Landscape, curata da Charles Waldheim e da Sonja Dümpelmann, raccoglie casi, progetti e pratiche di aeroporti operativi e dismessi e riutilizzati, in siti e aree specifiche. La mostra è organizzata in due grandi categorie tematiche: aeroporti operativi e Afterlives. I progetti inclusi nella sezione Airport Operations interpretano il ruolo del paesaggio come strumento per progettare e disegnare aeroporti tuttora attivi e operativi. I progetti presenti nella sezione Airport Afterlives, invece, descrivono il ruolo del paesaggio come strumento per immaginare e progettare il futuro di aeroporti abbandonati. Airport Landscape: Urban Ecologies in the Aerial Age Exhibition, 30 ottobre – 19 dicembre 2013, Harvard University, Graduate School of Design, Cambridge. 7. Kurt W. Forster, La luce alla fine…, in: AA.VV., Le Gallerie-Piedicastello (Trento) – The Trento Tunnels. Tunnel REvision, Catalogo della 12. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, 2010, pag. 55.

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IL LAGO DELL'EX-SNIA VISCOSA Romolo Ottaviani >UNIROMA

Il presente contributo guarda ai nuovi cicli di vita per spazi, elementi, brani della città e del territorio, e quindi al riciclo, a partire da un approccio epistemologico cibernetico1 e riflettendo sul territorio come esito di pratiche interattive che lo ridefiniscono come "bene comune", sia attraverso un processo continuo e creativo capace di rimettere in circolazione l’heritage (reinterpretandolo e andando quindi oltre la tradizione e la ripetizione meccanica di forme, tipi e regole), sia attraverso il riconoscimento di valori di esistenza che, a differenza delle "risorse" (in balia dei cicli di civilizzazione), travalicano l’uso che una generazione o una civiltà può farne e fondano la possibilità di produrre ricchezza durevole e valore aggiunto.2 Il contributo sceglie pertanto di salvare e di consegnare all’archivio di Memorabilia un esempio riconducibile a una pratica sperimentale di progettazione e pianificazione interattiva ascrivibile all’ambito delle pratiche efficaci che, attraverso strategie di democrazia partecipativa, mirano alla costruzione sociale e condivisa del futuro di un luogo, nonché delle regole per la sua trasformazione e riproducibilità secondo un principio di autogoverno e sostenibilità. Il lago dell’ex-Snia è a mio avviso un importante esempio da portare nel

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futuro non per la sua natura materiale di luogo o parco naturale, in questo senso ancora tutto da realizzare (demolizioni, bonifica del terreno, attrezzature), ma per il processo immateriale di sedimentazione iconica nell’immaginario collettivo che i cittadini residenti e gli attivisti, con le loro pratiche conflittuali, performative e comunicative, in venti anni sono riusciti a costruire attorno all’immagine del "lago" come di un tesoro, un prezioso bene naturale da difendere e per cui lottare assieme. Nel suo duplice ruolo di presidio resistente e di polo di produzione e diffusione culturale l’esperienza del lago dell’ex-Snia rappresenta un esempio in cui è possibile riconoscere a posteriori le tracce germinali di diverse teorie e pratiche che rappresentano prospettive futuribili che si affacciano nell’ambito della disciplina progettuale attuale. Così come il consumo del suolo – in un contesto e in una fase storica in cui la scarsità delle risorse e i pericoli di "contaminazione" definitiva dei valori territoriali sono diventati minacce concrete – il tema della misura torna con particolare rilievo, mettendo al centro proprio il soggetto "territorio" con la sua densità e complessità come valore assoluto e determinante per l’esistenza. Il patto sull’uso del territorio e la sua gestione, tra i soggetti che lo vivono, diventa dunque strategico, proprio in virtù del fatto che un bene comune, per dirsi tale, ha bisogno di regole per esistere, riprodursi, conservarsi e accrescersi in valore. Appare quindi chiaro il senso della costruzione sociale e interattiva di una visione comune, locale e sostenibile, orientata al riconoscimento del valore territoriale e alla definizione di regole per la sua riproducibilità.3 Non si tratta soltanto, quindi, della possibilità di autogestione delle risorse locali ma – come sottolinea in Governing the Commons il premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom – dell’opportunità per la comunità di definire autonomamente le regole fondamentali di uso/appropriazione del bene collettivo, in un processo di acquisizione di consapevolezza dell’interesse comune. Un processo che è anche di incoraggiamento verso scelte di tipo cooperativo che tengano conto degli effetti di azioni e decisioni sui tanti utilizzatori del bene comune territorio, oramai scarso e deperibile.4 Altro ambito di interesse rilevante è il concetto di eco-museo e più specificamente quello di "mappa cognitiva ecologicamente valida" rileggibile nel progetto del Parco delle energie, istituito nel 1997 nell'area ex industriale della Snia e in quello del Forum Territoriale Permanente del Parco delle Energie nato nel 2008 (con l’approvazione del Manifesto culturale e una prima bozza del Regolamento di gestione) e nelle sue attività scientifiche.

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Lago dell’ex-Snia Viscosa, vista dal cantiere abbandonato del centro commerciale abusivo, 1996 [Foto: Romolo Ottaviani]

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Gli eco-musei, infatti, per antonomasia traggono la loro ragion d’essere da progetti di indagine approfondita delle risorse, non solo culturali, storiche e architettoniche, ma anche ecologiche e quindi: paesaggistiche, bioclimatiche, minerarie, e caratterizzanti la bio-diversità botanica e faunistica di ogni biocenosi locale. Una progettualità che evidenzia l’intenzione di correggere l’errore epistemologico che vede contrapposte natura e artificio osservando e progettando un parco caratterizzato da un bacino naturale nato da un’azione antropica. Un’esperienza sperimentale e spontanea che in modo esemplare evidenzia come un processo di trasformazione del territorio si articoli attorno alla partecipazione e ad una creativa narrazione dello spazio urbano e come questi due ambiti si alimentino vicendevolmente. Quella del lago è una vera e propria invenzione da parte degli abitanti del quartiere e degli attivisti che, dal 1994, con una proposta di delibera, approvata dal Consiglio Comunale di Roma nel dicembre dello stesso anno, hanno iniziato il percorso che ha portato all’esproprio, ma soprattutto hanno attivato l’area attribuendole, tramite eventi e programmi culturali, il valore di spazio pubblico. L’area ex-industriale della Snia Viscosa di via Prenestina, che è stata una delle maggiori fabbriche di Roma tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, è racchiusa tra via Prenestina, via di Portonaccio e una vasta area ferroviaria che arriva fino alla tangenziale est. La sua storia rappresenta un progetto/processo di trasformazione del territorio di una vasta proprietà privata da troppo tempo dismessa, a cui dal 1969 viene riconosciuto il valore ambientale strategico con un vincolo che ne tutela i pini. Nel 1990 la società immobiliare Snia, incaricata di liquidare la proprietà, la vende ad un soggetto che ottiene una concessione a costruire tramite una falsificazione cartografica. Ma nel 1992, poco dopo l’inizio dei lavori nel cantiere, uno sbancamento di circa 10 metri intercetta la falda acquifera profonda e si forma un allagamento. Il costruttore tenta di liberarsi dell’acqua, convogliandola verso il collettore fognario, che tuttavia non regge. Si allaga largo Preneste. L’incredibile vicenda di abusivismo si conclude con l’annullamento della concessione, con strascichi di ricorsi fino al 2007. Nel 2014 l’area viene definitivamente espropriata e diventa pubblica. A partire dal 1995 viene attivato un presidio permanente occupando alcuni spazi dell’ex fabbrica e coinvolgendo l’intera area in un'esperienza di autogestione e autoproduzione culturale. Tra i tanti slogan, eventi e programmi culturali messi in campo dagli occupanti, saranno i corsi di canottaggio

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nel lago, e in particolare la loro comunicazione, gli elementi in grado di consentire nel modo più efficace il rafforzamento dell’icona naturalistica di un luogo fortemente connotato dal cemento: dallo scheletro di quello che sarebbe dovuto diventare un centro commerciale, a quelli dei grandi manufatti industriali dell’ex Snia, fino alla sconfinata area ferroviaria che costeggia il territorio della fabbrica. La scelta di un'icona balneare anticipa di diversi anni la moda delle spiagge urbane lanciata da Parigi nel 2001, che ha dato inizio alla stagione delle nuove strategie mediatiche delle grandi capitali. Nel paesaggio culturale internazionale, in questi anni, si afferma una riscoperta dello spazio pubblico nella sua accezione di spazio comunicazionale, che ha caratterizzato le scelte di molte amministrazioni, le quali, attraverso strategie di comunicazione e interventi diffusi, ne hanno rinnovato la percezione. A uno sguardo complesso, attualmente, ciò che appare è una profonda trasformazione che riguarda la qualità della modalità organizzativa dello spazio pubblico e della città della civiltà occidentale, che cessa così di rappresentare l’ottimizzazione spaziale delle transazioni intersoggettive, mentre si apre a raccogliere nuovi significati connessi con nuovi usi e nuove percezioni. Il mutamento dello spazio pubblico, da oltre venti anni dibattuto nella letteratura specializzata sugli studi urbani, vede sottesa quindi una molteplicità di variabili interrelate, che possono essere sintetizzate in tre aspetti peculiari rispetto alla trasformazione radicale dei nuclei concettuali su cui si fondava la città industriale e che si riferiscono alla rivoluzione introdotta con la globalizzazione: la mobilità, la sicurezza, la logica economica. La creatività ha cessato di essere considerata una sorta di fuga dalla struttura produttiva articolata da leggi astrattamente razionali, per essere considerata invece una strategia funzionale alla società. Ciò comporta come conseguenza che i luoghi dove si consuma l’eccesso di fantasia non sono più da considerare come luoghi di evasione, ma come parti omogenee della civiltà della comunicazione, dei consumi, esempi scientifici del nostro presente. In questo scenario la trasformazione, la novità, è portata nel tessuto urbano non più solo dagli oggetti architettonici tradizionalmente intesi, quanto dal modo d’uso spettacolare, dall’esperienza che uno spazio è capace di proporre. La mediatizzazione dello spazio passa attraverso la spettacolarizzazione, l’evento.5 Con il web siamo di fronte ad una nuova fase della riproducibilità tecnica ("riproducibilità tecnica allargata") che si intreccia con la "svolta iconica" negli studi culturali e che, nel giro di pochi

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anni, ha agito su più fronti modificando largamente pratiche sociali diffuse, dispositivi e luoghi. Non si tratta dunque soltanto di tecniche digitali di produzione e di diffusione, ma di un ambiente digitale plasmato dalle pratiche sociali di internet che ne costituisce il centro.6 Quella del lago è inoltre un'esperienza che va intesa come luogo privilegiato di sperimentazione dell’evoluzione della strumentazione e delle potenzialità del web dall’1.0 al 2.5, attraverso la quale è possibile leggere a ritroso l’evoluzione dei modi di partecipazione e delle forme di narrazione del territorio urbano nel corso di venti anni in cui si è evoluta un’idea di progetto del Parco attraverso un processo democratico di verifiche e confronti pubblici basato sulla produzione di studi e la rappresentazione di scenari. Per questo credo che il lago dell’ex-Snia non possa non essere un fondamentale caso-studio per quell’ambito di ricerca che guarda con rinnovato interesse alla partecipazione legata all’uso dei nuovi media come strumentazione utile alla trasformazione delle strutture urbane già esistenti, ipotizzando interventi meno invasivi e costosi, in un'ottica di sostenibilità. Progetti di città e comunità intelligenti, creative, popolano le agende digitali e i piani di sviluppo municipali di diverse città del mondo. Il concetto di "smart" si declina in questo caso nell’uso di infrastrutture tecnologiche tangibili e nella partecipazione attiva della cittadinanza al processo di generazione di dati, i quali combinati tra loro contribuiscono a generare un valore tanto sociale quanto economico e, nel complesso, a migliorare la qualità della vita, laddove la crisi, imponendo un approccio di contenimento dei costi e razionalizzazione delle risorse, ha fornito un’accelerazione alla riflessione sul futuro del contesto urbano in un’ottica high-tech con l’uso di strumenti come il crowdmapping, il co-design, la sharing economy o il co-working. In questo contesto si sviluppano nuove metodologie e si ridefinisce anche il ruolo del progettista che assume il compito di comunicare l’idea di città acquisendo tutte le informazioni e i differenti linguaggi della fenomenologia urbana, della sociologia, dell’architettura, dell’urbanistica, della tecnologia, traducendoli in una visione d’insieme che si dimostra comprensibile tanto per i cittadini quanto per i diversi stakeholders appartenenti alle molteplici discipline attive nel territorio urbano. In questo senso il progettista ricopre un ruolo di mediatore, necessario per comprendere i linguaggi e innescare processi volti alla collaborazione, alla progettazione strategica, al dialogo costruttivo tra individui portatori di interessi diversi; vi è dunque una dimensione etica nel

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lavoro svolto in questo contesto dal progettista, che si traduce nella responsabilità, sociale e politica, di creare immagini di mondi possibili e desiderabili, per un futuro più sostenibile, più collaborativo e più innovativo. Tra gli strumenti utili a definire e visualizzare gli scenari c’è l’audiovisivo che attraverso lo strumento del video-scenario, prende in prestito codici e linguaggi dalla tecnica cinematografica per costruire una narrazione all’interno della visione, traducendo così in maniera più efficace la complessità di un’idea. Ma dal cinema esso prende anche in prestito gli immaginari, intesi come archivi di segni iconici e simbolici; è necessario, quindi, conoscere gli immaginari relativi all’oggetto della rappresentazione (in questo caso la città) per orientare la cultura del progetto. La storia del lago dell’ex-Snia e in particolare del suo progetto rappresentano un’esperienza di auto-organizzazione che ha a mio avviso il grande valore, con la sua sperimentalità, di farsi prefigurazione di nuove metodologie, strumentazioni, pratiche progettuali che la proiettano nel futuro come vicenda esemplare. La sua straordinaria storia fatta di eventi imprevedibili e di eroica partecipazione ridefinisce in positivo il sistema delle relazioni tra singolo, società e natura, la storia di un progetto urbano che vuole valorizzare questo sistema di relazioni, una storia di empatia e di speranza che continua a produrre narrazione del territorio attraverso icone positive. A testimonianza di ciò vale la pena ricordare il video Il lago che combatte, realizzato ad arte sullo scheletro di cemento che domina il lago dal gruppo rap Assalti Frontali, che ha totalizzato 40 mila visite su Youtube, mentre su Google maps il lago risulta intitolato a Sandro Pertini.

Note 1. G. Bateson, Mente e natura, un'unità necessaria, Adelphi, Milano 1984. 2. A. Magnaghi, Il progetto locale: verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2010. 3. E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2006. 4. C. Perrone, Per una pianificazione a misura di territorio. Regole insediative, beni comuni e

pratiche interattive, FUP, Firenze 2011. 5. R. Ottaviani, Lo spazio nomade dell’esperienza, in L. Altarelli, R. Ottaviani (a cura di), Il sublime urbano – architettura e new media, Mancosu Editore, Roma 2007. 6. E. Menduni, Entertainment. Spettacoli, centri commerciali, talk show, parchi a tema, social network, il Mulino, Bologna 2013.

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SPAZI, STRATEGIE, STRUMENTI



TANTE COSE ACCADONO

SENZA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA NÉ LE RICORDI Alberto Bertagna >UNIGE

Tante cose accadono senza che nessuno se ne accorga né le ricordi. Di quasi nulla resta traccia, i pensieri e i gesti fugaci, i progetti e i desideri, il dubbio segreto, i sogni, la crudeltà e l'insulto, le parole dette e ascoltate e poi negate o fraintese o travisate, le promesse fatte e non tenute in conto, neppure da parte di quelli a cui sono state fatte, tutto si dimentica o va perduto, ciò che si fa da soli e di cui non si prende nota e anche quasi tutto ciò che non è solitario ma in compagnia, quanto poco rimane di ogni individuo, di quanto poco vi è testimonianza, e di quel poco che rimane tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo soltanto una parte minima, e per poco tempo, la memoria individuale non si trasmette e non interessa chi la riceve, il quale plasma e possiede la sua propria memoria. Javier Marías «Chi, fra voi, merita la vita eterna?»: così ci interroga Michel Houellebecq. E a quella domanda il francese risponde allo stesso modo di Marías: la fantascientifica clonazione di Daniel è un gioco vuoto perché muto, la sua sopravvivenza non è sopravvenienza, nulla avviene sopra di lui, nulla oltre il suo essere; se la vita eterna è possibile, la sua eternità è un'isola, e

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dentro l'isola non c'è posto per altro che per note personali, che finiscono per non interessare più nemmeno a chi le ha scritte. Molte delle nostre esistenze si impostano in fondo su questo, il nostro tentativo si biforca e percorre due strade ma la direzione è per quasi tutti la stessa: perpetrarsi o trasmettersi perché sia dato di noi qualcosa che possa essere ancora, e ancora. Chi infrange Palmira o dà in pasto il figlio alla madre suscita oggi il nostro orrore perché violenta il nostro desiderio più profondo: il Saturno di Goya non divora semplicemente un corpo ma l'intera ragion d'essere della cultura costruita a fatica per millenni; il suo sguardo allucinato è quello di un pazzo, come tale deve essere – per noi sani – chi non comprende quanto affermiamo con granitica certezza, ovvero che il presente discende dal passato e si direziona al futuro. L'accumulo di memoria è virtù, saggio è l'anziano, l'unico suicida accettato è il salvato che si chiede «Perché io?» e si vergogna di non essere stato sommerso come gli altri, che non riesce a convivere con tale imbarazzo ma che prima di tacere parla per chi non può farlo, ribadendo l'unico valore dell'esistenza, quello testimoniale, ovvero il proprio essere un tramite, tra un prima e un dopo e tra altri da sé. Chi merita la vita eterna? Merita la vita eterna il Saturno di Goya, mostro insensibile al sacro; merita la vita eterna il protagonista di Houellebecq, folle che raggiunge una meta errata, che confonde il necessario protrarre con il proprio inutile protrarsi: meritano la vita eterna anche i moniti che ci ricordano ciò che non si deve fare. Merita la vita eterna in generale non chi prova a trasmettere la propria memoria individuale, che «non si trasmette e non interessa chi la riceve», o si trasmette solo in parte e presto si dimentica, ma chi trasmette uno spazio universale. «Tutto si dimentica o va perduto», ed è un "purtroppo" a sottendere la locuzione, che rende amara la constatazione, che anima le nostre battaglie contro olocausti e terrorismi, contro ogni cecità, contro ogni individualismo, contro ogni frattura. Architetture, storie, luoghi; spazi, strategie, strumenti; oggetti, libri, opere: di quasi nulla resterebbe traccia, tutto si dimenticherebbe e andrebbe perduto e con quel tutto perderemmo tutto, il nostro pollice opponibile non saprebbe più valersi di utensili e non riuscirebbe a scalfire una pietra per farne una freccia, come invece sa fare da quando scrive e trasmette. Di tante cose nessuno si è accorto, di tante cose nessuno si ricorda, di tante altre qualcuno ricorda solo una parte, ma sono tutte accadute e tutte accadono: tante cose sono state fatte e vengono fatte, anche se ne rimane poco. Di tante cose nessuno si è accorto e in fondo non erano importanti,

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o lo erano solo per chi le ha vissute e le vive ancora dentro di sé, o lo sarebbero state anche per noi e ora non saremmo qui ma saremmo altrove, forse non avremmo le idee che abbiamo e ne avremmo altre, molte esperienze si sono perdute, molti scarti sono stati riassorbiti, presto o tardi, la linearità del percorso esiste solo perché è l'unico percorso che possiamo leggere, gli alberi dei nostri giardini sono alberi potati, i rami deviati quando deviano se non crollano si tagliano, le verità seminate nel giardino del nostro pensiero sono cresciute regolarmente senza troppi errori, presto o tardi anche chi oggi infrange il passato a Palmira o il futuro facendo pasto di un figlio capirà il delitto commesso, si pentirà e sarà redento, questa è la storia della scimmia che è diventata uomo, che ha prolungato la propria vita rendendo eterno ciò che via via scopriva, le scoperte di cui si nutriva. «Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi. / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi»: ciò di cui ci siamo accorti e ciò di cui ci ricordiamo deve essere ripetuto, ripetuto ancora e sempre, e non importa di ciò che ci si è dimenticati e di ciò che abbiamo perduto. Ognuno di noi plasma la sua propria memoria ma una buona parte di questa memoria deve riempirsi di ciò che che ci è stato trasmesso e ci viene continuamente trasmesso: questo è rilevante per me e quest'altro invece per tanti se non per tutti; questo è testimonianza solo di me e quest'altro è testimonianza di noi. Io mi testimonio, io provo a trasmettermi; noi ci testimoniamo e riusciamo a trasmetterci; tutto si dimentica e va perduto ma se siamo in molti a salvare ognuno il proprio libro un'intera biblioteca può sopravvivere ad un rogo. Meditate che questo è stato: milioni di persone hanno subito la stessa crudeltà e lo stesso insulto e questo va ripetuto ai figli perché non si ripeta. Meditate che questo è stato: non importano la crudeltà e l'insulto che io ho subito, non importano i miei pensieri e i miei gesti se non sono anche i vostri, non importano i miei progetti, i miei desideri, i miei dubbi e i miei sogni se sono solo miei. Meditate che questo è ed è sempre stato: importano le crudeltà e gli insulti condivisibili, la memoria o è empatica o non è eterna, ciò che non si riesce a partecipare non si ricorda. Quanto poco rimane davvero di noi, quanto poco rimane di noi e non soltanto perché la memoria individuale non si trasmette e non interessa chi la riceve, quanto poco rimane davvero di noi ed è in fondo il poco che entra nel poco spazio che resta in noi per le nostre memorie, quanto poco c'è di

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noi dentro di noi, quanto è occupato dalla memoria degli altri, quanto spazio occupa ciò che ci è stato trasmesso ed è diventato nostro anche se non lo era e non lo sarà più quando consegneremo il testimone. Quanto poco trasmettiamo di nostro, quanto poco possiamo trasmettere di veramente nostro, quanto poco le nostre esperienze sono nostre, i nostri sguardi sulle cose sono veramente nostri e non vedono invece semplicemente quanto ci è stato detto di vedere o quanto abbiamo imparato a riconoscere in un certo modo; chi merita la vita eterna, quali opere, quali libri, quali oggetti, quali strumenti, quali strategie, quali spazi, quali luoghi, quali storie, quali architetture meritano la vita eterna, il pollice opponibile della prima scimmia che l'ha usato per valersi di un utensile ha meritato la vita eterna ed è ancora il nostro mentre scriviamo con una penna le memorie che sono solo in minima parte nostre. Portate nel futuro, musei, il Saturno di Goya; portatelo nel futuro perché lì è dipinto un presente che distrugge il passato, che distrugge quello che il passato ci ha detto e continua a dirci. Portatelo nel futuro perché lì viene divorato il futuro: fatelo essere sempre presente ai nostri occhi, musei, perché quell'orrore non sia e non sia mai più se mai è stato, fatelo essere presente perché quel che dice è scritto dentro di noi anche se non ci appartiene e ci è stato detto da altri, fatelo presente perché ci ricorda la follia di chi divora il futuro dimenticando ciò che la prima scimmia che si è fatta uomo ci trasmette dal passato. Portate nel futuro, musei, il Saturno di Goya, perché portare nel futuro chi distrugge il futuro è il modo per prevenire l'errore in cui potremmo incorrere, portate nel futuro la memoria che non è mia ma è nostra del futuro e della sua imminenza, portate nel futuro la crudeltà e l'insulto degli occhi osceni di Saturno perché merita la vita eterna ciò che Goya voleva dirci. Portate nel futuro, musei e archivi e biblioteche, in fondo qualsiasi cosa, perché qualsiasi cosa trasmettiate state ricordando il passato al futuro, e questo è il progetto che continua dalla prima scimmia a noi, portate nel futuro l'idea di futuro in qualsiasi forma si disegni, che conservi o che trasformi, perché quel che interessa non a me ma a noi è che quello che siamo e siamo stati continui ad essere. Tante parole accadono senza che nessuno se ne accorga, né le ricordi: quanto ricorderemo queste parole?

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SPAZI DELLA MENTE Sara Marini >IUAV

Francofonia è il titolo di un film di Aleksandr Nikolaevič Sokurov, il termine connota la capacità di parlare la lingua francese. Il racconto del maestro russo è interamente girato nel Louvre dove, oltre allo spazio del museo, vero protagonista della narrazione insieme alle opere custodite, appaiono alcuni "fantasmi" tra i quali Marianne, Napoleone, il tedesco Metternich e il francese Jaujard. Il viaggio nel grande monumento francese è un ragionamento sull'Europa, sul ruolo della memoria storica e dell'arte. Sokurov torna a girare un film in e su un museo: Arca Russa, del 2002, narrava l'Hermitage. Francofonia insiste sul potere tangibile ma anche immateriale di uno spazio, dove è possibile accatastare tempi per confrontarli e farli scontrare con il presente. Il ragionamento proposto da Sokurov, sul valore della cultura e sul ruolo salvifico di questa, può apparire solo per un istante banale: il museo e le opere sono vivi, sono interpellati per evocare ed entrare in dialogo diretto, senza filtri, con il presente. Non c'è nostalgia e nemmeno l'idea di memoria è dogmatica, il maestro russo sta chiedendo all'Europa di risvegliare la propria capacità di fare arte e di costruire pensiero e infine di mettere questi strumenti della mente a fondamenta. Sokurov sembra così proporre un vecchio discorso, sotter-

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rato spesso da montagne di retorica, lo rimette in circolo, evidenziando la possibilità che gli spazi della memoria non ospitino solo testimonianze ma si offrano quali luoghi dove è possibile la modellazione del tempo, l'alterazione della linea temporale. Francofonia è una sorta d'inversione di marcia dove le tracce del passato sono più proiettive dell'oggi, dove il presentismo finalmente denuncia un suo primo momento di crisi. Il film mina il dogma dell'imperante neorealismo e rimette in gioco il pensiero e la sua capacità di incidere sulla datità: è il film stesso, con i propri apparati narrativi, a darsi come allucinazione, come sovrastruttura deformante, a proporsi come viaggio non in un museo ma intorno all'idea di museo, accompagnati dai fantasmi che ne propongono le diverse derive. Scegliere, salvare, catalogare o riciclare spazi, strategie strumenti può apparire un paradosso. Solitamente il peso delle cose sovrasta quello dei pensieri, entrambi sembrano incorrere in usure e richieste di continui aggiornamenti. La materia spesso offre più certezze, più sicurezze dell'intangibile. Un oggetto sembra più facilmente consegnabile ad altri, può apparire più resistente al tempo. Salvare pensieri, spazi della mente, strategie equivale a sollevare questioni sul tempo, sulla storia e sull'amnesia, sul ruolo dell'ipotesi e su quello della critica. Il paradosso però è relativo nel momento in cui si pesano le cose. Il pensiero è leggero, non pone sfide alla gravità, libera da problemi di localizzazione, non chiede spazio: è sufficientemente veloce, aereo, da essere immediatamente fattivo. Se questo è il tempo dell'immaterialità virtuale, è anche il momento in cui il pensiero dimostra tutta la propria concreta capacità di viaggiare e di liberare il fare dalle cose, dalla loro imperante presenza. Azioni effimere, fantasmi, collage, filtri visivi, citazioni si muovono nello spazio immateriale per poi cadere lievemente sulla realtà grazie al fatto di non cercare l'eterno (in alcuni casi sono già nella condizione di perenne ritorno), di non riferirsi alla funzione, di ragionare sul già dato mettendolo in cortocircuito non in termini fisici ma di senso, di riconsiderare teorie, modi di guardare, di produrre molteplici riverberi più che di invocare atti unici. Qui si parla del rimosso, non del corpo ma della mente, non tanto a scopi rivoluzionari come nei ragionamenti dell'architettura radicale austriaca, qui non si tratta di redenzione rimandando a un noto disegno di Coop Himmelblau o appunto di abitare nuvole, ma, sempre rimanendo in parte realisti, si tratta di affrontare l'altra parte del concreto: il pensiero, la mente. La ricerca in architettura sull'instabile ha una tradizione lunga e altale-

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nante che, pur essendo minoritaria, ha sempre istituito molte alleanze con altre arti e discipline. Dalle visioni di John Hejduk, che già ragionava su paure e pregiudizi che attraversano e disegnano la città, agli studi di Anthony Vidler sul perturbante, alle proiezioni politiche dell'immaginifico Lebbeus Woods o ai più recenti ammonimenti di Andreas Angelidakis per la sua Atene, che agiscono sulle coscienze più che sui muri, il rimosso, l'oscuro, il negato sono i fuochi del discorso. Si parla qui di spettri, di luoghi fantasma. Il fantasma per definizione è qualcosa la cui esistenza è discussa senza certezza, la cui figura è sfocata. La presenza di alcune stazioni fantasma della metropolitana a Parigi è testimoniata da documenti, non da visitatori: il luogo c'è ma non è attraversabile. Si fa a questo proposito riferimento a Les Misérables di Victor Hugo e alla descrizione delle fogne come "coscienza della metropoli". Serve quindi un mistero, un racconto incerto, onirico, non una mera descrizione per riscoprire la coscienza della città, le sue dimenticanze, il suo non poter fare a meno dell'ignoto per ragionare sulle logiche concrete, sulla reale facciata. Si verifica qui anche se è possibile portare nel tempo a venire il tempo: una stagione per la precisione. In entrambi i casi, che si parli di luoghi fantasma o di architettura effimera, si tratta di questioni che interessano il collettivo. L'Estate romana dimostra, in nove anni di eventi che occupano la capitale italiana, che il grande numero può fare, disegnare una grande architettura, una città. La dimenticanza o l'istantaneo sono il materiale di questi due ragionamenti, il tempo si fa spazio e strumento per agire. Le giustapposizioni di altre scene sul monumento romano sono verifiche di ospitalità e producendo ripetuti affollamenti "costruiscono" altra architettura: come indagato da Lucy Orta nelle sue opere, molti corpi possono diventare un unico spazio se connessi dallo stesso intento. O ancora all'architettura va dato il diritto di raccontare la propria corruzione, di essere eccessiva e di produrre scarti per superare un funzionalismo e un razionalismo antimonumentali. Anche in questo caso la scommessa, la partita a scacchi, come ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, si gioca con le parole e con le immagini rendendole ondeggianti, impure, montate o costruite tramite collage. È lo spazio della critica che attraversa la contingenza per superare il suo essere solo orale, per proseguire il radicale nomadismo del senso. Collare o montare è comunque costruire spazi anarchici sicuramente possibili, volutamente ipotetici, polemici perché annessi alla realtà.

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Le visioni si fanno caleidoscopiche per invitare a guardare tra le cose, nei bordi: è lì del resto, è nella frontiera che si annida il futuro, forse latente, a volte imponente nel suo arrivare senza preavviso. Osservare giochi ottici forse rimanda a qualcosa di ludico, a un disimpegno o ancora alla critica che legge e così agisce o, di nuovo, a una forbice che sceglie e a una colla che connette, sovvertendo regole. L'archivio qui non c'è perché tutto è volutamente in moto, inarrestabile, contaminabile: è pensiero che non ha bisogno di stanze ma di persone cui darsi, forse in questo è più ambizioso del reale. Certo anche il pensiero chiede un proprio monumento o, come ricorda Sokurov, chiede un luogo in cui continuare a palesarsi infischiandosene delle regole che imprigionano il tempo.

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COLLAGE Federica Caregnato >IUAV

«Così procede la storia, le parole giuste nell’ordine giusto».1 Nella sua etimologia il termine "collage" si riferisce alla materia viscosa e tenace di varie specie, la colla, che serve ad attaccare una cosa ad un’altra e, come spiega Roland Barthes nella sua introduzione alle opere di Bernard Requichot [Requichot et son corps], i collage possono avere «la forma fondamentale della ripugnanza», essere «l’agglomerato», in cui «si abolisce il ritaglio, cioè la nominazione». Allo stesso tempo possono fare della nominazione e del taglio la loro «caratteristica essenziale, così come scriveva il poeta [Carl Einstein] surrealista: "carta e un paio di forbici, ecco gli unici strumenti necessari"».2 Di fatto durante il periodo di crescita del movimento Surrealista e Dadaista il collage è diventato il principale medium con cui gli artisti dell’epoca hanno raccontato la cronaca del loro tempo e rappresentato una intera generazione alla ricerca di un modo d’esistenza rivoluzionario. Questo potenziale riconosciuto dai surrealisti rende l’interesse per lo studio del collage notevole, per cui tuttavia è necessario capire l’opera d’arte per intendere una complessione di verità che concerne anche il rapporto dell’opera con la non-verità. Umberto Eco nella sua Struttura Assente spiega al lettore che gli oggetti

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di contemplazione estetica, oltre alla loro proprietà fisica, sensibile ed osservabile, hanno anche proprietà relazionali, ricreative e ludiche, non direttamente visibili, fondando una comunicazione che procede per simboli e rappresentazioni: «Che il messaggio estetico permetta una interpretazione aperta e in progresso lo sappiamo già. Si può benissimo elaborare un’estetica che si arresti a questa affermazione come al limite massimo del suo rigore teoretico. Dopo vengono le false estetiche normative, che prescrivono indebitamente quello che l’arte deve suggerire, provocare, ispirare, e così via. Ma, nel momento in cui il messaggio estetico viene sottoposto ad indagine semiologica, occorre tradurre gli artifici detti "espressivi" in artifici di comunicazione sulla base di codici (osservati o messi in crisi)…».3 Su questo sfondo teorico il collage può essere inteso come un testo visivo, non diverso da un testo poetico, ed è proprio la sua natura metaforica che permette la mediazione tra i bordi di due realtà, in una sovrapposizione di segni e simboli decodificati grazie all’analogia: il margine cercato è un riparo interiore, limite all’inquietudine causata dall’oscurità dell’incerto e ciò che costituisce l’oggetto della paura è il ritorno del rimosso, che rivela la qualità del nostro desiderio inconscio. Come scrive Pietro Zanini nel saggio I confini delle cose «andare oltre, varcare la frontiera, vuol dire inoltrarsi all’interno di un territorio fatto di terre aspre, dure, difficili, abitato da figure pericolose contro cui si deve combattere. Vuol dire uscire da uno spazio famigliare, conosciuto, rassicurante, ed entrare nell’incertezza. Questo passaggio, oltrepassare la frontiera, muta anche il carattere di un individuo: al di là di essa si diventa stranieri, emigranti, diversi non solo per gli altri ma a volte anche per sé stessi. E non sempre ritornare al punto da cui siamo partiti ci fa ritrovare tutto quello che abbiamo lasciato».4 La dialettica stabilita sovrappone, così, all'immagine bidimensionale del collage una intuizione, che è disumanizzante in tutti i suoi modelli e lo è in maniera assai maggiore quando si tratta del suo rapporto con la storia: se c’è una qualche speranza per il futuro, di certo deve risiedere nella capacità di fissare lo sguardo nel cuore delle tenebre senza tirarsi indietro, perché «dobbiamo pensare che esista qualche altra cosa di non familiare che ci appare insieme alle cose familiari. Guardare ciò che non si guarderebbe, ascoltare ciò che non si sentirebbe, essere attenti al banale, all'ordinario, all'infra-ordinario. Negare l'ideale gerarchia dal fondamentale all'aneddotico, perché non esiste aneddotica ma solo culture dominanti

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Federica Caregnato, Collage, 2015 [Stampe a getto d’inchiostro su lucido applicate su carta, acrilico. Composizione: Venere di Milo (Alessandro di Antiochia, 130 a.C.), schermi che mostrano una centrale nucleare, sullo sfondo una fotografia di Porto Marghera dal Ponte della Libertà ]

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che ci esiliano da noi stessi e dagli altri, una perdita di senso che non è per noi solo una pausa della coscienza ma un declinare dell'esistenza».5 Il testo estetico è fonte di un imprevedibile atto comunicativo il cui autore reale rimane indeterminato, essendo necessaria, alla sua espansione semiotica, una collaborazione tra destinatario e mittente. Il problema della comunicazione rimane infatti da porre al "lettore": si accorgerà che in esso sono contenute questioni profonde e contraddizioni tanto sottili da farsi a volte intravedere solo tra le righe e in modo vago e subdolamente sfuggente? La narrazione che il collage genera è necessariamente legata ad una memoria sensibile che evoca un sentimento estetico utile a proiettarsi in una visione immaginifica, prodotto di una attività costruttiva della mente umana e solo l’approccio esistenzialista e fenomenologico aiutano a capire, riconoscendo la fusione tra soggetto ed oggetto, come l’immagine contestuale del collage coinvolga lo spettatore e lo inviti ad essere partecipante attivo e a completare l’esperienza in modo essenziale permettendo al contesto e alla storicità del luogo di entrare nel dialogo architettonico. Dialogo che è senza dubbio questione di ascolto ed asserzione. L'inserimento del collage in un archivio per il prossimo incerto futuro lo rende per questa serie di ragioni un promemoria efficace con cui si vuole ricordare ad altri o a sé stessi qualche cosa che si deve dare o dire, o che comunque importi non dimenticare. Ora l’arte del ricordare e l’azione del riciclo, occupandosi direttamente dei frammenti, degli avanzi e dei rottami ritrovati lungo i bordi delle regole e degli schemi, sono esperienze fondamentali per poter inventare innesti di rinnovamento ed il montaggio, sia nel suo significato meccanico che intellettuale, dei ritagli che compongono il collage e quindi di due (o più) oggetti di pensiero situati su piani differenti crea un insieme che ricompone la memoria attraverso la manipolazione percettiva che la produzione visiva genera: l’importante non sono gli oggetti rappresentati ma piuttosto l’ordine in cui sono disposti sul foglio, luogo concreto della rappresentazione ed insieme vuoto sospeso e fondante della composizione. La scena cercata è senza dubbio avvolta da una coltre di nebbia: l'arte fatta di segni, o comunque di materia segnata, si presenta a noi, paradossalmente, come se fosse di tutt'altra natura: ambigua, oscura, impenetrabile. L'immaginario del futuro contiene le visioni, gli scenari, le attitudini, i valori in potenza di un'epoca che da tempo, a causa di uno scetticismo di fondo e un senso di sconfitta, sono stati messi in crisi nella riflessione sull'avvenire.

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Il collage propone di riaprire un dibattito su un tema di interesse comune: la visione come futuro o il futuro come visione grazie ad una allucinazione semplice: «il miracolo della trasfigurazione totale degli esseri e degli oggetti con o senza modificazione del loro aspetto fisico o anatomico».6 Il grado di surrealtà sarà funzione della nostra volontà di straniamento, sottraendo materia all'oggetto, rimuovendo i contorni, essendo essenzialmente natura, fino a perdere il principio stesso di identità passando dal suo falso assoluto, per la scappatoia del relativo, ad un nuovo assoluto, vero e poetico. Elementi figurativi tanto distanti l'uno dall'altro generano un'accozzaglia il cui grado di assurdità è tanto maggiore quanto è improvviso «l'intensificarsi delle facoltà visionarie» che danno vita ad una «successione allucinante di immagini contraddittorie, immagini doppie, triple, multiple» che si sovrappongono «come nella rapidità propria dei ricordi d'amore e delle visioni in dormiveglia».7 Per trasformare, cioè, in drammi rivelatori dei più segreti desideri umani, ciò che poco prima era solo un'immagine. Aldous Huxley nel suo saggio Le Porte della Percezione scrive che «per sua stessa natura ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e godere in solitudine. Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie tutte queste cose sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili. Ma per coloro che credono teoricamente ciò che in pratica sanno essere vero – cioè che vi è un interno da sperimentare oltre che l'esterno – i problemi posti sono problemi reali, tanto più gravi perché sono alcuni insolubili, alcuni solubili solo in circostanze eccezionali e con metodi non accessibili a chiunque».8 La più nobile e magistrale conquista del collage si intuisce essere, quindi, l'irrazionale: contiene cioè più significati del suo originale fisico, una Verità che procede dal nostro spirito e proprio questa causa formale è l'archetipo, la figura senza sfondo, fluttuante e priva di un contesto originale. Il collage è sintomo, strategia e forma di resistenza: è la sostanza ad essere importante, sia essa astratta o figurativa attraverso composizione, scelta e creazione di parametri con cui si contribuisce ad amplificare la narrazione. Incoraggiando lo scetticismo verso le immagini stesse e ricercando la verità dietro esse, il collage sospende la percezione tra possibile e impossibile, in quello spazio sottile tra il reale e la simulazione, tra dissipazione e conservazione. Il luogo dell'arte.

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Note 1. Q. Fiore e M. McLuhan, Il medium è il massaggio, Corraini Editore, Mantova 2011. 2. Nota inserita nel testo di Y. Bois e R. Krauss, L’Informe: istruzioni per l'uso, Mondadori, Milano 2003. 3. U. Eco, La struttura assente: la ricerca semiotica e il metodo strutturale, Bompiani, Milano 2008. 4. Saggio di P. Zanini, I confini delle cose, contenuto in La città è nuda, numero monografico di «Volontà. Laboratorio di ricerche anarchiche», n. 2-3, 1995. 5. P. Virilio, Estetica della sparizione, Liguori editore, Napoli 1992. 6. W. Spies, Max Ernst: life and work: an autobiographical collage, Thames & Hudson, Londra 2006. 7. Ibidem. 8. A. Huxley, Le porte della percezione. Paradiso e inferno, Mondadori, Milano 2005.

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ESTATE ROMANA Federica Fava >UNIROMA

Il 25 agosto 1977 a Roma si apre nella Basilica di Massenzio la prima rassegna cinematografica dell’Estate Romana, Cinema Epico. A un anno di distanza dalla nomina del giovane assessore alla cultura Renato Nicolini, che curerà la manifestazione fino al 1985, quest’evento inaugura la così detta "stagione dell’effimero" durante la quale feste, manifestazioni, spettacoli diventano parte di un programma politico ed architettonico preciso. Renato Nicolini fa parte della giunta capitolina guidata per la prima volta da un intellettuale, Giulio Carlo Argan, il cui sostegno alle iniziative estive trova ragione nel desiderio comune di promuovere un nuovo sguardo progettuale su Roma a partire dal suo centro storico.1 Le cronache degli anni Settanta raccontano infatti una città sofferente, afflitta dal terrorismo, privata dei suoi abitanti e del ruolo di capitale italiana. La ripresa delle pratiche effimere si collega dunque ad una volontà di riunire gli spazi centrali di Roma con i loro cittadini, salvandoli dai processi di gentrificazione cui sembrano destinati. Nonostante le differenze storiche e culturali rispetto al contesto odierno, la scelta di archiviare quest’esperienza è motivata dalla volontà di rintracciare le principali identità dell’effimero, definendo spazi, principi ed ele-

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menti di una modalità di costruzione e di governo dei territori utili alla città contemporanea. Negli ultimi anni, e in particolare dalla crisi del 2008, la diffusione delle pratiche temporanee su scala globale sembra infatti definire un orizzonte progettuale capace di andare oltre le caratteristiche di un determinato periodo storico. Portare nel futuro l’Estate Romana rappresenta quindi l’opportunità di sviluppare uno studio critico rispetto a temi ancora attuali, stabilendo quello scarto temporale necessario a percepire la vera natura del contemporaneo.2 Utopie a tempo determinato Le opere effimere fanno parte di una pratica antica dell’urbano, legata ad un’architettura rapida, in grado di dissolversi nell’arco di un solo giorno. Parlare di architetture stagionali implica un discorso basato sui cicli, sulle narrazioni e le culture che, nel ripetersi, definiscono l’identità della città. Attingendo dalla cultura popolare,3 l’esperienza romana ricorda dunque, più in generale, un tempo dell’architettura e della vita, l’attimo ancora caro all’arte,4 che in origine accompagnava la città, costruendone volti fragili in relazione ai climi e ai poteri. La propensione all’uso più che alla costruzione, nonché la velocità dell’azione progettuale, raccontano le ragioni che stimolano la ripresa delle pratiche effimere. Punto di contatto tra la stagione romana e l’attualità è infatti una generale disillusione nei confronti degli strumenti del piano. Nonostante le molte polemiche che sorgeranno con il procedere della manifestazione, i cui esiti vengono oggi letti come i primi segni di disimpegno politico e sociale di un’emergente "città dello spettacolo",5 nelle intenzioni di Renato Nicolini l’effimero definisce piuttosto una modalità operativa attraverso cui rispondere alle istanze dell’attualità, coniugando l’architettura al presente.6 Da questa prospettiva, l’avanguardia romana trova nel progetto temporaneo una particolare via di reazione ai temi della modernità che ancora interessano il dibattito internazionale.7 Nel corso del Novecento la fiducia assoluta nel progresso determina infatti la diffusione di un’accezione eroica del progetto, le cui tracce sui territori dimostrano oggi segni evidenti del proprio fallimento.8 Abituata ad operare sulla tabula rasa del passato e proiettata in maniera esclusiva verso il futuro, l’architettura cessa di guardare al presente, dimenticando la realtà delle cose, il suo essere a tempo determinato. Già dagli anni Novanta il crollo dei muri fisici e culturali che definivano

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Studio Metaimago, T6080, Palazzo delle Esposizioni, Roma 1980

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i sistemi di pensiero e la presa di coscienza della finitezza del mondo a disposizione testimoniano la caduta delle illusioni rispetto alle certezze assicurate dal progresso. Anticipando di trent’anni le questioni attuali, Kevin Lynch sottolinea la necessità di rivedere la cultura stessa del progetto. A questo scopo, nel testo Wasting Away l’autore osserva l’architettura e la pianificazione attraverso la lente del tempo: "imparare a deperire" significa prendere coscienza della durate reale delle cose, considerandone, dal principio, la fine. Sebbene questo sguardo oggettivo, teso verso l’essenzialità del reale, possa sembrare limitante, il fil rouge che lega le iniziative romane è al contrario la condivisione di un ragionamento radicale di progetto e di città. Anche se destinati ad essere distrutti, questi progetti descrivono infatti utopie a tempo determinato, "gettando" sugli spazi del quotidiano visioni concrete di futuro. All’inizio degli anni Settanta, nel saggio L’architettura della partecipazione Giancarlo De Carlo introduce il concetto di "utopia realistica". Con questo ossimoro l’autore stabilisce una posizione, più volte riconfermata nei suoi scritti, volta a sottolineare la necessità di un metodo di lavoro basato sull’ascolto della vita stessa della città.9 Traslando nella pratica il pensiero decarliano, i paesaggi effimeri dell’Estate Romana raccontano un’urbanistica immateriale,10 dove la provvisorietà delle architetture temporanee descrive possibilità di verifica e di "correzione" del progetto in relazione al suo reale funzionamento e alle necessità degli abitanti. Città 24/7 Nel momento in cui la critica punta l’attenzione all’uso, interpretando l’abitare in termini di esperienza o di "cura",11 il ragionamento progettuale sembra indissolubilmente legato alla necessità di una sospensione critica del costruire, rivolta non solo alla natura ma più in generale al paesaggio culturale e storico esistente.12 L’eredità che oggi pesa sui territori mette infatti in dubbio la necessità di caricare il patrimonio urbano di ulteriori volumi, spostando il ragionamento progettuale verso la ricerca di strategie di gestione della città.13 Tracciando un limite alla durata dei prodotti architettonici, le pratiche effimere raccontano dunque una modalità critica di osservazione e implementazione di paesaggi urbani densi. Sebbene per Roma l'utilizzo delle aree archeologiche non rappresentasse una novità,14 l’elemento che lega queste esperienze è un’attitudine al

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recupero di spazialità e tempi inerti, ritrovando in questo modo il senso dei territori attraverso la costruzione di narrazioni contemporanee. L’azione progettuale racconta alterazioni spaziali e normative che incoraggiano l’occupazione dell’esistente attraverso usi non convenzionali. Nell’esempio del cinema di Massenzio, le maratone di film che fanno vivere la Basilica fino a tarda notte, definiscono quindi un modo attraverso cui ripopolare intere zone della città,15 affrontando in termini temporali quelle disfunzioni urbane che oggi sottolineano ancora l’incoerenza tra i ritmi della società e della città.16 Il progetto diviene quindi programma aumentando, con l’introduzione di attività desiderabili, le possibilità dei palinsesti trovati. Attraverso architetture fatte anche di soli corpi, prende forma uno sviluppo verticale dell’urbano basato sull’istallazione di supporti o opere elementari funzionali allo svolgersi delle specifiche manifestazioni.17 Oltre l’evento, l’effimero racconta dunque una strategia di riciclaggio dell’esistente dove la povertà dei mezzi disponibili è superata da un’apertura del progetto alla contaminazione con l’arte; nelle inquadrature determinate di tempo, l’architettura ruba dal cinema l’abilità di costruire allestimenti le cui tracce si dissolvono nel tempo della macchina da presa. L’azione progettuale descrive la messa a fuoco di una scena che fa appello alla capacità dell’osservatore e dell’osservato di interpretare l’esistente costruendo posizioni, punti di vista o assenze.18 Strati a perdere Per sua natura l’estate è tempo di passaggio, momento di mediazione o sequenza tra un prima e un dopo difficilmente determinabile. Posizionandosi sulla linea del tempo, le architetture stagionali materializzano dunque una condizione mediale, dove i volti del contemporaneo divengono presenze provvisorie, strati a perdere e matrici prime di nuove identità. I limiti temporali del progetto raccontano opportunità di stratificazione dell’esistente attraverso cui sviluppare forme "attive" di restauro, in linea con la rapidità dei tempi contemporanei. Nel 1978 l’allestimento della mostra T6080, ideato dallo studio Metaimago all’interno del Palazzo delle Esposizioni, anticipa le demolizioni delle strutture previste dal restauro del museo utilizzando l’ambiente che ne risulta come sito stesso dell’intervento. Spazio e tempo, solitamente occupati dal cantiere, vengono quindi assorbiti nel progetto come materiali di base della mostra che diventa a sua volta momento di sperimentazione

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aperto al confronto tra voci differenti dell’urbano.19 Lo stato di necessità trova dunque in quello di eccezione la possibilità di vivere frangenti urbani altrimenti perduti. Ulteriore esempio è ancora una mostra, Avanguardia Transavanguardia, realizzata nel 1981 lungo le mura Aureliane, nel tratto compreso tra Porta Metronia e Porta Latina. Come sottolineato da Costantino Dardi, che ne cura l’allestimento, la reversibilità e l’antimonumentalità delle architetture effimere definiscono gli estremi di un linguaggio adatto anche al progetto di contesti delicati come quelli archeologici.20 Aprendo l’antico percorso delle Mura, i cubi bianchi istallati sul lato esterno delle arcate danno forma ad un paesaggio provvisorio, evocativo di memorie altre.21 Facendo leva sulla capacità narrativa dell’architettura, i progetti della stagione romana raccontano dunque spazi d’esperienza dove ragionare a tempo determinato significa abbracciare modalità interpretative della realtà capaci di suggerirne usi e direzioni di trasformazione senza aggravare l’eredità architettonica che già pesa sulla Capitale. Portare nel futuro l’Estate Romana implica perciò la possibilità di restituire qualità culturale anche ad architetture progettate per durare solo il tempo di una stagione. Per sua natura, l’effimero scompare. Archiviare l’esperienza dell’Estate Romana significa dunque anche salvare una parte della storia dell’architettura italiana altrimenti perduta e dalla quale è ancora possibile – e quanto mai necessario – imparare a vedere, nei resti della città, un’antica meraviglia.22

Note 1. Tra le iniziative che anticipano questi temi si ricorda in particolare la mostra Contemporanea (1973), allestita da Piero Sartogo nel parcheggio di Villa Borghese progettato da Luigi Moretti e il concorso di idee per Roma Interrotta (1978). 2. G. Agamben, Che cosa è contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, pag. 9. 3. Riferendosi all’esperienza cinematografica di Massenzio, Renato Nicolini ricorda in particolare la "festa pariglia", rito pagano presumibilmente celebrato a Roma durante il Carnevale. R. Nicolini, Un effimero lungo nove anni, in L. Testa, Lo spazio inquieto: l’effimero come rappresentazione e conoscenza,

il Cardo, Venezia 1993, pp. 15-22. 4. Cfr. M. Tafuri, La dignità dell’attimo, trascrizione multimediale di Le forme del tempo: Venezia e la modernità, Grafiche Veneziane, Venezia 1994. 5. Si fa riferimento ai risultati della ricerca Effimero or the postmodern italian condition realizzata da Léa-Catherine Szacka per Monditalia alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. 6. P. Sansonetti, Effimero? È coniugare i problemi al presente, «L’Unità», 23 luglio 1983. 7. «[…] L’Estate Romana del 1979 aveva accolto gli umori più autentici e innovativi della condizione postmoderna teorizzata in quegli

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anni da Jean-Francois Lyotard. Nel momento in cui è da una parte scoperto dall’altro inventato, si teorizza il postmodernismo, prima che esso diventasse con il 1980 un fenomeno conosciuto da tutti, l’Estate Romana riesce parallelamente e simultaneamente a realizzarlo». Franco Purini, intervista con l’autore, giugno 2014. 8. Cfr. M. Douglas, L’architettura del fallimento, Postmediabooks, Milano 2013. 9. G. De Carlo, L’architettura della partecipazione, a cura di S. Marini, Quodlibet, Macerata 2013, pag. 62. 10. Massenzio 77-97 tendenze urbane: il programma completo della manifestazione, Castelvecchi, Roma 1997, pag. 25. 11. N. Emery, Distruzione e progetto: l’architettura promessa, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, pag. 110. 12. Ivi, pag. 113. 13. Cfr. F. Bandarin, R. Van Oers, Il paesaggio urbano storico: la gestione del patrimonio in un secolo urbano, CEDAM, Assago 2014. 14. Insieme alle terme di Caracalla, gli spazi della stessa Basilica di Massenzio erano di norma utilizzati per i concerti stagionali dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. 15. N. F., Cinema epico: undicimila spettatori in cinque sere, «L’Unità», mercoledì 31 agosto 1977, pag. 7. 16. Luc Gwiazdzinski sottolinea la mancanza di un progetto temporale della città evidenziandone il funzionamento limitato a sedici ore al giorno o nei weekend rispetto a una società che necessita di spazi e servizi 24 ore su 24. Cfr. L. Gwiazdzinski, La ville 24 heures sur 24: regards croises sur la societe en continu, AUBE, La Tour d'Aigues 2003. 17. «Noi ci comportiamo nel 1977 come gli

artisti della "festa pariglia", perché non facciamo nessuna operazione architettonica, l’unica operazione che facciamo è quella di prendere un grande telone bianco e di piazzarlo all’interno della Basilica di Massenzio». R. Nicolini, Un effimero lungo nove anni, in L. Testa, Lo spazio inquieto: l’effimero come rappresentazione e conoscenza, cit., pag. 18. 18. Renato Nicolini, riferendosi alle operazioni realizzate nella Basilica di Massenzio, ricorda come anche "senza architettura" il progetto non rinunci a stabilire una nuova immagine del paesaggio esistente. Nel caso della Basilica di Massenzio ciò si traduce nella modificazione dei suoi attraversamenti al fine di ritrovarne l’ingresso e dunque la visione originale, alterata dalla realizzazione di via dei Fori Imperiali. Ivi, pag. 18. 19. La mostra è realizzata attraverso la collaborazione dell’Assessorato alla cultura, l’Ente Teatrale Italiano e l’Associazione Teatri Sperimentali, invitando i principali gruppi teatrali d’avanguardia presenti a Roma ad esibirsi sulle sale del palazzo. Cfr. G. Polacco, T6080: vent'anni di ricerche teatrali in Italia, Roma, Palazzo delle Esposizioni maggio-giugno 1980, s.n. stampa, Roma 1980. 20. C. Dardi, Architetture parlante e archeologia del silenzio, in «Metamorfosi», n. 1-2, (aprile-maggio 1985), pp. 111-113. 21. Secondo le intenzioni di Dardi, il progetto evoca gli accampamenti di barbari o di nomadi anticamente addossati alle mura di Roma. L. Pavan, Costantino Dardi 1936-1991: Inventario analitico dell’archivio, Istituto universitario di architettura, Venezia 1997, p. 92. 22. R. Nicolini, Il meraviglioso urbano, in R. Nicolini, F. Purini, L’effimero teatrale, La casa Usher, Firenze 1981, pp. 67-76.

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POETICS OF CORRUPTION RICICLARE IL MONUMENTO Lina Malfona >UNIROMA

Ruins are the style of our future cities Future cities are themselves ruins Our contemporary cities, for this reason, are destined to live only a fleeting moment Give up their energy and return to inert material All of our proposals and efforts will be buried And once again the incubation mechanism is reconstituted That will be the future Arata Isozaki, Future City (The Incubation Process), 1962 Se il monumento inteso come oggetto fisico appare ormai prigioniero della sua stessa conservazione, è la sua immagine reinterpretata, alterata, traslata e quindi, in qualche misura, corrotta a renderlo ancora operante. Ed è questa immagine critica che si vuole portare nel futuro. Ma a quale prezzo? Il montaggio Le carceri di Piazza Navona propone una riflessione sul tema della corruzione in Architettura. Se la tutela del monumento può essere interpretata come un atto di conservazione del bene nella sua integrità, essa può rivelarsi anche come un vincolo o una sorta di prigionia, gene-

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Lina Malfona, Le Carceri di Piazza Navona, San Sosti 2015 [Disegno a china montato sul dipinto "Piazza Navona" di Giovanni Paolo Pannini, 1756]

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rando quella che può essere considerata come una prima forma di corruzione: la conservazione pura e anacronistica di un’opera d’arte sradicata dal suo paesaggio originario. Ma se "il potere della polvere supera il peso degli oggetti" – come scrivevano il poeta Percy B. Shelley (Ozymandias, 1918) e il cantante Robert Wyatt (Free will and testament, 1997) – ciò che resterà dell’Architettura sarà soltanto il suo simulacro, non già i segni o le rovine lasciati dall’uomo. Ciò che è possibile portare nel futuro come memorabilia non è tanto il monumento, dunque, quanto la sua immagine. Se si accettasse tale visione del mondo, accogliendo il fatto che tutto ciò che l’uomo produce è destinato a svanire, l’Architettura sarebbe costretta a negare se stessa, quindi a generare forme talmente effimere, instabili e precarie da non lasciare più traccia di sé. Tale atteggiamento ha condotto a utopie dissolutive, come la proposta di Superstudio per la Supersuperficie (1970-72), un’idea di convivenza in assenza di strutture tridimensionali di supporto, dove la prefigurazione di griglie tecnologiche in grado di costruire microambienti artificiali e modelli alternativi di sopravvivenza diventa una sorta di dichiarazione teorica della dissoluzione (della consistenza fisica) dell’Architettura. Monumenti virtuali – come il progetto per il Cimitero di San Cataldo a Modena (1971) – e città invisibili – al centro dell’allestimento dello spazio espositivo per la mostra Italy: The New Domestic Landscape (MoMA, 1972) – sono ciò che resta di una vita senza oggetti. Da un altro punto di vista, questo atteggiamento evidenzia una volontaria rinuncia al progetto, connessa a un altro tipo di corruzione, vale a dire la pretesa di poter limitare l’intervento architettonico a ciò che è ritenuto strettamente necessario, per non lasciare scarti, per non produrre sprechi, secondo quel modello della crisi che tende a limitare l’Architettura alla sua mera funzione, sostituendo il realismo della necessità all’utopia delle possibilità. Si ritiene che tale paradigma meriti di essere riesaminato perché, essendo l’Architettura un’arte, essa non potrà mai essere solo necessaria. Non sembra, comunque, che il progetto di riciclo vada in questa direzione. Esso, infatti, attribuisce all’opera identità multiple e accoglie pratiche di riscrittura delle preesistenze all’interno di un progetto che vede la città come testo archeologico o come palinsesto su cui è ancora possibile operare delle trasformazioni, magari non definitive ma di certo durature. E nel momento in cui la città accetterà pienamente tali logiche trasformative saranno i monumenti – e non le nuove costruzioni, che stentano a farsi largo – a rappresentare l’oggetto fuori posto, l’intruso o forse il monstrum:

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l’elemento di eccezionalità. Sebbene il progetto di riciclo si sottragga alla precedente forma di corruzione, esso ne introduce un altro tipo, e cioè la corruzione della purezza della forma architettonica originaria, dell’integrità dell’oggetto, dunque della sua compiutezza. In quanto operazione di prolungamento della vita dei manufatti, il riciclo genera surrogati e organismi mutanti. Alcune operazioni rivelano addirittura una sorta di autofagia, che si manifesta in quella volontà di alterare il patrimonio della città attraverso il suo continuo rifacimento, in un gioco di aggiunte e manipolazioni autoriali di quell’opera d’arte collettiva. In quest’ottica, i progettisti appaiono come quei demolitori condannati da Victor Hugo, ma anziché distruggere fisicamente il passato, essi lo ricostruiscono demolendo una precedente idea di spazio e di società. Ma bisogna anche sottolineare che il progetto di riciclo salva l’opera da quel tipo di corruzione data dal degrado, dal deperimento e dalla decadenza. Si pensi ai migliori edifici che la storia ci ha consegnato, riciclati per rispondere a rinnovate esigenze – dall’intervento scarpiano sul Museo di Castelvecchio a Verona alla Sackler Gallery della Royal Academy a Londra, di Norman Foster, fino al controverso "riciclo" del Palais de Tokyo di Parigi, di Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal. Quest’ultimo, in particolare, può essere considerato come un’apparentemente minima operazione di postproduzione dell’esistente,1 che accetta programmaticamente il deterioramento dell’edificio progettato nel 1937. L’assonanza concettuale del Palais con il Fun Palace – concepito da Cedric Price nel 1961 – e con lo stesso Centre Pompidou è fortissima: se Price propone scenari continuamente riprogrammabili, Renzo Piano e Richard Rogers attuano la movimentazione delle partizioni orizzontali del museo, mentre Lacaton e Vassal disegnano un edificio che è, di fatto, un cantiere permanente e allo stesso tempo un set cinematografico cangiante. Ma qui l’estetica del brutto prende il sopravvento in relazione alle tematiche del corpo mutante (lo zombie2): così gli spazi interni, perlomeno quelli al piano inferiore, propongono atmosfere buie da casa stregata e complessità aeree di scale e percorsi sospesi, per ricreare filiformi Carceri piranesiane. In generale, il cortocircuito tra due termini, purezza e corruzione, ha prodotto alcuni progetti utopistici di ricodifica urbana, basati sulla riscrittura architettonica di monumenti e rovine. Si pensi alla proposta di Arata Isozaki per lo sviluppo dell’area della stazione di Shinjuku a Tokyo (City in the air, 1960), dove i piloni della città nuova si sviluppano a partire dai rocchi delle

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colonne di un tempio dorico – rovine del futuro – che sono il simbolo della città decaduta, a dimostrare che anche gli organismi urbani partecipano di un ciclo biologico di crescita e declino, vita e morte. Analogamente all’operazione di Isozaki – che «ha costruito tutti i nostri sogni», scriveva Adolfo Natalini3 – il gruppo Superstudio colloca indifferentemente il suo Monumento Continuo (1969-70) al di sopra del Colosseo o a schermare i fronti di Piazza Navona o, ancora, a coprire ampie zone di Manhattan. Siamo nell’ambito di una concezione post-urbana che svuota il monumento del suo valore simbolico per renderlo un monolite muto, un semplice e provocatorio oggetto estruso. Un progetto per certi versi opposto rispetto a queste ultime due sovrascritture è la «timida proposta»4 di Ludovico Quaroni per Piazza Venezia, che prevedeva la ruderizzazione dell’Altare della Patria, cioè la demolizione parziale del monumento al fine della riappropriazione visiva dei Fori Imperiali dalla piazza. Il progetto avrebbe trasformato l’edificio di Giuseppe Sacconi in un rudere moderno con l’intento, scriveva Quaroni, di «dissacrare» il sito per purificarlo dai retorici ricordi risorgimentali. In questo modo, il monumento sarebbe stato corroso e declassato a rudere, perdendo di fatto la sua simbologia trionfalistica. «In queste condizioni il passato di Roma può addirittura mostrarsi come un impaccio, un vincolo irremovibile: né mi sembra che lo spirito e la cultura europei dei giovani architetti romani sia tale da aver superato l’invisibile ma solida barriera "storica" che impone la città. Mi sembra anzi che i leoncini del Cinquecento e del Seicento siano tali da corrompere in tutti noi, non appena si affaccino alla mente, i buoni propositi. Questo non significa ch’io non cerchi ancora, nonostante tutto, di "divertirmi" coi pochi giocattoli architettonici di cui è capace la nostra società».5 Tra i progettisti più visionari, occorre citare Yona Friedman, che in uno dei suoi disegni per la Ville Spatiale – una sorta di città alternativa, sovrapposta a quella reale – pose la sua griglia strutturale e aerea al di sopra del Centre Pompidou. Analogamente, il gruppo Archigram, in uno dei suoi fotomontaggi, mise a confronto la Walking City (progettata da Ron Herron) con lo skyline di Manhattan, posto in secondo piano, con la cui altezza si confrontava la creatura. Lo stesso Buckminster Fuller nel 1960 propose di coprire Manhattan con una delle sue cupole geodetiche, una sorta di enorme serra, invisibile alla popolazione sottostante, che avrebbe ridotto le perdite di energia della città preservandone il centro. Negli stessi anni,

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artisti come Christo e Jeanne-Claude impacchettavano temporaneamente pezzi di città, riproponendo il valore simbolico del monumento attraverso la negazione della sua vista (si pensi all’imballaggio di Porta Pinciana del 1974). Nella stessa direzione andavano operazioni artistico-performative come l’Estate Romana – la serie di manifestazioni culturali organizzate da Renato Nicolini – che diede modo ad architetti e artisti di provenienze diverse di riprogettare brani della città e riusare i monumenti e le rovine come luogo ancora operabile, in cui calare scenari effimeri. Tra i casi più radicali di corruzione del monumento e dell’organismo urbano, si ricordano quei provocatori Salvataggi di centri storici italiani proposti, ancora una volta, dal gruppo Superstudio nel 1972. Questo tipo di operazione scaturiva dalla contestazione delle pratiche di salvaguardia di tali centri, a cui si opponeva la paradossale teoria del «distruggere per salvarsi». «In tempi di apocalisse – scrivevano gli autori – il solo salvataggio è la distruzione, la sterilizzazione totale di quell’organismo che, nato per essere la casa dell’uomo, ne è divenuto prigione e infine sepolcro».6 Così la città di Venezia veniva privata della sua laguna mentre Firenze era sommersa e i monumenti di Pisa diventavano inclinati in modo che la Torre apparisse verticale. Distruggere, dunque, per liberare. Ciò che si propone di portare nel futuro come memorabilia, dunque, non sono tanto le rovine di un passato glorioso, quanto l’immaginario che ad esse si è sovrapposto e integrato: non solo i frammenti del tempio greco – immagine di classicità – ma la City in the Air di Isozaki; non soltanto i ruderi romani – con la loro idea di monumentalità – ma i disegni scientifici di Palladio o quelli onirici di Aldo Rossi per la Ricostruzione delle Terme Antoniniane e dell’antico Acquedotto (per la mostra "Roma Interrotta"). Perché per corruzione si intende anche la deformazione di un’opera al fine della sua attualizzazione. A tal proposito, si pensi al caso di Walter Benjamin, esegeta dell’opera di Kafka, che individuò nell’analisi dei procedimenti "deformanti" – tra cui la citazione – il tema di fondo delle opere dell’autore.7 Nei suoi testi interpretativi della letteratura kafkiana, Benjamin rielaborò il concetto di citazione, usandolo in maniera volutamente "scorretta", sostituendo cioè i termini di brani citati o attribuendoli ad altri autori. In questo modo, Benjamin attualizzò il procedimento utilizzato da Kafka, rendendolo ancora operante. In questo come in altri casi, la corruzione intesa come distorsione di un testo diventa un’operazione costruttiva e l’insegnamento che ne traiamo è che per comprendere una teoria biso-

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gna distorcerla, guardando non tanto al modello che l’ha generata quanto alle versioni in qualche misura corrotte, deformate e borderline di quel modello, perché sono quelle che continuano a renderlo operante. Il montaggio Le carceri di Piazza Navona rappresenta tali paradigmi. La città è interpretata come sovrapposizione spazio-temporale di due mondi, il nuovo e l’antico, il presente e il passato. Da un lato, Piazza Navona – antico stadio e luogo di spettacolo, divenuta nel tempo carcere di se stessa e luogo di tortura – si fa metafora dello stato di soggezione che la bellezza sublime del monumento (e della storia) può rappresentare, dal momento che limita fortemente le nostre possibilità di prefigurare scenari futuri. Dall’altro lato, il progetto del nuovo irrompe prepotentemente sul passato come un atto di scardinamento, come il protagonista della novella di Heinrich von Kleist – Michael Kohlhaas – che davanti alle mura di Lipsia si accinge ad appiccare fuoco alla città. A questo punto, siamo davanti a un bivio: l’urgenza di liberarci da un passato ingombrante si interroga su due possibili strategie, la rivoluzione o la temporanea amnesia, intese entrambe come presupposti affinché nuove utopie possano manifestarsi.

Note 1. Cfr. N. Bourriaud, Postproduction: Culture as Screenplay: How Art Reprograms the World, Lukas & Sternberg, New York 2002. 2. Cfr. M. Coulombe, Piccola filosofia dello zombie, Mimesis, Milano-Udine 2014. 3. A. Natalini, Arata Isozaki e il Sol Levante a quadretti, in «Modo», n. 6, gen-feb 1978, pp. 47-51. 4. L. Quaroni, C. Vaccaro, Una timida proposta per Piazza Venezia, relazione di progetto, in "Le città immaginate. Un viaggio in Italia.

Nove progetti per nove città", XVII Triennale di Milano, Palazzo della Triennale, 7 febbraio-17 maggio 1987, Electa, Milano 1987, pag. 38. 5. Ibidem. 6. Superstudio, Superstudio: Salvataggi di centri storici italiani, in «IN. Argomenti e immagini di design», n. 5, maggio-giugno 1972, pp 4-13. 7. Cfr. G. Scaramuzza (a cura di), Walter Benjamin lettore di Kafka, Unicopli, Milano 2006.

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STAZIONI FANTASMA A PARIGI Enrica Pastore, Giulia Tönz >Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana

L’oggetto da noi scelto da conservare nell’archivio di Memorabilia sono le così dette stazioni fantasma di Parigi. Si tratta di stazioni chiuse al pubblico, inaccessibili e inutilizzate per ragioni storiche o legate a questioni di viabilità. La metro di Parigi fu aperta nel 1900 in occasione dell’Esposizione Universale ed ebbe un rapido sviluppo nel giro di pochi decenni; oggi è la rete più estesa d’Europa con 16 linee, 301 stazioni e 215 km di binari che permettono un trasporto efficiente e capillare attraverso la città. Nel momento dell’apertura la Métro de Paris contava solo le otto fermate della linea 1 che collegavano i siti dell’esposizione tra Porte Maillot e Porte de Vincennes. I lavori cominciarono due anni prima, nel 1898, e si inserivano all’interno di un dibattito a più larga scala sulla costruzione di reti metropolitane urbane in città come Londra e New York. Allo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale il sistema comprendeva già 14 linee, tuttavia negli anni successivi lo sviluppo subì un brusco arresto e alcune stazioni furono addirittura chiuse: da qui la nascita delle stazioni fantasma. Al fine di una catalogazione, esistono quattro tipologie di stazioni fantasma: quelle che furono costruite e poi abbandonate, quelle che videro l’in-

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terruzione dei lavori in fase di costruzione, quelle che furono adibite ad altri scopi e quelle che dopo qualche anno di chiusura vennero riaperte. I principali motivi di abbandono di una stazione erano i seguenti: la mancanza di passeggeri a causa della posizione sfortunata della stazione, la vicinanza ad altre fermate che provocava un effetto di ridondanza, la sostituzione di una stazione con un’altra e la modernizzazione dei treni che richiedeva a sua volta l’adattamento delle stazioni per costi eccessivi. Lo stesso fenomeno delle stazioni fantasma si trova anche in altre capitali europee come a Londra le Ghost Stations e a Berlino i Geisterbahnhöfe. Nell’immaginario collettivo il sottosuolo urbano è avvolto in un alone di mistero e fascino, in particolare le stazioni fantasma che per mezzo della loro denominazione evocano una realtà sconosciuta. Nel caso di Parigi è lo stesso Victor Hugo che nei Miserabili dedica un capitolo a "L’antica storia delle fogne". Egli scrive: «la cloaca di Parigi è stata in passato importantissima. È stata sepolcro, asilo, delitto, intelligenza, protesta sociale, libertà di coscienza, furto, tutto ciò che le scienze umane perseguitano o hanno perseguitato si è nascosto in quel foro. […] La fogna è la coscienza della città, tutto vi converge e vi si confronta. In quel luogo livido regnano le tenebre, ma non ci sono più segreti. […] Una fogna è come un uomo cinico, dice tutto. […] L’osservatore sociale deve entrare in quelle ombre poiché esse fanno parte del suo laboratorio».1 Hugo quindi immagina questa rete sotterranea come un luogo dove «formicolano i ricordi» e «ogni sorta di fantasma frequenta quei lunghi condotti solitari».2 Lo stesso discorso oggi si può applicare alla rete metropolitana: non solo ricordi e fantasmi popolano il sottosuolo, ma anche le persone sono attratte dalla conquista di questo spazio. Ne sono testimonianza i murales che rivestono le pareti dei tunnel come incrostazioni pittoriche mostrando il trascorrere del tempo e la volontà creativa di darne un significato. Nella nostra idea le stazioni fantasma di Parigi sono degne di essere portate nel futuro attraverso il riuso, la valorizzazione e l’attribuzione di nuove funzioni destinate al pubblico. Intendiamo salvare questi luoghi perché lo spazio in una città così densa come Parigi è altamente prezioso, nonostante si trovi sotto terra. Esso potrebbe diventare una nuova fonte di attrazione e non servire esclusivamente come via di transito. A tale proposito, il nostro intervento si inserisce più ampiamente nel dibattito sul riciclo degli scarti e degli spazi residui che è approfondito nel testo di Sara Marini Nuove terre. Questi spazi vengono prodotti in conti-

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La stazione Haxo, situata nel 19° arrondissement di Parigi, fu costruita nel 1910 per collegare le linee 3 e 7. Il progetto fu abbandonato e gli accessi verso l‘esterno non furono mai realizzati. Esistono diverse situazioni simili, le cosĂŹ dette stazioni fantasma che nel maggiore dei casi non hanno un uso se non quello di deposito di vetture. [Foto: http://www.20minutes.fr/france/diaporama-3437-photo-737335-stations-fantomesmetro-parisien]

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nuazione dall’architettura e dalle pratiche di urbanistica e paesaggio ma rimangono invisibili ai nostri occhi; si tratta allora di scoprire nuove potenzialità e dare loro un’altra vita, una seconda possibilità. Troppo spesso si vede lo scarto come qualcosa di negativo e superfluo, qualcosa che il tempo ha reso insignificante e privo di funzione. Se al contrario lo scarto diventa materia di progetto, allora assume un significato positivo e viene salvato dalla sua condizione marginale. In quest’ottica gli spazi residui diventano luoghi di cambiamento, emerge così la loro "identità mutevole" e non predefinita dal loro precedente stato. «Nuove terre sono spazi il cui destino è segnato, spazi già fondati, significati, la cui riscoperta consiste in un atteggiamento progettuale che ne coglie ulteriori possibilità in continuità con ciò che persiste e che anzi, grazie al nuovo, amplifica le proprie capacità di relazione».3 L’argomento affrontato da Sara Marini è una risposta alla questione sollevata da Gilles Clément nell’ormai celebre testo Manifesto del terzo paesaggio dove l’autore dà voce a tutti i «luoghi abbandonati dall’uomo». Il terzo paesaggio è quello che esiste negli interstizi, privo di ogni attività umana: si tratta di frammenti senza forma, di piccole o grandi dimensioni, che rappresentano un territorio di rifugio per la diversità; è uno spazio che sfugge al potere e alla sottomissione del controllo dell’uomo, è una sorta di tattica di sopravvivenza. Quello che ne consegue è che questi spazi abbandonati sono estremamente ricchi di specie vegetali e animali, eterogenei, caotici, sono spazi dinamici. Clément esalta una nuova estetica del paesaggio dove non vince né la razionalità, né il pittoresco, ma la teoria del caos.4 Possiamo pensare al terzo paesaggio non solo come quello dove la natura fa un suo ritorno ma anche quello che vede la riappropriazione dello spazio abbandonato da parte dell’uomo senza ricorrere ad un intervento distruttivo ma cercando piuttosto un’armonia con gli altri ecosistemi. Un esempio molto rappresentativo di questa possibilità è la High Line di New York, un parco lineare che nasce dalla riconversione di una vecchia ferrovia sopraelevata e attraversa una parte della città. Furono gli stessi cittadini che si batterono per salvare questo scarto e fondarono un’associazione in favore della High Line per difendere la sua riqualificazione in spazio pubblico, tanto che oggi è diventata una delle principali attrazioni della metropoli. Il successo della High Line potrebbe essere interpretato come la creazione di "nuovo mondo" che si eleva dal suolo urbano frenetico e sempre in movimento, un microcosmo che offre la possibilità di fuggire

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ed immergersi in un’altra realtà. All’interno del parco si possono ancora percepire le tracce della precedente identità, ovvero i binari che servivano al trasporto delle merci ma adesso la natura si è inserita negli interstizi e una varietà piante cresce liberamente. È una richiesta di diritto al paesaggio, di bellezza e simbolo della rivincita del pedone sulla macchina. Un'altra esperienza che mette in luce la sensibilità verso gli spazi dell’abbandono è la cosiddetta Friche la Belle de Mai, un luogo culturale e creativo a Marsiglia dove si trovano sale per spettacoli, gallerie d’arte e varie strutture per discipline artistiche come la danza, la musica e il teatro. La Friche che in italiano significa maggese (in agricoltura indica il terreno a riposo) fu aperta nel 1992 riutilizzando una vecchia fabbrica di tabacco nel quartiere industriale La Belle de Mai. Piuttosto che demolire l’edificio che allora era in uno stato di degrado si decise di metterlo letteralmente a maggese, ovvero permettere ai cittadini un utilizzo spontaneo del luogo. In breve tempo si trasformò in un polo culturale estremamente vivo e un punto di riferimento per la città. L’imperativo di base è che sia l’arte a gestire i processi di trasformazione e di utilizzo del sito, in funzione dei progetti culturali e della loro evoluzione. Nel campo dell’arte è stato l’americano Gordon Matta-Clark che ha sviluppato il suo percorso attraverso il mondo degli scarti; negli anni Settanta fondò il gruppo Anarchitecture che nasce dalla fusione dei termini anarchy e architecture. Nello specifico egli ritagliava enormi buchi nelle solette, nelle facciate e nei muri di case abbandonate: «era essenziale al suo progetto che gli edifici che trasformava fossero dei resti urbani destinati ad una distruzione prossima».5 Quello che fa l’artista è attribuire un valore aggiunto a qualcosa che è alla fine della sua vita, una sorta di riciclo temporaneo volto a restituire un’immagine ed una memoria diversa documentando questo momento attraverso fotografie e video. Gli edifici abbandonati che attirano Gordon Matta-Clark emanano già di per sé un’atmosfera di mistero e fascino data dal loro carattere di rovina e, attraverso l’intaglio di nuovi vuoti, vengono ulteriormente caricati di valore. In seguito all’analisi di esempi concreti di riuso in campo urbano e, su un livello più astratto, in campo artistico, è opportuno citare due progetti scelti dall’ambito dell’architettura. Il primo è stato elaborato da Attira Ariffin nella sua tesi presso l’Architectural Association di Londra dal titolo Moscow Metro: The Networked Labyrinth. La studentessa progetta un sistema di luoghi pubblici sotterranei che nasce dalla metropolitana di

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Mosca, un vero e proprio network. Nella sua visione utopica immagina di trasformare le vie sotterranee di trasporto pubblico in un labirinto di vita sociale attiva ed euforica che attiri i cittadini dalla città in superficie verso l’underground. Questo sistema trasporta i nuovi fruitori dello spazio sotterraneo in una successione di esperienze senza fine come un flusso programmatico continuo. Attira Ariffin determina usi specifici e funzioni da attribuire al nuovo territorio di conquista: cinema, club, bar, galleria d’arte, ristorante… Il sistema emana un alone di mistero pur essendo un luogo di ritrovo sociale e pubblico per due motivi: sia perché si trova nel sottosuolo e non è illuminato dalla luce del sole, sia perché è organizzato secondo una struttura labirintica che fa perdere il senso di orientamento. Un tema presente nel progetto Moscow Metro è anche quello della città sotto la città, o dentro la città una via di fuga dalla realtà soprastante. Questo aspetto si trova anche nella seconda proposta che intendiamo analizzare, ossia il progetto di Rem Koolhaas e Elia Zenghelis presentato nel 1972 intitolato Exodus, or the voluntary prisoners of architecture. Alludendo alla situazione di Berlino durante la Guerra Fredda, i due architetti inseriscono nel tessuto urbano di Londra, considerata da loro una città in declino in procinto di diventare una rovina architettonica, una fascia o strip dove condensare una serie di attività e programmi. Questa banda superimposta è immaginata come un lungo muro abitato dove le persone si trovano allo stesso tempo in una condizione di riparo ma anche di prigione. Si tratta di un esodo della popolazione che diventa prigioniera volontaria dell’architettura. Koolhaas e Zenghelis rovesciano il significato del muro come elemento di divisione ed isolamento che genera sentimenti di malessere per trasformarlo in uno strumento che assume buone intenzioni e a servizio delle persone. Dopo aver esplorato diversi modi di appropriazione dello spazio urbano alla ricerca di nuove terre e significati, immaginiamo che procedure simili possano essere applicate alle 16 stazioni fantasma di Parigi attraverso interventi puntuali mirati a convertire il loro stato di abbandono; intendiamo infatti trasformare tali luoghi in rifugi urbani a carattere sociale. Così come avviene nella Friche la Belle de Mai le stazioni diventerebbero dei fulcri artistici e culturali dove sono i cittadini stessi ad proporre attività e modi di utilizzo. Si tratta di offrire dei contenitori vuoti come una tela bianca in attesa di essere dipinta e di acquistare una propria identità nuova. Tutto questo assume maggiore significato se immaginiamo che la città

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si evolva dalla condizione presente senza alcun cambiamento verso uno scenario migliore: allora lo spazio urbano diventerà ben presto un luogo disumano e non confortevole per la vita delle persone; sarà necessario trovare delle vie di fuga, nuovi spazi che offrano accoglienza e svago rispetto alla realtà in superficie. Si tratterebbe in questo caso di rovesciare il significato attuale della metropolitana, emblema del trasporto efficiente nella città contemporanea; essa diventerebbe un luogo di ritrovo dove fermarsi invece che per transitarvi senza sosta. A conclusione della nostra proposta, ci sembra opportuno precisare che le stazioni fantasma così come le troviamo oggi sono permeate da un significato quasi oscuro e perturbante, dato dal loro stato di abbandono e scarto, dove perturbante indica «la rappresentazione di uno stato mentale di proiezione che cancella i confini tra reale e irreale per provocare un’ambiguità disturbante, uno slittamento tra sonno e veglia».6 Il riciclo in luoghi sociali non cancella l’alone di mistero e fascino insito nella loro natura, bensì ne arricchisce l’identità con nuovi valori positivi, seguendo la strada della continuità piuttosto che quella della distruzione.

Note 1. V. Hugo, I miserabili [1862], Garzanti, Milano 1981. 2. Ibidem. 3. S. Marini, Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet, Macerata 2010. 4. G. Clément, Manifesto del terzo paesaggio, a cura di F. De Pieri, Quodlibet, Macerata 2005. 5. G. Grazioli, La polvere nell’arte, Mondadori, Milano 2004. 6. A. Vidler, Il perturbante dell’architettura [1992], Einaudi, Torino 2006.

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IL CALEIDOSCOPIO,

OVVERO IL TEMA DELLA RISCRITTURA RELAZIONALE

Isabella Santarelli >UNIROMA

I giocattoli spesso sono più di quel che paiono. Ridotti a trastulli per gli spensierati svaghi dei più giovani, a volte celano in se stessi efficaci strumenti di riflessione, invisibili ai più. È il caso del caleidoscopio,1 un oggetto semplice che può essere realizzato anche in casa riciclando un rotolo di cartone e dei frammenti di vetro o di plastica colorati. Si tratta di un tubo opaco al cui interno, lungo l’asse longitudinale, sono inseriti tre specchietti piani, disposti tra loro in modo da formare un triangolo equilatero. Il fondo dell’oggetto è costituito da una camera che, separata dal corpo centrale tramite una lastra rotonda trasparente, accoglie i frammenti colorati lasciandoli liberi di muoversi. Un vetro smerigliato chiude il tubo all’estremità. Quando si guarda attraverso il foro, la luce filtra dal fondo della camera e illumina i frammenti colorati che riflettono la propria immagine su tutti gli specchi. Ruotando il caleidoscopio, al precipitare dei pezzetti di vetro da un lato all’altro dell’involucro cilindrico, si creano e si disfano infinite figure simmetriche, generate dalla combinazione dell’immagine diretta con quelle create dalle riflessioni degli specchi. Questo oggetto nacque agli inizi dell’Ottocento dalla fantasia di uno scienziato scozzese,2 che lo brevettò come "macchina capace di produrre arte

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Il caleidoscopio è uno strumento ottico che con specchi e frammenti colorati crea una molteplicità di strutture simmetriche. Foto di Etringita e Catalina Paz. [Foto: https://www.flickr.com, Licenza Creative Commons]

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in modo automatico" ma che, in breve tempo, divenne bizzarria da salotto, quindi giocattolo ottico. Da allora, intere generazioni di bambini (e di adulti!) hanno tenuto il caleidoscopio con due mani portandone all’occhio la lente, ne hanno ruotato il tubo tamburellandolo con le dita e, osservandovi il lento ma inesorabile disfare e mutare di forme, sagome e strutture, hanno assistito al prodigio più sorprendente che vi sia: quello di creare nuove cose senza creare cose nuove. I frammenti colorati contenuti all’interno del caleidoscopio sono, difatti, sempre gli stessi ma, ad ogni minimo moto dell’involucro cilindrico, la relazione che li confronta si riscrive, generando forme continuamente dissimili, immagini infinitamente nuove e ulteriori significazioni di quegli oggetti medesimi. Ognuna delle immagini generate dalle infinite combinazioni e rifrazioni dei frammenti di vetro ha un limite specifico che si accompagna ad una altrettanto specifica possibilità di superamento di quel limite, intervenendo mai e poi mai sull’oggettualità delle "cose" stesse, ma su ciò che si trova inter-esse, ossia sulle modalità relazionali che le compongono insieme. In questo senso, la figura del caleidoscopio attraversa la storia del pensiero occidentale più recente. È il concept della riscrittura relazionale, infatti, a riverberare nel relativismo di Schopenhauer, quando afferma che gli avvenimenti della nostra vita sono come le immagini del caleidoscopio, nel quale ad ogni giro vediamo una cosa diversa, mentre in fondo abbiamo davanti agli occhi sempre la stessa (Aforismi sulla saggezza del vivere, 1885); caleidoscopici e vertiginosi sono i sentimenti dell’anima, Proust ne è persuaso, se ottenebrati dall’impeto della gelosia (La fuggitiva, 1925); come in un caleidoscopio, anche nelle strutture parentali il combinarsi di elementi identici dà sempre nuovi risultati, ritiene Claude Lévi-Strauss, parlando per la prima volta di strutturalismo antropologico (Elogio dell’antropologia, 1960); e al caleidoscopio E.H. Gombrich dedica un’ampia riflessione affrontando lo studio dell'istinto umano nella sua ricerca di ordine e ritmo nello spazio e nel tempo (Il senso dell’ordine. Studi sulla psicologia dell'arte decorativa, 1979). Questo oggetto, tanto piccolo nella sua tangibile semplicità quanto grande nel suo nomotetico traslato metaforico, deve essere salvato dall’oblio ed entrare a far parte di un archivio per costruire il prossimo futuro, perché si offre come indirizzo per una ri-scrittura della cultura del progetto, nel suo significato più ampio, esortandoci a non creare cose nuove ma ad avere nuovi occhi.

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Gli scenari geopolitici e demografici per il prossimo futuro indicano, da tempo e con chiarezza, la necessità di "crescere diminuendo", ossia di limitare il consumo in senso lato, ma non la produzione. Il tema è quello della ricerca, a tutte le scale del progetto, di una forma mentis ri-formativa, che ponga le tre "E" e le tre "R" in rapporto di reale equilibrio,3 e che risponda a fenomeni "biopirateschi"4 con la promozione della cultura della riduzione, senza però, per questo, minare il nostro benessere.5 In parte è il paradigma culturale della "decrescita felice" che, da Serge Latouche a Maurizio Pallante, oppone all’affluent society il sistema valoriale del "consumo etico"; in parte è il pensiero ecocentrico ispirato al Manifesto per la Terra6 che, opponendosi al materialismo antropocentrico, si offre come opportunità, sia a scala individuale che a scala sociale, di cambiare – in tempo – il centro della prospettiva occidentale sulla realtà del "capitale naturale". Guardare il mondo attraverso la lente di un caleidoscopio ci obbliga a un "salto di paradigma", per dirla con Thomas Kuhn, che consenta alle logiche produttive e/o di mercato, come alla cultura del progetto, di superare tanto le ambiguità del cosiddetto "sviluppo sostenibile" – un ossimoro secondo Wolfgang Sachs7 – quanto quella "tendenza infinitistica", come la chiama Vittorio Hösle, dell’economia moderna, alla quale si accompagna il paradosso di auspicare un illimitato sviluppo in un pianeta la cui superficie finita è dominata da evidenti limiti naturali.8 In questo contesto, "saper vedere" significa ripensare il concetto proprio di ri-ciclo delle risorse disponibili, distaccandosi e affrancandosi dalle mere nozioni di recupero, riuso e riqualificazione, per aprirsi ad accogliere rinnovate strategie e rinnovati strumenti progettuali. Non basta smettere di consumare. Non basta ri-ciclare. La soluzione richiede un impulso creativo di re-interpretazione e ri-configurazione delle identità e delle risorse. Servono idee ed elaborazioni capaci di una "visione rovesciata" delle cose, che ci consenta di … "scendere verso l’alto", ossia di cambiare destino alle forme solo moltiplicandone i punti di vista, di formulare nuove immagini solamente invertendone il senso, di seguire le direzioni impreviste del capovolgimento, dell’assemblaggio e della sequenzialità apparentemente casuale, liberando le cose dai nessi tradizionali, perché smettano di assumere senso in quanto forme connotate, ma ne assumano in quanto momenti di relazione.

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Per far questo abbiamo bisogno di nuovi schemi interpretativi, di nuove prospettive. Nell’archivio del domani c'è bisogno di salvare un caleidoscopio di cartone, perché questo oggetto si offre come "facilitatore concettuale" recando in sé due ricchezze fondamentali per il futuro prossimo venturo: una mentalità, creare nuove cose senza creare cose nuove; un metodo, creare senza alcun consumo, intervenendo non sull'oggettualità delle cose ma esclusivamente sui rapporti di connessione tra le parti, ossia stabilendovi nuove relazioni. Il trait-d’union con le questioni dell’architettura è che lo sforzo di s-comporre e ri-comporre un’infinità di oggetti, frammenti e spazi, moltiplicandone le opportunità di uso e percezione, agendo selettivamente solo sulle variazioni relazionali, è una logica generativa con un forte portato teorico e con uno straordinario potenziale espressivo. Guardare dentro il cilindro di un caleidoscopio ci dona l’occasione di intendere il mondo intero e il suo funzionamento sotto una prospettiva del tutto inversa, rinunciando alla monovalente accezione di una nozione di forma, ricusando posizioni esclusiviste e diktat formali, abbracciando una dimensione della realtà e della forma anti-prescrittiva e incircoscrivibile, trasformando la relazione tra gli oggetti, e mai gli oggetti stessi, in motore di concept, bypassando la fugace fisicità del dominio materiale. La matrice creativa del caleidoscopio, nella sua dimensione effrattiva e liberale, si offre come tramite interpretativo irrinunciabile per la realtà di domani, una realtà nella quale tanto minori saranno gli interventi sul costruito e l’energia impiegata, tanto più efficace risulterà la strategia progettuale adottata. In questi termini, il traslato della riscrittura relazionale e strutturale di spazi, luoghi e tempi del territorio è, forse, l’unica chiave per un processo di cambiamento e sviluppo.

Note 1. La parola "caleidoscopio" significa "vedere bello" (dal greco καλειδοσκοπεω). 2. Sir David Brewster (1781-1868) costruì il primo caleidoscopio nel 1816, lo brevettò l’anno successivo e ne spiegò per la prima volta il funzionamento nel volume A Treatise on Kaleidoscope, pubblicato a Londra nel 1819. 3. Ci si riferisce alle tre "E" della sostenibi-

lità: Economy, Equity, Environment; e alle tre "R" del cosiddetto "riciclo eco-efficiente": Reduce, Reuse, Recycle. 4. L’espressione è di Vandana Shiva. 5. Il termine "benessere" non indica, in questo contesto, l’opulenza e gli agi della società occidentale, misurati in termini di continuo aumento del PIL; indica bensì il bien

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vivre della concezione latouchiana, basato su una profonda risignificazione dei concetti di "ricchezza" e "povertà". 6. Il Manifesto per la Terra è pubblicato per la prima volta in T. Mosquin e J. Stan Rowe, A Manifesto for Earth, in «Biodiversity», Vol. 5, I (2004), pp. 3-9. 7. Secondo Sachs l’orientamento teorico del cosiddetto "sviluppo sostenibile", assunto ufficialmente dopo il Summit di Rio, rappresenta una contraddizione in termini. Per Sachs, nell’imprescindibilità dello "sviluppo" non può esservi alcuna coerenza con la salvaguardia e la conservazione della natura.

8. «La buona politica sarà quella capace di salvaguardare in modo globale i fondamenti naturali del mondo in cui viviamo, non più quella capace di consentire lo sviluppo quantitativo dell’economia e la soddisfazione dei bisogni più assurdi, né una politica che persegua l’identità culturale e linguistica di una nazione a discapito di altre, e tanto meno, per finire, una politica che cerchi di imporre con la violenza l’omogeneità culturale o religiosa» V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica. Etica e politica per una nuova responsabilità collettiva [1991], Einaudi, Torino 1992, pag. 29.

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OGGETTI, LIBRI, OPERE



ALLA RICERCA DEGLI ELEMENTI Alessandra Capanna >UNIROMA

Non esiste futuro senza passato Rem Koolhaas nell’introduzione al catalogo dell’ultima Biennale di Architettura, della quale è stato curatore, ricorda la sua primissima partecipazione alla mostra veneziana, nel 1980, quando Paolo Portoghesi lo invitò a presentare un contributo sul tema: La presenza del passato nell’allestimento de La Strada novissima. Tanto più lontano Koolhaas si sentiva dalla tradizione architettonica classica e dal senso di ineluttabile ritorno ciclico a figure archetipiche, da calare un grande drappo sul filo del segmento di strada a lui assegnato. Un telo inteso come un’anti-facciata, che appena in trasparenza faceva intravedere stralci dell’Arsenale, sito dell’installazione. Sollevato nell’angolo in basso a sinistra, il tessuto scopriva il piede di una colonna. Al di là di tutte le letture sul Postmderno, sul Late Modern – definizione preferita da Charles Jencks, che lo precisava attraverso sei distinte declinazioni – sulla poetica del frammento e sulle traduzioni degli ordini in lemmi, la colonna, come elemento primario, alla maggioranza dei venti autori selezionati per La Strada Novissima sembrò essere la figura per eccellenza, il simbolo, da trasportare dal passato nel presente dell’architettura, all’alba degli anni Ottanta, interpretata secondo

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personali calligrafie. La Storia diventava così un deposito di immagini e suggestioni, di ultime cose, dal quale attingere per recuperare forme e riciclarne i contenuti, proponendo nuovi sincronismi con misure assolute e relative reinterpretazioni scalari (o a-scalari). Trentaquattro anni dopo, di nuovo Koolhaas, per la sua mostra veneziana, ha deciso di ripartire dai Fundamentals e, più nello specifico, nel padiglione centrale ha ospitato i risultati di una poderosa ricerca della Harvard Graduate School of Design, che, con la collaborazione di esperti provenienti dall’industria e dal mondo accademico, ha analizzato ogni singolo elemento dell’architettura: pavimenti, pareti, soffitti, tetti, porte, finestre, facciate, balconi, corridoi, camini, servizi, scale, scale mobili, ascensori, rampe ecc., ripercorrendone la storia, descrivendone contesti, evidenziandone i caratteri, non più, come lo stesso Koolhaas aveva evidenziato per La Strada Novissima, che «sembrava celebrare la fine dell’architettura così come la conoscevamo», facendola apparire come un mercato in un perfetto spazio performativo della consunzione, ma elevando ciascun elemento costitutivo dell’architettura a suo fondamento imprescindibile, mostrato per essere conosciuto, capito e quindi consapevolmente (ri)utilizzato. Così, timpani e colonne, come scale e finestre, diventano Fondamentali alfabeti figurati, codici depurati dal vincolo del linguaggio: memorabilia minimali sono gli oggetti e gli elementi primari dell’architettura. Nel Paese delle ultime cose dell’architettura, relativamente alla sezione Oggetti, Libri, Opere, Koolhaas sembra rispondere con un manuale e con una antologia. Il primo, Elements of Architecture, disponibile per la costruzione del Poema dell’Architettura, la seconda, fatta di frammenti di film d’autore, citazioni colte e sapienti dei luoghi e degli elementi, che rilegge, rievoca e ricicla per un archivio multimediale (trans)disciplinare. Nel futuro come nell’ignoto Il 16 novembre 1974 il Radiotelescopio di Arecibo, a Porto Rico, inviava un messaggio nello spazio senza confine (conosciuto), indirizzato verso l'ammasso globulare di Ercole M13, a 25.000 anni luce di distanza dalla Terra. Non so perché fu scelta quella destinazione finale, prefiguro l’auspicio di incontrare nel percorso altri possibili destinatari del messaggio il cui contenuto, composto da 1679 cifre binarie, contiene il cosiddetto crittogramma di Drake. 1679 è il numero risultante dal prodotto di due numeri primi (23 e 73) che codifica, se letto nel verso giusto da sinistra a destra e dall'alto

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in basso, le seguenti informazioni: i numeri da uno a dieci; i numeri atomici degli elementi idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo; la formula degli zuccheri e basi dei nucleotidi dell'acido desossiribonucleico (DNA); il numero dei nucleotidi nel DNA; una rappresentazione grafica della doppia elica del DNA; una rappresentazione grafica di un uomo e le dimensioni (altezza fisica) di un uomo medio; la popolazione della Terra; una rappresentazione grafica del sistema solare; una rappresentazione grafica del radiotelescopio di Arecibo e le dimensioni dell'antenna trasmittente. Visto che il messaggio impiegherà 25.000 anni per raggiungere la sua destinazione e ulteriori 25.000 anni ci vorranno per una eventuale risposta, ad oggi, dopo 40 anni, ovviamente, ancora nessuna risposta; allora ci si domanda quale sia il senso di questa selezione delle conquiste memorabili della nostra cultura e dei caratteri fondamentali del nostro mondo fisico, se non una ricerca sull’essenziale. Il nostro biglietto da visita per l’eventuale incontro con altre forme di vita intelligente, nel caso nell’universo fossimo soli, si converte in una spigolatura di ciò che siamo e di ciò che sappiamo, da portare in un futuro lontano migliaia di anni luce, in un luogo lontano nello spazio e nel tempo, ignoto, semplicemente ignoto come il futuro più prossimo: conquiste dell’umanità dalle quali ripartire lasciando il Paese delle ultime cose. Il messaggio di Arecibo non è l’unico tentativo di tenere una conversazione interstellare, con l’obiettivo di superare il problema del linguaggio, per una comunicazione attraverso immagini significanti, ritenute di più facile e immediata comprensione. Più di recente, altre destinazioni galattiche, altre codifiche, selezionando le cose da inviare attraverso il filtro affabulatorio della memoria personale, e crittografandole seguendo ipotetiche forme di linguaggio universali. Affabulazioni Accomuna queste esperienze a chi ha partecipato alla call Memorabilia. Nel paese delle ultime cose la necessità di individuare gli oggetti materiali o immateriali da eleggere a testimoni del nostro tempo. Nel gioco della torre che costringe a operare scelte drastiche tra ciò che lasci e ciò che salvi dalla distruzione e dall’oblio, gli autori dei contributi presentati al seminario di Mendrisio, accusano una forte nostalgia di passato e non di futuro; evocano un comune sentimento di perdita della possibilità di produrre nuove cose e quindi la necessità di riciclare rigenerando, partendo

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da frammenti elementari, ai quali assegnare nuovi significati, usi tradotti, mutazioni. Nei transiti attraverso possibili stargates della eventualità, ricombinazioni di fattori essenziali, tavole periodiche degli elementi, codici numerici, semplificati e unificati pattern. Cristina Sciarrone elegge il testo di Alexander A pattern language a "strategia inclusiva e incrementale per la costruzione dello spazio" e quindi, alla stregua del poderoso manuale Elements of Architecture, sarà capace di diffondere un sapere evoluto e applicare la processualità di sistemi alla costruzione di un futuro e di un altrove. Martin Ambroise affida al racconto la nostalgia e la memoria, per dichiarare degno dell’archivio dei Memorabilia il Magnificat della ponderosa Dante Symphony di Listz, presenza reiterata in un passato personale, testimonianza dell’essere al mondo, stupore e meraviglia del sentirsi parte attiva in un universo per il quale la nostra dimensione singola è insignificante. Dare nuova vita ai ricordi come forma minuta di eternità diventa garanzia di un futuro possibile. Vite molteplici e cicliche, eterni ritorni e quindi, nell’infinito ripetersi di nuovi inizi, cancellare il concetto di fine. Non arrivare alla conclusione definitiva per poter usare all’infinito memorie trasformate in stratificazioni, ruderi in monumenti, suoni in codici da trasmettere nello spazio a testimoniare le capacità dell’uomo sulla Terra. Affabulatori i contributi di Ludovica Battista, Una pietra di sogno, di Alberto Petracchin, Il mito, di Antonia Di Lauro, Miracle Pine, che affidano alla narrazione la descrizione di oggetti e concetti, opere e ricordi per l’archivio dei Memorabilia, vicende un po' indecenti / di questa tragedia che finisce ma non comincia (Affabulazione, Pasolini 1966) immagini di una concezione relativa del tempo ove il futuro e il passato si invertono nel lasciare il Paese delle ultime cose.

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UNA VALIGIA DI OGGETTI "PARLANTI"

Giulia Menzietti >UNICAM

Selezionare cosa portare con sé nel "Paese delle ultime cose", costruire un archivio per il futuro, scegliere come equipaggiarsi per un salto nell’ignoto: è questo quanto richiesto dalla call Memorabilia. Nel paese delle ultime cose, i cui esiti hanno aperto un ventaglio di scenari, raggruppabili sostanzialmente in tre categorie: "architetture, storie, luoghi"; "spazi, strategie, strumenti"; "oggetti, libri, opere". Rispetto agli altri, il gruppo "oggetti, libri, opere" fa riferimento alla scelta di elementi concreti, palpabili, presi dallo scaffale e messi nella valigia. In realtà ciascun oggetto, opera o libro viene descritto come uno scrigno, come un contenitore denso di significati, selezionato non per la propria natura oggettuale, ma per la capacità di rimandare ad altro. Quest’ultima categoria dunque, apparentemente più tangibile, apre invece un quadro estremamente evanescente, ed evoca scenari a venire, con dei timidi tentativi di allontanamento dalla realtà. In quasi tutti i contributi di questo tavolo si fa riferimento al futuro, disegnato con immagini vaghe ed incerte: a volte come una minaccia che rimanda all’idea di partenza e di morte, oppure come vertigine per un mondo che deve ancora venire, o ancora come uno scenario da costruire usando moniti e insegnamenti del presente. Il

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futuro non è mai descritto come un territorio nuovo da conquistare ed esplorare, non c’è mai l’idea di un salto, di una cesura, di un cambiamento radicale da affrontare tra un prima e un dopo, ed emerge spesso l’esigenza di conservare la memoria, il ricordo diviene panacea per le ansie per l’ignoto. Quasi tutti i contributi giunti sembrano sporgersi oltre il presente, ma dalla ringhiera di una nave fortemente ancorata al passato. Il brano musicale Magnificat tratto dalla Dante Symphony di Franz Liszt è una delle opere scelte per questo viaggio perché ci consente di ricordare, di far riaffiorare vecchie emozioni; altra selezione riguarda il mito, da portare proprio per la sua dialettica intrinseca tra la vertigine di ciò che deve ancora venire e la nostalgia di ciò che è già stato. Viene poi "salvata" la pietra da sogno, una pietra da meditazione capace di evocare all’occhio umano paesaggi e scenari naturali. L’interesse verso tale elemento risiede sostanzialmente nel fatto che tale oggetto tiene in sé la sovrapposizione di epoche trascorse e storie passate. Questa sua natura di palinsesto, depositario di memorie lontane, le conferisce un’aura di mistero capace di spalancare le porte all’immaginazione del futuro. Nella valigia dobbiamo mettere dunque degli oggetti che ci consentono di ricordare, delle Petites Madeleines che possono offrire la garanzia di una temporalità liquida, di una continuità graduale tra il passato e il futuro. Nei preparativi per un viaggio verso "il nuovo" la principale preoccupazione è dunque quella di mantenere il rapporto con ciò che è stato, con un’attenzione che sembra eludere la dimensione del presente a vantaggio del passato, per cui occorre attrezzarsi per portare il bagaglio di ricordi e emozioni vissute, per preservarli anche nel futuro. La memoria cui si fa riferimento in quasi tutti i contributi non è una memoria razionale. Il ricordo è lo strumento necessario nella progettazione del futuro, ma il più delle volte ripristina rapporti e connessioni al di fuori di ogni logica e di ogni costruzione intellettuale. È una memoria emotiva quella che emerge dai contributi di questo tavolo, che orienta la scelta verso oggetti da portare nel futuro per un loro potenziale creativo, per la capacità di superare un certo eccesso di determinismo e rigore, che dovremmo lasciare al passato. E così il Magnificat di Liszt viene “salvato” perché ci consente di riportare in superficie ricordi vaghi e indistinti; mentre la pietra di sogno viene selezionata in quanto oggetto capace di suscitare dubbio e disorientamento, in grado di parlare di epoche lontane e di mettere in crisi “le categorie stagne di un mondo che si costituisce

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sempre più in modo completamente positivo, privo di zone d’ombra” (Ludovica Battista, Una pietra di sogno). Allo stesso modo il mito viene portato nel futuro dal momento che “agisce al di fuori della storia, battendo strade sconosciute, avendo luogo nei sotterranei della mente e dunque permettendo di scrutare il lato oscuro del mondo e di darne un significato superando la ragione” (Alberto Petracchin, Il mito). Questi contributi restituiscono la stanchezza verso una visione pragmatica della realtà, e riscoprono cose, opere e oggetti rovesciandone il significato, scovandovi potenzialità appartenenti ad una dimensione libera e immaginifica, assolutamente necessaria alla costruzione di nuovi scenari. Questo tipo di equipaggiamento porta dunque alla costruzione di un archivio, all’interno del quale oggetti, opere o libri, depositari di storie e vicende più o meno lontane, vengono traghettati dalla dimensione del passato a quella del futuro. Come un grande ventre, infatti, all’interno dell’archivio questi memorabilia vengono ingurgitati e digeriti, per poi essere restituiti al mondo completamente modificati, pronti ad affrontare scenari e prospettive future. In tale operazione gli enzimi digestivi vanno a sciogliere legami, attribuzioni e codici appurati e condivisi, per liberare questi materiali da significati e usi convenzionali, e porre in essere nuove connessioni e nuove possibilità. Il significato stesso di archivio viene riscritto: non più un luogo deputato alla conservazione di oggetti preziosi, catalogati secondo gerarchie e criteri stabiliti, ma punto di accumulazione di materiali eterogenei, tenuti insieme da legami sciolti, da comporre e ricomporre liberamente. L’archivio dei memorabilia è allora contenitore e allo stesso tempo processo creativo, particolarmente efficiente se applicato a quegli elementi che hanno saputo mantenere delle “zone d’ombra”, e che permettono ancora di intravedere “il lato oscuro delle cose”. In questo senso risulta necessaria quella memoria emotiva spesso citata nei contributi di cui sopra, capace di mantenere sullo stesso piano registri temporali differenti e sovrapposti, e di riscrivere la realtà attraverso libere associazioni e nuove attribuzioni di senso. Il mito, la pietra di sogno, il Magnificat di Liszt non vengono scelti per essere fruiti, osservati, ascoltati... ma perché depositari di contenuti irrazionali, di chiavi di lettura alternative che risiedono nella loro natura ambigua, sospesa tra il passato e il presente, tra favola e verità, tra inconscio e subconscio. Tali elementi si prestano a stabilire nuovi rapporti con il contesto, con la realtà, e in questo senso diventano disponibili al riciclo, alla riscrittura dei loro significati.

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Distanti da voli pindarici o da fantasiose acrobazie per inventare scenari a venire, si resta ancorati all’esperienza del presente anche quando si tenta di scavalcarlo. Il futuro si colloca nello spazio dell’esperienza, e “il nuovo” non è altro che la riscrittura di un déjà vu. Se non esiste alternativa a questo mondo, l’unico gesto creativo è introdurre una “possibilizzazione del reale” (Dario Gentili, seminario Heritage. Prove d’orchestra, Palazzo Grimani Venezia, 20/03/2015), tentando di selezionare e trasformare ciò che c’è già. L’archivio stesso viene riciclato, liberato da quella patina di polvere che oggi spesso ne offusca il significato, e trasformato in un laboratorio sperimentale, dove si ricicla l’esistente. Se l’archivio diviene dunque il mezzo, e i dati dell’esperienza i materiali, la possibilità cui si affida questo processo di riciclo del reale e disegno del futuro è contenuta tutta nell’immaginazione. Un’immaginazione rivista e reinterpretata, silente e sommessa rispetto a quella di altre stagioni passate, con meno ambizioni verso trasformazioni radicali ma con la sfida di costruire il futuro con i materiali del presente. Gli oggetti, i libri e le opere proposti dai contributi di questa call disegnano un quadro di elementi selezionati proprio per la capacità di “rilanciare i meccanismi dell’immaginazione” (L. Battista) e di attivare “sentimenti di nostalgia e vertigine per un mondo che non abbiamo mai vissuto ma desideriamo proiettare nel futuro” (A. Petracchin).

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OGGETTI E ICONE:

RIFLESSIONI TRA MEMORABILITÀ E IMMEMORABILITÀ Dina Nencini >UNIROMA

Se vale l’affermazione che «Non è la civiltà a produrre i rifiuti. Sono i rifiuti e il nostro bisogno di tenerli a distanza, a produrre la scienza e l’arte, la musica e la matematica» (D. DeLillo, Underworld, Einaudi, Torino 1997) allora vale dire che ciò che noi vogliamo mantenere e che consideriamo essere le "ultime cose" non ha a che fare con la produzione, con il consumo, con l’uso e la fine dell’uso, con la rimozione, con la sostituzione… Se condividiamo lo sguardo di DeLillo sui rifiuti, possiamo sostenere che le "ultime cose" sono tutto ciò per cui noi siamo, in un certo senso, irrilevanti. E se ciò è vero significa paradossalmente che ciò che dovremmo mantenere ad infinitum non ci riguarda, anzi ci esclude… significa che le ultime cose sono tutto ciò che non può essere rifiutato poiché per essere tali devono essere oltre il giudizio, non avendo quindi a che fare con noi, con il nostro tempo, con le categorie che ne definiscono i tratti o con le nostre unità di misura e con le nostre necessità, soprattutto, con il nostro modo di appropriarci delle cose, di consumarle e usarle. In realtà esiste una possibilità di intendere la relazione tra memoria e scarto che ci porta, noi fuggiti dalla porta d’ingresso della casa delle certezze, con un moto irrefrenabile a rientrare dalla finestra per stabilire ciò che è da mante-

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nere, di più… da ricordare, memorabilis, come rovescio della medaglia di un mondo che consuma tutto e che riduce tutto a scarto. I personaggi di DeLillo compiono una "pratica conoscitiva" proprio attraverso l’immondizia, attraverso cui entrare in contatto con un’identità con il segno meno, o vista dal di sotto, in una società, quella americana, che getta più del 40% di ciò che acquista per nutrirsi. DeLillo con un magistrale gioco del pensiero ci dice che il rifiuto è qualcosa che pur essendo privo di identità ha un potenziale "di ritorno": il rifiuto, lo scarto ciò che noi gettiamo ci riporta un’identità che non si dà più come compiuta e integra, ma passa attraverso l’informe e la dis-integrazione. Lo scarto immemorabile non rientra nelle categorie della costruzione, dell’essenza permanente e stabile, nega ciò che è compiuto in favore dello scomposto, del disgregato, del decomposto… del finito. Questa finitudine che, dalla caduta del Muro in poi, la cultura occidentale ha portato a essere la ragione dell’esistenza dell’uomo in un elogio della parzialità, dell’imperfezione, del limite, e che di fatto ha generato un’attitudine antagonista al pensiero dell’essenza, della perfezione e della forma. Tuttavia proprio il nostro tempo non riesce a sottrarsi alla ricerca di "nuovi ordini", alla riformulazione di altri principi di identità. Di certo siamo di fronte alla fine di un’equazione: se l’identità si definisce attraverso ciò che è memorabile, ciò che è dis-identitario e disappartenente è immemorabilis? In una circolarità dialettica l’immemorabile rifiuto, l’abbandonato scarto, informe e dis-appartenente cerca la via del ritorno alla forma, all’appartenenza, all’identità innescando processi di trasformazione, di trasgressione, di mutazione… per tornare a un nuovo – e inevitabile? – ordine. Ma come ci suggerisce Galimberti «Il mondo della vita è sovrabbondante rispetto ai nostri tentativi di ordinamento». Sebbene scegliamo di adottare strategie di ordine anche labile, o con significazioni molteplici, sebbene ci sforziamo di includere, di accogliere, di elencare, di rinominare, cadiamo sempre in quella "vertigine della lista" che ossessiona i moderni. È per questa breve riflessione che per me è dominante, tra i contributi nella categoria "Oggetti, Libri, Opere", la proposta di Ludovica Battista. In effetti si tratta di un oggetto: Una pietra di sogno, vero object a reaction poetique avrebbero detto i surrealisti, ma anche materia primordiale la cui forma prescinde dall’uomo. L’antinarratività e l’a-cronicità della Pietra di sogno mettono all’angolo, riducono al minimo le possibilità delle categorie spazio-temporali, di classificazioni. L’esclusione dell’uso, anzi una intensa inutilità afferma una dimensione aperta e indeterminata.

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Una possibilità di dire in modo diverso le Cose Ultime avrebbero potuto avere Martin Ambroise, Essere al mondo parlando di oggetti che, pur essendo rappresentazioni del genio, non fossero tuttavia stati fagocitati dal logorante lavorio che la comunicazione ha fatto su di essi. Infatti l’alternativa all’universalità a cui allude con la sua scelta Ludovica Battista avrebbe potuto essere un’opzione assolutamente storica, nella quale cioè si fosse espressa in maniera inequivocabile una posizione politica. Questa modalità appare più efficacemente presentata nella proposta Il mito di Alberto Petracchin. Più che a un oggetto, rappresentato dal disegno di Max Klinger del 1911, egli allude alla metafora che sottende la rappresentazione. Egli coglie la vocazione pedagogica del mito, che a differenza dalla storia non aspira all’oggettiva verità, ma piuttosto al monito attraverso la narrazione. Proprio la vocazione pedagogica determina il piano etico del mito, la condizione affabulatoria e, citando Barthes, la scissione tra forma e senso. La convinzione che gli oggetti scelti e destinati a prendere posto tra le ultime cose debbano essere altrettanti ammonimenti caratterizza cinque dei sei contributi, in particolare quello di Sciarrone e Di Lauro. Anche questo è un modo di attribuire ad essi una "certa" necessità. Anche questo è un modo per dire che l’utilità, la funzione dell’oggetto ne precede l’essenza. Anche questo è un modo per rientrare in un principio di ordine, forse più inconsapevolmente, forse con distrazione, ma pur sempre in un ordine. Le Cose Ultime dovrebbero essere ciò che fuoriesce da queste definizioni, ciò che è impossibile ricondurre a qualsiasi categoria, assumendo il carattere di "ciò che precede l’uomo e perdura indipendentemente da esso", ma nelle quali l’uomo possa riconoscersi anche per un istante, per quella "dignità dell’attimo" enunciata nell’apologia della caduta di Manfredo Tafuri. Le Cose Ultime superano la forma e l’informe, ne sono al di là. Sono ciò che Florenskij definisce essere l’icona (Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977). Quando la forma si cristallizza in una figurazione assoluta e immobile essa diviene icona. L’icona è quanto di più permanente vi può essere nella raffigurazione, è l’aspirazione a rappresentare l’archetipo con l’essenziale pretesa di oggettività. È l’inattualità per eccellenza, il trascendimento della durata nella fissità. L’icona è l’antitesi dell’immagine come la intendiamo nel contemporaneo, aperta e consumabile. L’immagine prodotta dalla società capitalistica, come ci ha ricordato Debord, si è separata dalla vita; al contrario l’icona è la vita che aspira alla trascendenza e all’assoluto.

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ESSERE AL MONDO Martin Ambroise >Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana

Ci siamo. Siamo nel paese delle ultime cose. Ciò che si presentiva è finalmente arrivato. Il mondo non è più ciò che era e sono adesso probabilmente gli ultimi uomini della terra. Le loro preoccupazioni sono molto diverse da quelle che erano le nostre. Oggi lo sanno, sono gli ultimi. Se i loro bisogni restano gli stessi, le loro preoccupazioni sono tutt’altre. I loro spiriti sono altrove. Ma non sono tristi, non sono neanche rassegnati o terrorizzati. Provano giusto trovare una strada. Forse la strada? Senza sapere comunque come giungerci. E senza sapere neanche la sua reale esistenza… Una strada che sarebbe forse semplicemente quella che li separa dalla morte o da una vita eterna per gli ultimi credenti. Nel paese degli ultimi uomini i beni materiali hanno solo poca importanza. Gli uomini si ricordano che hanno praticamente conosciuto tutto, le gioie, le pene, l'amore, la facoltà di comprendere, la possibilità di scegliere. Senza tristezza si ricordano i migliori attimi di una vita passata. Felici di avere potuto conoscere ciò. Sono consapevoli della fortuna che hanno avuto di vivere questi momenti. Comprendono ugualmente che siamo poche cose. Che alla fine i beni più preziosi della specie umana sono probabilmente le emozioni che noi pos-

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Mark Rothko, No. 61 (Rust and Blue), 1953 Musica del compositore austriaco Franz Liszt, il Magnificat è la terza ed ultima parte della sua opera Dante Symphonie. Scritta nel 1855, è ispirata alla Divina Commedia di Dante. Dopo l’Inferno e il Purgatorio, il Magnificat è il passaggio a qualche cosa di più luminoso. Col Magnificat è prima di tutto una speranza che rinasce. Dopo una musica più triste e forte in intensità sonora che ricorda le tribolazioni, è un canto nuovo e pieno di speranza che si offre a noi.

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siamo provare: delle emozioni spesso legate alle relazioni create con gli altri. Questa distanza rispetto alla vita permette di capirla meglio. In questi estremi istanti, ogni momento è un bene, ogni sorriso un tesoro, ogni parola uno scambio. Le discussioni girano intorno ai rapporti di amicizia che hanno potuto creare, delle complicità che hanno saputo sviluppare. Si ricordano delle risate che hanno avuto ma anche dei dolori condivisi. Le emozioni sono là, come la chiave di ogni ricordo. A certi ritorna in mente la nascita di un bambino, ad altri i brividi che hanno avuto incontrando la loro compagna o il loro compagno. Senza nostalgia si ricordano le ricchezze di una vita. Come un universale sapere, le emozioni ed i ricordi li riuniscono. In lontananza qualcuno grida. Gli ultimi uomini si girano, sanno che è uno dei loro. È un adolescente, corre, gli piacerebbe fargli ascoltare qualche cosa. È una musica che suo padre gli faceva ascoltare da bambino. Si ricorda che, per lui, questa musica sembrava venire direttamente dal paradiso. Si tratta del Magnificat della Dante Symphonie di Franz Liszt. Il silenzio nasce. La musica comincia. Gli uomini ascoltano, sconvolti di potere sentire di nuovo della musica. Questa musica ha qualche cosa di divino. Il timbro degli strumenti, gli accordi trovati sembrano soprannaturali. L'armonia è tale che gli uomini sono come raggelati. Un'emozione li riduce al silenzio ed all'immobilità, è il loro cuore che ascolta, batte, reagisce. Spinti verso qualche cosa di più alto, il coro delle donne ricorda loro i canti celesti degli angeli che hanno potuto sentire nelle chiese. Una nuova speranza si fa sentire. Gli ultimi uomini l'hanno compreso. Senza paura sanno che la morte verrà a cercarli. Ma sanno anche che qualche cosa di più forte esiste e resiste. L'affetto, l'amicizia, l'amore sono in loro e resteranno in loro. Sono pronti, pronti a partire. I canti ancora nella loro testa, è un'ultima preghiera composta di tenerezza che scappa dalle loro labbra. L'adolescente lo sa, se dovesse tenere una sola cosa di questo mondo, sarebbe questa musica. Questa musica che gli sembra ancora più bella da quando è stata condivisa. Sì, è lei che lo rallegra, lo nutre e che amerebbe portare con sé.

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UNA PIETRA DI SOGNO Ludovica Battista >IUAV

Il sasso destinato all’ultimo orizzonte è un residuo dell’estremo Oriente, una pietra di sogno cinese. La piêrre de reves, tale la chiama Roger Caillois nei suoi saggi,1 è una lastra di marmo come venivano fabbricate nel XVIII secolo nella provincia dello Yunnan, dove, durante le proprie escursioni fra i monti, artisti e artigiani cavavano brani di roccia riconoscendovi un particolare valore figurativo, curandoli poi per farne degli oggetti di meditazione. Fra lo stato primario del masso estratto e la sua forma manufatta trascorrono da allora attenti processi di taglio, di levigazione, di osservazione, finché la materia minerale non assume l’aspetto di un’opera d’arte, sulla quale gli stessi uomini che l’hanno scelta entro le confuse concrezioni incidono l’unico segno chiaramente umano: un nome o una poesia che la descrivano. L’epigrafe segna l’inizio della sua permanenza. I tratti impressi sulla dura superficie sono pennellate calcaree miste a solchi antropomorfi, una seducente confusione sulla reale origine dei paesaggi inquieti che rappresentano. Persa ogni opportunità di attribuire i disegni dei sogni lapidei a un autore, è proprio la descrizione sovrimpressa a costituire la radice del mistero di questi oggetti. Confine tra l’immaginazione e la produzione spontanea del corpo terrestre senza organi, il brandello

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di scrittura continua il processo di selezione narrativa iniziato dal taglio, accetta la responsabilità del racconto per condurre oltre la propria fissità la grafia delle ere geologiche. In un attimo, il linguaggio dell’uomo diventa voce del sasso. Immaginare che da un frammento inorganico emerga una moltitudine di possibili storie è anche più plausibile considerandone la natura stratificata. La superficie da cui emergono queste immagini orizzontali è, infatti, una sezione del concatenamento fra gli strati, un piano di consistenza deleuziano2 in cui la struttura non ha ancora forma, e per questo è capace di espandersi fino a dire l’indicibile. Si tratta di un’estensione tacita e magnetica. Dalle immensità inumane delle falde, ormai ferme e ben lisciate, emerge la tensione immaginativa che ha alimentato la passione antiquaria degli intellettuali francesi; dalla condensazione incosciente dei tempi si profonde un’aura dura, impenetrabile, opaca; dal gesto premuroso dell’artigiano affiora fragile la presenza nella pietra di un’anima. Serve, quest’anima, al paese degli ultimi. Nel suo eterno presente è scomparsa ogni sovrapposizione e tutto è continuamente esposto. L’ossessione della sopravvivenza delle cose rende impossibile che esse si scontrino per dar vita all’inatteso, a maggior ragione perché l’inatteso risulta inutile, inidoneo all’esistenza. Tutto è per essere macchina, oggetto funzionale, pronto, rassicurante, senza zone d’ombra. Allora, il sasso è una detonazione. Apre una voragine nella superficie del futuro trasparente. Un improvviso moto di stupore sorge nel riguardante al trovarsi finalmente dinanzi a un ostacolo, prima ancora di riconoscervi qualunque immagine. È la materia ermetica d’intralcio a colpire, rivestita di prezioso mistero. Pur trattandosi dapprima di meraviglia disorganizzata, ne scaturisce lentamente un impianto dialettico. Le domande procedono palmo a palmo con la vista, instaurando una relazione viva con le linee della pietra, trapassando le une nelle altre come esse, alla ricerca di un più grande tì esti?, "Che cosa?"; nel marmo inizia un dialogo individuale e interiore, scrive Florenskij: «"A che miro? Che cosa mi ha stupito? Che cosa mi scruta dallo spiraglio del mio solito essere? Che cosa mi turba?". E al pensiero che domanda, il mistero carezzato risponde per bocca del pensiero stesso».3 Oscillando tra i dendriti marmorei e i tratti incisi a mano, il turbamento umano di fronte alla lastra raccoglie attorno a sé un disorientato circolo di dubbi, provando a capire le condizioni esistenziali di questa immagine completamente rigida eppure dalla forma inesauribile.

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Una "piêrre à images" proveniente dalla mostra Itineraires de l’art en Chine del Musée Guimet di Parigi

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Si cercano le cause, i sottofondi del ritaglio minerale. Certo a nascondersi dentro la sua pulsazione è la potente forza dell’entropia, meccanismo naturale che oltrepassa i limiti delle cose per dirigerle sempre verso una maggiore complessità. A essa possono imputarsi le asimmetrie vertiginose della materia staccata dalla roccia, che rendono l’immagine livellata apparentemente informe. Si scrive "apparentemente" perché in realtà l’informe è, secondo l’insegnamento di Krauss,4 un’operazione avviata dalla sparizione completa della prima persona, che sospende il campo del visibile nel momento di assenza del soggetto, laddove la figura della piêrre de reves contiene forte il segno dell’uomo che l’ha selezionata, rendendola profondamente rassomigliante a qualcos’altro pur non cambiandone il disegno originale. Non è necessario invero al corpo inorganico deformarsi per definirsi o assumere un nuovo significato, essendo tanto denso da poter accogliere sempre nuovi strati. Il mutamento è una linea elastica distaccata dall’involucro figurativo. Quando la lastra, per giunta, è posta verticalmente a sfidare la gravità, si emancipa nettamente dal proprio informe primordio che, fin nella lavorazione artigiana, la attribuiva al pesante mondo orizzontale. Eppure, contrariamente alle aspettative, con questo gesto essa non si scrolla di dosso neanche un briciolo della sua polvere, ma, anzi, dimostra al mondo delle ultime cose l’indomabile resistenza del passato. In posizione eretta, il sasso non è più solo una concrezione ripulita ma un legittimo abitante del mondo delle opere, e ne approfitta per mettere in mostra la fosforescenza del tempo. La pietra è la pausa necessaria per distendersi al tempo che procede all’interno. Dai suoi antichi corrugamenti traspare la negatività indispensabile a riattivare i moti interrogativi. Chiedere alla lamina di marmo di operare, da sola, un cambiamento radicale nel funzionamento del sistema delle ultime cose sarebbe tuttavia esagerato. Essa rappresenta piuttosto una soglia verso una diversa coscienza di esso e di sé. Porta pesante e profonda che conduce nella regione «del segreto, dell’incertezza, della trasformazione, della morte, della paura, ma anche della nostalgia, della speranza e dell’attesa»,5 il suo arrivo segna la sopravvivenza della crisi. Pur essendo un punto oscuro e inaccessibile, anzi, proprio per questo, il sogno in forma di sasso rischiara il pensiero vorace dell’ultimo avamposto della Storia, opponendo la propria materia al tono positivo dello spazio ininterrotto. Il suo luogo è all’ingresso del vorticoso archivio delle cose superstiti, come un lumino al principio di una galleria.

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Esso risponde all’esigenza di un senso di riferimento, senza il quale risulterebbe impossibile orientarsi nel complesso di eternità che si susseguono, e quindi realizzare qualunque movimento, teoria, sguardo. Per rilevare le cose dalla dispersione e considerarle nella loro discontinuità, riafferrando l’istante e la ragione per cui si è prodotto il loro conservarsi, è quindi necessaria la mediazione di una lente ibrida, in cui passato e futuro convergono. È in questo senso perfetto il modo in cui si intrecciano i differenti tempi della "pietra straordinaria", gongshi in cinese, per cui essa giunge all’inventario di confine sdoppiata nella sua naturale concretezza e nella sua umana astrazione. A riguardo, se della sua posizione fisica al principio del paese si è detto, bisogna dire dell’intangibile. Non è infatti la traduzione dell’iscrizione a margine a doverla accompagnare nell’avvenire, ma la sua storia: dalla prima volta in cui è stato tramandato, basta che tale racconto si propaghi di bocca in bocca come un mito fantastico, lasciando che nel tempo si costruisca un ulteriore velo di sovrapposte narrazioni, e che attraverso il passaggio da un essere umano all’altro non esista più una verità conclamata ma piuttosto una potente aura descrittiva. La pietra riesce solo in tal modo a imporsi all’attenzione degli ultimi, riuscendo a distogliere i loro sguardi dalla totalità e ad avvicinarli a una rarità in particolare. Nel paese dove non esistono né rimozione né memoria, essa è riconosciuta, cercata, persino, in cento modi diversi, ricordata, grazie al proprio percorso attraverso i millenni e le culture. L’aggiornamento, allora, «mai concluso, mai integralmente acquisito, dell’archivio» delle ultime cose, per dirlo con L’archeologia del sapere di Foucault,6 offre ad una superficie di stasi come il minerale la situazione ideale in cui dimostrare di essere un dispositivo aperto e non un antiquario oggetto di culto. Posto in mezzo alle nudità di tutti gli altri superstiti, il sasso non diventa affatto la fonte di un meccanismo rituale, essendo chiaramente fuori dalla galassia del controllo umano. Nonostante esso raccolga in sé alcune prerogative fondamentali delle reliquie, come il distacco dal corpo originario, manca in fondo l’appuntamento con le più importanti di esse: la promessa della ricomposizione del lacerto corporeo e, con questa, qualunque pretesa di autenticità. Frutto di una creazione continua, la lastra può dispiegare nuove cosmogonie senza svelare del tutto la natura della sua esistenza pregressa.

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Non vi è in effetti autenticità possibile dove la stratificazione abbia agito e continui costantemente in ogni parte. E non vi è posto per la violenza delle stimmate dove il mistero sia stato levigato con amore. Accordando la salvezza estrema a questa storia di marmo, si attua la trasfigurazione dell’assolutamente banale. Un sasso, cosa eminentemente inidonea, si protende fuori dalla propria cornice intarsiata in ferro battuto, diventando l’ultimo sasso, pronto a riformulare la temporalità del pensiero. Al suo interno attende di essere sciolto ogni punto di sutura fra gli urti delle placche tettoniche, e per farlo è sufficiente uno sguardo stupito sulla scrittura delle sue ferite, sulla loro lontananza dal presente. Il paese mai domo delle ultime cose è il teatro della rimessa in circolo immateriale della sostanza più densa e concreta, a dimostrazione che nel mondo non si danno mai semplici presenze. Nel processo di riciclo di una pietra, lustra come uno specchio, gli uomini ritrovano, guardandovi attraverso, la necessità di guardare al proprio interno, per restituirsi un organo vitale. Ad agire non è il battito del cuore, ma quello delle palpebre: il mistero insinua nuove distanze negli sguardi. Così, il pensiero ritorna a soggiornare fra gli occhi. E ogni lontananza che lo alimenta è partita dalla banalità del sasso che produce meraviglia.

Note 1. R. Caillois, La scrittura delle pietre, Abscondita, Milano 2013, ed. or. L’écriture des pierres, Albert Skira, Genève 1970. 2. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2013, ed. or. Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Les Éditions de Minuit, Paris 1980. 3. P.A. Florenskij, Stupore e dialettica, Quodlibet, Macerata 2011, ed. or. Dialektika,

Moskva 1918-1922. 4. R. Krauss, Entropia, in Y-A. Bois, R. Krauss, L’informe, Bruno Mondadori, Milano 2003, ed. or. Formless: A User’s Guide, Zone Books, New York 1997. 5. B-C. Han, La società della trasparenza, nottetempo, Roma 2014. 6. M. Foucault, L’archeologia del sapere, BUR, Milano 1997, ed. or. L'archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969.

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MIRACLE PINE Antonia Di Lauro >UNIRC

Nell’archivio di memorabilia da conservare e riciclare per il futuro entra a fare parte il Miracle Pine, emblema del rapporto contemporaneo tra uomo e natura, un legame compromesso ma simbolicamente ritrovato nella storia di quest’albero che sopravvive alla tragicità di un evento. L’11 marzo 2011, il terremoto che sconvolge la regione di Tōhoku è il più potente mai misurato in Giappone e, insieme allo tsunami che si genera pochi istanti dopo, produce 19.000 vittime e danneggia la centrale nucleare di Fukushima. A Rikuzentakata, nella prefettura di Iwate, a nord di Fukushima, l'antica pineta di Takata Matsubara, dichiarata dal Governo giapponese Luogo di Bellezza Naturale viene distrutta: dei 70.000 alberi secolari lungo la costa, l’unico sopravvissuto è il Miracle Pine. Nella devastazione che in poche ore si configura in quei luoghi, l’uomo rimane ad osservare un paesaggio di macerie, frutto della relazione tra fattori antropici e naturali che procedono, oggi, su direzioni opposte e contrastanti. Due forze divergenti che innescano, nella lotta reciproca tra predominio e sopravvivenza, fenomeni distruttivi di portata sempre maggiore: il terremoto è provocato dalla natura ma ingigantito dai cambiamenti climatici che l’azione umana produce sul Pianeta; cosi come i danni

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del cataclisma si aggravano per quelli generati dal disastro nucleare più importante della storia umana, dopo Chernobyl. In questo scenario, alla frenesia di un agire umano, sempre più accelerato, subentrano l’impotenza e l’immobilismo di fronte al disastro che costringono all’osservazione: davanti a relitti e macerie, dove tutto per un attimo si ferma, l’uomo-attore che fino ad oggi «ha troppo agito e troppo poco pensato»1 ritorna spettatore nel teatro paesaggio.2 L’osservazione si fa riflessione consapevole che consente di riconoscere, nell’unico albero superstite dell’antica pineta, il simbolo e la potenza della natura nel suo essere, assieme, forza distruttrice e resiliente: la sua sacralità si rivela nel contrasto tra i cumuli di macerie dell’operare umano, distrutto, e il Miracle Pine che, vivo, si innalza per ventisette metri nel paesaggio e ricorda all’uomo di essere un frammento piccolo e breve di fronte alle leggi che governano la Terra. Le trasformazioni antropiche che si sono stratificate con rapidità negli anni, per soddisfare la crescita economica mondiale di una popolazione sempre più numerosa, con regole e leggi esclusivamente dettate dal profitto, sono velocemente abbattute dal terremoto; mentre resiste, ancora in piedi, un albero che, lentamente per duecento anni, ha messo radici in quel luogo. Il Miracle Pine è lì a dimostrare come, in una sorta di selezione naturale, l’ambiente umano, tecnologico, e veloce, con le sue leggi evolute, soccombe; mentre il sistema naturale, seguendo leggi primordiali, processi lenti e resilienti, sopravvive alla sua stessa forza devastante. La sacralità del pino è riconosciuta dal Giappone che avvia un progetto di salvataggio e riproduzione dell’albero: la società Sumimoto Forestry Co. preleva 25 semi per ricavarne altrettanti germogli da piantumare, una volta cresciuti, nella scomparsa foresta di Rikuzentakata. Il pino, nonostante le cure degli abitanti, dopo alcuni mesi muore ma viene salvato dall’oblio con il Miracle Pine Rescue Project (2012), un dispendioso progetto (150 milioni di yen) avviato dal Governo: è sezionato in nove parti e portato in laboratorio, dove è trattato con resine e conservanti ed, in seguito, ricostruito con uno scheletro di fibra di carbonio, secondo un accurato processo di mummificazione che ha consentito, circa un anno dopo, di ricollocarlo esattamente sul luogo come scultura, simbolo di un nuovo inizio in armonia con la natura. Questa storia nella storia, che si intreccia con la più nota del terremoto, diventa leggenda, favola, mito da conservare e riciclare per il futuro: un racconto che ridefinisce il rapporto uomo-natura generando un nuovo

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Miracle Pine, unico albero superstite della Pineta secolare di Takata Matsubara, dopo il terremoto del 2011 nella regione di TĹ?hoku [Foto: Kyodo News/AP]

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simbolo, esito ed espressione di una cultura contemporanea che gradualmente prova a ritrovare un dialogo più autentico e sano con la Terra. Se, infatti, è diffusa l’idea che il popolo giapponese abbia, da sempre, un profondo legame spirituale con l’universo naturale, per cui non è un caso che proprio in questi luoghi un albero venga eletto ad icona di ricostruzione e speranza; è anche vero che il mito del Miracle Pine rappresenta e sintetizza, attraverso la sua storia, la sensibilità degli ultimi anni, diffusa a scala planetaria, verso l’ambiente, la natura e il paesaggio, considerati come fattori imprescindibili per una migliore qualità della vita e il benessere della società contemporanea. È evidente che i cambiamenti climatici e i disastri ambientali che ne conseguono riportano l’attenzione di studiosi e teorici, ma anche di individui e comunità, sull’importanza di un rapporto tra uomo e territorio più sostenibile, come emerge dal Rapporto di Brundtland (1987) e dal Protocollo di Kyoto (1997) o in Europa con il Patto dei Sindaci (2008) e le attuali direttive del Programma Horizon 2020. Sulla scia di questi accordi internazionali molte discipline architettoniche, come il landscape urbanism, la biourbanistica, l’ecological urbanism, a partire dai concetti di paesaggio ed ecologia ripropongono una visione ecosistemica ed organica nel progetto delle città e dei territori, evidenziando la necessità di ritrovare relazioni di equilibrio tra uomo e habitat. La crescente importanza che assume, oggi, il paesaggio rivela, infatti, la necessità di individuare nuove strategie di governo dei territori connessi a nuovi stili di vita, al localismo, all’ambiente, alle peculiarità territoriali, in contrapposizione a logiche economiche, politiche e consumistiche, funzionali ad «una divinità divenuta troppo esclusiva […] che oggi qualcuno […] comincia a vedere con un certo sospetto in quanto fonte di continua crisi».3 Augustin Berque (1993) fa notare come «la spettacolare crescita della domanda di paesaggio non è soltanto una deriva estetizzante di una società sazia; al contrario è il segno che l’uomo tende a riallacciare i suoi legami con la terra, che la modernità aveva dissolto»4 confermando come, anche dal basso, matura la consapevolezza sull’importanza dell’ambiente e della natura per la vita salutare e il benessere, la riscoperta dell’identità, delle radici culturali, delle relazioni sociali. La storia del Miracle Pine sembra essere, dunque, la conferma di queste tendenze ed un’icona da portare nel futuro per ricordare, ancora una volta, la necessità e il dovere della società contemporanea di procedere in dire-

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zioni opposte a quelle che hanno dominato la modernità, ridimensionando in primo luogo lo sfruttamento delle risorse naturali e individuando nuovi valori in armonia con l’ambiente, gli abitanti e la natura dei luoghi. Nonostante i numerosi trattati di livello mondiale che riconoscono l’urgenza di risolvere problemi planetari connessi alla distruzione delle risorse territoriali e la diffusione di film documentari come An Inconvenient Truth e The Age of Stupid che illustrano chiaramente le conseguenze dei modelli di sviluppo moderni, persiste ancora l’aggravarsi di cambiamenti climatici e di disastri naturali che evidenziano come l’agire umano, ad oggi, sia esclusivamente incentrato su dinamiche di produzione sempre più intense e veloci di una società turbo-capitalista che polverizza ogni tipo di relazione con i luoghi e i tempi della biosfera. In quest’ottica l’albero-scultura, ed il rilievo che la sua storia assume per i giapponesi, riporta l’attenzione sul legame tra uomo e Terra, celebrato nuovamente come sacro e indissolubile, in un mondo in cui altri culti dominano il nostro immaginario, spesso svincolati dall’universo naturale, emarginato e relegato a fonte di prelievo e sfruttamento indiscriminato di risorse. Il Miracle Pine, al pari di antichi miti, connessi alle forze naturali, diventa rappresentazione che custodisce e tramanda una morale: nel riconoscimento dell’albero come segno di superiorità della natura, questa diventa simbolo di rinascita e ricostruzione, esempio per un nuovo inizio in cui ricreare, dopo aver distrutto, significa ristabilire un rapporto simbiotico tra uomo e ambiente di vita, nel rispetto della natura e soprattutto dei suoi tempi. L’immagine cristallizzata di un paesaggio di devastazione che fa da sfondo al Miracle Pine rivela, infatti, all’uomo-spettatore la contrapposizione tra dromosfera e biosfera, tra socio-ritmi e bio-ritmi, ricordando come la corsa accelerata per il progresso e la tecnica non è completamente risolutrice di problemi e criticità attuali, né proporzionale al perseguimento di qualità, benessere, bellezza per i territori del futuro che, invece, richiedono tempi sincroni con la vita per svilupparsi in modo resiliente e sostenibile. Nel contrasto tra tempi vitali e sociali si evidenzia un aspetto fondante la contemporaneità da cui non si può prescindere per guardare al futuro: nell’accelerazione continua della tecnica, del progresso, del consumo, della quotidianità, risiede, infatti, la difficoltà di proiettarsi al domani, individuando chiaramente uno scopo ed un fine: «il dominio tecnico-capitalistico ha imposto un’accelerazione nichilistica che depotenzia la possibilità di pro-gettare il futuro, senza tuttavia lasciare nemmeno la possibilità di

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vivere pienamente e consapevolmente il presente»7 come attimo temporale di scelta ed elaborazione riflessiva dell’azione. All’ipertrofia tecnoscientifica corrisponde una sorta di ipotrofia del pensiero8 alimentata da un agire frenetico e senza sosta. Secondo Richard Sennet nella velocità della nostra epoca risiede l’incapacità di intravedere una visione per il futuro: «la ragione progettuale […] ha bisogno di tempo e di un’organizzazione narrativa della vita che lo scenario contemporaneo negano».9 La contrapposizione tra il silenzio e l’immobilità di un paesaggio antropico distrutto e il Miracle Pine, ancora vivo, diventano quindi riflessione forzata su questi aspetti ed evidenziano come la ricerca di nuovi valori, significati, identità, individuali e comunitari, che sono oggi prioritari per uscire dalla crisi, necessita di altri tempi rispetto a quelli accelerati con cui viviamo, reclama la lentezza dell’osservazione attenta, capace di produrre un agire consapevole. Come già Heidegger evidenzia, molti anni prima, la velocità dell’«uomo odierno non pensante», che fruisce superficialmente un sovraccarico di informazioni, determina la condizione di un «abitare impoetico» in cui l’uomo non ha più dimora.10 Lo scenario di devastazione del 2011 in Giappone diventa il luogo di osservazione che invita a riflettere sulle conseguenze della frenesia umana. Gli artisti Eiko Otake e Bill Johnston ripercorrono con la mostra fotografica A body in Fukushima del 2015 i luoghi del terremoto: il corpo dell’artista in kimono si staglia contro uno scenario «dove solo il tempo e il vento continuano a muoversi»11 evocando sofferenza, rabbia, dolore, mentre il fotografo Toshiyuki Tsunenari12 nella città di Natori immortala in Tsunami (2011) la disperazione di una donna, sola, tra relitti di case, in un scenario urbano di morte e distruzione. Il paesaggio di Tōhoku si pone in tal senso come interfaccia tra osservazione e azione dell’uomo sul Pianeta, diventando nei giorni del terremoto teatro del mondo che invita il genere umano a farsi spettatore per trovare la misura del suo operato. In questi luoghi riemerge la dimensione del vedere, del contemplare, del conoscere che prevale sul fare, evidenziando come «il rapporto dell’uomo con il territorio non riguarda soltanto o soprattutto la sua parte di attore […] ma anche, se non soprattutto, il suo farsi spettatore […] soltanto in quanto spettatore egli può trovare la misura del suo operato… del suo essere attore che trasforma e attiva nuovi scenari: cioè il rispecchiamento di sé, la coscienza del proprio agire».13 Nella volontà di ricostruzione dei luoghi della centrale di Fukushima con il progetto Cherry Blossom avviato da Greenpeace nel 2013 e della foresta di

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Takata Matsubara attraverso 20.000 alberi di ciliegio proposti dai cittadini dell’associazione Happy Road Net sotto la guida di Yumiko Nishimoto, la lezione insita nella storia del Miracle Pine sembra simbolicamente realizzarsi: il nuovo ciclo di vita per il paesaggio di Tōhoku è avviato a partire dalla ricerca di un nuovo «abitare poetico» in cui l’uomo «salva la terra, non se ne rende padrone, non ne fa una sua schiava»,14 come se la scintilla della azione si fosse nuovamente accesa dalla natura «entità altra, estranea, unico riferimento del suo agire»15 attivando «un processo di retroazione per cui il percepire è il presupposto del conoscere e del rappresentare e questo a sua volta dell’agire».16 Parallelamente a queste azioni si avviano, negli anni successivi, campagne di donazione per sostenere gli abitanti nella ricostruzione dei luoghi del terremoto, in cui il simbolo del Miracle Pine diventa brand di prodotti di consumo come per la Ippon Matsu Beer (2013) che associa alla bevanda, storia ed icona dell’albero, o la costosa penna stilografica Mont Blanc (2015) ricavata dal suo legno e venduta a 4.400 dollari di cui solo il 20% sarà donato agli abitanti. Operazioni queste che, a prescindere dalla buona intenzione, rivelano un atteggiamento ancora legato alla mercificazione di qualunque bene e risorsa, fino alla tragedia umana, lasciando in dubbio quanto sulla lezione del Miracle Pine sia stato veramente compreso.

Note 1. M. Heidegger, 1961, in E. Mirri, Il pensare poetante in Martin Heidegger, Armando, Roma 2000, pag. 30. 2. E. Turri, Il paesaggio come teatro, Armando, Roma 2000. 3. S. Latouche, 1995, in E. Turri, Il Paesaggio come teatro, cit., pag, 22. 4. A. Berque, 1993, in R. Gambino, Progetto e conservazione del Paesaggio, in «RI-VISTA. Ricerche per la progettazione del paesaggio», luglio-dicembre 2003, pag. 1. 5. U. Pagano, L’uomo senza tempo. Riflessioni sociologiche sulla temporalità nell’epoca dell’accelerazione, Franco Angeli, Milano 2011 (e-book). 6. P. Virilio, L’orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, Costa & Nolan, Genova 2005.

7. U. Pagano, L’uomo senza tempo, cit. 8. Ibidem. 9. R. Sennet, 1999, in U. Pagano, L’uomo senza tempo, cit. 10. E. Mirri, Il pensare poetante in Martin Heidegger, cit. 11. Intervista ad Eiko, http://eikoandkoma. org/abodyinfukushima 12. La foto vince il terzo premio del World Prize Photo nel 2012. 13. E. Turri, Il paesaggio come teatro, cit., pag. 16. 14. M. Heidegger, 1961, in E. Mirri, Il pensare poetante in Martin Heidegger, cit., pag. 32. 15. E. Turri, Il paesaggio come teatro, cit., pag. 16. 16. Ibidem.

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IL MITO Alberto Petracchin >IUAV

Il rimosso In qualche remoto angolo della mente, che scintillante si effonde in innumerevoli esseri umani, si nasconde un luogo misterioso. È il luogo della genesi, prima materia1 che precede lo spazio e cui compete il potere di far sì che ciò che non è in un certo senso sia e ciò che è, a sua volta, in un certo senso, non sia. In questo mondo sotterraneo fu inventato il mito dove l’incontro tra reale e irreale, tra spiegabile e inspiegabile divenne finalmente possibile.2 Qualcuno potrebbe raccontare questa favola, un giorno, eppure non basterebbe a illustrare il motivo della comparsa del mito sulla terra e la sua importanza per la vita degli uomini, nessuno ci crederebbe. Dopo le nozze di Cadmo e Armonia3 gli dei non guardarono più agli uomini, il mito si rinchiuse su se stesso. Dal canto suo l’umanità ha rinnegato il mito sostituendolo completamente con la ragione, illudendosi di trovare così la Verità, spinta dall’obbligo che la società impone moralmente. Ma l’intelletto dispiega la sua forza nella finzione e la verità è solo «un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che furono poeticamente e retoricamente potenziate, trasposte e ornate e che, dopo un lungo uso, sembrano ad un popolo fis-

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Max Klinger, Manifesto dell’esposizione internazionale scientifica di igiene di Dresda, 1911 [Disegno a matita]

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se, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria».4 Andiamo cercando una Verità che non esiste, perché rifiutiamo di inventarla per mezzo del mito. E infatti da quando il mito è stato rimosso il futuro si è arrestato alla dimensione di un buco nella stanza,5 di un buio nel quale stiamo sprofondando. La sua assenza è uno spazio vertiginoso in cui il futuro non esiste, è solo l’attesa terrorizzante di un nulla o di un già visto che annoia. Ma cos’è un mito, di che sostanza è fatto? A cosa serve quella sua zona d’ombra? Il mito tace, non lo spiega. Il mito si nasconde, non si fa vedere. Il sapere in esso contenuto è un sapere confuso, formato da associazioni incerte, indefinite, è un sapere difficilmente riconoscibile. È necessaria un’analisi della parola per comprenderne la forma originaria e per tornare a guardare il mito negli occhi, a utilizzarlo per disegnare il futuro. Dobbiamo cogliere l’attimo! Altrimenti esso si avvolgerà nel suo nero mantello per sempre e vagherà solitario a passi lenti, senza meta, per il mondo. La sua caduta nell’oblio è prossima. La forma del mito In principio il mito era una parola. «Infatti, nell’antica lingua greca mito significa parola, e anche e innanzitutto parola veritiera su cui fare affidamento perché dice ciò che esiste e ciò che è accaduto».6 La verità contenuta nel mito serviva a sopravvivere, era un rimedio contro il dolore supremo della morte. Ma quando un mortale è colpito dal dolore cresce in lui l’angoscia che il dolore torni. Quel che più di tutto angoscia è l’imprevedibilità del futuro. Il mito si configurava quindi come antidoto per il mal di futuro: «Il mito, in ogni sua forma, in ogni tempo e luogo, stabilisce il Senso supremo del mondo, il senso onnicomprensivo, quello cioè all’interno del quale si crede che tutto debba avvenire».7 Poi fu la meraviglia a causare il desiderio di raccontare delle storie che spiegassero la realtà. Erano storie come tante altre, tramandate oralmente e che con il tempo si modificavano e crescevano seguendo le sole regole dell’immaginazione. Allora il mito era al tempo stesso la bella e la brutta copia che erano raccontate parallelamente: non c’era opera e non c’era autore. O meglio, l’opera esisteva ma non era ancora dogma o fede scritta e l’autore era la società che produceva delle storie momentanee. «Il fascino del mito consisteva appunto nel fatto che era sufficiente viverlo come un gioco, come rappresentazione teatrale alla quale credere momentaneamente, sicché non divenne mai norma, oggetto di una professione di

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fede».8 Il mito orale è caratterizzato da un’estrema mobilità, da una estrema versatilità in cui le varianti non sono solo numerose, ma posseggono sufficiente flessibilità per adattarsi a situazioni nuove. Questo mito non ha un luogo geografico preciso e non ha tempo. Non è eterno ma indifferente al tempo. Nel mito l’elemento temporale non svolge alcun ruolo, in quanto ciò che importa è la capacità di integrare in maniera assimilatrice elementi estranei e provenienti dai più disparati campi. In questo momento il mito cessa il suo rapporto con la verità per trasformarsi nel suo opposto, cioè in una bugia e in un’illusione. Il mito da verità diventa favola. E infine ci fu Platone che osservò come il mito si contrapponesse totalmente alla verità: «Non raccontar miti» diceva il filosofo greco. Non potendo infatti il logos attingere a tutta la verità, allora questa si manifesta sotto forma di mythos. E questi miti valgono o per autorità di antiche tradizioni e di racconti miracolosi, o soltanto per sé, come rappresentazioni intuitive e visive di ciò che in realtà trascende il potere dell’occhio mortale. È qui che inizia ad esistere e ad agire la coppia oppositiva, esposta da Horkheimer e Adorno in Estetica dell’illuminismo,9 che vede lo scontro/incontro tra mito e ragione. Anche per Hans Blumenberg «il mito stesso è un impareggiabile lavoro del logos»:10 mito e ragione non sono due fasi successive, sono anzi due elementi segretamente alleati. Non perché il mito sia l’ombra dell’illuminismo ma perché entrambi sono strategie per far fronte all’ignoto, per immaginare il futuro. Nel contemporaneo il mito eredita le caratteristiche principali esposte in questi tre momenti fondamentali ma guadagna un’apertura di senso grazie all’opera di Roland Barthes e Furio Jesi che agiscono in un momento di assoluta crisi del concetto mitico. È in questo periodo che si decreta la morte del mito. Roland Barthes riduce il mito a parola, ma non solo a parola veritiera. Per il semiologo francese ogni parola può essere un mito. Questa affermazione è di importanza capitale dato che apre la strada all’aggiornamento continuo del mito nel tempo. Furio Jesi, il più odiato dai fascisti, recupera il mito genuino, non strumentalizzato. La sua ricerca parte da una accesa denuncia ai regimi totalitari del Novecento. Il mito viene spogliato dai suoi contenuti e ridotto ad una macchina mitologica,11 dotata di un meccanismo con una funzione. Esso diventa nuda struttura di comunicazione e di ricezione: «Il mito non si definisce dall’oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui lo proferisce: ci sono limiti formali al mito, non ce ne sono di sostanziali. Tutto dunque può essere mito?».12

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Il mito è una teoria Rispondere alla domanda è un dovere che spetta al nostro tempo. Bisogna archiviare il mito, in modo da renderlo nuovamente visibile e nuovamente funzionante. Al mito si chiede di fornire visioni, un futuro e un altrove. L’archiviazione avviene per mezzo di un disegno in bianco e nero, l’unico «luogo in cui si può rigenerare lo stupore per il fatto che le cose e le opere semplicemente sono».13 Il disegno di Max Klinger rappresenta un gigante che porta il mondo sulle spalle. È il mondo nuovo, quell’arcadia che già nel Rinascimento si andava cercando. Figure androgine danzano e cantano leggere su un passaggio che appare infinito, le cui linee si perdono in un cielo di mercurio. In basso, ai piedi del gigante, degli uomini con delle lance cercano di abbattere quello che ai loro occhi è solo un mostro arrivato a distruggere il loro mondo. All’arrivo del gigante ogni cosa si ridispone, il sistema di riferimento viene cambiato. Il mondo sopra e il mondo sotto non si appartengono, il loro matrimonio reso possibile solo grazie a quell’immenso corpo. È infatti intorno a lui che le cose si dispongono, è rispetto a lui – e rispetto a lui come rispetto a un sovrano – che ci sono un sopra, un sotto, un destra, un sinistra, un avanti, un indietro, un vicino, un lontano. Il suo corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo, questo piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogna, parla, procede, immagina, percepisce le cose al loro posto e anche le nega attraverso il potere infinito delle utopie che immagina.14 Questo gigante è sempre pronto a muoversi, a mettere le radici in altri mondo. È un essere radicante.15 Ma si arriva poi al centro della rappresentazione, quella macchia nera che disegna il busto, il volto e le braccia del gigante. È in questa zona che si giocano le sorti del mondo. Il gigante non ci guarda, non vediamo i suoi occhi, ma nel disegno si fa riconoscere, è lì, evidente, ad occupare tutto lo spazio del foglio. Quell’ombra ci racconta sempre una bugia, il gigante distoglie lo sguardo per paura di essere scoperto. Egli «non ha per sanzione la verità, niente gli impedisce di essere l’alibi perpetuo: gli è sufficiente che il significante abbia due facce per avere sempre a disposizione un altrove. Il senso è sempre pronto a presentare la forma, la forma è sempre pronta a distanziare il senso. E non c’è mai contraddizione, conflitto, deflagrazione tra il senso e la forma: esse non si trovano mai nel medesimo punto».16 In questa zone dall’identità incerta ragione e immaginazione funzionano insieme, qui Apollo e Dioniso si stringono la mano. Ma al gigante non in-

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teressa, è impegnato a vagare per il mondo in cerca di nuovi osservatori e di cose da riciclare. Il fruitore, totalmente estraneo alla rappresentazione, osserva il suo operato riducendosi ad un occhio. Questa lettura del disegno permette di vedere il mito, di posizionarlo nell’archivio e di darne una funzione. Il mito deve essere messo in reazione con gli altri oggetti in una relazione di continuo aggiornamento per avere degli effetti sulla realtà. Questi oggetti saranno ordinati a formare sempre nuove storie. L’archivio risulterà così dinamico, e non una serie di scaffali impolverati. Schegge di storia arriveranno da ogni tempo. La visione simultanea sarà finalmente possibile. Il mito infatti è una teoria che permette di superare la cecità, da cui Giorgio Agamben ci mette in guardia,17 osservando le cose da lontano in modo da non essere assorbiti dal vortice del mondo. La storia viene simulata, citata, riciclata; il presente viene osservato; il futuro disegnato seguendo le regole dell’immaginazione. Con questa teoria volgiamo lo sguardo verso l’inconscio della realtà,18 guardiamo a quelle prospettive nascoste del mondo che sono state dimenticate. Il mito è come un gigante che vince il peso della realtà al posto nostro. Vivendo sulle sue spalle non possiamo vederlo ma ne percepiamo l’immenso potere.

Note 1. Per questo tema si fa riferimento alla mostra Prima Materia, curata da Caroline Burgeois e Michael Govan, allestita a Venezia nel 2014-2015 alla Fondazione Pinault, Punta della dogana. «I testi alchemici medievali contengono centinaia di descrizioni e definizioni diverse della prima materia: sostanza primeva che distingue e insieme costituisce terra, aria, fuoco e acqua; sostrato informe di ogni materia, comprendente anima e corpo, sole e luna; amore e luce, immaginazione e coscienza; ma anche urina, sangue, sporcizia. È stata ricercata nel terriccio oscuro dei boschi e all’interno del corpo umano. È il caos primigenio che esiste prima del tempo e di qualunque possibilità di futuro. Occidente e Oriente insieme, è il Tao di Lao Tzu e forse, per la scienza, la materia oscura di cui è composta gran parte dell’u-

niverso. Le definizioni di questo medium che racchiude in sé tutti gli elementi variano per prospettiva culturale o identità personale. Talvolta rappresentata circolarmente come un serpente che si morde la coda, la prima materia è essenza pura, tutto e nulla, ovunque e in nessun luogo, e può assumere molteplici forme». C. Burgeois, M. Govan, Prima Materia, Electa-Mondadori, Milano 2014. 2. Si fa riferimento all’incipit del libro dove l’autore parla del concetto di luogo citando Platone. «Dov’è il capricervo, dov’è la sfinge? In nessun luogo, certo, ma forse perché sono essi stessi dei topoi. Noi dobbiamo ancora abituarci a pensare al luogo non come qualcosa di spaziale, ma come qualcosa di più originario dello spazio, forse secondo il suggerimento di Platone, come una pura differenza, cui compete tuttavia il potere di

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far sì che ciò che non è in un certo senso sia e ciò che è, a sua volta, in un certo senso, non sia». G. Agamben, Stanze, la parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 2006. La citazione non è letterale ma è alterata per adattarsi al testo. 3. R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1991. 4. F. Nietzsche, Su verità e menzogna al di fuori del senso morale [1874], Barbèra, Siena 2004. 5. A. Rossi, Autobiografia scientifica, Il Saggiatore, Milano 2009. 6. E. Severino, Tecnica e architettura, Raffaello Cortina, Milano 2003. 7. Ibidem. 8. H. Blumenberg, Il futuro del mito [1971], Medusa, Milano 2002. 9. M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell'illuminismo [1947], Einaudi, Torino 2004. 10. H. Blumenberg, cit. 11. F. Jesi, Il mito, Mondadori, Milano 1980. 12. R. Barthes, Miti d’oggi [1970], Mondadori, Milano 1980. 13. E. Garbin, In bianco e nero, Quodlibet, Macerata 2014.

14. M. Foucault, Utopie Eterotopie [1967], Cronopio, Napoli 2004. La citazione non è letterale ma è alterata per adattarsi al testo. 15. «Noi scommettiamo invece che la modernità del nostro secolo si inventerà proprio all’opposto di ogni radicalismo, rigettando sia la cattiva soluzione del re-radicamento identitario, sia la standardizzazione degli immaginari decretata dalla globalizzazione economica. I creatori contemporanei gettano già le basi per un’arte radicante, epiteto che indica un organismo che fa spuntare le proprie radici e le accresce man mano che procede. Essere radicanti: mettere in scena, mettere in cammino le proprie radici in contesti e forma eterogenei, transcodificare le immagini, trapiantare i comportamenti, scambiare piuttosto che imporre». N. Bourriaud, Il radicante [2009], Postmedia Books, Milano 2014. 16. R. Barthes, Miti d’oggi, cit. 17. G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, nottetempo, Roma 2012. 18. P.G. Rossi, F. Poli, Max Klinger. L’inconscio della realtà, Bononia University Press, Bologna 2014.

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A PATTERN LANGUAGE

UNA STRATEGIA INCLUSIVA PER LA COSTRUZIONE DELLO SPAZIO Cristina Sciarrone >UNIRC

«Soltanto l’assunzione di posizioni ideologiche precise e l’applicazione di procedure rigorosamente scientifiche potranno garantire la definizione di una intelaiatura politicamente e tecnicamente legittima sulla quale nuovi sistemi di obiettivi attraverso l’uso di nuovi strumenti di azione diano luogo a una nuova e stimolante organizzazione dell’ambiente fisico».1 Caos, molteplicità, multiculturalità, complessità, orizzontalità, ibridazione, imprevedibilità, sovrapposizione… città. La città che esplode e che sfugge al controllo del progetto, che si auto-riproduce all’infinito e che si disperde, che consuma e che si consuma, che scarta e che, talvolta, ricicla, che genera reti e che produce marginalizzazione, che si costruisce sulle interferenze e che causa isolamento, che si identifica o che si globalizza. La città che si fa paesaggio. Parlare di città in termini di paesaggio significa riconoscerne non solo la dimensione territoriale ma anche e soprattutto la natura relazionale, che si auto-alimenta attraverso una rete vitale sostenuta da flussi e scambi continui tra le parti. La complessità del fenomeno urbano contemporaneo richiede la definizione di un altrettanto complesso sistema di visioni e prospettive attraverso il quale costruire i paesaggi del futuro,2 proponendo alternative efficaci

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alle modalità operative tradizionali. In quest’ottica, l’oggetto che si propone di riciclare per il futuro è funzionale per la definizione di una strategia capace di agire attraverso l’applicazione di matrici operative dinamiche, in cui sguardi, immaginari, obiettivi e azioni definiscono paesaggi altri. A pattern language,3 testo pubblicato negli anni Settanta in pieno fervore utopistico, propone una formula operativa per l’architettura e il paesaggio tanto provocatoria quanto disarmante nella sua apparente "scientificità". Il libro rappresenta un tassello fondamentale all’interno della ricerca e della pratica di Christopher Alexander, architetto noto soprattutto nel campo della programmazione elettronica per il suo approccio sistemico, derivante dall’interpretazione dell’architettura come organismo vivente e quindi orientato al raggiungimento di una totalità vitale (la cosiddetta "unfolding wholeness"). All’interno di questa visione, il processo-progetto assume più importanza rispetto alla configurazione formale, che si presenta come materia in divenire il cui assetto è di volta in volta determinato dalle innumerevoli variabili che costituiscono il sistema generale.4 Contestualmente, Alexander riconosce l’esistenza di una capacità di autocostruzione insita in qualsiasi comunità che abita e plasma un dato territorio, rendendolo, a tutti gli effetti, paesaggio, ossia sistema riconoscibile di valori, "idea sintetica di un contesto naturale e culturale, ecologico e sociale al tempo stesso".5 Tale capacità, definita "the timeless way of building" (letteralmente, "un modo di costruire senza tempo"), rappresenta la formula più efficace per generare architetture "viventi" e quindi simili ai sistemi e agli organismi presenti in natura.6 Seguendo questo principio, nella visione di Alexander, diventa plausibile la costruzione di un mondo vivo nel quale la città viene interpretata "come forma d'arte collettiva"7 e l'architettura diventa il risultato di un processo messo in atto dalle comunità che ne usufruiscono. Da questa visione dell'architettura e del processo creativo ha origine l'idea che possa essere elaborata una vera e propria grammatica, un linguaggio che, sapientemente utilizzato, sarebbe in grado di generare paesaggi, edifici, elementi costruttivi. A pattern language si presenta, quindi, come uno strumento, elaborato da Alexander e dai suoi collaboratori con una logica capace di conciliare procedure matematiche, valori sociali e principi architettonici, da consegnare alle comunità al fine di indirizzarle nell'auto-costruzione del proprio ambiente di vita. Il linguaggio si compone di 253 pattern, organizzati secondo tre livelli interrelati, che corrispondono ad altrettante scale operative: towns, build-

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C. Alexander, S. Ishikawa, M. Silverstein, A pattern Language. Towns, Buildings, Construction, Oxford University Press, New York 1977

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ings, construction (città, edifici, costruzione). In linea con quanto chiaramente esplicitato nel testo, nessun pattern è un'entità isolata, per cui il linguaggio rappresenta un codice atto a definire networks, sistemi architettonici strutturati sulle relazioni tra le parti. Ogni pattern rappresenta la soluzione ad un dato problema ed ha una struttura precisa ed invariata: dopo un'immagine esemplificativa vi è l'"introduzione", attraverso la quale è possibile comprendere il collegamento tra il pattern presentato e quelli di livello superiore; successivamente, viene esposto il "problema" con la relativa "soluzione", sintetizzata anche attraverso un'immagine diagrammatica; infine, la "conclusione" rende esplicito il collegamento tra il pattern analizzato e quelli di livello inferiore. Questa struttura, apparentemente rigida, si presenta invece come un sistema aperto e flessibile, finalizzato a generare infinite combinazioni: ogni pattern, infatti, può essere utilizzato milioni di volte senza mai dare luogo alla stessa configurazione. I creatori del codice, inoltre, chiariscono che ogni pattern si presenta con un grado di minore o maggiore efficacia nella soluzione del problema presentato. Ciò significa che il funzionamento di ogni singolo elemento viene rimesso al giudizio di colui che lo applicherà, che viene a sua volta esortato ad apportare al "linguaggio" tutte le modifiche e gli ampliamenti che riterrà opportuni.8 L'obiettivo è proporre un codice in evoluzione, i cui elementi altro non sono che delle ipotesi, dei tentativi che, eventualmente modificati, diventeranno parte fondamentale del linguaggio generatore del paesaggio specifico di ogni comunità. Secondo questa interpretazione, è possibile intravedere nel testo di Alexander una vera e propria missione sociale destinata a promuovere l'autoproduzione di un codice condiviso che ben si adatta ad una visione del processo di creazione come processo partecipato, all'interno del quale il pattern language rappresenta solo un punto di partenza. Evoluzione, combinazione, implementazione rappresentano contenuti irriducibili della strategia proposta da Alexander e dai suoi collaboratori, da cui traspare un approccio al "problema" urbano dalla natura incrementale, processuale e dinamica e quindi inevitabilmente capace di lavorare con la complessità perché esito di un'interpretazione dell'architettura come sistema vivente e della città come campo di relazioni necessariamente integrate. La strategia che sottende l'utilizzo del linguaggio dei pattern sembrerebbe rinnegare il ruolo dell'architetto. In realtà, è lo stesso Alexander a spiegare che il compito, fondamentale, dei progettisti è quello di elaborare un

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vocabolario coerente da fornire agli utenti, in maniera tale da scongiurare il caos garantendo piuttosto l'applicazione libera di principi comuni. Si tratta di una procedura che sembrerebbe quasi affermare la possibilità che il processo creativo venga controllato e indirizzato da rigide regole e combinazioni scientifiche. Tuttavia, la strategia del pattern language è tutto fuorché un meccanismo operativo rigorosamente scientifico e prevedibile. Piuttosto si tratta di un'operazione che, tramite una procedura di elaborazione e consegna alla comunità di un repertorio di strumenti efficaci, delinea la possibilità di generare paesaggi adattivi e capaci di evolvere, rispondendo, da un lato, alle esigenze degli abitanti e, dall'altro, ai cambiamenti che inevitabilmente interverranno sul territorio e sugli equilibri relativi. Appaiono evidenti le implicazioni provocatorie insite nell'approccio proposto, che sembra sovvertire la prassi, allora ancora molto radicata, di un fare architettura autoriale e specialistico. La strategia proposta da Alexander favorisce piuttosto l'insorgere di processi costruttivi capaci di "estendere le capacità e le competenze umane" e di contribuire alla costituzione di cittadinanze consapevoli e responsabili, naturalmente portate a mettere in campo atti di cura nei confronti del proprio territorio.9 Ovviamente, gli esiti dell'applicazione di una strategia di questo tipo, proprio in virtù dell'alto grado di libertà concesso agli utenti/costruttori, sono imprevedibili. L'assoluta indeterminatezza del risultato che caratterizza il processo è forse l'unica spiegazione plausibile del fallimento del celebre Oregon Experiment, avviato negli anni Settanta nel campus dell'Università dell'Oregon. Alexander, incaricato di elaborare un masterplan, propone invece la programmazione di un pattern language da consegnare agli studenti, stimolando una collaborazione con pianificatori e amministratori dell'università. Il processo avviato da Alexander, però, presupponeva una partecipazione attiva da parte degli utenti del campus al percorso progettuale, da realizzarsi attraverso dibattiti e incontri. L'esperimento si rivelò un totale fallimento, in quanto quello che Alexander non aveva previsto era proprio l'assoluta mancanza di interesse da parte degli studenti che si dimostrarono apatici e incapaci di portare avanti nel tempo una progettazione aperta, flessibile e partecipata. Il risultato dell'Oregon Experiment dimostra l'elevatissimo grado di imprevedibilità della strategia proposta da Alexander, caratterizzata da una flessibilità tale da ammettere anche la possibilità di un fenomeno di autodistruzione del sistema stesso.

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Allo stesso tempo, alcune componenti dell'approccio del pattern language rappresentano, opportunamente rivisitate, suggerimenti utili a costruire strategie efficaci per i paesaggi del futuro, la cui complessità richiede il superamento di una visione statica del progetto e la considerazione di una serie di valori che è necessario rendere contenuti imprescindibili del processo di trasformazione. La visione del fenomeno urbano come campo relazionale dinamico e incontrollabile rende plausibile l'utilizzo di termini e processi presi in prestito dalla teoria dei sistemi complessi e la cui applicazione richiama l'approccio proposto da Alexander. In termini spaziali, A pattern language suggerisce la creazione di vere e proprie interfacce, descrivibili come spazi di mediazione, luoghi attivi, multilivello, permeabili, dagli usi molteplici e differenziati, capaci di garantire la canalizzazione delle forze in gioco presenti sul territorio. Si tratta di realizzare quelli che Raoul Bunschoten, architetto dello studio londinese Chora, chiamerebbe "metaspazi", definibili simultaneamente come dispositivi di interpretazione dei fenomeni urbani emergenti e "luoghi di negoziazione", strumenti di conoscenza e sviluppo di spazi pubblici open source. Da un punto di vista della dimensione temporale, A pattern language propone di lavorare secondo il principio dell'implementazione, che in informatica indica quel meccanismo attraverso il quale degli stadi iniziali si trasformano in elaborazioni automatiche di dati. Si tratta di immaginare, nel qui ed ora di un dato momento, l'applicazione di processi di trasformazione che siano in grado di estendere i propri effetti, sotto la spinta di fenomeni di auto-catalisi, nel tempo e nello spazio, ampliando il campo d'azione ben oltre quanto previsto nell'istante zero. Infine, la portata democratica e sociale dell'approccio di Alexander si può tradurre attraverso il principio dell'auto-organizzazione, caratteristica tipica di tutti i sistemi complessi e che, nell'ambito del progetto di paesaggio, propone l'utilizzo di meccanismi capaci di promuovere la collaborazione e la capacità della componente sociale del sistema di interagire plasmando lo spazio e proiettandovi gli immaginari relativi. Secondo questo principio il ruolo dell'architetto deve modificarsi, evolvendo verso la figura di soggetto intermediatore tra comunità e territorio, capace di guidare gli abitanti verso una maggiore consapevolezza delle proprie necessità e del proprio ambiente di vita, programmando azioni orientate a promuovere un elevato grado di partecipazione e collaborazione sociale.

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I tre principi citati diventano materia da riciclare del testo che si propone di portare nel futuro e possono essere interpretati come i fattori costitutivi di un'utopia realizzabile, come direbbe Yona Friedman.10 Nell'approccio di Alexander, la proposta di un repertorio di strumenti da combinare assieme al fine di risolvere problemi urbani ricerca il consenso e la collaborazione delle comunità, suggerendo l’applicazione di nuove strategie progettuali, in cui (de)codificazione e (ri)scrittura del territorio diventano processi collettivi ed inclusivi, complessi perché costruiti attraverso relazioni dinamiche e infrastrutture evolutive. La costruzione di un repertorio di fenomeni e condizioni contribuisce all'individuazione di risposte puntuali e al contempo relazionali, interpretate come elementi di un'azione sostenuta da processi di intermediazione destinati a mettere in connessione le istanze provenienti dalle comunità con la grande quantità di spazi disponibili da ri-significare. Se (ri)definire la città del futuro significa metabolizzare gli assetti complessi di quella attuale, l’utilizzo di determinate metodologie operative, capaci di supportare e facilitare azioni capillari e accessibili, potrebbe favorire lo sviluppo di un paesaggio costruito a più voci, dalla natura inclusiva e incrementale.

Note 1. G. De Carlo, Il pubblico dell'architettura, in «Parametro» n. 5 (1970), pag. 12. 2. M. Mostafavi, Why Ecological Urbanism? Why now?, in Id. (ed.), Ecological Urbanism, Lars Müller Publishers, Zürich 2010, pp. 1251. 3. C. Alexander, S. Ishikawa, M. Silverstein, A pattern Language. Towns, Buildings, Construction, Oxford University Press, New York 1977. 4. C. Alexander, The nature of order. An Essay of the Art of Building and the Nature of the Universe. Book II: The process of creating life, The Center for Environmental Structure, Berkeley 1980. 5. M. Ricci, Nuovi paradigmi, in Id. (a cura di), Nuovi paradigmi, LISt Lab Laboratorio Internazionale Editoriale, Trento 2012. 6. C. Alexander, The timeless way of building, Oxford University Press, Oxford 1979.

7. C. Ratti, Architettura Open Source. Verso una progettazione aperta, Einaudi, Torino 2014. 8. «There are two essential purposes behind this format. First, to present each pattern connected to other patterns, so that you grasp the collection of all 253 patterns as a whole, as a language, whithin which you can create an infinite variety of combinations. Second, to present the problem and solution of each pattern in such a way that you can judge it for yourself, and modify it, without loosing the essence that is central to it». C. Alexander, S. Ishikawa, M. Silverstein, A pattern Language. Towns, Buildings, Construction, cit. 9. J.C. Scott, Elogio dell'anarchismo. Saggi sulla disobbedienza, l'insubordinazione e l'autonomia, Elèuthera, Milano 2014. 10. Y. Friedman, Utopie Realizzabili, Quodlibet, Macerata 2003.

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MEMORABILIA DI UN COLLEZIONISTA



FRAMMENTI

DEL MANTELLO DI GEA Piero Ostilio Rossi >UNIROMA

Da più di vent’anni colleziono sabbie: frammenti dell’immenso mantello di Gea, la Terra; oggi ne ho circa cinquecento. Le catalogo con metodo puntiglioso: ciascuna di esse è conservata in un contenitore standard ed è identificata da un’etichetta che indica in modo dettagliato il luogo dal quale proviene e la data. Alcune riportano anche l’indicazione dell’ora, della temperatura o di particolari specificità storico-geografiche, altre sono corredate da una mappa o da una minuscola fotografia. Quelle che ho raccolto personalmente sono solo una piccola parte, moltissime provengono da amici o da amici di amici: in questo caso sull’etichetta è indicato anche il nome di chi me l’ha donata; da qualche anno insieme alle sabbie ho preso l’abitudine di conservare anche frammenti vegetali, minerali o tracce del passaggio dell’uomo (pezzetti di giornale, di reti, di vetro, di mattoni) che sono stati raccolti insieme ad esse. È una narrazione del mondo costruita con minuscole quantità della materia stessa che compone il mondo, nella varietà dei suoi colori e delle sue granulometrie; è una storia di erosioni che restituisce lo spessore e lo scorrere del tempo. Una macchina della memoria, Memorabilia da consegnare ad un archivio del futuro.

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… 324 / Spiaggia della Feuillère, Isola di Marie Galante, Arcipelago di Guadalupe, 30 gennaio 2003 (Giovanni Fumagalli) … 325 / Stadio di Aphrodisias, Turchia, 28 aprile 2008, ore 13 (Andrea Jemolo) … 326 / Kilwa Kisiwani, Tanzania, 15 marzo 2009 (Ron van Oers) … 327 / Dar es Salaam, Tanzania, aprile 2009 (Lazare Eloundou)… 360 / Praia da Comporta Grândola, Portogallo (furto dal plastico delle case di Manuel e Francisco Aires Mateus), Padiglione del Portogallo a Ca’ Foscari, Biennale di Venezia 4 settembre 2010, ore 15,40 … 362 / promontorio di Biskopsudden, Isola di Djurgården, Stoccolma, Svezia, 22 agosto 2010, ore 12,05 … 364 / Cimitero di Skogskyrkogården, Gunnar Asplund, Sigurd Lewerentz, viale della Skogskapellet, Stoccolma, Svezia, 18 agosto 2010, ore 16,00 … 365 / spiaggia di Pyrgaki, Isola di Naxos, Cicladi, Grecia, 10 agosto 2010 (Paola Fragnito) … 370 / Mausoleo di Ishrat-Khana, Samarcanda, Uzbekistan, 11 marzo 2009 (Francesco Bandarin) … 371 / Piramide Rossa, Snefru, IV dinastia, 2575-2551 a.C. Dashur Nord, Egitto, 17 marzo 2009 (Francesco Bandarin) … [Fig. 1] «C’è una persona che fa collezione di sabbia. Viaggia per il mondo, e quando arriva a una spiaggia marina, alle rive d’un fiume o d’un lago, a un deserto, a una landa, raccoglie una manciata d’arena e se la porta con sé. (…) Si ha l’impressione che questo campionario della Waste Land universale stia per rivelarci qualcosa d’importante; una descrizione del mondo? Un diario segreto del collezionista? O un responso su di me che sto scrutando in queste clessidre immobili l’ora a cui sono giunto? Tutto questo insieme, forse. Del mondo, la raccolta di sabbie scelte registra un residuo di lunghe erosioni che è insieme la sostanza ultima e la negazione della sua lussureggiante e multiforme parvenza: tutti gli scenari della vita del collezionista appaiono più viventi che in una serie di diapositive a colori (…) evocati e nello stesso tempo cancellati dal gesto ormai compulsivo di chinarsi a raccogliere un po’ d’arena e riempirne un sacchetto (o un contenitore di plastica? o una bottiglia di coca cola?) e poi voltarsi e andar via. Ecco che come ogni collezione anche questa è un diario: diario di viaggi, certo, ma pure diario di sentimenti, di stati d’animo, di umori; anche se non possiamo essere sicuri che davvero esista una corrispondenza tra la fredda sabbia color terra di Leningrado, o la finissima sabbia color sabbia di Copacabana, e i sentimenti che esse evocano a vederle qui imbottigliate ed etichettate. O forse diario soltanto di quell’oscura smania che spinge tanto a mettere insieme una collezione quanto a tenere un diario, cioè il bisogno di trasformare lo scorrere della propria esistenza in una serie

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Fig. 1, Collezione di sabbie, 2015

Fig. 2, Le pause sono pietre, 1999

Fig. 3, Grattacieli in periferia, 2010

Fig. 4, Penny Lane, 1996

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d’oggetti salvati dalla dispersione, o in una serie di righe scritte, cristallizzate fuori dal flusso continuo dei pensieri».1 Sono un collezionista. Collezionare oggetti è un atteggiamento ricorrente e (forse) invariante del mio stare nel mondo. Come la protagonista del reportage di Calvino, sono un raccoglitore: separo elementi significativi dalla congerie delle cose che compongono il mondo e tento di dare loro un ordine diverso che funzioni come un’allusiva macchina della memoria, capace di creare nuovi circuiti di senso. Talvolta sono singoli oggetti ad essere ri-ciclati per straniamento, sottratti cioè all’ordine al quale appartengono per assumere un significato complesso ed enigmatico perché associati ad un sistema di riferimento ad essi estraneo. Ad esempio, raccolgo sassi che hanno forma di qualcos’altro (di una freccia, di un viso, dell’impronta di una scarpa…) e li colloco in un altrove che renda riconoscibile la figura a cui alludono. Talvolta costruisco intorno ad essi un racconto che finge di essere un’installazione artistica: è il caso del sasso a forma di virgola (Le pause sono pietre, 1999) con il quale ho riportato alla mia memoria il nome del professore (Licitra, si chiamava Licitra…) con il quale sostenni un difficile esame di quinta ginnasio al Liceo Mamiani di Roma. [Fig. 2] Il concetto di straniamento – gli architetti lo sanno bene perché si tratta di un tipico meccanismo d’invenzione progettuale – è infatti qualcosa che è strettamente collegato al concetto di appartenenza in quanto ne costituisce un'esplicita deviazione: di appartenenza ad un luogo, ad un sistema di riferimento, ad una categoria di forme o ad un principio di associazione. Il meccanismo d'invenzione si basa sul mettere in crisi questa appartenenza (spesso derivata da un modo meccanico ed acritico di connettere le cose tra loro) disvelando altre possibili valenze che scaturiscono dallo spaesamento di un materiale architettonico rispetto ad un suo contesto atteso.2 Lo ha ricordato Renato Bocchi quando a Mendrisio ha suggerito di valutare seriamente – come certamente avrebbe fatto Wislawa Szymborska – «di salvare quel paradossale esercizio di fantasia creatrice che è il non-sense, il limerick, il saper trovare un senso alle cose attraverso il sottile straniante potere del non-senso, del capovolgimento di senso, dell’inversione, dell’associazione apparentemente casuale che è il sale dell’ironia del calembour, insomma della manipolazione creativa».3 Costruisco collage di piccole dimensioni utilizzando come carte colorate le immagini pubblicate dal quotidiano «La Repubblica» (hanno una gamma cromatica piuttosto ampia e sono ricche di sfumature) ritagliandole

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e ricomponendole in disegni talvolta ordinati, talvolta ottenuti per strati sovrapposti (nel mio lavoro di progettista ho costruito molti plastici in cartoncino e mi è rimasta una certa tendenza a tagliare e ad incollare). [Fig. 3] Più spesso però costruisco "tesori", applico cioè il principio dell’accumulo, della collezione come raccolta di oggetti che solo tutti insieme, grazie alle relazioni che si determinano tra di essi, acquistano un significato nuovo e attingono ad una particolare specie di qualità estetica; è una condizione ben nota ma che stupisce sempre perché permette di scoprire che esiste anche un "bello collettivo" che è formato da una congerie di cose che prese singolarmente possono essere – anzi molto spesso sono – insignificanti, ma che riunite insieme diventano preziose perché danno vita ad una forma di narrazione che è altro da loro, che ne trasferisce il senso originario in una dimensione lontana e imprevista. [Fig. 4] Prendo ad esempio Penny Lane, una tassonomia del 1996 costruita di ritorno dagli Stati Uniti utilizzando 84 monete da un penny ordinatamente disposte in serie in ragione della loro lucentezza e quindi del loro invecchiamento. Si potrebbe immaginare un rapporto diretto e scontato tra lucentezza e data di conio, ma non è così: quella sequenza allude a storie misteriose e più complesse, a molti passaggi di mano, a contatti con sostanze corrosive, a spiccioli dimenticati in un cassetto… Il più singolare tra i miei piccoli tesori è quello che riunisce i più dozzinali gadget in vendita nei bookshop di importanti opere di architettura moderna: da un modellino in plastica del Centre Pompidou con luce all’interno fine anni Settanta, ad un’inverosimile cartolina con una donna (incinta?) che ha come gonna la Pedrera di Gaudì, fino ad un tovagliolo con il profilo di Le Corbusier; senza dimenticare la bustina di sale del Museo Louisiana di Copenhagen, quella di zucchero della Staatsgalerie di Stoccarda di James Striling o un cioccolatino del Municipio di Aarhus di Arne Jacobsen. La palma del primato – quella cioè dell’oggetto più kitsch – spetta però alla bottiglia in plastica da mezzo litro, nobilitata per altro dal bollo della Western Pennsylvania Conservancy, che contiene l’acqua del Bear Run, il ruscello sul quale affaccia la Casa sulla Cascata di Frank Lloyd Wright. Sono convinto che gli architetti abbiano una sorta di predisposizione per l’accumulo di tesori perché per progettare devono costruire, più o meno consapevolmente, un loro magazzino della memoria. Ne ho parlato a lungo in un libro di quasi vent’anni fa, La costruzione del progetto architettonico, a cui faccio ancora riferimento quando insegno.4 Da quel testo raccolgo un

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brano che mi sembra significativo: «Mentre lavorava in bottega a risuolare dàlmede (le scarpe dei montanari veneti, ndr) – ha scritto Sebastiano Vassalli nel suo romanzo Marco e Mattio – sognava a volte di imbarcarsi su una nave che lo portasse al di là dell'oceano, in quel mondo lontano e misterioso che non a caso si chiamava "il Nuovo Mondo"; o fantasticava su quei mondi ancora più lontani e ancora più sconosciuti, che stavano sospesi in mezzo alle stelle. Quei mondi – gli aveva detto una volta don Marco – noi non possiamo nemmeno immaginarli, perché la nostra fantasia ha le ali tagliate, e non vola fino all'ignoto; riesce soltanto a rielaborare quello che già sappiamo, per cercare di dargli una nuova forma».5 L’architetto è un ladro di forme, ricordava infatti Le Corbusier a sottolineare che nel nostro mestiere, nella pratica del progetto e nelle tecniche d’invenzione che lo sottendono, il ri-ciclo – il conferire nuovi cicli di vita alle forme attraverso nuove associazioni e nuove figure – è una prassi consolidata, abituale e probabilmente insostituibile. Penso a Copycat. Empathy and envy as formmakers, l’installazione realizzata da Cino Zucchi alle Corderie per la Biennale di Venezia del 2012 (il Common Ground di Chipperfield), che proponeva una serie di grandi espositori verticali con collezioni di oggetti composti in riquadri con la scrupolosa sistematicità di un entomologo per trasmettere il concetto che le forme si propagano e si riproducono attraverso processi di "contagio" che determinano lunghe sequenze di manufatti che fanno riferimento ad una figura comune e si differenziano per scarti e sottili variazioni, vengono cioè ri-ciclate per slittamenti e varianti successive. Si tratta di un passaggio importante del percorso verso la creatività: la fantasia riesce soltanto a rielaborare quello che già conosciamo per cercare di dargli una nuova forma e spesso agisce per successive distorsioni. Per questo una tappa importante è costituita dalla memoria, anzi dal "magazzino della memoria",6 quella specie di grande gerla nel quale ciascuno conserva l'insieme delle proprie esperienze. Come ha scritto Ludovico Quaroni, in questo grande deposito «di idee che non sono ancora immagini e di immagini più o meno legate a idee di possibili utilizzazioni progettuali, può trovarsi di tutto: ci possono essere suggestioni avute vedendo un giorno anche lontano, un edificio costruito, un particolare dello stesso, un oggetto d'uso, un progetto o un disegno, letto magari male».7 Su questo genere di atteggiamento, sull’accumulazione di oggetti sotto forma di tesoro e sulla capacità evocativa del tesoro stesso, Orhan Pamuk ha scritto quello straordinario romanzo che è Il Museo dell’innocenza,8 la

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Fig. 5, Veliero, 1977

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storia dell’inesausta passione di Kemal per Füsun, e ha poi realizzato ciò che sembrava una prerogativa riservata solo «ai maghi delle fiabe o al Genio delle Mille e una notte»; ha preso ciò che la sua fantasia aveva costruito attraverso le pagine del romanzo e l’ha trasformato in qualcosa di materiale, di fisico, uno spazio da esplorare con tutti i nostri sensi: ha costruito il Museo dell’Innocenza,9 un luogo unico al mondo, uno grande tesoro nel cuore di Istanbul, a Beyoğlu, nel quartiere di Çukurcuma, in un edificio di tre piani dalle pareti color rosso scuro, all’angolo fra Çukurcuma Caddesi e Dalgiç Sokak. Per un architetto, forse l’archetipo del tesoro è la straordinaria casa-museo di John Soane a Lincoln Inn Fields a Londra ma, su un piano molto meno solenne, anche la collezione di oggetti corrosi, di conchiglie, radici, ossa, frutti e cortecce d'albero di Le Corbusier può essere considerata una raccolta di questo genere; oggetti che divengono spesso matrici di quelle combinazioni inedite che rappresentano uno dei segreti della forma delle sue architetture. «Questi frammenti di oggetti naturali – dichiarò nel 1960 – di pezzi di pietra, di fossili, di brandelli di legno, di cose martirizzate dagli elementi, raccolte in riva all'acqua, al lago, al mare (…) e che esprimono leggi fisiche: l'usura, l'erosione, l'esplosione (…) non dimostrano solamente qualità plastiche, ma anche uno straordinario potenziale poetico».10 Re-cycle: nuovi cicli di vita… L’architecte est un voleur de formes. [Fig. 5]

Note 1. I. Calvino, Collezione di sabbia, Garzanti, Milano 1984, pag. 9. Il testo è del 1974. 2. Cito qui Viktor Slovskij (1893-1984), il maggior teorico del formalismo russo. 3. Renato Bocchi, Intervento introduttivo al seminario Memorabilia. Nel paese delle ultime cose, tenutosi all’Accademia di Architettura, Università della Svizzera italiana, Mendrisio, il 9 maggio 2015. 4. P.O. Rossi, La costruzione del progetto architettonico, Laterza, Roma-Bari 1996. 5. S. Vassalli, Marco e Mattio, Einaudi, Torino 1992, pag. 103. Il corsivo è mio. 6. Cfr. F. Garavini (a cura di), M. De Montaigne, Essais, Adelphi, Milano 1966, libro I,

cap. IX, pag. 42, notazione del 1588 a margine del capitolo Dei bugiardi: "E ancora il mio eloquio ne è reso più breve, dato che il magazzino della memoria è spesso più fornito di materia di quello dell'invenzione". 7. L. Quaroni, Progettare un edificio, Mazzotta, Milano 1977, pag. 62. 8. O. Pamuk, Il Museo dell’innocenza, Einaudi, Torino 2009. 9. O. Pamuk, L’innocenza degli oggetti. Il Museo dell’innocenza, Istanbul, Einaudi, Torino 2012. Le citazioni sono tratte dalla quarta di copertina. 10. Cfr. G. Charbonnier, Le monologue du peintre, vol. 2 , Julliard, Paris 1960, pag. 107.

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Re-It 18

Memorabilia

Memorabilia è il diciottesimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. Memorabilia. Nel paese delle ultime cose raccoglie gli atti dell’omonimo convegno che si è tenuto presso l’Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana nel maggio del 2015. L’incontro è stato il terzo appuntamento della serie “Ricicli immateriali” organizzata dal gruppo di curatori della sezione “Teorie del Re-cycle” del progetto di ricerca Re-cycle Italy. Memorabilia è impostato sulla scelta di un “oggetto” da portare nel futuro e sul senso e sulla struttura di un possibile archivio.

18 MEMORABILIA NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

ISBN

Aracne

euro 22,00

978-88-548-9007-7


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