Progetti di riciclo. Cinque aree strategiche nella coda della cometa di Roma

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Progetti di riciclo

Progetti di riciclo è il diciannovesimo volume della collana Recycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. Questo quaderno può essere considerato un rapporto di ricerca intermedio all’interno del lungo percorso del PRIN Re-cycle Italy e dell’ancor più articolato cammino delle ricerche sulla Coda della Cometa: un primo punto fermo, in termini di sondaggi progettuali alla scala architettonica e urbana, sulle strategie e sulle potenzialità legate alla messa a sistema di una serie di attività produttive legate agli scarti e ai rifiuti del metabolismo urbano di una grande città come Roma e della rigenerazione delle aree di pregio così liberate da usi impropri e dalla presenza di quelli che abbiamo in precedenza chiamato paesaggi-scoria.

19 PROGETTI DI RICICLO CINQUE AREE STRATEGICHE NELLA CODA DELLA COMETA DI ROMA

isbn

Aracne

euro 20,00

978-88-548-9068-8



PROGETTI DI RICICLO CINQUE AREE STRATEGICHE NELLA CODA DELLA COMETA DI ROMA

A CURA DI ALESSANDRA CAPANNA DINA NENCINI

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Progetto grafico di Sara Marini e Vincenza Santangelo Copyright Š MMXVI Aracne editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Quarto Negroni, 15, 00072 Ariccia (RM) (06) 93781065 ISBN 978-88-548-9068-8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: febbraio 2016

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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università IUAV di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Università degli Studi di Napoli “Federico II” Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino

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INDICE

Un progetto per le “rovine al contrario” della Coda della Cometa Renato Bocchi

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Drosscapes come tema di progetto Orazio Carpenzano

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LE RAGIONI DEL "ROME RECYCLIG DROSSCAPES" Demolizioni Alessandra Capanna

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Recycle/Recycling, ovvero l'architettura resiste? Dina Nencini

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I LUOGHI DEL PROGETTO RECYCLE NEI TERRITORI DELLA COMETA Ipotesi di lavoro per nuovi paesaggi del riciclo Anna Lei Una “Centralità vuota” per Acilia Madonnetta. Forestazione urbana e città diffusa Andrea Bruschi progetto: TREE_GGER POINT

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La foce del Tevere. Una Frontiera attraversabile tra la città e il mare Alessandra Capanna Verso un’estetica del Transformer Lina Malfona

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progetto: THE WALKING FACTORY - Ri(m)Argina

A "passo doppio". Il Recycle tra nuove politiche e antiche forme Paola Veronica Dell'Aira Le cave e il riciclo dei materiali inerti provenienti da costruzione e demolizione Paola Guarini

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progetto: LA MACCHINA ESTETICA. “Verso un’architettura” degli impianti di lavorazione dei rifiuti C&D

Ricicli immaginabili per l’area della ex raffineria di Malagrotta. Andrea Grimaldi Cinque strategie del riciclo Gianpaola Spirito progetto: ROTTAMOPOLI. Uno scenario possibile per l’ex raffineria

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End of life boat: un’ipotesi tipologico funzionale Dina Nencini, Maria Clara Ghia

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progetto: FIUMICINO RE_BOAT. Un’ipotesi per l’End of Life Boat

POSTFAZIONE Un rapporto intermedio di ricerca. Considerazioni in forma di postfazione Piero Ostilio Rossi

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INTRODUZIONE

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UN PROGETTO PER LE “ROVINE AL CONTRARIO” DELLA CODA DELLA COMETA

Renato Bocchi

Ricordate i monumenti di Passaic raccontati da Robert Smithson1, quelle anti-romantiche “rovine al contrario” di cui l’artista parla come “monumenti”, rovine di ciò che non è ancora, di ciò che forse verrà in un tempo a venire? Con qualche simiglianza, i monumenti della Coda della Cometa romana qui descritta sono un insieme sparso ed erratico di sfasciacarrozze, cave dismesse, discariche, borgate abusive in aree di esondazione, forse tale è anche l’incompiuta “centralità” di un ambizioso quanto anacronistico progetto di Vittorio Gregotti: frammenti, scarti, stralunati paesaggi in attesa di una metropoli inattesa, resti archeologici non del passato ma di un possibile incognito futuro. E d’altra parte che cosa ci si potrebbe aspettare dalla coda di una cometa? Certo non una figura nitida e unitaria, certo non una forma data, ma una miriade di corpuscoli luminosi che si sfiocca in scie mai stabili e mai eguali a se stesse (tecnicamente una coda di ioni, ossia molecole emesse dal nucleo e ionizzate dalle radiazioni solari, e una coda di polveri, ossia particelle di polvere a composizione in gran parte silicatica). Ricomporre la coda di una cometa in un disegno stabile non ha alcun senso; semmai è più appropriato agire su di essa secondo i principi di cui è

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composta, agglutinando e densificando – per un verso – o rarefacendo e cancellando - per un altro verso. E difatti così ha spiegato Piero Ostilio Rossi2 le due opposte strategie impiegate nella ricerca: “la demolizione e la densificazione: […] le azioni di densificazione comportano l’impiego di corpi ambientali (il bosco ne è la più evidente esemplificazione) […] alla foce del Tevere, il progetto prevede la demolizione dei due nuclei insediativi per rinaturalizzare le rive del fiume…”. E questo fino a prefigurare l’inversione di un processo involutivo in un possibile processo evolutivo: sempre comunque lavorando sul divenire, non certo su un impossibile stato definito, stabilizzato; lavorando su figure allusive e potenzialmente evolutive assai più che su forme finite; e riscoprendo nel passato geografico o archeologico possibili tracce di futuro (forse qui è la differenza con Smithson, nella persistente fede in un valore fondativo dell’archeologia del passato accanto a quell’archeologia del futuro di cui tratta l’avventura del ri-ciclo). “Passaic ha forse sostituito Roma come città eterna?” – si chiedeva Smithson. E provava a immaginare una linea evolutiva di città “eterne” che partendo da Roma potesse condurre a Passaic e oltre Passaic: “ciascuna di queste città – annotava – sarebbe uno specchio tridimensionale capace di riflettere l’esistenza della città successiva. I limiti dell’eternità sembrano contenere tali idee malvage. […] Io sono convinto che il futuro è perso da qualche parte nelle discariche del passato non-storico”. “L’eternità in questione – ha commentato Anna Longo3 - non è quella del tempo cronologico, ovvero un presente che si può estendere ad una durata infinita (la rappresentazione di una situazione che permane per un certo lasso di tempo in quanto limitabile e definita); si tratta, invece, dell’eternità dell’Aîon, l’evento unico che differisce da se stesso in ogni punto, che non smette di frammentarsi in un’infinità di eventi. […] Possiamo quindi comprendere in questa chiave il concetto di entropia sostenuto da Smithson: esso implica l’impossibilità di ogni forma definita e contemplabile nel presente”. Divenire, entropia, processi più che progetti, per una metropoli inguaribilmente frammentaria, per una coda della cometa che non può cristallizzarsi in assetti stabili… A fronte di questa indeterminatezza, tuttavia, la stratificazione congenita di Roma – quella antica come quella contemporanea – può proporsi ancora come valore? E il substrato geografico può essere ri-generato? Il riciclo per cancellazione o per densificazione, la re-

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versibile fabbrica verde o il rimboschimento produttivo, l’impianto virtuoso di autodemolizione o la riprogettazione delle cave dismesse possono fornire strumenti per un’urbanistica del XXI secolo? Pur consapevoli che il mondo frammentario della metropoli non pare avere alternative concrete; pur sapendo che dobbiamo confrontarci a viso aperto con i processi entropici di cui dicevamo appena più sopra; pur sapendo parimenti che le utopie rifondative conseguenti alla tabula rasa sognate dal Moderno non hanno più campo fra di noi, non ci è però consentito di indulgere alla rassegnazione davanti a un presunto ineluttabile destino di dissoluzione. Il merz-bau su cui può fondarsi il ri-ciclo degli scarti metropolitani4, a Roma più ancora che altrove – proprio per la sua tradizione di città poli-stratificata - si offre come una possibile redenzione purché siamo in grado ancora di innescare processi creativi e ri-creativi, nuovi cicli di vita per la metropoli, per l’appunto5.

Robert Smithson, The Monuments of Passaic, in “Artforum”, December 1967, p.48 e segg. Piero Ostilio Rossi, Densificare, demolire, riconfigurare. Roma tra il fiume, il bosco e il mare, in: Roma 20-25. Nuovi cicli di vita della metropoli, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 165-171. 3 Anna Longo, Viaggio sulla linea dell’Aion. La spazializzazione del tempo, in: Robert Smithson, in: “Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, v.5, n.2, Firenze University Press, pp.187-208. 4 Per una trattazione filosofica del tema degli scarti come risorsa, in connessione con il pensiero di Walter Benjamin e con l’esperienza del Merz-Bau di Schwitters, si vedano: - Nicola Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano 2011; - Gianluca Cuozzo, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamin a Wall-E, Moretti & Vitali, Bergamo 2013; Gianluca Cuozzo, A spasso tra i rifiuti. Tra ecosofia, realismo e utopia, Mimesis, Milano 2014. 5 Cfr. Roma 20-25. Nuovi cicli di vita della metropoli, catalogo della mostra al MAXXI, Quodlibet, Macerata 2015. 1

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DROSSCAPES COME TEMA DI PROGETTO

Orazio Carpenzano

Il workshop di cui sono qui documentati gli esiti, va inquadrato nella ricerca sviluppata all’interno dell’Unità di Roma “La Sapienza” per il PRIN Re-cycle Italy, Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio, e si colloca a valle di un percorso di studi ormai da tempo attivo nel DiAP, che ha programmaticamente e con continuità intrecciato il tema delle morfologie insediative con le armature territoriali antropiche e naturali di lunga permanenza (reti infrastrutturali, sistemi idrografici, caratteri geomorfologici, palinsesti agrari, ecc.), indagando possibili strategie di modificazione per nuovi e inediti assetti dei territori entro la Coda della Cometa di Roma. Assetti che a nostro avviso possono forzare il quadro attuale e incidere, a mezzo di operazioni di sovrascrittura, sulle pratiche trasformative correnti. Alla base di questa esperienza c’è un’idea di fondo che riguarda il ruolo del progetto, mai depotenziato nel suo ruolo figurale ma non per questo autoreferente, anzi (!), consapevole del portato della crisi strutturale che oggi insiste sull’azione pubblica e privata e che rimette in discussione vecchi equilibrismi e superati modelli di sviluppo, primo fra tutti la disponibilità della terra su cui edificare. I temi dunque sui quali ci siamo concentrati sono il riciclo delle componenti edilizie, delle automobili, dei mezzi nautici e dei terreni agricoli in-

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colti. L’impronta urbana della Coda della Cometa ha acquisito, dopo la fase esplosiva dello sprawl, dimensioni e forme tali da far pensare che si sia giunti ormai in prossimità dei limiti ammissibili della sua espansione; al contempo, al suo interno si possono rilevare elementi significativi di intrusioni e marginalizzazioni, che possono far sperare a ulteriori altri riassetti. Sono reperibili, a nostro avviso, tutti i segni di una nuova riorganizzazione del territorio che, se per un verso mostra un’aggressiva centralizzazione insediativa, per l’altro evidenzia la presenza di intervalli tra i ritmi dell’edificato utili a ridisegnare quello che oggi è diverso, disperso e senza scopo, cioè fa parte di una vera e propria geografia dell’abbandono. In questo scenario abbiamo immaginato una contrazione dell’urbanizzato entro geometrie riordinative, per ribaltare le modalità del costruito e per ricalibrare e riorientare i modelli di sviluppo; ma anche come una possibilità di riformulare radicalmente gli elementi del progetto, per innescare nuovi cicli di vita in cui inserire tutto il patrimonio esistente. I nuovi cicli di vita non riguardano soltanto i materiali e gli oggetti, ma soprattutto le aree che il territorio già possiede negli assetti consolidati, che possono essere sovrascritti o delocalizzati per diventare realmente struttura portante di un nuovo assetto urbano e territoriale. Unica regola del gioco è l’assunzione dell’esistente come materiale di progetto e un lavoro serrato su strategie di rimontaggio, ma soprattutto sulla definizione di processi di riconoscimento / ricomposizione / rifigurazione del già scritto, del già dato. Tutto questo non prima di aver identificato e gerarchizzato le componenti in gioco, compreso e differenziato ciò che è struttura, in grado cioè di resistere nel tempo, e ciò che invece è suscettibile di cambiamento o, in alternativa, di restituzione a possibili cicli di rinaturalizzazione: gli assetti a rete e i tracciati sono in genere gli elementi forti dell’armatura insediativa, e pertanto si prestano a durare nel tempo, mentre i campi di queste armature possono essere considerati la parte più molle del tessuto, più adattiva ai cambiamenti. Da qui la considerazione delle grandi architetture ambientali (la maglia delle acque, le aree boschive, il fiume, il mare, ecc.) quali elementi primari del disegno di lunga permanenza e possibile nervatura di un progetto in grado di mettere in funzione i sistemi ambientali del territorio e farli lavorare in stretta corrispondenza con i luoghi e tutti i dispositivi per il riciclo. Associare la progettazione urbana, spesso orientata alla crescita, ad una contrazione/densificazione dei sistemi insediativi apre immediatamente

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una contraddizione per la quale vale la pena spendere nuovi strumenti e ulteriori sperimentazioni. All’interno del workshop abbiamo cercato di indirizzare l’indagine dei dottorandi sul riciclo dei drosscapes e sulle interazioni con la morfologia insediativa, lavorando sostanzialmente sui caratteri concettuali e figurativi dei brownfields, dei greyfields e dei greenfields. Partendo dai greenfields, lo studio preliminare al workshop ha permesso di evidenziare una grande varietà di aree connesse alle attività agricole e ai territori d’interesse naturalistico-ambientale qualificate da elevati valori di biodiversità la cui interpretazione progettuale poteva cogliere aspetti di senso e di forma. Queste sono le aree coltivate a seminativo, con le relative strutture di supporto e di servizio, a orti, a campi aperti o in serra (concentrate nelle grandi anse fluviali e a nord dell’aeroporto di Fiumicino e riferibili alla presenza di importanti aziende agricole), aree che ospitano nuove attività vivaistiche, isole del tutto autonome; aree semi-naturali di recente abbandono e di grande dimensione, contigue a zone ancora coltivate, abbandonate per gli alti costi di manutenzione connessi a fenomeni ambientali (esondazioni del fiume, risalita della falda acquifera, stagnazione delle acque piovane e superficiali, ecc.). E ancora, ritagli di forma allungata compresi nelle fasce di rispetto delle infrastrutture; porzioni di spazi aperti che spesso coincidono con lotti in attesa di edificazione; aree libere abbandonate spesso utilizzate come depositi o discariche abusive. Trasversalmente a questo ambito di indagine, si sviluppa il principale reticolo fluviale, naturale e artificiale, evidenziato dalle fasce di vegetazione ripariale. La frammentazione di questa figura mette in rilievo da una parte la forte alterazione della rete di bonifica e dall’altra la pesante infrastrutturazione delle sponde tiberine nei pressi dello sbocco al mare. Il gruppo che ha lavorato sul tema dei greenfields ha concentrato l'azione di progetto su Acilia Madonnetta, al centro di un processo sinergico di recycling come avvio di nuove economie, trasferito nell’azione diffusa di una forestazione urbana produttiva estesa all’intera area agricola dismessa, attraverso il potenziamento ecologico di una nuova filiera economica per l’agricoltura in crisi. Un corridoio di rinaturalizzazione, che comprende anche una grande zona umida, ricostituisce l’habitat palustre originario e configura un anello ambientale con la Pineta di Castelfusano e la Tenuta del Presidente di Castel Porziano. La forestazione contribuisce alla limitazione delle pratiche agricole inquinanti e all’incremento della biodiversità. Il masterplan del progetto dimostra come un intervento leggero e forte-

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mente radicato possa ribaltare il luogo comune per il quale l'intervento costruito sia sempre da considerare invasivo. In questo progetto invece è strumento di rigenerazione urbana. Passando a uno dei due temi relativi agli impianti di riciclo dei materiali edili, si trova lungo la riva destra di uno dei due rami di foce del Tevere, in una zona considerata a «rischio R4» per la frequenza delle esondazioni, attualmente occupata abusivamente da un fitto sistema edificato. Il progetto elaborato nel workshop, concepito secondo un masterprogram, più che un masterplan, prefigura un intervento di demolizione dell’esistente e di ricostruzione di un sistema paesaggistico articolato - di cui fa parte anche un impianto di riciclo dei materiali - da attuare secondo un’operazione di on-site recycle attraverso l’abbattimento in tempi successivi del sistema insediativo e il reimpiego dei resti della demolizione per la costruzione di un argine artificiale, dinamico e poroso, al di sopra del quale, sospeso su pilotis, è collocato l’impianto del riciclo/ fabbrica / luogo di vendita di materiali C&D e relativi laboratori di ricerca. La fabbrica sopraelevata è composta da tre padiglioni accostati, smontabile perché alla fine dell’operazione possa essere ricollocata in altre aree da sottoporre a simili interventi di riciclo. Per quanto riguarda gli spazi del rifiuto occupati da autodemolitori, di raccolta di rottami e abbandono di relitti nautici, attualmente insistono per la maggior parte su terreni esondabili, vincolati o non rispondenti alla normativa e utilizzati in base a concessioni temporanee continuamente rinnovate. Questo è il sistema definito dei greyfields. Lo studio ha definito preliminarmente gli spazi occupati dal ciclo di vita dei veicoli (vendita, deposito, parcheggio, smontaggio, smaltimento, abbandono) approntando una legenda delle criticità e stabilendo una gerarchia di priorità progettuali. Il workshop si è potuto avvalere di un approfondito studio preliminare della filiera di dismissione delle automobili, delle imbarcazioni e dei veicoli in genere, e di un atlante di esempi virtuosi di impianti di disassemblaggio delle componenti e di riciclo dei materiali, nonché di re-impiego e smaltimento. Il progetto ha quindi sperimentato un tema architettonico della città futura, della città ecologica, obbligata a fare i conti con i suoi cicli metabolici e dunque con i suoi scarti non per nasconderli nelle pieghe oscure dei suoi territori ma per far loro assumere un ruolo figurativo recuperando ad altri scopi aree occupate dai centri di demolizione. Si prefigura per questi ultimi una riallocazione secondo un’altra visione

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dell’intero ciclo dei veicoli o dei natanti, inteso non solo come sistema economico ma anche spaziale ed architettonico. È stato dunque affrontato il tema del ciclo dell’auto e dei veicoli nautici a partire da due differenti punti di vista: il primo, osservando l'insieme del processo e dunque la sequenza delle azioni che lo costituiscono e gli spazi in cui queste azioni si attuano; il secondo, operando una verifica sperimentale dei concetti teorizzati. Il progetto Fiumicino re_boat ha definito uno schema funzionale sperimentale per la filiera della nautica e ha individuato le possibili connessioni e relazioni con l’intorno specifico di Fiumicino-Isola sacra, seguendo una visione strategica parallela e affiancata a quella del ciclo degli autoveicoli. Si è ipotizzato un distretto per il riciclo delle imbarcazioni da diporto collocato strategicamente all’interno del nuovo porto turistico-commerciale di Fiumicino, quindi la delocalizzazione della moltitudine di depositi e piccoli cantieri che si susseguono lungo il corso del fiume e la concentrazione delle funzioni di recupero e smaltimento in un luogo, rispondendo da una parte alle necessità di rinaturalizzazione della zona ripariale, dall’altra definendo un possibile esempio di centro integrato per la nautica. Stesso approccio di integrazione architettonico-ambientale per quanto concerne gli autodemolitori. L’occasione per la sperimentazione progettuale è stata fornita dall’elaborazione di un ambizioso piano di recupero, da attuarsi all’interno dell’area dell’ex-raffineria petrolifera prospiciente la dismessa discarica di Malagrotta, volto alla realizzazione di una cittadella del riciclo. La scelta di riunire molteplici autodemolitori nell’area in esame ha presupposto l’azione di “liberare” le aree attualmente impegnate dalle stesse funzioni all’interno di contesti specifici della città consolidata nel territorio comunale di Roma; attività dunque propedeutica ad attuare ulteriori pratiche di riequilibrio e ripristino ambientale, in grado di incidere significativamente sul metabolismo globale del territorio. L’area è risultata quanto mai idonea ad accogliere le attività previste, per la vicinanza alle infrastrutture facilmente percorribili da mezzi pesanti e per l’accessibilità ai nodi di scambio gomma-ferro, oltre che per la presenza di un suolo già impermeabilizzato, dei numerosi serbatoi dismessi e l’impianto distributivo dei lotti funzionali, e infine per l’interessante dicotomia tra il paesaggio delle forre, le riserve dell’agro romano e i manufatti industriali esistenti. L’operazione effettuata nell’ambito dei brownfields, è consistita in un'indagine e una mappatura delle aree relative a smorzi, cave

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Orazio Carpenzano, studio per l'assetto del quadrante 11 (Coda della Cometa per Roma 20-25 nuovi cicli di vita per la metropoli), aprile 2015

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e discariche, seguita dall’azione di riunire tali ambiti all’interno di sovra insiemi di scala maggiore per identificarne i caratteri prevalenti, indagarne la trasformabilità e predisporli al progetto. La morfologia e la posizione occupata da queste aree sul territorio hanno permesso di comprendere le ragioni, le istanze funzionali e alcune dinamiche del fenomeno. Le caratteristiche formali, organizzative e localizzative hanno rappresentato il maggior indicatore trasformativo e di indirizzo progettuale. Le aree mappate sono state successivamente suddivise in due tipologie: quelle a sviluppo lineare e quelle a sviluppo puntuale. Le prime, in particolare, lungo la traiettoria infrastrutturale Via Ostiense-Via del Mare in una sequenza piuttosto compatta e continua, che sfrutta i collegamenti urbani esistenti. Riguardo a queste aree è prevalso l’orientamento di rimuovere la maggior parte delle attività presenti per ri-allocarle, concentrandole all’interno di padiglioni ad assetto lineare destinati allo stoccaggio dei materiali, all’esposizione e alla vendita, anche all’aperto. Essi potrebbero anche divenire luoghi di sperimentazione e di ricerca sui materiali innovativi, laboratori e parchi tecnologici.

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RECYCLE E PROGETTO

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Milano 1951 - QT8 - Piero Bottoni e Fernad Leger sul Monte Stella in costruzione

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DEMOLIZIONI

Alessandra Capanna

Il mito di Pruitt-Igoe ha avuto inizio con la sua demolizione. Prima, nel grande complesso di edifici realizzato da Minoru Yamasaki negli anni Cinquanta nella città di St. Louis (stato del Missouri), c’era il problema sociale, causato, secondo alcuni, dal fallimento della utopia legata alla grande dimensione e dalla concentrazione di grandi masse di popolazione povera e disagiata in edifici soggetti troppo rapidamente a degrado. Individuarne le cause e soprattutto porvi rimedio fu giudicato assai meno vantaggioso di eliminare il problema nel modo più radicale, così, alle tre del pomeriggio del 16 marzo 1972, meno di 20 anni dopo la sua costruzione, il primo dei 33 giganteschi edifici veniva demolito. «Modern Architecture died in St. Louis, Missouri on July 15, 1972 (data della demolizione degli ultimi edifici, n.d.r.) at 3.32 pm (or thereabouts) when the infamous Pruitt Igoe scheme, or rather several of its slab blocks, were given the final coup de grâce by dynamite» - così Charles Jencks, annunciava nel suo celebre "The New Paradigm in Architecture: The Language of Post-Modernism". 5800 alloggi, 15000 persone, 33 edifici di 11 piani. Una montagna di macerie. Godfrey Reggio, nella vita fuori controllo rappresentata dall’innovativo lun-

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go documentario Koyaanisqatsi, dedica una sequenza centrale del film alla demolizione controllata degli edifici, a partire proprio da Pruit-Igoe, fino alla rottamazione di vecchi ponti in ferro, passando attraverso la polverizzazione di decine di altri edifici obsoleti, come fossero rappresentativi del disastro contemporaneo. Architetture che partecipano alla categoria dell’evento catastrofico senza fare distinzione sulla causa del disastro stesso, sia esso prodotto da una circostanza naturale o programmata. Il sito un tempo occupato da quegli edifici, dopo un lungo silenzio durante il quale una natura spontanea se ne era riappropriata, lasciando scoprire, come archeologiche presenze nel parco, frammenti della sottostazione elettrica, placche di asfalto, piastre metalliche, è stato oggetto di un eccezionale concorso internazionale: Pruitt Igoe Now, bandito nel mese di luglio del 2011, concluso il 16 Marzo 2012, esattamente 40 anni dopo la demolizione del primo edificio. Heather Dunbar e Xiaowei R. Wang hanno vinto il primo premio con un progetto di agricoltura urbana. Del resto, diversi progetti presentati al concorso, proposero soluzioni per una rinaturalizzazione con produzione agro-alimentare. Se la demolizione aveva segnato la fine del Moderno, un nuovo inizio è suggerito con un intervento di ecologia urbana. Il destino del lavoro di Minoru Iamasaki sembra essere segnato da pubblici, drammatici eventi di demolizione, carichi di significato politico. La carriera dell’architetto di Seattle con origini giapponesi è ricca di più di 50 importanti opere, ma il crollo del World Trade Center con le sue torri gemelle ha praticamente cancellato dalla sua storia il suo essere l’architetto della grande dimensione (oltre l’utopia urbana di St. Louis, le Twin Towers sono state a lungo gli edifici più alti del mondo e la Torre Picasso di Madrid è la costruzione più alta della nazione spagnola) o uno dei più importanti esponenti del New Formalism Style. Era il 1964, quando iniziarono i lavori per la costruzione della Torre Nord. Il World Trade Center fu demolito l’11 settembre del 2001 come manifesto politico della volontà di procedere alla cancellazione di una realtà culturale ancor più che religiosa. 2 torri e 5 edifici minori, 50 000 persone che vi lavoravano, 200 000 visitatori settimanali, 2.749 vittime. Una montagna di macerie, un’altra fine di un’epoca. La stessa sorte di Pruit-Igoe è stata riservata ai Chicago Cabrini-Green:

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3,607 alloggi in 23 edifici alti e 54 case a schiera, 15000 abitanti, degrado sociale e pessime condizioni di manutenzione dei fabbricati; costruito tra il 1942 e il 1962, demolito tra il 1997 e il 2011. Montagne di macerie. Anche nella vecchia Europa, per il complesso residenziale Red Road a Glasgow (1964), costituito da 8 torri di 28 piani per 5000 persone, sono state programmate esplosioni controllate tra il 2012 e il 2015; la demolizione è in via di completamento. Montagne di macerie. Tutte conferite in discariche speciali, con conseguenze importanti in termini di consumo di suolo, di carburante, risorse umane e materiali. Rivolgendo lo sguardo al passato, quanti metri cubi di macerie produssero, per esempio a Roma, gli sventramenti di via della Conciliazione e di via dell’Impero? Tipi di demolizioni. Tipi di macerie La breve elencazione di alcuni episodi oramai storici di distruzioni non è una fredda elencazione di dati numerici; si tratta piuttosto di comprendere le dimensioni di un fenomeno del quale fanno parte due categorie molto diverse di eventi che conducono alla demolizione degli edifici. Quella dei disastri naturali e quella degli abbattimenti programmati. Catastrofi naturali, quindi, o risoluzioni politiche. In comune hanno la produzione di macerie indifferenziate o difficilmente differenziabili, che richiedono un conferimento in discariche di dimensioni importanti, di nuovo producendo un negativo impatto sul territorio. Per avere una idea della quantità di materiale che deriva, per esempio, da un terremoto, i dati forniti dalla Protezione Civile dichiarano che, complessivamente, nei siti di deposito italiani sono presenti macerie provenienti dai terremoti per oltre un milione di tonnellate. Dai dati che sono stati diffusi in occasione di quello de L’Aquila, si prevede che alla fine saranno raccolte un totale da 3,2 a 4,2 milioni di tonnellate di macerie, che corrispondono a circa 2 - 2,6 milioni di metri cubi di materiali, mentre in Emilia, la Regione ne aveva stimato 440 mila tonnellate solo per la fase d’emergenza 1. Per fare un paragone storico, il piccone demolitore del periodo fascista produsse a Milano e a Torino 3 milioni di metri cubi di demolizioni, a Roma 2 milioni e a Napoli 1,2 2 . In occasione del catastrofico terremoto che ha colpito la città de L’Aquila nel 2009, il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco – Direzione Regionale

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Heather Dunbar e Xiaowei R. Wang progetto vincitore del concorso Pruit-Igoe Now, 2012

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Abruzzo (VVF-Abruzzo) e l’Istituto per le Tecnologie della Costruzione del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Sede L’Aquila (ITC-CNR –L’Aquila) hanno messo a punto un documento per la stima e per la quantificazione delle macerie derivanti da demolizioni, da interventi di miglioramento sismico e da adeguamento e hanno calcolato, sulla base di demolizione campione effettuate a tale scopo, il rapporto tra volume vuoto per pieno e volume e peso delle macerie “a terra”, sia su edifici in muratura che in cemento armato. Le misurazioni si basano sul rilievo di un edificio reale, del quale è stato calcolato il volume vuoto per pieno e le incidenze percentuali dei volumi delle strutture verticali e orizzontali, delle tamponature e dei tramezzi. Entrambi i rapporti tengono conto la variazione di volume “a terra”, conseguente alla demolizione. L’operazione di analisi quantitativa ha preso le mosse dalla demolizione programmata e conseguente rimozione delle macerie e misurazione di queste in alcune frazioni danneggiate dall’evento sismico. In particolare nella frazione di Civita di Bagno sono state effettuate quattro demolizioni di cui tre nel centro storico ed una in periferia, proprio per poter valutare le differenze tra detriti da edifici in muratura e in cemento armato. Sono state quindi compilate le schede relative alle quantità di materiali differenziati per il conferimento alle discariche specializzate, dalle quali si rileva che il quantitativo di macerie provenienti dalle suddette quattro demolizioni, complessivamente conferito al deposito temporaneo, è pari a 4.190.390 Kg. Nel rapporto dei VVFF-Abruzzo e dell’ITC-CNR-L’Aquila si legge: «Per conoscere il peso specifico delle macerie, sono stati presi in considerazione 16 viaggi effettuati da un mezzo dei vigili del fuoco VF 21763, avente un cassone di volume pari a 12,65 mc, ed è stato determinato il quantitativo mediamente trasportato pari a 20810 Kg. Si è quindi dedotto: il peso specifico medio delle macerie trasportate, pari a 1645 Kg/mc. Sulla base del quantitativo complessivo di macerie derivante dalle quattro demolizioni, pari a 4.190.390 Kg, ed al peso specifico medio delle macerie pari a 1645 Kg/mc, si ricava il volume di macerie corrispondente pari quindi a 4.190.390/1645=2.547,35 mc. Se si consideria il volume complessivo dei quattro edifici demoliti, in muratura di pietrame con copertura in legno, solaio in travi di acciaio e tavelloni, pari a 7311 mc, si ricava:

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il peso medio delle macerie per unità di volume vuoto per pieno, pari a 4190390 / 7311 = 573,16 Kg/mc. Detto valore può essere assunto come dato medio statistico da utilizzare per conoscere il quantitativo di macerie che possono derivare dalla demolizione di un edificio di cui si conosce il volume vuoto per pieno. Conseguentemente si deduce che il rapporto tra volume delle macerie a terra ed il volume vuoto per pieno è: Peso medio delle macerie per unità di volume vuoto per pieno = 573/1645 = 0.348».3 In seguito, per la stima complessiva del volume di macerie da smaltire nel lungo periodo del post-terremoto, la relazione analizzata riferisce della schedatura generale e dalla elaborazione di un database nel quale sono riportati i dati relativi a 73.141 edifici o unità strutturali, suddivisi nei diversi comuni interessati dal sisma, in relazione al patrimonio totale registrato dai dati ISTAT del censimento 2001 delle abitazioni. Il metodo adottato per determinare il peso specifico dei materiali da demolizione, sopra descritto, sostanzialmente non tiene conto della causa che li ha prodotti e concorre a determinare in astratto la misura degli interventi di raccolta e conferimento; si ritiene quindi questo studio rilevante anche per il pre-dimensionamento del volume di detriti da demolizione programmata, per la quale si voglia adottare una pianificazione di differenziazione e riciclo dei materiali, che sia preceduta da una preventiva riduzione del volume dei detriti dovuta allo smontaggio di parti dell’edificio da stoccare separatamente, quali vetri, materiali metallici e legnosi. Lo scopo di operare una raccolta differenziata per una nuova vita di luoghi e materiali, comprende l’adozione di programmi integrati di pianificazione e coordinamento del riciclo e di riciclo on-site dei conglomerati.4 Un esempio storico di on-site recycle dei materiali provenienti da edifici demoliti è la cosiddetta “montagnetta” di Milano al QT8. Il Parco di Monte Stella viene affettuosamente chiamato ”montagnetta” dai milanesi che lo considerano in qualche modo un memoriale; il rilievo artificiale è infatti formato con l'accumulo delle macerie provocate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e con altro materiale proveniente dalla demolizione degli ultimi tratti dei bastioni e, dal 2003, in una parte di questo parco, è collocato il Giardino dei Giusti in ricordo di tutti coloro che si opposero ai crimini contro l’umanità. La montagnetta fu progettata da Piero Bottoni insieme al quartiere sperimentale per l’VIII Triennale di Milano,

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che si trova al confine sud di questo parco, e dedicato alla moglie Elsa Stella, morta prematuramente, dalla quale prese il nome. Il riciclo on-site è un’operazione virtuosa, che impone di inserire già nella fase di progetto del nuovo, il riutilizzo dei prodotti della demolizione. Di più: di dare l’avvio alle demolizioni secondo un programma preciso di recupero dell’area e di lavorazione dei detriti per la realizzazione di parti del progetto e di conferimento in altri cantieri, o in discariche attrezzate per la lavorazione e vendita di nuovi prodotti per l’edilizia, del residuo. Appare chiaro che si tratta di una completa inversione di impostazione secondo la quale prima di costruire è necessario pensare alla riduzione degli scarti. Da quasi venti anni, negli Stati Uniti si adotta una politica di riciclo onsite come parte della mission di una rete aziende C&D (Construction and Demolition) attive sul territorio vasto dell’intera nazione, che si occupano di riciclo dei materiali per l’edilizia e non solo. Piuttosto noto è il caso del vecchio aeroporto di Denver nel Colorado i cui 6 milioni di tonnellate di asfalto e di cemento sono stati il seme dal quale è sorto il nuovo quartiere di Stapleton. Una operazione di progetto partecipato che vide la popolazione preferire un quartiere residenziale verde secondo i principi del New Urbanism, al posto del grande parco che l’amministrazione aveva previsto di realizzare sui circa 19 km quadrati del vecchio aeroporto. A partire dalla montagna di macerie pari a 6 milioni di tonnellate di materiali, riutilizzati per rigenerare l’area, il numero di abitanti, di case, di aree verdi ha il segno positivo.5 Se quindi, per la città di St. Louis, o Chicago, o Glasgow, una delle conseguenze delle demolizioni fu quella di ricollocare famiglie per la repentina mancanza di alloggi, il sobborgo di Stapleton al contrario, come effetto dello smantellamento dell’aeroporto crescerà fino a 12000 nuove residenze di cui 8000 case unifamiliari e 4000 edifici per appartamenti di cui 1650 sono già occupate da 4100 residenti, con una prospettiva futura ampia e dotazione di servizi già efficiente. In questo viaggio sul tema del degrado architettonico attivo o passivo, sulle esperienze passate di raccolta indifferenziata dei materiali da demolizioni, quantificabili a posteriori, ma di scarsa utilità non potendosi avvalere delle potenzialità del riciclo, possono invece essere prese in considerazione come programmabili in un progetto generale, le demolizioni e ricostruzioni on-site, in tutto o in parte, di quei quartieri periferici italiani che più volte sono stati oggetto di ipotesi di riqualificazione.

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Gordon Matta Clark Conical Intersect (Building Cuts) 1975

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Ci si riferisce per esempio al caso dei quartieri romani del Laurentino 38, i cui ponti sono già stati demoliti come intervento di amputazione di una parte malata, e di Torbellamonaca, che è stata oggetto di progetti visionari quanto anacronistici o peggio fuori scala. Tonnellate di macerie, comunque, che in una programmazione degli interventi potrebbero prevedere un riciclo on-site dei materiali, o il loro impiego in una visone urbana complessiva dei progetti in atto.

http://www.6aprile.it/wp-content/uploads/2012/05/Piano_gestione_macerie_rev-4.pdf . Da A. Mioni, "Le città e l’urbanistica durante il fascismo", in AA.VV. Urbanistica fascista: ricerche e saggi sulle città e il territorio e sulle politiche urbane in Italia tra le due guerre, Franco Angeli, Milano 1980, p. 35. 3 SISMA ABRUZZO 6 APRILE 2009 STIMA QUANTIFICAZIONE MACERIE - aggiornamento al 19 luglio 2010 dati forniti da CNR e Vigili del fuoco) "http://terremotoabruzzo09.itc.cnr.it/documenti/Relazione_macerie_VVF_ITC_CNR_02.pdf" p.2. 4 Vedi: Quaderno Recycle n. 8/2014, Il territorio degli scarti e dei rifiuti, pp. 117-125. 5 Ibid, p. 121. 1

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Joseph Gandy, rappresentazione immaginaria dei ruderi della Bank of England di John Soane, Londra

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RECYCLE/ RECYCLING OVVERO L'ARCHITETTURA RESISTE?

Dina Nencini

“Non è la civiltà a produrre i rifiuti. Sono i rifiuti e il nostro bisogno di tenerli a distanza, a produrre la scienza e l’arte, la musica e la matematica” Don Delillo, Underworld Questa affermazione, così come il libro di Don Delillo sono particolarmente significativi per la riflessione sul Recycle, poiché spostano la questione del riciclo da un piano di utilità a un ordine di necessità universale, l’universalità dei beni i cui valori estetici sono indiscutibili, e la cui utilità non deriva dalla loro materialità diretta. Significa dare al “rifiuto” un’importanza se non fondativa, certamente di innesco di un processo il cui esito finale è la trascendenza della condizione fisica umana nell’arte, nella musica, nella perfezione matematica. Quasi a dire: è il nostro essere finiti espresso da tutte quelle funzioni necessarie alla sopravvivenza fisica del nostro corpo, a produrre in noi la necessità della metafisica, della ricerca dell’infinito. E questo ha a che vedere con il nostro tempo, con le categorie che ne definiscono i tratti o con le nostre unità di misura e con le nostre necessità, soprattutto, con il nostro modo di appropriarci delle cose, di

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tokilkkirikill, S.Lucietti, courtesy

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consumarle, di usarle e di riciclarle. Intendo affrontare nel caso specifico dell’intervento architettonico e urbano, la differenza tra riciclo come principio e riciclo come azione poiché mi pare che proprio questa bipolarità riproponga in traslato la scissione insita nella costruzione architettonica tra forma e senso, la quale come ha scritto Roland Barthes è la ragione della molteplicità delle cose. Entrambe queste due figure del riciclo sono espresse nel contemporaneo in numerose forme e modalità di intenderlo. L’imperativo delle 3R ridurre, riciclare, riusare, come la distinzione tra recycling, upcycling, downcycling, ne sono esempio, ma non va sottovalutato che la ragione strumentale di tali nuove definizioni, esprime direttamente o indirettamente l’intenzione di strutturare e orientare il comportamento sociale, coinvolgendone inevitabilmente un principio etico. è ormai un assunto che in questa imprescindibile connessione tra azione e etica del recycle il ruolo del progetto cambia. Il cambiamento riguarda soprattutto le modalità di determinazione reciproca tra pensiero e azione in architettura. Un legame che nella contemporaneità vede proprio l’architetto essere sempre meno rilevante, e divaricato tra l’orientarsi verso una dimensione più politica, nella quale è sempre più importante il dialogo, la concertazione, la partecipazione delle persone all’interno del procedimento ideativo, e l’esprimere una competenza prettamente tecnica rendendo la propria esperienza sempre più sovrapponibile a quella di altre figure professionali. Siamo di fronte sempre di più a una irrilevanza se non alla graduale e inarrestabile espulsione della riflessione teorica dall’architettura, ritenuta talmente a priori da avere poco a che vedere con gli obbiettivi di efficienza dei sistemi finanziari globali. La sempre più difficile possibilità di “realizzazione” del pensiero architettonico nell’opera esaspera dunque l’importanza della competenza tecnica. è in tal senso che il recycle diviene “principio”, poiché sollecita una nuova dimensione del progetto, una nuova messa a punto degli strumenti del progetto che non si limitino alle ragioni tecnico-funzionali. Si tratta in un certo senso di una bipolarità che tuttavia ci impegna a rivedere chiodature fondamentali dell’agire architettonico, prima fra tutti la questione dell’innovazione, schematicamente formulabile nell’interrogativo su come si possa generare il nuovo riciclando ciò che già c’è, o l’altrettanto importante domanda sulla scelta e la determinazione del mantenimento di ciò che già esiste. Infatti, a queste domande si

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Rural studio, Lions Park Playscape, Greensboro, 2010

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può rispondere in maniera molto diretta attraverso formulazioni tecniche determinate dalle “conoscenze” alla base del riciclo ma, non possiamo non ritenere che questo determini l’esclusione di tutti quegli aspetti della riflessione legate alle motivazioni che determinano quelle scelte… E non si tratta semplicemente di una necessita etica, per tornare a Delillo dobbiamo riciclare perché esiste in ciò che non serve più un “potenziale di ritorno”: il rifiuto, lo scarto ciò che noi gettiamo ci riporta un’identità che non si dà più come compiuta e integra, ma che passa attraverso l’informe e la dis-integrazione. In questo a mio avviso risiede la sollecitazione più profonda per l’architettura. Recycle mette in crisi un concetto fondativo per l’architettura: la durata, mette cioè in discussione il codice di permanenza e di stabilità, che contraddistingue l’idea stessa di architettura, opponendogli una nuova condizione di finitezza. Recycle è a tutti gli effetti un nuovo sguardo, una nuova visione, poiché intende riconfigurare la realtà. L’unico fertile dubbio riguarda la terminologia: è recycle un dispositivo, nel senso attribuito da Foucault a questo termine? E dunque comunque lo strumento di un potere? È chiaro che la dimensione politica del progetto come attitudine dialogica tra architettura e società e che si esprime in tutte quelle azioni di concertazione e condivisione delle scelte progettuali nelle diverse fasi di realizzazione, non si risolve in questa domanda. Se recycle è un dispositivo, esso concorre all’orientamento delle strutture sociali a cui è destinato, e questo nella migliore delle ipotesi. Recycling, nella forma inglese che ne rende in progress l’utilizzo assume dunque un aspetto meno perentorio. L’azione del recycling, riducee al minimo la condizione di principio etico e consente di rendere i caratteri di uso, di funzione più orientati da necessità materiali. La casistica dei progetti di recycling è numerosa e molteplice con i precedenti più significativi nell’ambito dell’arte, poi dell’artigianato, del design, fino all’architettura. Quello che emerge è la necessità da parte della società di elaborare nuovi sistemi e strategie in seguito alla “segnalazione” di problematiche sociali da parte di gruppi ristretti che ne individuano i limiti. Un esempio significativo è espresso dalla cultura detta dell’“altro consumo”, la cui identificazione oscilla tra politica e azione comune, configurandosi come determinata da un gruppo relativamente omogeneo sia socialmente che economicamente, mosso da ragioni di equità e sostenibilità. Si tratta di gruppi che determinano quelle che potremmo definire

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Palazzo in Tetrapak a Granada

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“culture attive”, cioè mosse da principi etici ma orientate a intervenire fortemente nelle dinamiche politiche e sociali, secondo circolarità virtuose. Un altro esempio significativo riguarda le situazioni di emergenza: in queste la vita si trova in condizioni limite nelle quali si ridefinisce l’ordine delle necessità prioritarie. "RuralStudio" è certamente il caso più emblematico di intervento degli architetti in condizioni post-disastro ambientale, ma molti architetti operano in analoghe situazioni nel quotidiano, come nei paesi nelle quali proprio le categorie del consumo e della globalizzazione sono contraddette da condizioni di vita difficili e liminari. A questo va aggiunto che l’edificio non è un oggetto e le caratteristiche fisico-materiali impongono riflessioni molto diverse e declinano modalità differenti di intendere l’ambiente e le azioni eticamente compatibili con esso, soprattutto relative alle implicazioni specifiche derivanti dal come valutare l’esistente non più utile e dunque come riutilizzarlo. Tale valutazione ha un doppio ordine: culturale e economico. Le ragioni culturali sono necessarie alla costruzione dell’ipotesi di riciclo, alla costruzione del consenso necessario alla condivisione allargata delle scelte, infine la valutazione economica è rilevante per poter prevenire alla realizzazione delle ipotesi di recycling. La distinzione, nominazione, classificazione, del recycling ci riporta nuovamente al legame tra recycle recycling. Infatti le azioni di recycling presuppongono oltre che di essere dirette caso per caso, di poter essere tradotte e spesso utilmente replicate in azioni analoghe, con la conseguente necessità di codificazione. Infatti, per non cadere nel rischio di un dannoso “olismo del riciclo”, la codificazione delle possibilità di applicazione diventa imprescindibile determinando un paradosso non da poco: procedere al riconoscimento e alla codificazione delle azioni da compiere, costruendo una ipotetica elencazione di strumenti sottende comunque una narrazione del riciclo che scinde la possibilità dell’intervento in due piani: quello della soluzione adottata e quello del significato che tale trasformazione potrà produrre generando comunque una dimensione estetica. Ma come ha scritto Umberto Galimberti “Il mondo della vita è sovrabbondante rispetto ai nostri tentativi di ordinamento”.

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LUOGHI DEL PROGETTO / RECYCLE NEI TERRITORI DELLA COMETA

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IPOTESI DI LAVORO PER NUOVI PAESAGGI DEL RICICLO Anna Lei

La città contemporanea che si estende tra Roma e il mare appare come sequenza instabile di spazi urbani, naturali e semi-naturali. E’ caratterizzata infatti sia da una evidente continuità ecologico-ambientale che da una forte pressione insediativa, all’insegna della mescolanza funzionale contemporanea. Se si assumono questi elementi come componenti di un’unica configurazione complessa, in cui i differenti tipi di spazio non sono alternati ma compresenti secondo diverse intensità e modalità d’uso, è possibile immaginare un percorso di rigenerazione della città, fondato sulla considerazione delle differenti risorse ambientali, economiche, e sociali1. Coerentemente con quanto già evidenziato nelle fasi di rilievo e interpretazione tematica dei greenfields, e in relazione alle dinamiche socio-economiche che tracciano possibili temi chiave per la rivitalizzazione territoriale, l’ipotesi di lavoro delineata in occasione del workshop di progettazione Rome Drosscapes Recycling propone una strategia di rigenerazione urbana a partire dall’innesco di nuovi cicli di vita per le Aree dello scarto agricolo e insediativo2. L’agricoltura urbana e periurbana, che a differenza dell’agricoltura rurale non è solo fisicamente presente nella città ma è anche direttamente incorporata nel suo ecosistema, rappresenta lo strumento-chiave della strategia di rigenerazione proposta. La promozione di nuove attività produttive sostenibili (filiere agro-energetiche), di nuove pratiche di agricivismo (agricoltura multifunzionale e agricoltura sociale) nelle aree dello scarto agricolo, di impianti per la valorizzazione degli scarti agro-forestali (filiera agricola attuale e interventi di manutenzione ordinaria degli spazi aperti e delle aste fluviali), tendono ad avviare e sperimentare nuovi rapporti città-campagna, attraverso la risoluzione della competizione per l’uso delle risorse e in favore di una nuova cooperazione rispetto a comuni obiettivi di sviluppo sostenibile3. Questa stessa strategia infine comporta

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(1) Strategia di rigenerazione urbana per la Coda della Cometa. Evoluzione dei nuovi paesaggi del riciclo

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la ricerca di un metabolismo urbano più efficiente, il cui modello di riferimento è quello dei “circuiti chiusi” dove ogni output di un organismo rappresenta anche un input necessario al rinnovamento e al sostentamento dell’ambiente nel suo complesso4. Strategia paesaggistica e materiali di progetto La proposta d’intervento è immaginata come una strategia paesaggistica, cioè un insieme d’interventi eterogenei ma coerenti, reciprocamente condizionanti, e realizzabili mediante azioni attuative differenti che coinvolgono soggetti pubblici o privati, anche in tempi diversi. L’impostazione e lo sviluppo del progetto di rigenerazione urbana nella Coda della Cometa muove da tre affermazioni di sfondo: - la transcalarità, per la quale ogni attuazione, cioè la messa in opera di ogni singolo intervento, condiziona il funzionamento del territorio alle diverse “scale”, da quella paesistica a quella urbana; - l'andamento circolare, per cui la definizione di ogni intervento rappresenta un’occasione sia di verifica sia di approfondimento dell’intera strategia paesaggistica; - la logica incrementale, che vede l’assunzione della dimensione temporale a variabile di progetto (fig. 1). La strategia paesaggistica prefigura un paesaggio in divenire secondo fasi interconnesse di attuazione degli interventi: dall’entrata in esercizio di un eco-distretto, fase d’innesco delle nuove forme di economia produttiva sostenibile e che coinvolgono l’area della Centralità urbana Acilia-Madonnetta e gli spazi aperti oggetto di manutenzione ordinaria (rete idrografica naturale, siepi e filari di bonifica, aree boscate), fino alla diffusione pervasiva in tutto il quadrante urbano dei nuovi paesaggi del riciclo5. Quest’ultima fase potrebbe anche coinvolgere le attuali superfici agricole produttive a seguito di una riconversione colturale delle aziende attive, da sostenere con la messa a punto di politiche d’incentivo ad hoc6 (alcune misure specifiche del PSR Lazio 2014-2020). I materiali di progetto che compongono la strategia di rigenerazione urbana per la Coda della Cometa si dividono in due famiglie: i nuovi paesaggi del riciclo e l’eco-distretto. Nuovi paesaggi del riciclo. La diffusione dei nuovi paesaggi del riciclo coinvolge l’insieme delle aree già evidenziate nella “Mappa dello scarto agricolo e insediativo”. Per queste aree sono state definite nuove funzio-

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(2) Nuovi paesaggi del riciclo. Le forestazioni produttive energetiche

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ni, intese come veri e propri nuovi cicli di vita, attraverso l’inserimento di differenti materiali verdi complessi. Il loro inserimento nel territorio è orientato dalle caratteristiche fisiche delle singole aree oggetto di trasformazione (in primo luogo, la copertura del suolo quale sintesi delle componenti fisiche e biofisiche del territorio), dalla loro prossimità con le superfici d’interesse naturalistico-ambientale e con gli elementi del paesaggio agrario storicizzato della bonifica. Ogni materiale di progetto è immaginato come materiale complesso, composto cioè da più elementi che si combinano in base al contesto d’inserimento, dando luogo a differenti configurazioni spaziali ma senza perdere mai la loro caratterizzazione finale. Per ciascuno di essi, sono state individuate le essenze vegetali principali, studiate le loro fondamentali forme associative (abachi) e i differenti sesti d’impianto (quantità e distribuzione delle singole specie). I materiali di progetto da cui prendono forma i nuovi paesaggi del riciclo sono a loro volta riconducibili a due grandi famiglie: - forestazioni produttive e energetiche (Short Rotation Forestry – SRF), cioè impianti di selvicoltura monospecifici e intensivi, arborei o arbustivi, destinati alla produzione di biocombustibili solidi (fig. 2). In considerazione delle inevitabili modifiche di carattere ambientale dovute all’inserimento degli impianti di SFR, la selezione delle singole cultivar è stata orientata dal confronto dello stato di fatto (ecosistema e biocenosi, caratteristiche pedologiche dei suoli e caratteristiche paesaggistiche del territorio), la fisiologia e la produttività delle coltivazioni energetiche più diffuse (principale fonte per i dati di valutazione tecnico-economica delle cultivar è la banca dati Rete di Informazione Contabile Agricoltura – RICA)7. In questo senso è bene sottolineare come importanti studi di settore (fonti MiPAAF) abbiano evidenziato alcune esternalità positive connesse all’introduzione di impianti di SFR in aree abbandonate e comprensori a rischio, e in particolare: la riduzione delle emissioni di anidrite carbonica nell’atmosfera, la riduzione dei rischi di rilascio di azoto nitrico nell’ambiente per lisciviazione o ruscellamento superficiale, l’aumento della biodiversità e la riduzione dell’impiego di fitofarmaci, qualora le coltivazioni energetiche sostituiscano pratiche agricole inquinanti. La strategia di rigenerazione passa attraverso la realizzazione d’impianti produttivi sostenibili e multifunzionali, in cui l’assenza di trattamenti chimici nelle pratiche di selvicoltura consenta la frequentazione controllata delle forestazioni produttive attraverso la promozione di nuove pratiche

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(3) Nuovi paesaggi del riciclo. Le forestazioni ad alto valore di naturalitĂ

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sociali, didattiche e ricreative (per es., laboratori permanenti di educazione ambientale per la sensibilizzazione ai temi del riciclo, del cambiamento climatico, delle nuove forme di energia da FER, ecc.). - forestazioni ad alto valore di naturalità, cioè impianti arborei e arbustivi misti di specie autoctone disetanee destinati a molteplici ruoli di potenziamento e mitigazione ecologico-ambientale (fig. 3). Sono state previste diverse associazioni vegetazionali, e in particolare: boschetti lineari misti e arbusteti monospecifici con duplice funzione di filtro e separazione delle funzioni usuranti esistenti (lungo le principali strade urbane ed extraurbane) e di compensazione dei nuovi interventi (i nuovi impianti di produzione energetica da FER e di compostaggio, le aree di manovra degli automezzi interne all’eco-distretto, gli stessi nuovi impianti di SFR); arbusteti misti igrofili con funzioni ecotonali, di stabilizzazione e recupero delle aree abbandonate, a rischio idrogeologico e biologicamente degradate (per es., le aree incolte poste tra gli ambienti più antropizzati e quelli ad alto valore di naturalità come le aree umide, le zone boscate o con vegetazione sclerofilla); boschetti igrofili perialveali e ripariali con ruolo di consolidamento della vegetazione presente lungo i corsi d’acqua naturali e artificiali, i principali corridoi ecologici dell’intero settore urbano. Oltre a questi due tipi di forestazione, è stato previsto infine un terzo materiale verde complesso. Al fine di scongiurare l’ulteriore impoverimento degli elementi strutturali del paesaggio agrario storicizzato della bonifica, in presenza delle siepi di delimitazione dei vecchi lotti, dei filari di eucalipto posti lungo i canali d’irrigazione e drenaggio delle acque, dei doppi filari di pino marittimo posti lungo le strade di accesso dei casali della bonifica, ecc. il progetto prevede ampie fasce “vuote” coltivate. La declinazione di queste fasce in orti urbani o seminativi dipende direttamente dalla loro prossimità con i tessuti urbani e quindi dalla realistica possibilità di favorirne la connessione con la città attraverso l’attivazione di nuove pratiche di agricivismo, anche come forma di presidio delle aree marginali, degradate e insicure. In generale, i criteri di localizzazione e l’alternanza dei materiali verdi di progetto sono stati esemplificati in alcune sequenze tipo che chiariscono le relazioni fisico-funzionali tra gli impianti di nuova realizzazione e il contesto, oltre che tra i differenti tipi di forestazione. Eco-distretto. L’area della Centralità urbana Acilia-Madonnetta (così come definita dal PRG di Roma vigente), anch’essa già identificata come

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(4) Strategia di rigenerazione urbana per la Coda della Cometa. Tre interpretazioni di re-cycle

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area dello scarto agricolo e insediativo, è stata pensata come rinnovata “centralità vuota” e identificata come prima area di sperimentazione della strategia di rigenerazione urbana nella Coda della Cometa8. La proposta avanzata si basa non solo sulla reinterpretazione progettuale degli spazi e degli scarti dell’attuale filiera agricola, ma anche sulla traduzione degli output urbani, con specifico riferimento alla Frazione Organica del Rifiuto Solido Urbano (FORSU), in input decisivi per la messa a punto di nuovi sistemi produttivi funzionali a un metabolismo urbano nuovo e più efficiente. L’area della Centralità è stata quindi destinata a ospitare un eco-distretto, quale occasione di avvio di nuove economie green come la produzione di biomassa e di energia elettrica, teleriscaldamento, compost e biogas (recycle come servizio al territorio), la sperimentazione di nuovi materiali per l’edilizia (recycle come avvio di nuove economie), ma anche la creazione di un centro di ricerca integrato con la città e luogo di formazione aperto ai cittadini (recycle come informazione) (fig. 4). In particolare, la produzione di energia da FER è alimentata dal recapito della frazione umida dei rifiuti urbani, degli sfalci di manutenzione ordinaria degli elementi del paesaggio della bonifica (siepi e filari, 28 ha circa) e delle sponde fluviali (vegetazione arborea e arbustiva infestante, 361 ha circa), dalla biomassa già disponibile nelle numerose aree abbandonate (canneti senza ripa, 80 ha circa) e da quella proveniente dalle forestazioni energetiche di nuovo impianto. Nota: i risultati del workshop RDS sintetizzati nel presente contributo sono l’esito dell’impegno del dell’intero gruppo di lavoro, e del prezioso contributo scientifico di Lucina Caravaggi Vedi in particolare il Position Paper La rigenerazione della città diffusa del Gruppo di lavoro nazionale sulla città diffusa – INU, relativo al XXVIII Congresso Nazionale INU, Salerno 24/26 Ottobre 2013. 2 Vedi: L. Caravaggi, A. Lei, Mappe per paesaggi dello scarto agricolo. In: R. Pavia, R. Secchi, C. Gasparrini, a cura di, Il territorio degli scarti e dei rifiuti, Aracne, Roma 2014: 97-106. 3 Vedi: R. Inghersoll, "Urban Agricolture". In: Lotus 149/2012: 105-117; V. Merlo, La riscoperta di un’agricoltura urbana. In C. Barberis, a cura di, La rivincita delle campagne, Donzelli, Roma 2009: 179-187. 4 Vedi: A. Coppola, Apocalypse Town, Laterza, Roma 2012. 5 Vedi: “Progetto dimostrativo per la valorizzazione delle fasce frangivento nella Pianura Pontina” promosso da Arsial nell’ambito del Programma Nazionale Biocombustibili – PROBIO. 6 vedi: D. Toccaceli, "I nuovi rapporti tra città e campagna". In: Agriregionieuropa 20/2010, 25-29. 7 Vedi: MiPAAF, Documento propedeutico alla redazione del Piano Nazionale Biocarburanti e Biomasse, Morlacchi, Perugia 2011. 8 Vedi: A. Bruschi, Forestazione urbana e città diffusa, In questo volume.

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(5) L’eco-distretto. Concept e Masterplan per una “centralità vuota”

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FORESTAZIONE URBANA E CITTÀ DIFFUSA. UNA “CENTRALITÀ VUOTA” PER ACILIA MADONNETTA Andrea Bruschi

Secondo le indicazioni programmatiche del documento di adozione del Nuovo Piano Regolatore le diciotto Centralità urbane previste nella corona periferica di Roma nascevano con lo scopo di innestare funzioni pubbliche pregiate nella “Città della trasformazione” e impostare lo sviluppo policentrico della capitale. A dodici anni di distanza, molti dei presupposti che consentivano quella strategia sono tuttavia venuti a mancare, non sono stati adeguati o sono stati ridimensionati dalle conseguenze della crisi economica internazionale. È inoltre entrata in crisi la strategia di attuazione delle Centralità, che si basava sul meccanismo della realizzazione delle opere pubbliche mediante contributi straordinari derivanti dalle urbanizzazioni private. Un meccanismo virtualmente efficace ma dipendente dalle oscillazioni di un mercato in progressivo declino. Rispetto ai risultati attesi, altri sono stati gli sviluppi della politica urbana sulle periferie. La realizzazione delle Centralità ha risentito della congiuntura economica, della contrazione del credito bancario e della riduzione della domanda di nuova costruzione. Le vicende del mercato hanno influito pesantemente sulla qualità urbana dei progetti, influenzata dalle pressioni dei costruttori per confezionare gli accordi di programma a pro-

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(6) L’eco-distretto. Architetture del re-cycling

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prio vantaggio. Insieme a considerevoli interventi residenziali, le Centralità hanno riversato sulla cinta periurbana enormi centri commerciali ma, salvo sporadici casi, non hanno portato nelle periferie le attività culturali e direzionali promesse. La carenza principale delle Centralità, ben registrata dal giudizio negativo dei cittadini, è emersa nella incapacità di agire nel vivo dei tessuti degradati e all’interno dei quartieri spontanei mediante operazioni di recupero e riammagliamento. Le Centralità hanno sostanzialmente mancato il raccordo fra i quartieri preesistenti e i nuovi interventi, generando urbanizzazioni fuori scala o poco raccordate agli intorni, non in grado di strutturare gerarchie e continuità urbane. È anche il caso della Centralità Acilia Madonnetta, progettata dallo Studio Gregotti su una superficie di circa 133 ettari, il cui programma edilizio di 1.300.000 metri cubi avrebbe definitivamente saturato il comparto urbano compreso fra la via del Mare e la via Cristoforo Colombo, a ridosso della Pineta di Castelfusano. Un intervento giustamente osteggiato dai cittadini, i quali hanno visto nell’operazione non una prospettiva di miglioramento della qualità urbana ma una speculazione destinata a incrementare pesantemente i carichi urbanistici su un territorio poco attrezzato per ospitarli. Nel carattere fondativo del progetto di Gregotti sembra in effetti essere mancata una visione aperta e inclusiva delle compagini urbane e una strategia di trasformazione per i quartieri limitrofi, specie quelli spontanei, esposti a fattori interagenti di degrado. La stasi dell’edilizia, la flessione delle attività industriali e artigianali, l’abbandono delle attività agricole e la scarsa valorizzazione delle potenzialità turistiche sono i segnali più evidenti della necessità di individuare nuove opportunità per tali settori e in senso lato per il territorio della Coda della Cometa. La mappatura operata dall’Unità di ricerca Prin Recycle Italy di Roma, evidenzia gli elementi del paesaggio urbano che testimoniano questo stato di crisi, un mosaico di drosscapes da cui emergono ambiti residuali, usi impropri, abusivismi, attività agricole e industriali in declino. Compresa fra grandi aree naturali, ambiti in abbandono e residenza diffusa, la stessa Centralità Acilia Madonnetta è una superficie agricola poco o affatto produttiva, il baricentro di una costellazione di greenfields ma anche uno dei possibili luoghi del riscatto del territorio ostiense. Un rilancio dell’economia e del paesaggio il quale – in una prospettiva di sostenibilità e riduzione del consumo di suolo - deve passare attraverso la

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ricerca di meccanismi rigenerativi alternativi a quelli in profonda crisi finora utilizzati. La scommessa di un progetto urbano innovativo si articola quindi intorno all’ipotesi di una Centralità intesa non più come luogo della riproposizione di una edilizia in evidente flessione ma delle vocazioni più radicate nel territorio, prima fra tutte quella agricola, in funzione della quale il paesaggio è stato trasformato dalla bonifica ottocentesca dello Stagno di Ostia. Nello schema di rigenerazione urbana proposto dal gruppo di lavoro del workshop di progettazione Rome Drosscapes Recycling vi è il principio di operare su Acilia Madonnetta mediante una strategia che non imponga elementi estranei al contesto ma elegga l’esistente – le aree, le attività, le relazioni territoriali, le dinamiche sociali e le loro potenzialità - a strumento di progetto a scala vasta e a scala locale, tenendo conto dell’intero comparto territoriale. La Centralità è posta al centro di un processo sinergico di recycling e individuazione di nuovi cicli di vita dell’intero quadrante periurbano ostiense, mirando a convogliare in un progetto organico azioni interferenti orientate alla risoluzione di diverse problematiche territoriali. Incardinato sull’analisi delle aree riportata nella suddetta mappatura, lo studio del territorio fa emergere la presenza di elementi urbani di tipo economico, energetico e ecologico che possono essere interconnessi e inquadrati verso nuove prospettive, in uno schema evolutivo tendente a integrarne aspetti e fattori. Nel quadro di un settore urbano depredato da una speculazione edilizia non più in grado di essere assorbita dal mercato, le potenzialità economiche sono viste nelle attività agricole e in una serie di attività artigianali in crisi da riconvertire a nuovi scopi. Il territorio è inoltre inteso come risorsa da sfruttare per la produzione di energie alternative, attraverso la trasformazione degli sfalci e delle biomasse derivanti dalla agricoltura, dalla manutenzione di tracciati e canali e mediante il riciclaggio della frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU). Vi è infine la presenza dei grandi parchi naturali di Castelfusano e Castelporziano, i quali rappresentano una preziosa risorsa ecologica e un bacino faunistico e di biodiversità in pericolo, da potenziare e salvaguardare. Da tali osservazioni derivano tre indirizzi di lavoro legati a tre diversi concetti di riciclo, con differenti ricadute sull’area di intervento. Come accennato, una prima strategia operativa riguarda il reimpiego della FORSU e delle biomasse e è centrata sul principio della raccolta, selezione e rici-

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claggio dei rifiuti della città e della campagna urbana: scarti del consumo, della produzione e della manutenzione del paesaggio agricolo e infrastrutturale. Si tratta quindi di un concetto di riciclo come servizio al territorio (fig.4). La posizione baricentrica della Centralità rispetto ai tessuti circostanti incoraggia l’ipotesi dell’impianto di un ecodistretto dislocato su un corridoio produttivo del riciclaggio di rifiuti e biomasse con lo scopo di produrre biogas e compost, e fornire occupazione. Il corridoio produttivo recupera l’unico percorso storico che attraversa l’area e è la spina dorsale dell’intervento. Su di esso sono localizzate tutte le costruzioni previste nella riconfigurazione della Centralità Acilia Madonnetta: gli edifici dell’ecodistretto ripartiti in un’isola ecologica, una centrale a biomassa e un digestore anaerobico, le attività produttive di trasformazione del legno, le abitazioni e i servizi (fig.5). L’ecodistretto ha una dimensione media confacente al numero di abitanti del Municipio X. Il totale costruito è inferiore al 10% di quanto previsto nel progetto Gregotti. La seconda interpretazione dell’idea di riciclo ruota attorno all’avvio di nuove economie per il territorio ostiense e individua una filiera produttiva per l’agricoltura (fig.4). La chiave di lettura del progetto va individuata nelle potenzialità delle aree agricole in faticosa attività e dei molti greenfields rilevati dalla mappatura, luoghi dell’abbandono dell’agricoltura in attesa di impieghi più redditizi. La riduzione delle superfici agricole e il disagio dell’agricoltura di fronte all’avanzare della città, la difficoltà a recepire nuove prospettive di multifunzionalità e agricivismo, insieme a quella di introdurre nuove forme di agricoltura evoluta e specializzata, inducono a un ripensamento delle stesse fisionomie della compagine agricola territoriale ipotizzandone una revisione profonda, nel quadro di una sinergia con il comparto industriale-artigianale. La strumentazione assunta dal progetto di revisione della Centralità Acilia Madonnetta vede la forestazione come cardine del ribaltamento della fisionomia del paesaggio periurbano e come elemento primario per l’innesto di una diversa idea di agricoltura nell’intero comparto. L’ipotesi portante è l’impianto di una forestazione produttiva complessa (Short Rotation Forestry – SRF) destinata alla produzione di semilavorati in legno e nuovi materiali come isolanti termici e X-Lam (cfr. in questo volume A. Lei, Ipotesi di lavoro per i nuovi paesaggi del riciclo). La forestazione produttiva è quindi immaginata come la “fabbrica della materia prima” per il rilancio e la riconversione delle attività industriali e artigianali in crisi già presenti ad Acilia (fig.3).

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Queste forestazioni non hanno soltanto un ruolo economico ma divengono elementi di definizione della struttura spaziale dell’incerto paesaggio della città estensiva. Ancorate alle geometrie della bonifica, le grandi piantumazioni di essenze autoctone come il pioppo, il salice e l’ontano ne ricalcano i tracciati, seguono la maglia di fossi e canali, materializzano una reinterpretazione del paesaggio originario della bonifica. I greenfields incolti o in stato di semiabbandono diventano grandi volumetrie arboree che ribaltano l’immagine della campagna urbana da mosaico di vuoti a sistema di masse ombrose. Il “pieno” della massa boschiva sostituisce il “vuoto” del campo coltivato o incolto, lo difende e lo protegge da abusivismi e usi impropri, diviene redditizio, modifica l’immagine destrutturata dell’edilizia estensiva in un sistema di viste e canali prospettici definiti ma cangianti nel tempo a seconda della crescita e del taglio a rotazione delle essenze. L’ipotesi del progetto prevede l’impianto forestale all’interno della Centralità e auspica la successiva estensione delle forestazioni alle aree agricole circostanti, da coinvolgere progressivamente nel sistema produttivo in una sorta di meccanismo contagioso basato sul reddito prodotto dalla nuova filiera del legno. Una espansione “virale” della forestazione mirante alla costruzione di un paesaggio mutevole legato ai cicli stagionali e della produzione il quale, in seguito all’avvio dell’ecodistretto, si possa espandere alle aree di margine fino a diffondersi anche alle grandi tenute agricole, configurando un nuovo e diverso metabolismo urbano (fig.1). Ne deriva un restauro critico del paesaggio agricolo della bonifica andato perduto nel tempo, la rivalutazione e il recupero di tracciati e canali storici, un più agevole controllo della qualità ambientale, dei suoli e delle falde acquifere. Contribuisce alla sostenibilità ambientale e alla efficienza dell’operazione una forestazione ecologica compensativa degli impianti produttivi monospecifici. La forestazione ad alto valore naturalistico mira a introdurre un corridoio ambientale di sostegno alla biodiversità fra la Pineta di Castelfusano e la Tenuta di Castelporziano e a riprodurre un brano di paesaggio prebonifica a scopo culturale, ludico e didattico. Composta da essenze arboree e arbustive autoctone della fascia fitoclimatica della regione mediterranea, questa forestazione disetanea comprende al suo interno anche una zona umida palustre, immaginata sia come ambito ornitologico-faunistico che come sistema di laminazione dei canali circostanti, in un’area spesso soggetta a allagamenti e fenomeni alluvionali.

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L’acqua è protagonista anche del corridoio produttivo e del sistema di piazze che ne definisce i sottoinsiemi funzionali dell’energia, della residenza, della produzione e della cultura. Un sistema di vasche di raccolta delle acque meteoriche e di fitodepurazione ne materializza l’assialità e media il rapporto fra le diverse tipologie di edifici, i percorsi e gli spazi aperti a differente destinazione d’uso. Il masterplan della nuova Centralità utilizza l’esistente come strumento di progetto anche alla scala locale, ricalcando tracciati, percorsi e segni iconici pianificati e spontanei (fig.6). Nuovi paesaggi e nuove economie concorrono alla revisione di un territorio sospeso fra un’identità dimenticata e compromessa e un futuro incerto, e definiscono i criteri di un intervento leggero quanto profondamente radicato nei luoghi, delineando la fisionomia di una “Centralità vuota” per Acilia Madonnetta.

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PROGETTO TREE_GGER POINT Tutors: Lucina Caravaggi Andrea Bruschi Anna Lei Caterina Padoa Schioppa Dottorandi: Rosetta Angelini Andrea Corsi Fabrizio Del Pinto Leonardo Loy Daniela Kavaja Pasquale Loiudice La Centralità Acilia Madonnetta, una delle diciotto previste dal PRG di Roma, è stata progettata dallo Studio Gregotti su una superficie di 133 ettari, con un programma edilizio di 1.300.000 metri cubi ripartito fra residenze e servizi. La crisi economica internazionale, quella dell’edilizia e le proteste dei cittadini ne hanno sospeso la realizzazione. Se attuato, il progetto avrebbe definitivamente saturato il comparto urbano compreso fra la via del Mare e la Cristoforo Colombo, a ridosso della Pineta di Castelfusano. La Centralità è un’area agricola improduttiva al centro di una costellazione di greenfields e rappresenta uno dei possibili luoghi del riscatto economico e ambientale del territorio ostiense. Un rilancio da ricercarsi in una prospettiva di sostenibilità e riduzione

del consumo di suolo, mediante meccanismi rigenerativi, alternativi a quelli finora utilizzati. La generazione di economie mediante produzione di volumetrie edilizie è in crisi profonda e in questo territorio mostra i segni della conclusione di un lungo ciclo di vita. La scommessa di un progetto urbano innovativo si articola intorno all’ipotesi di una Centralità intesa non più come luogo della riproposizione di una edilizia in evidente flessione ma delle vocazioni più radicate nel territorio, prima fra tutte quella agricola. Nello schema di rigenerazione urbana proposto dal gruppo di lavoro del workshop vi è il principio di operare su Acilia Madonnetta mediante una strategia che non imponga elementi estranei al contesto ma elegga l’esistente – le aree, le attività, le relazioni territoriali, le

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dinamiche sociali e le loro potenzialità - a strumento di progetto a scala vasta e a scala locale, tenendo conto dell’intero comparto territoriale. In questa visione i drosscapes sono intesi non come elementi di degrado del territorio ma come risorse da cui far ripartire strategie di rilancio e rigenerazione del paesaggio. La Centralità è posta al centro di un processo sinergico di recycling e individuazione di nuovi cicli di vita dell’intero quadrante periurbano ostiense che mira a convogliare in un progetto organico azioni interferenti orientate alla risoluzione di diverse problematiche territoriali. Sono quindi individuate tre forme di recycling su scala vasta, le quali si traducono in altrettante azioni di progetto all’interno della Centralità. Il riciclaggio delle biomasse, degli scarti agricoli e della FORSU dei quartieri limitrofi si traduce nel principio del recycle come servizio al territorio, ovvero nell’impianto di un corridoio per la produzione di energia e compost attraverso la realizzazione di un ecocentro. Il progetto interpreta gli impianti di riciclaggio come nuove architetture delle quali esplorare le potenzialità qualitative. Il principio del recycle come avvio di nuove economie è trasferito nell’azione diffusa di una forestazione urbana produttiva estesa all’intera area agricola dismessa e in una nuova filiera economica per l’agricoltura in crisi.

Il corridoio produttivo si arricchisce di impianti per il trattamento del legno da Short Rotation Forestry e la sua trasformazione in nuovi materiali come l’X-lam. Nuove economie producono nuovi paesaggi. L’assetto tridimensionale della città spontanea corrisponde a quello delle masse arboree: grandi “pieni” in sostituzione dei “vuoti” informi e senza limiti degli spazi dell’abbandono. I boschi produttivi trasformano il paesaggio urbano, presidiano il territorio dall’abusivismo, ne migliorano la qualità percettiva e ambientale. Una forestazione naturalistica compensativa completa la strategia di intervento introducendo il concept del recycle come potenziamento ecologico. Un corridoio di rinaturalizzazione, che comprende anche una grande zona umida, ricostituisce l’habitat palustre originario e configura un anello ambientale con la Pineta di Castelfusano e la Tenuta del Presidente. La forestazione ecologica contribuisce alla limitazione delle pratiche agricole inquinanti e all’incremento della biodiversità. Il masterplan del progetto mostra come un intervento leggero e fortemente radicato nei luoghi possa ribaltare il principio dell’edilizia come strumento di rigenerazione urbana e delineare la fisionomia di una nuova “Centralità vuota” per Acilia Madonnetta.

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LA FOCE DEL TEVERE. UNA FRONTIERA ATTRAVERSABILE TRA LA CITTÀ E IL MARE

Alessandra Capanna

Le anime salve si raccolgono lì ...dove l'acqua di Tevero s'insala... benignamente fu’ da lui ricolto A quella foce ha elli or dritta l’ala, però che sempre quivi si ricoglie qual verso Acheronte non si cala Dante Alighieri - Purgatorio canto II, versi 100-105 Sull'onda della metafora dantesca, superati gli ultimi lotti edificati dell’Isola Sacra, in direzione del faro, ecco spalancarsi davanti a noi le porte dell'inferno: i cantieri del nuovo porto turistico della Concordia, che occuperanno quest'angolo di poetica decadenza al cospetto del vecchio faro, e un apatico scenario da " brutti, sporchi e cattivi", come Ettore Scola seppe impietosamente descrivere nel famoso film del 1976, nella lunga lingua della riva destra del fiume, edificata senza controllo. L'inferno è oggi nelle strade dissestate, nelle case abusive, nelle frequenti esondazioni, nella mancanza di soluzioni serie per questo tratto finale del fiume. Il purgatorio è a Fiumara grande, il ramo maggiore dell’estuario del

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L'area della foce del Tevere selezionata per il workshop e l'idea del nuovo margine costruito tra le due zone umide

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Tevere che così si distingue dall’altro ramo, quello aperto nel primo secolo d.C., nel periodo imperiale di Roma, quando il Fiume Micino (cioè Piccolo: soprannominato così con l’ironia tipica dei romani) sdoppiava la portata dell’acqua del Tevere al mare e dava il suo nome alla località marina confinante con il porto di Ostia; Fiumicino, infatti vuol dire fiume piccolo. Il riscatto purificatore sta nella capacità di questi luoghi dell’Isola Sacra di essere aperti alla trasformazione. Essendo classificata zona a “rischio R4”, ossia pericolo di morte per le persone in caso di esondazione del fiume, questa lunga striscia di terra di 2 x 0,5 km, è oggetto di numerosi studi che si preoccupano della soluzione del problema, nel quadro delle Norme tecniche di attuazione del Piano di assetto idrogeologico. redatto dall’Autorità di Bacino del fiume Tevere. È del 2012 un’ipotesi di realizzazione di un argine a protezione di questo ultimo tratto della foce in corrispondenza della località denominata “Piscina del Principe”. L’opera, che nella relazione presentata per la V.I.A. viene definita come intervento di protezione civile, introduce l’idea di una generica riqualificazione della zona abitata detta Passo della Sentinella, dichiarata “insediamento abusivo”, con la conseguente realizzazione di nuovi interventi di edilizia economica e popolare, destinati “ad accogliere gli attuali abitanti di Passo della Sentinella”1. Pur nel documento citato non essendo esplicitamente dichiarata l’intenzione di demolire le case abusive, se ne ipotizza una sostituzione senza escludere la loro delocalizzazione. La nostra lettura, sebbene tendenziosa, peraltro supportata dalle ultime battute delle conclusioni della relazione illustrativa del progetto di nuovo argine, ha portato ad immaginare che una fabbrica verde possa formare l’argine-diga tra due sistemi naturalistici, una volta liberati dal degrado rappresentato dalle residenze del Passo della Sentinella. L’argine quindi resterebbe l’unico manufatto, a forte estensione lineare, al quale tendono, come ad un asintoto, i due sistemi naturalistici caratterizzati dall’acqua, che diventa l'elemento generativo di un parco urbano tecnologico che nasce dalla ri-naturalizzazione della foce di Fiumara grande. Come nel Parco urbano di Kiev, progettato da Maxwan Architects nel 20112, una serie di parchi nel parco è in grado di generare un assetto al contempo unitario e frammentato capace di far dialogare natura, fiume, intorno urbano ed elementi tecnologici. Il parco di Kiev rappresenta uno dei riferimenti figurativi del tema appro-

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MAXWAN ARCHITECTS + URBANISTS X 23 parchi - Kiev 2011

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fondito per questa area di foce, come una sperimentazione-pilota, rappresentativo per molti siti soggetti da una parte alla naturale variazione del livello delle acque, ma anche all’emergenza causata da questa stessa caratteristica geografica, in presenza di un ambiente antropizzato. Il nuovo waterfront progettato dal gruppo olandese di Rotterdam3, raccorda una sequenza di parchi ed è attraversato da passerelle filamentose che sono un riferimento figutrativo per il progetto sull’area della foce del Tevere, ma in generale suggeriscono un efficacie elemento architettonico, quasi un prototipo dalle molteplici varianti site specific, che ponendosi al disopra della quota di massima piena, in ciascuno dei possibili casi-studio accomunabili dal punto di vista delle caratteristiche geo-fisiche, agisce come sistema di accessibilità permanente e garantisce la fruizione del luogo anche nelle situazioni estreme. Linee guida del progetto Il progetto, quindi, tenderà ad attenersi alle regole del piano e a profilare una fabbrica verde, cioè una macchina complessa che dovrà essere “impianto” di riciclo e allo stesso tempo “parco”. Un sistema sperimentale, che si propone come intervento di prevenzione di disastri naturali ove progettare l’emergenza, eventualmente prevenirla, si confronta con lo smaltimento dei materiali e la ricostruzione. Esso dovrà riqualificare l’intera area della foce del fiume, quindi porsi una serie di questioni relative al fronte sull’acqua, che vanno dalla questione figurativa al carattere sperimentale di un sito ri-configurato dal punto di vista naturalistico, sede di un laboratorio di ricerca ove studiare tecniche innovative di riciclo dei materiali per l’edilizia, di un osservatorio per il paesaggio e di rigenerazione per l’ambiente. Farsi dunque frontiera tra la città e il mare.

Vedi: Determinazione della Regione Lazio n. A03686 del 14/05/2013: “Pronuncia di verifica sull'applicabilità della procedura di V.I.A. resa ai sensi dell'art. 20, parte II del D.Lgs.152/06 così come modificato dal D.Lgs 4/08 per l'intervento riguardante la realizzazione di un'arginatura a protezione dell'abitato di Isola Sacra, nel Comune di Fiumicino, in località Piscina del Principe, provincia di Roma.” 2 Vedi http://maxwan.nl/selected-projects/23-parks/#/t_2796. 3 In PAISEA N. 23/2013. 1

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Foto Archivio Centro Progetti Dipartimento DiAP

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Jakov Georgievic Cernichov, Giant Plant of Special Purposwe 1931

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VERSO UN’ESTETICA DEL TRANSFORMER Lina Malfona

Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città. Antonio Sant’Elia Every generation needs to reinvent its public institutions and create new one. Richard Rogers

Il graduale distacco dalla concezione dello spazio architettonico inteso come luogo fisico – processo avvenuto in seguito alla rivoluzione digitale – ha condotto alla negazione della concezione tradizionale dello spazio stesso, sempre più proiettato verso una dimensione virtuale. A tale perdita di fisicità dello spazio – causata dallo sviluppo delle tecnologie emergenti, tra cui l’informatica, le telecomunicazioni e le bioingegnerie – si è aggiunta nel tempo anche la perdita della sua unicità, come effetto della globalizzazione, la quale appare come una sorta di rivoluzione, attraverso cui si tenta di superare i confini di un’appartenenza culturale per abbracciare un mondo intero di possibilità, risorse e occasioni. Se un tempo le opere d’arte erano parte integrante del luogo per cui erano state eseguite, poiché la sua unicità esaltava il loro significato, oggi la trasmissibilità dell’immagine ha permesso di svincolare l’opera dal suo contesto originario. Analogamente, se un tempo l’edificio era strettamente legato al luogo su cui sorgeva, e che in qualche misura interpretava, oggi esso tende ad essere meno site specific – certo, con le dovute eccezioni – assumendo una dimensione in qualche misura globale. Tali mutate condizioni del progetto – divenuto un processo che sempre più spesso conduce alla creazione di dispositivi atopici – hanno determinato la rivalutazione di una concezione dell’edificio inteso come congegno temporaneo e flessibile, cioè ampliabile, smontabile, ricomponibile e ricollocabile, dunque mobile.

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La storia di questo tipo di architettura può essere delineata con continuità a partire dalle Avanguardie, nonostante anche prima del Novecento possano essere rintracciate esperienze progettuali legate all’architettura effimera e temporanea: dalle giostre montate nelle piazze di Roma – si pensi a certe incisioni di Piazza Navona in festa (Antonio Tempesta, Festa della Resurrezione in Piazza Navona, 1589; Filippo Gagliardi, Andrea Sacchi, Giostra del Saracino, 1634; Dominique Barrière, Festa della Resurrezione in Piazza Navona, 1650) – agli apparati effimeri, come i catafalchi manieristi e barocchi per le esequie di personaggi pubblici; dagli allestimenti di rappresentanza di fine Ottocento alle macchine pirotecniche, come quelle di Gioacchino Ersoch “da incendiarsi” a Castel Sant’Angelo e al Pincio1. Uno dei documenti che ha contribuito maggiormente a una concezione dell’architettura come dispositivo mobile e transitorio è stato il Manifesto dell’Architettura Futurista (L’architettura futurista. Manifesto, 1914), dove Antonio Sant’Elia scriveva: "Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista, simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca."2 Tale documento e i disegni per la Città Nuova sono stati fonte di ispirazione per molti dei progetti utopistici concepiti nel corso del Novecento, imperniati sul concetto di mobilità urbana: dai progetti avveniristici di Georgii Krutikov (tra cui The Flying City del 1928) a quelli di Wenzel Hablick (si pensi alle serie di acqueforti The Sea del 1918 e Architectural Cycle Utopia del 1925), dai lavori di Yona Friedman (in particolare, i disegni per la Ville Spatiale, concepiti dal 1958 al 2006) e Constant (New Babylon, 1956) a quelli del movimento metabolista (Ocean City di Kikutake e Space City di Kurokawa, pubblicati in Metabolism: The Proposals for New Urbanism nel 1960). Appare utile citare in queste brevi note anche il contributo fornito dall’artista futurista Volt (Vincenzo Fani Ciotti) alla riflessione su questi temi. Nel suo Decalogo dell’architettura futurista (1917), Volt prefigurava un’architettura dinamica, "indipendente mobile smontabile meccanica e esilarante" e, nel successivo manifesto del 1919, scriveva: "Gli uomini del futuro disdegneranno di abitare in case radicate al suolo. Le loro abitazioni, munite di formidabili motori, correranno, navigheranno, voleranno […] Il nomadismo meccanico diventerà la regola del vivere sociale. […] Le nuove case saranno libere di spostarsi in tutte le direzioni, scorrendo sulle gigantesche rotaie che solcheranno il suolo delle città future. […] Le

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ville signorili saliranno e scenderanno lungo le pendici delle montagne. […] Le case di salute gireranno su perni intorno a se stesse […] Le camere potranno all’uopo essere staccate dall’abitazione, per essere caricate su appositi convogli ferroviari, o agganciati alla navicella di un dirigibile."3 È evidente che tali affermazioni vanno oltre il concetto di mutabilità urbana, introdotto da Sant’Elia nel suo Manifesto, arrivando a descrivere, come se fosse già realizzata, un’architettura e una città mobile. L’architettura mobile si sviluppa a partire dalla tradizione – legata al Movimento Moderno – della machine à habiter, rilanciata nel periodo bellico con la costruzione di rifugi temporanei4 e negli anni sessanta con le sperimentazioni sugli abitacoli e le stazioni spaziali per l’allunaggio5. Si pensi, in particolare, alle architetture delle basi NASA progettate da Jan Kaplicky, insieme al suo team londinese Future Systems, sospese tra visione fantascientifica e perfezione dell’ingranaggio meccanico, o al più recente progetto per Halley VI (2005), una stazione di ricerca scientifica in Antartide, realizzata da Hugh Broughton sul modello della Walking City di Archigram (vedi M. Vercelloni, Hugh Broughton. Halley VI, in “Casabella”, n. 836, aprile 2014, pp. 62-65). Probabilmente tali creazioni non avrebbero mai visto la luce se non fossero state precedute da quelle di un inventore geniale come Richard Buckminster Fuller, autore dei progetti per la 4D Tower (1928) e la Dymaxion House (1929). A partire dalle sperimentazioni sulla prefabbricazione, Buckminster Fuller formulò nel 1928 4D Timelock, il suo manifesto (per certi versi affine a Vers une architecture, tradotto in inglese nel 1927), che sostanzialmente propugnava la necessità di un’architettura prodotta in serie, cercando di realizzare concretamente la corbusiana machine à habiter. Ma rispetto a Le Corbusier, Fuller introdusse nella formulazione del progetto quella quarta dimensione – di ascendenza futurista – per cui l’edificio veniva inteso come un’entità temporale. Si pensi ai suoi disegni per la 4D Tower – composta da moduli abitativi esagonali (modello Dymaxion) sovrapposti, sorretti da un unico pilone centrale – che veniva trasportata sul posto da uno Zeppelin e a cui si arrivava attraverso piccoli velivoli. Di certo, in questo processo, non può essere trascurata la declinazione hitech dell’architettura mobile, che ha avuto in Richard Rogers il maggiore teorico. Nel 1997, Rogers scriveva nel suo libro-manifesto: "Modern life is changing much faster than the buildings that house it. A building that is a financial market today may need to become an office in

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five years and a university in ten. So buildings that are easy to modify will have a longer useful life and represent a more efficient use of resources. But designing flexibility of use into our buildings inevitably moves architecture away from fixed and perfect form." La flessibilità a cui fa riferimento Rogers ma principalmente la doppia natura di veicolo e di abitazione allontana tali architetture da un modello di bellezza tradizionale. Infatti, il mito della casa mobile – «mattone del XX secolo», secondo una celebre definizione di Paul Rudolph – ha determinato, soprattutto negli Stati Uniti, la formazione di quartieri residenziali simili a parcheggi, i mobile home parks che dall’alto appaiono affini a quei parking lots fotografati da Ed Ruscha (su tale argomento, vedi: G. Brino, Il mito della mobile home, in Casabella, n. 403, 1975; C. Gambardella, La casa mobile: nomadismo e residenza dall’architettura al disegno industriale, Electa, Napoli 1995). Tra le indagini più recenti – e sicuramente più pragmatiche – si pensi agli studi sull’emergency housing, sull’allestimento di micro-spazi pubblici e sulla configurazione di unità temporanee e botteghe ambulanti. I progetti di Shigeru Ban, ma anche dei più giovani Aberrant Architecture e Atelier Bow-Wow, ad esempio, lavorano sulla concettualizzazione di un tipo di spazio non istituzionale, profondamente relazionale e di uso temporaneo. Per l’effettivo coinvolgimento del pubblico nella sperimentazione progettuale, occorre citare anche quelle ricerche sul tema della mobile architecture al confine tra arte, architettura e spazio pubblico. Si pensi ai progetti di Didier Faustino, Spillmann Echsle e LO-TEK, che cercano di liberare l’architettura da quella componente ipertecnologica, industriale o meccanica per proiettarla verso il mondo della sperimentazione artistica. Questi ultimi studi, in particolare, hanno elaborato anche ardite sperimentazioni sull’architettura dei containers, riciclati per diventare abitazioni e componenti dello spazio urbano o per comporre strutture modulari complesse e impilabili, che trovano i riferimenti più prossimi nelle capsule abitabili della tradizione giapponese, nelle cellule che compongono le utopistiche città-infrastruttura di Archigram e Yona Friedman e nello stesso concept dello scaffale porta-bottiglie, attraverso cui Le Corbusier modellò l’unité d’habitation, imponente edificio-archivio. Infine, tra queste brevi note che anticipano il progetto, si inserisce anche il nuovo paradigma del transformer, emerso in riferimento a quelle esperienze artistiche e architettoniche che travalicano le ragioni dell’architettura

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mobile per produrre opere che possono programmaticamente mutare la propria configurazione spaziale. Si può dire che tale tendenza sia giunta a una più complessa formulazione con l’ultimo padiglione della casa di moda Prada, realizzato a Seoul da OMA (2008), che può cambiare sembianza per assecondare diverse esigenze espositive o funzionali. Ma a parte la stravagante mutazione della configurazione esterna dell’edificio, le tematiche del transformer furono già anticipate da Cedric Price col suo Fun Palace (1961), da ARCHIGRAM con la Walking City, progettata da Ron Herron (1964), e da Renzo Piano e Richard Rogers con il Centre Pompidou (1971-77). Il primo progetto pone su carta le teorizzazioni su un tipo di progettazione flessibile e adattabile che prevede la partecipazione degli utenti, una progettazione che riprende, ancora una volta, le tematiche futuriste sulla quarta dimensione. Col secondo progetto, l’utopia della città-macchina diventa prefigurazione di un edificio-città che può realmente muoversi, studiato fin nei particolari dei suoi ingranaggi meccanici. Infine, il terzo progetto ricalca il pionieristico Fun Palace, a cui gli stessi Archigram si erano ispirati con l’Entertainments Palace a Leicester Square (The Sin Centre, 1961-63). Anche il Beaubourg sembra illustrare perfettamente quella «casa futurista» che Antonio Sant’Elia aveva descritto nel suo Manifesto come «una gigantesca macchina», tuttavia l’edificio non è stato concepito come un monumento ma come uno spazio di relazione, cioè come un «mutevole villaggio medievale piuttosto che come un tempio neo-classico» (R. Rogers, Cities for a small planet, London, Faber & Faber, 1997, p. 76).

*A. Sant’Elia, L’architettura futurista. Manifesto, in “Lacerba”, Firenze, II, 15, 1° agosto 1914 ** R. Rogers, Cities for a small planet, London, Faber & Faber, 1997, p. 79 1

Gioacchino Ersoch. Architetto Comunale, a cura di A. Cremona, C. Crescentini e C. Parisi

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Presicce Roma, Palombi, 2014. 2 A. Sant’Elia, L’architettura futurista. Manifesto, in “Lacerba”, Firenze, II, 15, 1° agosto 1914. 3 Volt, La casa futurista. Indipendente – Mobile – Smontabile – Meccanica – Esilarante. Manifesto di Volt, in “Roma Futurista”, III, n.81-82, 25.4-2.5.1920, p.4. 4 J.-L. Cohen, Architecture in Uniform, Montréal, CCA Editions, 2011. vedi D. Nixon, International Space Station. Architecture beyond Earth, London, Circa, 2015; S. 5 S. Catucci, Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet, 2014. 6 Vedi: M. Vercelloni, Hugh Broughton. Halley VI, in “Casabella”, n. 836, aprile 2014, pp. 62-65. 7 Vedi: J.-L. Cohen, The Future of Architecture. Since 1889, New York, Phaidon, 2012, ch. 33, The neo-Futurist optimism of high tech, pp. 438-447. 8 R. Rogers, Cities for a small planet, London, Faber & Faber, 1997, p. 74. 9 Vedi: G. Brino, Il mito della mobile home, in Casabella, n. 403, 1975; C. Gambardella, La casa mobile: nomadismo e residenza dall’architettura al disegno industriale, Electa, Napoli 1995. 10 R. Rogers, Cities for a small planet, London, Faber & Faber, 1997, p. 76. 11 Secondo Manfredo Tafuri, infatti, i progetti di Archigram accoglievano «la fantascienza, il fumetto, il caos, la tecnologia, l’eterodirezione, come miti da portare all’eccesso, non da rivoluzionare»; vedi M. Tafuri, Teorie e storia dell’Architettura, Bari, Laterza, 1968, pp. 117-118, nota 31.

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PROGETTO THE WALKING FACTORY - RI(m)ARGINA Tutors: Alessandra Capanna Lina Malfona Dottorandi: Nicola Di Biase Armando Iacovantuono Pietro Zampetti

L’area di intervento, selezionata per uno dei temi relativi agli impianti di riciclo dei materiali edili, si trova lungo la riva destra di uno dei due rami di foce del fiume Tevere, in una zona considerata a «rischio R4» per la frequenza delle esondazioni. A questo livello di rischio idrogeologico è associato il pericolo di morte per le persone, quindi è buona norma non realizzare alcun tipo di costruzione, tantomeno di tipo residenziale. Nel corso degli anni, invece, entrambe le rive, in prossimità della confluenza nel mare, sono state occupate abusivamente da un fitto sistema edificato, soggetto ad alluvioni per l’innalzarsi del livello dell’acqua causato dai fenomeni temporaleschi che ingrossano il Tevere fin dai suoi tratti più interni alla città. Gli allagamenti sono particolarmente frequenti in quest’area, che a Nord confina con una va-

sta zona umida, denominata, per le sue caratteristiche fisiche, “Piscina del Principe”. L’area di progetto, ad estensione lineare, lunga circa 2 km, fa parte del territorio del Comune di Fiumicino. Qui le norme del PRG prevedono: interventi di recupero ambientale, rimozione degli edifici esistenti e loro riassetto anche in aree limitrofe già individuate dal Piano, classificate come sottozone C3b, di edificazione a bassa densità con aree verdi di pertinenza. Il progetto concepito secondo un masterprogram, più che un masterplan, prefigura un intervento di demolizione dell’esistente e di ricostruzione di un sistema paesaggistico articolato - di cui fa parte anche un impianto di riciclo dei materiali - da attuare in tre fasi, secondo un’operazione di on-site recycle. È previsto l’abbattimento in tempi successivi del sistema insediativo

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e il reimpiego dei resti della demolizione per la costruzione di un argine artificiale, dinamico e poroso, al di sopra del quale, sospeso su piloni, è collocato l’impianto del riciclo/fabbrica/luogo di vendita di materiali C&D e relativo laboratorio di ricerca. Nel corso dell’analisi è stata individuata e dimensionata in un’area posta circa 3 km a monte dello stesso ramo del fiume una zona C3b ove ricollocare le 140 case da demolire e i 600 abitanti; dalla demolizione, che interessa una superficie di 20000 mq, si prevede di reimpiegare circa 8000 mc di materiale per la costruzione dell’argine, concepito come un rilievo continuo lungo il confine nord dell’area, nella quale si formerà un parco fluviale, con passerelle pedonali poste ad una quota superiore al livello massimo dell’acqua in caso di esondazione. L’impianto di riciclo di 8640 mq complessivi sarà costruito al disopra del nuovo argine: la modellazione del suolo rappresenta quindi uno dei punti cardine del progetto che è pensato come linea di frontiera tra la città e il mare, attraversabile, al di sotto dell’impianto per la presenza di alcuni canali apribili nelle fasi di piena, che mettono in continuità il parco fluviale da realizzare in luogo delle residenze delocalizzate e la wetland della Piscina del Principe. La fabbrica, posata su piloni, composta da tre padiglioni accostati,

smontabile, alla fine dell’operazione potrà essere ricollocata in altre aree da sottoporre a interventi di riciclo on site. L’edificio, da realizzarsi per lo più con di sistemi di prefabbricazione che rendano agevole lo smontaggio e la ricollocazione del moduli secondo diverse configurazioni spaziali, in base alla morfologia dei siti, si pensa possa essere utilizzato anche come dispositivo per la produzione di energia. Le fasi di lavorazione nell’impianto saranno suddivise all’interno e all’esterno dei padiglioni, in sequenza: dallo stoccaggio dei materiali, al trattamento e alla postproduzione, all’esposizione e alla vendita, alla sperimentazione e alla ricerca su materiali innovativi e/o sull’ambiente. Il complesso progettato si pensa possa attrarre flussi di visitatori grazie alle presenze naturalistiche, che costituiranno, insieme al polo per la sperimentazione e ricerca di nuove strategie per il riciclo, un patrimonio paesaggistico integrato.

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A "PASSO DOPPIO". IL RECYCLE TRA NUOVE POLITICHE E ANTICHE FORME

Paola Veronica Dell'Aira

Implosioni virtuose Il termine Recycle, e l’insieme delle attività da esso definite, possono apparire come fatti nuovi se li si relaziona principalmente con l’attuale cultura del “risparmio” (suolo, risorse, energia) e con la crescente coscienza ecologica che interessa il pianeta, oggi gravemente attraversato da fenomeni di macro-crisi: ambientale, economica, sociale, climatica. Tuttavia così non è. Il processo di riuso è infatti antico come l’architettura stessa: secolare crescita su sé stessa, ciclico riutilizzo di strutture, continuo innesto di spazi l’uno sull’altro, ininterrotta circuitazione di materiali, tecniche, componenti. È un processo, dunque, connaturato all’evoluzione stessa dell’habitat umano. Ma non solo. Già da diversi decenni, esso si fa interprete delle contemporanee premure post-moderne. Accompagna l’affrancamento del progetto dalla quella dimensione deterministico-prescrittiva che ne ha caratterizzato, in vario modo, le principali espressioni di inizio secolo scorso. Sottolinea e sostanzia la crescita d'importanza della dimensione relazionale dell’agire progettuale. Dà misura dell’affermarsi della questione contestuale come ineludibile termine di confronto: un contesto

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da intendersi nella sua accezione più ampia, dall’intorno fisico-geografico a quello socio-economico, a quello culturale. Dalla crisi del pensiero moderno, è nata infatti, ed è in pieno corso di sviluppo e rafforzamento, una visione del mondo più rispettosa e attenta, insieme a un modo di intendere ogni operazione effettuata al suo interno come necessitante di massima inclusività. La filosofia esistenzialista, a partire dal secondo dopoguerra, ha fatto da battipista alle pratiche filantropiche. La cultura storica ha mitigato gli eccessi progressisti. L’antropologia e la sociologia hanno riportato al centro l’”abitante del mondo”. Lo sviluppo delle scienze della vita ha stimolato il diffondersi di sensibilità nuove nei confronti della natura e l’approfondimento della dimensione organica dell’operazione trasformativa, come processo eminentemente ispirato alla biologia dell’essere vivente. Tutto ciò ha comportato benefici riflessi sulla progettazione architettonica e urbana, ove domina, già da tempo, un lavoro più “dedicato”, orientato all’ascolto, disponibile alla partecipazione delle intenzioni, affrancato dagli impeti positivisti, critico e condannevole rispetto alle autorialità e alle smanie autografe dell’architetto, ingegnere, urbanista ...”moderno”. Per citare solo alcuni dei più significativi momenti di tale visione “antiautoritativa” del progetto (visione “debole”, nonché scettica verso le ideologiche “fughe in avanti”), basti pensare a tutto il lavoro di riflessione maturato in seno ai CIAM post-bellici, dalle teorie dell’ascolto all’approccio fenomenologico sostenuto da autori come gli Smithson, Van Eyck, De Carlo; si pensi al design “with man in mind” sviluppatosi con il Social Design degli USA anni settanta e ottanta, le cui premesse sono in Ch.Alexander, Ch.Norberg Schulz, Kevin Lynch, nella lettura esperenziale di temi, luoghi e contesti; si pensi al “continuismo” tipo-morfologico e alla costruzione “analogica” dell’architettura (cosa su cosa e cosa da cosa) promosso dagli autori della cosiddetta “tendenza” italiana, da Saverio Muratori, a Giorgio Grassi, ad Aldo Rossi; si pensi ancora alla concezione evenemenziale dello spazio nutrita e sostenuta dalle menti di grandi paesaggisti come Laurence Halprin o Roberto Burle Marx. Ora, se la storicità del tema del riciclo, se il suo radicamento alle pratiche più antiche e se la sua importanza ribadita da autorevoli voci della storia architettonica più recente, rassicurano sulla sua sostenibilità, quale fenomeno di lunga durata, rodato, consolidato e quindi largamente condivisibile, d'altro canto l’innovazione tecnologica richiesta, per il

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soddisfacimento degli odierni obiettivi ecologici, rende oggi necessario, per il riciclo, l’affinamento teorico e metodologico, l’apertura sperimentale e la libertà degli obiettivi. C'è infatti una grande voglia di aggiornare, di questa visione del mondo, sia le metodologie di approccio e sviluppo che lo specifico strumentario tecnico. Il mondo ritorna sul mondo. La crescita, in parte, si sospende: quella quantitativa, si intende, la quale lascia il primo piano alla cura qualitativa dell’ambiente, alla valorizzazione di spazi e cose, alla amministrazione saggia del territorio e delle sue risorse. Si potrebbe temere che l’immaginario progettuale ne possa risultare inibito o mutilato . Tutt’altro. Il Recycle alimenta piuttosto e corrobora l’invenzione. L’interesse, che non punta più tanto sulla novità e sull’inaspettatezza dell’ipotesi trasformativa, lo fa per rivolgersi al tema della metamorfosi continua, ben più prolifico e foriero di spunti, universo dal quale è possibile trarre ben più impegnativi moventi di sfida. L’immissione del nuovo si intreccia con la rivalutazione del vecchio. La salvaguardia argina il consumo, il timore della “perdita” alimenta uno spirito antalgico e protettivo nei confronti dell’intorno fisico, mentre fa avvertire l’importanza della sua sopravvivenza anche dal punto di vista storico-testimoniale. Come sottolinea Alberto Ferlenga: "(...) l’“esaurimento” che veramente ci dovrebbe preoccupare riguarda oggi non solo le cose materiali, che spesso il mercato o la genialità degli artisti si incaricano di riportare in vita, quanto l’immateriale -storie, vicende, memorie- che ha sempre costituito una delle maggiori componenti dell’architettura. Se affermare la necessità del riutilizzare materiali o spazi è cosa scontata e se i modi per farlo sono oggi ben noti a tutti, ben diverso è riprendere, in forme nuove, quell’attitudine a far “parlare” città o paesaggi tramite la messa in evidenza delle loro caratteristiche nascoste e del loro passato (...)"1. Contro-ideologie Per evitare l’“abuso terminologico” e il difetto retorico2, per marciare “a passo doppio” tra contemporaneità delle questioni e loro saldo radicamento alla tradizione, c'è dunque bisogno di osservare la questione del Recycle al di là di una sua presunta bontà deontologica tutta legata ai “tempi che corrono”. C'è bisogno di onestà progettuale, di osservare il buon senso del “come

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Sezioni di progetto

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è sempre stato”, urge quel disincanto utile a fugare una sua eventuale assunzione neo-ideologica. È necessario, in sostanza, indagarne i possibili effetti conformativi in un'ottica estranea al vanto, curiosa invece di conoscerne le potenzialità utili a un maggiore scopo: quello di sancire una rinnovata organicità del progetto, una naturalità che, lontana da priorità figurative, misuri, del proposito trasformativo, la capacità di muoversi, crescere, fluttuare secondo un ritmo ciclico di andate e ritorni. Numerosi si rivelano allora gli aspetti positivi. La ricerca e l’applicazione in materia richiedono certamente un supplemento di impegno e di sforzo economico, sia pubblico che privato, da parte di tutti i soggetti interessati, dagli organismi di studio e sperimentazione agli Enti di amministrazione territoriale, alle imprese realizzatrici. Sarà necessario del tempo prima di un'adeguata e capillare diffusione delle nuove dinamiche produttive. I risultati di convenienza dei processi si faranno attendere. Tuttavia alcuni dei maggiori vantaggi risultano già evidenti e misurabili. Tra gli indotti sono già constatabili: - il prezioso sviluppo di nuove categorie interventuali legate alla nozione di “eco-riuso”; - la promozione di politiche orientate: innovazioni normative e procedurali e provvedimenti incentivanti; - l’introduzione di importanti vincoli di difesa e di clausole dissuasive rispetto a un uso consumistico del patrimonio. Eco-riusi Tra le categorie interventuali, legate al Recycle, si afferma oggi quella dell’“eco-riuso”. Essa si fonda su un'idea di valorizzazione centrata sulle qualità già intrinseche al contesto dato e sulle caratteristiche già proprie all’oggetto da recuperare. L’eco-riuso parte da quanto si trova già in loco, muove dai valori già presenti, senza preoccuparsi di insediarvene di nuovi e aggiuntivi. L’eco-riuso non impone aumento di volume. Non prevede necessariamente crescita, montaggio, installazione. Le cose sono già lì. Il progetto non deve che valorizzarne la presenza. Valga ad esempio l’ipotesi della trasformazione di una ex-cava in attività culturale-espositiva. Si parlerà, in questo caso, di “ecomuseo”: il contenuto “in mostra” non proverrà dall’esterno,

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ma sarà quello custodito nella natura stessa dei suoi spazi. L’eco-museo del sito ex-caveale si occuperà prioritariamente della conservazione dell’ambiente nei suoi tratti fondativi, naturali e antropici. Sarà il museo della scoperta e della rivelazione. Educherà alla conoscenza dei terreni, ne illustrerà la natura e i palinsesti. L’eco-museo assumerà anche il ruolo di museo del tempo, in quanto permetterà di entrare in contatto con una parte della vita del passato e di cogliere il rapporto intercorrente tra abitanti, contesti, problematiche, potenzialità, risorse, materie prime. La categoria interventuale dell’eco-riuso, quindi, come l’esempio dell’ecomuseo ci testimonia, più che controllare e limitare la mutazione, ne sollecita il corso, abbracciando, della trasformabilità, una visione più integrata. Di luoghi e cose, emerge l’interno principio formativo, se ne scopre la chiave evolutiva. L’eco-riuso riscatta il progetto dall’”intuizione pura”, lo salva dalla gratuità delle scelte, lo tiene distante dalle intenzioni più rappresentative, lo libera dall’astrazione, lo temporalizza, lo rende vitale. Se il carattere dei segni impressi sul territorio dal suo uso passato ci fornisce infatti le spiegazioni utili a intendere il rapporto storicamente intrattenuto tra abitanti e contesti, la loro conservazione e illustrazione al presente, ci aiuta prospettarne la trasformazione futura. Nella nozione di “eco-riuso” è quindi contenuta la condanna nei confronti delle forme più autoritarie e bloccate del progetto architettonico e urbano. Del progetto, l’eco-riuso sottolinea le valenze processuali. Ne rifugge le connotazioni stigmatiche. La politica del GPP Uno degli aspetti più interessanti, oltre che impegnativi, delle attuali strategie mondiali a favore del reimpiego di materiali edili è rappresentato dai provvedimenti normativi e procedurali utili a incentivare l’assunzione e la diffusione di metodi e sistemi. La parte del “buon esempio”, spetta al riguardo, all’operatore pubblico. Recentemente esso si è espresso, e si va sempre più rafforzando, nella politica del Green Public Procurement, altrimenti detta degli “acquisti verdi”. Essa viene definita, dalla Commissione Europea come “(...) l’approccio in base al quale le Amministrazioni Pubbliche integrano i criteri ambientali in tutte le fasi del processo di acquisto, incoraggiando la diffusione di tecnologie ambientali e lo sviluppo di prodotti validi sotto

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il profilo ambientale, attraverso la ricerca e la scelta dei risultati e delle soluzioni che hanno il minore impatto possibile sull’ambiente lungo l’intero ciclo di vita”.3 Il GPP consiste, in pratica, nella possibilità di inserire tali criteri di qualificazione ambientale nella domanda espressa dalla Pubblica Amministrazione in sede di appalto per servizi, forniture e lavori pubblici. In Italia, la tematica (che ha come principali riferimenti normativi la L.296/2006, il DM 11/04/2007, il DM 10/04/2013) è affrontata da un apposito gruppo di lavoro istituito presso il Ministro dell’Ambiente e si dota di uno specifico “Piano d'Azione” (PAN GPP). Per la sua gestione, la mobilitazione è massima: - comitato di gestione composto da tre Ministeri (Ambiente, Sviluppo Economico e Finanze), dall’ISPRA, dalla CONSIP, dall’ENEA, da esperti di alcune ARPA e da due rappresentanze regionali; - tavolo di confronto permanente tra Amministrazioni, Enti, operatori; - tavoli di consultazione con le associazioni di categoria, specifici per ciascuna categoria di prodotto indicata nel Piano. Ciò nonostante, nel nostro paese, il cammino del GPP si dimostra incerto e faticoso. Ne sono deterrenti soprattutto gli alti costi, il supplemento di lavoro istruttorio necessario per la produzione degli atti di gara, la richiesta di specifiche competenze in seno agli uffici, oltre che, naturalmente, la mancanza dell’obbligo di farvi specifico ricorso. Molto risulta ancora affidato alla probità d'azione di singoli soggetti e Amministrazioni, disposte a spendersi in sperimentalità oltre che ad affrontare tutti i rischi che, l’assenza di tassative disposizioni lascia gravare quasi interamente sull’iniziativa individuale e locale. Tuttavia, anche i soli criteri di preferibilità ambientale, se giustamente introdotti dalla PA, nelle proprie regole di acquisto, possono costituire un buon fattore d'orientamento delle procedure di appalto verso prodotti e processi compatibili con l’ambiente. E, ancorché non impositivo, l’insieme delle indicazioni e delle determinazioni, variamente espresse dagli odierni bandi di gara, già lascia avvertire i suoi effetti. Il processo è recentemente incoraggiato dalla nuovissima disciplina sui LLPP (DL 1678/2015) la quale, oltre al prioritario interesse rivolto alla

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ModalitĂ di compostaggio di pietre

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problematica della vigilanza anti-corruzione, si fa carico, più diffusamente, del rispetto delle maggiori impellenze contemporanee difese dalle più recenti normative europee. La soppressione del criterio del “massimo ribasso”, a favore della tipologia di gara definita “dell’offerta più vantaggiosa”, era l’urgente passo da compiere. La fiducia sta ora nella possibilità che le nostre Pubbliche Amministrazioni sappiano distinguersi per un sano e coraggioso esercizio del proprio ruolo decisionale, muovendosi ad arte nel delicato spazio affidato alla “discrezionalità valutativa”. La post-gestione per la ricostruzione paesaggistica Giusto un cenno meritano in conclusione le iniziative volte alla difesa dall’abbandono e dal degrado delle aree produttive dismesse. Già all’interno di alcuni nostri strumenti urbanistici, regionali e comunali (si veda ad esempio il PPTR della Regione Puglia con le sue APPEA-Aree produttive paesaggisticamente ed ecologicamente attrezzate), si afferma il criterio del “corretto insediamento” dell’attività nascente, attraverso l’imposta clausola della “integrazione paesaggistica” diversamente definita da specifici indicatori locali, all’interno di Piani e Progetti. Accanto a ciò, maturano i provvedimenti orientati sia a guidare il corretto svolgimento, in rapporto all’ambiente, dei processi produttivi nell’arco di vita dell’attività, sia a prevedere e pre-definire il destino futuro delle aree e delle strutture ad essa connesse. Per quest’ultimo aspetto, è possibile osservare una circolarità di convenienze ed effetti che rinnova l’idea del “passo doppio”. Questa volta la danza “a due” riguarda da un lato l’interesse d’impresa che, simulando la dismissione, ne prevede le eventuali criticità evitando di pregiudicare la “business continuity”, dall’altro l’interesse pubblico che i contemporanei provvedimenti si danno il compito di difendere da crisi e disastri. Il pensare oggi al declino di domani può apparire come fatto negativo rispetto all’ottimismo che dovrebbe sostanziare ogni iniziativa di start up. L’idea possiede però un ben più importante fondamento teorico. L’impresa è obbligata a prendersi in carico la tutela del tratto di mondo occupato. Ne deve assicurare e sostenere la tutela, la solidità, la durata e, non ultima, la bellezza. Recente atto di questo processo di responsabilizzazione è rappresentato dall’obbligo, per l’ottenimento dell’AIA -Autorizzazione Integrata Ambientale-

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della redazione di un vero e proprio progetto di “seconda vita”, un programma “postumo”, definito dal D. Lgs. 46/14 come “piano di dismissione”. Tra i suoi prevalenti contenuti: - le modalità di svuotamento e bonifica degli impianti; - la gestione dei rifiuti derivanti e la gestione delle scorte residuali di materie prime; - il destino delle strutture e delle parti di impianto (riutilizzo di macchinari, riuso di spazi e locali, ecc.); - la gestione delle acque (di processo, di lavaggio e meteoriche) - la valutazione e gestione dei rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori impegnati nella dismissione; - la valutazione dell’impatto ambientale associato alle operazioni di dismissione. È il paradosso dei tempi: una dimensione, sino ad alcuni decenni fa, assolutamente impensabile. Lo sviluppo contiene la decrescita, la trasformazione pensa al ripristino, l’espansione si confronta con la contrazione. È tuttavia l’anima del mondo: il suo imperituro crescere su sé stesso. Nell’idea di gestione post-operativa dell’ambiente sta il cuore della nostra auspicabile sinergia col pianeta. Oggi ineludibile requisito di ogni più piccolo movimento al suo interno.

A. Ferlenga, Smart, recycle e altri luoghi comuni, in "l’Architetto" rivista digitale mensile del CNA, n.15 aprile 2014 2 A. Ferlenga, in articolo cit. 3 Si veda ad esempio il PPTR della Regione Puglia con le sue APPEA-Aree produttive paesaggisticamente ed ecologicamente attrezzate. 1

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LE CAVE E IL RICICLO DEI MATERIALI INERTI PROVENIENTI DA COSTRUZIONE E DEMOLIZIONE Paola Guarini

Le interferenze ed i legami che intercorrono tra le aree di cava ed il riciclo dei materiali inerti sono molteplici e di diversa natura. Innanzitutto è evidente l'inversa proporzionalità tra le operazioni di riciclo e il prelievo da cava. Aumentare il riciclo dei materiali provenienti da costruzione e demolizione ridurrebbe notevolmente il prelievo da cava, con evidenti benefici di carattere ambientale. In secondo luogo la buona compatibilità delle operazioni di estrazione degli inerti con le lavorazione dei rifiuti provenienti da costruzione e demolizione, fa risultare molto vantaggioso inserire un impianto di lavorazione dei rifiuti provenienti da demolizione selettiva in area di cava. I processi per la produzione di aggregati naturali e per la produzione di aggregati riciclati sono sostanzialmente simili, a meno di alcune piccole modifiche che, normalmente non richiedono ingenti investimenti. Infine nelle operazioni di rinaturalizzazione e colmatura di ex cave si ricorre usualmente all'utilizzo di aggregati riciclati per riempire e rimodellare i pendii. Eppure le logiche che sottendono le operazioni industriali di escavazione, da una parte, e di riciclo di materiali edili, dall'altra, sono così profondamente diverse da rendere queste due realtà distanti e difficilmente

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convergenti. Da una parte il principio del massimo rendimento economico e del massimo sfruttamento delle risorse naturali per produrre materie prime da costruzione, dall'altra le politiche di riduzione del consumo di suolo, del riequilibrio ambientale, del riciclo e del riuso come pratiche per concorrere al miglioramento della qualità del nostro territorio. Non solo. A questa difficoltà di limitare da una parte il prelievo da cava e di promuovere dall'altra le politiche di riciclo, concorrono lacune di tipo legislativo e normativo, l’assenza di incentivi economici, l'inadeguatezza delle politiche di pianificazione, la mancanza di una cultura del riciclo che superi il concetto di rifiuto a vantaggio del prodotto end of waste. Le coltivazioni di cava: questioni irrisolte Il principale ostacolo alla riduzione del prelievo di cava è la carenza del quadro legislativo e normativo che regola questa attività. A livello nazionale la disciplina delle attività estrattive è regolata ancora oggi dal Regio Decreto n° 1443 del 1927, la cui chiara incentivazione dell’industria estrattiva non considera in alcun modo i problemi di alterazione e deturpamento del territorio generati da questo impiego. Successivamente al Regio Decreto non vi è più stato un intervento normativo nazionale che determinasse criteri unici per tutto il Paese. A partire dalla fine degli anni ’70 sono state gradualmente approvate Leggi Regionali che tuttavia, “risultano indietro rispetto a una idea di moderna gestione del settore compatibile con il paesaggio e l’ambiente, in particolare per quanto riguarda le aree da escludere per l’attività, il recupero delle aree, la spinta al riuso di inerti provenienti dalle demolizioni edili”1. In molte regioni italiane manca ancora la predisposizione di un piano di cava, lasciando il potere decisionale alle valutazioni di chi gestisce le autorizzazioni. Emerge con urgenza la necessità di promuovere una profonda innovazione nel settore seguendo l’esempio di gran parte dei Paesi Europei che, sostenendo una moderna gestione delle attività estrattive, hanno incentivato il settore del recupero dei materiali provenienti da costruzione e demolizione, legando sviluppo economico, ricerca, innovazione. Gli obiettivi prioritari per muovere questo cambiamento possono essere riassunti secondo il Rapporto Cave 2014 di Legambiente, in tre punti fondamentali: 1. Rafforzare la tutela del territorio e la legalità E’ importante definire per tutto il territorio nazionale alcune regole di base,

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attraverso una nuova Legge Quadro, che consideri: le aree in cui l’attività di cava è vietata (aree protette e boschi, corsi d’acqua, aree sottoposte a vincolo idrogeologico e paesaggistico, ecc.) e quelle in cui è condizionata a pareri vincolistici di tutela ambientale; i criteri per il recupero delle aree una volta dismessa la coltivazione e le garanzie che avvenga realmente l’intervento; l’estensione della VIA per tutte le richieste di cava senza limiti di dimensione, e i termini delle compensazioni ambientali; le modalità di estrazione funzionali al contesto ambientale e paesaggistico e al suo ripristino contestuale. 2. Aumentare i canoni di concessione In Italia i canoni di concessione delle aree di cava sono bassissimi e in alcuni casi la cessione è completamente gratuita. Bisognerebbe aumentare notevolmente i canoni e parallelamente tassare seriamente il conferimento in discarica dei rifiuti provenienti da costruzione e demolizione. 3. Ridurre il prelievo da cava attraverso il recupero degli inerti provenienti dall’edilizia. Per incentivare il riciclo dei materiali edili bisognerebbe delegare le imprese edili nella gestione del processo di demolizione selettiva degli inerti provenienti dalle costruzioni, riducendo il conferimento in discarica, adottare una legislazione che obblighi a utilizzare una quota di inerti provenienti dal recupero in tutti gli appalti pubblici, stabilire il principio “prestazionale” dei materiali piuttosto che quello di “provenienza” (naturale, artificiale o da riciclo) . Il riciclo dei materiali provenienti da costruzione e demolizione In Italia il settore del riciclo dei rifiuti inerti è stato avviato negli anni ’80. Tuttavia “la sua crescita è avvenuta senza un adeguato controllo da parte delle istituzioni. Basti pensare che a oggi non esiste un censimento ufficiale degli impianti di trattamento, non esistono dati certi e affidabili né sulla produzione di rifiuti da C&D né sulla loro gestione e non esistono strumenti tecnici e norme aggiornate relativi all’utilizzo degli aggregati riciclati”2. La Direttiva europea 2008/98/CECE, direttiva quadro sui rifiuti, ha introdotto di recente due importanti novità che potenzialmente potrebbero determinare una svolta decisiva nel settore del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione. Essa, infatti: - definisce un traguardo di recupero dei rifiuti inerti pari al 70% da

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raggiungere entro il 2020; - introduce il concetto di end of waste, promuovendo il passaggio da rifiuto a prodotto. Sarebbe opportuno fissare precisi criteri secondo i quali il rifiuto viene trasformato a tutti gli effetti in prodotto, in relazione alle sue caratteristiche tecniche e capacità prestazionali. Secondo il rapporto dell'Italia del Riciclo 2012, alcune misure, insieme al nuovo impulso fornito dalla Direttiva, potrebbero incentivare lo sviluppo del settore: 1. Censimento dei rifiuti da C&D Attualmente non è possibile conoscere i quantitativi di rifiuti da C&D effettivamente avviati a riciclo/recupero. Sarebbe opportuno avere un’effettiva quantificazione dei rifiuti più che una sua stima. A tal fine basterebbe introdurre nella richiesta di autorizzazione all'esecuzione dei lavori edili, la stima obbligatoria, attraverso la redazione di un piano di gestione dei rifiuti in cantiere con un riscontro consuntivo in fase di chiusura amministrativa dei lavori. 2. Applicazione delle norme sul GPP e sulla marcatura L'adozione del Green Public Procurement (acquisti verdi) potrebbe fornire un significativo impulso al mercato degli aggregati riciclati, parallelamente ad un adeguato sistema di marcatura CE degli aggregati riciclati da parte del produttore. 3. Adozione di strumenti tecnici aggiornati Sarebbe opportuno aggiornare i Capitolati Speciali d’Appalto sulla base della più recente normativa tecnica europea, che non distingue più gli aggregati per la loro natura, ma per le loro caratteristiche, dichiarate nella marcatura CE del prodotto. L’introduzione inoltre della voce “aggregati riciclati” nei prezziari delle opere edili contribuirebbe ad agevolare l’utilizzo di tali materiali. 4. Pubblicazione di una norma tecnica specifica per la costruzione delle infrastrutture. Da tempo il campo delle costruzioni stradali è stato individuato come il più idoneo ambito di impiego di aggregati riciclati, garantendole medesime caratteristiche prestazionali degli aggregati naturali. Tuttavia l’originaria natura (rifiuto) del materiale in uscita dal processo di recupero induce nell’utilizzatore una sorta di diffidenza. 5. Adozione dei criteri end of waste

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Per incentivare l’utilizzo degli inerti riciclati, sarebbe opportuno e necessario che si fissino, così come previsto dalla nuova direttiva sui rifiuti, precisi criteri per determinare il momento in cui il rifiuto diventa materiale in funzione delle sue caratteristiche e prestazioni (end of waste)3. Gli impianti e i prodotti di lavorazione dei materiali C&D Le informazioni sul numero di impianti di lavorazione presenti e sulla quantità di materiale recuperato non sono sufficienti per fornire un quadro della situazione italiana. Si possono individuare nel Paese due macroaree geografiche con differenti caratteristiche, legate a diversità dei costi delle materie prime, diversità dei costi per lo smaltimento in discarica dei rifiuti, diversità dei controlli sul territorio nazionale: - il Centro-Nord d'Italia, in particolare Marche,Toscana, EmiliaRomagna, Veneto, Lombardia, in cui sono stati installati diversi impianti fissi di riciclaggio di rifiuti inerti, creando vantaggi economici per le imprese edili che possono smaltire legalmente i rifiuti inerti a costi più bassi di quelli imposti dalle discariche, e vantaggi economici per quelle imprese di costruzione che comprano i materiali inerti per sottofondi stradali a prezzi più bassi di quelli imposti dalle cave, oltre a evidenti benefici ambientali per il territorio; - il Sud Italia dove il riciclaggio dei rifiuti inerti stenta a partire dal momento che i costi dei materiali da cava sono più bassi di quelli che vengono applicati nelle regioni del Nord Italia. Bisogna inoltre considerare una carenza di controlli da parte delle autorità di competenza, che comporta un'alta percentuale di smaltimento abusivo dei rifiuti inerti con evidenti danni ambientali. Più in generale oggi l’Italia fa ancora un largo utilizzo delle risorse naturali, collocandosi in una posizione piuttosto arretrata rispetto agli altri Paesi Europei, in particolare nel settore dei rifiuti da costruzione e demolizione e dei rifiuti inerti in genere. Per quanto concerne la tipologia di trattamento dei materiali provenienti da costruzione e demolizione, allo stato attuale, le tecnologie che riescono ad ottenere la qualità degli aggregati riciclati rispondenti alle norme tecniche di settore sono quelle in grado di garantire le fasi meccaniche di macinazione, vagliatura, selezione granulometrica e separazione della frazione metallica e delle frazioni indesiderate. Le lavorazioni si fondano sulla pratica della demolizione selettiva, una

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Inerti

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tecnica di demolizione tesa alla selezione dei materiali prima di essere avviati in discarica. Le operazioni tradizionali sono sostituite da operazioni di smontaggio selettivo e destrutturazione, finalizzate all’ottenimento di frazioni mono-materiale (calcestruzzo, mattoni, cemento, legno, ecc.) adatte al trattamento negli impianti di riciclaggio, con l’obiettivo di creare delle materie prime secondarie di alta qualità. La prima fase è costituita dall’asportazione dei materiali pericolosi e successivamente dai componenti riusabili. Infine si continua il lavoro demolendo la parti di edificio costituite da materiali o aggregati riciclabili che sottoposti a trattamenti adeguati, possono servire a produrre nuovi materiali, con funzioni ed utilizzazioni anche diverse da quelle dei residui originari. Per incoraggiare questa pratica nel nostro paese bisognerebbe incidere sull’aspetto economico, prevedendo maggiori costi di smaltimento per il materiale non selezionato, riconoscimenti ed incentivi per chi applica la demolizione selettiva. Fondamentale è la realizzazione di un progetto di demolizione che preveda la dettagliata descrizione dell'edificio e dei materiali che esso comprende, insieme naturalmente ad una riorganizzazione del cantiere edilizio, un’adeguata formazione del personale di cantiere, la predisposizione di spazi per poter stoccare le diverse categorie di rifiuti. I frammenti e macerie di laterizi o calcestruzzo anche misti, convogliati in impianti di lavorazione, vengono sottoposti a frantumazione, miscelazione, vagliatura e altri trattamenti per renderli idonei al reimpiego. Le lavorazioni dei materiali provenienti da costruzione e demolizione possono essere eseguite in impianti mobili o fissi. Questi ultimi sono costituiti da strutture stazionarie e compensano lo svantaggio della mancata mobilità con un migliore livello qualitativo dei prodotti e un più efficace controllo su polveri e rumore. Questo tipo di impianti sono più complessi, con grandi spazi operativi ed ampi piazzali di stoccaggio dei materiali. Il materiale attraversa una prima fase di controllo di qualità dei rifiuti in ingresso per verificarne l’ammissibilità all’impianto, da un punto di vista sia normativo sia tecnico. Dopo il conferimento, lo scarico avviene in zona debitamente attrezzata per lo stoccaggio provvisorio con ripartizione del materiale in ingresso in cumuli di natura merceologica abbastanza omogenea. Il vero e proprio trattamento, a prescindere dagli impianti, può essere riassunto in una serie di fasi produttive: alimentazione, frantumazione, deferrizzazione, vagliatura, lavaggio.

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Francesco Taormina (capogruppo) Natale Allegra e Alessandro Ciaccio. "Riconfigurazione morfologica delle Cave delle Madonie", Le piazzole di coltivazione rimodellate con scarpate e valli per la messa in sicurezza dei fronti di scavo. Š Francesco Taormina

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Negli impianti fissi, in particolare, mediante l’impiego di sofisticate tecnologie, è possibile rimuovere in modo automatico la frazione leggera (carta, plastica e legno principalmente) che è contenuta nel materiale frantumato, ottenendo una raffinazione del prodotto, che ne garantisce l'assenza di frazioni inquinanti e ne migliora considerevolmente le caratteristiche meccaniche. Oltre all’oramai consueto reimpiego in rilevati, re-interri, riempimenti, sottofondazioni, i materiali inerti riciclati sperimentano nuove modalità di utilizzo, favorendo lo sviluppo nuove tecnologie. Le ultime tendenze nei paesi europei promuovono l’impiego degli inerti riciclati in sostituzione di quelli naturali o vergini come componenti per la riqualificazione ambientale (pareti di sostegno, rilevati e terrapieni, divisori di proprietà), barriere verdi fonoassorbenti in calcestruzzo riciclato e terra; barriere verdi di protezione visiva; arredo urbano (dissuasori stradali, fontane, elementi di seduta). Eco tecnologie da promuovere e sviluppare per una visione moderna di nuovi cicli di vita per i nostri territori.

Ufficio urbanistico di Legambiente, Rapporto Cave 2014, Roma, Febbraio 2014 Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, FISE UNIRE Unione Nazionale Imprese Recupero, "L'Italia del Riciclo 2012", Roma. 3 Ibidem

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PROGETTO LA MACCHINA ESTETICA Tutors: Paola Veronica Dell’Aira Paola Guarini Dottorandi: Federica Amore Enrica Corvino Giada Domenici

L’area di progetto interessa parte delle Cave della Magliana. Collocata nel quadrante ovest di Roma è adiacente al Grande Raccordo Anulare e servita da via Portuense e via della Magliana. All’interno dell’area sono presenti dei brownfields: un sito di cava dismesso, un ex-discarica, un impianto di trattamento di inerti e rifiuti provenienti da C&D (Rime1), depositi di materiali edili. E’ presente inoltre una cava ancora attiva, ormai a fine ciclo, considerata dismessa ai fini del progetto. L’area oggetto di studio ha una dimensione di 250 ettari. La proposta prevede un impianto per la lavorazione degli inerti provenienti da demolizione selettiva, su un’area di circa 80 ettari, una zona di vendita, un parco espositivo e didattico. Per 54 ettari, posti nella parte a nord ovest prossimi ai corridoi ambientali esistenti, si prevede di mantenere la macchia mediterranea.

Gli obiettivi che hanno mosso l’attività progettuale sono stati: rinaturalizzazione e bonifica dei luoghi, efficienza dei processi di lavorazione, attribuzione di una valenza estetica ai processi produttivi, definizione di modelli architettonici esportabili in altri siti in cui sono previste attività similari. Nell’ottica della progettazione di una macchina estetica e con la volontà di andare “verso un’architettura” degli impianti di lavorazione dei rifiuti C&D, sono stati individuati quattro temi di progetto: margini, contenitori, involucri ed energia. I margini sono stati utilizzati come barriere fonoassorbenti o nebulizzanti. I contenitori sono stati destinati al deposito dei materiali in entrata e allo stoccaggio dei materiali lavorati. Gli involucri, volumi in travertino e corten, sono stati previsti per alloggiare vibrovagli, frantoi e mulini. Infine il fabbisogno di acqua ed

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energia elettrica ha reso indispensabile prevedere impianti a pale eoliche e pannelli fotovoltaici. Parte dell’area rinaturalizzata si pensa caratterizzata da vasche per la raccolta e il trattamento delle acque meteoriche con fitodepurazione; e da torri piezometriche a servizio dei due cicli di lavorazione previsti. La realizzazione del progetto è stata prevista per fasi: delocalizzazione dei depositi di materiali edili e parziale realizzazione della prima linea produttiva con riallocazione dell’impianto esistente di lavorazione dei rifiuti C&D; realizzazione dei dispositivi per la produzione di energia; parziale rimodellamento della collina e completamento dell’impianto con uffici e zona di vendita; rimboschimento produttivo per la bonifica dei suoli e l’allestimento del parco tematico. Il tipo di impianto obbliga una rigida separazione tra i percorsi degli addetti e quelli per la fruizione pubblica; per mantenere l’idea di un luogo unitario sono state rafforzate le connessioni visive tra i due ambiti. Il dislivello presente tra il parco tematico, posto ad una quota superiore, e l’area di lavorazione ha portato a modellare la sezione del fronte di cava tramite terrazzamenti, collegati da percorsi affiancati da vasche di inerti o vegetazione. Per la rinaturalizzazione degli altri siti di cava presenti si è previsto un inerbimento con idrosemina.

La morfologia del sito nasconde alla vista parte dell’area; è emersa quindi la necessità di concepire la torre contenenti gli uffici commerciali come un landmark, con fronte cieco verso via della Magliana che si pone come elemento totemico nel territorio. Verso l’area rinaturalizzata la torre si apre con una struttura a traliccio che, oltre a fungere da collegamento verticale per l’edificio, rappresenta un belvedere sull’intera area.

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RICICLI IMMAGINABILI PER L’AREA DELLA EX RAFFINERIA DI MALAGROTTA

Andrea Grimaldi

In questa epoca di trasformazioni e ripensamenti delle abitudini di vita di gran parte delle società occidentali, le istanze ecologiche sembrano aver assunto un ruolo strategico nelle scelte di indirizzo politico-economico di questa parte del mondo, con influenze e ricadute che interessano anche il resto del pianeta. Ne “Il ciclo di vita dei veicoli” 1, avevamo indagato le norme e le indicazioni di legge che regolano la realizzazione e gestione dei luoghi del riciclo dell’auto. Luoghi spesso nascosti e trascurati perché sino ad oggi rifiutati dalla città come parte di quel sistema di infrastrutture “sporche”, ma essenziali per la qualità della vita che conduciamo quotidianamente. Luoghi che non è piacevole vedere forse perché ricordano, con la loro ingombrante presenza, che ad ogni azione corrisponde, da qualche parte, più o meno vicina a noi, in Italia o nel mondo, una reazione, un effetto, non sempre previsto e non sempre gradevole. Luoghi senza forma e senza qualità anche perché emarginati finanche nei programmi urbanistici (a Roma il piano per la riorganizzazione degli autodemolitori non è operativo e vige ormai da anni un regime di deroghe iterate). Per molto tempo le dinamiche che ne hanno governato e regolato lo sviluppo sono state semplice-

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Uno dei grandi silos trasformato in punto vendita

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mente quelle dell’accumulo e dell’occupazione dei suoli senza riflessioni sulle gerarchie e sulle ricadute in termini di trasformazione della identità dei luoghi, con modalità di approccio al problema, totalmente privi di una visione, senza consapevolezza dei rischi e degli effetti delle azioni condotte, espressione di una leggerezza tipica di chi non ha coscienza della dimensione finita delle risorse del nostro mondo. Oggi tutto questo, per fortuna, non è più la norma. La sensibilità ecologica del pianeta continua a crescere di giorno in giorno incidendo in maniera profonda sui comportamenti ed i modi d’intendere le cose del mondo che ci circondano; ma è un processo lento nel quale, crediamo, anche l’architettura come “arte della delimitazione spaziale” - riprendendo le parole di Berlage2 - può ancora offrire un contributo. Arte dunque che aspira a costruire lo spazio della vita umana, che riflette e mette a sistema le molteplici e spesso contrastanti sollecitazioni provenienti dai diversi settori delle società. Arte a volte anche del compromesso che traduce in spazio tangibile l’anelito ideale assieme al bisogno più basso. Avverto l’esigenza di sottolineare, come architetto, l’importanza di questo nostro ruolo che troppe volte si vede passare in secondo piano rispetto alle grandi visioni che le nostre ricerche sembrano sovente delineare, quasi che si abbia una sorta di timore ad affermare l’esigenza di rispondere ai problemi del nostro tempo anche con gli strumenti dell’Architettura come fenomeno spaziale, come spazio cioè formalizzato, delimitato e misurato, utilizzando i binomi che ne definiscono da sempre i caratteri fenomenico-percettivi e ne compongono la struttura logico-significante: pieno/vuoto, trasparente/ opaco, interno/esterno, alto/basso … naturalmente interpretati con tutte le sfumature possibili ed immaginabili che la complessità contemporanea stimola e suggerisce. Nello specifico, a tutt’oggi sono quasi inesistenti gli impianti per il riciclo dei veicoli che offrano delle proposte interessanti da questo punto di vista. Non sembra si sia ancora materializzata una Architettura dei luoghi del riciclo in termini di forma se non come risultanza di una mera traduzione volumetrico-compositiva di schemi meccanico-funzionali. L’idea di forma significante come sintesi di spazi e funzioni non è ancora argomento di ricerche architettoniche per quanto riguarda i luoghi del trattamento di fine vita delle auto (ELV) e questo un po’ in tutto il mondo. La realtà italiana poi, nel migliore dei casi, presenta quasi sempre situazioni nelle quali gli impianti si trasformano inseguendo l’evolversi delle normative ma sen-

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Il percorso didattico si sviluppa tra i silos trasformati in strutture espositive

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za quella visione d’insieme essenziale al conseguimento di un organismo dotato di un minimo di senso e piacevolezza. I risultati di questi processi trasformativi sono i nostri autodemolitori: aree dominate dalle carcasse di auto che ne costituiscono il simbolo negativo perché espressione di quella “end of life” che anche anglicizzata suona comunque come affermazione negativa. E’ singolare che, ad eccezione di rarissimi casi, questa sia la condizione diffusa in cui versano tutte queste strutture. Sembra un paradosso che una categoria non dotata certamente di “buona fama” come quella degli autodemolitori (nell’immaginario metropolitano “lo sfasciacarrozze” è un luogo ai margini della legalità) non si sia ancora resa conto del valore comunicativo che una struttura progettata, tenendo in considerazione anche la qualità estetica dei manufatti, potrebbe restituire in termini di consenso sociale. Ciò che invece sembra essere stata sino ad oggi l’unica stella polare nella conduzione di queste attività è la logica del profitto, a prescindere da tutto, anche dell’immagine e della percezione che i cittadini hanno di queste attività. Ora, con l’affacciarsi di nuove classi dirigenti ai vertici delle associazioni di categoria, i tempi sono forse maturi per pensare ad una nuova idea di centro di autodemolizione (un autodemolitore 2.0) in cui dare risposte concrete a quelle istanze ecologiche che chiedono attenzione per la gestione delle risorse e la qualità dell’ambiente. Strutture non più collocate ai margini delle città, nascoste e trasandate perché luoghi terminali di un processo consumistico, ma organismi essenziali all’equilibrio economico ed ambientale dei processi produttivi delle nostre società industrializzate. Luoghi positivi, percepiti come tali anche in virtù di una rinnovata concezione figurativa. Un simile processo può essere sviluppato solo dopo un’attenta analisi dei nodi spazio-funzionali intorno ai quali si programma la gestione di un centro di autodemolizione, a prescindere dal tipo di organizzazione giuridico amministrativa e dimensione della struttura. In questo senso, nella sequenza operativa che prevede una serie di passaggi, dalla riconsegna dell’auto da rottamare al suo completo recupero/riciclaggio, tre sembrano essere gli ambiti spaziali principali che, in funzione del tipo di attività che vi si svolge, esprimono il maggior potenziale formale e figurativo: gli ambiti deputati al disassemblaggio; quelli relativi al deposito delle componenti scomposte e gli ambiti della vendita delle componenti al pubblico.

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I silos sono immersi in un sistema di vasche per la fito-depurazione

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Queste riflessioni sulla forma dei luoghi di lavoro, non possono non essere messe a sistema con le indicazioni legislative che tratteggiano per il ciclo dell’auto scenari tendenti a prefigurare con sempre maggiore chiarezza filiere in cui i produttori acquistano un ruolo centrale costituendosi quale punto di partenza e di arrivo dell’intero percorso. Ciò diviene elemento di grande rilievo anche dal punto di vista architettonico perché lega in termini concettuali, ma con possibili ricadute in ambito formale, l’inizio vita dell’auto e la sua fine allo spazio della concessionaria automobilistica. A ben vedere, il sistema tratteggiato sin dalla prima direttiva europea (2000/53/CE) giunto a regime, vedrebbe il libero mercato delle auto da rottamare praticamente estinto con l’introduzione dell’obbligo di ritiro dell’auto da parte della concessionaria nel momento in cui il cliente acquista la nuova vettura. Resterebbero fuori da questo processo solo coloro i quali decidessero di rottamare la propria vettura senza rinnovarla, ma l’obiettivo di rendere maggiormente responsabili le case costruttrici è con tutta evidenza un elemento saliente della direttiva, ribadito dall’obbligo di creare proprie reti di raccolta e trattamento ELV, solo parzialmente mitigato da un richiamo ad una generica “salvaguardia della concorrenza per quanto riguarda l’accesso delle piccole e medie imprese al mercato della raccolta, demolizione, trattamento e riciclaggio” delle vetture (punto 24 delle premesse alla 2000/53/CE). Appare evidente come l’applicazione di questo passaggio normativo possa essere risultato assai difficile per tutte quelle aziende indipendenti che fuori dai circuiti di raccolta delle case automobilistiche rischiano di non avere più mercato, ma d’altro canto è altrettanto evidente che è proprio attraverso questo passaggio che si mettono in moto energie importanti per ripensare l’intera filiera ELV, sia in termini di organizzazione territoriale del sistema sia in termini d’immagine dello stesso e naturalmente di ritorno ecologico. Nonostante i ritardi delle amministrazioni pubbliche nelle verifiche e controlli dell’applicazione delle indicazioni di legge, il processo di trasformazione avviato proprio a partire dalle case automobilistiche sta andando avanti e se da un punto di vista estetico-figurativo non ha ancora prodotto risultati significativi, sul piano meramente quantitativo ha invece centrato tutti gli obiettivi prefissati dalle diverse direttive succedutesi nel corso degli anni. L’incontro avuto con l’ing. F. Di Carlo e con il suo staff presso la sede di Torino della FGA (luglio 2014) è servito a chiarire alcune delle logiche che guidano il gruppo, all’avanguardia tra le case automobilistiche europee

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nel perseguire gli obiettivi di legge. Ciò che è emerso è l’evidente interesse che la FGA, come tutte le case produttrici mondiali, ha nel costruire una filiera completa ed efficiente che dai concessionari arrivi sino all’ultimo gradino della scala, quello del recupero energetico dei materiali di scarto (il cosiddetto fluff). Un ulteriore importante tassello utile a definire la cornice problematica entro cui ci muoviamo ci è stato fornito dal dott. A. Calò, (luglio 2014) presidente della Fise-Unire (Unione nazionale delle imprese del recupero di Confindustria) con il quale abbiamo avuto modo di discutere e confrontare preventivamente la fattibilità delle idee su cui si è deciso d’impostare la nostra esercitazione progettuale all’interno del workshop Recycling Drosscapes. La Coda della cometa come campo di sperimentazione per un possibile scenario futuro In questo scenario ancora in movimento, in cui però alcune linee di fondo sembrano essere chiaramente delineate, due sono le opzioni percorribili per dare una risposta definitiva al problema della collocazione eco compatibile degli autodemolitori all’interno dei nostri territori: - una prima che li immagina come un sistema diffuso fatto di piccole strutture sparse sul territorio coordinate tra di loro, magari in relazione con grandi concessionarie d’auto e con centri di triturazione e pirogassificazione di scala sovracomunale; - una seconda che invece, seguendo anche le indicazioni del D.Lgs n. 149/06, art. 6, comma 1, ne prevede una collocazione più concentrata in “aree industriali dismesse” come nel caso preso in esame dal progetto elaborato all’interno del workshop. Questa seconda ipotesi consente d’immaginare una risposta in termini funzionali e figurativi molto più articolata e complessa che trova nella relazione con il sedime della ex raffineria di Malagrotta un interessante motivo di riflessione progettuale. La ex raffineria si presenta infatti come un impianto estremamente razionale impostato sull’idea di un grande cardo che distribuisce ed organizza diverse isole funzionali tutte perfettamente impermeabilizzate, caratteristica fondamentale per un possibile riuso come grande centro di autodemolizione del quadrante ovest della città di Roma. L’area è infatti adiacente a nord alla linea ferroviaria tirrenica che potrebbe garantire un

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uso importante del trasporto su ferro per la movimentazione delle merci; ha una rete viabilistica già rodata nel corso degli anni dalla ormai dismessa discarica di Malagrotta e per la sua conformazione si presterebbe con grande facilità ad essere organizzata per isole funzionali facenti capo a singoli autodemolitori che potrebbero così essere ricollocati in questa sede mantenendo la propria autonomia e identità imprenditoriale, con il vantaggio di poter condividere gli oneri relativi alle strutture di trattamento e smaltimento degli agenti inquinanti che la legge prevede per ciascun sito di autodemolizioni. I grandi silos, potrebbero diventare una interessante matrice da cui partire per immaginare spazi dalle vocazioni funzionali assai variegate (da quelle operative a quelle più legate alla comunicazione/conoscenza dei processi). La presenza paesaggistica della ex raffineria, può sembrare assurdo, appare quasi discreta, inserita com’è in un contesto ambientale dotato di una apparente qualità. C’è un grande scarto percettivo tra ciò che si coglie percorrendo via di Malagrotta e quello che si comprende essere la realtà dei luoghi, osservando una vista aerea che misura il sedime della raffineria e la grande area della discarica ad essa antistante. Ci è sembrato che potesse essere un’operazione intelligente quella di unire in un unico processo progettuale la soluzione di due annosi problemi: quello del recupero e riciclo di un’area industriale oramai abbandonata e quello della reinterpretazione dell’idea di autodemolitore intesa non più come figura marginale all’interno dei processi produttivi ma anzi, parte di una possibile nuova filiera che a partire da quella dell’auto potesse espandersi ad altri cicli e processi produttivi venendo così a riciclare il luogo di cui, in una visione finalmente positiva, si eleva il rango da mero deposito di oli combustibili a centro di ricerca, informazione, produzione e post-produzione di materia e pensiero.

Vedi: A. Grimaldi, D. Nencini, F.R. Castelli, M.C. Ghia, G. Spirito, in Volume n. 8 della collana Re-cycle Italy, Il territorio degli scarti e dei rifiuti, a cura di R. Pavia, R. Secchi, C. Gasparrini. 2 Citato in Kennet Frampton, Tettonica e Architettura, Skira Milano 2005, pag. 37. 1

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Jo찾o Ferreira Nunes, Stazione del trattamento delle acque ETAR, Valle de Alc창ntara Lisbona, 2005-2011.

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CINQUE STRATEGIE DEL RICICLO Gianpaola Spirito

Nei territori della Coda della Cometa si è posta la questione della convivenza degli impianti - per la produzione energetica, lo smaltimento rifiuti, il riciclo di materie, il trattamento delle acque, gli autodemolitori - con i centri abitati, le aree archeologiche e naturalistiche di pregio all’interno del paesaggio, ancora prevalentemente agricolo. Una convivenza possibile se gli impianti fossero strategicamente collocati e progettati non solo secondo criteri prestazionali, ma con figure e dispositivi spaziali che permettano la loro contestualizzazione. La mappa dei Drosscapes presenti nella Coda della Cometa è stato il primo strumento che il gruppo di ricerca ha redatto, il secondo, lo studio della storia delle trasformazioni che hanno determinato gli assetti e le dinamiche oggi presenti. Questi strumenti hanno evidenziato come gli impianti siano localizzati sul territorio in base alla proprietà delle aree, ad un effetto cluster o, se non autorizzati, in aree non facilmente percepibili, tra le pieghe dell’orografia o ai bordi di grandi infrastrutture naturali o artificiali. Le aree proposte dal workshop sono selezionate tra quelle presenti nella mappa dei Drosscapes privilegiando i criteri di non prossimità con centri abitati e sistemi storici paesistici e ambientali di valore, l’elevata accessibilità e l’inserimento all’interno di reti strategiche legate alla loro specifica filiera, in modo da permetterne il funzionamento efficiente e trasformarle in una risorsa per il territorio e non un aggravante delle condizioni negative. Un’altra questione riguarda nello specifico il progetto Rottamopoli e dipende dall’aver scelto di delocalizzare molti degli sfasciacarrozze, oggi in aree improprie, e realizzare una cittadella del riciclo di diversi materiali nell’area della ex-Raffineria. Questo comporta che Rottamopoli sia: un progetto di bonifica di un suolo di 8,8 ha tra i più inquinati della Coda della Cometa; un progetto di paesaggio e rinaturalizzazione di un terreno totalmente artificializzato; un progetto urbano che restituisca l’area ai suoi

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AceboXAlonso, Progetto per la Fabbrica Biodisel per Infinita Rinnovabili, Vigo Dry Dock -Pontevedra, 2006

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abitanti, un progetto architettonico di riuso e riciclo dei serbatoi preesistenti e di nuovi manufatti che permetta di trasformare l’ex-Raffineria in un parco produttivo, tecnologico, ludico. Si intende qui illustrarlo attraverso cinque progetti. Ognuno suggerisce una strategia in grado di rispondere alle questioni fin qui delineate, tutti assumono uno stesso approccio metodologico, lo stesso utilizzato per Rottamopoli: l’assumere tutti gli strati e le trasformazioni che il luogo ha subito nel tempo, non cancellarne ne ripristinarne alcuno, ma ricomporli e farli convivere con quelli nuovi e quelli futuri. La stazione del trattamento delle acque ETAR nella Valle de Alcântara a Lisbona di João Ferreira Nunes è un esempio riuscito di integrazione tra un vasto impianto per il trattamento delle acque e un paesaggio originariamente agricolo successivamente modificato dall’insediamento prima di imponenti infrastrutture viarie e ferroviarie poi, negli anni ottanta, dal depuratore. Alla fine degli anni ’90 il depuratore risulta obsoleto sia a livello dimensionale che prestazionale ma anche rispetto alla cultura ambientalista della società del XXI secolo. Nel 2005 João Ferreira Nunes è incaricato di progettare un impianto per il trattamento delle acque di maggiori dimensioni e spazi per le attività di gestione, ricerca e formazione. Per rispondere a queste richieste e configurare un’area di 8,4 ha, la strategia utilizzata da Nunes è la lettura, comprensione e reinterpretazione della morfologia e gli elementi che hanno definito i diversi scenari o strati che nel tempo hanno identificato il paesaggio della Valle de Alcântara. Nessuno è cancellato e nessuno è ripristinato ma sono sovrapposti diacronicamente secondo una logica nuova che corrisponde e rappresenta la condizione e la società attuale. Il tempo passato, invece di essere lo strato più basso sul quale si sono sedimentati quelli successivi, occupa la posizione più alta. È un tetto terrazzato che rievoca la morfologia originaria della valle e il disegno della sua copertura vegetale la sua geometrizzazione dei campi. Il tempo successivo, quello dello sviluppo tecnologico e di una infrastrutturazione del territorio priva di qualsiasi attenzione all’ambiente, non ha più bisogno di essere ostentato ed è posto sotto il tetto verde. Il tempo presente si configura, quindi, come un nuovo suolo artificiale costruito, sotto il quale è collocato il depuratore e le altre funzioni richieste. Esso varia in ogni sezione in base ai diversi andamenti della topografia circostante in modo da ricostruire la relazione fisica e percettiva tra i due

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Sou Fujimoto, Energy Forest, 2013 Progetto per la mostra Energy. Architettura e reti del petrolio e del post-petrolio, MAXXI, Roma

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versanti della valle, perduta in seguito all’inserimento dell’impianto. Anche il progetto dello studio AceboXAlonso per la Fabbrica Biodisel per Infinita Rinnovabili a Vigo Dry Dock (Spagna, 2006) affronta la questione dell’integrazione di un grosso impianto industriale all’interno di un paesaggio post-rurale circondato da catene montuose. Tra le strategie proposte quella di camuffare l’impianto e ridurne l’impatto visivo con un involucro che assume la forma del profilo del paesaggio circostante e lo ibrida con quello della fabbrica. Altre due strategie utilizzate: la riorganizzazione della produzione lungo una linea in modo da ridurre le aree asfaltate necessarie per le manovre dei camion che possono essere rinaturalizzate; la reversibilità: l’intervento può essere smontato facilmente in modo da ridurre al minimo il danno ambientale, sono state impiegate per Rottamopoli. Energy Forest di Sou Fujimoto – un’istallazione pensata per la mostra Energy. Architettura e reti del petrolio e del post-petrolio tenuta al MAXXI nel 2013 – serve, invece, ad aggiungere un aspetto fin qui non emerso di Rottamopoli: immaginare la fabbrica, non come uno spazio produttivo e sporco, espulso della città, ma come un parco, nel quale convivono natura e artificio, persone, usi produttivi, di ricerca e formazione. L’istallazione prefigura la futura stazione di rifornimento come una struttura nella quale coesistono elementi artificiali e naturali, dispositivi per la produzione di energia con spazi ludici e luoghi di incontro. L’architetto giapponese indica nel pozzo indiano Chand Baori del XI secolo - definito da una serie di gradoni lungo i quali l’acqua scorre e produce energia, ma al tempo stesso un luogo nel quale le persone si incontrano - la fonte di ispirazione del progetto. Questa spazialità è ibridata con quella delle stazioni di rifornimento del XX secolo - un prototipo che rispondere a requisiti funzionali, composto da un serbatoio nel sottosuolo al quale si stratifica una tettoia - per dar forma a Energy Forest. Essa si compone di una serie di strati sovrapposti, definiti dalla presenza e coesistenza di esseri e elementi di natura diversa che interagiscono e entrano in relazione tra loro. Una stazione di rifornimento che, analogamente a un impianto di produzione energetica o di smaltimento di rifiuti nella società del XXI secolo, non è un’area impermeabilizzata nella quale la vita di elementi naturali è esclusa, né un luogo estraneo alla città e ai suoi cittadini, ma un parco, una foresta in cui naturale e artificiale, produttivo e sociale possono convivere e relazionarsi. I due interventi successivi indicano un’ulteriore strategia utilizzata dal progetto: il riuso e riciclo di manufatti presenti nell’area.

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in alto Sol89, Centro di Formazione, Huelva, 2005-2006, in basso AMP Arquitectos, Centro culturale El Tanque, Santa Cruz de Tenerife, 1997-1998

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Il Centro di Formazione dei Sol89 (2005-2006) è un piccolo intervento di 200 mq che si colloca in un lotto di risulta nei pressi del porto di Huelva (Spagna). Nell’area è presente un edificio prefabbricato in abbandono. Gli architetti valutano che la sua demolizione avrebbe prodotto materia che, anche se riciclata avrebbero comunque comportato un costo e un consumo di energie. Inoltre, essi ritengono che quella struttura testimoni un momento della storia di quel luogo e possa essere il punto di partenza per la sua riscrittura. Essa è modificata per permettergli un uso diverso e il suo reinserimento nel paesaggio modificato del porto di Huelva, definito da elementi leggeri e sottili, attracchi, ponti, gru. Per questo i progettisti smontano l’involucro in bandone metallico e lo zoccolo in cemento che lo radica a terra e rivestono la struttura preesistente con panelli in acciaio zincato microforati in modo che esso sembri un padiglione leggero che galleggia nell’area trasformata in giardino. Attraverso questi pochi ed economici interventi una anonima struttura prefabbricata può essere riusata e rientrare a far parte del paesaggio contemporaneo. Il secondo è lo spazio culturale El Tanque a Santa Cruz de Tenerife di AMP Arquitectos del 1997-98, un progetto di riuso-riciclo di un serbatoio della ex-Raffineria Cepsa de Tenerife. Quest’ultima è la prima ad essere costruita in Spagna nel 1930 e la sua presenza determina lo sviluppo dell’isola e della città. Quando nel 1995 Adam Martin, il presidente del Consiglio di Tenerife, propone di riqualificare l’area della ex raffineria è rimasto in piedi solo il Serbatoio 59. La scelta di AMP è di conservarlo sia in quanto elemento identitario del paesaggio urbano e l’ultimo testimone di un’epoca di grande trasformazione per l’isola, sia in quanto riconoscono un alto valore estetico a quello spazio, di 50 metri di diametro e 20 di altezza. Per questo il progetto non altera la spazialità interna né quella esterna del volume cilindrico, ma inserisce, nell’area tra il serbatoio e una strada interna al complesso, un nuovo volume per collocare l’ingresso e gli spazi di servizi. In questo modo lo spazio principale può essere pensato e allestito ogni volta in modo diverso secondo l’evento artistico che in esso si svolge. Ciò ha permesso il moltiplicarsi degli eventi che esso ha proposto dal momento della sua inaugurazione nel 1997 fino ad oggi tanto da divenire un punto di riferimento per la cultura alternativa d’avanguardia.

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PROGETTO ROTTAMOPOLI* UNO SCENARIO POSSIBILE PER L’EX RAFFINERIA Tutors: Andrea Grimaldi Francesca R. Castelli Gianpaola Spirito Dottorandi: Stefano Bigiotti Domenico Ferrara Erika Maresca Raphaela Papaleo Il progetto si pone come obiettivo quello di prefigurare un modello virtuoso per le attività degli autodemolitori, capace di ottimizzare lo sfruttamento di risorse eco-sostenibili ed individuare soluzioni di integrazione architettonica e ambientale. L’occasione per la sperimentazione progettuale è stata fornita dall’elaborazione di un ambizioso piano di recupero, da attuarsi all’interno dell’area dell’ex-Raffineria petrolifera prospiciente la dismessa discarica di Malagrotta, volto alla realizzazione di una cittadella del riciclo. Occorre precisare che la scelta di riunire molteplici autodemolitori nell’area in esame presuppone l’azione di “liberare” le aree attualmente impegnate dalle stesse funzioni all’interno di contesti specifici della città consolidata nel territorio comunale di Roma; attività dunque

propedeutica ad attuare ulteriori pratiche di riequilibrio e ripristino ambientale, in grado di incidere significativamente sul metabolismo globale del territorio. La zona interessata impegna l’area industriale di circa 88 ha di proprietà di Raffineria di Roma S.P.A. (attualmente utilizzata per lo più come deposito di carburanti), organizzata secondo un sistema regolare di lotti funzionali lungo un asse longitudinale di oltre 2 km. Il sito, accessibile dall’adiacente via di Malagrotta, è lambito nel limite nord dalla ferrovia Roma-Pisa e delimitato dai suggestivi rilievi naturali delle forre romane ove corrono gli affluenti del Rio Galeria e dal paesaggio agricolo circostante della Riserva Naturale di Macchiagrande. L’area risulta quanto mai idonea ad accogliere le attività previste per la vicinanza alle infrastrutture facil-

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mente percorribili da mezzi pesanti già collaudate e l’accessibilità ai nodi di scambio gomma-ferro, oltre che per la presenza di un suolo già impermeabilizzato, dei numerosi serbatoi dismessi e l’impianto distributivo dei lotti funzionali, e infine per l’interessante dicotomia tra il paesaggio delle forre, le riserve dell’agro romano e i manufatti industriali esistenti. La fattibilità dell’intervento proposto è altresì garantita da un’ampia casistica d’esempi similari di bonifica già attuati in Italia e all’estero tali da delineare prassi progettuali ormai consolidate. Attraverso una selezione strategica dei manufatti industriali da conservare o demolire già presenti nell’area, lo strumento del masterplan ha operato una profonda trasformazione dell’ex-Raffineria, ipotizzando sette ambiti funzionali specifici, capaci di accogliere al loro interno l’intero ciclo-vita della filiera dei veicoli (dallo sviluppo scientifico per l’innovazione del settore, alla vendita dei componenti e lo smaltimento del fluff): il settore d’ingresso, la piazza commerciale, il consorzio degli autodemolitori, lo spazio didattico, il parco attrezzato di archeologia industriale, il tecnopolo per la ricerca scientifica, le aree dei piro-gassificatori. Il modello impiantistico intende raggiungere un elevato livello d’efficienza energetica, integrando al contempo i nuovi dispositivi tecno-

logici al paesaggio e alla composizione architettonica, promuovendo l’approvvigionamento energetico totale da fonti rinnovabili, così da rendere la cittadella del riciclo una “macchina” totalmente autosufficiente. In tal senso, la concezione impiantistica prefigurata, già valutata in funzione della normativa D.L. 311/06, è indirizzata al raggiungimento della copertura totale di energia elettrica e termica utile al corretto funzionamento della cittadella. Perseguendo questa logica, il progetto ha inteso promuovere tre strategie fondamentali: la riduzione dei consumi elettrici e termici, la riduzione delle dispersioni termiche per le zone riscaldate, le soluzioni architettoniche realizzate mediante l’impiego di materiali eco-compatibili, il recupero, la valorizzazione e la gestione controllata delle risorse. L’attuazione del PdR è stata prevista mediante la suddivisione in step funzionali, non vincolanti, realizzabili comunque indipendentemente dall’effettivo completamento dell’intero cronoprogramma ipotizzato. * Nel 1952 Enrico Mattei immaginò il nuovo insediamento di Metanopoli alle porte di Milano come un polo di eccellenza e di innovazione destinato a far ripartire la grande industria del Nord. Negli anni '70 la televisione tedesca mandò in onda la serie televisiva Krempoli - ein Platz für wilde Kinder, poi trasmessa anche in Italia con il titolo "Rottamopoli", nella quale si narravano le gesta di un gruppo di ragazzi che avevano come quartier generale un centro di raccolta rottami.

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END OF LIFE BOAT: UN'IPOTESI TIPOLOGICOFUNZIONALE Dina Nencini Maria Clara Ghia L’area denominata Coda della Cometa presenta la rilevante presenza di luoghi destinati al ciclo di vita delle imbarcazioni (depositi, piccoli cantieri e darsene). Man mano che lungo il fiume ci si avvicina alla costale sponde del Tevere appaiono invase da banchine di attracco di barche di diverse dimensioni se non addirittura abbandonate, inoltre nell’area golenale si susseguono capannoni e magazzini. Lungo le sponde dell’Isola Sacra si trovano purtroppo numerosi relitti pericolosamente inquinanti, parzialmente affondati e mal celati fra la vegetazione ripariale. è evidente che ritenendo determinante per quest’area un intervento complesso e artico-lato in tutte le componenti che ne definiscono i caratteri ambientali non è possibile tralasciare il progetto dei luoghi destinati al fine vita delle unità da diporto, seguendo una visione strategica parallela e affiancata a quella del ciclo degli autoveicoli, in cui le filiere vengano analizzate non solo dal punto di vista della loro efficacia economica, ma anche nei loro esiti spaziali e architettonici. Questa posizione è portata avanti negli studi sul tema dell’End of Life Boat, nei quali è impegnata prima fra tutti Ucina Confindustria Nautica, associazione che raccoglie circa cinquecento aziende operanti nel settore del diporto (l’architetto Antimo Di Martino, consigliere con deleghe ambientali di Ucina, è un prezioso interlocutore nella nostra ricerca). L’Italia vanta un primato nel settore della ricerca per la sostenibilità dei materiali della nautica: se negli altri paesi della comunità europea si continua a parlare di smaltimento, sul nostro territorio si è intrapreso con decisione il percorso verso il riciclo. Sono state individuate sette zone in cui realizzare esempi virtuosi di centri per il disassemblaggio e il trattamento dei materiali per la nautica. Accanto ai porti di Genova, Venezia, Pescara, Bari, Agrigento e Napoli, è stata indicata proprio l’area del nuovo porto di Fiumicino per il progetto di un nuovo impianto di up-cycling, in cui i rifiuti potranno essere trattati come materia

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L'area del lungomare di Fiumicino

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prima secondaria da cui ottenere attraverso un processo efficiente materiali ad alta purezza e a rinnovato valore economico. In quest’ottica infatti l’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri dell’ICTP-Cnr di Pozzuoli (responsabile dott. Mario Malinconico) ha sviluppato un’innovativa tecnologia basata sul Waste Sheet Moul-ding Compound in grado di riciclare l’FRP e il polistirolo (EPS), provenienti anche da altre filiere, e di riutilizzarli come materia prima-seconda sia nella nautica che in altri comparti produttivi. Il nuovo materiale che si ot-tiene è un tecnopolimero n-volte riciclabile.L’ipotesi di intervento di riciclo dei veicoli ha una particolare declinazione se riferita alle imbarcazioni. Si tratta di comprendere nell’ampio spettro del riciclo una categoria di veicoli il cui impatto ambientale conseguen-te al loro inevitabile abbandono a fine vita è molto alto. I dati numerici che riguardano i natanti da diporto e le piccole imbarcazioni dimostrano un’entità davvero notevole di abbandoni soprattutto considerando che non esistono numeri di immatricolazione e dunque rispettivi proprietari a cui imputarne il carico. Inoltre la difficoltà di controllare un ipotetico processo virtuoso di recupero dei materiali delle imbarcazioni dismesse ne ha ridotto certamente l’interesse e allontanato l’ipotesi di una formulazione normativa specifica. Le più significative ricerche in materia si attestano su alcune questioni urgenti: la prima relativa al riuso di materiali la cui previsione deve avvenire già in fase di realizzazione del natante, procedendo come per le automobili nella direzione di responsabilizzazione del produttore; la seconda relativa all’ipotesi di sperimentare, come sta già avvenendo, nuovi processi di trasformazione di materiali come la fibra di vetroresina, il materiale più diffuso nella costruzione delle barche, ma anche quello il cui riutilizzo è meno proba-bile senza una manipolazione consistente; infine la necessità di coinvolgere un quadro normativo aggiornato e stringente su alcuni aspetti come l’immatricolazione. Il progetto destinato al riciclo delle imbarcazioni elaborato all’interno del workshop Rome Recycling Drosscapes, allude con una metafora esplicita alla prua di una nave. Probabilmente si è trattato di una facile associazione che ha portato a ipotizzare il luogo dove si dovrebbe procedere allo smontaggio di una barca per riutilizzarne il più possibile le componenti, come se fosse contenuto all’interno di un grande natante. L’immediatezza può servire a evidenziare che non esiste casistica di progetti e realizzazioni relativa a questi spazi, soprattutto perché è ancora poco diffusa la consapevolezza

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Rappresentazione del ciclo di disassemblaggio e riciclo delle imbarcazioni

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dell’entità inquinante dei relitti. Ma se rispetto alla sperimentazione per il riutilizzo della fibra di vetroresina l’ingegneria dei materiali sta elaborando ipotesi e sviluppando ricerche molto avanzate, non ci sono ancora soluzioni tecnico funzionali per lo smontaggio, smaltimento e riutilizzo delle componenti dei natanti. Prima di tutto va precisato che la barca non è come un’autovettura. Le caratteristiche dei materiali come il legno, la tela, la corda rende questo manufatto più vicino a un prodotto artigianale che industriale. Anche se sappiamo che solo in parte è vero, indubbiamente potremmo verificare come un natante in abbandono appaia meno pericoloso di un’automobile. Di certo non utilizzeremmo il termine rottame. ELB end of life boat esprime da un lato la necessità di attribuire un termine all’abbandono di un natante che sia diverso dagli altri veicoli, ma anche la considerazione che esso ha una vita che lo assimila in un certo senso più a noi che alla macchina. Sempre per riferirsi ai dati numerici sono 27000 i natanti abbandonati o obsoleti, poiché essi sono soprattutto in vetroresina è sul riciclo di questo materiale che si concentrano maggiormente le ricerche per il reimpiego. Si tratta dunque di formulare una ipotesi di programma funzionale per lo stabilimento di smontaggio e riciclo delle barche, che ancora non esiste. Questo è sostanzialmente il tema: elaborare un programma per poter definire uno schema funzionale di riferimento, ma allo stesso tempo presupporre che tale manufatto, l’industria per l’End of life Boat, possa essere inserito in un contesto nel quale innescare un processo virtuoso. Naturalmente le aree più indicate per la localizzazione di questo nuovo impianto saranno soprattutto nei pressi di un porto o addirittura al suo interno. Anche nel caso dei Drosscapes della coda della Cometa l’area portuale di Fiumicino in via di realizzazione, può costituire l’ambito preferenziale di localizzazione e tale intervento può essere considerato un’occasione di innovazione di alcune caratteristiche del porto stesso. Le imbarcazioni che maggiormente sono oggetto di abbandono sono i natanti di dimensione inferiore ai 10 metri, le unità a vela tra i 10 e i 24 metri, le unità a motore tra i 10 e i 24 metri. Ma quali sono le implicazioni spaziali e tipologiche di questa nuova “catena di smontaggio”? Di certo la dimensione dei natanti fornisce un vincolo al dimensionamento degli spazi interni, inoltre l’elenco delle parti che compongono i natanti, e infine le destinazioni a cui i materiali devono essere inviati. Un altro elemento utile alla definizione dello schema funzionale è indubbiamente il livello di smontaggio delle componenti, cioè

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Ipotesi di catena di disassemblaggio di un'imbarcazione in vetroresina

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fino a che punto si arriva nella catena di smontaggio, e quindi se sia ipotizzabile un impianto unitario o distinto in corpi destinati ognuno ad una operazione. Questa ultima considerazione diventa il punto di collegamento con la definizione del rapporto con l’esterno, non semplicemente una questione di contesto, ma piuttosto, l’individuazione di funzioni a supporto dell’impianto di smontaggio e riciclo anche non direttamente connesse ad esso. Nella definizione di quelle che potremmo definire funzioni eventuali e accessorie all’impianto non può non rivestire un ruolo determinante il fatto che si tratterà sempre di insediamenti localizzati in aree costiere o quantomeno nei pressi di fiumi. L’attenzione ambientale che riguarda prima di tutto l’impedimento che sostanze inquinanti si disperdano nelle acque, sposta la nostra attenzione sulla importanza dell’impianto di assumere questo dato non semplicemente in maniera tecnica. Inoltre le funzioni accessorie devono poter smorzare il carattere di industria pesante verso una ipotesi di industria verde e compatibile. Le scelte sono ulteriormente condizionate da piani di investimento e interessi gestionali che all’interno di una struttura complessa come un porto devono essere assolutamente tenuti in conto. L’impianto sebbene collocato sull’acqua per poter facilitare il trasporto dei natanti nella maniera meno invasiva, date le loro dimensioni, dovrà poter avvalersi anche di infrastrutture viarie attraverso le quali inviare tutti i materiali non riciclabili nei centri di smaltimento più prossimi. Nel caso del progetto per il porto di Fiumicino il gruppo che si è occupato del riciclo di veicoli presupponeva anche la realizzazione di una cittadella del riciclo. Secondo un principio di razionalizzazione dei centri di smaltimento che potrebbero essere riuniti in un unico grande centro, o quantomeno in un grande sistema di impianti a cui altri sottentri fanno riferimento. Questa considerazione riguarda naturalmente la necessità di intendere in modo organico e meno occasionale, cioè con soluzioni individuate di volta in volta, un grande sistema per il riciclo. Un sistema la cui efficenza passa soprattutto attraverso il coordinamento di imprese che ne possano trarre vantaggio economico, condizione principale per rendere realizzabile un’ipotesi di tale entità ma anche di tale importanza.

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PROGETTO FIUMICINO_RE BOAT Tutors: Dina Nencini Maria Clara Ghia Dottorandi: Martina Dedda Elnaz Ghazi Elisa Morselli Valentina Nunnari

Il progetto “Fiumicino re_boat” fa parte dell’insieme degli interventi affrontati in Rome recycling Drosscapes, e riguarda il ciclo di vita dei veicoli e in particolare, delle imbarcazioni e dei veicoli nautici. L’interesse principale è di formulare un’ipotesi tipologico/funzionale che possa essere di riferimento per una problematica rispetto alla quale non esistono modelli di riferimento. L’ipotesi progettuale oltre a definire lo schema funzionale sperimentale per la filiera della nautica, ne individua le possibili connessioni e relazioni con l’intorno specifico di questa parte di Fiumicino-Isola sacra. Il caso specifico della Coda della Cometa infatti, presenta numerose situazioni diffuse di cantieraggio per piccole imbarcazioni, sempre al limite del rischio ambientale e nelle quali tutte le attività legate ai veicoli nautici siti fragili. Le rive del Tevere

più vicine alla costa sono occupate da banchine per barche di diverse dimensioni, nell’area golenale si susseguono capannoni e magazzini, costeggiando Isola Sacra si incontrano purtroppo relitti pericolosamente inquinanti, parzialmente affondati e mal celati fra la vegetazione ripariale. Nel delineare uno scenario possibile per il futuro di questo quadrante della città metropolitana non è dunque possibile tralasciare il progetto dei luoghi destinati al fine vita delle unità da diporto, seguendo una visione strategica parallela e affiancata a quella del ciclo degli autoveicoli. Il progetto di un distretto per il riciclo delle imbarcazioni da diporto si colloca strategicamente all’interno del nuovo porto turistico-commerciale di Fiumicino. Questa ipotesi è sostenuta dagli studi in corso nel nostro paese sul tema dell’End of Life Boat, in cui è

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impegnata prima fra tutti Ucina Confindustria Nautica, associazione che raccoglie circa cinquecento aziende operanti nel settore del diporto (l’architetto Antimo Di Martino, consigliere con deleghe ambientali di Ucina, è stato un prezioso interlocutore nella nostra ricerca). L’Italia vanta un primato nel settore della ricerca per la sostenibilità dei materiali della nautica: se negli altri paesi della comunità europea si continua a parlare di smaltimento, sul nostro territorio si è intrapreso con decisione il percorso verso il riciclo. Sono state individuate sette zone in cui realizzare esempi virtuosi di centri per il disassemblaggio e il trattamento dei materiali per la nautica. Accanto ai porti di Genova, Venezia, Pescara, Bari, Agrigento e Napoli, è stata indicata proprio l’area del nuovo porto di Fiumicino per il progetto di un nuovo impianto di up-cycling, in cui i rifiuti potranno essere trattati come materia prima secondaria da cui ottenere attraverso un processo efficiente materiali ad alta purezza e a rinnovato valore economico. In quest’ottica infatti l’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri dell’ICTP-Cnr di Pozzuoli (responsabile dott. Mario Malinconico) ha sviluppato un’innovativa tecnologia basata sul Waste Sheet Moulding Compound in grado di riciclare l’FRP e il polistirolo (EPS), provenienti anche da altre filiere, e di riutilizzarli come materia prima-

seconda sia nella nautica che in altri comparti produttivi. Il nuovo materiale che si ottiene è un tecnopolimero n-volte riciclabile. È stata individuata dunque, nel porto di Fiumicino un’area strategica per la realizzazione di impianti all’avanguardia per l’up-cycling dei materiali nautici, ipotesi ancor più valida se si considera che i processi di smaltimento dell’FRP (vetroresina) sono necessari anche per il riciclo dei materiali degli aerei in disuso, e che quindi la filiera delle unità da diporto potrebbe intersecarsi con quella degli aeromobili del vicino aeroporto, concretizzando una strategia di riqualificazione dell’intera area golenale del Tevere. L’ipotesi progettuale presuppone la delocalizzazione della moltitudine di depositi e piccoli cantieri che si susseguono lungo il corso del fiume e la concentrazione delle funzioni di recupero e smaltimento in un luogo virtuoso, rispondendo da una parte alle necessità di rinaturalizzazione della zona ripariale, dall’altra definendo un tema architettonico imprescindibile per il futuro sostenibile della città metropolitana, il tema di un possibile esempio di centro integrato per la nautica i cui processi potrebbero istituire un modello da seguire in altre parti d’Italia e oltre confine.

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Piero Ostilio Rossi, La terra dei mostri, collage, 2014

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UN RAPPORTO INTERMEDIO DI RICERCA. CONSIDERAZIONI IN FORMA DI POSTFAZIONE Piero Ostilio Rossi

Questo libro raccoglie e analizza criticamente i risultati del workshop Rome Recycling Drosscapes che si è svolto nel settembre 2014 nell’ambito dei programmi del PRIN “Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio”, un programma di ricerca di interesse nazionale al quale partecipano 11 Unità di Ricerca di altrettante Università italiane; le attività del PRIN hanno avuto inizio nel febbraio 2013 e si concluderanno formalmente alla fine di gennaio 2016, mentre, per quanto riguarda la presentazione dei prodotti finali, la scadenza è prevista per la tarda primavera dello stesso anno. All’interno dei programmi dell’UdR della Sapienza, il libro si configura come un rapporto di ricerca intermedio e si colloca quindi in una dimensione processuale di progressivo approfondimento dei temi che sono al centro della ricerca stessa e che riguardano i paesaggi dello scarto e dei rifiuti con una particolare attenzione per i cicli dell’agricoltura, dell’edilizia, delle auto - e dei veicoli in genere - e della nautica. Il workshop RRD ha costituito una seconda occasione di riflessione progettuale dopo quello che si era svolto tra gennaio e febbraio dl 2013 sul tema Roma e il Mare. Visioni nel territorio della Coda della Cometa. L’area-

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studio prescelta dalla nostra UdR è infatti la “Coda della Cometa” di Roma, la conurbazione lineare che si sviluppa lungo il corso inferiore del Tevere tra il Raccordo Anulare e il mare. Gli insediamenti che costituiscono questa figura territoriale - che raggiungono ormai la popolazione e l’estensione di una città di medie dimensioni - sono distribuite lungo il fascio infrastrutturale che dai margini sudovest della città consolidata conducono al mare e al Lazio meridionale1. Per le caratteristiche del suo recente e tumultuoso sviluppo, questo territorio ha prodotto una quantità rilevante di paesaggi-scoria: veri e propri sottoprodotti dello sprawl e di un’urbanizzazione troppo rapida, luoghi di concentrazione degli scarti, aree sospese in condizioni di abbandono. Per loro natura, queste aree sono distribuite in modo frammentario e di fuori di ogni strategia urbana poiché obbediscono a ragioni di razionalità minima, senza un piano che ne definisca ubicazione, consistenza e dimensioni, che ne massimizzi l’efficienza e ne minimizzi l’impatto ambientale e paesaggistico. E’ un settore della città sul quale da alcuni anni il nostro Gruppo di ricerca sta concentrando i suoi studi e sul quale ha prodotto interventi a convegni, saggi, libri conferenze ed eventi (vedi il sito http://www.codadellacometa. it/). Qualche mese prima di questo libro, è stato infatti pubblicato il volume, curato da Andrea Bruschi, Portus Ostia Via Severiana, Il sistema archeologico della linea di costa di Roma imperiale, ottavo titolo della collana DiAP PRINT / Progetti edita da Quodlibet. Esistono quindi, ed è bene sottolinearlo, elementi di continuità tra il PRIN Re-cycle e le ricerche sulla Coda della Cometa: essi dialogano continuamente, si intersecano e rifluiscono dall’uno alle altre. Nella stessa direzione vanno i sondaggi progettuali su alcune aree studio che alcuni dei docenti che fanno parte dell’UdR della Sapienza hanno sviluppato in sede didattica negli ultimi anni, nel settore di Ostia Antica (Piero Ostilio Rossi), in differenti settori dell’Isola Sacra (Roberto Secchi e Piero Ostilio Rossi) e sul Litorale tra Ostia e Castelfusano (Orazio Carpenzano)2. In particolare, gli esiti dei Laboratori di Roberto Secchi saranno raccolti in un ulteriore Quaderno della collana PRIN Recycle dal titolo Isola Sacra. Territorio fragile e strategico. Il testo parte da un’analisi del territorio che ne indaga soprattutto la vulnerabilità idrogeologica, il ruolo strategico come affaccio di Roma sul mare e i caratteri morfologici derivanti dalle operazioni di bonifica a cui è stato sottoposto negli anni Venti, con l’obiettivo di ipotizzare strategie di sviluppo sostenibile, basate

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sull’alleanza tra progetto ed ecologia. L’idea base è quella di sfruttare le criticità del territorio e le aree di scarto in esso presenti come risorse e come potenzialità ed utilizzarle come punti di partenza per il progetto urbano; sono individuati sei temi principali che riguardano: l’agricoltura, l’archeologia, il sistema dei canali, la mobilità, le rive e i rifiuti3. Va ricordato che nel workshop WRM del 2013 furono messi a fuoco alcuni temi che hanno poi fatto da cornice o costituito l’armatura di molte delle riflessioni successive: il Parco del Tevere, le infrastrutture dell’acqua, la mobilità sostenibile, i nuovi tracciati territoriali, il Parco archeologico e il waterfront di Roma. Gli esiti del workshop WRM sono stati pubblicati, in forma sintetica, sulla rivista “Rassegna di Architettura e Urbanistica” n. 141, 2013, un numero monografico da noi curato che ha per titolo Roma. Visioni dai territori della Coda della Cometa, mentre, nella loro forma integrale, sono direttamente reperibili in rete4. Il più diretto precedente del workshop RDD può essere considerato il volume I paesaggi dello scarto e dei rifiuti, curato da Carlo Gasparrini, Rosario Pavia e Roberto Secchi e pubblicato nel 2014 come ottavo Quaderno della collana PRIN Re-cycle Italy per i tipi di Aracne; anche in questo caso si trattava di un rapporto di ricerca intermedio che presentava, tra l’altro, gli esiti di una prima mappatura dei drosscapes della Coda della Cometa sviluppata dalla nostra UdR utilizzando forme sperimentali di rappresentazione capaci di sintetizzare una serie molteplice di indicatori5 e basate sulle potenzialità espressive dei sistemi GIS. “Né le aerofotogrammetrie – ho scritto in quel Quaderno - né le tavole tematiche dei Piani Regolatori, né gli studi di ingegneria ambientale e nemmeno le immagini satellitari di Google Earth riescono a restituire una raffigurazione convincente di questa città inversa, diffusa e pervasiva che con logica sistemica si insinua ai margini delle infrastrutture, dei sistemi idrografici, nelle aree neglette, nelle maglie larghe dei tessuti generati dallo sprawl urbano e ingloba edifici in abbandono, complessi industriali dismessi, depositi di ogni genere, discariche. Non sono sufficienti aride carte bidimensionali che individuino le superfici occupate da questi paesaggi-scoria; in esse il degrado e l’incuria sono sterilizzati dalla gamma multicolore delle campiture necessarie a definire legende sufficientemente articolate”6. Un aspetto importante di quell’indagine era costituito appunto dalla legenda, che era articolata, secondo la distinzione canonica, in brownfields,

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greyfields e greenfields; i primi comprendevano le aree relative ai cicli dell’edilizia, degli autoveicoli, dei natanti e dei rifiuti urbani e le aree produttive dismesse; i secondi i luoghi dell’abbandono; i terzi il ciclo dell’agricoltura. Proprio a partire da quella mappa, sono state selezionate le cinque aree oggetto del workshop RRD: l’ex raffineria di Malagrotta, le cave della Magliana, la Centralità metropolitana di Acilia Madonnetta, la foce del Tevere e il porto canale di Fiumicino. Cinque aree complesse per altrettanti luoghi strategici del territorio: due collocate sulla riva destra del Tevere (Malagrotta e Magliana), una sulla riva sinistra (Acilia Madonnetta) e le altre in corrispondenza dei due rami della foce del fiume: la prima lungo la Fossa Traiana (il “Fiumicino”), la seconda a Fiumara Grande, all’altezza del nucleo abitato di Passo della Sentinella. Nel progetto di riciclo dell’area dell’ex-raffineria si è ipotizzato di realizzare, all’interno di un vasto e ambizioso Piano di recupero, un luogo ove concentrare le attività produttive degli autodemolitori; nella cave della Magliana gli impianti per la lavorazione e la vendita dei materiali inerti provenienti da interventi di demolizione e ricostruzione di manufatti edilizi; la centralità di Acilia Madonnetta è stata riprogettata come Centralità Verde produttiva, basata sulla filiera del legno e il riciclo di FORSU e biomasse; sull’area del porto canale è stata prevista la realizzazione di un impianto per il riciclo delle imbarcazioni mentre alla foce del fiume, nella prospettiva della demolizione delle case del nucleo di Passo della Sentinella (che si trova lungo la riva del fiume, in un’area impropria, a fortissimo rischio di esondazione) è stata progettata una walking factory per il riciclo on-site, un impianto per la trasformazione dei prodotti di scarto della demolizione che, una volta esaurito il suo compito può essere smontato e ricostruito altrove. In particolare la concentrazione in alcuni luoghi specifici delle attività di demolizione dei veicoli e dei natanti e di riciclo e vendita dei materiali edili presuppone una strategia di delocalizzazione delle stesse attività dalle aree di pregio della Coda della Cometa – e più in generale della città consolidata – per destinare le aree rese così disponibili a funzioni differenti (ri-ciclarle, appunto) e più consone a progetti generali e ad interventi puntuali di rigenerazione urbana. Un esempio significativo di questa impostazione è la sperimentazione didattica da me svolta nell’ambito del Laboratorio di Sintesi in Composizione urbana (Paesaggio) del CdLM a ciclo unico in Architettura negli anni scorsi (2012-2015)7 e in alcune tesi di laurea che avevano come

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caso studio la rigenerazione di una parte della grande area a forma di fuso compresa tra il sistema via Ostiense-Via del Mare e la ferrovia Roma-Lido all’altezza di via Agostino Chigi ad Ostia Antica e la sua trasformazione in un parco urbano (il Parco delle Saline) nel quale collocare, tra l’altro, la nuova sede del X Municipio di Roma Capitale8. Quest’area infatti è oggi prevalentemente occupata da una serie di impianti di autodemolizione e di depositi e rivendite di materiali edili, anche in virtù della sua facile accessibilità e della sua quasi totale invisibilità per chi percorre la Via del Mare o l’Ostiense. Il tema della costruzione di mappe capaci di rappresentare in forma innovativa e dinamica la realtà dei territori erosi dai drosscapes è stato successivamente al centro di un seminario di studi della rete Re-cycle Italy che si è svolto a Roma, nella sede del Dipartimento di Architettura e Progetto, il 23 marzo 2015. Il seminario, che aveva per titolo “Mappe. Stato dell’arte dell’elaborazione di mappe da parte delle Unità di Ricerca”, ha messo a confronto le metodologie operative delle UdR della Sapienza, della “Federico II” di Napoli, di Pescara, di Palermo, di Genova e di Reggio Calabria; ai lavori hanno preso parte, tra gli altri, Estella Marino, Assessore all’Ambiente di Roma Capitale, Carmine Piscopo, Assessore all’Urbanistica di Napoli e Andrea Grilli, Direttore Generale dell’Agenzia regionale informatica e telematica dell’Abruzzo. Il seminario era organizzato nell’ambito delle attività del Gruppo di lavoro – di cui la nostra Unità di Ricerca è una significativa componente - che coordina la redazione della sezione dell’Atlante Re-cycle relativa ai drosscapes che sarà uno dei prodotti finali della ricerca PRIN. Tre mesi prima, nel dicembre 2014, era stato lanciato dal MAXXI Architettura e da Roma Capitale il workshop internazionale “Roma 2025”9, una consultazione sulle strategie per il futuro prossimo della città (nel titolo è adombrato un orizzonte temporale di dieci anni) che ha come sottotitolo “Nuovi cicli di vita per la metropoli” e che ha visto coinvolta l’intera rete delle Università che partecipano al PRIN10. La formula prevede infatti che a dodici Università italiane (le undici di Re-cycle Italy più Roma Tre) e ad altrettante straniere – scelte dalle prime tra i loro referenti a livello internazionale – fosse assegnato un ambito di studio, di analisi e di proposta corrispondente ad uno dei 25 quadrati di 10 x 10 chilometri in cui è stato suddiviso un quadrato di grandi dimensioni (50 x 50 chilometri), isorientato rispetto alla linea di costa e corrispondente ad una Roma di

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La stazione-ponte di Ostia Antica, nodo di scambio tra ferrovia e mobilitĂ dolce, nella tesi di laurea di Simone Gargano

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dimensioni molto maggiori di quelle del territorio di Roma Capitale: un’area vasta in grado di restituire la ricchezza di potenzialità e di problematiche urbane che la città, nella sua dimensione più ampia, è in grado di generare. Una Roma che forse non si è ancora radicata nella mappa mentale dei suoi abitanti, ma che emerge in filigrana nell’immaginario dei cittadini così come nei flussi che l’attraversano e nei comportamenti di chi vive nei suoi territori. Alla Sapienza, che ha individuato come partner straniero il Department of Landscape Architecture dell’University of Pennsylvania con il suo Direttore Richard Weller, è stato attribuito il Quadrante n. 11 che comprende una parte cospicua del territorio della Coda della Cometa, quello sulla riva sinistra del Tevere compreso tra Acilia e il mare che ha per assi il sistema Ostiense-Via del Mare e via Cristoforo Colombo11. La proposta elaborata per il workshop (Orazio Carpenzano è stato il responsabile del progetto) costituisce uno sviluppo e una sistematizzazione delle nostre riflessioni sul ri-ciclo all’interno del territorio della Coda della Cometa e intende offrire un contributo per invertire i caratteri della sua urbanizzazione assumendo una prospettiva che punta sulle risorse naturali e culturali per assicurare nuovi e più equilibrati cicli di vita alle strutture insediative e ai loro paesaggi. I metodi di indagine e la proposta nel suo complesso tendono infatti a misurarsi con il tema del radicamento dei tessuti urbani nella storia e nella geografia dei luoghi. Essi assumono questo genere di dati come elementi costituitivi per la riattivazione di sistemi e per la riconnessione e rigenerazione urbana degli insediamenti più recenti. Fanno da cornice operativo a questi obiettivi due strategie d’intervento che possono assumere un carattere generale per quanto riguarda il futuro della città di Roma: la demolizione e la densificazione. In particolare, le azioni di densificazione previste dal progetto comportano l’impiego di corpi ambientali (il bosco ne è la più evidente esemplificazione), l’uso di nuovi sistemi residenziali o di servizio e la creazione di spazi aperti di uso pubblico intesi come catalizzatori funzionali della densificazione e come occasioni progettuali per riconfigurare le strutture insediative esistenti. Le nostre analisi hanno messo a fuoco sette temi che caratterizzano il Quadrante e individuano altrettanti nodi di carattere progettuale: Il mare e la nuova configurazione del waterfront di Roma; le figure dell’acqua e l’agricoltura urbana in riferimento al fiume e alla rete infrastrutturale

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Il Parco delle Saline a Ostia Antica nei masterplan degli studenti (in ordine dall'alto) Maria Adele Savioli, Flori Durmishi, Alvaro Marigliani,

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dei canali; il sistema archeologico della linea di costa di Roma imperiale; il bosco della Pineta di Castelfusano; il sistema della mobilità, con particolare riguardo per quella su ferro e per i diversi tipi di mobilità dolce; e i drosscapes e quindi i paesaggi dello scarto e dei rifiuti. Come è evidente, “Roma 20-25” ha raccolto tutto il lavoro di ricerca svolto in precedenza a partire dal primo e dal secondo workshop WRM (2013) e RRD (2014). In particolare da quest’ultimo sono state recuperate le indicazioni relative all’agricoltura urbana e alla trasformazione di Acilia Madonnetta in Centralità Verde Produttiva e l’intervento di re-cycle on site alla foce del Tevere attraverso la walking factory. Dagli esiti del primo discendono invece alcune delle strategie adottate: le infrastrutture dell’acqua e in particolare il sistema della “low line”, la mobilità sostenibile, il sistema archeologico imperniato sulla Via Severiana e il disegno di un nuovo waterfront per Roma. Questo Quaderno può quindi essere considerato un rapporto di ricerca intermedio all’interno del lungo percorso del PRIN Re-cycle Italy e dell’ancor più articolato cammino delle ricerche sulla Coda della Cometa: un primo punto fermo, in termini di sondaggi progettuali alla scala architettonica e urbana, sulle strategie e sulle potenzialità legate alla messa a sistema di una serie di attività produttive legate agli scarti e ai rifiuti del metabolismo urbano di una grande città come Roma e della rigenerazione delle aree di pregio così liberate da usi impropri e dalla presenza di quelli che abbiamo in precedenza chiamato paesaggi-scoria. Siamo convinti infatti che la nuova sfida della modernità consista nel coniugare progetto urbano ed ecologia; non si tratta più, infatti, di assumere un sistema di vincoli dedotti dal quadro ecologico specifico di un territorio come sfondo della progettazione, ma di pensare insieme le reti infrastrutturali e le reti ambientali. Come abbiamo scritto più volte, a questa nostra strategia fa da cornice e da sfondo la tematica dell’As found (un termine coniato da Alison e Peter Smithson a metà degli anni Cinquanta12). As found è la capacità di guardare diversamente e dare nuovo significato a ciò che è ordinario, che attiene alla vita così com’è; è la capacità di progettare raccogliendo tracce e indizi, recuperando segni e significati che appartengono al quotidiano e al sentire comune: è insomma la base teorica di un atteggiamento dialettico tra strumenti disciplinari e realtà che ben si adegua alla dimensione progettuale e alle tematiche del riciclo.

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Il Parco delle Saline a Ostia Antica nei masterplan degli studenti (in ordine dall'alto) Roberto Cannoni e Francesco Ciafardini

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Già quasi cinquant’anni fa, in occasione della mostra sul Grande Numero allestita da Giancarlo De Carlo per la XIV Triennale di Milano del 196813 – la mostra-fantasma che dopo due ore dalla sua apertura al pubblico14 fu occupata da studenti, intellettuali e artisti ed in gran parte distrutta, così che nessuno ebbe mai modo di visitarla – c’era stato chi aveva intravisto uno scenario di questo genere e in particolare la necessità di misurarsi con i prodotti di scarto del metabolismo delle città. In una sala dal titolo La nuova percezione visiva dell’ambiente urbano, gli architetti americani Hugh Hardy, Malcom Holzman e Norman Pfeifer esposero infatti un accumulo di detriti della città contemporanea: rottami di motociclette e automobili, un semaforo, una trabeazione adagiata al suolo, luci e manifesti stradali: l’obiettivo era quello di restituire al pubblico la nuova percezione visiva dell’ambiente urbano al quale il Grande Numero avrebbe dato vita. In quella profetica mostra De Carlo coinvolse, tra gli altri (Arata Isozaki, Archigram, Archizoom, Gyorgy Kepes, ecc), alcuni dei componenti del Team X affidando loro la realizzazione di temi significativi: Shadrach Woods progettò l’installazione L’urbanistica interessa a tutti e a ciascuno, Aldo van Eyck La piccola scala per le grandi dimensioni, mentre Alison e Peter Smithson curarono la sala dedicata alla Decorazione urbana. A partire dagli esiti del workshop Rome Recycling Drosscapes, l’Unità di Ricerca della Sapienza ha poi sviluppato e approfondito, con il fattivo contributo di alcuni dei dottorandi che vi avevano preso parte e con il coordinamento di Roberto Secchi, le tematiche che ne avevano costituito la cornice lungo traiettorie che riguardano; 1. l’aggiornamento e l’articolazione della classificazione dei drosscapes di Alan Berger in rapporto alle caratteristiche della realtà urbana oggetto del nostro studio; 2. la conseguente revisione e adeguamento della mappa dei drosscapes nel territorio della Coda della Cometa; 3. la ricerca di una modalità di rappresentazione temporizzata del fenomeno (attraverso quali processi e quando si sono formati i drosscapes); 4. la collocazione dei drosscapes in rapporto alla struttura morfologica dell’area studio e in particolare alle reti idrografica, degli spazi agricoli, della mobilità, degli spazi pubblici, dei siti archeologici e di quelli di interesse architettonico e paesistico; 5. Il sistema di relazioni tra i drosscapes e le filiere del riciclo: i cicli

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Roma 20-25, il piano d’assetto del Quadrante n. 11

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dell’agricoltura, dei rifiuti solidi urbani, dell’edilizia, delle automobili e dei veicoli in genere e della nautica; 6. le potenzialità di trasformazione dei drosscapes ai fini del riequilibrio ambientale, della messa in valore dei siti archeologici, architettonici e paesistici, del miglioramento della mobilità e dell’accessibilità, del potenziamento della rete degli spazi pubblici e della creazione di una efficiente rete della raccolta dei rifiuti solidi urbani; 7. la valutazione della trasformabilità dei drosscapes individuati per accogliere interventi di trasformazione con conseguenti diagrammi progettuali e simulazioni morfologiche per la realizzazione di progetti pilota; anche in questo caso con una rappresentazione temporizzata delle possibili e successive fasi di realizzazione dei progetti stessi. Questo lavoro sarà anch’esso riunito in un Quaderno della collana PRIN Re-cycle Italy che avrà come titolo (al momento necessariamente provvisorio) Drosscapes: progetti di trasformazione nel territorio dal mare e Roma. Una sintesi di questa parte della ricerca sarà infine riversata in una delle pubblicazioni finali previste dal programma triennale del PRIN che riguarda un Atlante tematico articolato in diverse sezioni, una delle quali dedicata appunto ai territori dello scarto e dei rifiuti. Il volume sarà curato da Carlo Gasparrini con Matteo Di Venosa, Paola Guarini e Anna Terracciano e si avvarrà dell’apporto delle Unità di Ricerca di Napoli, di Pescara e della Sapienza.

Si tratta della via Ostiense, della Via del Mare, della via Cristoforo Colombo e della ferrovia Roma-Lido sulla riva sinistra del fiume, della via Portuense, dell’autostrada Roma-Fiumicino e della linea ferroviaria FL1 (fino al 2013, FR1) Orte–Fiumicino Aeroporto, sulla riva destra. 2 Si tratta di altrettanti Laboratori di Sintesi collocati al quinto anno del Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico in Architettura della Facoltà di Architettura della Sapienza. 3 La seconda parte del volume presenta alcuni sondaggi progettuali prodotti dagli studenti del Laboratorio di Sintesi e dai laureandi. 1

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Il bosco e il mare: il litorale di Castelfusano all’altezza del Canale dei Pescatori con i grandi pontili e il nuovo disegno dell’arenile plastico in scala 1:2000 esposto alla mostra Roma 20-25 del MAXXI

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http://www.codadellacometa.it/ricerche/1_visioni/02-prodotti/01_prodotti.html Cfr. M. Alecci, D. Cerrone, G. Reale, Le aree dello scarto: studi delle relazioni spaziali, in R. Pavia, R. Secchi, C. Gasparrini (a cura), Il Territorio degli scarti e dei rifiuti, Aracne, Roma 2014, pp. 127-140. 6 P.O. Rossi, Le terre dei mostri, in R. Pavia, R. Secchi, C. Gasparrini (a cura), Il Territorio degli scarti e dei rifiuti, cit., pag. 43. 7 Del gruppo docente di quei Laboratori hanno fatto parte, nei tre anni, Andrea Bruschi (titolare del modulo di Architettura degli interni), Francesca Romana Castelli, Francesca Barone. Raffaella Gatti, Gaia Rengo, Flavio Mangione, Gianpaola Spirito; per il modulo di Rappresentazione digitale del paesaggio: Leonardo Baglioni e Michele Calvano. 8 Nel 2014-2015 il tema architettonico assegnato agli studenti riguardava il progetto del Centro culturale e dei servizi del Parco di Ostia e Portus 9 http://www.roma20-25.it/ 10 I risultati del workshop sono stati presentati in una mostra al MAXXI (dicembre 2015-gennaio 2016) e nel volume ROMA 20-25. Nuovi cicli di vita della metropoli, edito da Quodlibet e curato da Pippo Ciorra, Francesco Garofalo e Piero Ostilio Rossi. 11 All’University of Pennsylvania è stato invece assegnato il quadrante n. 3 che è compreso tra La Storta e Boccea ed è attraversato della via Cassia. 12 Cfr. D. Van Den Heuvel, M. Risselada, Alison and Peter Smithson - from the Houseof the Future to a house of today, 010 Publisher, Rotterdam 2004; A.R. Emili, Puro e semplice. L’architettura del neo brutalismo, Kappa, Roma 2008; "L’Architecture d’Aujourd’hui", n. 344, gennaiofebbraio 2003. Numero monografico: Alison et Peter Smithson. 13 Cfr. P. Nicolin, Castelli di carte. La XIV Triennale di Milano, 1968, Quodlibet, Macerata 2011; vedi anche: Catalogo della XIV Triennale di Milano, Milano 1968, “Interni”, speciale XIV Triennale, 1968, “Domus”, n. 466, settembre 1968. 14 Il 30 maggio 1968 4 5

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Finito di stampare nel mese di marzo del 2016 dalla tipografia «la Cromografica S.r.l.» 00156 Roma – via Tiburtina, 912 per conto della «Aracne editrice int.le S.r.l.» di Ariccia (RM)



Re-It 19

Progetti di riciclo

Progetti di riciclo. Cinque aree strategiche nella coda della cometa di Roma è il diciannovesimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Recycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. Questo quaderno può essere considerato un rapporto di ricerca intermedio all’interno del lungo percorso del PRIN Re-cycle Italy e dell’ancor più articolato cammino delle ricerche sulla Coda della Cometa: un primo punto fermo, in termini di sondaggi progettuali alla scala architettonica e urbana, sulle strategie e sulle potenzialità legate alla messa a sistema di una serie di attività produttive legate agli scarti e ai rifiuti del metabolismo urbano di una grande città come Roma e della rigenerazione delle aree di pregio così liberate da usi impropri e dalla presenza di quelli che abbiamo in precedenza chiamato paesaggi-scoria.

19 PROGETTI DI RICICLO CINQUE AREE STRATEGICHE NELLA CODA DELLA COMETA DI ROMA

isbn

Aracne

euro 20,00

978-88-548-9068-8


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