Adozione e dintorni GSD informa - mensile - luglio - agosto 2016 - n. 4
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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - gennaio 2017 - n. 1
luglio - agosto 2016 | 004
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Un bel respiro profon
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Affido eterofamilia perché fa paura
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editoriale
GSD informa
di Luigi Bulotta
psicologia - pedagogia e adozione 6
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Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956 editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org
Un bel respiro profondo, almeno una volta al trimestre di Monica Nobile Esperienza di un gruppo di bambini adottati di Massimo Maini e Daria Vettori
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scuola e adozione
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leggendo
Fattibilità: la scommessa del presente di Greta Bellando
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Parole fuori di Marina Zulian Da “Una scuola aperta all’adozione” di Anna Guerrieri e Monica Nobile Approfondimenti di Roberta Lombardi
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sociale e legale
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trentagiorni
Affido eterofamiliare: perché fa paura di Heidi Barbara Heilegger
redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro Simone Berti, Firenze
ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila.
impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pier Paolo Puxeddu+Francesca Vitale studio associato, Roma
abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org
progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Pier Paolo Puxeddu, Roma
copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile
di Luigi Bulotta
Minori in fuga
editoriale
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Una sentenza della cassazione dei giorni scorsi ha puntualizzato che il minore straniero non accompagnato, che sbarca in Italia, ha diritto ad una immediata rappresentanza legale con la nomina di un tutore da parte del giudice tutelare del luogo dove si trova la struttura di accoglienza. I giudici hanno anche precisato che la verifica delle condizioni per procedere ad una eventuale adozione potrà essere svolta successivamente, escludendo che si possa parlare sin da subito di stato di abbandono. La sentenza, che precisa anche quali siano gli organi del nostro stato che devono farsi carico dei vari adempimenti, ribadisce il principio fondamentale che un minore è portatore di diritti e questi diritti gli sono riconosciuti fin da subito, anche laddove sia straniero e arrivi in Italia in maniera illegale. In Unione Europea nel 2015 sono arrivati più di 89.000 minori non accompagnati, a fronte dei “solo” 23.000 del 2014. Secondo Europol, l’agenzia finalizzata alla lotta al crimine dell’Unione europea, 10.000 di questi bambini sono scomparsi dopo poche ore dalla registrazione e solo una minima parte viene di seguito ritrovata, anche se questo numero potrebbe essere molto più alto in quanto molti bambini scompaiono prima di essere registrati dalle autorità. Sono i numeri di una vera e propria emergenza, e noi non possiamo che essere contenti di un pronunciamento che riguarda i diritti di questi minori, per i quali auspichiamo sempre maggiori tutele, vista la condizione di vulnerabilità in cui versano, che li rende particolarmente esposti ad ogni forma di sfruttamento.
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Adozione e dintorni termina di essere pubblicato nella forma che conoscete
Con questo numero termina così un’importante esperienza che abbiamo intrapreso oltre dieci anni fa per stare a fianco alle famiglie adottive. Non spariremo, continueremo a starvi vicino e a parlare di adozione in tutti i suoi aspetti e sfaccettature, come facciamo da diciotto anni – si, perché quest’anno la nostra associazione diventa maggiorenne. Lo faremo solo in modo diverso, dalle pagine del nostro nuovo sito che è stato appena messo in linea, cercando di proporvi articoli, testimonianze e contributi come abbiamo fatto finora e sui social, dove siete già in tanti a seguirci. Arrivederci.
psicologia-pedagogia e adozione 6
di Monica Nobile pedagogista, counsellor
Un bel respiro profondo, almeno una volta al trimestre
Assistiamo, tutte le volte che prendiamo un aereo, alle istruzioni di comportamento da tenere in caso di emergenza. Magari stiamo distratti, molti di noi le hanno ascoltate mille volte, altri di noi permangono in una sorta di fatalismo che ci fa restare sicuri che tutto andrà bene e non avremo bisogno di mettere in atto alcuna manovra di salvataggio. Eppure c’è una raccomandazione preziosa, che potrà servirci in molti accadimenti della nostra vita, che dovremmo ascoltare con molta attenzione, non solo apprestandoci a volare. Ci spiega, la gentile hostess o il baldo steward, che nel caso avessimo la necessità di ossigeno dovremo prima occuparci della nostra mascherina e poi di quella del bambino accanto a noi. Dobbiamo prima mettere
in sicurezza noi stessi, poiché se non riusciamo a respirare, difficilmente possiamo dedicarci al respiro dei nostri cari. Nella mia personale esperienza e nel confronto con i tanti genitori adottivi che incontro, mi ritrovo spesso a pensare all’importanza del benessere del genitore come premessa per il benessere del figlio. Chiediamocelo dunque, almeno una volta al trimestre, come stiamo e come sta la nostra coppia. Abbiamo personalmente e insieme al nostro coniuge, fiato a sufficienza? O lo abbiamo impegnato tutto nell’affanno della totale dedizione ai nostri figli? Ci siamo riservati un po’ di profondo respiro? Quel po’ che basta per sentire il nostro corpo, per alleggerire la mente, per ritrovare il giusto battito del cuore, per darci un
lungo, appassionato bacio della buonanotte? Perché i figli crescano occorre che i genitori stiano in salute. Intendo una salute psicofisica che comprende un corpo sufficientemente attrezzato e in grado di sopportare i ritmi della vita, una mente ancora in grado di ritrovare l’obiettività e di seguire un ragionamento sensato circa il da farsi, nell’affrontare le difficoltà quotidiane, un mondo emotivo se non in ordine quantomeno sufficientemente orientato nei di punti fermi, nelle sicurezze, nelle isole di salvataggio. Sento di doverlo puntualizzare poiché non di rado mi ritrovo a constatare che nella genitorialità adottiva, credo più che in ogni altro tipo di genitorialità, si vuole far bene, come se quel timbro di idoneità non
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avesse mai smesso di condizionarci un po’, di portarci ancora, dopo anni, a chiederci se siamo davvero all’altezza. In questo voler far bene i genitori adottivi proseguono nel loro percorso di riflessione e di
confronto. Continuano a leggere libri, a partecipare ad incontri e conferenze, ad approfondire, da soli, in coppia, in gruppo, questioni profonde, intime, spinose. Questo modo di vivere la genitorialitĂ rende gli
adottivi speciali, sensibili e attenti. Qualche volta, consentitemi, un tantino ossessivi, forse un po’ esagerati. Senza dubbio questo modo di dedicarsi al proprio ruolo di madre e padre, rende molti di
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questi genitori profondamente responsabili. Tuttavia, non per trovare il pelo nell’uovo, quanto per guardare, con occhio obiettivo, un pericolo che io stessa ho frequentemente corso, credo sia importante stabilire un limite preciso alle proprie reali possibilità. Abbiamo adottato, uno o più bambini, piccoli, grandi, in difficoltà, più o meno carichi di rabbie e di disagi, ci siamo sentiti pronti a farlo e li abbiamo seguiti, cercando di fare del nostro meglio. In questo fare, volevo ricordare a me stessa e a tutti coloro che con me condividono un’avventura tanto impegnativa, occorre guardarsi dentro e domandarsi come va, come stiamo. Fare un bilancio concreto delle risorse a disposizione e sulla base di questo, decidere quanto concretamente siamo in
grado di reggere. Ritrovando una leggerezza ed una lievità fondamentali, affinché sia ancora per noi possibile respirare a fondo, a pieni polmoni. Non ultimo, dobbiamo dare uno sguardo sincero a nostro marito o a nostra moglie, ricercando in noi l’amore che ci ha uniti e valutando se ancora stiamo dedicando un po’ di energie a nutrirlo, quell’amore. Succede che i figli, quelli adottivi in particolare, si dimostrino gelosi e possessivi verso il nostro amore, straordinariamente attenti ad ogni nostra forma di attenzione, verso il coniuge ma persino verso noi stessi. Affamati come sono del nostro interessamento incondizionato, può succedere che si scoccino quando usciamo con gli amici, quando ci facciamo belle, quando viviamo il nostro rapporto di
coppia escludendoli, anche solo per pochi istanti. Succede che questi figli, desiderosi di un amore esclusivo e totale, mettano in atto comportamenti di sfida, aggressivi, oppositivi, come per dirci “sei mio e di nessun altro”. Potrà essere gratificante ma rischia di diventare asfissiante; alla lunga è sano, vitale e fondamentale, credetemi, ricordare quella mascherina che ci cala dall’alto in aereo, dobbiamo prenderla senza alcun senso di colpa, lo dice la hostess, prima di tutto occorre stare bene. Ciascuno con il proprio calendario alla mano segni con una frequenza adeguata gli appuntamenti con sé stesso e quelli con la compagna o il compagno, attimi dedicati al benessere personale e di coppia, tempi sacrificati ai propri figli per il loro bene.
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psicologia-pedagogia e adozione 10
di Massimo Maini psicopedagogista e filosofo e Daria Vettori psicologa e psicoterapeuta
Esperienza di un gruppo di bambini adottati
Alla fine del 2014 abbiamo salutato i ragazzi del gruppo adolescenti di Correggio. Un’esperienza intensa e bellissima, durata più di tre anni. L’idea dei Servizi che, a suo tempo, ci avevano coinvolti, era quella di provare a ripartire con un altro gruppo. Fatto una sorta di censimento, si sono resi conto che nel territorio di Correggio erano presenti un numero maggiore di bambini di età compresa fra gli 8 anni e i 10. Naturalmente questo ci poneva davanti ad una nuova sfida: era possibile pensare a un gruppo di bambini così piccoli? Inoltre, la maggior parte di loro era arrivata da poco tempo, quindi anche questa variabile rendeva l’esperienza differente. Nel precedente gruppo, infatti, i ragazzi non solo erano in pre-adolescenza, ma erano
arrivati nelle loro famiglie molto presto. Avremmo quindi avuto a che fare con bambini la cui esperienza precedente l’adozione era con buona probabilità accessibile attraverso il ricordo, bambini, forse, ancora nella fase di “costruzione di un legame” con la loro famiglia adottiva, oltre a non essere ancora entrati in quel periodo della vita in cui i pari possono divenire “famiglia”. Nonostante fossimo consapevoli di queste differenze, la nostra fiducia nel gruppo e nelle potenzialità dei bambini ci ha spinto a provare. Dunque, abbiamo proposto al Servizio di non attendere la loro adolescenza, ma di partire con una nuova esperienza, tutta da scoprire! Anche con questo gruppo il nostro obiettivo era quello di sollecitare i bambini a
prendere consapevolezza dei propri vissuti e delle proprie storie, condividendo con gli altri emozioni, paure, dubbi, rabbie, contrasti e ambivalenze, aiutandoli a “mettere in parole” il proprio sentire. L’esperienza maturata in questi anni con gli adolescenti, aveva consolidato in noi conduttori la necessità di lavorare sia sul piano verbale che quello corporeo. Dal lavoro con i ragazzi, infatti, avevamo scoperto come, i loro corpi, prima di tutto, fossero luogo generativo di senso, dove la storia di ciascuno era custodita.
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Pur consapevoli di dover lavorare su entrambi i piani anche con i bambini, fin da subito ci siamo resi conto che il lavoro con loro avrebbe però avuto caratteristiche molto diverse da quello svolto con il gruppo degli adolescenti. Non solo per il fatto che l’età determina una differente modalità di interazione, ma anche perché, come già detto, molti di questi bambini erano stati adottati abbastanza di recente e quindi avrebbero portato ricordi e vissuti del “prima”, come qualcosa di ancora molto vivo e determinante, ol-
tre ad un legame con la propria famiglia adottiva come qualcosa di non ancora definito e sicuro. Questi ricordi e vissuti hanno trovato, nel corpo, una prima ed evidente manifestazione. Molti dei bambini presenti del gruppo hanno portato, infatti, una vivacità spesso difficile da contenere. Per alcuni di loro rimanere fermi e condividere un’attività con altri bambini era evidentemente un impegno e uno sforzo notevole. Inoltre il fatto che si lavorasse a partire dal sentire e dalle emozioni, se da un lato indubbiamente
accoglieva un loro forte bisogno, dall’altro attivava ulteriormente una certa iperattività e agitazione. Il corpo raccontava una storia che la mente non era ancora in grado di interpretare e accogliere. Per questo motivo abbiamo dovuto trasformare in itinere, a volte anche nel corso dell’incontro, le modalità di conduzione e le attività da svolgere insieme. Ci siamo resi conto, prima di tutto, che il lavoro vero e proprio non poteva essere mai più di mezz’ora, mentre il resto del tempo doveva necessariamente essere usato per
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aiutarli a trovare una condizione di ascolto, e poi consentire loro di stemperare le emozioni nel movimento, nel disegno o mangiando qualcosa insieme. Quello che stavano chiedendo a noi conduttori era di saper aspettare, tollerare la frustrazione di attendere il loro tempo e concedere loro di sistemare quel diluvio di emozioni. La priorità è stata quella di creare e condividere la sensazione di un “luogo e un tempo” sicuro, protetto e contenitivo che sapesse, attraverso la nostra presenza, rimandare la sensazio-
ne di poter esplorare con la fantasia e l’immaginazione senza troppa paura e timore. Il momento della merenda, ha trovato il suo spazio fra le attività, come momento di pausa, piuttosto che come conclusione, come si era pensato inizialmente. Un altro aspetto che abbiamo dovuto considerare e consentire ai bambini è stata la possibilità di “ritirarsi” momentaneamente dal lavoro di gruppo, individualmente. Magari trascorrendo qualche minuto fuori dalla stanza in cui lavoravano gli altri bambini,
magari sotto un tavolo! Inizialmente noi conduttori, presi dalla preoccupazione del fare, e dal desiderio di non mettere in qualche modo a disagio i bambini, siamo stati presi dall’ansia di andare a recuperare chi temevamo, in qualche modo, “disperso” o “abbandonato”: in realtà abbiamo ben presto preso consapevolezza che spesso erano i bambini stessi a trovare i loro tempi e i loro spazi e a ritornare poi nel gruppo una volta “pronti”. Questa dimensione di “ritiro” è divenuta sempre più una possibilità di “prendere fiato”,
di stemperare le forti emozioni che emergevano in alcuni momenti. Indubbiamente, abbiamo dovuto affrontare il fatto che per molti di questi bambini, in particolare i maschietti, vi era una fatica a trovare con gli altri un ritmo, anche corporeo, nella relazione. Pur non mancando il bisogno desiderio di “buttare fuori”, molti di loro non erano in grado di capire quando e come. Le parole, le frasi e i racconti, anche molto significativi, spesso erano come “lanciati” nel mezzo del gruppo, talvolta nel momento in cui nessu-
no era pronto per coglierli, o a volte come una “bomba” che può esplodere e fare del male. Dunque abbiamo sentito che il nostro compito, come conduttori, sarebbe stato quello di aiutare i bambini a entrare in una dimensione inter-soggettiva, in cui l’altro esiste, e con cui si può comunicare il proprio sentire con il corpo e con le parole in una sorta di “danza” e ritmo condiviso. Non è stato facile comprendere come arrivare a questo. Ci siamo trovati a cercare di raccogliere quanto circolava, trasformandolo non solo in parole, frasi, brevi racconti, domande, ma il particolare cercando di restituirle “a ritmo” con gli altri, in modo che potessero essere ascoltate, riconosciute e in qualche modo anche rispecchiate. Dunque…
“Bambini avete sentito la cosa importante che ha detto G? …ha detto che in istituto mangiava le zuppe…e che gli sembra ancora di sentire l’odore… Cosa sentite? Lo sentite anche voi? Come vi fa sentire?” Ciò che indubbiamente più ci ha stupito è stato il fatto che spesso sembrava di essere nella confusione, ognuno voleva dire la sua, qualcosa di consono, ma anche, apparentemente, “fuori tema”. Poi, in un attimo di silenzio, improvvisamente, quasi come una magia, l’ascolto diveniva attento, da parte di tutti, e improvvisamente tutti potevamo vedere un’immagine, sentire una puzza o provare quell’emozione. Sono stati proprio questi attimi, istanti della durata di una battuta musicale, che ci hanno consentito di comprendere che strada pren-
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dere nel lavoro con i bambini. Non un lavoro prestrutturato, ma piuttosto ci siamo messi alla ricerca di modi affinché questi istanti arrivassero, e si potessero, piano piano trasformare dal tempo di una nota, a vere e proprie melodie, che tutti insieme potessimo suonare e ascoltare. Dal punto di vista pratico tutto questo si è concretizzato in un lavoro in cui la dimensione primaria e corporea è stata privilegiata. Il primo lavoro svolto insieme è stata una attività di art therapy, in cui ciascuno di loro ha rappresentato in un collage su una scatola di scarpe, la propria “scatola”, cioè se stesso. Il suo dentro e il suo fuori. Un’attività da un lato molto divertente, e dall’altro molto profonda. Essendo il primo gioco fatto insieme, è stato chiesto loro di raccontare
agli altri la propria produzione, senza però dare alcuna forzatura o interpretazione. La sensazione, in effetti, è stata quella che in gran parte i bambini avessero costruito qualcosa di ben più ricco e profondo di quanto loro stessi fossero in grado di leggere. Un vero e proprio esercizio di arte, in cui l’artista non si chiede da dove arriva l’opera o non ne dà prima una interpretazione, ma semplicemente crea! Negli incontri successivi abbiamo utilizzato una tecnica di book sharing, cioè di condivisione del libro.
Abbiamo scelto storie in cui si parlasse di adozione, ma anche solo di emozioni e relazioni e attraverso queste, abbiamo vissuto l’esperienza della condivisione gruppale del sentire. I bambini hanno potuto scegliere la posizione desiderata per condividere la storia, per poi, in un secondo momento, provare a raccontare attraverso un disegno o un’attività di art-therapy quanto sentito e vissuto. I libri scelti avevano una fortissima componente evocativa: “Il bambino colabrodo”, “Respira piccolo albero respira” e “La zuppa di
sasso”, storie nelle quali il dare nome al proprio sentire, il valore della cura e la condivisione con l’altro sono raccontati con una modalità molto semplice, ma nel contempo intensa e dolce. I bambini non solo sono stati in grado di trovare una loro dimensione di ascolto e condivisione della storia, ma hanno poi disegnato i
loro “alberi”, lasciandoci stupiti con i loro commenti e ricordi. La sensazione di noi conduttori è stata, infine, quella di compiere con loro uno speciale “svezzamento”, come se il cibo fatto di parole, significati e racconti dovesse essere offerto rispettando i loro tempi: un tempo per assaggiare, comprende-
re che “gusto” hanno certe parole, che sapore lasciano dentro alcuni discorsi o storie. Proprio grazie a questo scambio tra noi e loro, fatto di attese e risposte, ma anche, a volte, frustrazioni e interruzioni, si è trovato il modo e il tempo per raccogliere e condividere le loro “opere d’arte”, le loro storie e le loro emozioni.
Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo Svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell’identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l’attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna.
Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Insegna Pedagogia dell’Affido e dell’Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Parma.
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scuola e adozione
Greta Bellando Pedagogista
Fattibilità: la scommessa del presente 16
“Incontro molto interessante, spero di riuscire a portare qualcosa nella mia classe”, “Ci proverò ma non è semplice, troppe specificità...”, “Non so più come fare... aiutatemi, le ho provate tutte”. Oggi tutti parlano di formazione, il ventaglio delle proposte è variegato, e talvolta così fitto nel suo calendario che appare come una sfida a battaglia navale, in cui si rischia di affondare tutti, poiché è davvero difficile incastrare tutti gli appuntamenti a cui si è chiamati in prima linea. Oggi per i docenti la formazione è obbligatoria, va fatta, così dice il Ministero, così ricordano i dirigenti e allora... si va in cerca del corso che fa al caso proprio. Coloro che giungono a fare formazione rappresentano sempre di più le proprie classi, ognuno porta con sé
il bagaglio personale e quello dei propri alunni; alcuni arrivano affaticati, altri desiderosi, altri disperati, altri ancora determinati, insomma, proprio come accade nelle classi, ognuno arriva con una propria specificità, ma tutti richiedono una cosa: fattibilità! Sabrina, referente adozioni, nonché mio braccio destro nel nostro progetto “Parola d’ordine: Accoglienza” me lo ricorda dal nostro primo incontro, esordì subito dicendomi: “Sarà un progetto apprezzato se sapremo andare oltre!”. Dai suoi racconti percepivo quanto, talvolta, le proposte formative vengano calate “dall’alto”, siano interessanti, coinvolgenti, ma poco pratiche, poco attente a “mettere le mani nella cruda realtà” che ogni giorno ti vuole pronto ad affrontare il bisogno; quando stai in classe, con 25 alun-
ni, non hai tempo di aprire il quaderno, guardare gli appunti, ma hai bisogno di recuperare nell’immediato, quello strumento che quando lo hai sentito ti ha smosso la pancia, facendoti percepire che poteva fare al caso tuo. Nel nostro progetto è stato fondamentale calibrare la formazione a partire dalle classi, costruendo così un percorso per insegnanti che fosse costruito assieme; sono stati gli alunni a porre le fondamenta del nostro lavoro, perché se io mi trovavo in difficoltà, come potevo pensare di riproporre qualcosa, che vedevo in prima persona che non funzionava. La grande ricchezza della formazione si ha quando alla base teorica sappiamo dare concretezza, quando DSA, Bes, ADHD, Adozione ...non vengono inquadriate
solo come un “problema da affrontare”, ma quando indossiamo un nuovo paio di occhiali e sappiamo valorizzarle, renderle in armonia; per fare questo, in quanto formatori, docenti, educatori dobbiamo guardarci dentro e vedere quanto vogliamo/possiamo metterci in discussione. Nella formazione siamo chiamati a prender forma, ciò implica un cambiamento, pertanto il primo passo verso la fattibilità è la necessità di guardarci dentro, di prendere contatto con: quel movimento di pancia che quell’alunno mi smuove, quel dolore che quella storia mi risuona come un eco dentro la testa e quelle lacrime che alle volte vorrei far uscire ma che non posso, perché sennò sarei annientata. E allora, penso che nel fare formazione lo scambio sia davvero necessario, perché prima ancora di partire col “dare” hai bisogno di “ac-
cogliere” e consentire di condividere assieme quel bagaglio fatto di prospettive differenti in quanto uomini, donne, figli, genitori, insegnanti, educatori e molto altro... Nel nostro percorso formativo e nelle varie realtà incontrate sino ad oggi, quando mi trovo di fronte ad una ciurma di insegnanti armati di taccuino, ho sempre un po’ il timore di giungere al termine dell’incontro con quelle frasi riportate all’inizio, così, quando possibile, cerco di partire dal “chi siamo” e perché siamo qui; più volte mi sono capitati gruppi di docenti che solitamente concludevano con me il loro ciclo di incontri e che ancora non sapevano nulla del proprio compagno seduto a fianco, scoprendo poi così, con semplicità, che quel che dico e penso “io”, in fondo anche il mio collega lo vive. Talvolta mi sono capitate situazioni “da manuale”, della serie “Ho
questa situazione, come posso fare?” Ci sto male quando vedo che mi sfida... come posso comportarmi? E allora lì, se il gruppo si conosce, è bello vedere come quello che “tu” descrivi lo vivo anch’io, quello che “io” sento è condivisibile perché non sono il solo, e così “dal basso” giungono le risposte che sanno essere puntuali, precise e soprattutto “fattibili”. Con ciò non voglio dire che funziona sempre così, che le specificità sono solo del presente, che in passato era diverso o più semplice: No! Non potrei dirlo per varie ragioni, ma quel che voglio lasciare attraverso le mie parole è uno spiraglio di speranza in più, perché la direzione presa, volta al cambiamento, possa essere davvero come la desideriamo, fatta non solo di fatica ma anche e soprattutto di possibilità. Ogni volta che ho di fronte degli insegnanti, spero che la loro fatica di essere giunti fino a me, dopo 8 ore di lavoro, possa essere ripagata non solo da un attestato che li metterà al sicuro nei confronti dell’obbligo, quanto piuttosto che assieme sia possibile darci forma, calandoci nella realtà, nelle sue emozioni, nelle sue specificità, affinché insieme si possa costruire una “fattibilità” possibile.
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le relazioni degli leggendo affetti
Marina Zulian responsabile della Biblioteca Ragazzi di BarchettaBlu
Parole fuori
Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi BarchettaBlu di Venezia 18
13. Questo mese: Assomi- abbandonato o se aveva gliarsi di Marina Zulian perso i genitori, ma poco Bisogna assomigliarsi per importava, perché ne aveva trovati altri due. volersi bene? Quando i suoi genitori lo Lo chiamarono Boris. trovarono erano senza figli e ormai disperavano di Inizia così Il richiamo della palude scritto da Davide averne. I dottori erano stati chiari: Calì e illustrato da Marco Voi non avrete figli, aveva- Somà. Boom! Un pugno sullo stono detto. Così, quando vicino alla maco leggere queste prime palude trovarono un neo- righe. I disegni mi avevanato sembrò loro un regalo no colpito e affascinato, gli del cielo e non fecero troppo autori li conoscevo bene per caso al fatto che avesse le altri libri ma quelle prime frasi suscitarono in me delbranchie come un pesce. Non capirono se era stato le fortissimi e contrastanti emozioni. Che fatica riordinare le idee, che atmosfere strepitose ha saputo creare l’illustratore! L’autore non aveva fatto allusioni o giri di parole; era andato subito al punto! Decido di proseguire la mia avventura con questo magnetico albo illustrato.
Si racconta di come quel bambino cresce, gioca, mangia e ride come gli altri bambini. Di come va in bicicletta, si arrampica sugli alberi va scuola e come tutti i bambini impara cose utili e anche qualcuna inutile. All’improvviso, dopo anni felici, o perlomeno non infelici, Boris sente un soffio di vento, sente un odore che va a smuovere qualcosa nel profondo dei suoi ricordi. Sente l’odore della palude e si chiede come sarebbe stata la sua vita se fosse rimasto là. Lo chiede anche ai suoi genitori che rispondono semplicemente che gli volevano bene e che altrimenti avrebbe rischiato di morire. In Boris però le domande non si fermano, continuano a giragli per la resta, a non farlo dormire, e a fargli avere la sensazione di soffocare.
Bibliografia Il richiamo della palude Davide Calì, Marco Somà, Kite Edizioni, 2016
Ciò che aveva era ciò che desiderava o quello che altri avevano desiderato per lui? Una mattina Boris inizia a seguire il richiamo della palude, del suo odore e si convince che fino ad allora aveva vissuto una vita che non gli apparteneva, in un mondo che gli era estraneo. Inizia nella testa e nel cuore del bambino una nuova fase; incomincia a percorrere una strada nuova alla ricerca delle sue origini; un viaggio, forse ineludibile, per trovare la verità e per cercare di comprendere la propria profonda identità. Le domande continuano e Boris vorrebbe darsi delle risposte. Nella palude trova molti altri che gli assomigliano con branchie e occhi sporgenti; si rende conto che si era sempre sentito diverso e che non aveva neanche mai immaginato che
potesse esistere qualcuno di simile a lui. Inevitabilmente il bambino pensa di aver trovato una nuova famiglia, la sua vera famiglia. All’inizio Boris ride come non aveva mai fatto prima ma, dopo qualche tempo, vede delle differenze tra se e quelli che gli sembravano uguali a lui: gli altri ridevano, mangiavano e parlavano diversamente.
come figli e come genitori. E in tutto questo cosa fanno i genitori di Boris? Non lo chiamano, non lo supplicano di tornare a casa, non lo ricattano emotivamente. Vanno spesso alla palude e gli lasciano dei messaggi appesi agli alberi o dentro in bottiglia: Se tu sei felice dove sei, siamo felici anche noi.
Quanto uguali sono le per- Che brividi. Si può essesone alle quali ci sentiamo re veramente dei genitori così profondi e comprensivi. uguali? Difficile dirlo. Come si può non pretendeGià, quante domande frul- re niente dai propri figli? lano ora nella mia testa e E io, come mamma, saprò come batte forte il cuore nel dare ai miei figli quell’amore incondizionato del quale leggere queste parole. Un albo illustrato che non parla questo libro? Ai figli dà risposte precostituite, spesso chiediamo, magari che fa riflettere, che met- in modo indiretto, una grate in risalto le difficoltà e titudine che ci gratifica. le criticità delle scelte che Ma ne abbiamo davvero disi fanno nella propria vita, ritto?
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In questo suo percorso ad un tratto Boris sente nostalgia dell’odore di casa e non solo. Non si sente rassicurato e questi pensieri lo riempiono ancora una volta di disperazione e insicurezza. Sembra quasi voler mollare tutto, voler lasciarsi andare, voler morire. Boris lasciò la sua nuova famiglia. Forse, pensò, io sono solo e unico. Per quello sono nato senza famiglia. Per quello non posso averne una. E con questo pensiero si immerse nella palude e camminò sul fondo fino a perdersi. Ancora una volta Davide Calì non fa giri di parole, affonda con le sue parole fino dentro al cuore. Mi chiedo a che età un bambino possa leggere questo albo illustrato, che come tale normalmente è rivolto a bambini anche piccolissimi. Sicuramente un genitore deve essere preparato, averlo letto primo. Letto e riletto come ho fatto io per capire se è veramente giusto affrontare in questo modo temi così delicati. Vedo Boris con gli occhi
chiusi, in fondo alla palude. Intorno a lui foglie, alghe, radici, animali che nuotano indifferenti. Sono disperata anch’io. Sono là, nella palude con le mie domande, senza trovare risposte. Mi faccio forza e giro pagina. Sbarro gli occhi come una bambina. Siamo sempre in fondo alla palude ma l’atmosfera è completamente cambiata. La magia questa volta la fa anche il bravissimo illustratore Marco Somà: incastrate sul fondo della palude ci sono tante bottiglie; in ognuna c’è un fiore luminoso e un biglietto, una foto, un ricordo. Tutti i biglietti dicevano: Se tu sei felice dove sei, siamo felici anche noi. Quante bottiglie abbiamo lasciato noi genitori ai nostri figli? Quanti messaggi abbiamo lanciato loro? Quante domande suscita ancora in me questa commovente e coinvolgente storia? Boris capisce che i suoi genitori lo vogliono anche se non gli assomigliava ed esce dalla palude incamminandosi verso la città. Si ferma
un attimo, respira ancora l’odore salmastro ma poi ritorna da dove è venuto, con il suo cane, la sua bicicletta, gli occhi sporgenti e le simpatiche branchie. Quanto uguali a noi devono essere le persone alle quali voler bene?... Forse quelli uguali a noi sono semplicemente coloro a cui vogliamo bene e quelli che ce ne vogliono? Domande, ancora domande. Questa coppia di autori riesce in maniera leggera e profonda allo stesso tempo a farci interrogare sulle difficili dinamiche della vita fra genitori e figli: la capacità di amare a prescindere dalla somiglianza, la necessità di lasciare liberi i propri figli anche quando fanno scelte che vorremmo non facessero. Poche parole precise e dirette si accompagnano a immagini originali e raffinate. In particolare mi ha colpito come l’illustratore abbia unito armoniosi elementi della natura con elementi più schematici. Il vento e i riflessi dell’acqua ci avvolgono, ci accompagnano e ci
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riempiono di suggestioni. Dopo aver letto la storia si può ritornare indietro, pagina dopo pagina, e soffermarsi a vedere i particolari dei disegni: foglie, rami e radici mi hanno catturata, le bottiglie mi hanno fatto scendere una lacrima, gli occhioni di Boris, quando si sono riaperti, mi hanno ridato speranza nella vita. Consiglio in primo luogo questo libro a tutti i genitori; possono tenerlo come un punto di partenza per ragionare sui tanti e non semplici messaggi che rimanda; ciascuno di loro saprà decidere se condividerlo con il proprio figlio. Ripercorro all’indietro le pagine del libro e torno alla prima. Dentro di me sento delle delusioni, delle indecisioni e delle contraddizioni. Mi soffermo sui messaggi
che potrebbero lasciare alcune parole e immagini del libro. Mi interrogo sul fatto che nella prima pagina si scriva che ai nuovi genitori poco importava se era stato abbandonato o se aveva perso i genitori. Sono convinta che ad un bambino adottato sia importante spiegare bene il motivo per cui i genitori biologici lo hanno lasciato, in modo narrabile a seconda dell’età, trovando il giusto momento e le giuste parole. Quella affermazione mi lascia insoddisfatta: si può lasciare un bambino nell’insicurezza data da quella frase per la quale c’era la possibilità che Boris si fosse perso e che magari i genitori biologici lo stessero cercando? Anche quando si parla di “vera famiglia” si aprono altre questioni. Cerco di rasserenarmi; d’al-
tra parte un libro fa fare un viaggio, suscita un batticuore, pone tanti interrogativi e non necessariamente offre risposte (potrebbero rivelarsi inadatte o stereotipate). Rimango con le mie perplessità e indecisioni ma trovo la certezza di aver letto un libro meraviglioso, un libro che fa fare un viaggio. E allora auguro a tutti i genitori, adottivi e biologici, buona avventura, piena di domande e poche certezze, piena di dubbi e di contraddizioni. Auspico per tutti una vita ricca, di soddisfazioni sapendo che ci saranno anche dolori, con tante difficoltà e peripezie da superare ma anche qualche momento felice. E concludo che, essere genitori, ne vale davvero la pena!
le relazioni degli leggendo affetti
Da “Una scuola aperta all’adozione” di Anna Guerrieri e Monica Nobile Approfondimenti di Roberta Lombardi
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…Di seguito si riportano alcuni giudizi esemplificativi che l’insegnante di italiano ha scritto sui compiti svolti da M. È interessante riflettere sull’utilizzo e la scelta delle parole, più che sui voti, che di per sé rappresentano una misura valutativa. L’analisi logica è stata svolta solo in parte 18/35! Manca la correzione fatta in classe! Eccessiva questa storia finale! Storia molto poco credibile poco curate le descrizioni dei personaggi e degli ambienti (in realtà mancano del tutto) molti fatti raccontati sono molto poco credibili per l’epoca in cui dovrebbero essere avvenuti! Storie troppo brevi, lavoro disordinato: manca il titolo, i fogli non vanno riempiti sino al limite, il lavoro è svolto direttamente (molte correzioni...)
Si tratta di un linguaggio che forse M. non è nemmeno in grado di comprendere fino in fondo, di un linguaggio, soprattutto, che manca totalmente di tono emotivo. Il commento che l’insegnante scrive su un compito è molto importante. Serve ad accompagnare il mero dato valutativo. Dovrebbe servire a spiegare come un allievo potrebbe migliorare. Talvolta dovrebbe servire a incoraggiare, a valorizzare. In ogni caso mai dovrebbe servire ad affossare e mortificare. Il senso dell’atto educativo è quello di portare ciascun individuo, secondo le proprie possibilità, a una crescita. Se il commento è solo negativo, se le parole utilizzate servono esclusivamente a sottolineare la mancanza, se le parole vengono usate solo per giudicare, allora viene meno il
significato dell’educare. Il significato etimologico di educare è quello di condurre fuori, liberare, far uscire. La pedagogia insegna, oramai da molti decenni, che l’atto di apprendere è fortemente legato alla sapienza dell’insegnare. Per imparare, un individuo deve trovarsi nella condizione ottimale che gli consenta di far uscire il meglio di sé. All’insegnante è a dato il compito di creare le condizioni per. È infatti assodato che l’insegnamento non consiste nel mero travaso di nozioni ma proprio nell’accompagnare alla conoscenza. Scrivere su un compito di analisi logica: «compito svolto solo in parte 18/35!» serve solo a sottolineare ciò che è già intrinseco nel voto finale: «4». Il commento, per essere davvero utile, dovrebbe dare un’indicazione per il miglioramento,
come per esempio: «Vedo che hai qualche difficoltà a riconoscere il complemento di termine, puoi trovare una buona spiegazione nella tal pagina del tuo libro di testo». Poiché un brutto voto può sempre avere l’effetto di mortificare la persona che lo riceve, sempre ricordando che il significato dell’insegnare è quello di promuovere, far nascere e far crescere il desiderio di imparare, nei commenti che
accompagnano il voto è importante sempre ricordare il valore della relazione affettiva ed empatica. Poche parole sono sufficienti per trasformare un fallimento in una prova migliorabile. Si può scegliere di scrivere «Compito svolto solo in parte: quattro», oppure «Hai svolto bene una parte ma dobbiamo lavorare insieme per migliorare la tua conoscenza dei complementi perché tu possa arrivare
alla sufficienza... quattro». Il quattro resta quattro, il sentimento che provoca è però molto diverso. Ancora più interessanti sono i commenti che accompagnano la produzione di testi. Sono giudizi. Giudizi arbitrari. Giudizi che mai potrebbero aiutare il perfezionamento. Perché puntano il dito sullo stile personale dell’allievo. Soprattutto sono giudizi che danno per scontato che chi sta in cattedra possa dettare legge, anche rispetto all’espressione creativa. «Eccessiva questa storia finale» non è un commento per aiutare l’allievo a migliorare, è solo spregiativo, oltre che rappresentare un giudizio arbitrario e discutibile. «Storia poco credibile, finale eccessivo», sono pensieri che ciascuno di noi può fare leggendo un libro o un racconto, un libro può piacere o non piacere
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ma non necessariamente questo ha a che fare con la capacità di scrivere dell’autore. L’insegnante di lettere aiuta o dovrebbe aiutare i propri allievi a esprimere i propri pensieri, in forma corretta e possibilmente originale. I pensieri e le
fantasie restano e devono restare diritto di ogni singolo individuo a pensare come crede e a immaginare secondo la propria personale modalità. In questo caso, tra l’altro, se l’insegnante fosse stata un po’ più colta, avrebbe ricordato che
M. proviene dall’America latina, e che la letteratura di quella parte di mondo è spesso magnificamente esagerata. … Occorre che la scuola possa uscire da una logica del ‘profitto’ e in alcuni
casi (e gli adottivi sono tra questi) premiare il movimento, prima ancora che il risultato. Chiediamoci: da dove partono questi ragazzi? Quale percorso hanno svolto sinora? Che risultati hanno ottenuto e, in previsione, quali risultati ci aspettiamo? Quanto tempo hanno ancora? Questo significa fare un progetto … … Mi chiedo se i docenti, quando parlano di relazioni, abbiano chiara la specificità dell’esperienza di quel ragazzo, che è stato ‘maltrattato’ dal mondo. Sono questi ragazzi cresciuti ‘senza pelle’ (si parla chiaramente di pelle psichica, ma l’immagine rende molto bene il senso dell’esperienza), con le ferite scoperte e doloranti che, per sopravvivere nonostante tutto (perché l’uomo ha mille risorse, anche nelle avversità più
terribili), si sono costruiti delle armature. Sono davvero Ricci Spinosi, a volte respingenti alle relazioni. Ricci spinosi, a volte respingenti alle relazioni… … In questo senso le Linee di indirizzo sanciscono un passo fondamentale, quello della formazione degli insegnanti. Nei mesi successivi alla loro approvazione, tuttavia, la risposta di alcuni docenti alla richiesta di una loro specifica formazione in materia adottiva è stata quella della chiusura, della difficoltà a percepirsi come interlocutori prima della famiglia e poi del ragazzo in una risposta difensiva che attribuisce alla famiglia la responsabilità dei comportamenti, degli atteggiamenti e dei problemi dell’alunno, senza riuscire a osservare e a pensare al proprio allievo empaticamente. In
questi casi, pur non essendoci alcuna manifestazione di disagio o sofferenza all’interno della dinamica familiare, l’istituzione rischia di assumere un atteggiamento poco accogliente… … Le Linee di indirizzo esplicitano con chiarezza i contenuti adatti alla formazione degli insegnanti e dei dirigenti. Per accogliere i bambini adottati, anzi tutti i bambini e le loro famiglie, bisogna mettere al centro dell’attenzione il tema dell’ascolto delle storie differenti avviando un percorso condiviso in cui imparare a co-costruire strumenti per agevolare processi di narrazione. Solo così ci si può autorizzare a sperimentare nuove strategie in una scuola dove, sempre più, ci si trova a ‘contenere’, ‘accogliere’, ‘decodificare’ le diverse storie degli alunni.
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le relazioni sociale degli e legale affetti 26
di Heidi Barbara Heilegger avvocato e mamma di Anand
Affido eterofamiliare: perché fa paura
Non è raro che i media parlino di affido, quasi sempre in un’accezione negativa col rischio di offuscare le potenzialità insite in questo istituto. Preoccupa soprattutto il fatto che si alimenti l’idea che i minori vengono allontanati dalle famiglie senza una reale necessità di tutela, dando corpo alla tesi secondo cui la sotterranea finalità di questi provvedimenti sarebbe quella di consentire a Comunità e case-famiglia di lucrare sulla pelle dei minori. Si tratta di una tesi suggestiva, ma inconsistente. A smentirla sono in primo luogo i numeri. I dati ufficiali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con riferimento all’anno 2012, indicano infatti come in Italia siano stati allontanati dalle famiglie molti meno bambini che in altri Paesi europei
(2,8 per mille contro i 9 per mille della Francia e gli 8 per mille della Germania). E’ vero che questo dato negli ultimi anni è verosimilmente cresciuto ed è destinato a crescere ancora in ragione dell’incremento del numero di minori stranieri non accompagnati sul territorio, ma si tratta comunque di numeri ben lontani dal giustificare l’allarmismo che serpeggia nell’opinione pubblica. Inoltre, non si considera come gli operatori delle Comunità e della case-famiglia difficilmente potrebbero influire sulle decisioni del Tribunale per i Minorenni per il semplice fatto che la decisione relativa a dove collocare il minore è di solito successiva al provvedimento di allontanamento. Quest’ultimo, infatti, da un punto di vista formale, ha luogo attraverso un decre-
to di affidamento del minore al Servizio Sociale con mandato di collocarlo in idoneo ambiente eterofamiliare: potrà trattarsi di una struttura o di una famiglia affidataria. In quest’ultimo caso si realizzerà il c.d. affidamento familiare giudiziale che si contrappone all’affidamento familiare con il consenso dei genitori (art. 4 Legge n. 184/1983). Occorre poi tenere presente che, sebbene la legge lasci ampia discrezionalità al giudice quanto alla scelta dei provvedimenti da adottare a tutela di un minore, la giurisprudenza è orien-
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tata nel senso di adottare dapprima quelli meno invasivi – ad esempio la prescrizione ai genitori di sottoporsi a terapie psicologiche o di intraprendere percorsi di recupero dalla dipendenza da alcol o stupefacenti o l’incarico ai Servizi di svolgere determinate attività a sostegno del minore – e quelli, invece, via via sempre più limitativi della responsabilità genitoriale solo in caso di insuccesso delle misure più blande sperimentate in precedenza. Ma vi è di più: anche quando interviene una limitazione della responsabilità sarà possibile
affidare il minore all’Ente competente per territorio mantenendo comunque il collocamento presso il genitore se l’ambiente domestico è idoneo ad ospitarlo e la qualità del legame affettivo è tale da sconsigliare l’allontanamento. In altre parole l’allontanamento è certamente possibile, ma verrà disposto in via di urgenza solamente nei casi più gravi, quando procrastinare l’intervento potrebbe risolversi in un maggior danno per il minore – un esempio per tutti quando vi sia il sospetto di abusi sessuali o maltratta-
menti– oppure se i precedenti tentativi di intervento si siano dimostrati fallimentari. Non ci si deve mai dimenticare che i provvedimenti adottati dal Tribunale per i Minorenni hanno una funzione protettiva nei confronti dei minori e non punitiva dei genitori: l’unica, vera ratio che li legittima è quella di evitare che in futuro si ripetano atti dannosi oppure che si protraggano nel tempo le conseguenze negative di comportamenti pregressi. Ciò che rileva è da un lato la condotta obiettiva del genitore, dall’altro
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il pregiudizio per la prole. Coerentemente con la funzione descritta non avrà, invece, alcun rilievo il carattere doloso del comportamento. In parole semplici l’atteggiamento pregiudizievole del genitore potrebbe non essere intenzionale ed anzi addirittura inconsapevole: è questo, ad esempio, il caso della malattia mentale. D’altra parte bisogna evitare deduzioni semplicistiche ricavandone la conclusione che il disagio psichico del genitore comporti sempre e necessariamente un intervento del Tribunale per i Minorenni: ciò infatti avverrà solamente se il disagio psichico che lo affligge arreca oggettivamente danno al figlio o lo pone in pericolo. Non esiste – né alla luce di quanto sin qui detto potrebbe essere altrimenti – un elenco tassativo di comportamenti tipici che giustifichino l’allontanamento del minore ed in generale l’intervento del Tribunale dei Minorenni nella vita familiare: bisognerà valutare per ogni singolo caso sottoposto all’attenzione del giu-
dice prima se un intervento è necessario e, poi, quale, escludendo le misure più drastiche se la tutela del minore è altrimenti conseguibile. D’altra parte, nei suoi ripetuti interventi, la giurisprudenza ha spesso avuto modo di mettere in guardia contro i rischi legati alla c.d. violenza indiretta o assistita che si realizza quando quest’ultima – sia essa fisica o psicologica – viene perpetrata da un genitore nei confronti dell’altro e non direttamente nei confronti del figlio. Si tratta, infatti, di comportamenti che alterano l’atmosfera familiare e possono comunque pregiudicare la crescita equilibrata di un minore, in particolare il modo di vivere e percepire le relazioni di coppia anche nella propria vita futura. Quest’ultima parrebbe una considerazione piuttosto ovvia, eppure non è raro che l’autore della violenza legga nell’intervento del Tribunale per i Minorenni una indebita ingerenza, argomentando come lo stesso si lasci coinvolgere in dinamiche di
coppia che non riguardano i figli. All’opposto, come accennato poco sopra, la patologia psichica del genitore o, per citare un altro tra i diversi, possibili esempi, l’esercizio della prostituzione da parte della madre, escluderanno la legittimità dell’intervento del giudice qualora di per sé non comportino alcun pregiudizio per il minore. La circostanza descritta è meno singolare di quello che si potrebbe pensare: il supporto di una valida rete di parenti o amici o l’aiuto di professionisti competenti possono rappresentare importanti risorse e fattori di protezione del minore rispetto a comportamenti o scelte del genitore che potrebbero altrimenti arrecargli disagio. Per liberare poi il campo da un equivoco spesso alimentato dai media è doveroso sottolineare come a giustificare l’intervento del Tribunale non potranno mai essere semplici difficoltà economiche. Quando, infatti, in un provvedimento si parla di povertà familiare non si fa solo riferimento alla pover-
tà economica, ma si allude ad un contesto degradato anche sul piano morale ed affettivo, e comunque la condizione finanziaria non può essere l’unico elemento a determinare un allontanamento. La grave inadeguatezza dei genitori potrà tranquillamente non avere relazione alcuna con la limitatezza dei mezzi economici identificandosi, invece, con atteggiamenti di trascuratezza
e con l’incapacità di riconoscere i bisogni, anche emotivi, dei propri figli. Certamente nel concreto saranno sempre possibili errori di valutazione così come in ogni altra vicenda umana: proprio per questa ragione i provvedimenti dei Tribunale per i Minorenni sono sempre reclamabili se definitivi (mentre quelli provvisori sono comunque modificabili o revocabili in corso di causa). Se dunque
per ipotesi un Tribunale allontanasse un minore solo perché la famiglia ha delle difficoltà economiche ci troveremmo di fronte ad una decisione sbagliata, un abuso rispetto al quale si potrà agire per ottenere la rettifica della decisione. Con la sola eccezione del provvedimento che dichiara lo stato di adottabilità del minore – che ne presuppone lo stato di abbandono morale e materiale – tutti gli altri provvedimenti, anche i più gravi, ipotizzano una situazione compromessa, ma non irreversibile: il genitore dichiarato decaduto potrà essere reintegrato nella responsabilità, il minore allontanato far ritorno in famiglia una volta che siano state rimosse le ragioni che ne determinarono il collocamento in ambito eterofamiliare. Una volta compresa natura e finalità dei provvedimenti del Tribunale per i Minorenni – che, come visto, non implicano necessariamente il collocamento del minore in ambito eterofamiliare, ispirandosi ad un principio di gradualità – si compren-
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de anche come il problema del numero degli allontanamenti sia in realtà mal posto e fuorviante. Non si tratta, infatti, di verificare se gli affidamenti disposti dai Tribunali per i Minorenni in Italia siano tanti o pochi quanto, invece, di capire se poi vengano realizzati dei progetti individuali per ciascun minore, idonei a consentirne il reingresso in famiglia, nonché se e come questo numero, quale esso sia, possa in futuro venire ridotto con interventi preventivi a supporto delle famiglie potenzialmente in difficoltà. Non è, però, solo la carenza di risorse adeguate e dedicate ad impedire all’istituto dell’affido di esprimere a pieno le proprie potenzialità, ma anche la sfiducia ed i pregiudizi di cui è vittima (testimonianza ne è il ridotto numero di affidamenti
disposti con il consenso delle famiglie di origine rispetto a quelli imposti dal Tribunale). L’affidamento infatti – come è stato giustamente sottolineato - “si dispiega in modo dichiarato nell’area che si costruisce nell’incontro tra due famiglie”1. Questa “genitorialità condivisa” per funzionare deve alimentarsi di fiducia e rispetto reciproco: i genitori affidatari non devono mai dimenticare il carattere temporaneo dell’affido, adoperandosi per il reingresso del minore nella famiglia di origine senza cedere alla tentazione di odiosi quanto inopportuni confronti con quest’ultima; la famiglia di origine deve pensare agli affidatari come ad una risorsa ed opportunità di crescita personale e del nucleo familiare nel suo complesso. I Servizi Sociali dal canto
loro dovranno facilitare l’interazione e la partecipazione di entrambe le famiglie in un progetto di recupero articolato e flessibile che per essere realizzato dovrà prima di tutto venir condiviso. La condivisione di un progetto sarà ancor più impegnativa in relazione agli affidi eteroculturali (negli ultimi anni la presenza di minori stranieri sul totale dei minori fuori dalla famiglia di origine è cresciuta in modo considerevole): oltre alle difficoltà comuni a tutti gli affidi, la diversa dimensione culturale e religiosa rischia di amplificare le incomprensioni ed alimentare la reciproca diffidenza tra famiglia di origine e famiglia affidataria. D’altra parte, nonostante le possibili criticità, l’affidamento si propone come uno strumento di tutela estremamente duttile, capace di
rispondere alle esigenze di una realtà sempre più articolata, complessa. Un ulteriore aspetto da non sottovalutare è legato al fatto che, al di là della bontà del progetto proposto, in alcuni casi il recupero delle competenze genitoriali e di conseguenza il reingresso del minore in famiglia, non sarà oggettivamente possibile. Al contempo, l’esistenza di un legame affettivo coi genitori escluderà il configurarsi della condizione di abbandono richiesta dal legislatore ai fine della dichiarazione di adottabilità. L’affido può rappresentare una risposta credibile
anche in queste situazioni strutturandosi in forme di accoglienza che rinunciano al carattere della provvisorietà e si avvicinano, invece, all’adozione mite o aperta già attuata in altri Paesi. Certamente sarebbe semplicistico se non illusorio leggere in queste nuove forme di affido, non codificate, ma di fatto già sperimentate, una soluzione ad ogni disagio familiare, ma quantomeno hanno il pregio di ampliare il panorama dei possibili interventi a tutela dell’infanzia, una tutela che predilige la flessibilità delle opzioni alle risposte standardizzate. Nonostante le molteplici potenzialità evidenziate e sebbene sia tutt’altro che un istituto introdotto di recente nel nostro ordinamento (è stato, infatti, regolamentato, per la prima volta, dalla legge n. 184/1983), l’affido
resta, nel migliore dei casi, un istituto poco conosciuto, più spesso, a causa dei pregiudizi di cui è vittima, che fa paura. L’impegno degli operatori pubblici, ma anche delle associazioni familiari e di chiunque, a qualunque titolo, si occupi di disagio familiare, dovrà essere quello di svolgere una massiccia opera di informazione per scardinare i preconcetti e luoghi comuni in cui questo istituto resta ancora imbrigliato ed in generale di promuovere una cultura diversa, aperta alla solidarietà familiare. La sfida non è certo semplice: si tratta di far passare l’idea che la separazione, anche da un figlio, può essere necessaria, e soprattutto che separare non vuol dire necessariamente dividere, ma anzi è a volte un passaggio fondamentale per potersi davvero (ri)trovare.
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trentagiorni
In Emilia Romagna vaccini obbligatori per chi frequenta gli asili nido, approvata legge La norma introduce come requisito d’accesso ai servizi l’aver somministrato ai minori antipolio, antidifterica, antitetanica e antiepatite B Adesso è legge, ed è la prima varata da una Regione italiana: per poter frequentare gli asili nido dell’EmiliaRomagna i bambini dovranno essere vaccinati. Lo prevede il progetto di riforma dei servizi educativi per la prima infanzia della Giunta regionale, approvato dall’Assemblea legislativa. Nel ridisegnare i servizi 0-3 anni, la norma introduce come requisito d’accesso ai servizi «l’avere assolto gli obblighi vaccinali prescritti dalla normativa vigente», e quindi aver somministrato ai minori l’antipolio, l’antidifterica, l’antitetanica e l’antiepatite B. Una tutela per i più esposti a rischio contagi «La nostra legge è a tutela della salute pubblica - ha
detto il presidente della Regione, Stefano Bonaccini - cioè delle nostre comunità, e soprattutto dei bambini più deboli, quelli che per motivi di salute, immunodepressi o con gravi patologie croniche, non possono essere vaccinati e che sono quindi più esposti a contagi». Con questa misura, per Bonaccini, si apre la strada perché anche altre regioni seguano l’esempio. La legge è stata approvata con 27 voti favorevoli (Pd), 5 no (M5s) e 10 astenuti (Sel, Ln, Fdi, Fi). L’articolo 6, quello che introduce l’obbligatorietà dei vaccini, è stato votato da Pd, Sel, Fdi, Fi; contrario il M5s, astenuta la Ln.
raggiunto il 93,4% rappresentando un potenziale rischio per la salute della collettività. I genitori hanno cambiato atteggiamento verso le vaccinazioni pediatriche, soprattutto per via di informazioni non corrette e prive di basi scientifiche che vengono diffuse in particolare online. Viceversa, noi abbiamo deciso che la salute delle persone va garantita e protetta, non lasciata a improbabili convinzioni o, per usare le recenti parole sui vaccini del presidente Repubblica, Mattarella, a sconsiderate affermazioni prive di fondamento».
Sempre meno bambini vaccinati «In Emilia-Romagna la percentuale di bambini vaccinati è notevolmente diminuita negli ultimi anni prosegue Bonaccini - dal 2014 è scesa al di sotto del livello di sicurezza del 95% e nel 2015 la copertura per le quattro vaccinazioni obbligatorie ha
Soglia di garanzia oltre il 95% La percentuale di vaccinati che garantisce la migliore protezione a tutta la popolazione deve essere superiore al 95%, limite indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). In Emilia-Romagna tale copertura è stata del 93,4% nel 2015 dopo essere scesa al
di sotto di quella richiesta nel 2014, quando arrivò al 94,5%. Per l’assessore alle Politiche per la salute, Sergio Venturi, «i vaccini sono una delle più importanti scoperte scientifiche nella storia della medicina e rappresentano lo strumento più efficace e sicuro, a livello individuale e collettivo, per proteggere le persone, in particolare i bambini». 32.500 bambini coinvolti Per quanto riguarda più in generale i servizi educativi per la fascia di età da 0 a 3 anni, la riforma tocca un sistema regionale fatto di 1.199 servizi per oltre 32.500 bimbi iscritti. Punti cardine della nuova legge sono più garanzia dell’equità e della qualità dei servizi, peraltro sottoposti a processi di valutazione; l’accreditamento delle strutture private, sinora mai attuato, che viene semplificato ma reso più efficace e che si aggiungerà all’autorizzazione, per un’offerta educativa più
trasparente; la formazione del personale e la nuova collocazione dei coordinamenti pedagogici presso i Comuni capoluogo a seguito del superamento del ruolo delle Province. Fonte: lastampa.it
Save the children: in Italia quasi un minore su tre a rischio povertà La condizione dei bambini in Italia Povertà ed esclusione sociale, case fredde e poco luminose, nessun gioco, niente sport, abbandono precoce della scuola. Questa è la condizione di migliaia e migliaia di bambini e ragazzi, non in un Paese in via di sviluppo ma in Italia. È il risultato della fotografia scattata dal settimo “Atlante dell’Infanzia (a rischio) ‘Bambini, Supereroi’” di Save the Children, un viaggio nell’Italia dei bambini in 48 mappe, presentato oggi a Roma, per la prima volta
viene pubblicato da Treccani. Sempre meno bambini L’infanzia in Italia, dice Save the Children, è un tesoro che va protetto, soprattutto se si considera che i bambini nel nostro Paese sono sempre meno. Il 2015 ha fatto registrare il record negativo di nati: 485.780 bambini, un livello di guardia mai oltrepassato dall’Unità d’Italia. Il tasso di natalità, pari 8 nati ogni 1.000 residenti, si sta abbassando di anno in anno dal 2008, quando era pari a 9,8 su 1.000. Anche i minorenni sono sempre meno: il loro peso specifico sul totale della popolazione è sceso dal 17% del 2009 al 16,5% attuale. I bambini di 4 famiglie povere su 10 soffrono il freddo Il nostro Paese presenta livelli di povertà minorili superiori alla media europea: quasi 1 minore di 17 anni su tre (32,1%) è a rischio di povertà ed esclusione sociale in Italia contro una media Ue del 27,7%. I bambini di 4 famiglie
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povere su 10 soffrono il freddo d’inverno perché i loro genitori non possono permettersi di riscaldare adeguatamente la casa, il 39% contro una media Ue del 24,7%. Più di un minore su 4 abita in appartamenti umidi, con tracce di muffa alle pareti e soffitti che gocciolano, un dato nettamente più elevato della media europea (25,4% contro il 17,6%), mentre l’abitazione di oltre 1 bambino su 10 in famiglie a basso reddito non è sufficientemente luminosa. Un bambino su 20 non riceve un pasto proteico al giorno e non ha giochi In Italia più di 1 bambino su 20 (1-15 anni) non riceve un pasto proteico al giorno e non possiede giochi; più del 13% non ha uno spazio adeguato a casa dove fare i compiti e
non può permettersi di praticare sport o frequentare corsi extrascolastici; quasi uno su 10 non può indossare abiti nuovi o partecipare alle gite scolastiche e quasi uno su 3 non sa cosa voglia dire trascorrere una settimana di vacanza lontano da casa. Pochi investimenti in favore della povertà Per affrontare la questione della povertà, l’Italia, secondo gli ultimi dati Eurostat (2013) destina una quota di spesa sociale destinata a infanzia e famiglie pari alla metà della media europea (4,1% contro 8,5%), mentre i fondi destinati a superare l’esclusione sociale sono pari appena allo 0,7% contro una media europea dell’1,9%. Gli interventi di welfare messi in campo dal nostro Paese per il 2014 sono
riusciti a ridurre il rischio di povertà per i minori del 10%, un risultato che ci pone tra gli ultimi nel Vecchio Continente, considerando che mediamente in Ue gli interventi sociali riescono a ridurre il rischio di povertà del 15,7%. Troppi abbandonano presto la scuola Nel nostro Paese, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che abbandonano precocemente gli studi, fermandosi alla licenza media, supera la media europea (14,7% contro 11%), nonostante negli ultimi 10 anni il tasso di dispersione scolastica si sia ridotto del 7,4%. In Italia, poi, 5,5 milioni di bambini e ragazzi sotto i 15 anni vivono in aree ad alta e medio-alta pericolosità sismica. Si tratta di un territorio che copre circa il 70% delle province italiane che comprende 45 città sopra i 50.000 abitanti che ospitano 900mila minorenni sotto i 15 anni. Fonte: ilsole24ore.com