Adozioni e dintorni - GSD Informa maggio-giugno 2016

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Adozione e dintorni GSD informa - bimestrale - maggio/giugno 2016 - n. 3

GSD informa

AdultitĂ ione Parlare di adoz si Qualche volta

può

ne

Affido e adozio

a scuola



maggio-giugno 2016 | 003

GSD informa

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editoriale

di Luigi Bulotta

psicologia-pedagogia e adozione

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Adultità di Massimo Maini, Daria Vettori scuola e adozione

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Figli che hanno perso più anni scolastici di Monica Nobile Parlare di adozione a Scuola di Greta Bellando

18 giorno dopo giorno

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A scuola si cresce Marta e Alberto leggendo

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Una scuola aperta all’adozione di Anna Guerrieri, Monica Nobile Qualche volta si può di Monica Nobile, Marina Zulian Parole fuori di Marina Zulian sociale e legale

Affido e adozione: due percorsi antitetici Heidi Barbara Heilegger trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro direttore@genitorisidiventa.org; Simone Berti, Firenze

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila;

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Luigi Bulotta

Diritti 2.0

editoriale

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Che un minore sia portatore di diritti è un concetto così scontato che non si sente l’esigenza di doverlo ribadire, anche se purtroppo è spesso disatteso nella nostra società. Tra questi diritti, uno dei più importanti è senz’altro quello ad avere una famiglia, sia perché bene primario, sia perché se un minore è inserito all’interno di una famiglia, saranno gli stessi genitori a garantirgli il raggiungimento degli altri. Ben lo sanno le famiglie adottive che garantiscono questo diritto, accogliendo al loro interno bambini e ragazzi che, per i più svariati motivi, una famiglia non ce l’hanno. Ma la famiglia, intesa come rapporti familiari, è anche un diritto alienabile? Da parte degli adulti certamente si, altrimenti non esisterebbero minori in stato di abbandono. E i minori? Possono decidere di fare a meno di un genitore? Fino a poco tempo fa la risposta sarebbe stata no, che non è una delle facoltà che gli sono concesse, che la famiglia per lui è per sempre, ma è cosa recente una sentenza della Cassazione di segno opposto. Il caso ha riguardato una ragazza quindicenne, figlia di genitori separati che, sentendosi trascurata e ferita dal padre non affidatario, che nel corso degli ultimi anni si era limitato a mandarle degli sms ed a effettuare solo alcune sporadiche telefonate, ha chiesto di interrompere gli incontri col genitore. La Cassazione, confermando la sentenza d’appello, ha valutato la centralità della volontà della figlia, adeguatamente argomentata, di indisponibilità a partecipare ad un progetto di riavvicinamento al padre, senza subire costrizioni in tal senso da parte di servizi sociali e tribunali.


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La volontà manifestata dalla figlia, che il rapporto possa riprendere su base spontanea e non imposta, è stata accettata dalla Corte, che ha affidato ai servizi la responsabilità di monitorare la situazione per offrire supporto al padre per un eventuale recupero del rapporto, nel caso in cui la figlia decida di riprendere i contatti col padre, e ha rimarcato, una volta di più, la necessità che il minore sia ascoltato e che la sua opinione sia presa in considerazione per stabilire quale sia il suo superiore interesse. La sentenza, al netto di qualsiasi strumentalizzazione, ribadisce che la famiglia è un diritto del minore, ma la relazione parentale non può essere considerata un diritto dell’adulto, se non supportata dalla propria presenza e da un concreto interesse nei confronti dei figli.


psicologia-pedagogia e adozione 6

Dott. Massimo Maini psicopedagogista e filosofo Dott.ssa Daria Vettori psicoloca e psicoterapeuta

Adultità

“La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare” (Jovanotti 1999) Oggi il clima del gruppo è un po’ diverso dal solito, qualcuno arriva in macchina, una ragazza manda un messaggio dicendo che è in ritardo per un problema con il treno che proviene dalla città in cui sta frequentando l’università. Alcuni stanno parlando della festa dei 18 anni di una di loro. Il cerchio si forma piano piano e raccoglie queste sensazioni. Noi conduttori ci guardiamo e con un sorriso condividiamo il fatto che “sono grandi”, i loro percorsi di vita stanno cambiando, pensano al futuro. Condividiamo che non sono più quelli che abbiamo incontrato la prima volta, che il tempo è trascorso e con

esso tante parole, gesti e sguardi. Tutto questo ha lasciato dentro di noi una traccia, un segno che porteremo sempre dentro di noi. Ci rendiamo conto di come, buona parte del tempo passato insieme, è trascorso parlando del passato, dei ricordi, di quello che è possibile immaginare o del mistero scritto sulla pelle o nei sogni. Oppure abbiamo affrontato insieme il presente, il qui ed ora, il rapporto con gli amici, con i genitori… Nel corso degli ultimi incontri sentiamo che questi cambiamenti cominciano a prendere una forma diversa, nuova. Sentiamo e condividiamo chiaramente che diventare grandi apre le porte ai pensieri sul futuro, ai progetti possibili: amore, lavoro, figli…temi che, fino a poco tempo, fa

erano troppo difficili da affrontare, quando il corpo esplodeva in una metamorfosi che faceva paura, o quando sorgevano domande mai pensate prima. Le parole di R., trasformano magistralmente le sensazioni in un racconto: “Io ora ci penso spesso a quello che voglio fare nella vita, voglio avere una famiglia, voglio fare l’avvocato…però poi penso ai miei genitori, penso al fatto che tutta la loro vita è stata per me, e mi intristisco, mi spiace per loro…mi fa sentire che un po’ li abbandono”. Queste parole, semplici, immediate, portano con sé riflessioni importanti. Quando un figlio esce di casa deve poter sentire che gli adulti sapranno prendersi cura di se stessi anche dopo, che sono in grado di “reggere” la loro


Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo, svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di MerleauPonty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell’identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l’attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna. Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta. Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Insegna Pedagogia dell’Affido e dell’Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Parma.

partenza, che sopportano un’assenza che non è una perdita, ma una naturale evoluzione e una diversa ed ennesima trasformazione. I figli hanno la necessità di uscire portando con sé una valigia che loro stessi preparano, forse non completa, con “oggetti inutili” o riempita di cose ricevute in dono o conquistate, ma non possono andarsene con una borsa preparata dagli adulti, o da loro controllata. Hanno bisogno di sentire che i genitori si fidano del fatto che sono stati capaci di portare via le cose necessarie, oppure, se hanno dimenticato qualcosa, che se la caveranno. I genitori hanno la necessità e il compito di tollerare, ancora una volta, la frustrazione che il separarsi e l’andare altrove dei figli fa parte del processo stesso

di crescita e che riusciranno, nonostante il fatto che sono partiti non “completi” e incompiuti, a “sopravvivere”. In realtà si parte perché il “compimento” avvenga… I figli appartengono a un futuro a cui i genitori non possono accedere. L’adulto, allora, deve accogliere questa partenza evitando di squalificare chi va (“non ci riuscirai da solo”) o di sentire questo passaggio come un salto nel vuoto o nel nulla. Lasciare andare, senza proiettare in modo eccessivo, sul figlio, la paura di non essere stato sufficientemente capace, il timore di restare solo o addirittura la propria invidia per un tempo che oramai è passato. Se leggiamo questo processo all’interno dell’esperienza adottiva, le cose si fanno forse più complesse.

I genitori adottivi, non solo portano con sé la fatica ad accettare come movimento naturale che il proprio figlio, tanto desiderato e atteso, possa vivere la necessità di allontanarsi e di prendere le distanze, ma anche fare i conti con il fatto che se ne andrà non completamente “riparato”. Questo perché, a un certo punto, il figlio ha bisogno di fare un pezzo da solo, senza mamma e papà, ha bisogno di provare a trovare un senso, anche alla sua storia adottiva, attraverso un percorso individuale, interno e profondo, ribadendo in definitiva, che non c’è bisogno di riparare qualcosa, ma di rinnovare continuamente un racconto della propria vita dandogli un senso proprio e originale. Nel gruppo parliamo di uscire di casa, come una

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cosa faticosa per tutti, è difficile cavarsela da soli, ma in particolare è difficile andarsene senza dover sbattere la porta, senza uno strappo. A volte sembra più facile, rompere e basta, far sentire ai grandi che non possono capire, che non ho bisogno di loro e che “posso stare bene solo altrove”. Oppure arriva forte il pensiero che in definitiva “non sono mai stato bene con i miei genitori adottivi”, perché non sono i miei “veri” genitori. Nell’illusione che pensare in questo modo possa far vivere la separazione dai genitori adottivi in modo indolore. Altrimenti posso non andarmene mai. Rimanere con loro per sempre, non creare mai quella sensazione insopportabile di abbandono, dove si confonde chi lascia e chi è la-

sciato. Preso dalla paura di non potercela fare senza di loro e che loro non possano farcela senza si me. Se cresco mi sento in qualche modo in colpa. Se cambio tutto quello di bello e importante che ho vissuto sparirà! Oppure tutte le colpe che ho dato a loro ricadranno su di me! E anche questo “peccato”, ne evoca un altro, primario. Quando nel gruppo esce la parola “colpa”, qualcuno prende le distanze: “Io non mi sento in colpa, non sono stato io a volere quello che mi è successo, come non sono io che voglio crescere…fa parte della storia”. P. però interviene dicendo: “Non è facile non sentirsi in colpa…io a volte mi sento colpevole di essere nato!”. Il gruppo, si muove tra la

consapevolezza che stiamo parlando di paure, e che non vi è nulla da espiare, e attimi in cui, invece, cresce l’emotività e la sensazione che vi sia un’ineluttabilità nelle loro storie, un destino segnato. Momenti in cui ci si può permettere di essere i creatori della propria storia, ad altri invece in cui non vi è alcuna possibilità di sentirsi liberi, di liberarsi di questa pesantezza che pervade anche il futuro. L’abbandono, quindi, come qualcosa che non “segna” solo il mio passato, ma anche il mio presente e il mio futuro. Vi sono poi i racconti di quello che avviene quando si esce, nel mondo. Gli incontri non sono sempre facili, può capitare di trovare qualcuno che non ti vuole, proprio perché sei diverso, perché sei adottato. Ci sono storie di ragazzi rifiu-


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tati per la loro etnia, o per la paura di quello che può portare la loro storia adottiva. Da amici, fidanzati o dai loro genitori. Quei pregiudizi che i ragazzi hanno dovuto combattere prima di tutto dentro di sé, ritornano riflessi nel mondo esterno che non sa, non capisce, ha paura e rifiuta, mette una distanza. Non è facile vivere queste esperienze. Quelli che “sopravvivono” sono i ragazzi che riescono a vedere questi atteggiamenti come l’espressione di una paura infantile, un’angoscia non elaborata e una visione superficiale. Come un “problema” che in realtà appartiene all’altro incapace di vedere con i propri occhi e di sentire con il proprio corpo. Quando invece si fa avanti la paura che effettivamente l’abbandono possa esse-

re un segno indelebile, un destino ineluttabile, che segna tutta la vita, non solo il passato, ma anche il futuro, allora il rapporto con gli altri diventa veramente difficile. La tentazione è quella di rimanere fermi, bloccati, proprio in quel mondo che probabilmente, in modo inconsapevole, può avere contribuito a rinforzare queste stesse paure dentro di me. Se un figlio adottivo vive in una famiglia che vede la sua differenza, la sua storia, come qualcosa che deve essere “aggiustato e riparato”, la diversità come un limite o un problema da risolvere, allora evidentemente andarsene è difficile. L’incontro con l’altro che mi teme, diventa l’attualizzazione dell’incontro con quella parte interna di me che è temuta, perché diversa. Invece anche

la sofferenza, le ferite, le perdite, raccontano l’identità, così come ciò che ho avuto prima, le braccia che mi hanno tenuto, il cibo che qualcuno mi ha dato, il mio colore, le mie sensazioni. Nello zaino c’è posto per tutto e per tutti. Quando un figlio è cresciuto con la sensazione che la sicurezza viene dall’indifferenziazione, che il dolore passa nella dimenticanza, allora immaginare di essere sufficientemente forti per poter affrontare la vita è difficile e il mondo fuori, come il passato, è sentito come una minaccia. D. in un gruppo per adulti adottati racconta: “Una volta avevo un ragazzo. Mi ha lasciato dicendo: - Sei speciale, ma sei troppo complicata- Sono contenta che sia finita, perché chi sta con noi deve amare la complessità, deve sape-


re reggere quando siamo attraversati dalla paura e cerchiamo di buttare tutto all’aria. Deve essere una persona che capisce e che accoglie queste nostre parti, non che le rifiuta…” Nel libro Essere vivi, Cristina Comencini, racconta di Irene una donna adottata all’età di 6 anni. Ecco uno scambio con il suo compagno: – …Ho capito tante cose anche di noi… – Cosa? – mi ha chiesto sospettoso – Che ci si mette insieme per entrare nella vita dell’altro, nei suoi desideri, nella sua storia, e poi si cerca di cancellarli…La bambina che ero nella mia prima vita è difficile, taciturna e non molto addomesticabile. – Tu sei tante cose oltre lei… - Di nuovo cercava di razionalizzare, di essere

intelligente e logico. – Se tu non vuoi che ci sia anche lei, - ho risposto – renderò il nostro matrimonio impossibile, sarò nervosa ogni mattina, mi addormenterò triste. (…) …qui ho capito che la vera sfortuna è dedicarsi ad un altro, marito, figli, amante, perché con te stessa non ci puoi stare neanche per un secondo, e hai paura di sentirti vuota…sai la camera dell’artista nel vicolo in cui passiamo sempre a Salina? La porta è aperta di giorno e di notte, il vento, la pioggia, il caldo trasformano i mobili, il pavimento, le pareti, non ci vive nessuno eppure sembra di si… – Ci siamo passati anche ieri con i bambini, i bambini si sono fermati sulla porta e mi hanno chiesto, come fanno sempre: chi ci abita?? Nessuno, ho risposto io, e Lorenzo ha detto,

allora è di tutti. – Si, è di tutti…e non devi riordinarla, pulirla, è li, si trasforma, esiste prima e dopo di te… – E allora tutto quello che facciamo non serve a niente, lasciamo tutto com’è? – Al contrario, solo se tu ti accorgi che la stanza è già li, piena di cose, allora quello che fai ha molta importanza. Non serve a riempire uno spazio vuoto, ma a godere di quello che c’è dentro…

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scuola e adozione 12

di Monica Nobile pedagogista - counsellor

Figli che hanno perso più anni scolastici, figli che non vogliono più andare a scuola

Da quest’anno, 2016/2017, parte un’importante riorganizzazione dei percorsi scolastici alternativi ai tradizionali diurni. Vorrei illustrare in sintesi gli elementi salienti descritti nelle linee guida, poiché il termine ultimo per le iscrizioni è l’imminente 15 ottobre 2016. Ritengo tuttavia che sia opportuno approfondire questa tematica, verificandone nello specifico le modalità attuate dalle diverse scuole italiane, poiché credo che molte famiglie possano esserne interessate. Si specifica, infatti, che tale riforma è stata studiata nell’ambito della lotta alla dispersione scolastica, oltre che per l’integrazione degli alunni stranieri. Le linee guida interessano i percorsi di istruzione di I e II livello presso i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA). I

CPIA, Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, sono scuole statali istituite dal Ministero della Pubblica Istruzione, offrono servizi e attività per l’Istruzione in Età Adulta e si rivolgono a cittadini italiani e stranieri di età superiore ai 16 anni e sono istituzioni scolastiche autonome dotate di uno specifico assetto organizzativo e didattico e sono articolati in una Rete Territoriale di Servizio. Dal settembre 2015 sono stati attivati 126 Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, istituzioni scolastiche autonome finalizzate a far conseguire più elevati livelli di istruzione agli adulti e a sviluppare e potenziare le competenze di base necessarie per l’occupabilità e la cittadinanza. L’offerta formativa dei CPIA concerne: percorsi

di Alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana (L2); Percorsi per l’acquisizione del Diploma di Scuola Secondaria di Primo Grado (ex Licenza di Scuola Media); percorsi per il conseguimento del diploma di istruzione tecnica, professionale o artistica, in collaborazione con gli Istituti Superiori; corsi di lingue straniere e informatica in un’ottica di formazione permanente; iniziative per l’orientamento, il recupero della dispersione scolastica, l’integrazione. Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha inviato un’apposita circolare con le indicazioni per le iscrizioni degli studenti ai corsi attivati dai CPIA: ai percorsi di I livello possono iscriversi gli adulti, anche con cittadinanza non italiana,


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che non abbiano conseguito la licenza media. I percorsi di II livello sono aperti, invece, agli adulti che non abbiano conseguito il diploma e anche ai ragazzi che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e che dimostrino di non poter frequentare i corsi diurni. Resta da approfondire quali siano le esatte motivazioni richieste (oltre ad un contratto di lavoro) per i ragazzi dai sedici anni che intendono usufruire di questa risorsa. Le modalità attuative della circolare del MIUR prevedono percorsi più personalizzati basati su un patto formativo individuale, ma anche un adattamento del percorso alle esigenze di vita degli studenti adulti,

con la possibilità di seguirne il 20% a distanza attraverso moduli on line. Sono stati dunque attivati percorsi scolastici, articolati in due periodi didattici: il primo finalizzato al conseguimento del titolo conclusivo del primo ciclo di istruzione (diploma di terza media); il secondo al conseguimento della certificazione attestante l’acquisizione delle competenze di base connesse all’obbligo d’istruzione e relative alle attività comuni a tutti gli indirizzi degli istituti tecnici e professionali. I percorsi di secondo livello, erogati dagli istituti tecnici e professionali, sono articolati in tre periodi didattici: il primo fina-

lizzato all’acquisizione della certificazione necessaria per l’ammissione al secondo biennio con riferimento alle aree di indirizzo del primo biennio, vale a dire che nel primo anno vengono svolti i programmi della prima e della seconda superiore. Il secondo è finalizzato al conseguimento della certificazione necessaria per l’ammissione all’ultimo anno con riferimento alle aree di indirizzo del secondo biennio, ovvero equivale a terza e quarta superiore. Infine il terzo è finalizzato all’acquisizione del diploma di istruzione tecnica o professionale (esame di maturità). In sintesi, i CPIA hanno avviato i percorsi scolastici che consento-


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no di ottenere il diploma quinquennale in tre anni. Da un primo sguardo alle proposte delle Scuole Superiori emerge che l’approccio proposto sia più “adulto”, attraverso una didattica modulare, con una particolare attenzione al mondo del lavoro, alle attività operative e progettuali. Emerge inoltre la commistione d’insegnamento tradizionale e formazione mediata dalle nuove tecnologie per l’informazione e la comunicazione, essendo previsto un pacchetto di ore dedicate alla formazione a distanza. Risulta inoltre interessante la parte dedicata alla formulazione del piano scolastico individualizzato. Risulta infatti il ricono-

scimento delle competenze informali, acquisite nel percorso di vita che possono valere una riduzione di orario delle materie di studio. Ho approfondito, per quanto ho potuto, i progetti avviati nelle diverse scuole pubbliche italiane che si avvalgono delle nuove opportunità offerte dal MIUR. Sulla carta credo che esistano progetti interessanti che possono rispondere alle preoccupazioni delle tante famiglie che hanno un figlio che ha abbandonato la scuola o che ha subito ripetute bocciature. Credo sia interessante anche l’opportunità di frequentare percorsi scolatici diversi nelle modalità e negli approcci da

quelli tradizionali. Nella presentazione dei corsi di diverse scuole emerge la volontà di coinvolgere ragazzi demotivati e negativamente segnati dai percorsi di studi precedenti. Penso che, come sempre, vada poi verificata la reale attuazione delle intenzioni descritte. Penso sia importante raccogliere informazioni in questo senso e metterle in rete affinché le famiglie possano trarre informazioni utili nella ricerca dei percorsi scolastici adeguati per i propri figli, soprattutto quando vivono la difficoltà di un cattivo rapporto con la scuola.


scuola e adozione

Greta Bellando

Parlare di adozione a scuola Una sfida possibile? 16

Se è vero che gli incontri non avvengono mai per caso, quello con Sabrina ne è l’esempio! Ci siamo conosciute nel 2011, motivi ben diversi ci hanno portato ad incontrarci, lei col suo desiderio di diventare mamma ed io col sogno di crescere professionalmente nell’adozione. Da quel primo incontro sono passati già 5 anni, non ci siamo mai perse del tutto di vista, ci eravamo “piaciute” e abbiamo coltivato nel tempo una stima, che è stata la spinta che ci ha fatto re incontrare. Oggi lei è mamma di un bimbo ed insegnante della scuola primaria ed io, che dire, ancora in crescita, mi piace definirmi così... Lo scorso autunno, dopo aver condotto un pomeriggio di formazione, su adozione e scuola nel ponente ligure, Sabrina mi ha contattata per incontrarci, in

quanto referente adozioni, voleva tentare di fare qualcosa anche nella sua scuola; dal tono delle sue parole ho percepito molto entusiasmo, ci credeva davvero in quello che faceva... Dall’inizio ci siamo definite “due iperattive mai diagnosticate!” Era novembre quando ho varcato la porta della sua scuola a La Spezia, in un quartiere non molto grande dove tutti si conoscono; in realtà questa scuola fa parte di un comprensivo molto vasto (ISA 2), bacino di accoglienza di ogni forma di diversità. L’accoglienza, da sempre, è il biglietto da visita di questa scuola, fatta di sfumature, di culture, di specificità “evidenti” ed in armonia tra loro. Ricordo che già ai tempi del Liceo (frequentavo la scuola accanto) quel comprensivo veniva definito

molto “difficile”, una scuola da cui “l’elite cittadina” si discostava, ed ora avevo il piacere di poter osservare con i miei occhi un ambiente di cui avevo tanto sentito parlare. L’incontro con Sabrina è stato “caldo”, come se ci fossimo frequentate da sempre, avevamo in testa obiettivi molto simili con la ricchezza che io possedevo uno sguardo “dall’esterno”, mentre lei dall’interno poteva adattare le risorse alle esigenze concrete della realtà che tutti i giorni poteva osservare. Ci siamo “messe a tavolino”, l’obiettivo era chiaro: volevamo un progetto che parlasse di adozione, di affido...di accoglienza. Inizialmente avevamo pensato ad un progetto di formazione per i docenti, poi ricordo che Sabrina mi fece notare l’esigenza di dare alla formazione an-


che un risvolto “pratico” poiché la scuola è fatta di concretezza; pertanto non potevamo rischiare di finire per impartire “un sapere”, così abbiamo deciso di fare un passaggio inverso, ovvero attraverso l’attività in classe con i bambini, avremmo costruito la formazione ad hoc con gli insegnanti. Coinvolgere i bambini attivamente, ci poteva consentire di vedere le reali specificità ed esigenze che si incontrano, potendo poi costruire una proposta formativa senza dare l’idea di un progetto pensato e calato dall’alto. Altro aspetto su cui ci siamo interrogate è stato: come parlare di adozione? Negli anni abbiamo assistito a tante proposte, ma nella nostra esperienza nel nostro territorio temevamo che parlare di adozione tout court avrebbe fatto sentire qualcuno “escluso”.

A chi non è mai capitato di sentir dire: Perché un progetto sull’adozione? Io in classe non ho bambini adottati! Oppure non volevamo agitare le famiglie adottive dei nostri bimbi, poiché l’obiettivo non era puntare il faro sulla loro vita. Ricordo che all’incontro di presentazione del progetto, a cui avevamo invitato le famiglie, una mamma dal fondo alzò la mano e disse: “Ho paura che queste attività possano attivare qualcosa nei miei figli, sono così tranquilli che temo qualcosa possa cambiare!” Paura legittima direi, e proprio perché sarebbe stato troppo complesso analizzare a priori lo stato di consapevolezza e serenità dei bimbi con “storie speciali”, abbiamo deciso di aggirare “l’ostacolo” non parlando di adozione! State tranquilli, non avevamo “perso

la ragione”, ma solo avevamo in mente una nuova possibilità per far conoscere l’adozione! L’adozione, così come anche l’esperienza dell’affido, ha in sé molte specificità, molti valori, che se accolti e colti in modo adeguato possono davvero essere “per tutti” e non per pochi come alle volte si pensa... Sembra che se non hai adottato o non sei adottivo non ti riguarda... In realtà la vera cultura dell’adozione andrebbe fatta a tutta la società, al di là dell’esperienza diretta. Parlare di adozione significa parlare di accoglienza, di incontri, di lontananza, di sguardi, di affetto, di difficoltà, di relazioni, di paure, di amore, di amicizia... E tanto altro ancora! Pertanto abbiamo parlato di adozione attraverso i suoi “ingredienti” essenziali. Dopo aver scritto il nostro

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progetto (dal titolo infinito) “L’accoglienza e il benessere dei bambini con bisogni speciali. Strumenti e buone prassi per favorire l’inclusione a scuola: adozione e affido”, lo abbiamo presentato a gennaio, o meglio Sabrina in quanto docente referente lo ha portato in collegio docenti; ricordo quelle ore infinite, temevo fosse l’ennesimo “buco nell’acqua” e invece arrivò la chiamata di Sabrina e il suo squillante tono che mi disse: “Ce l’abbiamo fatta!” Che gioia! Ci tengo a sottolineare che tutto questo è stato possibile grazie alla dott.ssa Minucci, dirigente sensibile e preparata che ha creduto con noi in questo progetto; il sostegno e la disponibilità del dirigente sono essenziali affinché si possa concretamente realizzare una proposta di questo tipo. Dal momento dell’appro-

vazione all’attuazione è trascorso un mese, in cui sono state programmate le attività e reperiti i materiali. Attivamente coinvolte eravamo io e Sabrina, assieme ad una giovane psicologa, Veronica, che ha collaborato con noi nella realizzazione delle attività in classe. Sono state coinvolte 7 classi della scuola primaria del comprensivo, le abbiamo “scelte” noi sulla base della varietà delle storie presenti; un aspetto importante da sottolineare è che nella terza ed in una delle due quinte coinvolte, non erano presenti bambini con storie di adozione o affido. Ogni classe ha partecipato ad un ciclo di tre incontri (uno al mese da marzo a maggio) di un paio d’ore ciascuno. Per le due prime classi il tema scelto è stato: “pren-

dersi cura di sé e degli altri”... È importante imparare a conoscerci, cogliere le nostre “imperfezioni” per farne il nostro punto di forza nell’incontro con se stessi e con gli altri. Per la seconda il tema scelto è stato: “la rete familiare”, a chi diamo affetto e chi ci dona affetto, chi portiamo nel cuore nella nostra vita... Per la terza il tema è stato: “il conflitto e le sue forme”; a partire dall’amicizia e dal suo immenso valore, abbiamo scoperto come nasce il conflitto, come poterlo affrontare e quali emozioni ci riserva. Per la quarta si è parlato di “come mi vedo e come mi vedono gli altri” imparando a conoscersi nell’incontro con l’altro, apprezzando e valorizzando le diversità. Per le due quinte coinvolte il tema era la “giusta


distanza” dalla metafora dei Porcospini di Schopenhauer, poiché nelle relazioni con gli altri dobbiamo imparare a rispettare le esigenze di tutti, valorizzando la libertà delle relazioni con gli altri, analizzando le emozioni degli incontri che facciamo nella nostra vita.

glia di ascoltarsi, come se le “tue” emozioni, sono anche un po’ le emozioni “nostre” ... Di tutti.

quanto sia difficile stare in classe, quanto sia difficile essere insegnante oggi. Il clima era quello della comprensione, della condivisione, dell’ironia. I docenti si sono messi in gioco ed hanno creato perfino strumenti da mettere in pratica durante le proprie attività. Ad ogni incontro era presente del cibo e delle bevande, qualche volta si stappava pure lo spumante, poiché l’intento non era quello di “impartire la lezione” quanto quello di stare assieme e di convivere le proprie gioie e i propri malesseri quotidiani (soprattutto perché la formazione giungeva dopo 8 ore di lavoro); rendere gli incontri “goderecci” ci ha aiutato a sentirci tutti più vicini.

Le attività proposte in forma laboratoriale prevedevano delle letture (mai letture dirette sul tema dell’adozione per i motivi citati sopra), la costruzione di libri, collage, attività All’inizio di ogni incontro di gruppo, attività manuavi era il rito della “scatola li, pittorico/espressive... dei pensieri”, tanto atteso da tutti; la scatola, intro- Nell’arco dei mesi del prodotta e lasciata alle classi getto abbiamo realizzato al primo incontro, è diven- anche la formazione dei tata nel tempo “patrimonio docenti, con il piacevole di classe”, rifugio sicuro coinvolgimento della dott. per le emozioni di tutti, da ssa Monica Nobile, che poter esternare e, per chi con la sua partecipaziovoleva, si potevano condi- ne ha saputo riprendere videre in momenti scelti il filo delle emozioni degli durante le attività didat- insegnanti e non solo. Gli tiche. Questa attività ci ha incontri con gli insegnanti consentito di darci un sen- hanno cercato di cogliere: so di “unità”; nell’attimo le emozioni che si provano tanto atteso dell’apertura, nelle relazioni con i bam- Ogni mese era attivo anregnava il silenzio e la vo- bini dalle storie “speciali”, che uno sportello di ascolto

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per genitori e insegnanti, motivazione che ci spinge proprio per dare un senso ogni giorno a compiere il di continuità alle attività. proprio lavoro... Ne sono uscite fuori riflessioni che È stato un progetto inten- credo ognuno dei presenti so, tra pregi e difetti, ci ricorderà per la vita. Non siamo messi tutti in gioco è mai banale tornare alle adattandoci alle situazioni origini per ripartire più e alle esigenze. Abbiamo consapevoli di prima. visto i bambini divertir- All’ultimo incontro, consi lavorando su tematiche clusivo del progetto, cui nuove e talvolta comples- ha partecipato Anna Guerse; ci siamo commossi e rieri, ci siamo trasmessi il ciascuno ha potuto cono- desiderio di continuare, di scere un po’ di più se stes- non lasciare che tutto posso, prendendo contatto con sa svanire... Così il prossiquelle emozioni che talvol- mo anno sarà tempo di un ta sono difficili da tirare nuovo progetto e a seguito di questo incontro abbiafuori. Durante uno dei pomerig- mo inviato una lettera a gi formativi con gli inse- tutti i dirigenti e referenti gnanti abbiamo affronta- adozioni della provincia, e to il discorso relativo alla non solo, con l’intento di

costruire una rete di lavoro, affinché tutte le energie possano giungere ad un fine comune, “contandoci di bellezza”. Pensate da quell’incontro con Sabrina quante cose sono successe... oggi siamo qui a progettare ancora insieme con un rinnovato entusiasmo, tenendo ben saldo nel cuore e nella mente il motto che ci rappresenta: “arricchiamoci delle nostre differenze reciproche”. Per chi volesse contattarci o essere “contagiato di bellezza” ... Vi aspettiamo! bellando.greta@icloud.com


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a favore delle famiglie

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giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

A Scuola si cresce 22

12 settembre, primo giorno di scuola. Riusciamo ad essere in ritardo anche oggi! Mia figlia, 8 anni, cammina spedita nell’aria frizzante del mattino. Ad un certo punto si ferma e mi dice: “Mamma, sono agitata”. Penso immediatamente ai compiti delle vacanze non terminati e alla paura che la maestra la sgridi. Glielo chiedo e lei dice no, non è quello che la turba…e mi confida in un soffio: “Ho paura di non essere cresciuta abbastanza”. Teme di essere sempre la più piccola, in mezzo a compagni e a compagne ancora più alte dopo i bagni in mare nelle spiagge assolate. Allora sorrido, le faccio una carezza e le dico che è cresciuta molto quest’estate, di stare tranquilla, che anch’io, la sua mamma, sono sempre stata la più bassa tra le mie amiche, ma che me la sono

cavata benissimo nella vita. Un grande respiro ed entriamo in classe. Il primo giorno di scuola la maestra chiede ai genitori di accompagnare i bimbi in aula, che è già molto affollata e carica di adrenalina. Mia figlia, una volta dentro, sfodera tutto il suo carattere da tigre asiatica e trova posto in uno dei banchi rimasti delle ultime file, di fianco ad una compagnetta più alta di lei di una testa che la sta stritolando per la gioia dell’incontro. Da quella posizione non vedrà mai la lavagna, ma in qualche modo lei o la maestra risolveranno il problema. Dalla mia posizione invece io vedo tutti quei bambini emozionati, molti volti gioiosi, gli occhi brillanti. Ci sono quelli che sfoderano subito, dagli zaini nuovi, gli astucci lucenti, i colori con le punte nuove.

Due cercano di staccarsi da un abbraccio ansioso: forse vorrebbero buttarsi anche loro nel grande caos della classe, ma esitano, si siedono nel banco e continuano a fare ciao ciao alle madri incollate alla soglia. La maestra saluta i bambini e i genitori e annuncia che quest’anno ci saranno due nuovi compagni. Uno si presenta senza timidezza: è peruviano, ma parla un italiano spedito e sfodera un sorriso contagioso. L’altro non è ancora arrivato. Le storie che s’intrecciano in una classe sono sempre molteplici e complicate. Un compagnetto saluta con slancio mia figlia: è quello che chiede sempre a lei - e all’altra bambina adottata della classe - dove sia la sua mamma vera, per poi confidarle che anche lui soffre tanto perché vede poco il papà, separato. La


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gara a “chi soffre di più” non è solo a due. Vanessa non conosce proprio il padre e non sopporta il nuovo compagno della madre. E’ aggressiva, spintona tutti nelle giornate no. E’ arrivata diverse volte con il volto segnato da violenze. Maria è invece rientrata dalle vacanze tutta contenta, perché le ha passate per la prima volta in vita sua con i genitori: durante l’anno vive con i “nonni affidatari” e ora sovraeccitata lo racconta ai quattro venti. Di Ermes sappiamo poco: è sotto tutela dei Servizi sociali e non è mai solo

con la sua mamma. Oscar invece ha lo sguardo molto triste per la sua età, e tanti chili di troppo. Marcella è dislessica, ma non è questo il problema più grosso: sembra una canna sbattuta dal vento e si appoggia alla madre, unico porto limaccioso, ma protetto. Mentre i miei pensieri si affastellano confusi, fa il suo ingresso Abdul, il nuovo arrivato; alle spalle lo segue la madre nel suo vestito scuro che la copre dalla testa ai piedi, lasciando intravedere solo il volto preoccupato. Il bambino è arrivato da pochi giorni

dall’Egitto ed evidentemente non capisce e non parla una parola d’italiano. Un fremito corre tra i genitori presenti: ce la farà la maestra a portare a termine il programma? Io esco dall’aula con tante immagini negli occhi. E una certezza: non so se il programma di storia approderà fino all’impero romano, ma di certo mia figlia, se sapremo accompagnarla genitori e maestre insieme, alla fine dell’anno sarà cresciuta ancora un bel pezzetto.


leggendo Anna Guerrieri, Monica Nobile

Una scuola aperta all’adozione alla luce delle Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati 24

Creare strumenti utili e concreti per contribuire alla costruzione di una scuola inclusiva è una scommessa importante per chi opera con passione nelle scuole, ma soprattutto per i bambini, i ragazzi e le loro famiglie. In questo libro le autrici hanno scelto il punto di vista delle famiglie adottive a partire dalla loro esperienza personale, dalla loro esperienza di ascolto, dai contenuti delle Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati e dalla necessità di vedere questo documento pienamente attuato in ogni scuola. Per le famiglie adottive la scuola ha un significato particolare perché i loro figli portano in classe vissuti molteplici, storie dense di assenze, interruzioni, frammentazioni, colme di eventi critici e traumatici. Non sono pochi i bambi-

ni e i ragazzi adottati che hanno vissuto (e vivono) la scuola con difficoltà proprio a causa di queste tracce ingombranti. Le Linee di indirizzo, scritte per interrompere le criticità riportate da troppe famiglie, sono l’opportunità da cui muove il lavoro delle autrici che, immerse nel mondo adottivo ma al tempo stesso aperte al mondo della scuola nella sua accezione più generale, vogliono offrire riflessioni ed esempi di strategie educative operative nella certezza che la scuola possa (e debba) essere esperienza di crescita armonica e felice. La particolarissima esperienza adottiva è, quindi, occasione preziosa per parlare di una scuola capace di accogliere e creare benessere. Ogni bambino, ogni ragazzo adottato ha diritto ad essere ascoltato senza essere visto solo come parte

di un’unica indistinta categoria. C’è chi ha grosse criticità in classe e c’è chi non ne ha affatto, ognuno però ha una storia, una famiglia di prima e una “arrivata dopo”. Che si tratti di troppi ricordi, che si tratti della loro assenza, per dare lo spazio necessario ad un alunno o un’alunna serve che tra genitori e insegnanti si crei la possibilità di un’alleanza educativa costruita a partire dal reciproco ascolto. Per i bambini e le bambine con storie differenti la vita in classe può rappresentare uno snodo fondamentale, tutore di resilienza o amplificatore di disagio, occupando nelle fasi cruciali della crescita (particolarmente in adolescenza), un posto centrale perché è in essa che si giocano tanto gli equilibri di ragazzi talvolta confusi e incerti del proprio valore, delle pro-


prie capacità e della possibilità di essere amati e “appartenenti”. E’ soprattutto per questi ragazzi e ragazze che le autrici hanno scrit-

to, a partire dalla scuola convinzione che ciò che “fa dell’Infanzia per arrivare male” sia sempre anche rialle Superiori, per loro e sorsa e talento. per tutti gli adolescenti con un’esperienza di dolore nella vita nell’intima

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leggendo Monica Nobile, Marina Zulian

Qualche volta si può 26

Talvolta si pensa che per affrontare temi legati all’adozione occorra scegliere libri di storie adottive. È un atteggiamento ricorrente: libri sugli africani o sugli asiatici per educare alla convivenza tra i popoli, libri sui disabili per educare al rispetto delle diversità. Come se per ogni categoria di umanità ci fosse il relativo scaffale di libri. Perché, invece, non sce-

gliere semplicemente buoni libri, dove ciascuno possa trovare un messaggio importante, una risposta, un’idea, un’occasione di ricchezza e di crescita? Ecco perché, in questo libro, che raccoglie pensieri sull’esperienza dell’adozione, non vengono proposti libri sull’adozione, ma libri emozionanti, libri scelti dalle due autrici, l’una mamma biologica e l’al-

tra mamma adottiva, entrambe mamme che hanno cercato storie preziose da raccontare, oltre e al di là di categorie che spesso stanno strette. È la passione per i buoni libri che permette un incontro e un confronto sulle esperienze di genitorialità, tutte diverse, tutte importanti.


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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Parole fuori

Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi Barchetta Blu di Venezia 28

stagione e di anno in anno, il cielo cambia. Il tempo passa e il cielo si trasforma. La natura è in costanNuvole al burro Vento di te mutamento e con lei le velo nostre sensazioni. Zucchero azzurro su Il libro Ciao Cielo è un albo bianco di cielo … illustrato emozionante, Ma il tempo cambia leggero e forte allo stesso nuvole arrivano tempo, dove illustrazioni e vento si arrabbia freddo parole ci catturano. da brivido Mi sono innamorata di Grigio su grigio, monta questo libro alla prima letnel cielo Un temporale più nero del tura per la poetica traduzione di Bruno Tognolini, nero. per le grandi illustrazioni ma soprattutto perché parla di come tutto cambi e si trasformi continuamente. In tutte le nostre vite ci sono dei cambiamenti, ma nei bambini questi vengono sempre vissuti in modo forte ed energico. E’ come se il cambiamento fosse in agguato maggiormente nelle vite dei Tutti i giorni, ogni mattina bambini e dei ragazzi con e ogni sera, di stagione in i quali appare in modo pre12. Questo mese: Cambiamento

potente e non graduale; quasi sempre li sorprende, li frastuona, li travolge e li sconvolge. Le immagini a tutta pagina ci offrono paesaggi di campagna e interni di case raffigurando una realtà che ci è famigliare, che ci è vicina e ci invita a tuffarcisi dentro. Le semplici parole di Dianne White sono ben ritmate e ci coinvolgono in una atmosfera accattivante. I brevi versi sono eleganti, dolci e gioiosi e gli acquarelli riempiono gli occhi. Il cielo all’inizio è limpido e mamma e bambina stanno all’aperto; la piccola gioca a saltare la corda sul prato mentre la mamma stende i panni. Improvvisamente tutto diventa più scuro. Arriva il temporale con vento, nuvole nere, fulmini e tuoni sempre più forti, gocce di pioggia sempre


più grosse. La pioggia battente cade sugli animali, sulla casa e sul giardino. Pantano, paura, pozzanghere e angoscia, ma poi il cielo si schiarisce di nuovo e si rasserena. La bambina con il suo ombrello azzurro e i suoi animaletti si affacciano dalla porta per vedere il cielo che non è mai uguale. Già dalle prime pagine si può intuire che pioggia e nuvole stanno arrivando; inesorabilmente la mia immaginazione si lascia andare ma la mia razionalità corre ai piccoli/grandi temporali che giornalmente arrivano nella vita dei bambini: baruffe, rabbie, malumori inaspettati. I bambini conoscono solo il “qui e ora”: dalla gioia esagerata alla disperazione inconsolabile. Gocciola piano poi goccioline

Piano … meno … meno … fine! Raggi che brillano tiepidi e asciutti Fango fango … fango per tutti! Qualche raggio di sole illumina il paesaggio bucando le nuvole. Il giorno sta per finire, il sole sta per tramontare e la “quiete dopo la tempesta” sta per ritornare. Di notte il cielo è pieno di stelle brillanti; come le nuvole nere anche le ansie sono sparite e il cuore è di nuovo gioioso. Nel libro il tempo cambia rapidamente e quando le bianche nuvole al burro lasciano il posto a nuvoloni e vento è come quando dentro di noi passiamo dalla gioia alla rabbia senza neanche rendercene conto! Come la violenza dei temporali estivi può arrivare da un momento all’altro,

anche nei bambini una emozione può arrivare inaspettata e trasformare una giornata che sembrava radiosa in un vero e proprio disastro. I cambiamenti possono essere piccoli e quasi insignificanti oppure di grande importanza: il trasferimento di casa, di scuola o di città, la nascita di un fratellino, la separazione dei genitori, la morte di una persona cara. Questi, anche a seconda dell’età, possono essere vissuti con forte disagio e noi adulti dobbiamo essere preparati a dare spiegazioni e a rispondere alle domande che ci vengono fatte dai bambini. Ad ogni modo anche piccoli fatti di ogni giorno possono essere considerati dai bambini cambiamenti troppo grandi da gestire da soli senza l’aiuto di un adulto. Sin da piccoli i bambi-

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ni vanno coinvolti e fatti sempre partecipi dei cambiamenti, delle trasformazioni e delle evoluzioni che li riguardano. Parlare con loro, anticipare i possibili scenari, proporre eventuali piani alternativi è indispensabile. Spesso i bambini e i ragazzi, abitudinari e consuetudinari, non amano le sorprese e le vivono come momenti confusivi; quasi sempre preferiscono condividere ed essere messi al corrente prima delle modificazioni così da non farsi prendere dallo sconforto o dalla paura. A volte può succedere che i cambiamenti influiscano sullo stile di vita e sul carattere dei bambini in crescita provocando aggressività e ostilità.

Ma più spesso, se si abituano i bambini sin dai primi anni di vita, ad affrontare con serenità le novità, essi potranno accogliere e vivere tranquillamente le nuove situazioni. Come già detto i bambini hanno bisogno di rituali che li rassicurino; se rifiutano situazioni nuove considerandole fonti di stress, siamo sempre noi adulti che dobbiamo rincuorarli e rinfrancarli. Ogni vissuto viene influenzato da come viene gestita sin dalle prime volte quella data situazione particolare. Le persone e gli ambienti rappresentano dei punti di riferimento che danno sicurezza al bambino e al contrario le trasformazioni possono creare preoccupazioni.

Leggere e rileggere questa poesia con i bambini ci può aiutare a ricordare loro come dopo i momenti di difficoltà si possa ritrovare il sereno. A loro piace sfogliare le pagine insieme ad un adulto sapendo che anche quando le pagine sono finite si può ricominciare. Come ci suggerisce il libro, il cielo alla fine ci riporta ad una situazione di benessere. Sole che scende ora di andare Luna che splende Luce sul mare Stelle che tremano Gocce d’incanto Oro su nero Notte d’argento.


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Come ci suggerisce il libro i bambini ci insegnano a meravigliarsi e a lasciarsi andare all’incanto. In questi giorni d’estate mi scopro spesso a guardare il cielo, a giocare con il mio bambino a scoprire cosa rappresentano le nuvole che passano: un leone con la sua criniera, un albero con la chioma in giù, una coppa di panna montata. Proviamo con i nostri bambini ad alzare gli occhi al cielo; dedichiamoci un po’ di tempo, magari distesi in un bel prato verde o sulla sabbia dorata e fermiamo-

ci a guardare le nuvole che passano e il cielo che ci fa sognare e dimenticare la vita terrena. Il cielo, così vicino e così lontano. Il cielo con il sole e con le stelle. Ascoltiamo lo stupore dei bambini nel vedere la metamorfosi che ogni giorno si compie. Anche in autunno e in inverno possiamo metterci alla finestra o all’uscio di casa e osservare quella grande distesa sopra le nostre teste, nella sua bellezza e nella sua imponenza. Guardare il cielo con i bambini fa bene a loro e fa bene anche a noi adulti con le nostre stanchezze e con le nostre preoccupazioni; queste spesso ci fanno dimenticare quella capacità

di sognare e quel pizzico di follia che c’è in tutti, indipendentemente dall’età. Fatelo anche voi! Bibliografia Ciao Cielo. D. White, B. Krommes, Il Castoro, 2016


sociale e legale

di Heidi Barbara Heilegger, avvocato e mamma di Anand

Affido e adozione: due percorsi antitetici? 32

Sempre più spesso, sorprendentemente anche da parte di “addetti ai lavori”, è frequente sentire parlare indifferentemente di adozione ed affidamento, quasi fossero sinonimi, mentre si tratta di termini che rimandano a due istituti giuridicamente ben distinti ed anzi potenzialmente antitetici. Già dal punto di vista etimologico la differenza non potrebbe essere più evidente: adottare significa far proprio, scegliere per sé, affidare, invece, vuol dire consegnare alla custodia di un terzo. L’adozione ha un carattere radicale, definitivo che è, invece, assente nell’affido dove la parola chiave è temporaneità. Recita l’art. 2 della Legge n. 183/1984: “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo […] è affidato ad una famiglia, preferibilmente

con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno”. Alla famiglia affidataria si chiede, dunque, di accogliere il figlio di altri come proprio, ma “a tempo”: collocare il minore in un contesto non disfunzionale, quale appunto quello della famiglia affidataria, ha, infatti, come obiettivo il suo ritorno nella famiglia di origine. Come è stato efficacemente sottolineato l’affidamento, diversamente dall’adozione, si pone “in un’ottica di affiancamento e non di sostituzione della famiglia naturale”. In questa prospettiva la situazione che giustifica l’affidamento etero-familiare e quella che conduce alla pronuncia di adottabilità, si differenzierebbero soltanto per la prognosi

in quanto “la mancanza di un ambiente familiare idoneo è considerata, nel primo caso, temporanea e superabile con il decreto di affidamento, mentre, nel secondo caso, si ritiene essa sia insuperabile e che non vi si possa ovviare se non per il tramite della dichiarazione di adottabilità” (Cassazione Civile, sentenza n. 938/1992). Se l’adozione nasce per dare una famiglia ad un bambino in stato di abbandono e quindi privo di una famiglia (ipotesi a cui è equiparabile una famiglia irrimediabilmente distruttiva ed incapace di offrire un contesto relazionale adeguato), l’affidamento familiare ha, invece, come espressa finalità quella di supportare una famiglia in difficoltà implicando la promozione tanto del minore quanto della famiglia stessa. Ne consegue che


quest’ultima dovrà essere informata e coinvolta in tutte le fasi del progetto di affidamento, nonché cooperare con tutti gli attori in gioco (principalmente i genitori affidatari ed i Servizi Sociali) per il positivo epilogo del suddetto che, come chiarito, coincide (o quantomeno dovrebbe coincidere) con il reingresso del minore in famiglia. Ai genitori biologici si chiede di (ri)acquistare la capacità di gestire il proprio ruolo rimuovendo gli ostacoli che precludono l’esercizio di una piena funzione educativa (ad esempio affrancandosi dalla dipendenza da alcol o stupefacenti). Occorre, invece, rifuggire dalla tentazione di confrontare i modelli educativi proposti dalle due famiglie, affidataria e di origine: “l’ordinamento giuridico, complessivamente inteso, considera preminente la crescita del minore nell’ambito della famiglia di origine escludendo, conseguentemente, ogni tipo di raffronto fra il progetto di vita offerto dalla famiglia di origine e quello, eventualmente più desiderabile, presente nella famiglia affidataria”

(Cassazione Civile, sentenza n. 12491/2000). Nel nostro ordinamento vi sono due tipologie di affido: consensuale e disposto in via giudiziale. La prima, enunciata nel comma 1 dell’art. 4 della già citata legge 183/84, afferma: “ L’affidamento familiare è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la responsabilità genitoriale, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore in considerazione della sua capacità di discernimento. Il giudice tutelare del luogo ove si trova il minore rende esecutivo il provvedimento con decreto”. L’affido c.d. giudiziale è, invece, previsto all’art. 4, comma 2 che recita: “ ove manchi l’assenso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o del tutore, provvede il tribunale per i minorenni. Si applicano gli articoli 330 e seguenti del codice civile”. Più correttamente si dovrebbe dire che, nell’ambito dei procedimenti ex art. 330 e seguenti, ove ravvisi il rischio di un pregiudizio

per il minore legato alla condotta dei genitori, il Tribunale per i Minorenni ne può limitare la potestà (oggi responsabilità genitoriale), assumendo i provvedimenti ritenuti necessari incluso, nei casi più gravi, il temporaneo allontanamento del minore. Diversamente da quanto sono soliti suggerire i mass media, ossia che il Tribunale per i Minorenni “sottragga” con fin troppa facilità i figli alle famiglie, in realtà, per costante orientamento giurisprudenziale (ad esempio Tribunale per i Minorenni di Firenze, 27.06.2000; Tribunale per i Minorenni di Messina, 23.09.2003), dapprima si adottano i provvedimenti meno invasivi e, solamente in caso di insuccesso o in situazioni di particolare gravità, quelli via via più incisivi. Del resto l’affido stesso è uno strumento di tutela duttile ed adattabile a bisogni diversificati ed in potenziale evoluzione: così, ad esempio, può essere a tempo pieno quando il minore si trasferisce a vivere presso la famiglia affidataria per un periodo di tempo variabile oppure

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a tempo parziale quando il minore trascorre con gli affidatari solo una parte della giornata (ad esempio il pomeriggio dopo la scuola) oppure alcuni giorni della settimana. Ad oggi solo una percentuale contenuta degli affidi si fonda sul consenso, mentre la maggior parte resta di carattere giudiziale. Si tratta di un dato su cui riflettere. Senza voler trarre facili conclusioni è possibile che la reticenza delle famiglie sia legata alla scarsa conoscenza dell’istituto e soprattutto al diffuso pregiudizio che porta i genitori naturali a vedere in quelli affidatari dei nemici anziché degli alleati. Ad ogni buon conto, anche quando l’affidamento non è condiviso, ma imposto dall’autorità, non si può prescindere dal coinvolgimento della famiglia di origine, anzi promuoverne la consapevolezza rispetto alle proprie difficoltà, evidentemente carente, diviene uno dei capisaldi del progetto. Per quanto riguarda la tempistica, l’art. 2, comma 4 stabilisce che “deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile du-

rata dell’affidamento che deve essere rapportabile al complesso degli interventi volti al recupero della famiglia d’origine. Tale periodo non può superare la durata di 24 mesi ed è prorogabile dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore”. La norma, oltre ad indicare il periodo di affidamento, prevede anche che ogni successivo intervento sul minore sia di esclusiva competenza del Tribunale per i Minorenni. In altre parole, se l’affido consensuale non si conclude nei ventiquattro mesi previsti, non è più il giudice tutelare che decide la proroga, ma viene aperta una posizione presso il Tribunale per i Minorenni che valuta se permangono condizioni di pregiudizio per il minore posticipandone in tal caso il reingresso in famiglia. L’affido, così come è stato concepito dal legislatore e qui sinteticamente descritto, dovrebbe essere circoscritto nel tempo, un tempo, come si è visto, rapportabile all’avvio di un’azione di recupero della famiglia di origine, e dunque conseguente ad un

articolato progetto di intervento. La temporaneità non deve, invece, tradursi in precarietà tanto della progettazione quanto delle relazioni. Nei fatti, invece, molti affidi si protraggono ben oltre i due anni stabiliti dalla legge divenendo a tempo indeterminato: in assenza di istituti giuridici alternativi, là dove il legame con i genitori biologici non sia del tutto disfunzionale o comunque manchino i presupposti per dichiarare lo stato di adottabilità, si realizzano dei progetti dove la qualifica di affido è solo formale mancando il carattere temporaneo che caratterizza l’istituto e negli intenti del legislatore lo distingue dall’adozione. L’esistenza di questi affidamenti sine die, privi di una chiara cornice normativa, suggerisce forse l’opportunità di ripensare l’istituto dell’affido. Il legislatore si è mostrato, almeno in parte, sensibile rispetto a questa necessità: con la legge n. 173/15 sulla c.d. continuità affettiva ha, infatti, introdotto una corsia preferenziale per le adozioni da parte delle famiglie affidatarie quando, rivelatosi impossibile il

1 Greco O. (2006), Il lavoro clinico con le famiglie complesse. Il test La doppia luna nella ricerca e nella terapia, Franco Angeli, Milano. 2 Greco O. Terre di mezzo tra affido e adozione in “Allargare lo spazio familiare: adozione e affido”, Vita e Pensiero (2014)


recupero della famiglia di origine, il minore venga dichiarato in stato di abbandono e quindi adottabile. Il Tribunale per i Minorenni dovrà tener conto, nel decidere sull’adozione, dei “legami affettivi significativi” e del “rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria”. A monte della nuova legge c’è, dunque, la consapevolezza di come la complessità delle concrete situazioni familiari non permetta sempre di effettuare sicure prognosi riguardo alla loro evoluzione. Ovviamente rimane aperto il problema rispetto a tutte quelle situazioni di semi-abbandono del minore ove non appare opportuno, nell’interesse di quest’ultimo, recidere definitivamente il legame con i genitori biologici per la valenza affettiva parzialmente positiva che la relazione comunque riveste, ma al contempo appare irrealistico ipotizzare un ritorno ‘a casa’ (si pensi, ad esempio, ai genitori con fragilità psichiche che ne compromettono la funzione genitoriale). Nel nostro Paese, infatti, la legge sull’adozione (art. 27 della L. n. 184 del 1983) prevede che il minore adottato assuma lo stato di figlio legittimo degli adot-

tanti e che cessino completamente i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine. In Italia non vi è dunque una legge che disciplini l’adozione mite o aperta, istituti che interessano, invece, le esperienze di altri paesi, ad esempio quelli anglosassoni. Malgrado ciò, in alcuni casi, attraverso un’interpretazione ampia dell’art. 44 lettera d) della legge n. 184/83, è stato confermato sul piano giuridico quanto già in atto sul piano della realtà ossia “il progressivo radicamento del minore nella famiglia affidataria, senza che sia stato cancellato il suo riferimento alla famiglia naturale” Là dove venga meno il carattere temporaneo dell’affido vacilla però la linea di confine tra il predetto istituto e quello dell’adozione. Ma anche sotto altro aspetto la linea di demarcazione non è poi così netta. Si è detto che nell’affido coabitano due famiglie, mentre nell’adozione la famiglia adottiva si sostituisce definitivamente a quella naturale. Tuttavia, in un certo qual modo, si può affermare che i genitori naturali siano presenti anche nella famiglia adottiva: nei ricordi del figlio, se li ha conosciuti, o comunque nel suo immaginario quando abbandonato alla nasci-

ta. Certamente si tratterà di una presenza simbolica, non reale, concreta come, invece, nell’affido, e tuttavia di una presenza importante per la costruzione dell’identità del minore adottato dal cui confronto, anche per i genitori adottivi, è impossibile prescindere. In conclusione, adozione ed affidamento sono sì due istituti giuridici differenti, ma non necessariamente in netta contrapposizione. Potremmo, invece, pensarli come i poli opposti di un continuum ove vi è spazio per soluzioni intermedie che riflettano la complessità della realtà, realtà che non sempre le leggi possono semplificare, ma che a volte è solamente necessario accogliere.

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trentagiorni

PRIMA SENTENZA IN CASSAZIONE Madre volle restare anonima «La figlia adottata ha il diritto conoscere il nome» Per la prima volta la Cassazione autorizza una figlia adottata a conoscere, 40 anni dopo la nascita, l’identità della sua madre biologica che nel 1973 nella cartella clinica in ospedale aveva espressamente chiesto di restare anonima: e la Suprema Corte lo decide anche se la madre è morta, e dunque non c’è più modo di chiederle se magari intendesse revocare la propria scelta. Dopo i principi della Corte di Strasburgo nel 2012 e della Corte Costituzionale nel 2013, nel perdurante silenzio del legislatore il tema delle modalità di re-interpello della madre biologica anonima aveva sinora alimentato due differenti filoni tra sentenze possibiliste anche senza legge (Firenze o Trieste) e altre invece non possibiliste (Milano o Torino). Nel caso di Monica Rossi, 42 anni, sposata, due figli, un lavoro di responsabilità nei servizi sociali di Cuneo, sia il Tribunale sia l’Appello a Torino le avevano detto no perché la sua anonima madre era per giunta morta, e per i giudici era «escluso che il decesso potesse essere valutato come revoca implicita della volontà di non essere nominata». Ma

ora la Cassazione boccia questo argomento perché «reintrodurrebbe quella “immobilizzazione della scelta dell’anonimato” che la Consulta ha invece voluto “segreto reversibile”»: tanto più che, per paradosso, cristallizzerebbe l’anonimato «proprio in presenza dell’affievolimento» (dopo la morte) «di quelle ragioni di protezione» (evitare che le condizioni della madre la inducessero ad aborti clandestini o abbandoni selvaggi) «che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutta la vita della madre proprio in ragione della revocabilità della scelta». Monica ha voluto dare subito la notizia sul suo profilo Facebook «con ancora le gambe che tremano», perché «questa mia seconda madre, (la prima resta l’adottiva) l’ho cercata per decenni. Quando ho saputo che era morta, che aveva appena 17 anni, e la provincia dove abitava, ho iniziato a visitare almeno 50 cimiteri, e ho persino chiesto ad alcuni parenti di donne scomparse di fare il Dna, e loro gentilmente hanno accettato. Ma non era mai lei». «E una sentenza fondamentale, speriamo possa dare un forte impulso alla conclusione dell’iter legislativo per il diritto alla conoscenza delle proprie origini» approvato dalla Camera e ora in discussione in

Commissione Giustizia al Senato, commentano le promotrici Anna Arecchia e Emilia Rosati, dirigenti del Comitato nazionale per il diritto alle origini biologiche. Fonte: Corriere.it SPESA SOCIALE E FAMIGLIE: ITALIA INDIETRO Istat. Alleva: interventi sociali 4,1% del totale, valori tra i più bassi dell’Ue Gli interventi sociali a sostegno della famiglia in Italia pesano solo per il 4,1% della spesa totale per le prestazioni sociali, pari a 313 euro procapite, «valore tra i più bassi in Europa». Lo ha evidenziato il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, in un’audizione ieri alla Commissione finanze del Senato, citando gli ultimi dati disponibili (relativi al 2013) secondo cui la quota di spesa per le famiglie raggiunge il massimo in Irlanda (13,4%), Danimarca (11,5%) e Germania (11,5%). Se si considerano tutte le prestazioni sociali esclusi costi amministrativi e altre spese -la spesa per i paesi Ue si è attestata mediamente al 27,7% del Pil, in media 7.406 euro annui procapite. L’Italia è in linea con questi valori, con una spesa pari al 28,6% del Pil (7.627 euro procapite), che tuttavia viene assorbita per il 50,7% dagli interventi per la vecchiaia contro, appunto, i 14,1%, destinato alla famiglia.


Quanto alle detrazioni per i figli, sono distribuite progressivamente rispetto al reddito familiare, ma «poco concentrate sulle fasce più povere, per effetto sia dell’incapienza, sia del disegno della normativa vigente». Solo il 16,5% del beneficio totale viene percepito da famiglie a rischio di povertà, mentre circa il 30% va a famiglie con un reddito equivalente superiore al doppio della soglia di rischio di povertà. In particolare al 26,3°/e delle famiglie del quinto più ricco vanno detrazioni per i figli per circa 740 euro medi l’anno, che incide per meno dell’1% del reddito familiare. Mentre, sul fronte delle famiglie povere (nel primo quinto) il 28,6% beneficia dello sgravio per un importo medio di 1.120 euro l’anno che incide per il 5,5% sul reddito familiare. La difficoltà delle famiglie italiane emerge da un altro dato fornito dall’Istat che ha messo in luce come nel 2015 oltre metà abbia cercato di limitare le spese per il cibo, una su cinque ha risparmiato anche su quelle sanitarie. Fonte: ilsole24ore.com NEI CAMPI PROFUGHI DI CALAIS E DUNKERQUE ABUSI SESSUALI SUI BAMBINI MIGRANTI L’Unicef pubblica uno studio “Neither Safe nor Sound”, Né

sano, né salvo, per denunciare gli abusi sessuali sui migranti minori non accompagnati nei campi profughi nel nord della Francia, sulla costa tra la Manica e il Mare del Nord. Nelle interviste i ragazzi hanno raccontato agli operatori che in cambio di una prestazione sessuale avrebbero ottenuto dai trafficanti un “passaggio” più veloce per arrivare nel Regno Unito Lo studio è stato condotto su 60 ragazzi dagli 11 ai 16 anni. Eppure da giugno 2015 a oggi, si stima che circa 2mila minorenni migranti non accompagnati siano passati in quell’inferno. “Neither Safe nor Sound”, Né sano, né salvo è il titolo dell’ultimo studio realizzato in collaborazione da Unicef Francia e Unicef Regno Unito sui minori migranti non accompagnati che sono arrivati in sette campi profughi del nord della Francia. Bambini, che sulla costa tra la Manica e il Mare del Nord subiscono, ogni giorno, abusi sessuali e violenze. Nelle interviste i ragazzi hanno raccontato agli operatori che in cambio di una prestazione sessuale avrebbero ottenuto dai trafficanti un “passaggio” più veloce per arrivare nel Regno Unito. I ragazzi che si sono lasciati intervistare venivano dall’Afghanistan, Egitto, Eritrea, Etiopia, Iran, Iraq, Kuwait, Siria e Vietnam. Hanno vissuto in

quei sette accampamenti, tra cui Calais e Dunkerque, lungo la costa tra Francia e Inghilterra, da gennaio ad aprile 2016. Per entrare nei campi si paga ai trafficanti una sorta di “tassa d’ingresso”. I minori che viaggiano da soli e non hanno soldi fanno i lavori pesanti come vendere cibo nel mercato notturni clandestino allestito all’interno della cosiddetta “Giungla” di Calais. Nessuno va a scuola, anche il servizio è obbligatorio per tutti i minori in cerca di asilo. I trafficanti chiedono cifre tra le 4.000 e 5.500 a persona per attraversare la Manica. «Un’azione immediata da parte del governo britannico», dice Lily Caprani, vicedirettrice del Comitato inglese dell’Unicef, «potrebbe impedire che questi bambini cadano nelle mani dei trafficanti e mostrerebbe serietà nel portare avanti i recenti impegni presi per i bambini rifugiati». In un altro rapporto pubblicato pochi giorni fa sempre da Unicef, “pericolo ad ogni passo del viaggio”, la Onlus afferma che nei primi cinque mesi dell’anno sono stati 7.009 i minorenni non accompagnati - il doppio rispetto allo scorso anno- e sono partiti dal Nord Africa verso l’Italia. Fonte: Vita.it

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