Affido e adozione

Page 1

sociale e legale

di Heidi Barbara Heilegger, avvocato e mamma di Anand

Affido e adozione: due percorsi antitetici? 32

Sempre più spesso, sorprendentemente anche da parte di “addetti ai lavori”, è frequente sentire parlare indifferentemente di adozione ed affidamento, quasi fossero sinonimi, mentre si tratta di termini che rimandano a due istituti giuridicamente ben distinti ed anzi potenzialmente antitetici. Già dal punto di vista etimologico la differenza non potrebbe essere più evidente: adottare significa far proprio, scegliere per sé, affidare, invece, vuol dire consegnare alla custodia di un terzo. L’adozione ha un carattere radicale, definitivo che è, invece, assente nell’affido dove la parola chiave è temporaneità. Recita l’art. 2 della Legge n. 183/1984: “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo […] è affidato ad una famiglia, preferibilmente

con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno”. Alla famiglia affidataria si chiede, dunque, di accogliere il figlio di altri come proprio, ma “a tempo”: collocare il minore in un contesto non disfunzionale, quale appunto quello della famiglia affidataria, ha, infatti, come obiettivo il suo ritorno nella famiglia di origine. Come è stato efficacemente sottolineato l’affidamento, diversamente dall’adozione, si pone “in un’ottica di affiancamento e non di sostituzione della famiglia naturale”. In questa prospettiva la situazione che giustifica l’affidamento etero-familiare e quella che conduce alla pronuncia di adottabilità, si differenzierebbero soltanto per la prognosi

in quanto “la mancanza di un ambiente familiare idoneo è considerata, nel primo caso, temporanea e superabile con il decreto di affidamento, mentre, nel secondo caso, si ritiene essa sia insuperabile e che non vi si possa ovviare se non per il tramite della dichiarazione di adottabilità” (Cassazione Civile, sentenza n. 938/1992). Se l’adozione nasce per dare una famiglia ad un bambino in stato di abbandono e quindi privo di una famiglia (ipotesi a cui è equiparabile una famiglia irrimediabilmente distruttiva ed incapace di offrire un contesto relazionale adeguato), l’affidamento familiare ha, invece, come espressa finalità quella di supportare una famiglia in difficoltà implicando la promozione tanto del minore quanto della famiglia stessa. Ne consegue che


quest’ultima dovrà essere informata e coinvolta in tutte le fasi del progetto di affidamento, nonché cooperare con tutti gli attori in gioco (principalmente i genitori affidatari ed i Servizi Sociali) per il positivo epilogo del suddetto che, come chiarito, coincide (o quantomeno dovrebbe coincidere) con il reingresso del minore in famiglia. Ai genitori biologici si chiede di (ri)acquistare la capacità di gestire il proprio ruolo rimuovendo gli ostacoli che precludono l’esercizio di una piena funzione educativa (ad esempio affrancandosi dalla dipendenza da alcol o stupefacenti). Occorre, invece, rifuggire dalla tentazione di confrontare i modelli educativi proposti dalle due famiglie, affidataria e di origine: “l’ordinamento giuridico, complessivamente inteso, considera preminente la crescita del minore nell’ambito della famiglia di origine escludendo, conseguentemente, ogni tipo di raffronto fra il progetto di vita offerto dalla famiglia di origine e quello, eventualmente più desiderabile, presente nella famiglia affidataria”

(Cassazione Civile, sentenza n. 12491/2000). Nel nostro ordinamento vi sono due tipologie di affido: consensuale e disposto in via giudiziale. La prima, enunciata nel comma 1 dell’art. 4 della già citata legge 183/84, afferma: “ L’affidamento familiare è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la responsabilità genitoriale, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore in considerazione della sua capacità di discernimento. Il giudice tutelare del luogo ove si trova il minore rende esecutivo il provvedimento con decreto”. L’affido c.d. giudiziale è, invece, previsto all’art. 4, comma 2 che recita: “ ove manchi l’assenso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o del tutore, provvede il tribunale per i minorenni. Si applicano gli articoli 330 e seguenti del codice civile”. Più correttamente si dovrebbe dire che, nell’ambito dei procedimenti ex art. 330 e seguenti, ove ravvisi il rischio di un pregiudizio

per il minore legato alla condotta dei genitori, il Tribunale per i Minorenni ne può limitare la potestà (oggi responsabilità genitoriale), assumendo i provvedimenti ritenuti necessari incluso, nei casi più gravi, il temporaneo allontanamento del minore. Diversamente da quanto sono soliti suggerire i mass media, ossia che il Tribunale per i Minorenni “sottragga” con fin troppa facilità i figli alle famiglie, in realtà, per costante orientamento giurisprudenziale (ad esempio Tribunale per i Minorenni di Firenze, 27.06.2000; Tribunale per i Minorenni di Messina, 23.09.2003), dapprima si adottano i provvedimenti meno invasivi e, solamente in caso di insuccesso o in situazioni di particolare gravità, quelli via via più incisivi. Del resto l’affido stesso è uno strumento di tutela duttile ed adattabile a bisogni diversificati ed in potenziale evoluzione: così, ad esempio, può essere a tempo pieno quando il minore si trasferisce a vivere presso la famiglia affidataria per un periodo di tempo variabile oppure

33


34

a tempo parziale quando il minore trascorre con gli affidatari solo una parte della giornata (ad esempio il pomeriggio dopo la scuola) oppure alcuni giorni della settimana. Ad oggi solo una percentuale contenuta degli affidi si fonda sul consenso, mentre la maggior parte resta di carattere giudiziale. Si tratta di un dato su cui riflettere. Senza voler trarre facili conclusioni è possibile che la reticenza delle famiglie sia legata alla scarsa conoscenza dell’istituto e soprattutto al diffuso pregiudizio che porta i genitori naturali a vedere in quelli affidatari dei nemici anziché degli alleati. Ad ogni buon conto, anche quando l’affidamento non è condiviso, ma imposto dall’autorità, non si può prescindere dal coinvolgimento della famiglia di origine, anzi promuoverne la consapevolezza rispetto alle proprie difficoltà, evidentemente carente, diviene uno dei capisaldi del progetto. Per quanto riguarda la tempistica, l’art. 2, comma 4 stabilisce che “deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile du-

rata dell’affidamento che deve essere rapportabile al complesso degli interventi volti al recupero della famiglia d’origine. Tale periodo non può superare la durata di 24 mesi ed è prorogabile dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore”. La norma, oltre ad indicare il periodo di affidamento, prevede anche che ogni successivo intervento sul minore sia di esclusiva competenza del Tribunale per i Minorenni. In altre parole, se l’affido consensuale non si conclude nei ventiquattro mesi previsti, non è più il giudice tutelare che decide la proroga, ma viene aperta una posizione presso il Tribunale per i Minorenni che valuta se permangono condizioni di pregiudizio per il minore posticipandone in tal caso il reingresso in famiglia. L’affido, così come è stato concepito dal legislatore e qui sinteticamente descritto, dovrebbe essere circoscritto nel tempo, un tempo, come si è visto, rapportabile all’avvio di un’azione di recupero della famiglia di origine, e dunque conseguente ad un

articolato progetto di intervento. La temporaneità non deve, invece, tradursi in precarietà tanto della progettazione quanto delle relazioni. Nei fatti, invece, molti affidi si protraggono ben oltre i due anni stabiliti dalla legge divenendo a tempo indeterminato: in assenza di istituti giuridici alternativi, là dove il legame con i genitori biologici non sia del tutto disfunzionale o comunque manchino i presupposti per dichiarare lo stato di adottabilità, si realizzano dei progetti dove la qualifica di affido è solo formale mancando il carattere temporaneo che caratterizza l’istituto e negli intenti del legislatore lo distingue dall’adozione. L’esistenza di questi affidamenti sine die, privi di una chiara cornice normativa, suggerisce forse l’opportunità di ripensare l’istituto dell’affido. Il legislatore si è mostrato, almeno in parte, sensibile rispetto a questa necessità: con la legge n. 173/15 sulla c.d. continuità affettiva ha, infatti, introdotto una corsia preferenziale per le adozioni da parte delle famiglie affidatarie quando, rivelatosi impossibile il

1 Greco O. (2006), Il lavoro clinico con le famiglie complesse. Il test La doppia luna nella ricerca e nella terapia, Franco Angeli, Milano. 2 Greco O. Terre di mezzo tra affido e adozione in “Allargare lo spazio familiare: adozione e affido”, Vita e Pensiero (2014)


recupero della famiglia di origine, il minore venga dichiarato in stato di abbandono e quindi adottabile. Il Tribunale per i Minorenni dovrà tener conto, nel decidere sull’adozione, dei “legami affettivi significativi” e del “rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria”. A monte della nuova legge c’è, dunque, la consapevolezza di come la complessità delle concrete situazioni familiari non permetta sempre di effettuare sicure prognosi riguardo alla loro evoluzione. Ovviamente rimane aperto il problema rispetto a tutte quelle situazioni di semi-abbandono del minore ove non appare opportuno, nell’interesse di quest’ultimo, recidere definitivamente il legame con i genitori biologici per la valenza affettiva parzialmente positiva che la relazione comunque riveste, ma al contempo appare irrealistico ipotizzare un ritorno ‘a casa’ (si pensi, ad esempio, ai genitori con fragilità psichiche che ne compromettono la funzione genitoriale). Nel nostro Paese, infatti, la legge sull’adozione (art. 27 della L. n. 184 del 1983) prevede che il minore adottato assuma lo stato di figlio legittimo degli adot-

tanti e che cessino completamente i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine. In Italia non vi è dunque una legge che disciplini l’adozione mite o aperta, istituti che interessano, invece, le esperienze di altri paesi, ad esempio quelli anglosassoni. Malgrado ciò, in alcuni casi, attraverso un’interpretazione ampia dell’art. 44 lettera d) della legge n. 184/83, è stato confermato sul piano giuridico quanto già in atto sul piano della realtà ossia “il progressivo radicamento del minore nella famiglia affidataria, senza che sia stato cancellato il suo riferimento alla famiglia naturale” Là dove venga meno il carattere temporaneo dell’affido vacilla però la linea di confine tra il predetto istituto e quello dell’adozione. Ma anche sotto altro aspetto la linea di demarcazione non è poi così netta. Si è detto che nell’affido coabitano due famiglie, mentre nell’adozione la famiglia adottiva si sostituisce definitivamente a quella naturale. Tuttavia, in un certo qual modo, si può affermare che i genitori naturali siano presenti anche nella famiglia adottiva: nei ricordi del figlio, se li ha conosciuti, o comunque nel suo immaginario quando abbandonato alla nasci-

ta. Certamente si tratterà di una presenza simbolica, non reale, concreta come, invece, nell’affido, e tuttavia di una presenza importante per la costruzione dell’identità del minore adottato dal cui confronto, anche per i genitori adottivi, è impossibile prescindere. In conclusione, adozione ed affidamento sono sì due istituti giuridici differenti, ma non necessariamente in netta contrapposizione. Potremmo, invece, pensarli come i poli opposti di un continuum ove vi è spazio per soluzioni intermedie che riflettano la complessità della realtà, realtà che non sempre le leggi possono semplificare, ma che a volte è solamente necessario accogliere.

35


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.