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psicologia-pedagogia e adozione 6
Dott. Massimo Maini psicopedagogista e filosofo Dott.ssa Daria Vettori psicoloca e psicoterapeuta
Adultità
“La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare” (Jovanotti 1999) Oggi il clima del gruppo è un po’ diverso dal solito, qualcuno arriva in macchina, una ragazza manda un messaggio dicendo che è in ritardo per un problema con il treno che proviene dalla città in cui sta frequentando l’università. Alcuni stanno parlando della festa dei 18 anni di una di loro. Il cerchio si forma piano piano e raccoglie queste sensazioni. Noi conduttori ci guardiamo e con un sorriso condividiamo il fatto che “sono grandi”, i loro percorsi di vita stanno cambiando, pensano al futuro. Condividiamo che non sono più quelli che abbiamo incontrato la prima volta, che il tempo è trascorso e con
esso tante parole, gesti e sguardi. Tutto questo ha lasciato dentro di noi una traccia, un segno che porteremo sempre dentro di noi. Ci rendiamo conto di come, buona parte del tempo passato insieme, è trascorso parlando del passato, dei ricordi, di quello che è possibile immaginare o del mistero scritto sulla pelle o nei sogni. Oppure abbiamo affrontato insieme il presente, il qui ed ora, il rapporto con gli amici, con i genitori… Nel corso degli ultimi incontri sentiamo che questi cambiamenti cominciano a prendere una forma diversa, nuova. Sentiamo e condividiamo chiaramente che diventare grandi apre le porte ai pensieri sul futuro, ai progetti possibili: amore, lavoro, figli…temi che, fino a poco tempo, fa
erano troppo difficili da affrontare, quando il corpo esplodeva in una metamorfosi che faceva paura, o quando sorgevano domande mai pensate prima. Le parole di R., trasformano magistralmente le sensazioni in un racconto: “Io ora ci penso spesso a quello che voglio fare nella vita, voglio avere una famiglia, voglio fare l’avvocato…però poi penso ai miei genitori, penso al fatto che tutta la loro vita è stata per me, e mi intristisco, mi spiace per loro…mi fa sentire che un po’ li abbandono”. Queste parole, semplici, immediate, portano con sé riflessioni importanti. Quando un figlio esce di casa deve poter sentire che gli adulti sapranno prendersi cura di se stessi anche dopo, che sono in grado di “reggere” la loro
Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo, svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di MerleauPonty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell’identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l’attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna. Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta. Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Insegna Pedagogia dell’Affido e dell’Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Parma.
partenza, che sopportano un’assenza che non è una perdita, ma una naturale evoluzione e una diversa ed ennesima trasformazione. I figli hanno la necessità di uscire portando con sé una valigia che loro stessi preparano, forse non completa, con “oggetti inutili” o riempita di cose ricevute in dono o conquistate, ma non possono andarsene con una borsa preparata dagli adulti, o da loro controllata. Hanno bisogno di sentire che i genitori si fidano del fatto che sono stati capaci di portare via le cose necessarie, oppure, se hanno dimenticato qualcosa, che se la caveranno. I genitori hanno la necessità e il compito di tollerare, ancora una volta, la frustrazione che il separarsi e l’andare altrove dei figli fa parte del processo stesso
di crescita e che riusciranno, nonostante il fatto che sono partiti non “completi” e incompiuti, a “sopravvivere”. In realtà si parte perché il “compimento” avvenga… I figli appartengono a un futuro a cui i genitori non possono accedere. L’adulto, allora, deve accogliere questa partenza evitando di squalificare chi va (“non ci riuscirai da solo”) o di sentire questo passaggio come un salto nel vuoto o nel nulla. Lasciare andare, senza proiettare in modo eccessivo, sul figlio, la paura di non essere stato sufficientemente capace, il timore di restare solo o addirittura la propria invidia per un tempo che oramai è passato. Se leggiamo questo processo all’interno dell’esperienza adottiva, le cose si fanno forse più complesse.
I genitori adottivi, non solo portano con sé la fatica ad accettare come movimento naturale che il proprio figlio, tanto desiderato e atteso, possa vivere la necessità di allontanarsi e di prendere le distanze, ma anche fare i conti con il fatto che se ne andrà non completamente “riparato”. Questo perché, a un certo punto, il figlio ha bisogno di fare un pezzo da solo, senza mamma e papà, ha bisogno di provare a trovare un senso, anche alla sua storia adottiva, attraverso un percorso individuale, interno e profondo, ribadendo in definitiva, che non c’è bisogno di riparare qualcosa, ma di rinnovare continuamente un racconto della propria vita dandogli un senso proprio e originale. Nel gruppo parliamo di uscire di casa, come una
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cosa faticosa per tutti, è difficile cavarsela da soli, ma in particolare è difficile andarsene senza dover sbattere la porta, senza uno strappo. A volte sembra più facile, rompere e basta, far sentire ai grandi che non possono capire, che non ho bisogno di loro e che “posso stare bene solo altrove”. Oppure arriva forte il pensiero che in definitiva “non sono mai stato bene con i miei genitori adottivi”, perché non sono i miei “veri” genitori. Nell’illusione che pensare in questo modo possa far vivere la separazione dai genitori adottivi in modo indolore. Altrimenti posso non andarmene mai. Rimanere con loro per sempre, non creare mai quella sensazione insopportabile di abbandono, dove si confonde chi lascia e chi è la-
sciato. Preso dalla paura di non potercela fare senza di loro e che loro non possano farcela senza si me. Se cresco mi sento in qualche modo in colpa. Se cambio tutto quello di bello e importante che ho vissuto sparirà! Oppure tutte le colpe che ho dato a loro ricadranno su di me! E anche questo “peccato”, ne evoca un altro, primario. Quando nel gruppo esce la parola “colpa”, qualcuno prende le distanze: “Io non mi sento in colpa, non sono stato io a volere quello che mi è successo, come non sono io che voglio crescere…fa parte della storia”. P. però interviene dicendo: “Non è facile non sentirsi in colpa…io a volte mi sento colpevole di essere nato!”. Il gruppo, si muove tra la
consapevolezza che stiamo parlando di paure, e che non vi è nulla da espiare, e attimi in cui, invece, cresce l’emotività e la sensazione che vi sia un’ineluttabilità nelle loro storie, un destino segnato. Momenti in cui ci si può permettere di essere i creatori della propria storia, ad altri invece in cui non vi è alcuna possibilità di sentirsi liberi, di liberarsi di questa pesantezza che pervade anche il futuro. L’abbandono, quindi, come qualcosa che non “segna” solo il mio passato, ma anche il mio presente e il mio futuro. Vi sono poi i racconti di quello che avviene quando si esce, nel mondo. Gli incontri non sono sempre facili, può capitare di trovare qualcuno che non ti vuole, proprio perché sei diverso, perché sei adottato. Ci sono storie di ragazzi rifiu-
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tati per la loro etnia, o per la paura di quello che può portare la loro storia adottiva. Da amici, fidanzati o dai loro genitori. Quei pregiudizi che i ragazzi hanno dovuto combattere prima di tutto dentro di sé, ritornano riflessi nel mondo esterno che non sa, non capisce, ha paura e rifiuta, mette una distanza. Non è facile vivere queste esperienze. Quelli che “sopravvivono” sono i ragazzi che riescono a vedere questi atteggiamenti come l’espressione di una paura infantile, un’angoscia non elaborata e una visione superficiale. Come un “problema” che in realtà appartiene all’altro incapace di vedere con i propri occhi e di sentire con il proprio corpo. Quando invece si fa avanti la paura che effettivamente l’abbandono possa esse-
re un segno indelebile, un destino ineluttabile, che segna tutta la vita, non solo il passato, ma anche il futuro, allora il rapporto con gli altri diventa veramente difficile. La tentazione è quella di rimanere fermi, bloccati, proprio in quel mondo che probabilmente, in modo inconsapevole, può avere contribuito a rinforzare queste stesse paure dentro di me. Se un figlio adottivo vive in una famiglia che vede la sua differenza, la sua storia, come qualcosa che deve essere “aggiustato e riparato”, la diversità come un limite o un problema da risolvere, allora evidentemente andarsene è difficile. L’incontro con l’altro che mi teme, diventa l’attualizzazione dell’incontro con quella parte interna di me che è temuta, perché diversa. Invece anche
la sofferenza, le ferite, le perdite, raccontano l’identità, così come ciò che ho avuto prima, le braccia che mi hanno tenuto, il cibo che qualcuno mi ha dato, il mio colore, le mie sensazioni. Nello zaino c’è posto per tutto e per tutti. Quando un figlio è cresciuto con la sensazione che la sicurezza viene dall’indifferenziazione, che il dolore passa nella dimenticanza, allora immaginare di essere sufficientemente forti per poter affrontare la vita è difficile e il mondo fuori, come il passato, è sentito come una minaccia. D. in un gruppo per adulti adottati racconta: “Una volta avevo un ragazzo. Mi ha lasciato dicendo: - Sei speciale, ma sei troppo complicata- Sono contenta che sia finita, perché chi sta con noi deve amare la complessità, deve sape-
re reggere quando siamo attraversati dalla paura e cerchiamo di buttare tutto all’aria. Deve essere una persona che capisce e che accoglie queste nostre parti, non che le rifiuta…” Nel libro Essere vivi, Cristina Comencini, racconta di Irene una donna adottata all’età di 6 anni. Ecco uno scambio con il suo compagno: – …Ho capito tante cose anche di noi… – Cosa? – mi ha chiesto sospettoso – Che ci si mette insieme per entrare nella vita dell’altro, nei suoi desideri, nella sua storia, e poi si cerca di cancellarli…La bambina che ero nella mia prima vita è difficile, taciturna e non molto addomesticabile. – Tu sei tante cose oltre lei… - Di nuovo cercava di razionalizzare, di essere
intelligente e logico. – Se tu non vuoi che ci sia anche lei, - ho risposto – renderò il nostro matrimonio impossibile, sarò nervosa ogni mattina, mi addormenterò triste. (…) …qui ho capito che la vera sfortuna è dedicarsi ad un altro, marito, figli, amante, perché con te stessa non ci puoi stare neanche per un secondo, e hai paura di sentirti vuota…sai la camera dell’artista nel vicolo in cui passiamo sempre a Salina? La porta è aperta di giorno e di notte, il vento, la pioggia, il caldo trasformano i mobili, il pavimento, le pareti, non ci vive nessuno eppure sembra di si… – Ci siamo passati anche ieri con i bambini, i bambini si sono fermati sulla porta e mi hanno chiesto, come fanno sempre: chi ci abita?? Nessuno, ho risposto io, e Lorenzo ha detto,
allora è di tutti. – Si, è di tutti…e non devi riordinarla, pulirla, è li, si trasforma, esiste prima e dopo di te… – E allora tutto quello che facciamo non serve a niente, lasciamo tutto com’è? – Al contrario, solo se tu ti accorgi che la stanza è già li, piena di cose, allora quello che fai ha molta importanza. Non serve a riempire uno spazio vuoto, ma a godere di quello che c’è dentro…
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