Adozioni e dintorni - GSD Informa marzo-aprile 2014

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - marzo-aprile 2014 - n. 3

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marzo-aprile 2014 | 003

GSD informa

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editoriale

di Simone Berti

psicologia e adozione

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Il legame di attaccamento di Corrado Randazzo, Annalisa Vezzosi giorno dopo giorno

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Famiglie adottive e chiesa: un dialogo non sempre facile di Stefania Manzin Aurora di Marta e Alberto leggendo

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Leggere, fare e raccontare di Marina Zulian sociale e legale

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Appunti da un Seminario: David Brodzinsky a Milano di Greta Bellando

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trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Simone Berti

Darsi una mano e correre rischi

editoriale

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A volte osservo mio figlio nei suoi ancora goffi tentativi di avanzare verso una posizione più autonoma e più responsabile. Anche semplicemente guardarlo riserva spesso una certa fatica, come se il mio sguardo finisse per assorbire la sua stessa instabilità. Possiamo in effetti sentirci privare del nostro equilibrio semplicemente osservando il movimento ondivago dei nostri ragazzi, come accade quando da un punto fermo osserviamo la risacca di un mare agitato, una via vai interminabile che finisce, alla lunga, per ipnotizzarci portandoci dentro al nostro stesso sguardo. La loro instabilità ci mette però anche in movimento, un movimento che ci spinge verso di loro e ci vincola in passi intrecciati, che a un tempo assecondano e sbilanciano per poi trovare almeno un tratto di equilibrio e saldezza. Mi viene in mente l’immagine di uno scatto fotografico in cui sto correndo dietro a mio figlio sorreggendo il sellino della bicicletta. Lui pedala, abbiamo appena preso la decisione storica di eliminare le rotelline, quelle rotelline che gli avevano conferito a lungo l’illusione di un equilibrio che ancora non possedeva. Io corro dietro a lui per prolungare quell’illusione ancora per un tratto, fino a che mi deciderò a lasciarlo andare a trovare finalmente il proprio equilibrio e così, senza quasi accorgersene, lui continuerà la sua corsa da solo, sostenuto solo dal mio sguardo. So tuttavia che in quel momento lo reggo anche per trattenerlo e per controllarne ancora la direzione. Certe volte mi chiedo per quanto ancora continuerò a reggere quel sellino correndo dietro alla bicicletta su cui mio figlio corre a rotta di collo. Altre volte temo che finirò per correre dietro a un sellino dove lui non è più seduto, senza accorgermi che ormai è altrove, su altri mezzi con altri equilibri. Quando si tolgono le rotelline alla bicicletta sappiamo che in qualche modo stiamo compiendo un atto irreversibile, qualcosa che segna un confine immaginario tra due momenti: un prima e un dopo. Momenti di frontiera che determinano una svolta: ci sono ciucci da buttare, pannolini


notturni da togliere, strumenti pericolosi da affidare; ci saranno le prime volte che restano a casa per conto loro, che escono senza la nostra supervisione e si spostano con mezzi autonomi. Tutte le volte per loro è guadagnarsi un diritto e per noi scommettere sulle loro capacità di fare un salto verso la crescita. Per entrambi è correre un rischio. Proprio per questo spesso sono atti che vengono a determinarsi su una forzatura reciproca tra la nostra voglia di spingerlo avanti e trattenerlo a un tempo e la loro istanza di essere riconosciuti come aventi nuovi diritti e restare tuttavia al sicuro sotto la nostra tutela, esentati dai doveri che questi diritti inevitabilmente comportano. Ha ragione Bettelheim quando scrive che sempre più diciamo di volere che i nostri figli vivano secondo i loro criteri, che sviluppino la loro personalità in libertà, ma nel contempo vorremmo che lo sviluppo li portasse verso obiettivi che noi abbiamo stabilito per loro, vorremmo cioè avere gli stessi risultati che avremmo avuto se avessimo impiegato la coercizione. Allontanarsi dall’orizzonte della coercizione significa sentirsi tutti più fragili, meno sicuri, vuol dire infatti rinunciare a un nostro dominio sulle cose che accadono, ma nello stesso tempo può aprire la possibilità di una condivisione che abbia altre basi. La parola e l’ascolto diventano un tratto fondamentale. Quando un bambino, un ragazzo o un giovane chiedono di poter prendere parola e ci forzano ad ascoltarli, ci stanno aiutando a partecipare alla costruzione dei propri diritti e a rendere effettivo quello che noi adulti dichiariamo in modo a volte altisonante su di loro ma che spesso rischiamo di lasciare lettera morta. Leggevo in questi giorni una interessante analisi sul perché molto di ciò che viene sancito nella Convenzione internazionale sui diritti all’infanzia resti ancora sulla carta. L’aspetto delicato in questa analisi viene individuato nella difficoltà a realizzare effettivamente la dimensione politica del minore. Soggetto ancora debole e bisognoso di cure, ma a un tempo titolare di maggiori diritti rispetto a un

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adulto e in grado di esercitarli, resta però escluso da una partecipazione attiva al processo di definizione dei propri diritti che gli vengono esclusivamente concessi da altri, guarda caso gli adulti. In questo caso il ragazzo resterebbe vittima ancora una volta di un processo di espropriazione da parte degli adulti. Si pensa al bambino come cittadino del domani e si rimanda il momento in cui potrà esercitare quei diritti che gli vengono riconosciuti, si considera ancora un oggetto e non un soggetto politico. C’è bisogno di uno spazio per pensare i propri diritti a maggior ragione se questi sono stati concessi da altri. Uno spazio di partecipazione. Nell’ultima assemblea di Genitori si diventa alcuni ragazzi, ormai giovani adulti sulla carta d’identità, ci hanno fatto toccare con mano il desiderio di uno spazio di parola condivisa e il desiderio di forzarci ad un ascolto delle loro riflessioni, semplicemente dicendoci che ciò che facciamo li riguarda e li include inevitabilmente, fosse solo perché se siamo genitori adottivi lo siamo solo grazie alla loro presenza. Adozione e dintorni si impegna a raccogliere questa richiesta e dedicherà nei prossimi mesi sempre più spazio alla parola delle persone adottate e in particolare di questi giovani, che non sono più solo figli e che desiderano condividere riflessioni sul loro percorso, che si interrogano sui diritti che vengono loro attribuiti e sulla responsabilità che ne deriva e che appunto li include. Su cosa per loro sia l’adozione e i suoi dintorni.


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psicologia e adozione

dott. Corrado Randazzo dott.ssa Annalisa Vezzosi

Il legame di attaccamento il nostro e quello dei nostri figli

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Punto di vista teorico La formazione ed il mantenimento di legami affettivi è alla base dell’acquisizione della competenza socio-relazionale e dell’adattamento all’ambiente e rappresenta un passaggio fondamentale nello sviluppo psichico di un bambino, tanto nelle famiglie naturali quanto in quelle adottive. La teoria dell’attaccamento, formulata a partire dagli anni 50 dallo psichiatra inglese John Bowlby, è un paradigma scientifico che ha cercato di coniugare le teorie psicoanalitiche con le scoperte dell’etologia (ad esempio gli studi di Harlow sulle scimmie Rhesus). Secondo tale modello, l’attaccamento viene definito da una serie di pattern di comportamento che portano al raggiungimento

e mantenimento della vicinanza spaziale con un altro individuo preferito, considerato in genere come più forte/esperto, che per il bambino è solitamente la madre. I comportamenti d’attaccamento sono innati ed esprimono un bisogno primario del bambino che non si appoggia su altre funzioni come la nutrizione; scrive Bowlby che “nel bambino piccolo la fame dell’amore e della presenza della madre non è meno grande della fame di cibo”, mettendo così in risalto la centralità delle relazioni nello sviluppo del bambino. Per Bowlby, i comportamenti di attaccamento sono inizialmente indifferenziati, successivamente si indirizzano verso persone specifiche (in genere la madre) e con lo sviluppo dell’intenzionalità si attivano in funzione dell’obiet-

tivo. Nel rapporto con la figura materna, il bambino sviluppa dei modelli operativi interni che gli permettono di rappresentarsi mentalmente il legame di attaccamento. Il bambino diventa capace di tollerare livelli di separazione progressivamente più lunghi; diventa sempre più capace di tener presente le intenzioni degli altri e di formare legami più equilibrati e flessibili. Scrive Bowlby che “si ritiene essenziale per la salute mentale che l’infante e il bambino sperimentino un rapporto caldo, intimo, ininterrotto con la madre (o con un sostituto materno permanente) nel quale entrambi possano trovare soddisfazione e godimento”. Il legame di attaccamento è dunque bidirezionale e le esperienze interattive con


AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate sul nostro giornale. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione. La redazione

la madre, in particolare le sue risposte alla ricerca di vicinanza, determinano il modello operativo interno del bambino e quindi la qualità del suo legame di attaccamento (sicuro, evitante, ambivalente). Per la Ainsworth, l’allieva di Bowlby cui si devono le ricerche sulla Strange situation, sono le modalità interattive della madre, in termini di sensibilità, a determinare le differenze nel grado di sicurezza/insicurezza. Malgrado sia in alcune formulazioni eccessivamente semplicistica, questa teoria ha il merito di aver posto l’accento sull’importanza fondamentale che i legami e gli eventi di separazione e della perdita rivestono nello sviluppo psichico; inoltre, a partire dal concetto di modello operativo interno, i teorici dell’attac-

camento hanno sviluppato interessanti concettualizzazioni (vedi Fonagy, sulla mentalizzazione, cioè la capacità di rappresentarsi la mente propria e dell’altro e sulla funzione riflessiva). Tuttavia, ci preme sottolineare l’estrema complessità delle vicende dello sviluppo affettivo e il ruolo centrale che in esse rivestono le componenti inconsce come le fantasie o le difese. Altrimenti, si rischia di dimenticare che, come scrivono C. Morral Colajanni e Spano, “all’interno della rete di comunicazione genitori-figli il materiale inconscio è attivo e dinamico e attivamente e dinamicamente viene proposto al bambino, il quale non può che rispondere ad esso al di fuori della coscienza, riproponendo problematiche che i genitori ricondurranno interamente a lui”.

L’attaccamento oggi. Incontrare una madre quando non si è più bambini Nel trattare il tema dell’Attaccamento, da un punto di vista psicologico, non si può non passare per il pioneristico contributo di Bowlby. La teoria dell’attaccamento solleva delle importanti questioni a cominciare dal fatto che ogni soggetto che incontra un ambiente per la prima volta stabilisce delle relazioni con lo stesso ambiente, allo scopo di adattarsi ad esso, cioè di stabilire una relazione funzionale. Anche S. Freud aveva lavorato molto, all’inizio dei suoi studi, sul piano biologico e sul concetto di omeostasi per spiegare come e perché un individuo senta il bisogno di stabilire delle relazioni per ridurre uno

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stato di attivazione interna, sentito come ansiogeno, oggi diremmo angosciante, stabilendo delle relazioni che permettano al soggetto di riportarlo in uno stato di equilibrio. Il filo che guida il discorso di Bowlby, come del primo Freud, è la ricerca di qualcosa di stabile, spinti dalla necessità di rendere conoscibile un mondo che per sua natura è sconosciuto, l’inconscio. Lo slancio di Bowlby si spinge fino al punto di individuare degli schemi di comportamento. L’adattamento all’ambiente si esplica secondo Bowlby attraverso tre diversi stili che dipendono da quanto la madre è stata sufficientemente capace di accogliere i bisogni del figlio, intendendo con ciò la possibilità di una madre di consentire un attaccamento “sicuro”, “insicuro”,

“ambivalente” o “disorganizzato”. Nello stile Sicuro il bambino sa che nella figura accudente ha un “porto” sicuro dal quale si può allontanare per esplorare il mondo e al quale può ritornare qualora qualcosa lo turbi o ne senta la necessità. La figura accudente è sensibile ai segnali del bambino, disponibile e pronta a dargli protezione nel momento in cui il bambino lo richiede. Nell’ attaccamento insicuro/evitante il bambino percepisce la figura accudente come qualcuno a cui non chiedere aiuto nel momento del bisogno, poiché tale figura si dimostra inaffidabile, poco presente e spesso rifiutante. I tratti caratterizzanti questo stile sono: insicurezza e sfiducia nel mondo esterno, tendenza all’evitamento per paura del rifiuto, ap-

parente “autosufficienza”, convinzione di non essere amato, Sé affidabile. L’attaccamento ansioso/ ambivalente indica che il bambino percepisce la figura d’attaccamento come disponibile in maniera discontinua: a volte la madre è presente, ma spesso è assente. Ragion per cui l’esplorazione del mondo risulterà insicura, connotata da ansia. Ancora più destabilizzanti sono per il bambino le modalità di attaccamento disorganizzato. Intendendo con ciò che le figure di accudimento sono spaventate e spaventanti e il bambino può mostrare reazioni completamente opposte nello stesso breve lasso di tempo di fronte a situazioni stressanti. In sintesi Bowlby ci dice che le modalità attraverso cui un individuo incontra un determinato ambien-


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te e le risposte che mette in atto in funzione di tale incontro, determinano schemi comportamentali, definiti Modelli Operativi Interni. Tale disposizione fa pensare a quanto relazioni future siano in un certo senso predeterminate dagli stili di attaccamento. La mia riflessione parte da una riconsiderazione del termine attaccamento secondo un’accezione più ampia o se vogliamo più comune del termine. Quando si parla di attaccamento si pensa ad una vicinanza tra due individui. Una vicinanza determinata da un investimento affettivo,

da una richiesta dell’una all’altra e viceversa. Attaccamento significa anche legame che di per sé rappresenta un’unione fondata su un piano emotivo oltre che biologico o cognitivo. Il legame implica un bisogno, ma più in generale segnala un investimento affettivo. La domanda è: la Teoria dell’Attaccamento è esaustiva per spiegare la complessità del legame? Credo vadano considerati, quando si parla di legame, due elementi importanti spesso sottintesi ma che è opportuno in questo caso esplicitare. Mi riferisco in primo luogo alla natura dinamica dell’interiorità, del

mondo degli affetti, dell’inconscio. In secondo luogo, a ciò che da questo deriva e cioè l’unicità di ogni esperienza. L’impossibilità di accomunare un’esperienza ad un’altra dipende proprio dalla diversità delle storie che contraddistinguono due individui e dal fatto che questo incrocio mette in gioco una relazione unica ed irripetibile. . L’incontro di un soggetto con un “nuovo ambiente”, è qualcosa che si ripete di continuo e per tutta la vita di un individuo. Se consideriamo che una relazione si stabilisce in funzione di una richiesta,


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la richiesta di poter essere soddisfatto nel proprio bisogno e la risposta che l’altro possa farsene carico, possiamo pensare che la questione relativa al sentimento di poter essere accolto è sempre attiva. Bowlby a questo punto interverrebbe dicendo che per ogni nuova relazione che si presenta nell’arco di vita di una persona, questa mette in atto i modelli operativi interni. Quindi se nella sua esperienza primaria ha stabilito una relazione di attaccamento “Evitante”, non percepirà la relazione in oggetto come sicura ed eviterà di affidarsi, di stabilire un legame emotivo (ma si potrà concedere di stabilirne uno cognitivo…). Il punto che mi interessa sottolineare è questo: e se ogni nuova esperienza avesse la possibilità di tra-

sformare la percezione che il soggetto ha dell’incontro con l’ambiente? Partendo dal punto di vista dinamico possiamo pensare che è vero che rispondiamo ed incontriamo l’altro con un bagaglio che contiene le esperienze passate, ma che tale incontro rimette continuamente in gioco la questione posta in principio dal bambino “Sei in grado di accogliermi nel tuo mondo e sostenermi? Riuscirò a vivere il sentimento di sicurezza che tu non mi lascerai cadere?”. Possiamo dire quindi che un soggetto incontrerà tante madri per quanto saranno le nuove esperienze che farà. Ma queste nuove madri hanno la possibilità di permettere di ripensare al proprio bagaglio di esperienze? Possono riuscire a stabilire una relazione in cui una persona possa ri-

elaborare l’idea dell’incontro con l’altro e risignificarla? In definitiva è possibile pensare ad una funzione trasformativa dell’esperienza? Due possibili risposte a queste domande. – La funzione terapeutica psicoanalitica La prima riguarda la funzione terapeutica psicoanalitica. La richiesta di cominciare un percorso di analisi personale attinge ad un bisogno. Una sofferenza avvertita che cerca significato, che cerca una direzione ma non prima di essersi sentita accolta, non prima di poter sentirsi contenuta. In realtà un soggetto che decide di cominciare un percorso di analisi personale porta con sé un bagaglio di esperienze, di vissuti, di


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domande. La funzione te- capacità di esserne in rela- consenta domani al figlio di sentirsi felice. rapeutica che sia in grado zione. L’adozione assume in sé di accogliere il paziente su una funzione trasformaun piano emotivo e non sol- – L’adozione tanto cognitivo, ha lo scopo Il bambino adottato non tiva. Si pone come madre/ di ripresentare al paziente sempre arriva alle famiglie ambiente al nuovo arrivato la funzione materna. Ha il adottive dopo la nascita. A e si adopera affinché quecompito di permettere ad volte arriva in età presco- sto ambiente possa conteuna persona di ripensare lare, a volte in latenza, a nere le richieste del figlio, affinché possa soddisfarle e rivivere la propria espe- volte è un adolescente. rienza. La capacità di un Si tratta spesso di conte- a volte, affinché possa tolterapeuta di essere madre, sti familiari in cui arriva lerarle senza esserne didi accogliere un bisogno, di un figlio che ha vissuto la strutto. restituire vissuti di accu- prima esperienza di accu- Il figlio vivrà la “nuova” dimento a chi li richiede, dimento in un ambiente di- sensazione di potersi aftrasforma il vissuto di diffi- verso dalla famiglia che lo fidare al nuovo ambiente quando sentirà di non podenza o di sfiducia rispetto ha adottato. all’ambiente proponendo È evidente che esperienze ter distruggere la madre l’esperienza di sentirsi ac- come quelle dell’adozione con la propria sofferenza. rappresentano una funcuditi. La relazione terapeutica zione riparativa. Il nuovo Fattori che determinapsicoanalitica rappresen- arrivato, portatore di un no la relazione tra genita un esempio di funzione vissuto di perdita o di de- tori e figli materna che auspica una privazione a seconda dei trasformazione dell’espe- casi, viene accolto da un A rendere complessa la rienza e quindi delle moda- ambiente che pensa di po- natura di un legame, conlità di un soggetto di pen- ter farsi carico di un dolo- tribuiscono pertanto, non sare l’incontro con l’altro e re e allo stesso tempo di soltanto le modalità di atdi risignificare le proprie stabilire una relazione che taccamento alla madre e le


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risposte della stessa ai bisogni del bambino ma anche altri fattori che determinano tali risposte. I vissuti emotivi di chi diventa genitore incidono in maniera consistente ed influenzano la percezione di sé in funzione della nuova relazione. In altre parole, possiamo dire che l’arrivo di un figlio per una coppia, implica un riassetto della personalità che consiste nel passaggio dalla condizione di figlio a quella di genitore. Questo comporta un identificarsi con l’idea di “sé genitore” da un lato, ma dall’altro, nel tentativo di immedesimarsi e di stabilire una relazione empatica col figlio, un identificarsi allo stesso tempo con il “sé bambino”. La genitorialità determina quindi un riaffiorare dei vissuti emotivi, e perché no, dei conflitti che riguardano l’essere padre (come lo era mio padre) e l’esse-

re madre (come lo era mia madre). Eventuali questioni non risolte nella relazione con i propri genitori possono incidere in maniera latente nella nuova relazione genitore-figlio. Ad esempio, un’educazione troppo rigida e restrittiva vissuta con i propri genitori, può essere convertita in un’educazione troppo permissiva verso il proprio figlio in risposta a quell’esperienza vissuta in maniera conflittuale. Oppure potrebbe essere ripetuta riproponendo a qualche livello quelle restrizioni. Un altro fattore comune alla famiglia moderna dal quale sembra difficilmente potersi districare il genitore e di conseguenza il figlio, riguarda le proiezioni narcisistiche genitoriali. Con questa espressione si intendono quelle relazioni in cui il figlio non viene in effetti riconosciuto come atro da sé, come individuo con dei vissuti diversi da

quelli del genitore, ma viene sentito come estensione del corpo del genitore. Il genitore investe sul figlio come se stesse investendo su di sé. Stabilisce quindi una relazione col figlio allo scopo di soddisfare i propri bisogni. Ne deriva una difficoltà da parte dei figli di sentirsi accolti intendendo con ciò il vissuto di estraneità sentito a causa dell’impossibilità di sentirsi capiti e di credere che i propri sentimenti siano sentiti anche dal genitore. Il mancato riconoscimento di aspetti di sé non pensati ma agiti da parte dei genitori, determina delle collusioni con il sentimento di non essere riconosciuti da parte dei figli. Ad esempio l’esigenza, non avvertita come tale, di un genitore di rispondere all’ “Ideale di genitore modello” può metterlo in condizione di stabilire una relazione col figlio che abbia lo scopo più di soddisfare i


suoi bisogni che di accogliere le sue richieste perché confliggono con tale scopo. Conclusioni In conclusione, le modalità attraverso cui si da significato ad una esperienza dipendono fortemente dall’incontro tra noi e l’ambiente in cui ci imbattiamo. Il primo ambiente è la madre e questa prima esperienza sarà molto importante per il bambino. Questa esperienza potrà dargli l’idea che la relazione con l’altro possa essere gratificante oppure minacciosa. Ma è anche vero che tali relazioni avvengono per tutto il corso della vita e che ogni ambiente che accoglie un soggetto può svolgere una funzione materna modificando la percezione di quell’esperienza che il soggetto si è costruito, nel bene e nel male in quell’ambiente, grazie al fatto che ogni soggetto possiede un’ interiorità dinamica e quindi

trasformabile. La relazione psicoanalitica è un esempio di tali possibilità. L’adozione rappresenta un’altra importante testimonianza della possibilità di permettere ad un figlio che ha vissuto un’ infanzia dolorosa, di ripensare a quell’esperienza accorgendosi che in realtà è possibile essere accolti, essere compresi, non essere abbandonati, poter sopravvivere alle perdite, ai lutti. La difficoltà per cui è molto difficile stabilire una relazione trasformativa nel figlio che prova un disagio non dipende soltanto dal fatto che questi ha vissuto un’ infanzia dura, ma anche da come i genitori sono in grado di vivere la propria genitorialità riconoscendo i propri conflitti e quando è possibile svelando il segreto… “a quale bisogno risponde il mio bisogno di diventare genitore”…..?

BIBLIOGRAFIA - Bowlby J. (1973): Attaccamento e perdita, vol. 2: La separazione dalla madre. Boringhieri, Torino, 1975. - Bowlby J. (1988): Una base sicura. Raffaello Cortina, Milano, 1989. - Baldoni F. (2007) Modelli operativi interni e relazioni di attaccamento in preadolescenza in: Crocetti G., Agosta R. (a cura di): Preadolescenza. Il bambino caduto dalle fiabe. Teoria della clinica e prassi psicoterapeutica. Pendragon, Bologna - Fonagy P., Target M. (2001): Attaccamento e funzione riflessiva. Raffaello Cortina, Milano. - Scharff D.E., Savage Scharff J. (2005) Attaccamento e trauma nella terapia familiare e di coppia secondo il modello delle relazioni oggettuali. Intervento presentato all’Istituto di Terapia Familiare di Firenze, Aprile 2005. - Zurlo M.C. (1995) L’altra famiglia: riflessioni sulla dinamica fantasmatica delle coppie affidatarie e adottive in: Saviane Kaneklin, L. (a cura di), Adozione e affido a confronto. Una lettura clinica, Milano, Franco Angeli. - N. Neri e S. Latmiral, 2004, Uno spazio per i genitori, quaderni di psicoanalisi infantile n 48, Borla - J.Mamzano, P.Espaza, 2001, Scenari della genitorialità, Raffaello Cortina - E. Loufer, 1996, Adolescenza e break-down evolutivo, Borla - W. Bion, 1996, Apprendere dall’esperienza, Armando Editore - W. Bion, 2012, Trasformazioni. Il passaggio dall’apprendimento alla crescita, Armando Editore

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giorno dopo giorno

Stefania Mancin mamma di Tizita e Sentayehu, educatrice di giovani dell’Azione Cattolica, insegnante di Religione cattolica nella scuola

Famiglie adottive e chiesa: un dialogo non sempre facile 16

Al rientro dal viaggio che porta le famiglie ad incontrare i propri figli nati in Paesi lontani è grande il desiderio di reinserirsi nei propri ambienti coinvolgendo il figlio o i figli nelle esperienze che hanno costituito il terreno sul quale l’identità familiare fino a quel punto si è formata. Per chi vive l’esperienza della fede, per esempio, è naturale il desiderio di inserire i nuovi membri della famiglia nella comunità di riferimento, sia in termini di ambienti sociali, sia in termini di accostamento ai sacramenti. Molte famiglie adottive, però, in particolare quelle nate dalla adozione internazionale, lamentano di aver trovato scarsa comprensione dagli operatori pastorali della Chiesa cattolica, comprensione nella accezione di capacità di comprendere e di includere. Detto in al-

tri termini, molti genitori adottivi ritengono preti, catechisti e, talvolta, educatori di associazioni cattoliche poco capaci di accogliere la specificità della famiglia adottiva, con la naturale conseguenza che vengono a generarsi incomprensioni o vere e proprie esperienze negative. Per meglio illustrare il pensiero espresso, farò alcuni esempi. Nel chiedere al sacerdote il Battesimo per il figlio adottivo, i genitori si aspettano attenzione alla storia personale del bambino, soprattutto se questi è in età scolare. Tale attenzione potrebbe concretizzarsi nel recupero di alcuni gesti propri della religiosità del Paese di origine, o nella proposta di un Battesimo “sotto condizione”, qualora il bambino provenga da un Paese a maggioranza cristiana e racconti di pre-

cedenti esperienze all’interno di una delle Chiese cristiane. Nella prassi, la maggioranza dei sacerdoti preferisce proporre percorsi tradizionali e consolidati. E’ vasta e varia l’aneddotica riguardante gaffe e indelicatezze di catechisti, pur senza presupporre alcuna malizia (anzi!). Vi è chi propone ai bambini di chiedere ai genitori il motivo per il quale è stato loro imposto il nome, o di cercare sul calendario il giorno del loro onomastico, chi, in una pseudo esegesi biblica, spiega loro che Mosè non è stato cresciuto dalla vera madre. Come conseguenza di tali episodi, molte famiglie adottive si allontanano dalla Chiesa cattolica, anzi raccontano di essersi in qualche modo sentite respinte dalla comunità cristiana. Si può guardare al testo biblico per cercare le basi di un


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dialogo tra famiglie adottive e comunità cristiana. Se nell’Antico Testamento non si parla di adozione che in tre casi (si tratta di un istituto non presente nella cultura ebraica antica) è pur vero che l’orfano e la vedova sono i prediletti da Dio. Vi è poi la figura di Giuseppe, sposo di Maria. Se gli studiosi sono divisi sull’attributo da dare alla sua paternità (padre adottivo, padre putativo, custode di Gesù…), non è però messa in discussione la sua paternità nei confronti di Gesù, che è definita affettiva, educativa, giuridica, spirituale. Per la riflessione in atto, di grande rilevanza risultano due passi delle lettere paoline: Efesini 1, 4-6 e Romani 8, 14-16. In queste si definiscono i Cristiani come “figli adottivi per opera dello

Spirito”. Se si legge Spirito con Amore, ne consegue che l’Amore di Dio trasforma radicalmente l’uomo fino a renderlo Figlio. Parimenti è l’amore ( e non solo certo la legge) a generare un uomo e una donna come genitori e un bambino come figlio di quella coppia. Se si scorre il Magistero della Chiesa non si può negare che permane una sostanziale visione filantropica della adozione, ma con grande frequenza si sottolinea come la genitorialità non sia solo un fatto biologico, ma si è padri e madri dando la vita ai figli in varie dimensioni. Si osserva quindi che, in realtà, vi sono ampi spazi per il dialogo e la comprensione fra famiglie adottive e operatori pastorali. Come facilitare questo dialogo, per una migliore ac-

coglienza dei nostri figli? Mi permetto di dare alcuni piccoli suggerimenti ai genitori adottivi: cercare di coinvolgere la comunità cristiana prima dell’arrivo dei bambini per creare un ambiente favorevole all’incontro, esplicitare ai sacerdoti le proprie aspettative, chiarire agli operatori pastorali quali potrebbero essere argomenti sensibili e magari dare qualche suggerimento (ad esempio nell’Antico Testamento vi è la bellissima figura di Ester, adottata dallo zio Mardocheo).Queste attenzioni non eviteranno sicuramente incomprensioni, ma potrebbero permettere alle famiglie adottive e agli operatori pastorali della Chiesa cattolica di crescere nella reciproca comprensione.


giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

Aurora 18

Arrivo trafelata alla scuola materna. In ritardo, come spesso mi capita. E lei, Aurora, una nuova compagna di mia figlia, mi vede arrivare, pronta a tendermi l’agguato. Mi sbarra il passo e chiede a bruciapelo: “Tu sei la sua vera mamma?” Mia figlia le trotterella dietro, piccolissima. Si ferma e sembra per un attimo voler scomparire, dietro alla chioma leonina di capelli biondi dell’amichetta. Cerco di non far trasparire lo sbigottimento: non si è mai pronti a certe domande dirette dei bambini, senza fronzoli né premesse. Aurora è una bimba in affido, arrivata da poco più di un mese, catapultata a scuola chissà da dove, con il suo zainetto di storia sulle spalle. Le guardo le scarpine, viola, con gli strass, poi alzo gli occhi e incrocio

i suoi, seri, interrogativi, che non ammettono deroghe. A vederla sembra molto più grande, con quel suo sguardo seduttivo, il gesto con cui si tira indietro i capelli dietro all’orecchio. Tra lei e mia figlia è nato da subito un rapporto un po’ conflittuale e ambivalente. Non a caso. Si studiano, si cercano, si rubano la scena delle maestre e delle altre bambine. Esito un attimo e poi le rispondo, tutto d’un fiato: “Sì. Sono la sua mamma. Non ci assomigliamo perché non è nata dalla mia pancia. Ma sono la sua mamma e lei è la mia bambina”. Mia figlia si rifugia di corsa nelle mie braccia e le sferra un’occhiataccia feroce. Io la stringo, ma non vorrei escludere Aurora da quell’abbraccio. Ci guarda. E tace. Volevo essere conci-

sa, assertiva. In realtà ora mi sento inadeguata e taccio anch’io. Qualche giorno dopo, la scena si ripete. Aurora mi aspetta, sempre in corridoio, vicino agli armadietti per il secondo round. Con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo corrucciato. Ha un faccino buffo. Ma non mi vien da ridere. “E suo fratello perché non è nero come lei?!?”. Questa volta è mia figlia a risponderle, per le rime: “Siamo tutti diversi!” La frase baldanzosa fa il suo bell’effetto, ma non so quanto plachi la curiosità di quella bimbetta attenta e vivace, un po’ impertinente. Io al momento annuisco soltanto. Aurora sarà una compagna di classe di mia figlia per tutto il ciclo della scuola primaria: il “duello” a colpi di fioretto è appena cominciato!


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Leggere, fare e raccontare

Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di Barchetta Blu 20

14. Questo mese: Il potere evocativo del libro

Torna anche quest’anno il Festival della Lettura a Venezia, dedicato ai libri e appunto alla lettura, che la Biblioteca Ragazzi BarchettaBlu organizza dal 2005 e che coinvolge ogni anno più di 2000 persone. Da venerdì 4 aprile a martedì 6 maggio 2014 vengono proposte tantissime iniziative dedicate ai bambini, alle famiglie, alle scuole, ad insegnanti, educatori e illustratori, con letture ad alta voce, videostorie,

racconti teatrati e storie con l’accompagnamento musicale dal vivo. Con grande attesa da parte dei bambini e delle famiglie della città, anche quest’anno vengono realizzati eventi, spettacoli, mostre, corsi e atelier, e ancora, laboratori per le scuole, feste per bambini e famiglie, esposizioni e percorsi formativi per educatori e illustratori, per avvicinare piccoli e grandi al mondo dei libri e delle loro magnifiche illustrazioni, all’insegna del motto Libro che gira libro che leggi. Ideata e organizzata da BarchettaBlu, l’iniziativa è resa possibile dal sostegno dall’Assessorato alle Politiche Educative e della Famiglia del Comune di Venezia, dal Servizio Cultura e Sport della Municipalità di Venezia e dalla collaborazione con associazioni, cooperative, enti pubblici e

privati. Il tema conduttore dell’ottava edizione è Dalla carta al libro e dal libro alle app. Ascoltare una storia significa percorrere strade, entrare in mondi, attraversare universi. Percorrere la strada significa anche mettersi in cammino, iniziare un percorso di conoscenza di se stessi e degli altri, entrare in ambienti a volte sconosciuti e misteriosi a volte rassicuranti e gioiosi. Le storie si possono raccontare in molti modi e i formati di libro sono ormai tantissimi: dal libro cartaceo all’audiolibro, dall’ebook alla videostoria fino alla app. Le iniziative portate sul territorio da BarchettaBlu, sposano proprio l’idea secondo la quale i libri e le loro narrazioni sono un piacere da vivere in libertà e, proprio per questo, i vari


appuntamenti del Festival della lettura 2014, comprendono proposte ludiche, laboratori, spettacoli ed esposizioni, facendo emergere come in ogni momento la lettura possa essere vissuta, apprezzata e amata.

I primi appuntamenti sono rappresentati da due percorsi formativi dedicati a educatori, insegnanti, illustratori, genitori e chi si occupa di bambini. Il workshop Strappa la forma è a cura di Oscar Sabini, illustratore selezionato alla Fiera Internazionale del Libro per ragazzi di Bologna.

Strappa la forma e gioca con nuove storie è l’idea che l’illustratore ha voluto dare per stimolare a trasformare la carta in pen-

nellate di colore. Ci sono forme che a volte nascono per caso e che il nostro occhio invece percepisce in maniera precisa. Ci sono storie che, allo stesso tempo, crescendo attraverso la casualità, trovano subito un significato preciso. Casualità e ricerca sono le due parole chiave del workshop basato sulla tecnica del collage, dove la carta viene strappata e utilizzata come fosse una rapida pennellata di colore. Un percorso a caccia di nuove forme: animali, personaggi fantastici, paesaggi, città immaginarie. Una esperienza giocosa consigliata a chi è alla ricerca di un metodo per riscoprire la tecnica del collage nella sua forma primaria, ma anche per chi ha bisogno di progettare con leggerezza; un’esperienza consigliata anche per tutti quelli che sono sempre alla ricerca di modi nuovi per comunicare creativamente con i bambini. La seconda iniziativa di formazione si intitola Quando il sogno incontra le parole: il potere evocativo del libro promosso dall’Ufficio Scolastico territoriale di Venezia e dalla Rete delle scuole per la promozione della lettura; si tratta di due interessanti giornate declinate in un convegno con Marnie Campagnaro e Livio Vianello e quattro workshop

legati alla lettura ad alta voce, all’illustrazione, alla scrittura creativa e alla poesia. L’idea di base è che se immagine, segno e parola prendono forma per evocare suggestioni ed emozioni, nasce il libro. In un’era che celebra il virtuale, il libro è solo apparentemente un tema anacronistico. Il libro quindi preso in considerazione in tutte le sue dimensioni che danno spessore e corpo all’immaginario: da una parte la dimensione del segno e delle immagini, dall’altra quella della voce silente o reale.

Durante il convegno vengono presentati molti libri e albi illustrati sottolineando principalmente come leggere ad alta voce significhi inventare sogni sia per grandi che per piccini. Le storie più avvincenti sono quelle nelle quali c’è una sfida al limite; quando in una storia c’è un limite che segnala che manca qualcosa, la mancanza può trasformarsi in una possibilità. Per fortuna ci sono molti scrittori di libri per ragazzi che hanno cercato di avere sempre bene in men-

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te i limiti come luoghi reali e metaforici in cui raccontare le loro storie. Nell’albo illustrato di Alessandro Sanna Una casa, la mia casa i margini circoscrivono ciò che sta dentro e ciò che sta fuori e la sagoma della casa, essenziale ma immediata nella sua rappresentazione, si ripete pagina dopo pagina come punto di partenza di una serie di variazioni, suggerite dall’immagine e dalla fantasia. Il nero della casa viene accostato e completato dal tratto rosso, per creare un’illustrazione sempre diversa: la casa diventa di volta in volta una caffettiera, degli alberi o un aquilone; due pareti e un tetto che dà riparo; la casa scalda i cuori di chi ci abita e protegge quando piove, è il luogo dove si ritorna sempre volentieri e dove ci si sente a casa. Questo libro è una poesia scritta e disegnata all’indomani del terremoto in Abruzzo ed è dedicata a tutti i bambini del mondo che hanno perso la loro casa. In questo senso il marcato tratto nero che descrive la casa rappresenta una sorta di limite, di qualcosa che divide ma che mette anche in comunicazione. In generale, quando in una storia ci sono rappresentazioni di estremi, quando vengono create delle situa-

zioni limite, il lettore è molto attento: in questi casi il protagonista e il lettore sono ugualmente impegnati nelle avventure. Davanti ad un limite non si può mai essere indifferenti e ci si chiede cosa ci sia oltre; la sua presenza impone al lettore di prendere una decisione. Dando ai bambini e ai ragazzi storie che stanno ai margini e che pongono situazioni limite, mettiamo davanti ai loro occhi situazioni in cui si è costretti a farsi delle domande. In questo modo i ragazzi iniziano processi di ricerca nei quali ciascuno è costretto a scegliere: si può vedere il limite, pensare a cosa fare e decidere di non andare oltre; oppure si può guardare il limite e decidere di oltrepassarlo. Quando il protagonista è costretto a delle azioni estreme, il lettore è totalmente coinvolto. A volte nella vita reale si decide di non oltrepassare il limite, magari semplicemente non scegliendo e lasciando che il destino scelga per noi, decidendo che è troppo doloroso. La straordinaria bellezza di alcuni racconti sta proprio in quei protagonisti che decidono invece di vivere quelle scelte dolorose e difficili che noi lettori magari non abbiamo il coraggio di fare e decidono

quindi di varcare con determinazione il limite che hanno davanti. Oltrepassare il limite può essere rappresentato anche dal varcare i confini di un mondo, entrare in altre dimensioni spazio-temporali, sconfinare in universi sconcertanti; attraverso modalità disorientanti per noi adulti, i protagonisti di quei libri mettono in moto e smuovono le emozioni nel lettore o in chi ascolta la storia. Queste sono proprio le basi del cosiddetti libri soglia dove i ragazzi hanno la possibilità di girarsi indietro e guardare alle loro spalle, alla vita che hanno vissuto, alla loro casa, alla loro famiglia, ma hanno anche la possibilità di guardare avanti. Oltre al contenuto della scelta va sottolineata la fermezza della decisione. I libri devono scatenare la voglia di aprire il proprio orizzonte, devono dare la possibilità di costruire un confronto con la realtà, comparare il nostro limite con quello che è stato oltrepassato dal protagonista. I libri soglia impongono al lettore di scegliere da che parte del limite stare, di scegliere se fermarsi o procedere. Davvero interessante la relazione sui libri soglia della prof. Campagnaro, docente di Storia della letteratura per l’infanzia presso


l’Università di Padova. In un momento storico in cui soprattutto i ragazzi sono portati a conformarsi, è importantissimo divulgare storie nelle quali i ragazzi possano invece sviluppare una visione e un pensiero divergente che li spinga a intraprendere altri percorsi. Quando il protagonista di un libro si rifiuta di conformarsi, di adeguarsi, di accettare passivamente la violenza di un sovrano, l’anafettività di un genitore, l’incapacità di ascolto di un adulto, inizia allora la ricerca di quel famoso luogo dove uno si sente amato e voluto.

La metafora suggerita da Cappuccetto Rosso in relazione alla violenza dell’adulto, è assolutamente evidente ma decisamente difficile da riferire alla realtà che ci circonda per un bambino.

Sottile e ironico il racconto proposto da Marjolaine Leray nel divertente albo il-

lustrato Un piccolo cappuccetto rosso, narrato con immagini e parole essenziali. Inizialmente l’incontro fra i due protagonisti della storia, cioè cappuccetto rosso e il lupo, sembra scorrere secondo la tradizione. Poi c’è però una sorpresa nella quale la protagonista oltrepassa la soglia e pronuncia il fatidico “NO!”. Quando il lupo spalanca la bocca per mangiare la bambina, lei dice “NO!”. Allora il lupo chiede “Perché NO?” e lei risponde “perché hai l’alito che puzza!” e gli offre una caramella. Tutto è possibile! Tutto può cambiare! Tra tutte le versioni della storia di Cappuccetto Rosso, questa merita sicuramente una attenzione particolare, per la semplicità e l’ironia in cui presenta la conversazione tra il lupo e la bambina in rosso. Tutto è minimale ed è rappresentato solo con un pastello rosso e uno nero: il grafismo, i colori, i tratti e le parole lasciano molto alla gestualità e alle espressioni. Una favola nuova, quella edita da Logos, che insegna ai bambini che la paura è una cattiva consigliera e che di fronte al lupo cattivo si può reagire con intelligenza ribaltando la situazione. Se nel secolo scorso c’era bisogno di un cacciatore per risolvere la situazione di pericolo,

oggi la piccola cappuccetto rosso non ha bisogno di rispondere con efferatezza alla violenza del lupo, non necessita di coltelli o fucili, ma utilizza le sue armi dell’intelligenza e dell’ironia. Per spiazzare l’avversario non serve la forza ma la determinazione e la dolcezza. Ancora una volta si tratta di libri che con la loro dimensione ironica e i loro disegni raffinati sono adatti non solo ai bambini piccoli ma anche ai ragazzi. Anche ai ragazzi piace ridere e sorridere e piace poter identificarsi in protagonisti dissacratori e desiderosi di non uniformarsi ma di poter vivere la propria vita con originalità e semplicità.

Bibliografia Una casa, la mia casa. A. Sanna, Corraini, 2011 Un piccolo Cappuccetto rosso. M. Leroy, Logos 2012, Il vaso vuoto. Demi, Rizzoli, 2010 Il libro di tutte le cose. G. Kujier, Salani, 2009 Il mio amico Jan. P. Pohl, Salani, 2005 The frozen boy. G. Sgardoli, Edizioni San Paolo, 2011 Il barone rampante. I. Calvino, Mondadori, 1993 Siti interessanti http://www.barchettablu.it/mesedella-lettura www.oscarsabini.com http://www.bookfair.bolognafiere.it/ mostra-degli-illustratori/immaginiillustratori-selezionati-2014/2517. html http://www.leggereperleggere.it/ scenari/profilo http://www.marniecampagnaro.it/

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sociale e legale

di Greta Bellando

Appunti da un Seminario

David Brodzinsky a Milano per parlare di adozione 24

Comprendere e supportare i bambini adottivi e le loro famiglie L’opportunità di dialogo e confronto con un grande padre della psicologia, dedicata al panorama adottivo, si è rivelata unica e profondamente ricca di spunti di riflessione. Il seminario, tenutosi all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano all’interno del percorso del master di secondo livello “Il lavoro clinico e sociale con le famiglie affidatarie e adottive” - ha ‘spazzato via’ ogni barriera, ogni confine, accorciando le distanze verso studi e punti di vista della tematica adottiva oltre oceano. Il prof. David Brodzinsky ha mostrato una straordinaria capacità di trasmissione delle conoscenze e competenze in merito al tema dell’adozione, ponen-

dosi, sin dall’inizio del suo discorso, dal punto di vista del protagonista dell’adozione; si è partiti dalla prospettiva del bambino, focalizzandosi sull’esperienza di perdita legata all’adozione, ovvero, quella che viene chiamata “adoption loss”. L’adozione richiede una prospettiva di dialogo e apertura che può essere intesa in due modi differenti: sia come “structural openess” ovvero come apertura strutturale, in cui la famiglia adottiva mantiene i contatti con alcuni componenti della famiglia di origine – realtà presente negli Stati Uniti - e “communicative openess” intesa come un’apertura comunicativa in merito alla tematica adottiva. L’apertura comunicativa sembra essere una direzione giusta per comprendere e aiutare le famiglie,

e comporre una rete che possa essere in grado di aiutare ed informare; l’esperienza compiuta dai genitori può essere uno strumento di forte rilevanza e importanza per tutti coloro che devono iniziare questo percorso. Il dialogo conduce a una ‘rivelazione’ dell’adozione vissuta come processo e non come evento; è importante l’utilizzo di un linguaggio appropriato all’età del minore focalizzando l’attenzione su tutto ciò che il proprio figlio è in grado di comprendere e di capire. La mancanza di informazioni sulla storia del bambino non è una ragione valida per limitare la narrazione dell’adozione; è importante la costruzione di un ambiente facilitante in grado di favorire la comunicazione sulle tematiche relative l’adozione, preparandosi a fare i conti con la


confusione, la rabbia e la ricerca di informazioni. Le famiglie adottive sono fra loro molto eterogenee, poiché ogni vicenda e ogni esperienza genera delle peculiarità che ciascun nucleo possiede. Tra le differenze che nutrono questa eterogeneità, vi sono: - I percorsi di adozione nazionale rispetto quelli di adozione internazionale. Entrambi i percorsi presentano alcuni ‘comuni denominatori’ che conducono poi a rilevanti differenze anche per quanto riguarda il rapporto nei confronti della società, della scuola, della ‘rivelazione’ soprattutto in assenza di differenze etniche. - L’età al momento dell’adozione e di conseguenza le esperienze di vita pregresse che incidono sul futuro. Talvolta nella vita dei propri figli vi sono state già esperienze di vita all’inter-

no di nuclei familiari, mentre per altri, esiste solo un prima caratterizzato da istituzionalizzazione; ad ogni modo va focalizzata l’attenzione sul fatto che la vita, dei giovani giunti in adozione, presenta un ‘prima’ che non può essere cancellato. - I temi legati all’etnicità soprattutto nei casi di adozione internazionale. - La presenza o meno di altri figli all’interno della famiglia; questo aspetto pone in una posizione di maggior confronto e di dialogo poiché essa deve riuscire ad aprire la comunicazione nei confronti di entrambe le esperienze di genitorialità, valorizzandole aiutando e facilitando la costruzione del legame tra fratelli. - Le informazioni che si hanno in merito alla famiglia biologica; talvolta, quando le informazioni

scarseggiano, bisogna intervenire in modo adeguato, cercando di costruire e colmare un ‘prima’ che talvolta appare come una voragine, nella quale non bisogna cadere dentro, ma bensì bisogna risalire. Ogni tappa, ogni sfida e complessità comportano un ‘rimodellamento’ della famiglia che solitamente ha una funzione di contenimento e rielaborazione per il proprio figlio. L’adozione è vissuta come un vantaggio per tutti quei bambini, che non possono continuare il loro percorso di vita assieme alla famiglia biologica; essa consente di compiere un recupero sia nella crescita fisica che nel quoziente intellettivo. Il recupero risulta essere completo nel momento in cui i genitori forniscono uno spiraglio di speranza ai figli, i quali tendono a ‘volare’ grazie alla fantasia

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verso un passato che si cerca di costruire anche quando non ci sono ricordi. Le statistiche statunitensi hanno mostrato come i bambini adottivi abbiano una probabilità da 2 a 5 volte maggiore, rispetto ai figli biologici, di essere seguiti da specialisti. I genitori adottivi spesso ricorrono a queste figure per cercare di evitare di sbagliare di fronte a determinate situazioni che risultano essere poco chiare. La richiesta di aiuto risulta essere un grande punto di forza per cercare di sconfiggere le paure. I problemi manifestati dai bambini adottati, soprattutto se adottati durante l’infanzia, generalmente non emergono sino ai 6-8 anni di età, momento in cui avviene lo sviluppo cognitivo del bambino, che gli consente di comprendere maggiormente quanto gli è

accaduto. Si può mettere in luce un maggior livello di problematicità in ragazzi/e adottati più grandi, soprattutto se nella loro esperienza di vita precedente hanno vissuto in un particolare clima di deprivazione. I problemi tendono ad acutizzarsi con il periodo adolescenziale per poi giungere ad una sostanziale normalizzazione durante l’età adulta. L’informazione ed il contesto culturale sembrano essere molto importanti nella crescita di un bambino. Seppure l’adozione possa rappresentare un vantaggio per i bambini, in quanto consente loro di ritrovare o meglio avere finalmente una stabilità, fornendogli così una possibilità di crescita sana, essa comunque sottopone sia i genitori che i figli a delle sfide che possono andare ad incidere sull’autostima, sulla

costruzione dell’identità, sulle relazioni familiari e sull’adattamento psicologico. Il passato del bambino si può riproporre e avere effetti differenti sulla vita futura, a seconda di come la famiglia prende in carico il problema. L’adozione porta alla presa di coscienza di alcuni aspetti che non possono essere trascurati; già prima di intraprendere questo percorso, la coppia deve riuscire ad elaborare - nel caso fosse avvenuta - la perdita di un figlio e la scoperta dell’infertilità. Tutto questo risulta essere necessario per intraprendere il percorso adottivo, andando alla ricerca di quel figlio che, non deve risultare un bisogno, ma deve essere un desiderio. Il bambino ha la necessità di instaurare un legame di attaccamento sicuro, specialmente quando nel suo


passato vi sono state esperienze precoci di separazione. Egli avrà bisogno, in tal caso, di eliminare tutte le forme di ‘sopravvivenza’ che ha messo in atto, nel passato, per consentire di fare nuovamente spazio all’amore e alla fiducia. Condividere le informazioni anche quando sono poche e mantenere delle abitudini legate alla cultura di origine, può facilitare la costruzione del presente, poiché il bambino comprende che non vi è una cancellazione del proprio passato, bensì vi è una valorizzazione. Nel caso in cui è possibile, può essere importante per i genitori imparare la lingua del Paese del proprio bambino, poiché ciò gli mostrerà un interesse per la propria cultura. I bambini danno un significato ed un valore all’adozione a seconda dell’età in cui

essa avviene. Nel momento in cui, come ho già precedentemente sottolineato, i bambini iniziano a capire le implicazioni legate allo status adottivo della propria famiglia, cominciano poi ad avere una maggiore sensibilità nei confronti dei vissuti di perdita legati all’adozione. “L’adoption Loss”, ovvero questo senso di perdita accentua un sentimento di differenziazione rispetto agli altri, e più nasce il sentimento di omologazione, e maggiore è la fantasia verso la ricerca di unione con il proprio passato. Un altro modo, presentato dal prof. Brodzinsky, per supportare i bambini, è il sistema delle “Open Adoption” praticata negli Stati Uniti. L’adozione aperta prevede un’estensione dei contatti tra la famiglia adottiva ed i membri della famiglia

di origine del soggetto. I genitori adottivi ed i genitori biologici si incontrano e stendono un piano per mantenere una continuità nella vita del bambino. Questa tipologia di adozione presenta delle criticità, per quanto riguarda la costruzione del legame di attaccamento tra genitori adottivi e figli, e ciò comporta un aumento di ansia e di incertezza da parte degli stessi genitori. I punti critici delle “Open Adoption”, presentati dalle ricerche, mostrano delle complicazioni nel mantenimento del legame con i genitori biologici, talvolta per problemi causati dalla salute mentale degli stessi; affinché ci sia una buona riuscita dell’adozione, è necessario fornire un maggior supporto a tutti gli attori in causa. Generalmente è stato provato, attraverso i risultati

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delle ricerche, che i genitori adottivi - che intraprendono un’adozione aperta - forniscono una maggior apertura al dialogo, accettando maggiormente le curiosità dei figli in merito alle origini, anche se d’altra parte temono l’impatto del continuo contatto tra genitori biologici e figli. Un altro argomento approfondito dal prof. Brodzinsky è stato il significato della ricerca delle origini. La ricerca è un processo intra psichico e universale; tutti gli adottati cercano

quel sé mancante, pur essendoci un elevato grado di variabilità nel modo in cui avvengono queste ricerche. La motivazione che sta alla base di questa ricerca non è omogenea: non esiste un’unica ragione che spinge a cercare. La ricerca è, primariamente, legata al tentativo di comprendere se stessi per costruire la propria identità. Cercare non significa ‘rimpiazzare’ i caregiver che sino a quel momento hanno svolto un ruolo fondamentale, bensì significa

giungere ad una miglior comprensione di sé. La ricerca può essere considerata un viaggio nel viaggio; dapprima vi è un processo interiore che poi conduce all’azione, che deve essere monitorata, poiché possono esservi elementi di disturbo. L’adozione è un percorso di una vita, è un dialogo, è un ascolto, è un viaggio tra rettilinei e tornanti alla ricerca del benessere e della cura per favorire una crescita serena …. Per la vita.


post

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trentagiorni

SULLA PELLE DELLE BAMBINE Lo scorso 8 marzo Baghdad è stata interessata da una piccola manifestazione di donne che protestavano contro il progetto di legge da poco presentato dal governo. Il testo, sottoscritto dal ministro della Giustizia Hassan al-Shimari, rende legale il matrimonio con le bambine. Dal momento che, si dice, la pubertà viene raggiunta intorno ai 9 anni, a quell’età le ragazzine possono già essere prese in spose dagli uomini. I quali, tra le altre cose, riceveranno l’esclusività sulla custodia dei figli. L’inviato delle Nazioni Unite in Iraq, Nikolay Mladenov, ha parlato di violazione dei diritti umani e il disegno di legge ha provocato anche le ire delle associazioni irachene e delle forze politiche secolari. Il governo di Baghdad giustifica il provvedimento-che deve

comunque ancora essere approvato dal Parlamento - dicendo che la norma è prevista dalla scuola giuridica ja’farita, di matrice sciita come la maggioranza degli iracheni. Mentre in Medio Oriente si discute del ruolo della religione in politica, questo è un esempio di come la questione sia ancora del tutto aperta e generi accesi dibattiti. E, come spesso accade, sulla pelle delle donne. Fonte: Sette SPADAFORA: SULL’INFANZIA NEL 2013 ZERO PROGRESSI Zero progressi e innovazioni nelle politiche. Associazioni abbandonate a loro stesse. Comunità e servizi sociali sono denigrati fino all’oltraggio. Così il garante per l’infanzia sferza la politica nella sua relazione annuale. «Il 2013 ha riproposto tutta una serie di criticità che avevo

sollevato nelle mie due relazioni precedenti. Va infatti registrata l’assenza di progressi e innovazioni relativamente ad aspetti vitali riguardanti le politiche per l’infanzia e l’adolescenza. [...] La scarsità dei fondi stanziati per l’infanzia e l’adolescenza, come anche le politiche di austerità che colpiscono le famiglie, hanno prodotto l’acuirsi di un disagio così diffuso che rischia di compromettere la mobilità sociale intergenerazionale che è condizione essenziale per il progresso della nazione. Le associazioni che si occupano di infanzia sono sempre più abbandonate a loro stesse, eppure lottano ogni giorno per tamponare le carenze dello Stato che non riesce, tramite i propri rappresentanti, ad impostare un’agenda per l’infanzia e l’adolescenza che tenga conto di quanto sia prioritario agire subito e con determina-


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zione. L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, pur con i suoi limitati mezzi economici e di personale, continuerà a compiere ogni sforzo necessario per assicurare che l’attenzione sui diritti dei bambini e degli adolescenti sia alta e non sacrificabile per ragioni di stato contingenti»: così Vincenzo Spadafora, Garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza ha chiuso poco fa in Senato la sua terza Relazione annuale al Parlamento. Il Garante ha ripercorso un anno di attività, incentrato sul lavoro di ascolto dei ragazzi e di partecipazione attiva dei bambini e degli adolescenti. Ma ha anche dato i numeri delle segnalazioni ricevute nel corso del 2013: 193, più del quadruplo rispetto all’anno precedente. Il maggior numero di segnalazioni (64,3% del totale) riguardano le criticità rilevate tra privati e istituzioni:

«riflettono un malumore diffuso e un sentimento di sfiducia negli organismi e negli operatori dello Stato e degli Enti locali competenti ad intervenire, che investe i cittadini coinvolti soprattutto in problematiche di tipo familiare. Vengono attaccate duramente le comunità, non comprese nella loro valenza educativa; contestati aspramente i provvedimenti dei Tribunali per i minorenni in ambito civile; svalutato, alcune volte sin quasi fino all’oltraggio, il lavoro degli operatori del servizio sociale». Secondo nodo problematico è la conflittualità all’interno della coppia genitoriale, con un 36% di segnalazioni che ha a che fare con figli contesi e sottrazione internazionale di minori. Rilevanti anche le segnalazioni su programmi televisivi non adatti a minori (42 su 193). Dal punto di vista dei contenuti, il lavoro più innovativo e pro-

positivo del Garante nel 2013 si è dedicato all’elaborazione di una proposta organica di riforma della giustizia minorile, «non più rinviabile», da presentare a Governo e Parlamento, cui ha lavorato istituendo una

apposita

commissione

composta da rappresentanti dell’Autorità, del Dipartimento della Giustizia minorile, dei magistrati, degli ordini professionali, delle associazioni. Un secondo gruppo di lavoro è stato costituito con le associazioni del gruppo Batti il Cinque, per stendere una proposta di individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili (LEP): il documento di proposta, in via di elaborazione, sarà sottoposto a Governo e Parlamento. Fonte: Vita.it



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