Adozione e dintorni GSD informa - mensile - dicembre 2013 - anno III, n. 10
GSD informa
Imparare i in tempo di cris
ogni sp is b n o c i in b m a B
eciali
dicembre 2013 | III, 10
GSD informa
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editoriale
di Anna Guerrieri
psicologia e adozione
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Franco Carola risponde ai lettori I bambini con bisogni speciali di Andrea Radaelli scuola e adozione
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Come tu mi vuoi di Livia Botta Imparare in tempo di crisi Seconda parte di Roberta Lombardi giorno dopo giorno
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“Idoneità” o “Preparazione”? di Elvira Ricioppo Noi di Paola Grassi Pino perfettino e la fata turchina Ti sia leggera la terra su cui cammini… di Antonio Fatigati leggendo
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La magia o la bugia di Babbo Natale di Marina Zulian
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trentagiorni
Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956
redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro
editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org
impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano
ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro
progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze
abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile
editoriale
di Anna Guerrieri
Scrivere di adozione Scrivere di adozione all’inizio di questo 2014 non può prescindere da tutto quanto è accaduto nel 2013, ed è stato tanto. Nel mese di dicembre è letteralmente esplosa la situazione delle famiglie in attesa di adozione dalla RD Congo. È giusto prima di tutto pensare alle famiglie volate a Kinshasa con la rassicurazione che, avendo terminato ogni pratica prima del 25 settembre (data indicata dal paese come inizio del blocco temporaneo delle adozioni internazionali), avrebbero potuto concludere l’iter adottivo dei propri figli e tornare in Italia entro poche settimane. Per loro così non è stato e per loro si è messo in moto, in modo differente, un vasto sentire pubblico. Le conclusioni di questa situazione non si vedono ancora, anzi quello che sta già accadendo è che allo scadere dei visti i genitori rientreranno in Italia in attesa andare a riprendere i figli quando le autorità della RD Congo emetteranno i visti di uscita dei bambini. Ugualmente importante è pensare alle tante famiglie che attendono, magari con una sentenza congolese in mano che li dichiara genitori dei loro figli, di poter partire per incontrare i propri figli. Come associazione di famiglie adottive ci siamo messi in moto da subito su questo argomento, perché tra noi c’era chi era a Kinshasa, c’era chi era in attesa, ma non solo per questo. Era giusto mettersi in moto e basta e lo abbiamo fatto da subito. Abbiamo agito in collaborazione con le altre associazioni familiari del Coordinamento CARE seguendo una strada di pressione sulle Istituzioni Italiane affinché spiegassero cosa stesse succedendo, ma soprattutto indicando quanto appariva essere essenziale, ossia l’invito ad un’ampia delegazione congolese a venire in Italia e la creazione del Fondo di sostegno per le famiglie a Kinshasa (fondo che non ci appare ancora essere ancora stato istituito). Non ci hanno soddisfatto le risposte del ministro Kyenge alle interrogazioni parlamentari (frutto delle
Š maria maddalena di sopra
nostre azioni). Non ci hanno soddisfatto soprattutto quando sembravano riportare sulle famiglie responsabilità che non esistevano. Abbiamo fatto in modo che le informazioni e le azioni sulla situazione circolassero in modo ampio e diffuso grazie al nostro sito e ai nostri strumenti informativi. Ci siamo assunti la responsabilità di segnalare sempre la necessità della cautela pur nell’esercizio della libertà di informazione. Quel che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto nella consapevolezza che quello che contava non era l’apparire, ma in questo caso il cercare di fare qualcosa che fosse per davvero efficace, effettivo e soprattutto rispettoso della situazione estera. Noi continuiamo a fare. E ci interroghiamo sempre di più sulle conseguenze istituzionali che quanto accaduto debba avere. Le deleghe per le adozioni internazionali devono stare nelle mani di chi conosce questa realtà o di chi sappia muoversi imparando a conoscerla. Non possono stare in mani che si rivelano inadeguate. Il pensiero tuttavia va anche a tanti altri e va oltre Kinshasa: a chi attende da tempo la finalizzazione di più di cento iter adottivi di bambini e ragazzi bielorussi (anche qui manca solo una firma estera), alle coppie che avendo vissuto la chiusura dell’ente Airone si trovano ancora in transito, a chi all’improvviso ha visto la propria attesa dalla Colombia diventare un’attesa dilatata in tempi lunghissimi. Il pensiero va a tanti, tanti altri casi, a tanti bambini in attesa, a tante famiglie sospese. Viene da dire che questo sia stato l’anno peggiore e più faticoso per le adozioni internazionali in Italia. Io questo non lo so. Non sono in grado di dirlo, anche perché il trend di maggiore complessità non è solo italiano, ma di tutti (per tornare a Kinshasa, non sono solo gli italiani ad essere bloccati, ma ci sono con certezza, ad esempio, anche famiglie americane che invocano l’attivazione del proprio governo), anzi noi continuiamo a “tenere” nel calo generalizzato (e sembra che abbiamo “tenuto” anche quest’anno) restando il secondo paese al mondo più coinvolto dal fenomeno delle adozioni.
Se lascio la mia memoria riandare indietro, mi rendo conto che anche nel passato i momenti di crisi ci sono stati e grandi. Penso ai blocchi con i cambi di legge della Federazione Russa e ricordo le famiglie prese in mezzo, letteralmente in mezzo. Ricordo i momenti di grande crisi delle adozioni in Ucraina. Ripenso per esempio al momento in cui io stessa ho creduto che la ratifica dell’Aja in Cambogia, avrebbe migliorato la gestione delle adozioni, quando invece il tutto si è trasformato, finora, in una chiusura lunga che non ha avuto altri risvolti se non quello di veder crescere una generazione di bambini in istituto. Che responsabilità quella di aver “applaudito” quella ratifica come un “successo”. Io me la sento. Penso alla chiusura di fatto della Bolivia e alle attese di anni delle coppie coinvolte. Penso alla Romania. Penso al fatto che nell’autunno 2012 tante coppie che avevano incontrato i loro figli in Kirghizistan scoprivano che non avrebbero potuto abbracciarli mai più, incontrarli mai più. Ed è per questo che non so se dire che quest’anno sia stato peggiore di altri. Io non lo so. Lascio agli opinionisti (sui media, sui forum, su facebook) l’abilità di esprimere con facilità opinioni e giudizi in una realtà in cui ognuno sembra immaginarsi con rapidità esperto in materia promosso sul campo. Basta pensare a come sia stato facile per giornalisti dello schermo e della carta stampata proporre che si poteva risolvere de facto la situazione a Kinshasa dando una cittadinanza a dei bambini e andandoli a prendere senza porre attenzione alle leggi e agli equilibri del diritto internazionale e soprattutto alla sovranità dei paesi esteri, alle loro possibili reazioni e ai futuri equilibri tra i paesi. Senza pensare ai rischi che avanzare una tale proposta poteva comportare. Lascio ad altri l’espressione di giudizi perentori. Quello che mi preoccupa è la confusione istituzionale che sembra evidenziarsi nel campo delle adozioni internazionali in questo istante, soprattutto perché invece nei mesi a venire servirà lucidità e capacità di prendere decisioni. Tale confusione va risolta in fretta, non a parole ma con i fatti. Forse è vero, è venuto il tempo per rivedere il funzionamento del sistema, un sistema che ha mostrato a periodi grandi capacità e risorse e talvolta invece grandi difficoltà.
psicologia e adozione
Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Docente in training presso la SGAI (Società gruppoanalitica italiana), è Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process)
Franco Carola risponde ai lettori Il dott. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione. La redazione
Caro dottor Carola, seguo da molti anni il vostro sito, sono il padre adottivo di due bambini, provengono entrambi dallo stesso paese, e sono stati adottati grandicelli, adesso hanno 11 e 6 anni. Sono bambini naturalmente alle prese con vissuti difficili alle spalle, con dinamiche di forte “gelosia” e “conflitti” assai marcati tra loro e con noi genitori. Il bambino è molto vivace nella vita quotidiana, una condizione a suo tempo vissuta lungamente anche dalla bambina che era tuttavia giunta
a un discreto equilibrio e stabilità grazie al tempo passato insieme alla nuova famiglia e grazie anche all’ausilio di una breve psicoterapia; una bambina che desiderava molto l’arrivo del fratellino e che adesso, alla prova dei fatti, non sta assolutamente accettando, una sorellina che talvolta si impegna anche a giocare con il maschietto ma che dopo un po’, comprensibilmente, cede al suo fare indisponente. Per il bambino non si tratta di iperattività vera e propria, ma di un discreto dinamismo sì,
© simone berti
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sempre caratterizzato da un senso di “ribellione” e disobbedienza alle regole date, sfida e provocazione dei genitori, esattamente come da manuale di psicologia dell’adozione e quasi nell’identico modo in cui si
è comportata precedentemente la sorella. Il maschietto ci mette chiaramente alla prova per vedere come reagiamo di fronte ai propri comportamenti e fin dove lui si può spingere non avendo ovvia-
mente il senso del limite e soprattutto disobbedendo e rendendo difficoltosa la vita ai genitori e alla sorella (questi comportamenti si verificano indifferentemente sia che siamo a casa che al supermercato, sia
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(non “funziona”, alternache siamo al cinema o in tivamente, né il dialogo giro tra i negozi in città). aperto e comprensivo (è Sono frequenti i litigi e gli evidente che dietro ad “scontri fisici” tra i due ai ogni loro comportamento quali spesso seguono scesi nasconde una ragione nate con scatti d’ira, pianlegata al loro passato e ti, con perdita del controllo al loro presente) né una emotivo e fisico di entramcerta “severità” che sembi (si picchiano). brano entrambe non esNon vorrei cedere alla tensere assolutamente effitazione di dare uno sculaccaci coi nostri bimbi); cione che, oltre che contracome fare a cercare di rio al mio modo di vedere 2) “imporre” un minimo di l’educazione, so che sarebrispetto per noi, ai fini be solo deleterio e servirebdi una migliore gestiobe soltanto a far capire che ne della vita familiare la “violenza” è un mezzo quotidiana e per dare utilizzabile nelle relazioni un’educazione corretta (in bambini che provengoai nostri figli per gestire no già da un tessuto cultucorrettamente il futuro rale-sociale caratterizzato delle loro relazioni sociadal valore della forza e delli? Mi interessa quindi la gerarchia): ma avere un parere sul di1) come fare anche a gestiscorso delle “punizioni” re le nostre frustrazioni, in presenza del mancail nostro inevitabile nerto rispetto delle regole vosismo e stanchezza fichieste dai genitori, il sica e psicologica e spesproblema dell’equilibrio so senso di scoramento, tra la richiesta di un riimpotenza e impossibispetto per gli adulti e l’elità a trovare la “stratesigenza di un’educazione gia” educativa corretta non oppressiva e deprie producente risultati
vante a livello emotivo e comportamentale per i figli, insomma vorrei uno scambio di idee ed esperienze con uno specialista e/o con qualcuno che magari è nella stessa condizione o vuole darmi un suo parere. Lasciamo perdere poi i commenti dei familiari e dei conoscenti e finanche dei pediatri che sono sempre generosi nei giudizi e nei loro “competenti” consigli educativi, sfornati tipicamente con l’aria di chi ne sa più di noi, sintetizzati spesso con un “ma tutti i bambini lo fanno, anche i nostri...”, annullando in un sol colpo la peculiarità e drammaticità della condizione dei figli adottivi e dei loro precedenti dolorosi vissuti.... Capisco che per mail non è facile lavorare ma vorrei solo un parere e un consiglio di massima, e magari uno scambio di esperienze e riflessioni con altri genitori, grazie mille. Cordiali saluti
Gentile lettore, la questione “sculaccione” ha da sempre acceso un forte dibattito negli ambienti di studio della Psicologia dell’età evolutiva. Come lei stesso inquadra, è una questione all’interno della quale si vedono declinarsi numerose criticità di cui, come genitori o esperti di settore, non possiamo non tener conto. Una studiosa della prestigiosa Berkley University, Diana Baumrind, a seguito di uno studio longitudinale durato più di venti anni, stabilì che lo “sculaccione” al bambino faceva bene. Credo utile però sottolineare che tale risultato di ricerca si è basato su un campione americano che non contemplava, tra le variabili prese in oggetto, un eventuale passato traumatico dei bambini studiati. Il genitore che voglia contenere il proprio figlio può e DEVE utilizzare un linguaggio che il bambino possa comprendere. A volte tale
linguaggio non si avvale di parole, ma di “corpo”, fisicità. Il corpo del genitore può “dire” al bambino delle cose. Ad esempio, prendendolo subitamente e con ferma determinazione tra le braccia quando esagera nelle manifestazioni di rabbia e spostandolo in un luogo della casa “sicuro” , dove il bimbo possa urlare e piangere da solo per poi ritrovare spontaneamente una propria strada interna di conforto; oppure, girandogli le spalle ogni volta che il bimbo mette in atto degli atteggiamenti non ritenuti idonei al proprio modello ed immagine educativa. I sopracitati esempi, forse semplicisticamente, tendono a mostrare come si possa utilizzare il corpo senza passare attraverso la violenza. La determinazione fisica del genitore aiuta il bambino a capire con più chiarezza di tante parole esplicative, spesso troppo difficili da ra-
zionalizzare per il giovine. ATTENZIONE PERÒ: Atteggiamenti determinati, sì, inutili violazioni sul corpo del minore, no! Spero di aver almeno in parte risposto al suo quesito. Un cordiale saluto, Dr Franco Carola
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psicologia e adozione 12
Bambini con bisogni speciali
Al di là di quelli che possono essere i paradigmi e le differenze che ogni singolo paese può adottare, se parliamo di bisogni speciali dei bambini bisogna far riferimento alle quattro categorie definite dai Paesi aderenti alla Conferenza dell’Aja che nel 2008 ha
stabilito attraverso la Guida delle buone pratiche: - È grande di età (pari o sopra i 7 anni); - È parte di un gruppo di fratelli; - Presenta disturbi del comportamento o traumi; - È disabile fisicamente o mentalmente (più comu-
nemente definita “bisogni sanitari”). I bisogni di natura sanitaria possono essere a loro volta divisi in: - Bisogni particolari: patologie che presuppongono una remissione completa o che comunque permettono uno sviluppo psicologico e sociale autonomo (in Italia vengono spesso definite dagli Enti autorizzati “disabilità lievi e reversibili”); - Bisogni speciali: situazioni sanitarie, fisiche, neurologiche e mentali, derivanti da patologie gravi e irreversibili. Per quanto riguarda i bisogni speciali, su cui, di norma, si concentrano spesso le maggiori preoccupazioni da parte delle coppie e degli operatori, ritengo sia necessario affrontare la questione iniziando a mettere in evidenza due elementi che meglio po-
trebbero condurre una riflessione sul tema. In primo luogo la statistica afferma che, per esempio, nel 2010 i bambini entrati in Italia con bisogni speciali e particolari erano il 15,5% dei bambini adottati attraverso il canale internazionale. Cioè, seppur una percentuale rilevante, non certo la percentuale prevalente. Inoltre la statistica evidenzia che molti bambini appartenenti a questa categoria arrivano dai paesi dell’est, dove le diagnosi redatte sono spesso in relazione a ritardi o disfunzioni dello sviluppo ascrivibili a un contesto di crescita deprivante e di carenza affettiva, quale quello dell’Istituto. Alcuni studi affermano che i bambini che vivono in Istituto hanno ogni anno un ritardo di 4/5 mesi nello sviluppo (questo sottolinea ancora una volta la necessità di non lasciare i bambini in Istituto e velocizzare le procedure per le adozioni, anche internazionali). Nello stesso tempo, però, sappiamo anche che: • I bambini che riescono a essere adottati da una famiglia (contesto affettivamente più comprensivo e cognitivamente stimolante) hanno un sostanziale recupero (molto
rapido nei primi 3 anni) sia da un punto di vista fisico (peso, altezza, circonferenza cranica), che da un punto di vista emotivo e cognitivo; • Che la possibilità di recupero è possibile qualsiasi siano le difficoltà di partenza; • Che se messa su un grafico la curva di recupero avrebbe un andamento/ inclinazione costante indipendentemente dalla gravità della situazione iniziale. Insomma, la preoccupazione relativa ai bisogni sanitari è sì legittima, ma ancora piena di pregiudizi e poche conoscenze che non permettono alla coppia di confrontarsi con la realtà di queste particolari adozioni. Infine, giusto per porre un elemento che possa maggiormente ricalibrare il focus su un più corretto approccio alla riflessione, a partire dalle statistiche, è bene valutare i dati relativi ai fallimenti adottivi. Le problematiche sanitarie, siano esse reversibili o irreversibili, visibili o nascoste, non incidono significativamente sul rischio di fallimento adottivo. Di contro i problemi comportamentali/affettivi hanno invece un’incidenza maggiore sugli aspetti critici dell’adozione in rela-
zione alla loro riuscita. Le difficoltà di attaccamento, riconducibili a esperienze traumatiche o sfavorevoli, vissute in precedenza, sono l’elemento che, più significativamente di molti altri, può portare a un’esperienza negativa dell’adozione. Il rischio è sempre quello di sottovalutare la portata della problematicità che deriva da una distanza affettiva e relazionale creata dal bambino nei confronti dei genitori e di quanto questa faccia invece emergere maggiori dubbi in loro e non permetta che il potenziale affettivo della famiglia sia quel terreno di crescita fertile di cui ogni bambino ha bisogno. Le difficoltà relazionali e comportamentali sono quelle che fanno maggiormente nascere sentimenti di inadeguatezza nei genitori e suscitano sentimenti ed emozioni talvolta più difficili da gestire rispetto anche a importanti condizioni sanitarie. La legittimità genitoriale, legata al lutto della sterilità, viene più facilmente messa in crisi da difficoltà comportamentali e da difficoltà relazionali/affettive, piuttosto che da richieste di cura particolari e impegnative. Ovviamente anche in questi casi le generalizzazioni,
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per età o per esperienze del bambino, diventano un esercizio statistico utile, al limite, per calibrare meglio la formazione degli operatori e delle coppie nell’affrontare il problema, ma non possono mai essere presi come predittori di una situazione specifica e individuale. Non ultimo, il vissuto del bambino e la sua dimensione soggettiva, nel merito dell’esperienza vissuta, rimane sempre il delta discriminante di maggior rilevanza rispetto alla dimensione oggettiva di un problema, anche sanitario. Andando oltre una ricerca di prodromi e difficoltà di qualsivoglia genere, che mai saranno in grado di ascoltare la realtà del bambino e della famiglia nella sua complessità, quello su cui è forse meglio porre l’attenzione è l’aspetto della relazione tra il bambino e la famiglia, piuttosto che ricercare con ossessione gli elementi di successo e insuccesso nei due poli della relazione. La descrizione del bambino e la descrizione della famiglia, per quanto possano essere comunque veritiere al termine di lunghe indagini, rimangono limitate nel riuscire a divenire elemento chiarificatore. E’ sicuramente più efficace e significativo considerare
l’adozione come un legame, una relazione. Diviene quindi necessario iniziare a valutare risorse e potenziali da una parte e dell’altra, così come limiti e difficoltà. Senza inganni, senza miti, paure o pregiudizi e tanto meno ricerche di perfezione: né nel bambino, né nella famiglia. Cioè un modello di analisi del problema che non sia una speculazione sulla patologia, a discapito dell’incontro col bambino. Un approccio che sappia lasciarsi alle spalle paure quali l’impossibilità di essere adottato da parte di chi è portatore di difficoltà e di inadeguatezza da parte di chi, genitore, dovrà sostenere situazioni particolarmente difficili. Tutti noi siamo stati testimoni di incontri che mai avremmo potuto pensare possibili per le difficoltà di cui un bambino era portatore, così come siamo stati spettatori di fallimenti quando tutto sembrava ben calibrato. La paura a raccontarsi e ad ascoltare l’altro in profondità porta a una mistificazione del reale rendendolo sicuramente più accettabile, ma meno affrontabile in seguito. Confondiamo, riprendendo una vecchia distinzione posta da Canevaro, il deficit con l’handicap e ancor più con la di-
sabilità: non conosciamo realmente. Dove per deficit intendiamo la causa del problema (una gamba rotta), con l’handicap (la diversa funzionalità, l’incapacità a camminare e/o lo stare su una sedia a rotelle) e con disabilità la ridotta capacità relazionale e sociale (una scalinata senza ascensore). Tutti livelli sui quali siamo chiamati a operare e a dare differenti, ma efficaci, risposte. Ci rifugiamo, quindi, dietro modelli lineari, un po’ riduzionisti, per affrontare la questione dell’adozione di bambini special needs, che sicuramente rende più facile rispondere alle nostre domande, ma non aiuta certo a conoscere questa realtà e a conoscerci, e riconoscerci, dentro una situazione simile. Infatti, spesso vediamo coppie in “difficoltà” quando, incontrando il proprio figlio, si scontrano con un problema sanitario (anche se lieve) sconosciuto fino a quel momento e non presente alla lettura della scheda. Si possono confondere le difficoltà con l’impossibilità, l’analisi col giudizio. E per una famiglia diviene ancor più complesso confrontarsi con queste problematiche, percorso tanto necessario, quanto protettivo, rispetto alle difficoltà future. Percorso che po-
trebbe permettere di valutare la propria capacità di saper stare e so-stare all’interno di una situazione simile. La formazione delle famiglie intorno alle problematiche dell’adozione (compresa quella sanitaria), la conoscenza e lo sviluppo delle risorse interne ed esterne della famiglia (famiglia allargata e specialisti), oltre ad un supporto all’ingresso in Italia e una rete informativa e di intervento specialistico e una conoscenza del bambino approfondita, sono favorenti a euristiche positive. Spesso, però, i pregiudizi e i miti degli operatori, come delle famiglie stesse, non permettono interventi informativi, formativi ed esperienziali adeguati a conoscere e sviluppare il reale potenziale della famiglia adottiva. Ed è così che le proposte formative e informative dei Servizi e degli Enti rischiano spesso di essere solo un luogo per ricevere informazioni o essere vissute come un necessario “impegno” sulla via verso l’adozione, rischiando di diventare più “teatrini relazionali” (ognuno gioca un ruolo ben definito e controllato) piuttosto che luoghi di crescita, di accoglienza, di ascolto e autoascolto.
Senza una reale costruzione di una relazione basata sulla fiducia reciproca difficilmente potremo creare situazioni formative/informative favorenti il processo adottivo sano, ma ci limiteremo a vedere processi informativi importanti, ma non sufficienti, lasciando che le famiglie maturino, o non maturino, le proprie riflessioni da sole. L’informazione in sé non crea conoscenza. La conoscenza è una relazione che pone elementi di differenza tra un “prima” e un “dopo” e nasce sempre dall’incontro col reale basato sull’incontro con il proprio vissuto, con il proprio Sé percepito e consapevole. Forse è questo che dobbiamo cercare nei momenti formativi e informativi che accompagnano l’adozione. Forse dobbiamo essere noi per primi gli esploratori di noi stessi, prima ancora che altri indaghino la nostra “mappa”, che alla fine è solo una descrizione di noi, ma non è il “noi reale”, il “genitore reale”.
Breve bibliografia • Bateson, Verso un’ecologia della Mente, Adelphi, 1976 • G. Macario a cura di, I percorsi formativi nelle adozioni internazionali, Istituto degli Innocenti, 2013 • Dati e prospettive nelle adozioni internazionali, Rapporto della CAI su fascicoli, Firenze Istituto degli Innocenti, 2010 • A. Canevaro, Educazione e handicappati, La Nuova Italia Editrice, 1990 • F. Juffer, M.H. van Ijzendoor, in Il legame adottivo (a cura di R. Rosnati), Edizioni Unicopli, 2010 • J. Palacios, D. Brodzinsky, Lavorare nell’adozione, Franco Angeli, 2010
Andrea Radaelli psicologo, psicoterapeuta sistemico-familiare e formatore freelance
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scuola e adozione
Come tu mi vuoi 16
Concludo la serie di articoli sul rapporto dei minori adottati col mondo della scuola con una riflessione su una situazione (realmente? o solo apparentemente?) per nulla problematica. Mi riferisco a quei bambini non piccolissimi, solitamente adottati a un’età a ridosso dell’inizio della scolarizzazione, che imparano a gran velocità l’italiano, non vedono l’ora di entrare a scuola, rispondono in modo soddisfacente alle prime richieste degli insegnanti e ne sono fieri, dimostrando nei fatti che le preoccupazioni di genitori e docenti sul loro ingresso nella comunità scolastica erano senz’altro eccessive. Sono bambini che tranquillizzano i genitori. Conosciamo l’ansia che un genitore adottivo prova quando il proprio figlio entra a far parte del mondo
scolastico, su cui spesso si proietta la ricerca di una conferma rispetto alla normalità del bambino e del proprio valore di genitore. E un buon inizio scolastico è senz’altro una conferma che la dotazione cognitiva del figlio e le sue capacità autoregolative si sono strutturate e sono rimaste integre pur attraverso circostanze avverse, che il bambino ha una buona capacità di resilienza. Spesso questi bambini appaiono anche molto adeguati nel rispondere alle aspettative degli adulti. Sono bambini saggi e docili, che raramente hanno scatti di rabbia, bambini ubbidienti che si piegano con facilità alle esigenze degli adulti, per lo meno nel primo periodo successivo all’adozione. Tutto bene? Non è detto. Dietro a questa docilità potrebbe infatti nascondersi
una grande paura del fallimento, inteso come un’ennesima conferma di inadeguatezza. Questi bambini potrebbero non tollerare l’eventualità di essere giudicati incapaci, non degni di stima da parte dell’adulto. Il timore di un nuovo abbandono (esperienza già sperimentata, a volte anche ripetutamente) potrebbe tradursi per loro in un desiderio di perfezione strettamente connesso alla paura di deludere e di essere ancora una volta rifiutati. Non sono pochi infatti i bambini che arrivano all’adozione avendo imparato, senza esserne consapevoli, che tramite la compiacenza e la seduzione possono ottenere qualcosa dall’adulto; che hanno sviluppato mille antenne per intuire i desideri dell’altro (anche quelli non espressi esplicitamente) e per cercare di soddisfarli.
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A questi comportamenti esterni adeguati e apparentemente solidi possono però corrispondere un interno debole e difficoltà emotive in una sfera più profonda, connesse alle deprivazioni cognitive e affettive vissute nella prima infanzia. Vivere nel desiderio dell’altro e non nel proprio implica, infatti, la difficoltà di riconoscere i propri bisogni emotivi e una perenne condizione di ansia e stress. È dunque importante che i genitori non colludano con questi comportamenti tranquillizzanti e gratificanti, e che evitino di cadere in alcune “trappole”. La prima riguarda l’inizio della frequenza scolastica. Sappiamo bene che molti bambini che vengono adottati già grandicelli manifestano da subito uno pseudo-adattamento con la richiesta quasi immediata di andare a scuola. Lo fanno, spesso, perché nel loro immaginario il contesto scolastico riproduce la vita in istituto, che è per loro qualcosa di più familiare di una coppia di genitori. Questa richiesta, rassicurante per i genitori, se accontentata può tuttavia rivelarsi rischiosa o fallimentare. Il bambino, infatti, quando chiede di andare subito a scuola, non sa che la
frequenza scolastica sarà per lui estremamente impegnativa, non solo in termini di apprendimenti, ma anche di relazioni con i compagni e gli insegnanti. La scuola non è l’istituto ma una realtà assai diversa, che gli richiederà un ulteriore adeguamento e quindi un’altra fatica da affrontare, nuova ansia e nuovo stress. Nella migliore delle ipotesi, se l’investimento sulle prestazioni scolastiche avrà successo, sarà però mancato il tempo necessario a consolidare i legami familiari. Se invece le cose andranno meno bene, i bambini potranno esprimere il surplus di fatica con la rinuncia di fronte alle difficoltà, o con una fobia scolare che potrà assumere diverse forme (disturbi somatici, atteggiamenti di rifiuto, comportamenti aggressivi e provocatori). È dunque importante frapporre sempre alcuni mesi fra l’arrivo del bambino e il suo ingresso a scuola, senza colludere con la sua “fretta”, prendendosi tutto il tempo necessario a “fare famiglia” e mettendo per il momento in secondo piano quanto ha a che fare con prestazioni di ordine cognitivo. Altrettanta attenzione va posta al modo di reagire di fronte ai successi scola-
stici. Una buona riuscita a scuola va senz’altro riconosciuta e “festeggiata”, ma senza esagerare. Se per un bambino l’investimento nell’andar bene a scuola diventa la misura con cui dar valore al proprio sé, e se i genitori rafforzano questa sua convinzione, cosa succederà, infatti, al momento dei primi insuccessi? Non dobbiamo mai dimenticare che i bambini e i ragazzi adottati hanno grandi insicurezze e fragilità. Sono estremamente suscettibili e accettano con difficoltà anche la più piccola sconfitta. Un insuccesso in un ambito fortemente “investito” dai genitori potrebbe scatenare in loro forti reazioni emotive e indurli a rifiutare di mettersi nuovamente alla prova, per non rischiare nuovamente di fallire; senza escludere l’eventualità che il bambino “esploda” in una liberazione di aggressività fino a quel momento repressa. Meglio allora riconoscere e rafforzare non tanto e non solo il loro essere “tra i primi della classe”, quanto piuttosto il loro riuscire ad esprimere e dar nome a emozioni e sentimenti, positivi o negativi che siano, i loro tentativi di entrare in relazione in modo autentico con i coetanei e con gli adulti, le loro
abilità e doti naturali. Perché difficoltà e insuccessi a scuola ci saranno sicuramente, come accade a tutti i bambini e ragazzi in qualche spezzone del loro percorso scolastico. Per un bambino o un ragazzo adottato sarà più facile che questo accada nei passaggi tra i cicli scolari, o quando si dovranno affrontare altri cambiamenti (ad es. materie o insegnanti nuovi). Quasi sicuramente i bambini che arrivano in Italia in età scolare incontreranno difficoltà linguistiche più avanti nel tempo, perché per loro l’apprendimento della lingua italiana non è un processo semplice e lineare. Anche se impareranno molto rapidamente la lingua della quotidianità, potranno infatti incontrare difficoltà anche serie dopo anni dall’arrivo in Italia, quando si tratterà di “comprendere e ripetere” la storia, o di capire il testo di un problema, o di esprimersi con ricchezza lessicale in un testo scritto. O potranno incontrarne nella scuola superiore, quando diventerà una discriminante critica la capacità di concentrazione, di organizzazione e di autonomia nello studio. A queste difficoltà bisogna essere preparati, evitando di metterle al centro, dan-
do al bambino o al ragazzo tutto l’aiuto necessario e contemporaneamente valorizzando le altre sue doti, nella consapevolezza che un soggetto sicuro del proprio valore come persona e dei propri affetti riuscirà a superare questi scogli più agevolmente di chi dovrà affrontare le stesse difficoltà con l’ansia di dover riuscire perché nella riuscita si gioca il suo “valere qualcosa” per qualcuno. Quanto detto fin qui ci aiuta anche a dare significato evolutivo a certi comportamenti che possono manifestarsi, a casa come a scuola, a una certa distanza dall’adozione. Non è raro, infatti, che atteggiamenti oppositivi e provocatori, vivacità e distraibilità eccessive a scuola, possano comparire dopo una prima fase di comportamenti molto adeguati. Si tratta di una sorta di messa alla prova dell’adulto, che richiede da parte di genitori e insegnanti la capacità di dare limiti chiari, all’interno di una relazione affidabile ed empatica che non faccia ricorso alla colpevolizzazione. È una oppositività che va compresa anche nella sua valenza positiva: implica che il bambino non si sente più obbligato a mostrare compiacenza per essere accolto, che può lasciar spazio dentro di sé
Livia Botta Psicoterapeuta e formatrice responsabile del gruppo di ricerca e progettazione “Adozione e Scuola” www.liviabotta.it www.adozionescuola.it
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alla speranza che gli adulti di riferimento siano abbastanza forti e lo amino al punto da poter contenere anche le sue parti meno positive; al punto, anche, da non avere aspettative scolastiche troppo elevate, ma piuttosto capacità di osservarlo per riconoscere le doti che egli possiede in quanto individuo unico e per aiutarlo a svilupparle.
scuola e adozione 20
Imparare in tempo di crisi
L’integrazione difficile dei ragazzi adottati (e delle loro famiglie) nelle scuole secondarie Seconda parte
Non temere i momenti difficili, il meglio viene da lì Rita Levi Montalcini
Secondo Focus La persistenza di fragilità proprie della storia di abbandono e di istituzionalizzazione subita prima dell’adozione Il secondo aspetto che va tenuto in conto per comprendere lo sforzo di alcuni adolescenti con storia adottiva nel percorso scolastico, riguarda l’effetto che può avere anche dopo anni l’esperienza traumatica subita, sia sul rendimento (capacità di apprendere) che nella partecipazione alla normale vita scolastica (capacità di svolgere compiti, di essere interrogati, di lavorare in gruppo), sia sulle relazioni con i pari (capacità di stare in relazione e non isolarsi).
Parlo di ragazzi svogliati nello studio, facilmente distraibili, che sembrano funzionare solamente con una persona accanto, che li guarda, che dà loro l’energia per procedere, che funge da IO ausiliario. La scarsa consapevolezza del proprio valore Sappiamo la capacità resiliente degli adottivi nel far fronte alle proprie fragilità grazie alla cura e al sostegno dei genitori adottivi. Gli studi sugli stili di attaccamento ci rassicurano sul fatto che un’adeguata cura da parte di un genitore (in particolare la madre) sufficientemente buono, permette al figlio adottivo di recuperare quel gap emotivo, acquistando una maggiore capacità di relazione, apertura al mondo e fiducia in sé e negli altri.
Eppure questo è un percorso che richiede a volte del tempo. A volte molto tempo. Alcuni genitori adottivi possono testimoniare delle difficoltà che i figli, ormai grandi, continuano ad avere: la scarsa fiducia in sé, la difficoltà a pensarsi capaci, l’affanno nell’affrontare le sfide proprie della vita. Queste fragilità diventano più evidenti nella scuola secondaria, perché meno attenta della primaria agli aspetti di relazione e più invece centrata sugli aspetti di prestazione, di performance. Ci viene raccontato di giovani che possono impegnarsi anche molto a casa, ma che quando si trovano a scuola si rifiutano di essere interrogati e raccontano al professore, mentendo, di non aver studiato affatto.
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Ci viene raccontato di giovani che riescono ad andare all’interrogazione solamente se hanno accanto l’amica del cuore: la presenza di una figura rassicurante, che crede nelle proprie capacità e nel proprio valore, diventa un elemento che fa da volano rispetto alla possibilità di esporsi. E quante altre storie simili potrebbero raccontare tanti genitori adottivi. Tutto questo parla di una fragilità dei figli rispetto alla consapevolezza del proprio valore. La particolare sensibilità alle separazioni Alcuni bambini che arrivano in adozione hanno sviluppato inoltre una sensibilità speciale per le separazioni, perché ne hanno subite tante nella loro breve vita: questo aspetto caratterizzerà alcuni adottati anche da adulti. Fattore principale di rischio è l’assenza di una figura stabile che abbia dato cure nella prima fase della vita: uno studio ha stimato che un bambino cresciuto i primi tre anni in istituto arriva a incontrare cinquanta o più differenti figure educative di riferimento! Pensiamo anche all’ado-
zione stessa come a una grande fatica che il bambino deve fare per passare da una condizione di equilibrio a una di nuova solidità, attraversando un tempo di grande – traumatica – terribile instabilità. Queste esperienze hanno una rilevanza anche nel percorso scolastico. In primo luogo ci interessa focalizzare sulla delicatezza del passaggio dalle elementari alle medie. E ancora dalle medie alle superiori. L’entrare in una nuova scuola, con nuove persone e nuove regole, sollecita proprio quella particolare reattività ai cambiamenti, tanto da richiedere un’attenzione speciale da parte della famiglia e della scuola. Capire quanto sia forte il bisogno di tenere uniti i pezzi della propria vita può essere evidente in un fenomeno osservato in alcuni ragazzi, evento che sollecita l’immagine di una separazione difficile e/o impossibile perché vissuta come ‘catastrofica’: nella scrittura di alcuni giovani con storia adottiva può capitare (anche solo per brevi periodi) che non vengano lasciati spazi tra le parole, un insieme/ catena di lettere unite, confuse, appiccicate, conti-
gue, senza possibilità di distinguere ciò che è legato da ciò che è separato. La testa altrove Seppure la letteratura evidenzia come gli stili di attaccamento (ovvero il nostro ‘modo di essere con l’altro’) possano modificarsi nel tempo, grazie alle esperienze sostitutive con adulti sani, gli effetti traumatici di un inadeguato accudimento e delle tante separazioni possono però richiedere percorsi a volte molto lunghi per essere ‘sanati’, impegnando il bambino, l’adolescente e sovente anche il giovane adulto. Pur sottolineando il ruolo trasformativo e riparativo svolto dai genitori adottivi, i danni precoci dell’istituzionalizzazione prolungata o di relazioni primarie inadeguate possono continuare a manifestarsi a lungo termine nel corso della crescita, presentandoci, con incidenza maggiore nei pattern di attaccamento di tipo disorganizzato, ancora in adolescenza. L’essere stati lasciati causa pensieri ed emozioni intensi relativamente a se stessi e al proprio valore. Quello che Chistolini definisce un ‘grumo’ di pensieri ed emozioni che influi-
sce sulla serenità del bambino, sulla sua capacità di concentrarsi e sulla possibilità di investire le sue energie nello studio, anche per molti anni. Essendo l’apprendimento “un’attività esplorativa” del mondo esterno, chi non possiede una base sicura da cui partire dimostrerà quella che Bowlby definiva ‘la fatica del pensare’. Ad un QI nella norma si possono associare difficoltà nel ragionamento, di attenzione, di concentrazione, che si ripercuotono necessariamente sulla prestazione scolastica. Dunque ciò che rende alcuni ragazzi incapaci di affrontare i compiti scolastici non è la mancanza d’intelligenza ma le complesse dinamiche emotive e relazionali vissute. E l’insufficiente rendimento scolastico, in un circolo perverso, può rappresentare un’ulteriore pesante conferma della già bassa autostima, rinforzandone l’autosvalutazione: “non valgo niente, non capisco nulla”, che può trasformarsi nel fatidico “nessuno mi capisce”. L’esperienza può essere descritta come “la testa altrove, sospeso tra due sponde, tra disperazione e speranza, tenendo a bada la paura di perdersi e di
perdere l’altro, cercando di rassicurarsi e di essere degno di attenzione”. Bambini corazzati, ricci spinosi Mentre alcuni adottati stanno volentieri al centro dell’attenzione tra i compagni, o più in generale trovano piuttosto facile socializzare, per altri un elemento che a volte viene riportato a corollario delle difficoltà scolastiche è l’isolamento rispetto al gruppo classe, la difficoltà a costruire relazioni privilegiate e a volte anche la tendenza a non interagire adeguatamente con alcuni docenti. L’estraneità si può esprimere infatti in alcuni casi anche attraverso atteggiamenti provocatori o poco sintonici. Accade quindi che l’apprendimento risenta anche del clima di tensione (note, richiami etc.) che si viene a definire intorno al ragazzo. È facile rifarsi alla storia di deprivazione relazionale subita da alcuni di loro e tradurre questi atteggiamenti come una difficoltà a fidarsi, affidarsi. Ma non è affatto scontato che il sistema scolastico sia in grado di affrontare questi aspetti e che li possa/voglia considerare rilevanti ai fini della valuta-
zione o tantomento che sia interessato a lavorarci sopra. Mi chiedo se i docenti abbiano chiaro, quando parlano di relazioni, la specificità dell’esperienza di quel ragazzo, che è stato ‘mal-trattato’ dal mondo. Ragazzi cresciuti, sono ‘senza pelle’ (si parla chiaramente di pelle psichica, ma l’immagine rende molto bene il senso dell’esperienza), con le ferite scoperte e doloranti che, per sopravvivere nonostante tutto (perché l’uomo ha mille risorse, anche nelle avversità più terribili), si sono costruite delle armature. Ricci spinosi, a volte respingenti alle relazioni. Sappiamo che possono servire tempi molto lunghi per imparare a fidarsi dell’adulto, dell’altro, dei coetanei. Compito dei genitori adottivi è quello di dare il tempo e l’occasione al figlio di fare contatto pian piano con le varie emozioni, passando attraverso la collera, la rabbia, il bisogno di distruggere, di fuggire, di provocare, per arrivare al dolore, attraverso la relazione affettiva: per poter voler bene occorre prima poter credere ancora che amare fa bene. E allora si avrà la possibilità di vedere oltre quella
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corazza, oltre quelle spine, quel bambino bisognoso e tenero (non più spinoso e respingente), assetato – forse più di chiunque altro – di legami. In questo sta il compito dei genitori adottivi, certamente.
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La scuola come si inserisce in questo processo? Quali interventi, quali strumenti, quali modalità? Mentre i ragazzi nuotano nel mare del ‘non senso’ gli
insegnati rischiano di ridurre la loro funzione a quella di ‘informatori’, in una scuola basata sui contenuti, che diventano nozioni e test di valutazione. L’ambiente delle scuole secondarie meno contiene, meno comprende, meno si
relaziona rispetto alle scuole materne ed elementari. Va al contrario sottolineata la necessità, per alcuni ragazzi con storie di abbandono di un rapporto affettivo preferenziale con un adulto, anche nella scuola secondaria, di un adulto che sia in grado di dimostrare una preoccupazione responsabile, personalizzata, verso di loro. La presenza di bambini e ragazzi con storia di adozione ci spinge a una interpretazione affettivo-relazionale della scuola. Per quanto riportato sinora ritengo importante sottolineare l’opportunità di accompagnare questi ragazzi nel percorso scolastico attraverso una didattica che tenga conto, accanto all’aspetto propriamente formativo, anche dei loro bisogni evolutivi, sostenendo e valorizzando il singolo percorso di crescita. In primo luogo mi riferisco a una crescita emotiva, affettiva, che per quei bambini e ragazzi che hanno subito l’abbandono è una ‘sfida esistenziale’. Per questo la scuola va sostenuta dai genitori e dagli operatori del settore, nel leggere i comportanti che alcuni ragazzi adottati mettono in atto, perché si possa uscire da una
semplice schematizzazione: il rendimento non è adeguato perché non studia, perché non ha voglia, perché non sa stare nel contesto classe (sfida, iperattività, ricorso alle bugie o in alcuni casi anche piccoli furti) o perché addirittura ha dei problemi cognitivi. Credo che primariamente vada tenuto presente del cammino che ciascun figlio fa per costruire (dalle base di un passato che l’ha tradito e dalla forza della famiglia che ha trovato nei genitori) la sua autostima. I genitori conoscono le belle qualità che caratterizzano il proprio figlio, e in parte immaginano (sperano e sognano) il suo futuro con tutte le occasioni che la vita vorrà porgli davanti e che lui saprà cogliere. Ma questa lettura è ben lontana dall’esperienza che quel ragazzo fa di sé stesso. L’immagine che quel figlio ha di sé è ancora molto fragile, eccezionalmente sensibile ai messaggi che gli vengono dall’esterno. Per questo ha bisogno di una guida educativa (docenti, insegnati, educatori) che sappia essere assertiva e sicura (come ben sanno i genitori), che lo stimoli a non nascondersi rispetto ai suoi limiti e anzi lo por-
ti ad affrontarli con energia volta al cambiamento. Ma anche al contempo occorre una coerenza educativa che supporti l’immagine di Sé in quanto persona positiva, capace, che può riuscire. Il suo vissuto “gli pesa sulle spalle come una zavorra che rischia di tirarlo giù” se non lo sosteniamo nel vedere ogni giorno le sue qualità e le sue opportunità, per poterlo aiutare a credere che nessun obiettivo gli è precluso. Ritengo importante che queste riflessioni possano esser quindi condivise nell’incontro costante tra la famiglia e la scuola, poiché questa è luogo privilegiato per poter sperimentare il successo e l’abilità personale, ma anche contesto – purtroppo – in cui a volte si fa esperienza della frustrazione, del fallimento, dell’incomprensione. Pertanto, per fare un esempio, in una lettura condivisa scuola-famiglia, può essere considerato utile per un ragazzo (alla luce del suo percorso scolastico e dei vissuti con i quali ancora combatte) poter essere preservato eccezionalmente da esperienze fallimentari con carattere di immutabilità (la bocciatura, ad esempio) che avrebbe ancora
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grande difficoltà a comprendere, a metabolizzare, a utilizzare come occasione per una maturazione evolutiva. Avendo concluso (insisto, in una lettura condivisa scuola-famiglia) al contrario, che esperienze di questo tipo per quel giovane rischierebbero di avallare la sua convinzione di non essere accettato, di valere davvero poco, di essere ‘il peggiore’: pensieri sempre in agguato nella giovane mente di chi è stato ferito dalla vita. Quelle esperienze, anziché spingerlo a un miglioramento di sé, potrebbero, in quel particolare caso, al contrario nutrire le emozioni della rabbia e dell’insoddisfazione. Troppe volte negli anni ho visto giovani adolescenti adottati soccombere sotto giudizi che non potevano (non erano attrezzati per) comprendere e accogliere. La famiglia, quindi, si fa portavoce con la scuola della specificità dei bisogni del proprio figlio, aiutando il corpo docente a vedere con sguardo ampio al percorso scolastico che quello sta facendo, non focalizzandosi unicamente sulla prestazione, che non dubito possa comportare delle mancanze. In questo vaso la normativa sui BES rappresenta, finalmente, strategie par-
ticolarmente utili da seguire. TERZO FOCUS Fare i conti con il passato Il terzo e ultimo aspetto che voglio proporvi per comprendere lo sforzo di alcuni studenti con storia adottiva, riguarda la difficoltà a fare i conti con il proprio essere adolescenti, che per un adottato significa anche dover affrontare il tema delle origini. Per alcuni ragazzi questo percorso rappresenta una difficile battaglia. A volte in consultazione i genitori riportano l’angoscia per un percorso scolastico molto critico: l’imminente bocciatura o addirittura l’abbandono della scuola. Il confronto tra un ‘prima’ (“solo un anno fa tutto andava bene …”) e un ‘adesso’ è disarmante: improvvisamente i figli si sono rivelati diversi, quasi degli sconosciuti: mancanza di motivazione allo studio, frequenti assenze da scuola (come rifiuto a frequentare o il marinare le lezioni), comportamenti sanzionabili in classe (tenere il cappuccio o le cuffie durante la lezione, uscire per andare in bagno e non rientrare fino alla fine dell’ora etc.).
In alcuni casi, alle difficoltà scolastiche si aggiungono difficoltà di relazione con i coetanei, in un quadro di isolamento che vede il giovane per lo più chiuso in casa, ritirato dalle usuali attività che sino all’anno prima lo impegnavano (scout, sport, musica etc.) o inserito in gruppi amicali nuovi e generalmente poco rassicuranti per i genitori. Il quadro che emerge nei colloqui spesso è anche molto più complesso: accanto alle difficoltà scolastiche si rilevano altri eventi dirompenti, come furti in casa, conflitti violenti (in alcune situazioni con vere e proprie aggressioni fisiche ai genitori) menzogne, uso di sostanze stupefacenti. Atti che sembrano tagliare ogni legame con il pensiero, che stanno ‘al posto del pensiero’ in un ‘cortocircuito del funzionamento psichico’. È evidente come questa particolare situazione emotivo-esperienziale non favorisca, anzi sia antagonista, della disponibilità ad apprendere, ossia a percorrere nuove strade di conoscenza. È evidente che in queste situazioni le difficoltà scolastiche rappresentano un campanello d’allarme o un sintomo aggiuntivo del di-
sagio psichico di un giovane impantanato nella sua crisi adolescenziale. Possiamo dire che in quella fase la strada verso la conoscenza del mondo (che la scuola cerca di indicare) rimane difficile da percorrere così come quel percorso verso la propria identità (chi sono? da dove vengo?) risulta ancora poco elaborato o impercorribile. La specificità dell’adolescenza adottiva In ogni famiglia l’adolescenza è il tempo della confusione, della delusione, dell’instabilità, della preoccupazione, ma anche della riscoperta della soggettività, dell’esplorazio-
ne, dell’affermazione di sé. Per il figlio adottato questo è soprattutto il tempo per cominciare quel delicato processo di ristrutturazione della propria identità attraverso la rivisitazione delle tappe fondamentali della sua storia. È il momento per provare a dare una continuità logica tra il tempo precedente l’adozione e quello attuale, ingredienti necessari per comporre un progetto di vita maturo. Ragazzi sospesi, alla ricerca di capire ‘chi sono’ e nella difficoltà di proiettarsi nel futuro, cercando una rilettura della propria storia che permetta, attraverso un processo di continuità, di riconoscersi
nel presente e ricordarsi nel passato. Impegnati a trovare coerenza tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che potrà essere. Alla ricerca di una coerente continuità tra il passato ed il presente, tra prima e dopo, tra genitori di nascita ed adottivi I cambiamenti somatici che il figlio adottato vive in questo periodo, idealmente lo rimandano a figure fisicamente assenti, ma identificabili attraverso il suo aspetto fisico. Cominciano a prendere sostanza domande come:
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“A chi assomiglio?”, “Perché sono stato adottato?”, “Perché sono stato abbandonato?”, e questi quesiti, spesso non espressi, mettono quel/la figlio/a in diretto rapporto con la sua origine, con il suo abbandono, con la sua storia, con i suoi ricordi e con la sua adozione: temi tutti riconducibili con il processo di (ri)definizione della sua identità. Nelle consultazioni cliniche che avvengono in questo periodo questi adolescenti raccontano di sentirsi dei “figli sbagliati”: che non avrebbero dovuto nascere, che non sono degni dell’amore e delle attenzioni dei genitori adottivi, che per non essere stati ‘tenuti’ dai loro genitori di nascita devono avere qualcosa che non va, che esprimono forti sensi di colpa per l’abbandono subito. Le risposte ricevute in precedenza dai genitori adottivi non sono più sufficienti per placare quella inquietudine interna che vive. Questo stato d’animo lo/la porta a cercare risposte in maniera più autonoma. Il viaggio alla ricerca delle proprie origini comincia in questa fase ed è prevalentemente un viaggio interiore (che forse prelude a quello reale che verrà fat-
to in seguito) che ha come scopo quello di dare un senso alla propria vita, recuperando quei tasselli mancanti per la costruzione dell’identità. Questo percorso è anche deludente, doloroso, angosciante, confondente... una ‘trasformazione rivoluzionaria’ con alto potere evolutivo, ma anche molto rischiosa. Cosa vedono questi figli allo specchio? Lo specchio spesso riflette la differenza con i genitori adottivi. A volte rimanda l’immagine dei genitori di nascita. A volte questa immagine è molto conflittuale. Dice Igor, 20 anni, scuola interrotta in quarta superiore: “Mio padre (di nascita) era uno ‘schifoso ubriacone’” L’adolescenza è anche il tempo del terrore di assomigliare al genitore di nascita dello stesso sesso, per quello che di quel genitore si sa (o si immagina) di negativo: alcolista, violento, incapace di assumersi responsabilità – ci ha lasciati a me e mamma…, delinquente. È il tempo del terrore di essere portatori di una patologia psichica del genitore naturale. E in questo sconvolgimen-
to, a volte... “per paura di diventare come te, divento come te”... “per convincermi che magari proprio questo è il mio destino: così almeno riesco a dirmi chi sono” Dice Manuel, 15 anni, scuola interrotta in prima superiore: “Tutti gli uomini sono uguali, mettono incinte le donne e poi vanno via. Mia madre non mi ha potuto tenere per colpa sua (padre naturale)”…. “Sai ci penso spesso a mio padre (di nascita). Era un alcolizzato. Io… sono come lui. Io l’alcool ce l’ho nel sangue” E il pensiero allora diventa: “Se valgo poco come lui tanto vale toccare il fondo”. E allora la strada, la notte, la droga, il gruppo… diventano tentativi maldestri (e a volte pericolosi, sempre dolorosi) per ritrovarsi o per trovarsi in una nuova identità… ancora tutta da capire Dice ancora Manuel: “io so cosa significa stare per strada, ci sono cresciuto… chi vive per strada è mio fratello”.
Il tempo perso Ancora una riflessione sul tema del ‘tempo perso’. L’adolescente con storia adottiva è l’emblema del ‘perdere’: perdere qualcuno (ciò che ha lasciato), perdere gli anni di scuola, e ora addirittura (quando sembrava che il più era stato fatto!) perdere le competenze acquisite (“non ha voglia di fare più niente, ha lasciato gli scout, non legge più un solo libro…, non lo riconosco più, non sembra più lui...”) per darsi al nulla. In una società basata sul successo, sul guadagno, sul vincere, l’adolescente ci sbatte in faccia il suo ‘perdere tempo’, davanti ai videogiochi, dormendo, rannicchiato ore sul divano di casa, incontrando amici discutibili o passando il tempo a fare cose inutili o francamente riprovevoli. Dice Rimbaud che la profonda natura della giovinezza s’identifica con il tempo sprecato. Crocetti descrive l’esperienza della ‘noia’ in adolescenza, come assolutamente normale e funzionale alla crescita. La noia viene definita come uno stato di tensione pulsionale trattenuta, e viene descritta in due forme: una caratterizzata dall’apparente tranquilli-
tà emotiva (dove prevale la solitudine impotente che blocca e paralizza) e la seconda caratterizzata dalla irrequietezza motoria (che prende forma nella rabbia di essere solo che spinge al protagonismo a tutti i costi). Possiamo pensare che il ‘tempo fermo’ di alcuni giovani adottati in crisi adolescenziale sia in realtà l’espressione esteriore di un profondo movimento emotivo, di un percorso evolutivo che ha i suoi aspetti di rischio, ma che anche è la via di accesso al cambiamento che è crescita, maturazione, benessere. Anche se mi rendo conto che una lettura di questo tipo impone una fatica particolare di ridefinizione a quei genitori che vivono invece nella paura, nello sconcerto, a volte nella disperazione (mancanza di speranza) per quello che vedono accadere ai propri figli. Quali interventi, quali strumenti, quali modalità? Motivare questi ragazzi allo studio è un’impresa titanica. Come fare, se ciò che si muove ‘oltre’ la scuola è di così vitale importanza? Da parte dei genitori è fre-
quente il tentativo di limitare i danni di un tempo perso (abbandono scolastico o bocciatura) attraverso l’iscrizione a scuole private. Si cerca di interrompere il processo del ‘perdere tempo’, riguadagnandolo (2 anni in 1) o usando scorciatoie (promozione un po’ più garantita). Spesso con pochi o nulli risultati. Ma mi chiedo se è possibile, nel percorso di crescita che desideriamo per i nostri figli, mettere (in situazioni eccezionali) la scuola (la formazione) in secondo piano. Credo che in alcune situazioni sia necessario fare questo sforzo, poiché sono fermamente convinta che per quei ragazzi i problemi scolastici si affrontano solo spostando il focus dalla scuola e centrando invece sulle relazioni, all’interno del sistema familiare che viene preso in carico dallo specialista, secondo modelli flessibili ed efficaci: accompagnamento alla coppia genitoriale (il modello che preferisco), o terapia familiare o terapia dell’adolescente (questo, a mio parere, solamente in situazioni residuali). Mettendo questa volta in primo piano, quindi, al posto della riuscita scolastica, l’atteggiamento dei genitori di fiducia nel figlio.
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Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita e ha una storia, diventa più bello. Questa tecnica è chiamata Kintsugi. Rendere bello e prezioso chi ha vissuto un dolore… questa tecnica si chiama amore
Poter pensare che ce la farà, sperare al suo posto. Perché questi ragazzi hanno una grande paura di non riuscire a venirne fuori. Potergli dare la fiducia che non rimarrà impantanato per sempre, che ce la farà a costruirsi una vita piena e serena, magari anche finendo gli studi, realizzandosi nel lavoro. Evitando di fraintendere le crisi evolutive come equivalenti di rotture insanabili. Naturalmente i genitori (e quindi anche gli operatori) devono dare prova di particolare tolleranza, devono essere capaci di offri-
re conforto e di infondere speranza nelle situazioni che (ne sono consapevole) non potranno andare esenti da seri problemi. Questa fiducia è possibile se non ci si fa travolgere dalla rabbia (parliamo di adolescenti che sollecitano molto la risposta rabbiosa, naturalmente) riuscendo a vedere sempre nel figlio il suo bisogno di relazione, anche quando è molto difficile (perché ad esempio sta fuori casa giorni, aggredisce, offende). Dice Crocetti che nell’adolescente, per quanto celato dietro difese e atteggiamenti contraddittori,
esiste sempre un profondo bisogno di incontrare l’adulto. Solamente se questi a sua volta investe di desiderio tale incontro, può permettere al figlio di evolvere verso la crescita e la salute mentale. E accanto a questo atteggiamento sempre aperto all’incontro, accanto alla necessità di mantenere una speranza e la fiducia nelle possibilità di crescita sana del figlio, aggiungo anche il necessario tendere al piacere nella vita, al bello (tanto più importante se il proprio figlio è incastrato nel buio di alcuni atteggiamenti, nient’affatto vitali). È evidente che questi percorsi richiedono un sostegno ai genitori, alla famiglia. L’importanza dei percorsi di post-adozione è qui più cogente che mai. Per permettere ai genitori di continuare nell’impegno dell’accoglienza adottiva, nel crescere un figlio facendogli sperimentare (o ri-sperimentare) che ‘amare (gli altri, il mondo, la vita) fa bene’. Consapevoli che l’obiettivo di ogni genitore verso un figlio è, sempre… ‘aiutarlo a (ri)trovare la sua strada, fatta di passato, rivolta verso il futuro’.
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Roberta Lombardi Psicologa, psicoterapeuta sistemico-relazionale e giudice onorario tribunale per i minorenni di Roma, si occupa da vent’anni di adozione. È presidente dell’associazione Contuttoilcuorefamiglie, per l’orientamento, il sostegno e la cura delle famiglie adottive (www.contuttoilcuorefamiglie.it)
giorno dopo giorno
“Idoneità” o “Preparazione”? 32
di Elvira Ricioppo
E’ da tempo che faccio parte di un’associazione come GSD, per la precisione da pochi mesi dopo l’arrivo di nostro figlio in famiglia; prima ancora e all’inizio del nostro percorso, ho frequentato un gruppo di condivisione pre-adozione costituitosi presso il nostro consultorio, per volontà delle nostre due operatrici Laura e MariGrazia, sulla spinta di un nostro bisogno di capire e capirci. E’ da tempo che la nostra associazione organizza percorsi pre-adozione condotti da genitori; percorsi che si focalizzano sulla condivisione delle motivazioni, attraverso l’illustrazione delle esperienze delle famiglie che si sono costituite per adozione, con l’obiettivo duplice di dare informazioni e sostegno e allo stesso tempo creare reti tra coppie che poi diventano famiglie. In questi percorsi ascoltia-
mo molte esperienze di sofferenza della coppia che mi ha portato a pormi diversi interrogativi. E’ da tempo che mi chiedo come fare per aiutare le coppie a sentirsi accolte ed accompagnate verso la genitorialità adottiva, per non continuare a farle sentire inadeguate. E’ da tempo che mi chiedo come fare per rendere le coppie consapevoli che potrebbero o non potrebbero farcela. In modo particolare, quando i “fattori protettivi” sono carenti e il rischio di non farcela veramente c’è, ma per loro è difficile prenderne coscienza. Come possiamo aiutare una coppia a capire se è necessario fermarsi, senza devastarla ancora psicologicamente, dopo un percorso di sofferenza per la mancata genitorialità biologica? Io credo che tutti noi abbiamo delle responsabilità
verso le persone quando ne veniamo in contatto e in modo particolare nel nostro ambito associativo ed è quello dell’accoglienza. Il nostro obiettivo è indubbiamente il benessere del bambino. Tuttavia, è mio parere che per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo (tutti: operatori pubblici e del privato sociale) migliorare l’aiuto e il supporto che diamo alle coppie che si avvicinano all’adozione. Come? Certamente, dobbiamo riflettere di più su ciò che produce il “giudizio” – portare la coppia a diventare consapevole di se stessa va fatto in modo che questa diventi “auto-consapevole” delle sue potenzialità. Ieri su Facebook ho letto un articolo in cui si illustrava come in Svezia, a scuola, il colloquio non è tra insegnante e genitore, ma tra insegnante e alunno, pre-
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senti i genitori. Tale metodo è mirato a rendere l’alunno responsabile di sé, delle sue azioni e delle sue scelte. A mio parere è un modo maturo di affrontare la crescita della persona dal punto di vista educativo. Lo stiamo facendo nel percorso verso la genitorialità adottiva? Siamo maturati? O stiamo stimolando rabbia e insofferenza in molte coppie (non tutte ovviamente) che producono “sterilità” negli atteggiamenti indotti da tutto ciò? L’articolo citato, mi ha fatto pensare al fatto che il nostro sistema di valutazione delle risorse della coppia non è “maturo”, punta il dito e frequentemente, genera rabbia e senso di impotenza nella coppia, rafforzando il senso di inadeguatezza che nasce quando si “decreta” l’infertilità. Proprio, come negli alunni a scuola, mi vien da dire, quando si sottolineano sempre e unicamente gli aspetti negativi. Questo senso di colpa nasce da sé o talvolta viene indotto e “coltivato” da un sistema ancora incompleto ed inadeguato che non genera nelle coppie un atteggiamento positivo, stimolandole a pensare al proprio progetto di genitorialità adottiva in maniera pro-attiva e fertile, per
condurle ad una decisione consapevole se procedere o se fermarsi? Credo un po’ e un po’. Alla coppia che si avvicina all’adozione è già stato detto (nella maggior parte dei casi) che non potrà avere figli, sentenza devastante, magari dopo percorsi eccessivamente medicalizzati e senza supporto dal punto di vista emotivo; Nel percorso adottivo è un continuo pronunciare giudizi, seppure spesso non espliciti, da vari operatori. Anche noi genitori adottivi corriamo il rischio di esprimere giudizi, in quanto è ovvio che ci poniamo “dalla parte del bambino” essendo genitori che ci sono passati. Si parla di “studio di coppia”, valutazione, “indagine” conoscitiva/esplorativa, il colloquio in Tribunale (altro giudizio), il decreto di “idoneità” (pronuncia definitiva di un giudizio). Mi sono posta molte domande in questa riflessione, partendo dal “senso di colpa” che prova il bambino che mi ha portata a riflettere anche sul “senso di colpa”, l’insofferenza in ciò che la coppia ritiene sia un’invasione della propria sfera intima e personale, la burocrazia complessa, l’auspicata “idoneità” o la famosa telefonata del tribunale per un colloquio per l’adozione nazionale, le emozioni che
prova il genitore, ecc. e mi sono domandata: ma tutto questo è di aiuto per indurre la coppia ad arrivare con serenità all’incontro con il figlio tanto desiderato? E quanto incide sulle emozioni del dopo? Insomma, tutti questi termini e ciò che significano, spaventa. Le paure però possono essere placate se chi opera è competente ed è capace di creare empatia e far sentire accolto il dolore della coppia, per aiutarla a percorrere la strada della fertilità psicologica. Mi domando, non sarebbe opportuna una riflessione da parte di tutti sulla metodologia, sull’uso dei termini? Partiamo dai termini “idoneità” e “non-idoneità” e cosa suscitano in noi, specie se qualcuno ci ha già dichiarati “non fertili”. Siamo passati dall’uso di “domanda di adozione”, giustamente, all’uso di “dichiarazione di disponibilità all’accoglienza ...” – potremmo passare dal termine “idoneità” ad una “dichiarazione di preparazione all’adozione”, mi chiedo e chiedo a chi se ne occupa? Mettersi in discussione rispetto ad un progetto di genitorialità, adottiva o meno, è giusto e d’obbligo; è essenziale che ognuno di noi rifletta bene sul percorso che intende intraprende-
re, perché un bambino che diventa figlio è “per sempre”, deve esserlo. Eppure, oggi, il sistema per concludere il percorso pre-adottivo è a mio avviso “fragile” e da rivedere, da migliorare, da rimodellare per far si che tra coppia e operatori nasca una collaborazione, una unità di intenti, una rete, che sia di supporto alla famiglia dopo e in tutto il percorso di crescita famigliare in qualsiasi momento ci si trova ad avere bisogno. La coppia va “educata” non “bloccata” facendola sentire inadeguata. Ci sono operatori ben formati e molto capaci, che creano empatia e quindi riescono a produrre nella coppia una riflessione profonda; nascono rapporti che nel tempo diventano persino amichevoli e sono di grande aiuto, anche per altri motivi. Ci sono, invece, altri che non hanno una formazione sufficientemente “idonea” per fare lo studio di coppia, oppure altri ancora che utilizzano un metodo che non è di alcun aiuto. Ad un percorso formativo in cui relazionava Jolanda Galli (co-autrice di “Fallimenti Adottivi”), la conduttrice ha sottolineato che un operatore non dovrebbe fare un colloquio di valutazione ad una coppia subito dopo aver partecipa-
to ad un allontanamento. E’ evidente che l’emozione non permette di essere obiettivi, ma tutti gli operatori seguono questa modalità? Potrebbero esserci alternative percorribili? Alla coppia mi sento di dire che nessun genitore è nato imparato, nessuno ha mai passato un esame senza una preparazione adeguata. E’ del tutto assurdo che si presenti la “dichiarazione di disponibilità” sapendo poco o nulla di ciò che viene dopo. E’ pertanto essenziale prepararsi, frequentando un percorso di avvicinamento, tramite le famiglie adottive, e/o i servizi adozione (uno non esclude l’altro) PRIMA di andare in Tribunale a presentare i documenti. Per generare un figlio biologico si partorisce fisicamente e psicologicamente e quindi si va dal ginecologo, dall’ostetrica, nei consultori ci sono psicologo ed assistente sociale che provvedono ad informare sulla genitorialità, ecc. – si arriva alla gravidanza così. Perché dovrebbe essere diverso per l’adozione? Che è un percorso in cui il “parto” è completamente psicologico, e quindi l’ostetrica ed il ginecologo, sono sostituiti dallo psicologo, dall’assistente sociale, da tutti coloro che operano nel settore, comprese le associazioni
famigliari che costituiscono una rete di supporto concreto per le coppie, prima, e per le famiglie negli anni a venire. Mi sento di dire che molti sono gli operatori che vanno ancora formati adeguatamente, per un pieno ascolto della coppia, sempre con in mente il bisogno del bambino, è evidente. Tuttavia, mi spiace dirlo, ma non è così in tutte le regioni d’Italia. Vorrei terminare dicendo che non sono una madre perfetta e non lo sono stata, ho fatto molti errori, ma ho cercato di imparare da essi per non ripeterli. L’intento di queste mie riflessioni è di portare all’attenzione delle persone (coppie, famiglie, operatori) che è possibile migliorare il nostro sistema, basta volerlo con forza e determinazione da parte di tutti, partendo dalla riflessione su quanto ho evidenziato.
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Roma, Italia C’era una volta una donna che era la moglie di un uomo che amava molto e che era anche la mamma di un bellissimo bambino. Loro erano molto felici ma sentivano che c’era qualcosa che mancava. Un giorno la donna scoprì che aspettava un bambino e tutti ne furono molto felici, ma solo per poco tempo. Alla mamma fu infatti detto che dentro la sua pancia c’era solo la casetta per suo figlio, ma che suo figlio non sarebbe mai nato in quella piccola casa dentro la sua pancia. Quella notizia portò molto dolore nella famiglia. Un giorno, girando per casa, la mamma vide il mappamondo sopra al mobile del salotto e pensò che sembrava proprio una grossa pancia, la pancia che a lei non era cresciuta, e capì che da quella pancia poteva uscire il figlio (anzi la figlia,
perché avrebbe tanto voluto dare al figlio una sorellina) che tanto desiderava. Il marito aveva pensato la stessa cosa e si ritrovarono a immaginare quanto sarebbe stato bello avere un figlio latinoamericano, africano, indiano o addirittura cinese. Parlarono di questa idea al loro bambino che ne fu felicissimo. Passò il tempo e quel mappamondo divenne il centro della famiglia. Su di esso si fantasticava e, puntando il dito ad occhi chiusi, lo si faceva roteare e si metteva a turno un dito sopra ma non si fermava mai sullo stesso punto. Quel metodo non funzionava proprio! Parlarono allora con delle persone che si occupavano dei bambini di tutto il mondo che non avevano famiglia e che potevano essere adottati. Dopo qualche tempo questi signori chiamarono proprio
quella famiglia per comunicare che secondo loro il Burkina Faso, un bellissimo paese dell’Africa, molto povero ma pieno di persone belle e allegre, poteva essere il paese dove avrebbero trovato il loro figlio. Ouagadougou, Burkina Faso, Africa C’era una volta una donna che divenne, suo malgrado, anche mamma di una bellissima bambina. Quella mamma però sapeva che non avrebbe potuto crescere sua figlia e, siccome l’amava e sapeva che da qualche parte del mondo ci sarebbe stata una donna che ne sarebbe diventata la mamma, la diede a delle donne che l’accolsero e l’accudirono. La neonata divenne una bambina bellissima che voleva sempre stare in braccio alle donne che l’avevano accolta nella loro casa con loro. © simone berti
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Queste donne le dicevano che un giorno avrebbe dovuto lasciare quel posto per andare a vivere con la una mamma ed un papà che l’avrebbero amata per tutta la vita. Roma, Italia Il tempo scorreva lento lento lento nella casa della famiglia di Roma. Si scrutava il mappamondo con una lente d’ingrandimento sperando di vedere se per caso una bambina stesse cercando proprio loro, ma non riuscivano a vederla. Imparavano nel frattempo la lingua, gli usi e le abitudini di quel fantastico paese. Era quasi Natale quando i due genitori vennero chiamati dai signori che si occupavano dei bambini lontani che gli misero sotto gli occhi la fotografia di una meravigliosa bambina di quattro anni. La foto si riempì tanto di lacrime che i genitori ebbero paura di averla fatta
svanire ancora prima di conoscerla. E la foto si consumò ancora quando venne portata al fratello e ai nonni che non riuscivano a credere di poter dare finalmente un volto e un nome a questo desiderio che tante volte era sembrato quasi un illusione. Tornati a casa videro comparire sul mappamondo una bella carrucola con un filo rosso che univa l’Italia al Burkina Faso e su quel filo trovavano ogni tanto appese fotografie e racconti sulla loro amata bambina. Allora anche loro cominciarono ad appendervi, con delle mollette colorate e rivestite di cuori brillanti, una bambola, le fotografie di ciascuno di loro, dei loro parenti e della loro casa. Il tempo passava e le foto non bastavano più. Avrebbero voluto sentire la voce della bambina, sapere cosa le piaceva mangiare, se preferiva colorare o giocare a nascondino. Avrebbero voluto tenerla
in braccio, baciarla, coccolarla, giocare, mangiare e dormire con lei. Mancava un mese ad un altro Natale e un giorno, da quel mappamondo, comparve un aeroplano pronto a portarli in Africa. Ouagadougou, Burkina Faso, Africa Il tempo scorreva lento lento lento nella casa dove abitava la bella bambina che si era fatta tanti amici che, come lei, non avevano né una mamma né un papà. Alle volte però succedeva che si creava un gran trambusto nella casa dove abitava perché si aspettava l’arrivo dei signori che sarebbero venuti a prendere uno dei suoi amici. La bambina si dispiaceva molto che, uno alla volta, tutti i suoi amici andavano via. Un giorno però vide comparire una carrucola con un filo rosso proprio accanto al suo letto che portava per lei, solo per lei, dei regali e le foto di due signori e un
bambino. Le signore che si occupavano di lei le dicevano che doveva essere felice perché questi signori sarebbero venuti per portarla con loro in una bellissima casa e che sarebbero diventati i loro genitori e che il bambino sarebbe diventato suo fratello. Lei tuttavia non capiva bene la faccenda. Ogni tanto una signora veniva a farle tante domande, la portava perfino in ospedale, e questo proprio non le piaceva; però di notte, senza che nessuno se ne accorgesse, alla chetichella, la bambina si avvicinava al filo rosso per vedere se per caso non fosse arrivato qualcos’altro per lei. In fondo quel filo rosso era l’unica cosa veramente sua di quel posto dove stava crescendo ma dove non aveva nulla. Perfino le scarpe che metteva un giorno, il giorno seguente le vedeva ai piedi di un’altra bambina e questa cosa proprio non le andava giù. Ma il tempo passava e quel
suno avrebbe mai potuto spiegarle cos’è una famiglia e perché avrebbe dovuto lasciare le donne che l’avevano abbracciata nei momenti tristi per andare con delle persone che aveva visto soltanto per fotografia. Felicità … Paura. Il giorno dell’incontro era arrivato. Cominciavano i primi, piccoli ma fondamentali passi Roma – Ouagadougou – vero il Noi. Noi quattro insieme. Per sempre Noi Felicità … Paura. Mamma mia. Il gran giorno dell’in- Paola Grassi contro stava per arrivare. La mamma non era riuscita a dormire la notte prima dell’incontro immaginando le paure della piccola bambina. L’unica cosa che la tranquillizzava era la presenza del suo fantastico figlio che era sicura che avrebbe fatto subito breccia nel cuore della bambina. La bellissima bambina era stata preparata all’incontro, le avevano messo perfino delle treccine con nastrini colorati, ma nesfilo rosso non le bastava più. Un giorno la signora che veniva ogni tanto le disse che si sarebbe dovuta vestire bene, farsi bella, perché i due signori e il bambino (che non voleva ammetterlo ma le piaceva tanto con quegli strani puntini sul naso) sarebbero venuti a prenderla.
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Pino perfettino e la fata turchina 40
Era un bambino a detta di tutti – nonni, maestre, amici – buono, educato, benvoluto dai compagni, legatissimo ai genitori. Il classico angioletto paffuto, occhi celesti, capelli biondi. Mai capricci esagerati, socievole quanto basta, solo un po’ timido in certi frangenti,
un ometto anche a tavola. Ricordo ancora quando lo portavo alla scuola materna i primi tempi: non una lacrima, solo a volte il viso un po’ contratto se non vedeva l’amichetto preferito in classe. Controllato nell’esprimere le emozioni. Sempre moderatamente
contento delle proposte che gli facevamo. Sempre smodatamente al centro dell’attenzione dell’intera grande famiglia che si compiaceva di lui, di noi. Allora, a giorni alterni, credevo di essere orgogliosamente una brava mamma; oppure di essere stata semplicemente molto fortunata. L’avete mai letta una storia deliziosa per bambini, firmata da Stefano Bordiglioni, che già nel titolo “Pino Perfettino” parla di un bambino modello ideale di ogni mamma? Solo nell’ultima pagina accade quel che è giusto: un’insolita fata turchina trasforma il protagonista in Pinocchio! E solo Pinocchio, disubbidendo e dando un calcio con rabbia a tante convenzioni, riuscirà un giorno a diventare un bambino vero. Anche nella nostra famiglia ad un certo punto si è presentata questa fata
turchina al contrario. Una piccolissima fata con un caschetto di capelli neri neri e due occhi molto furbetti. Quando è arrivata lei, quattro anni fa, mio figlio, per il primo periodo di convivenza, ha continuato a interpretare il suo ruolo di bravo bambino, svolgendo peraltro molteplici funzioni: dall’alto dei suoi sei anni ha fatto, per la sorella di un anno, da fisioterapista, logopedista, psicologo. Con lui, solo con lui, mia figlia ha iniziato a sciogliersi, a fare i primi sorrisi, i primi movimenti, le parole… La trasformazione inizialmente era quasi impercettibile, fino a quando si è fatta inarrestabile, travolgendo tutto e tutti. I decibel in casa nostra sono esponenzialmente cresciuti, improvvisamente anch’io sono diventata una strega cattiva, una di quelle mamme urlanti alle prese con
continui litigi che esplodono senza una ragione effettiva, e che ho sempre biasimato. La nostra casa, la nostra vita familiare è oggi cento volte più confusionaria, caotica, rumorosa, sempre fuori tempo massimo. Io mi sento molto più imperfetta, pasticciona, insoddisfatta, ma forse più vera. E lui, mio figlio, è quello che è cambiato di più. La sorellina ha come sollevato il coperchio di tutta la rabbia che ha dentro. Una rabbia di bambino di quasi undici anni che sta crescendo e che ha bisogno di urlare al mondo tutta la sua gelosia, la paura di cambiare, la frustrazione tra ciò che vorrebbe essere e fare e l’impossibilità di realizzarlo ancora. E’ capitato che, al colmo di una delle loro litigate, lui sia esploso con cattiveria: “Perché non ritorni in Vietnam?!?”.
Anche lei in certi momenti non è da meno: “Mamma, io volevo essere figlia unica”, ma un attimo dopo s’illumina se suo fratello la chiama a giocare. Per lui è sempre in serbo una caramella nella taschina del grembiule della scuola. Detonatore della sua rabbia, chiave di volta della sua adozione. Perché è lei a parlare molto di più, senza remore, della sua storia, a fargli domande, a chiedergli spiegazioni, a costringerlo a venire fuori anche su questo tema delle origini. Pino perfettino, grazie a una piccolissima fata turchina, si è trasformato in Pinocchio e chissà se lo riacciufferemo mai più nelle sue incursioni fuori casa alla ricerca della propria autonomia e libertà!
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Ti sia leggera la terra su cui cammini… 42
Il ragazzo a sinistra della foto indossa una Kippah. Quello a destra una Kefiah. Uno è ebreo, l’altro arabo. Entrambi sono senza nome, un anonimato che ci piace perché non rende questa foto particolare ma universale. La foto, l’avrete notato, è leggermente fuori fuoco nel campo lungo, però è bello pensare che sullo sfondo si intraveda la Città di Gerusalemme, contesa perché troppo amata. Il giovane ebreo indossa una Kippah di velluto nero, lo si intuisce anche a distanza. Quindi possiamo dire di lui che è uno studente di una Yeshivah, le scuole rabbiniche. Se ne avrà voglia e capacità domani potrà essere un rabbino, capace di guidare la sua gente citando e reinterpretando la Bibbia e il Talmud. Della Kefiah del ragazzo
che gli è accanto non possiamo invece dire molto se non che la trama del tessuto è quella più comune dei copricapi arabi. Non è dunque una dichiarazione di volontà di indipendenza, come avremmo potuto dire se il tessuto fosse stato bianco o nero. I loro copricapi non sono dunque dichiarazioni politiche ma dimostrazione di un’identità profonda, bella perché radicata nella loro storia personale. Ciò che è ancora più bello, però, è il gesto amichevole delle due braccia che si incrociano in un abbraccio reciproco, come avviene tra amici che stanno bene insieme e che hanno molte cose da dirsi e camminano, sperando che la strada duri più a lungo possibile perché le parole possano uscire senza fretta. Non sorridono apertamente e questo è un bene, altri-
menti avremmo pensato a una posa fotografica fatta a uso e costume di chi li aveva inquadrati. Se così fosse stato, avremmo avuto il sospetto che trascorso il tempo della foto i loro passi si sarebbero subito separati, con indifferenza se non con rancore e ostilità. L’altezza dei due ragazzi è simile, possiamo dunque immaginare la stessa età, lo crescere insieme, spazi condivisi, senza mura a dividerli, senza documenti da esibire ogni volta che nasce il desiderio dell’incontro. La strada non asfaltata ci racconta di un percorso fuori dalle mura cittadine e anche questo è bello: spesso quelle mura sono causa di odio reciproco. Qui invece, sulle colline intorno a Gerusalemme dove ebrei e arabi incrociano spesso la loro esistenza, ciò che conta è il reciproco cercarsi. La foto non ha tempo, po-
trebbe essere stata scattata ieri, oggi, domani. E’ questa è una fortuna. Non ci permette di sapere se domani, crescendo, l’abbraccio lascerà il posto ai pugni. Per ora possiamo sorridere felici nel vedere che il futuro assomiglia a questi due ragazzi, che camminano ignari dell’odio. Antonio Fatigati
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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu
La magia o la bugia di Babbo Natale? 44
C’è un periodo in cui ogni anno educatori e genitori si pongono sempre la stessa domanda: Quando e come va detta ai bambini la verità su Babbo Natale? Nel periodo natalizio, se da un lato gli adulti hanno nostalgia di quando erano piccoli, i bambini sperimentano emozioni a volte contrastanti, condizionati dal consumismo e dalla precarietà. Non voglio entrare nel merito dell’organizzazione della società nel periodo natalizio, ma invece analizzare quali siano sul piano educativo i valori importanti da salvare rispetto all’antica usanza di raccontare ai bambini dell’esistenza di Babbo Natale. L’omone vestito di rosso e con la barba bianca, Babbo Natale o in qualsiasi modo lo vogliamo chiamare, rappresenta indirettamente il fatto che tutti noi abbiamo sogni e desideri. Nella nostra vita, e soprattutto in quella
dei bambini, è fondamentale avere la capacità di sognare; desiderare qualcosa significa poter pensare che le cose possano cambiare a seconda dei propri comportamenti; a volte desiderare qualcosa rimane sempre e comunque una spinta per raggiungere i propri obiettivi più profondi. Per affron-
chi riceve sia chi dà. Non bisogna avere troppa fretta di parlare con i bambini della vera natura di Babbo Natale; in ogni caso si può spiegare che anche se non arriverà più, ci sono altri modi di essere gratificati per comportamenti corretti e positivi. Spesso è difficile spiegare ai bambini che
“Quando e come va detta ai bambini la verità su Babbo Natale?” tare la vita in un modo ottimistico o comunque positivo c’è bisogno di avere quella speranza costruttiva per la quale, mettendo il nostro impegno, si hanno maggiori possibilità di successo. Nel caso dei bambini, Babbo Natale rappresenta proprio colui che porta i regali, i premi, ma indica anche il concetto che dare qualcosa agli altri rende felice sia
basta proprio poco per dare un po’ di allegria e serenità come può fare un babbo natale. Tutti noi possiamo essere ogni tanto una sorta di piccoli babbo natale che dispensano doni a chi ne ha bisogno, proprio come ci suggerisce la storia raccontata nel poetico albo illustrato Il mio piccolo Babbo Natale.
Š sabina betti
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La storia è quasi per intero raccontata per immagini. Il testo è ridotto a poche frasi, ma come sempre il lettore può riempirlo con altre suggestioni date dalle illustrazioni. In un ambiente tutto bianco, proprio il pomeriggio del 24 dicembre, appare un piccolo Babbo Natale. La co-protagonista della storia, una bambina di nome Magali, lo scorge scendere dal cielo con una 46
la sua bambola Carolina, la prende e corre di nuovo in mezzo alla neve dove la aspetta il piccolo Babbo Natale. Questa volta è Magali ad essere il vero babbo natale della storia, ed è lei che dispensa un dono a chi non ha niente. Questa volta è il piccolo Babbo Natale a chiedere incredulo “è per me?”. I due si salutano con un arrivederci al prossimo anno. Il piccolo Babbo Na-
“per fortuna tra poco arriva il Natale e possiamo esprimere dei desideri!” specie di paracadute. Io ti ho visto! Tu sei venuto giù dal cielo! Tu sei il vero Babbo Natale! Pensa la bambina. Ma il piccolo Babbo Natale dice alla bambina che non ha regali, non ha giocattoli o caramelle; lui è un piccolo Babbo Natale che non ha proprio niente. All’inizio Magali non ci crede, è stupita e sorpresa; dopo un solo istante però ha un’idea e chiede al piccolo Babbo Natale di aspettarla un attimo. La bambina col cappello azzurro corre veloce in mezzo alla neve ripetendo a se stessa che il piccolo Babbo Natale non ha niente. Entra nella sua camera piena di giochi, giocattoli e pupazzi. Chiama
tale ritorna fra le nuvole con il suo dono inatteso e la bambina rimane contenta a guardare la neve dalla finestra, pensando a come ha reso felice il suo piccolo Babbo Natale. Raccontare ai bambini di Babbo Natale non è come raccontare le bugie. In un certo senso è quello che tutti gli scrittori fanno: attraverso storie e personaggi semplificano concetti difficili da capire. Non si tratta di una bugia ma di una favola educativa. Il mondo fantastico di Babbo Natale è un’affascinante invenzione che serve per creare un linguaggio adatto ai più piccini. Questo linguaggio va utilizzato fin quando i
bambini dimostrino di apprezzare storie e racconti di fantasia. Arriva poi un momento in cui è possibile raccontare le cose come veramente sono, aggiustando la spiegazione a seconda dell’età. Secondo me gran parte della discussione deriva dalla difficoltà di molti adulti di comunicare con i propri bambini; qualcuno sembra quasi voler anticipare sempre di più l’uscita dei bambini da quella dimensione di sogni e desideri, facendoli crescere troppo rapidamente e portando via quasi violentemente il loro mondo magico. Quando a otto anni mio figlio più grande mi ha detto che gli avevo raccontato una bugia su Babbo Natale e che non mi avrebbe mai più creduta, per me, che prèdico sempre la verità, è stato un duro colpo. Con il secondo figlio non volevo arrivare alla stessa situazione; ora che ha otto anni vedo che in lui sta lentamente affiorando la realtà; lui sente che quella di Babbo Natale è una stupefacente invenzione, ma sente anche di voler rimanere ancor un po’ in sospeso cercando di prolungare la magia. Un giorno mi ha detto “comunque Babbo Natale esisterà sempre nei nostri mondi fantastici”. A scuola qualcuno gli aveva detto che non esiste ma,
forse ancora per quest’anno, lui ha trovato un modo per giustificare a se stesso il fatto che vuole crederci ancora. Si tratta di un gioco in cui io so che lui ha capito e lui sa che io lo so; noi però continuiamo a leggere i libri sulle storie di Babbo Natale, di slitte e di renne per poter volare ancora con la fantasia restando comodamente accoccolati sulla poltrona del salotto. Quest’anno abbiamo deciso, come ci suggerisce Beatrice Masini, di leggere ogni giorno una storia sul Natale, come in una sorta di calendario dell’avvento fatto di piccoli racconti da leggere uno al giorno, dal primo al 24 dicembre. Nel libro Il viaggio dei tre re, le ventiquattro storie hanno come protagonisti tre re che sbagliano cometa ma fanno ugualmente un viaggio incontrando persone e situazioni fantasiose e poetiche. I racconti sono ognuno di poche pagine e si prestano perfettamente a questo gioco in attesa dell’avvento. Anche se non si è particolarmente religiosi si possono comunque vivere queste giornate come un periodo in cui si aspetta un momento di condivisione e di serenità. In alternativa è possibile anche leggere qualche libro a puntate, a seconda dell’età dei bambini. Quando è il bambino a scoprire, ma-
gari tramite un amico, che Babbo Natale non esiste, l’unica cosa da fare è spiegare con serenità e allegria il modo in cui la leggenda di Babbo Natale è nata. Si può colmare il vuoto che sente dandogli delle informazioni sulla leggenda di Nicola: questo amico dei bambini non solo dispensa doni ma insegna ai bambini ad aiutare gli altri, a soccorrerli in caso di bisogno e a spronarli a fare dei piccoli doni, anche se solo simbolici. Ad ogni modo, poiché i bambini utilizzano il pensiero magico per darsi una spiegazione di situazioni complicate e Babbo Natale può essere considerato per il bambino un referente simbolico utile a rinforzare una buona atmosfera emotiva del Natale, è necessario evitare un brusco svelamento della realtà; per evitare di mandare in frantumi le fantasie e i sogni dei bambini è necessario usare dolcezza e gradualità, soprattutto se il bambino è legato alla figura fantastica di Babbo Natale. Inoltre i due genitori devono cercare di non dare messaggi contrastanti in cui uno alimenta il sogno e l’altro riporta alla realtà. Nel rapportarsi ai bambini ci
vorrebbe sempre un accordo sulle modalità e i tempi da seguire. In questo periodo non si devono leggere esclusivamente libri a tema natalizio. Gli adulti possono prendere spunto dal clima generale e approfittare per leggere insieme ai bambini libri che stimolano la fantasia e l’immaginazione. Proprio il pomeriggio del primo dicembre decido di iniziare a leggere un piccolo albo illustrato con mio figlio; lui non ne vuole proprio sapere, è arrabbiato e mi dice che la sua giornata a scuola è stata molto difficile e che non gliene importa niente del Natale e del mio libresco calendario dell’avvento! Ha litigato con un suo amico, la verifica di geografia è andata male e la maestra lo ha sgridato perché lui ha osato dire che le domande non corrispondevano a quello che la stessa maestra aveva detto di studiare. Prima mi dice “vorrei una bacchetta magica per disintegrare tutto il mondo” ma poi aggiunge: “per fortuna tra poco arriva il Natale e possiamo esprimere dei desideri!”. Ecco allora ho di nuovo ripreso il libro fantastico e ho pensato che per risollevare
“Babbo Natale esisterà sempre nei nostri mondi fantastici”
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il morale a mio figlio avrei potuto proporgli un viaggio con la fantasia. Ho sempre pensato al valore pedagogico della letteratura per l’infanzia, ma in questo momento ho apprezzato soprattutto il valore magico e catartico delle storie per bambini. Tarpare le ali della fantasia ai bambini svelando troppo in anticipo la realtà è controproducente. Infatti, a guidare le opere di molti scrittori non c’è un
preciso messaggio educativo ma il semplice desiderio di divertire e far sognare e i bambini. Anche Clayton Dallas in Un libro fantastico invita a coltivare i propri sogni e le proprie speranze senza lasciarsi vivere nella monotonia. Lo stesso autore racconta della forza del suo sogno di pubblicare questo libro anche se all’inizio tutti gli editori a cui si era rivolto lo avevano rifiutato. A quel punto non si è arreso e ha imparato a pubblicare
il suo libro sul web. Molti lettori lo hanno richiesto on-line e poi anche qualche editore si è fatto avanti per pubblicarlo. L’autore ci racconta: avevo scritto questo libro per mio figlio, volevo che sapesse che non avrebbe mai dovuto smettere di sognare … La mia unica speranza è che nel suo piccolo questo libro possa aiutarvi a realizzare i sogni, non importa quanto siano grandi!. Un piccolo libro per sognare in grande! Si tratta proprio di una storia semplice e di un disegno originale che conquista tutti per la meravigliosa umanità dei personaggi. La lunga e surreale carrellata di disegni colorati, effervescenti e un po’ pazzi ci ricorda come devono essere i sogni. L’autore sembra quasi fare una poesia di ringraziamento all’immaginazione, soprattutto a quella dei bambini dalla quale noi adulti dobbiamo sempre imparare. L’autore ci esorta a continuare a sognare, a incuriosirsi, a sperare, in grande, senza limiti
Bibliografia Il viaggio dei tre re. B. Masini, San Paolo Edizioni, 2013 Il mio piccolo babbo natale. G. Vincent, Edizioni C’era una volta, 1996 Un libro Fantastico. C. Dallas, Salani Editore, 2013 A casa per natale. M. L. Bigiaretti, Anicia Edizioni, 2005 Il berretto di natale. S. Lipan, E/O Edizioni, 2005 Storia di un albero di Natale. D. Madelenat, Jaca Book, 2006 Il grande viaggio del piccolo Babbo Natale. A. Stohner, Emme Edizioni, 2006 Mamma, quanto manca a Natale? A. Shneider, Nord-Sud, 2004 Niente giocattoli, quest’anno! C. Neugebauer, Nord-Sud, 2000 Sogno di neve. E. Carle, Il Castoro, 2001 Gli uomini rossi. Pef, EL Edizioni, 2002 Il pacchetto rosso. L. Wolfsgruber, Arka, 1995 Papà, decoriamo l’albero? M. D’Allancè, Babalibri, 2007 Il berretto di natale. S. Lupin, Edizioni e/o, 2006 I panini di natale e altre storie. G. Quarzo, Interlinea, 2008
Siti interessanti Un libro fantastico. =DOKGVWNfJU4
http://www.youtube.com/watch?v
Bibliografia sul Natale www.comune.fi.it/materiali/biblioteca_isolotto/biblionatale.pdf
per poi progettare, creare e fare. Questo albo illustrato ci ricorda che sognare è indispensabile poiché è come un motore che spinge a realizzare i propri sogni; solo sognando e immaginando cose non abituali e fuori dal comune, fuori dagli schemi, si può dar luogo a idee innovative e soluzioni creative. Il libro parla dei sogni che si fanno di notte e di quelli che si fanno di gior-
no. Parla di chi non riesce a sognare, o sogna solo cose tristi e monotone come mobili e posate anziché unicorni a razzo, macchine spara caramelle, magiche navi a forma di anguria. Il libro inizia con la considerazione che ci sono al mondo luoghi in cui la gente addirittura non sogna; poi l’autore prosegue però descrivendo tutti i sogni, quelli semplici e quelli complicati; qualsia-
si essi siano, devono essere grandi, anzi più grandi, giganti; sogni scatenati, sogni che fanno rumore, urlando e poi cantando, sogni pazzeschi. Mi ha entusiasmato quando l’autore immagina una strada e la indica a tutti come il sentiero dei sogni, anzi il “sognitero” dove passano tutti i sogni, anche quelli che non si fanno e quelli che si potrebbero fare. Ognuno ha i propri sogni e con questi ognuno può cambiare quello che c’è e quello che non c’è. E se qualcuno dice che un sogno così grande non si può avverare, bisogna rispondere che un sogno può tutto, può capovolgere la terra con il cielo. Il potere dei sogni non ha tempo: non c’è un’età per smettere di sognare, ogni momento vale per sognare e per poi creare il mondo desiderato.
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trentagiorni
Russia, dal 1° gennaio estinto l’accordo bilaterale con gli Stati Uniti Cala il sipario sulle adozioni di bambini russi da parte di famiglie statunitensi. Con l’inizio del nuovo anno l’accordo russo – americano sulla collaborazione in materia di adozioni è da considerarsi ufficialmente estinto. L’annullamento di tale accordo era stato annunciato un anno fa, nel momento in cui il Cremlino promulgò la “legge federale 186614-6”. La norma, firmata dal Presidente russo Vladimir Putin il 28 dicembre 2012, proibiva di fatto l’adozione di minori russi da
parte di cittadini americani. In seguito a questa legge, Mosca informò Washington della propria intenzione di cessare l’accordo sulla collaborazione in materia di adozioni. Era stato il capo del comitato della Duma per gli affari internazionali Alexei Pushkov, nell’aprile scorso, a pronunciarsi in favore del completo annullamento dell’accordo bilaterale in materia di adozioni tra la Russia e quei Paesi dove il matrimonio gay è legalmente consentito, tra cui proprio gli Usa. Dal 1° gennaio 2013, data di entrata in vigore della legge “anti-americana”, l’accordo
bilaterale è rimasto in vigore per un anno, esclusivamente per fare in modo che venissero completati gli iter adottivi già avviati e per i quali era già stata emessa la relativa sentenza positiva sull’adozione da parte del Tribunale russo. A partire dal 1° gennaio 2014 quindi nessun bambino russo fuori famiglia può più trovare dei nuovi genitori nel Paese a stelle a strisce. L’accordo Usa-Russia ha avuto poco più di un anno di vita, essendo entrato in vigore solo il 1° novembre 2012. Fonte: aibi.it
Congo, interrogazione a Catherine Ashton L’europarlamentare Lara Comi ha presentato un’interrogazione all’Alto Rappresentante Ue chiedendo se il Servizio Europeo di Relazione Esterna non debba essere coinvolto nella vicenda del blocco delle adozioni Lara Comi, eurodeputato di Forza Italia, ha presentato una interrogazione all’Alto Rappresentante Ue, Catherine Ashton, in merito alla vicenda delle decine di famiglie europee (italiane, belghe e francesi) bloccate nella Repubblica democratica del Congo per lo stop delle adozioni internazionali. La Comi chiede alla
Ashton «se non ritenga che, essendo coinvolte famiglie di diversi Stati Membri, il Servizio Europeo di Azione Esterna debba essere parte attiva dei negoziati per sbloccare la situazione» e «quali aiuti in termini di garanzie o in termini economici o di supporto diretto può fornire l’Ue alle famiglie che stanno vivendo questa drammatica situazione». Le famiglie italiane nel frattempo sono praticamente tutte rientrate, senza i bambini che già portano il loro cognome e con cui avevano già legato affettivamente. «L’Europa – dice Comi – non può far finta di nulla ma deve al contrario
farsi carico di questa situazione assurda e drammatica che coinvolge molte famiglie europee. L’Ue non può fare sentire la propria voce solo per i vincoli e i parametri di bilancio da rispettare, ma deve essere vicina e cercare di risolvere anche i problemi reali dei suoi cittadini e intervenire con autorevolezza, attraverso la diplomazia e il dialogo con gli altri Paesi, ogniqualvolta rientrino in gioco i legittimi interessi dei suo Stati Membri. E gli interessi affettivi non valgono certamente meno di quelli, pur importanti, di natura economica». Fonte: Vita.it
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