Adozioni e dintorni - GSD Informa novembre-dicembre 2015

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - novembre/dicembre 2015 - n. 6

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - novembre/dicembre 2015 - n. 6

novembre-dicembre 2015 | 006

L’avvocato non

basta

Origini e originaltà Di orsi e uova... Una valigia molto

grande

GSD informa

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editoriale

di Luigi Bulotta

psicologia - pedagogia e adozione 6 9

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L’avvocato non basta di Monica Nobile Origini e originalità di Massimo Maini e Daria Vettori giorno dopo giorno

Di orsi e uova, di cartoni animati e viaggi della vita di Francesca Sivo Una valigia molto grande di Marta e Alberto

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leggendo

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trentagiorni

Parole fuori di Marina Zulian

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro direttore@genitorisidiventa.org; Simone Berti, Firenze

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pier Paolo Puxeddu+Francesca Vitale studio associato, Roma progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Pier Paolo Puxeddu, Roma

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Luigi Bulotta

Bambini in attesa (#lavitanonaspetta)

editoriale

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Un ricordo di tanti anni fa. Da una parte mio figlio che, come spesso accadeva, aveva dato il meglio di sé in un capriccio che lo vedeva opporsi a sua madre e non accennava a fare marcia indietro. Dall’altra mia moglie che, stanca di tanta ostinazione, iniziava a perdere la pazienza. La situazione non accennava a risolversi, così decisi di mettermelo sulle spalle e portarlo in giardino per farlo calmare. Ricordo che lui all’inizio non era molto d’accordo e tentava di scalciare per scendere a terra, ma lo tenevo ben saldo, tanto da non concedergli molte vie di fuga. Il giardino era completamente al buio e le stelle, sopra di noi, erano così vicine da poterle quasi toccare. Iniziai a dondolarlo, a parlargli con voce pacata, a indicargli le stelle, cercando di spostare la sua attenzione su qualcosa di diverso dal capriccio dietro cui si era ostinato. A ripensarci oggi, non sono neanche ben sicuro che capisse ancora tutto ciò che gli dicevo, però, poco alla volta, sentivo che la sua tensione si affievoliva e che non ero più costretto a trattenerlo. Anche lui adesso guardava le stelle, completamente rilassato e col mento appoggiato sulla mia testa. Poi all’improvviso, con una voce che non gli conoscevo, iniziò a cantare in ucraino, lingua che pensavo avesse già dimenticato, una canzoncina di cui conosceva a menadito tutte le strofe. Ed io, sotto di lui, zitto e immobile per paura che smettesse. Nato tutto da un’opposizione, ma sfociato in un momento di grande intimità e fiducia, uno dei ricordi più teneri che ho dei miei primi passi da padre. Me n’ero quasi completamente dimenticato fino all’altra sera, quando l’ennesima discussione con mio figlio, che ora non ha più bisogno di salirmi sulle spalle per guardarmi dall’alto in basso, mi ha fatto tornare in


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mente quella serata di fine estate di tanti anni fa e riflettere su quanto sia stato importante per lui, e lo sia ancora oggi, potersi affidare a qualcuno. Mi piacerebbe che la stessa possibilità venisse data ai tanti bambini e bambine che aspettano che una famiglia si occupi di loro. E che a tante famiglie venisse data la possibilità di sperimentare tutta la carica di amore che sentono di poter donare. Che i tanti figli e genitori che sono in attesa da tanto, troppo, tempo abbiano, finalmente, la possibilità d’incontrarsi ed iniziare una nuova famiglia insieme. Tanti auguri a tutti, non solo per Natale, ma per tutta la vita.


psicologia-pedagogia e adozione 6

di Monica Nobile pedagogista, counsellor

L’avvocato non basta

Succede, può succedere, che in una famiglia con figli adolescenti, accadano eventi che i genitori, da soli, non sono in grado di gestire. Mi riferisco, in particolare, a quando si rende necessario, per diversi motivi, il ricorso alle autorità esterne. Ho raccolto spesso, in questi anni, testimonianze e richieste di aiuto da genitori che si trovano a far fronte a comportamenti illegali da parte dei figli o a comportamenti che per il grado di pericolosità comportano l’intervento delle forze dell’ordine. Una fuga prolungata da casa, il consumo e lo spaccio di sostanze stupefacenti, un furto, un atto di vandalismo, un comportamento sessuale pericoloso perché messo in atto con persone molto più adulte, l’utilizzo trasgressivo di internet, la diffusione in rete

di video provocanti sino ad essere pesantemente pericolosi, azioni sconsiderate in conseguenza ad abuso di alcolici… Quello che accade in una famiglia quando si verificano questi ed altri casi è drammatico. I genitori si sentono inadeguati, spiazzati e smarriti, spesso drammaticamente soli. Non basta più la punizione, il comportamento fermo del genitore, il dialogo, saltano i normali parametri che in una famiglia si utilizzano per far fronte all’adolescenza dei figli. E saltando i parametri, rischiano anche di saltare le competenze genitoriali. Ci si chiede cosa si è sbagliato: si può essere all’altezza quando un figlio l’ha combinata così grossa da portare la famiglia in questura e dall’avvocato? È necessario riflettere su

alcune questioni rispetto ai ragazzi adottati. La prima è che la ricerca identitaria tipica dell’adolescenza diventa prorompente nell’adolescenza adottiva. In questa fase di crisi succede che gli adolescenti adottati mettano in atto comportamenti e codici trasgressivi che trovano anche radice nei loro vissuti precedenti all’adozione, in istituto o in situazione di pesante disagio sociale. La seconda è che la percezione del rischio da parte degli adolescenti adottati sembra essere (anche dai dati forniti dalla lettera-


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tura in materia) molto più bassa rispetto ai coetanei. Sono ragazzi che hanno sperimentato nella loro infanzia la capacità di affrontare situazioni estreme sviluppando resilienza e resistenza ad interventi educativi. La terza è che il disagio espresso da questi ragazzi in ambito sociale spesso coincide e si accompagna ad un disagio a scuola sino all’estrema conseguenza dell’abbandono scolastico. Ecco perché le famiglie hanno bisogno di un aiuto che coniughi aspetti legali e aspetti educativi, peda-

gogici, psicologici e di terapia familiare. Se da un lato la famiglia deve affrontare il “calvario” istituzionale del caso, dall’altro ha bisogno di essere accompagnata nella gestione del terremoto che questi eventi comportano. Le vie legali sono lunghe, tanto che i ragazzi difficilmente colgono il nesso tra il loro comportamento e la conseguenza penale di questo. Possono passare anni. Nel frattempo, da subito, la famiglia ha bisogno di ripensarsi, di riorganizzarsi dalle fondamenta, per evitare che il comportamento distrutti-

vo di un figlio si traduca in una distruzione del clima familiare sino a trasformare la casa in una gabbia dove nessuno può sentirsi bene e al sicuro. C’è bisogno di esperti che aiutino i diversi membri della famiglia a rimettere in circolo emozioni e sentimenti, c’è bisogno di un accompagnamento della famiglia che ha bisogno di trovare risposte per riorientare e riformulare il proprio stile educativo. C’è bisogno di esperti che aiutino i ragazzi a ritrovare un posto nella scuola, anche attraverso l’intervento con i suoi insegnanti, perché an-


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dare a scuola, per un figlio “nei guai”, rappresenta un fondamentale atto di normalità di cui c’è particolare bisogno proprio in questo tipo di situazioni. Ho conosciuto, nel Veneto, una realtà interessante, nata da poco per volontà di un gruppo di avvocati che hanno costituito un’associazione con psicologi e pedagogisti, proprio nel tentativo di dare una risposta adeguata alle famiglie che si trovano ad affrontare queste difficoltà. Penso sia una giusta idea, che possa essere un’esperienza da proporre e da estendere in altri territori affinché esista un luogo dove portare non solo quesiti tecnici ma anche il proprio dolore e i propri profondi interrogativi. C’è poi un’ulteriore considerazione da fare, che riguarda la vita sociale e di

relazione dei genitori che affrontano questo tipo di difficoltà. Quando ci si trova davanti ad un avvocato o a un maresciallo, tutto sembra andare in pezzi, tutto viene messo in discussione, dalle relazioni tra i componenti della famiglia alle relazioni all’interno della coppia, dalle scelte di stile educativo ai ruoli genitoriali, fino appunto alla vita sociale di tutti i membri della famiglia La vita di relazione dei genitori può essere essere messa fortemente in pericolo; le trasgressioni pesanti dei figli, le loro azioni illegali o devianti, comportano sentimenti di vergogna, di pesante tristezza, di tendenza a chiudersi in casa perché tutto è troppo difficile da affrontare, ma anche da raccontare e da condividere.

Ed ecco perché c’è bisogno di un gruppo che accolga e che consenta il confronto, la circolazione di storie ed esperienze, ma anche che dia semplicemente calore e solidarietà, per poter restituire la fiducia nella possibilità di affrontare, un gruppo che stani i genitori immersi nel malessere domestico e li riporti in una dimensione dove poter pensare, dire, stare in silenzio e ascoltare, ma comunque ricostruire la serenità che occorre per andare avanti. Una famiglia che entra drammaticamente in crisi ha bisogno di una comunità accogliente che la aiuti a ipotizzare, a pensare come possibile una strada da intraprendere per poter ritrovare la serenità. Dobbiamo cercare, ciascuno con il proprio ruolo ed il proprio contributo, di provare a costruirla.


psicologia-pedagogia e adozione

di Massimo Maini psicopedagogista e filosofo e Daria Vettori psicologa e psicoterapeuta

Origini e originalità

“Io non posso mai essere sicuro di comprendere il mio passato meglio di quanto esso comprendesse se stesso quando l’ho vissuto, né far tacere la sua protesta” M. Merleau-Ponty Nonostante la questione delle origini nell’ambito delle adozioni sia stata molto dibattuta sia in ambito giuridico che clinico, ugualmente ancora oggi pare non aver esaurito la carica d’interesse e complessità. Come è oramai risaputo la regolamentazione in materia di informazioni sulle origini adottive inserita nella legge 4 maggio 1983 n. 184 (e successive modifiche legge 28 marzo 2001 n. 149), negli articoli 28 e 37/7, prevede che “il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ri-

tengono più opportuni.” Se da un lato tale regolamentazione ha permesso di rendere chiaro che sapere di essere stato adottato è un diritto, rimane aperto il dibattito sia sul fronte giurisprudenziale (come ad esempio la recente approvazione alla Camera del disegno di legge che prevede anche per i figli non riconosciuti alla nascita dalla madre che ha scelto di restare anonima, la possibilità di fare richiesta al Tribunale per i Minorenni, di poter entrare in possesso di informazioni sui propri genitori biologici) che dal punto di vista clinico ed esistenziale. In particolare rimane aperta proprio la questione che riguarda l’importanza di conoscere le proprie origini (quindi non solo l’informazione di essere adottati) e l’opportunità o meno di entrare in contatto con esse.

Tralasciando per motivi di spazio il dibattito giuridico che riguarda le informazioni e le modalità di comunicarle, proveremo a concentrarci sugli aspetti legati al “senso esistenziale” e ai bisogni che tale ricerca comporta. Sentirsi raccontare la propria storia e continuare a raccontarla, non è solo un diritto, ma risponde piuttosto al bisogno che ciascuno di noi ha di “sentirsi interi”, unici e originali, nonostante tutto. Origine o Origini? È capitato spesso nel corso degli incontri con i genitori e soprattutto con i ragazzi, di avere dedicato grande spazio al tema delle origini. In particolare, nel corso di queste lunghe e appassionate riflessioni abbiamo sentito l’esigenza di approfondire di quali origini si stesse parlando.

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In diverse occasioni è emerso che il bisogno della “ricerca delle origini” non è unicamente legato ad avere accesso alle informazioni, quindi venire a conoscenza di quanto è avvenuto, ma prevalentemente legato ai bisogni che ogni persona vive nel presente e che interpellano contemporaneamente il passato ma anche il futuro. Non mettiamo in dubbio la necessità e l’importanza della ricerca delle informazioni che riguardano le proprie origini. Così come non intendiamo addentrarci sulla complessità delle diverse notizie di cui un figlio può andare alla ricerca, come ad esempio quelle riguardanti gli aspetti sanitari o relative ad eventi traumatici accaduti nella sua vita. Quello su sui vorremmo portare la nostra attenzione è sul concetto stesso di

ricerca dell’origine o delle origini, come necessità di recuperare pezzi “dispersi” della propria storia, nella ricerca di una armonia tra radici e appartenenza. Una delle riflessioni che vorremmo proporre riguarda la necessità esistenziale di continuare a ricercare le proprie origini, come un inesausto bisogno di raccontare e di raccontarsi la propria storia. Nel periodo adolescenziale questa spinta, questo desiderio si fa pressante, proprio perché i ragazzi hanno bisogno con urgenza di iniziare a lavorare sulla propria identità. Essi cominciano a farsi domande diverse da quando erano piccoli: “Se capisco di chi sono capisco chi sono”.

molto diverse dal passato: “Il mio corpo sente, ciò che io non sono in grado di ricordare”

Iniziano a dare un diverso significato all’abbandono, talvolta identificandosi con quei genitori biologici a cui oggi cominciano a somigliare di più, e di cui sentono gli echi della fragilità e della sofferenza. Talvolta invece osservano i propri genitori adottivi con uno sguardo differente, tra la tenerezza e il fastidio. Genitori che non possono “salvare come loro hanno salvato noi”, nei In particolare sentono cose confronti dei quali emerge


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un senso di estraneità tipico dell’adolescenza. Ricerca delle origini significa quindi ri-narrare una storia che tenga conto di tutto quanto si presenta come nuovo e inaspettato. Ciò che si conosce o che si ri-scopre ora andando a rileggere i documenti o partendo con indagini personali (attraverso internet o tentativo di incontrare persone o visitare luoghi), sono indizi intorno a cui costruire una storia impregnata da ciò che ogni ragazzo sente e pensa in quel preciso momento della sua vita. Quello che intendiamo dire

raccolte da storie di altri o da esperienze che nulla hanno a che fare con il “noto”. Essi hanno raccontato, ad esempio, di essere entrati in un ristorante del paese da cui provenivano, avere sentito l’odore, e sulla base della sensazione sentita avere aggiunto un pezzo della propria storia. Non importa se vi sia stato un riconoscimento o meno di quell’odore, ma la sensazioProprio per questo moti- ne ha consentito di dar voce vo, talvolta le informazioni ad una parte di una storia che i ragazzi raccontano di possibile. utilizzare per ri-costruire Così come un ragazzino la propria storia non sono proveniente dal Brasile ha nemmeno “vere”, perché affermato con sicurezza:

è che ogni informazione che può essere anche faticosamente ricercata e trovata, non esaurisce il bisogno di continuare a raccontare le proprie vicende umane perché “non per scoprire chi sono che devo raccontare le mie storie, ma perché ho bisogno di fondarmi su una storia che io possa sentire ‘mia’.” (J. Hillman, Le storie che curano).


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“Io gioco bene a calcio per- evolutive di ognuno di loro e quel sentire che cambia ché’ sono brasiliano…”. come cambia il corpo. Le storie non fanno stare Ri-raccontare le proprie oribene perché sono vere, ma gini passa anche dal semperché ci fanno sentire uni- plice atto di rivedere le fotografie che raccontano l’adoti, unici ma non soli. Quello che sostanzialmente zione, o i libri che i genitori riportano i ragazzi adottati gli leggevano quando erano è che non esiste una sola piccoli. origine ma molteplici e diversificate origini, ognuna “Mia mamma mi leggeva delle quali racconta la sua sempre ‘Do Re Mi è stato adottato’…a me non piacestoria. Così scopriamo, proprio va e lei non capiva perché. grazie ai ragazzi, che par- Io non volevo leggerlo perlare di origini vuole dire ché c’era quel cucciolo che affrontare un fenomeno era così diverso dai suoi gecomplesso e articolato che nitori…stavo male. Io volecoinvolge aspetti diversi vo essere come loro, e lei mi e che rispecchiano le fasi leggeva sempre quello.

Adesso mi piace…mi fa ridere…e poi io ero proprio così, tanto tanto vivace.” “Quando guardo le foto adesso vedo la faccia dei miei...avevano un sorriso tirato e io li guardavo come degli estranei. Forse ho negli occhi anche un po’ di terrore… Quando ero piccolo mi sembravano così belle, eravamo tutti sorridenti e felici.” Al tema delle origini si associa inevitabilmente anche quello dell’appartenenza, “di chi sono”. L’etimologia del termine “origini” rimanda forte-


mente a chi mi ha generato. Un termine invece che pur avendo la stessa radice, assume un senso differente è la parola “originalità”, che richiama ad una appartenenza a se stessi, una unicità che non possiede nessun altro. “Io sono di me stesso. Mi appartengo” In questa affermazione, fatta da un ragazzo di un gruppo, troviamo la potenza ed il vero significato della ricerca delle origini e dell’appartenenza come ricerca di sé, come ricerca di una originalità, fatta della

propria storia che assume, te significativo nelle vite di inevitabilmente, un signifi- ogni figlio adottato. Molti ragazzi sono consacato tutto personale: pevoli del fatto che non Io sono 100% indiano e potranno forse mai sapere nulla delle proprie origini, e 100% italiano, al di là di ciò che è “oggetti- che il viaggio di ritorno dovrà “limitarsi” a visitare un vamente vero”. luogo o incontrare persone E dentro a questa storia c’è che in qualche modo hanno posto per tutto, per il noto e fatto parte della loro vita, l’ignoto, per il reale e ciò che ma non la loro famiglia biologica. Tale mancanza ho immaginato o sognato. segna indubbiamente un Tale approccio consente confine reale oltre il quale è alla persona adottata di impossibile andare. Questo poter fare i conti anche con non toglie però che il sentiun aspetto sempre doloroso mento di “vuoto” o assenza e difficile da accettare: la descritto da molti, non pomancanza d’informazioni e trà essere comunque rieml’impossibilità di poterle re- pito dalla realtà, dai fatti o cuperare. Spesso i ragazzi dai volti delle persone reali. parlano di “buchi”, lacune, Questo lo si ritrova spesso misteri che non potranno nei racconti degli adottati essere svelati da nessuno e che hanno fatto ritorno al da nessuna possibile noti- proprio paese natio o che zia in possesso da parte di hanno avuto la possibilità qualcuno. Questa “assenza” di incontrare i propri geha un impatto estremamen- nitori biologici o parenti.

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Quello che riportano è l’essere entrati con forza a contatto con la consapevolezza che quello che si è riusciti a trovare non corrisponde alle attese e che, anche in occasioni di un viaggio di ritorno, tanto sognato e immaginato, i misteri e i buchi rimangono. Spesso chi arriva ad incontrare “in carne e ossa” le proprie origini scopre un nuovo mistero, ancora e di nuovo un non detto, un non concluso che trova la sua genesi proprio nel corpo estraneo della propria madre biologica, dei luoghi che hanno visto la nascita e la partenza.

to. Un senso di tradimento che può anche essere legittimo, se al ritorno alle origini corrisponde la scoperta di segreti mai rivelati, ma rischia di essere un Come spesso raccontato in grande malinteso, se queletteratura, chi ricerca nel sto viaggio viene caricato ritorno alle origini, una dell’aspettativa di dare risposta a questo senso di pace e di risolvere. mancanza, o al bisogno di riconoscimento o appar- Un ultimo aspetto che rifondamentale tenenza, rischia di vivere teniamo una fortissima delusione, affrontare, è la forte cored un senso di tradimen- relazione tra il tema del-

le origini e dell’identità, i cambiamenti del corpo, i vissuti e le sensazioni tipiche del periodo adolescenziale. Non stiamo naturalmente affermando che solo in questo periodo evolutivo, il corpo ha una influenza profonda sui movimenti che riguardano le domande sulla propria storia, ma certamente l’adolescenza apre e ri-apre tematiche forti, quali la sessualità, la generatività, la passiona-


lità, che nelle storie adottive hanno una valenza potente e profonda. Non a caso la radice della parola “origine” è connessa con il tema della generatività e della nascita. Nel gruppo si è parlato della generatività, del fatto che alcuni possono di fatto diventare genitori a loro volta. Ma cosa significa diventare genitori per un figlio adottato? Uno degli aspetti su cui ci si è soffermati è che pro-

prio nella esperienza di gini e che non ha mai degenerare un figlio è insita siderato andarle a inconla possibilità che le proprie trare nel corso della sua radici possano emergere e vita. Una volta divenuta ri-nascere con il corpo del madre “l’abbraccio di mia proprio figlio. A chi asso- figlia è stato un’esperienmiglierà? Avrà i tratti del za di memoria inevitabile padre e della madre, ma e non scelta che ha risveanche quelli del nonno bio- gliato dentro di me parti a logico, della nonna biologi- me sconosciute fino a quel ca? Nel diventare madre momento”. sentirò una connessione Le origini ritornano sempre con le mie origini? di nuovo, in una forma che Aruna racconta di non ave- rispecchia il momento prere ricordi delle proprie ori- sente vissuto.

Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo Svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell’identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l’attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna.

Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Insegna Pedagogia dell’Affido e dell’Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Parma.

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le relazioni giorno dopo degligiorno affetti

di Francesca Sivo

Di orsi e uova, di cartoni animati e viaggi della vita

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Ai nonni, preziosi angeli custodi delle attese, delle nascite e delle rinascite, nel giorno della loro festa Mr. G., cinque anni compiuti, è deluso: dall’uovo fresco che ha fatto covare al suo orsetto di peluche non è nato un pulcino, come tanto sperava. «Mamma, dobbiamo farlo covare da qualcosa di più caldo!», ha esclamato proprio stamattina. «Amore mio, purtroppo non potrà mai nascere un pulcino... », gli ha spiegato, schietta, mamma Elisa. «Quell’uovo non è stato fecondato, dentro non c’è alcun semino che diventerà un pulcino». «E allora dobbiamo metterci il semino, mamma! Ma… come si fa?», ha chiesto candidamente. «Sai, Mr. G., se ci fosse stato un gallo, avrebbe messo di sicuro il suo semino nella pancia della

gallina, che poi avrebbe fatto l’uovo fecondato: così sarebbe nato un pulcino». «Wow! Ma allora è davvero una magia!». È adorabile l’ingenuità dei bambini. Fa tenerezza la meraviglia con cui spalancano gli occhi dinanzi alle cose ‘da grandi’. E fa intenerire di più sapere che a provare un tale stupore di fronte ai miracoli della natura è un bimbo speciale che, a dispetto dei suoi pochi anni, di vite ne ha già vissute almeno due e di viaggi della nascita ne ha affrontati altrettanti. Perché è stato doppiamente amato e doppiamente voluto: da chi l’ha donato al mondo prima, e da chi nel mondo ha desiderato fortemente accompagnarlo dopo. Una doppia nascita in piena regola, quindi. Vi ho assistito io stessa più

di una volta e ne ho avuto conferma in seguito (quando è successo a me) da chi era lì, al di là di quella porta a vetri, ad aspettare trepidante il nuovo arrivo, dopo il viaggio che dalla ‘pancia del mondo’ portava dritto dritto alla ‘pancia del cuore’. Succede sempre così: ogni volta, ad un tratto, quella porta si apre, una ‘nuova famiglia’ la attraversa e, come davanti ad una sala parto, si è testimoni di una nuova nascita. Tuttavia spesso accade però che ad oltrepassare quella porta siano dei bimbi neo-nati che non hanno bisogno di essere spinti nelle loro carrozzine, perché sanno già camminare con le proprie gambe: così li si vede avvicinarsi, timidi e spauriti, mentre lentamente trascinano da soli il loro mini trolley. È molto emozionante, certo,


La foto è stata scattata da Elisa, la mamma creativa di Mr. G.

ma assai difficile, questo viaggio della vita. Fa paura e spesso provoca molto dolore, specie nei bambini più grandicelli, ancora incapaci di comprendere e gestire il forte senso di smarrimento che li assale: così scoppiano in un pianto dirotto, inconsolabile e liberatorio, che assomiglia a quello dei bimbi appena tirati fuori dalla pancia della mamma, ma è forse più disperato: è il pianto di chi dal posto poco accogliente e privo di calore, ma conosciuto e perciò rassicurante, in cui viveva, all’improvviso si ritrova

catapultato in un altrove ignoto, che non sa nemmeno se è davvero bello come gli hanno raccontato. È il pianto di chi si sente di colpo perduto, quasi privato della sua identità e inconsapevole di ciò che accadrà. Con un fardello così pieno e pesante sulle spalle è stata davvero un’impresa per me e mio marito portare i nostri figli a vedere Inside Out, l’ultima creazione della Pixar, il fenomeno cinematografico del momento. Un gran bel film, senza dubbio: intelligente e coinvolgente, curato, originale

e a tratti imprevedibile, geniale e coraggioso. Un capolavoro, insomma, che fa tanto ridere e fa anche tanto piangere. Eppure, per chi ha vissuto un’esperienza sconvolgente come quella del viaggio della vita, per andare a vederlo ci vuole pelo sullo stomaco. Mi ero documentata, avevo letto diverse recensioni, perciò ero preparata: sapevo bene che sarebbe stato impossibile per i miei bambini evitare di immedesimarsi nella storia dell’undicenne Riley, che insieme ai suoi genitori affronta il trauma di un trasloco. Ero consapevole che quel turbinio di emozioni, che invade la console mentale di Riley in un momento cruciale della sua vita, avrebbe assalito anche la loro mente e ne temevo le conseguenze. Non ho potuto sottrarmi dall’accom-

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pagnarli, ma mi sono fatta forza: ho riso pochissimo e pianto per niente, per rimanere concentrata ad osservare le espressioni dei loro volti ed essere pronta, se fosse stato necessario, ad accoglierli tra le braccia da un momento all’altro. Non avevo previsto però che avrebbero cominciato a piangere a fiotti all’unisono, gli unici in tutta la sala, dinanzi alla scena più toccante della pellicola. «In quel momento mi sono rivista in Riley, mamma», mi ha raccontato all’uscita la mia primogenita. «Ho pensato a quando vi ho conosciuti, a quando mi hanno detto che dovevo venire in Italia, ma io continuavo a dire che non volevo: sono nata in Russia e in Russia dovevo restare. E poi ho pensato a quando sono arrivata all’aeroporto e mi sentivo confusa: non capivo chi fossero i nonni

e tutte quelle altre persone venute ad aspettarci. E poi mi sono ricordata che, quando ho visto la nostra casa e la cameretta nuova, non capivo nulla e mi chiedevo cosa fosse questo e cosa fosse quello. Però poi ho capito che era bello il posto cui mi trovavo e ora sono contenta di stare dove sto e di avere la famiglia che ho». Diverse invece sono state le emozioni che hanno scatenato il pianto di mio figlio piccolo, il quale si è rivisto in Riley mentre si allontana dai genitori e ha realizzato in un attimo quanto siamo stati in pena suo padre ed io in quei lunghi minuti durante i quali è sparito nella stazione di servizio, al centro commerciale e per le strade di montagna. E quando gli ho chiesto se avesse pianto anche per ciò che aveva lasciato, mi ha risposto senza esitare:

«No, mamma. Io non ho lasciato proprio niente», come se per lui non ci fosse stato un prima, ma soltanto un dopo, e la sua vita fosse iniziata con noi. C’è voluto pelo sullo stomaco, è innegabile. Ma è altrettanto vero che sono grata di non essermi sottratta quella sera. Mettere a fuoco ciò che si è vissuto e ciò che si è stati guardando un cartone animato e abbandonandosi ad un pianto copioso e irrefrenabile è una gran bella rivoluzione interiore. Fa crescere. E crescere, come accade a Riley, significa non solo lasciarsi alle spalle qualcosa, ma anche rivedere se stessi da una nuova angolazione, acquisendo maggiore consapevolezza. Significa tornare indietro, per un attimo, attraversare di nuovo quella porta a vetri e dunque rinascere, ancora una volta.


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le relazioni giorno dopo degligiorno affetti 20

di Marta e Alberto

Una valigia molto grande

Dopo l’estate mio figlio si è trasformato: con l’inizio della seconda media, La sua anima bambina è sempre più nascosta ed esce furtiva solo in certi momenti di coccole serali. Alle prime luci dell’alba, si dissolve e lascia spazio alla maschera dura dell’adolescente che esce nel freddo del mattino con le mani in tasca di un giubbotto troppo leggero per la stagione, e un ciuffo di capelli sempre più impertinente che dice al mondo tutta la sua fragile spavalderia. A tratti è gentile persino con la sorella, ironico se non sarcastico con il papà. Vorrebbe fare tutto da solo, senza che nessuno interferisca nei suoi programmi, compiti, impegni sportivi. Ma se qualcosa gli va storto, anche una piccola cosa, un permesso negato, una valutazione di un’inse-

gnante a suo parere ingiusta, un no più che giustificato all’ennesima richiesta, d’improvviso s’infiamma, l’adagio s’interrompe di botto ed esplode il suo rumorosissimo dissenso, mettendo a ferro e fuoco l’intera famiglia. La sua protesta è vigorosa e l’attacco ai genitori diretto e senza sconti. Noi siamo, da manuale, i genitori più rigidi, ingiusti e crudeli che gli potessero capitare: il giudice che ci ha dato l’idoneità all’adozione ha commesso un clamoroso errore. Minaccia di denunciarci alla polizia, chiamando per fortuna il 313, il numero della macchina di Paperino, e – quando capisce che non riesce ad averla vinta - si rintana arrabbiato nel suo angolo del letto con gli occhi di brace. Il papà riesce a rimanere

più impassibile di fronte alle sue provocazioni. Io resisto per un po’, ma a fatica reggo la sua veemenza. Vorrei una tregua, una parola di scusa, che il litigio non degenerasse. Cercando l’altro giorno, alla fine di un’estenuante


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discussione, di strappargli un sorriso, il serpente mi ha chiesto di avvicinarmi. Speranzosa che volesse arrendersi all’ennesima contesa, mi sono sporta ingenua verso di lui che mi ha sussurrato di preparargli una valigia molto grande perché quando se ne andrà

di casa vorrà portarsi con sé molte cose. Un’amica psicologa, che ha raccolto il mio sfogo di madre, mi ha detto con un sorriso: “È bello che ti abbia chiesto una valigia molto grande. È segnale che vuole portarsi con sé tanto della sua casa, della sua vita.

Dentro la valigia ci siete in fondo anche voi!” La sua lettura mi è piaciuta, mi ha rasserenato un po’. Anche se il dubbio mi rimane: e se in questa valigia volesse portarsi via solo l’Xbox, la sua divisa del calcio, tutt’al più il televisore e il computer?!?


le relazioni degli leggendo affetti

Marina Zulian responsabile della Biblioteca Ragazzi di BarchettaBlu

Parole fuori

Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi BarchettaBlu di Venezia 22

9. Questo mese: Verità di Marina Zulian Un ragazzo di tredici anni, un grande tasso e una verità. Per la prima volta parlerò di Ogni notte Conor va a dormire nella sua camera e ogni notte, sempre sette minuti dopo la mezzanotte, ha un appuntamento speciale, un incubo ricorrente. Nel buio e nel vento il tasso del suo giardino si muove; ha una strana forma, diversa da quella che lui vede di giorno dalla sua finestra; sembra quasi un mostro che

chiama il ragazzo e gli dice di essere venuto proprio per lui. Al mattino Conor immagina che quella brutta sensazione che aveva ancora addosso era dovuta a quello strano sogno. Si guarda bene intorno, la sua stanza è sempre la stessa ma lo colpisce una cosa sul pavimento: è tutto ricoperto di foglie di tasso. Il protagonista non dice a nessuno del suo incubo ricorrente: non dice niente a sua mamma che è gravemente malata, a suo padre che è lontano e sente ogni tanto al telefono, ai suoi amici di scuola che lo sbeffeggiano e nemmeno alla odiata nonna che si preoccupa per lui. Quello che accade nell’incubo è qualcosa che nessun altro avrebbe mai dovuto sapere. Una verità che neanche Conor vuole confessare a se stesso. La sua mamma non è in

casa, è in ospedale e Conor si arrangia da solo; si dà molto da fare, vuole che lei non si preoccupi, vuole aiutarla e sistema la casa prima di andare a scuola. Il protagonista dice di non aver paura, ma tutte le notti urla quando il tasso lo va a trovare. Anche a scuola non può stare tranquillo perché un gruppo i ragazzi lo prende in giro, lo tormenta e lo fa soffrire. Lui si sente davvero solo, quasi come se fosse invisibile per tutti i suoi compagni. Per fortuna la sua cara amica Lily con coraggio e determinazione lo protegge dagli altri ragazzi che gli vogliono far del male e gli fa sempre capire tutto il suo bene. Ma anche con lei il protagonista non si sente al sicuro, cerca di allontanarla e rifiuta il suo aiuto. Sette minuti dopo la mez-


zanotte di Patrick Ness e Siobhan Dowd, edito da Mondadori nel 2014, è un romanzo potente e sconvolgente. L’autore della storia è Patrick Ness, ma in realtà l’idea iniziale è di Siobhan Dowd, la pluripremiata autrice morta a soli 47 anni. Già dalle prime pagine la narrazione diventa emozionante e coinvolgente. Si tratta di un libro pieno di dure verità e di grandi dolcezze. Una notte Conor sente bussare alla finestra della sua camera. Apre gli occhi. In cielo la luna illumina il giardino e un leggero venticello scuote le foglie. Tende le orecchie per cercare di sentire se dalle altre stanze provengono dei rumori. Il panico si impossessa di lui, non sa cosa fare, rimane immobile.

Ad un certo punto dal giardino, quella strana creatura mostruosa che da tanti giorni gli appare nei sogni, lo chiama, chiama proprio il suo nome. Panico, budella che si contorcono. Per un attimo Conor pensa che l’incubo l’abbia seguito fino a casa, ma cerca subito di rassicurarsi ricordandosi che lui è grande e che solo i bambini credono ai mostri. Da quando sua mamma è andata in ospedale e ha iniziato le terapie mediche, l’incubo inizia sempre sette minuti dopo la mezzanotte. Conor ancora una volta decide di farsi coraggio e scoprire chi lo chiama dal giardino. La voce che sente non è di sua madre o di suo padre; è una voce insolita con qualcosa di mostruoso, selvatico, indocile. Poi sente anche un cigolio di legno. Da un lato non vuole andare a control-

lare cosa sia, ma dall’altro è ciò che desidera di più. Guarda dalla finestra e inaspettatamente non trova il solito mostro ma un vecchio e selvaggio albero. Il mostro gli parla e gli chiede di fare un patto: ogni notte il tasso avrebbe raccontato a Conor una storia diversa; per tre notti avrebbe raccontato storie di persone, di paure e di gesta coraggiose. In cambio, la quarta notte, sarebbe stato il ragazzo a dover raccontare la quarta storia, e la storia avrebbe dovuto contenere tutta la verità. Una dura e triste verità che il ragazzo nasconde dentro di se da troppo tempo. Nelle tre storie il tasso fa capire a Conor che spesso le cose non sono come sembrano in apparenza: infatti nella prima storia il principe sembra un eroe perché

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ha salvato centinaia di persone ma in realtà è un gran bugiardo! Il mostro dice che le storie inseguono, graffiano, mordono ed è quello che questo libro con le sue storie riesce a fare, facendo soffrire e commuovere il lettore. La storia principale e le altre storie vengono raccontate, oltre che con parole scelte accuratamente, anche attraverso le suggestive illustrazioni di Jim Kay. La complicata e dura vita di questo adolescente, tra malattia, vessazioni e solitudini diventa ancora più difficile quando il tumore della mamma si aggrava. La visita inaspettata del padre, che vive negli Stati Uniti, sembra quasi presagire una brutta fine per l’amata mamma che non riesce a riprendersi nonostante le nuove cure e le tante speranze. Questo ragazzino sembra quasi vivere in automatico,

senza mai lasciarsi veramente andare. Non riesce ad ammettere con gli altri e con se stesso la sua sofferenza. A tutto ciò che gli succede il giovane protagonista reagisce con una apparente indifferenza, mentre dentro si sente sempre più male. Tutti gli adulti lo trattano con “riguardo”, lo compatiscono e nessuno si rende conto che lui invece vorrebbe essere trattato come tutti i suoi coetanei: vorrebbe una punizione dai professori se non fa i compiti, vorrebbe una sgridata se non si comporta bene. Soltanto quando riuscirà a raccontare al tasso la sua verità, anche se non vuole ammetterlo, potrà essere veramente libero di vivere a pieno. Sembra quasi che l’unico rapporto vivo e sincero sia quello con il grande tasso. Sembra quasi che l’antico albero assuma una forma

paterna che lo aiuta ad affrontare le sue paure e i suoi problemi. All’inizio il ragazzo ha paura del “mostro” e non si fida, ma piano piano lo ascolta, lo segue nei suoi racconti e capisce che è arrivato proprio per aiutarlo. Il tasso obbliga Conor a chiedersi perché tutte le notti ha quell’incubo ricorrente. I due protagonisti entrano nell’incubo e scoprono che Conor cerca di impedire, senza mai riuscirci, che la madre muoia. Contemporaneamente però desidera che le sofferenze della cara mamma finiscano al più presto. I ragazzi nascondono dentro tante emozioni, tante paure, tante verità che non hanno il coraggio di esternare. In realtà non trovano il modo per riuscire a nominarle. Vorrebbero avere da parte degli adulti delle risposte alle loro domande ma spesso gli adulti, forse per un errato senso di pro-


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tezione, non rispondono con sincerità. Per aiutare bambini e ragazzi dovremmo decidere di trovare sempre il modo e il luogo adatto per raccontare anche quei dolori che sembrano indicibili. Essere sempre sinceri e non mentire su alcuni avvenimenti dolorosi che riguardano la famiglia o la storia di un bambino è una delle sfide maggiori che noi adulti abbiamo nei suoi confronti. Quando non si mette un bambino a conoscenza di un fatto molto importante per lui ci si crea almeno due scusanti: quella per la quale il bambino è ancora troppo piccolo e quella per cui potrebbe rimanere traumatizzato. Si crede di

proteggere i ragazzi dalla sofferenza ma in realtà gli adulti comunicano comunque il proprio dolore anche attraverso linguaggi non verbali, nervosismi e silenzi. Addirittura i bambini si possono incolpare per i nostri comportamenti tristi e strani, se nessuno spiega loro come stanno veramente le cose. Sin da piccoli devono accettare che anche le sofferenze fanno parte della vita e devono imparare a riconoscerle per poi poterle affrontare e non negare. La paura di raccontare la verità ai bambini deriva da una difficoltà degli adulti di non essere essi stessi in grado di accogliere avvenimenti che li sconvolgono. Si può aspettare un po’ prima

di raccontare ai bambini le verità, quel tanto che basta per ritrovare una certa serenità; ma non bisogna far passare troppo tempo e ci si deve sforzare di spiegare subito che anche delle vicende più dolorose si può parlare. Tutto ciò è spiegato magistralmente in questo libro che ho letto tutto in un fiato. Il coraggio di raccontare certi temi e la forza con cui la storia si snoda sono solo altri due dei molti motivi per i quali lo consiglio anche a tutti agli adulti che cerchino di scoprire il fragile mondo interiore degli adolescenti.


trentagiorni

70 milioni di bambini cinesi senza genitori Una generazione di figli unici e abbandonati. In gergo sono definiti “i bambini lasciati indietro” (in cinese: “liushou ertong”). Padre e madre sono in città, ma loro non li raggiungono perché non potrebbero andare a scuola. E restano con i nonni. Secondo un recente sondaggio svolto dall’organizzazione benefica Growing Home, sarebbero 70 milioni i minorenni cinesi che vivono lontano dai genitori: 61milioni quelli lasciati alle cure dei nonni nelle campagne a causa del trasferimento dei genitori nelle grandi città, gli altri nove milioni invece si troverebbero a vivere in città diverse da quelle in cui lavorano i genitori. La causa dell’«abbandono» è l’hukou, il documento di

residenza che inchioda i diritti sociali delle famiglie al luogo di provenienza. I figli dei cosiddetti migranti (milioni di persone che negli ultimi 20 anni hanno abbandonato la campagna per trasferirsi in città) nelle metropoli non hanno diritti. Non possono essere iscritti alla scuola pubblica e non possono neanche essere curati negli ospedali. Finirebbero quindi per gravare troppo sugli esili redditi dei genitori, generalmente costretti a lavorare in fabbriche con mansioni a bassi salari. Questa generazione di bambini cresce quindi nelle campagne, solitamente con i nonni, anch’essi abbandonati, tanto che il governo centrale ha da poco istituito una legge di natura confuciana sulla «pietà filiale» che obbliga i figli ad andare a trovare e accudire periodicamente i parenti anziani.

Quelle dei «bambini lasciati indietro» è un fenomeno in crescita: negli scorsi anni, diversi sondaggi avevano rilevato il fenomeno, ma con numeri inferiori (nel 2012 erano stimati in 48 milioni). Il governo ha già annunciato una riforma dell’hukou, che venne inaugurato in epoca maoista proprio per scoraggiare l’abbandono delle campagne. Era però un’altra Cina: l’apertura voluta da Deng Xiaoping e l’inizio dell’epoca delle riforme hanno trasformato il Paese, spostando centinaia di milioni di persone dalle zone interne a quelle costiere, le prime «aree economiche speciali». Dal 2011, secondo l’ultimo censimento, la Cina è diventato un Paese a maggioranza urbana, come non era mai capitato nella sua storia. Fonte: panorama.it


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Minori stranieri scomparsi Se ne sono perse le tracce di oltre 5mila Più di 15mila minori stranieri non accompagnati sono sbarcati in Italia e di 5.588 si sono perse le tracce. Lo rivelano i preoccupanti dati Caritas discussi ieri in un convegno organizzato per la Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza da Michela Vittoria Brambilla, presidente della commissione parlamentare che si occupa del fenomeno. Particolarmente preoccupante è il destino dei giovanissimi egiziani spariti: in Italia ne sono presenti 2.047, età media inferiore a 16 anni, ma sono irreperibili in 1.182. II rischio è che siano preda di organizzazioni criminali che li arruolano o che ingrossino le fila del lavoro nero. Preoccupante anche il fenomeno, sempre più diffuso,

dello sfruttamento per fini sessuali e dello spaccio di stupefacenti. Un quarto dei ragazzi egiziani «intervistati» nei centri Caritas ha dichiarato di avere parenti entro il quarto grado già presenti in Italia che nella fase della prima accoglienza sono restii a prendersi in carico il minore. Fonte: ilGiornale.it

Assistenti sociali: il welfare è da cambiare I dati dell’Istat sulla povertà infantile non possono lasciare indifferenti: in Italia un bambino su dieci versa in povertà assoluto. E addirittura più di un bambino straniero su tre, tra quanti risiedono nel nostro Paese, vive in condizione di povertà assoluta. «E intollerabile che in un paese come il nostro si possano accettare cifre come queste

- sbotta Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale degli assistenti sociali -. Si tratta di oltre un milione di minori di età: un numero quasi doppio rispetto a solo quattro anni fa e addirittura triplicato rispetto al 2008. Serve una ribellione delle coscienze, una mobilitazione del Paese che induca governo e parlamento ad attuare interventi decisi in tempi estremamente rapidi». Proprio la categoria degli assistenti sociali è tra quelle in prima linea nell’affrontare il fenomeno. «Da tempo ripetiamo - aggiunge Mordeglia che la situazione complessiva del Paese impone di immaginare un nuovo welfare. I segnali che arrivano dalla legge di Stabilità sono incoraggianti, ma ancora non sufficienti ad arginare questa drammatica situazione». Fonte: Corriere.it



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