Adozioni e dintorni - GSD Informa settembre 2014

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - settembre 2014 - n. 7

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settembre 2014 | 007

GSD informa

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editoriale

di Anna Guerrieri

psicologia e adozione

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La specificità dei bambini adottati internazionalmente di Joyce Manieri scuola e adozione

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Raccontare l’adozione a scuola di Anna Guerrieri e Monica Nobile

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L’elemosina di un giro di giostra di Maria Rosaria Napoletano La principessa dell’Altay di Antonello Ferzi Alla ricerca dei ricordi di Greta Bellando

giorno dopo giorno

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leggendo

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Parole fuori di Marina Zulian

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trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Anna Guerrieri

In attesa

editoriale

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Come associazione di famiglie siamo trepidamente in attesa di veder pubblicare le LINEE DI INDIRIZZO PER FAVORIRE IL DIRITTO ALLO STUDIO DEGLI ALUNNI ADOTTATI scritte assieme al MIUR (Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione) e ai tecnici convocati appositamente al fine di evidenziare scientificamente i contenuti essenziali ad una buona gestione del percorso scolastico dei bambini adottati (un grande grazie senz’altro va alla dott.ssa Livia Botta, al dott. Marco Chistolini e alla dott.ssa Cinzia Fabrocini). Il percorso tecnico del documento è certamente completato, avendo passato tutti i vagli ministeriali richiesti, e si tratta solo di vedere ultimati gli ultimi passaggi inter-istituzionali che tali documentazioni sovente richiedono. Nell’attesa riteniamo utile ripercorrere alcune tappe che permettano di comprendere come si è arrivati alla stesura di questo documento e indicarne in linea generale i principali contenuti. Il punto di partenza è certamente stato il confronto tra Genitori si diventa Onlus e l’USP di Milano che ha portato ad una prima richiesta di incontro con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). Tale richiesta ha fatto si che il 18 Aprile 2011 il Direttore Generale del Dipartimento per l’Istruzione del MIUR - Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione – firmasse il decreto di nascita del gruppo di lavoro per lo studio delle problematiche riguardanti l’inserimento scolastico dei minori adottati e in condizione di affidamento tempora-


neo etero famigliare. L’attività del gruppo venne esplicitamente finalizzata alla redazione di norme e/o direttive nazionali attinenti alle più adeguate modalità di accoglienza scolastica di tale tipologia di allievi.Tale gruppo includeva il Coordinamento delle Associazioni familiari adottive e affidatarie in Rete (CARE), di cui Genitori si diventa faceva parte e che aveva contribuito a fondare. La prima azione di questo gruppo fu la pubblicazione dalla Nota 3484 dell’11 Giugno 2012, inviata a tutti gli Uffici Scolastici Regionali e avente per oggetto la rilevazione e studio delle problematiche educative connesse all’inserimento scolastico dei minori adottati. Il Gruppo di lavoro nazionale intese così acquisire ogni utile informazione riguardante le buone prassi già attuate nelle scuola. Il 26 Marzo 2013 venne infine firmato il Protocollo d’Intesa fra il MIUR e CARE grazie al quale venne delineata una modalità di lavoro strutturata e si cominciò ad affrontare la soluzione dei casi concreti portati dalle famiglie. Il 13 Giugno 2013 venne costituito l’apposito gruppo di lavoro previsto dal Protocollo MIUR CARE che così entrò nella sua fase di operatività con l’intento di redigere finalmente Linee di Indirizzo nazionali. E’ proprio grazie al lavoro di questo gruppo che nel Febbraio 2014 uscì la Nota sulla flessibilità d’ingresso n. 547 del 21 Febbraio 2014. E’ stato questo il gruppo che, entro l’inizio dell’estate 2014, ha portato a compimento la stesura delle LINEE DI INDIRIZZO PER FAVORIRE IL DIRITTO ALLO STUDIO DEGLI ALUNNI ADOTTATI grazie all’ausilio dei tecnici convocati. Sono queste le Linee di Indirizzo che Ministro Giannini si è impegnato alla firma in una riunione pubblica avvenuta il 13 Ottobre 2014 all’interno di una riunione Fonags de-

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dicata a La Buona Scuola. Rimandiamo al sito del CARE, www. coordinamentocare.org, per tutta la documentazione. Tanti sono i temi emersi nella lavorazione delle Linee di Indirizzo a partire da ciò che riguarda la scuola Primaria per arrivare alle scuole Secondarie di primo e secondo grado proponendo prassi concrete per affrontare tante criticità sovente incontrate dalle famiglie. In attesa di veder pubblicato il documento possiamo enucleare alcuni concetti. Per quel che riguarda l’adozione internazionale, particolare enfasi è posta nella buona gestione delle fasi di primo ingresso ed accoglienza utilizzando gli strumenti approntati dal MIUR, su istanza delle associazioni familiari, allo scopo di garantire una giusta flessibilità per bambini arrivati da poco o in corso d’anno. In particolare ci si è basati sulla nota MIUR Prot. N. 547 del 21/2/2014 – Deroga all’obbligo scolastico di alunni adottati – che invita i Dirigenti Scolastici, “qualora si trovino in presenza di situazioni riguardanti alunni che necessitano di una speciale attenzione, a porre in essere gli strumenti e le più idonee strategie affinché esaminino i singoli casi con sensibilità e accuratezza, confrontandosi, laddove necessario, anche con specifiche professionalità di settore e con supporto dei Servizi Territoriali, predisponendo percorsi individualizzati e personalizzati. Solo a conclusione dell’iter sopra descritto, inerente casi eccezionali e debitamente documentati, e sempre in accordo con la famiglia, il Dirigente Scolastico – sentito il Team dei docenti – potrà assumere la decisione, in coerenza con quanto previsto con l’articolo 114, comma 5, del d.lgs n. 297/1994, di far permanere l’alunno nella scuola dell’infanzia per il tempo strettamente necessario all’acquisizione dei pre-requisiti per la


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scuola primaria, e comunque non superiore ad un anno scolastico, anche attraverso un’attenta e personalizzata progettazione educativa”. Per quel che riguarda l’adozione nazionale è stata ad esempio analizzata una strategia di gestione dei dati sensibili dei minori nelle fasi in cui il processo di adozione non è ancora concluso (fase del così detto affidamento a Rischio Giuridico) quando il bambino mantiene ancora i dati anagrafici originari ma risulta allo stesso tempo presso il domicilio degli adottanti, ed una non attenta gestione dei dati anagrafici nelle fasi dell’iscrizione e dell’approntamento delle documentazione scolastica potrebbe porre un reale rischio di tracciabilità del minore stesso e della famiglia a cui è stato assegnato. Concetto centrale a tutto il documento è quello della valorizzazione del dialogo scuola-famiglia e di tutto il lavoro di rete a sostegno dei bambini curando i rapporti tra famiglia, scuola, servizi pubblici e privati. Una buona prassi suggerita (già attuata in molti territori) è quella di identificare insegnanti di riferimento che siano punti di riferimento per i genitori ma che siano soprattutto in grado di affiancare i Dirigenti nei primi colloqui con le famiglie, formati a sapere quali siano i dati importanti da raccogliere e come aiutare nelle fasi di primo ingresso, come anche in grado di sostenere i colleghi, quando necessario, nel comprendere le specificità degli alunni adottati. Non ci resta che aspettare che tale documento venga firmato e inneschi una nuova fase del rapporto tra scuole e famiglie adottive.


psicologia e adozione 8

di Joyce Manieri psicologa, psicoterapeuta, lavora da anni nelle adozioni ed è membro dell’Associazione di psicoterapia dell’adolescenza e dell’età giovanile ad indirizzo psicodinamico.

La specificità dei bambini adottati internazionalmente

Perché è importante parlare alla scuola della specificità dei bambini adottati da altri paesi? Innanzitutto perché quando si parla del diritto allo studio ed all’istruzione si parla di un diritto pubblico soggettivo. Cioè di un diritto che, per poter essere esercitato ha bisogno che le formazioni sociali, in questo caso la scuola, riconoscano l’unicità e le caratteristiche precipue dell’individuo sulla base delle quali devono saper adeguare le loro risposte. La Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo e la Convenzione Universale sui Diritti del Fanciullo affermano che ogni individuo ha diritto a ricevere un’istruzione e che questa deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana, cioè allo sviluppo delle sue capacità, delle sue atti-

tudini mentali e fisiche in tutta la loro potenzialità. Il diritto all’istruzione è presente anche nella nostra Carta Costituzionale, che nel convincimento di fondo che essa rappresenti il motore del progresso e della civiltà, ne afferma la forte funzione sociale nel momento in cui stabilisce che la scuola è aperta a tutti ed è obbligatoria e gratuita. L’altra faccia del diritto all’istruzione è, dunque, il dovere ad avere un istruzione, come obbligo di ciascuno cittadino per poter adempiere ai propri compiti sociali. Il diritto all’istruzione, dunque, non va considerato solo come il diritto ad avere accesso ad un istruzione, ma come il diritto/dovere a raggiungere il successo formativo e la conquista del più elevato livello di competenza possibile. Parlare, allora, della

specificità dei ragazzi adottati da altri paesi significa capire come rimuovere quegli ostacoli che non permettono di mettere veramente a frutto le potenzialità di questi ragazzi. Sappiamo che, ancora oggi, sussiste un vuoto normativo, ovvero che la scuola italiana trova forme di flessibilità educative e didattiche solamente all’interno delle politiche per l’intercultura e la disabilità. Tuttavia il bambino adottato da altri paesi non può essere assimilato al bambino straniero, così come può manifestare forme di disagio non per forza accumunabili a quelle dei bambini portatori di handicap. Rispetto ad un bambino che arriva a scuola attraverso un processo migratorio accompagnato dalla sua famiglia di origine, sicuramente il bambino adottato da altri


paesi ha delle specificità che non possono non essere prese in considerazione: di fatti, egli si inserisce in un contesto linguistico e sociale totalmente nuovo ed è impegnato nella costruzione dell’appartenenza alla nuova famiglia ed alla costruzione dei nuovi legami di attaccamento. Dal 2000 al 2013 hanno fatto ingresso in Italia per adozione internazionale circa 34.000 bambini, che sono entrati nelle nostre scuole. Questi bambini hanno diritto ad una scuola che comprenda ed affronti anche le loro specificità, utilizzando il patrimonio di cui sono portatori e li accolga con disponibilità per venire incontro ai loro

bisogni. Si può senza dubbio affermare che l’istituto dell’adozione internazionale rappresenta sempre di più una delle modalità dell’essere famiglia oggi e la scuola, per poter assolvere pienamente alla sua funzione sociale, ha la necessità di imparare a dialogare con questa realtà. Tanto più che negli anni si è assistito ad una crescita costante dell’età media di ingresso di questi ragazzi che si attesta ormai da tempo sui 5,5/ 6 anni. Questo vuol dire, in primo luogo, che per molti di questi ragazzi la scuola rappresenta anche il luogo in cui viene sperimentato l’incontro con la nuova società. In secondo luogo, ciò indica

che per molti di questi ragazzi al viaggio adottivo si sovrappone quello all’interno della scuola. Questi ragazzi, le cui energie psichiche sono impegnate in compiti di sviluppo importanti come il recupero delle esperienze traumatiche infantili, il superamento dell’esperienza di perdita legata all’adozione e la creazione di nuovi legami di attaccamento, presto1 dovranno affrontare anche le richieste della scuola (cognitive, attentive, sociali e relazionali, con propri ritmi di apprendimento, ecc.) andando a sovraccaricare il bambino. La scuola riveste, dunque, un ruolo molto importante tanto da arrivare spesso a poter

I dati dell’indagine nazionale sull’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati effettuata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali del 2003 evidenziano come nel 63 % dei casi l’inserimento a scuola avvenga entro i primi 100 giorni dall’ingresso in Italia. I dati sono stati sostanzialmente confermati dall’indagine sul’esperienza della famiglie che avevano concluso l’adozione nel 2012. 1

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determinare, per questi ragazzi, la qualità dell’intero processo di integrazione. A questo si aggiunga che, come afferma il rapporto Unicef del 2012, nel mondo solo il 60% dei bambini vengono registrati all’anagrafe subito dopo la nascita. Può capitare che la loro situazione venga regolarizzata solo successivamente attribuendo ai bambini un’età presunta, magari al momento dell’ingresso in Istituto od all’atto dell’adozione. Di conseguenza può capitare, soprattutto per bambini provenienti da determinate aree geografiche (es. Etiopia), di rilevare ex post una discrepanza di 1 o 2 anni tra l’età anagrafica e l’età reale dei ragazzi. Allo stesso modo bisogna considerare che nella maggior parte dei paesi di maggior provenienza dei bambini adottati internazionalmente, la scuola inizia a 7 anni. Questi bambini, sovente, arrivano da paesi in cui i sistemi scolastici differiscono dal nostro, a volte non solo negli aspetti organizzativi e curriculari, ma finanche nell’approccio e nella filosofia dell’educa-

zione. Non si può, infatti, capire il sistema scolastico di un paese diverso dal nostro senza interrogarsi sulla cultura ed i sistemi valoriali della società che è chiamata ad educare: istruzione, scuola ed educazione possono assumere forme, ma anche significati diversi! Inoltre, perché la scuola possa svolgere a pieno la sua funzione sociale, è necessario che comprenda la specificità dell’adozione ed i bisogni che portano con loro questi ragazzi. L’adozione si connota, innanzitutto come un esperienza di perdita… essere stato adottato significa, innanzitutto, essere stato abbandonato.. Un esperienza di perdita che rispetto ad altre esperienze similari, quali il divorzio dei genitori o l’essere orfani, è caratterizzata, secondo Brodzinsky2, da alcune caratteristiche: ovvero è un esperienza inconsueta, che comporta vissuti di isolamenti ed estraneità; è più estesa delle altre in quanto comporta la perdita non solo dei genitori o dei legami precedenti, ma

la perdita dell’intera ereditarietà genealogica e culturale (è l’intero ambiente di origine ad essere perduto) ed è anche la meno supportata socialmente poiché tutta l’attenzione sembra focalizzarsi sulla costruzione dei nuovi legami piuttosto che sull’elaborazione della perdita dei vecchi. A tal proposito è importante sottolineare che il vissuto di perdita legato all’adozione emerge gradualmente e viene compreso dai ragazzi in maniera differente a seconda dello sviluppo cognitivo raggiunto. Normalmente è proprio verso i 6-8 anni, l’età della prima scolarizzazione, che i bambini pervengono alla maturazione cognitiva necessaria a stabilire legami di causa ed effetto tra gli eventi, arrivando a comprendere che l’essere stato adottato significa innanzitutto l’essere stato abbandonato, con ripercussioni più o meno violente sul proprio assetto identitario e sul senso di sé. L’adozione, di fatto, deve essere considerato un long life process, ovvero un processo che pur rap-


Confronto del campione dei ragazzi adottati con i past peers (pari del passato) ed i present peers (pari di oggi)

presentando un indubbio vantaggio per i bambini, ai quali garantisce la permanenza in una famiglia e l’opportunità di una sana crescita e di un miglior sviluppo rispetto a quello che avrebbero avuto altrimenti, lungo tutto l’arco della vita, pone ai genitori ed ai loro ragazzi delle sfide che possono influenzare l’autostima, l’identità, le relazioni familiari e l’adattamento psicologico (dovremmo chiederci, allora, quanto è importante mantenere un’attenzione specifica alle dimensioni affettive lungo tutto l’arco della vita scolastica di questi ragazzi e

quanto realmente ciò viene fatto o meno). La Femmie Juffer3 ha condotto una meta analisi su 270 studi sull’adozione pubblicati dal 1950 al 2005 dimostrando che l’adozione costituisce un fattore protettivo per lo sviluppo dei bambini. Da quando entrano in famiglia i bambini adottivi hanno un recupero fenomenale in molte aree dello sviluppo (sviluppo fisico, problemi emotivo-comportamentali). Nonostante ciò, numerose ricerche indicano chiaramente come la media dei bambini adottati abbia una riuscita scolasti-

ca inferiore rispetto ai coetanei non adottati. Si evidenzia, cioè, un’adoption decalage (squilibrio) tra le loro potenzialità (un Q.I. nella norma) e la riuscita scolastica (Van Ijzendoorn, Juffer, 2010, cfr. Fig 1) E’ come se, nonostante gli sforzi profusi, fosse faticoso cogliere in questi bambini/ ragazzi le loro potenzialità. Non è raro che questi bambini abbiano una buona dotazione cognitiva, ma la loro capacità di riflettere, essere incuriositi e voler capire risulti, invece, gravemente compromessa. Spesso, in questi ragazzi, non si evidenziano tan-

David Brodzinsky è professore emerito di psicologia clinica e dello sviluppo. Ha fondato e dirige l’Evan B. Donaldson Adoption Institute che si occupa di ricerca, istruzione e formazione nel campo dell’adozione. 3 Femmier Juffer è professoressa di psicologia dell’adozione presso l’Istituto di Scienze della Formazione e di Studi sulla famiglia dell’Univertsità di Leiden in Olanda. 2

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to difficoltà cognitive, ma problematiche affettive che possono inficiare le loro capacità autoregolative, andando ad interferire nello sviluppo delle componenti attentive e metacognitive. E’ ormai risaputo che l’apprendimento non è da intendersi come un processo esclusivamente intellettuale, ma risulta legato anche alle vicissitudini emotive ed affettive che hanno costituito le peculiari modalità attraverso le quali ci si rapporta al mondo esterno. Del resto, imparare vuol dire, innanzitutto, entrare in contatto con gli oggetti del mondo esterno, esplorare qualcosa di esterno da sé per farlo proprio; un processo introiettivo che risulta fortemente influen-

zato dal mondo interno del soggetto che apprende (l’apprendimento richiede una notevole fiducia in se stesso e la conseguente possibilità di aprirsi all’ignoto). Credo che comprendere le dimensioni affettive dell’apprendimento possa aiutare gli insegnati a capire le motivazioni ed i comportamenti dei ragazzi a scuola, le loro difficoltà (altrimenti insondabili) ed a raccogliere la sfida che questi ragazzi portano a scuola. Non è un dato trascurabile quello emerso da un indagine nazionale sull’inserimento scolastico del bambino adottato da altri paesi, condotta nel 20034, nella quale risultava come nel momento in cui questi bambini/ragazzi hanno

problemi a scuola, generalmente, vengono considerati difficilmente gestibili dalle insegnanti, che attribuiscono le difficoltà soprattutto all’adozione ed alle conseguenti incognite sul passato educativo e culturale del bambino. Sarebbero, dunque, proprio gli elementi che derivano dall’adozione internazionale a rende questi ragazzi, agli occhi delle insegnanti, diversi, insondabili nelle motivazioni dei loro comportamenti ed, in un certo senso, “immodificabili”. Il risultato è che gli insegnanti hanno scarsa fiducia nelle possibilità di recupero di questi ragazzi e finiscono per “accontentarsi” del loro apprendimento, del loro comportamento e della loro socializzazione.

L’indagine è pubblicata nel volume L’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati, Istituto degli Innocenti, Firenze (2003). 4


Tuttavia, una buona e attenta accoglienza a scuola, per questi ragazzi, significa, innanzitutto, superare il mito della “sindrome del bambino adottato”, che vorrebbe attribuire le difficoltà del bambino esclusivamente alla condizione adottiva. E’ importante chiarire, infatti, che l’adozione non è un’affezione che presenta caratteristiche costanti in tutte le persone che ne sono colpite («fa così perché è adottato!») e che una larga maggioranza di figli adottivi presenta caratteristiche psicologiche e sociali nella norma e raggiunge un buon livello di adattamento e di funzionamento globale. Sicuramente una buona accoglienza a scuola sarà possibile solo ponendo una maggiore attenzione agli aspetti emotivi e relazionali rispetto ai temi

organizzativi e curriculari così cari alla scuola italiana. Gli insegnanti, prima di tutto, sono adulti significativi che accompagnano la crescita dei ragazzi e che con le loro azioni responsabili, attente e coraggiose possono rappresentare quel buon incontro capace di inaugurare un nuovo cammino resiliente. BIBLIOGRAFIA AA.VV. (2003). L’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati, Istituto degli Innocenti, Firenze. AA.VV. (2010). I sistemi scolastici nei Paesi di provenienza dei bambini adottati. Istituto degli Innocenti, Firenze. Chistolini, M. (2006), Scuola e Adozione. Linee guida e strumenti per operatori insegnanti, genitori. Franco Angeli, Milano. Cyrulnik, B, Malaguti, E., (2005), Costruire la resilienza, Erikson, Trento Feritti, M., Guerrieri, A. (2013), Scuola e adozione: dossier del CARE. Focus sull’inserimento a scuola dei bambini e delle bambine

adottati internazionalmente Juffer F., Van Ijzendoorn M. H. (2005), Behavior problems and mental health referrals of international adoptees. In The journal of the American medical association, vol. 293, pp. 2501-2515. I dati dell’indagine nazionale sull’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati effettuata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali del 2003 evidenziano come nel 63 % dei casi l’inserimento a scuola avvenga entro i primi 100 giorni dall’ingresso in Italia. I dati sono stati sostanzialmente confermati dall’indagine sul’esperienza della famiglie che avevano concluso l’adozione nel 2012. David Brodzinsky è professore emerito di psicologia clinica e dello sviluppo. Ha fondato e dirige l’Evan B. Donaldson Adoption Institute che si occupa di ricerca, istruzione e formazione nel campo dell’adozione. Femmier Juffer è professoressa di psicologia dell’adozione presso l’Istituto di Scienze della Formazione e di Studi sulla famiglia dell’Univertsità di Leiden in Olanda. L’indagine è pubblicata nel volume L’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati, Istituto degli Innocenti, Firenze (2003).

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scuola e adozione

Anna Guerrieri e Monica Nobile

Raccontare l’adozione a scuola 14

Riflessioni frutto di percorsi su scuola e adozione elaborati all’interno dell’associazione Genitori si diventa onlus in incontri con genitori e percorsi di preparazione con insegnanti. Iniziamo con un capovolgimento immediato di prospettiva trasformando il titolo proposto da “Raccontare l’adozione a scuola” in “Ascoltare l’adozione a scuola”. Come sottotitolo si potrebbe aggiungere: “Le emozioni che si provano in classe accogliendo i bambini e i ragazzi adottati e le loro storie”. Infatti, molto più spesso di quanto si immagini, sono i bambini a parlare di sé, del proprio essere “adottati”. Accade

all’improvviso, per un’associazione mentale, per una catena di suggestioni che portano ad un ricordo lontano o ad un pensiero su di sé. Accade anche perché i bambini che vengono adottati internazionalmente sono sempre più grandi, hanno ricordi netti e precisi. L’adozione, d’altra parte, non è un accadimento della vita che una volta passato si posiziona nel tempo come qualcosa con cui si ha avuto a che fare e con cui si sono regolati i conti. Essere adottati è una condizione esistenziale. In quanto tale il racconto di sé è uno dei modi fondanti in cui ci si dà ragione del proprio essere e si costruisce la propria interiorità. Per questo i bambini e le bambine informati dell’es-

sere adottivi o semplicemente consapevoli di esserlo, parlano spesso e volentieri di aspetti della propria vita squisitamente pertinenti all’adozione, che si tratti di ricordi di un prima vissuto anche solo per pochi anni, che si tratti di supposizioni o desideri su qualcosa di cui non si sa razionalmente nulla, che si tratti di un riferimento esplicito al fatto di aver subito un abbandono/ distacco dalla famiglia di origine. “Io però non ho preso il latte da mia madre”, “Io mi ricordo com’era”, “Io una volta facevo così e così”, “Mi hanno portato lì e poi non sono tornati perché hanno perso la strada”, “Quando ho conosciuto mia mamma...”. Queste sono tutte frasi vere. Inizi di racconti.

Il presente articolo è apparso su “I percorsi formativi del 2009 nelle adozioni internazionali” pubblicato a cura dell’Istituto degli Innocenti nel 2012 a Firenze.


Talvolta non si tratta neanche di racconti veri e propri, bensì di “testimonianze” implicite: il colore della pelle (dal diafano all’ebano), i tratti somatici, il nome, dei segni fisici, un’età non corrispondente a quella della classe, ecc. Sempre di più, ad esempio, sono i bambini che arrivano in Italia in età scolare per i quali l’inserimento scolastico si attua dovendo affrontare la criticità della discrepanza tra quello che la legge vorrebbe e le necessità reali dei bambini. Un bambino di nove o dieci anni inserito in seconda elementare racconta la propria adozione praticamente ogni volta che dice la propria età. Il punto, dunque, in classe non può e non deve essere “Come raccontare l’adozione” quanto piuttosto “Come ascoltare quello che i bambini e le bambi-

ne adottati ci raccontano” e “Come trovare il modo (verbale, fisico, emotivo) per creare in classe il clima giusto” affinché l’essenza di questi racconti di vita possano portare benessere al bambino che racconta e a tutta la classe, nonostante la loro criticità. Perché di criticità si tratta, quando si parla di adozione. Inevitabilmente. Infatti dietro ad ogni adozione c’è sempre un abbandono, un disagio, un malessere, un male che hanno fatto si che dei bambini rimanessero soli, in balia prima di adulti che non potevano/volevano/erano capaci di proteggerli e crescerli, poi di uno Stato che ha deciso il loro percorso successivo attraverso istituti e comunità ed infine la loro l’adozione (nazionale o internazionale). Sono spesso arrivati alle loro famiglie adottive

senza essere consapevoli di quanto accadeva loro. Con il carico di una vita che erano costretti a cambiare drasticamente, totalmente, per sopravvivere e trovare una possibilità di crescita. L’adozione coniuga, come ogni grande cosa della vita, un grande dolore, un grande male e la possibilità di un grande bene. Ogni testimonianza ad essa collegata porta con se entrambi questi aspetti. Un bambino che racconti di essere adottato in classe, inevitabilmente si sentirà chiedere dove siano ora i genitori che lo hanno fatto nascere. La curiosità sulle sue origini è naturale: “Chi erano? Li conoscevi? Come erano? Perché ti hanno lasciato?” Tutte domande spontanee ed ovvie che hanno a che fare col fatto che per essere adottati si è prima stati abbandonati. Tratti soma-

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tici diversi da quelli dei propri genitori suscitano lo stesso treno di pensieri: “Se, tu che sei così diverso, ora sei qui, è perché non potevi stare lì. Ed è importante che io ne sappia i motivi. E mi preoccupo di quei motivi perché mi chiedo se non possa capitare anche a me.” Queste frasi non sono frasi di bambini. O meglio, queste non sono le esatte parole che usano, ma sono tutti pensieri che sono emersi in tanti compagni di classe di bambini adottati. Sono pensieri naturali a cui, noi adulti, spesso ci sentiamo chiamati a dare una risposta. Ed è esattamente nel tentativo di dare risposte che ci si scontra con la difficoltà di dei significati delle parole. Cosa significa “madre” e cosa significa “padre” ad esempio? In ogni figlio adottivo c’è un “ prima” e un “dopo” e

tra questi il ponte è l’adozione. Quando si fa nascere e soprattutto quando si accoglie, si ama, si cura un bambino e lo si accompagna verso l’età adulta si è sempre genitori, senza aggettivi ulteriori (“veri”, “di sangue”, “adottivi”). Per i bambini adottati ci sono stati dei “genitori di prima ” che ora non ci sono più per motivi certamente gravissimi ma tutti legati al complicato mondo degli adulti; sono comunque le radici , le origini , hanno donato il proprio codice genetico. Sono stati genitori un tempo, ora i bambini hanno altri genitori che gli sono accanto. Queste sono le parole che possono aiutare un’insegnante a rispondere alle legittime domande una volta che emerga il tema dell’adozione e dell’abbandono in classe. E’ bene dunque che, in

modo molto sincero, gli insegnanti che abbiano a che fare con alunni adottati, si fermino a pensare cosa susciti in loro stessi la parola “adozione”. Per ascoltarne, si ha bisogno di indagare l’eco che tale parola evoca, perché poi le cose possono capitare all’improvviso e da un momento all’altro durante una lezione di Geografia (quando si tratta dei paesi di nascita dei bambini e ci si trova ad enfatizzarne ad esempio aspetti di povertà economica), durante una lezione di Storia (perché anche i paesi hanno un passato che evoca cortocircuiti mentali), durante una lezione di Scienze (quando si parla di genetica) o anche semplicemente in seconda elementare quando si inizia a costruire il processo di storicizzazione degli eventi e il libro di testo chiede ai bambini di rac-


cogliere “documentazione” che riguardi la loro nascita (“Come è stato scelto il tuo nome?” “Chiedi ai nonni di raccontarti quando eri piccolo”, “Quando hai iniziato a camminare?”, “Porta una foto di te neonato”). L’insegnante che ha a che fare con gli alunni adottati è spesso sommerso dai sentimenti e può attivare, anche inconsapevolmente, due meccanismi contrapposti: forte coinvolgimento emotivo oppure allontanamento e distacco. Per rendere concreto quanto diciamo basti pensare da una parte all’insegnante che prova intensa tenerezza nei confronti del suo alunno, che lo prende sempre in braccio, che lo premia con caramelle e razioni extra, che percepisce i genitori adottivi come troppo duri, freddi, distaccati, quasi come dei genitori un po’ inadeguati, inadatti a

quel bambino. E dall’altra all’insegnante che non percepisce alcuna differenza tra il bambino adottato e gli altri bambini perché: i bambini sono tutti bambini, l’adozione è una fortuna e il passato è passato, ecc. E’ in questo secondo caso che si arriva a dimenticare cose ovvie, come al fatto che certe storie o progetti possano toccare corde profonde nei bambini che si hanno davanti. Immaginiamo una storia come quella di Hansel e Gretel consegnata ad un bambino piccolo che abbia vissuto dal vero un abbandono in un “bosco”, o pensiamo ad un progetto sulla nascita con disegni di mamme col pancione e cullette realizzato in una scuola dell’infanzia con bambini adottati (che essi siano arrivati da un mese o da tanto). Non è tanto notevole che

simili “sviste” possano capitare, quanto il fatto che poi ci si stupisca di aver toccato temi sensibili. Si pensa spesso al bambino adottato come ad un bambino che inizia la sua vita “da capo” una volta che arriva nella sua nuova famiglia. Come se un colpo di spugna potesse cancellare via tutto. E sovente si parla di “seconda nascita”. Tuttavia, sebbene l’adozione sia davvero la nascita di una famiglia, è necessario non spingere così oltre il pensiero da arrivare a “dimenticare” la prima reale e concreta nascita del bambino o della bambina adottati. Ognuno di noi nasce alla vita una volta sola (e poi nella vita si trasforma e vive attraverso infiniti mutamenti che solo metaforicamente possono essere chiamati “nascite”). Dimenticare la nascita biologica dei bam-

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bini adottati ammonterebbe a svalutarne il passato. Nel bambino adottato c’è sempre un “prima” denso di significati e tracce. E’ proprio questo che rende l’adozione un atto vitale e pieno di meraviglia: la capacità di cucire assieme la realtà di un passato con una potenzialità di futuro, senza negare nulla nel percorso. Si tratta di un passaggio che spesso avviene anche attraverso il dolore. Primo fra tutti il dolore del bambino che subisce l’abbandono (che avvenga alla nascita o tanto tempo dopo di dolore si tratta). Di assenza. Di lutto. Di capovolgimento. Di rischio mortale per il bambino o la bambina che lo subiscono. Per questo pensare l’abbandono è difficilissimo, lo rifiutiamo, ci fa orrore e ci spalanca un vuoto dentro. Ed è il motivo per cui tante

volte dei bambini adottati si sente dire: “Ancora questi pensieri sulla mamma di prima? Ma è stato adottato tanto tempo fa”. Come se l’adozione fosse una tale “fortuna” da poter cancellare il dato di fatto che si tratti invece di una “necessità” messa in atto per salvare la vita di un bambino. L’adozione è l’ultima risorsa per i bambini. Accade dove nessun altro progetto di recupero della famiglia di origine (anche allargata) abbia funzionato. Si teme anche che nominare l’abbandono possa “spaventare” i compagni di classe del bambino adottato, dove invece spesso la paura nasce dal non riuscire a nominare i fatti della vita. Forse aiuterebbe ricordare che il dolore è un talento, chi lo ha vissuto può avere una marcia in più nella comprensione delle cose

della vita, nella lettura dei fatti. In questo senso i bambini adottati sono speciali e nel loro essere speciali, potrebbero essere valorizzati, potrebbero trovare con l’aiuto dell’adulto che gli sta accanto la carta in più da giocarsi anche in termini di rendimento scolastico. In un processo di apprendimento/insegnamento che si fa creativo, non stereotipato, aperto a nuovi codici. Insegnare significa lasciare il segno. Mentre si insegna si crea una relazione, con la classe e con ogni singolo alunno e alunna. Mentre si insegna si inseguono anche i propri sogni, i propri desideri, si tesse un dialogo che ha a che fare con la costruzione di una vita vivibile, un mondo migliore. Mentre si insegna, si ascolta quello che i bambini raccontano e dicono di sé. E’ un atto che,


nel caso di tanti bambini, non solo adottivi, deve partire dalla consapevolezza della realtà del bambino che si ha davanti, anche delle sue ferite. Per questo il clima di collaborazione e di reciproca comprensione tra famiglie e insegnanti è fondamentale e nella costruzione della relazione tra scuola e famiglia è importante ricordare che il dialogo costruttivo si fonda sulla sospensione del giudizio. Il rapporto emotivo richiede che l’insegnante sappia relazionarsi oltre che con il genitore con le proprie reazioni emotive, le proprie incertezze e forse anche con le proprie paure: Paura delle critiche, dell’ostilità, di perdere il controllo, della sofferenza. Proprio per questo sarebbe importante che la scuola riuscisse a creare uno spazio di pensiero sul concetto

di famiglia, allargandolo alle famiglie speciali quali sono quelle adottive. Sarebbe importante che, a scuola, si potesse pensare alla famiglia come mondo del bambino, un mondo variegato, eterogeneo, sfaccettato. Così facendo ci si preparerebbe, nel tempo, all’interno di un percorso di riflessione su se stessi e sulla realtà circostante, all’accoglienza del bambino adottato (e non solo). Riflettere, pensare, assumerebbe il significato di creare spazio per ciascun bambino, per ciascuna famiglia, per storie spesso complesse e difficili quali sono quelle adottive. L’insegnante che allarga l’orizzonte e il pensiero può comprendere, può capire, può ascoltare senza giudicare. In questo tipo di relazione dove l’uno è disponibile all’ascolto empatico e l’altro è disposto

a raccontarsi con fiducia si può costruire un’alleanza tra scuola e famiglia che sia solida base di crescita per il bambino adottato accolto in classe. In questo senso c’è un importante aspetto che non va dimenticato nel rapporto tra la scuola e la famiglia adottiva: il diritto di cittadinanza della famiglia stessa. Il genitore adottivo ha dovuto superare nella maggioranza dei casi il dolore del “non procreare”. Non solo, ha dovuto esporsi al giudizio dei servizi sociali e del Tribunale per ottenere quella che si definisce “idoneità” e che risuona in modo forte, talvolta inquietante. All’inizio il genitore adottivo fa fatica a sentirsi davvero genitore, è sempre un po’ in prova, è ancora al centro dell’attenzione, ancora attento a “far bene”. Deve poter essere accolto

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e aiutato dalla scuola, sentirsi rilassato, sentire che il giudizio è sospeso e che ciò che deciderà di fare, la maestra in accordo con la mamma, sarà qualcosa che serve ad aiutare e a sostenere il bambino. Insomma, l’adozione a scuola ha a che fare con l’accoglienza, del bambino, della sua famiglia, del dolore, del provare e riprovare, in buon a fede, dove nessuno degli attori può sentire di avere delle verità in tasca. E’ però anche grazie a questa alleanza tra adulti che in classe può crearsi il clima giusto. Quello che permette di ascoltare. Senza stupirsi. Senza preoccuparsi eccessivamente. Per potersi raccontare, infatti, bisogna avere la fiducia che dall’altra parte ci sia qualcuno che sappia ascoltare senza negare quel che diciamo. Che sappia che

quelle parole che usiamo non sono impensabili, ma parte della naturalezza delle cose. Non possiamo dirci se quel che diciamo suscita pena, paura o peggio ancora rifiuto. La reazione di chi ci è accanto ha il potere di trasformarci da testimone prezioso di una realtà complessa e variegata, a vittima inerme e passiva, a persona da cui tenersi lontano. Per questo “prevedere” l’adozione ha il senso di creare lo spazio per un ascolto futuro. Se dunque citare l’adozione in classe significa fare i conti con quello che la rende necessaria e inevitabile, ossia l’abbandono, abbiamo il dovere di fare chiarezza su questo argomento. Sono tanti i motivi dell’abbandono, sono complessi e sono tutti motivi di adulti, che non c’entrano niente con la realtà dei piccoli. In classe è necessario,

piuttosto che avventurarsi in spiegazioni palliative , dare ascolto ai bambini e alle loro preoccupazioni. Troppe volte abbiamo visto gli effetti di spiegazioni affrettate sull’abbandono legate alla povertà, alla morte, alle calamità. Spiegazioni che hanno innescato scenari preoccupati nelle menti dei bambini stessi (“Allora se i miei diventano poveri, mi abbandonano?”) o che hanno messo il bambino adottato in una sorta di gabbia da cui era difficile uscire (“I tuoi genitori veri erano poveri, e i tuoi genitori adottivi ti hanno portato via”). Non si tratta mai di dover “fare lezioni” sull’adozione e sull’abbandono, per un insegnante è molto più importante “sapere” che “dire”, e sapere in questo caso significa rispettare il passato del bambino adottato, comprendere che non


è solamente identificato con la famiglia adottiva, che in lui c’è la presenza anche della famiglia di origine. Nei percorsi che Genitori si diventa ha creato per la scuola, sempre le insegnanti hanno parlato delle loro sensazioni per quel che i loro alunni raccontavano in classe. Sempre, quando si arrivava all’abbandono e le sue conseguenze, i racconti emersi in classe creavano angoscia negli adulti che ascoltavano, la percezione di non saper come aiutare i bambini, sia i bambini che raccontavano sia i loro compagni. Cosa scatena avere davanti a sé un bambino abbandonato? A cosa richiama la storia di cui il bambino adottato è portatore? Forse in molti insegnanti suscita dolore. Pensiamoci, come se la può cavare in fondo una maestra, dovendo pensare

alla maternità, non più nei termini talvolta fin troppo zuccherosi a cui siamo abituati, ma invece come esperienza che si è conclusa con l’abbandono di un figlio? Di fatto il bambino adottato racconta di una madre che ha abbandonato e per questo contraddice gran parte delle “storie” riportate volentieri ai bambini, in cui i genitori sono sempre attenti, buoni e capaci. La realtà non è così però, e non solo per i bambini che subiscono un abbandono. I genitori spesso “sbagliano” il più delle volte in buona fede, talvolta terribilmente. Si potrebbe pensare a questa chiave di lettura. E provare a percorrere l’ipotesi che davanti al mare di sofferenza che un bambino adottato porta dentro di sé, l’adulto inneschi troppo spesso meccanismi di difesa, percepisca il dolore,

non possa o non voglia riconoscerlo, e lo elimini. Dimenticando e rispondendo a quel dolore facendo finta di niente. Annullando una specificità così ingombrante e finendo per non tener conto dei propri sentimenti prima, e di quelli del bambino subito dopo. Concludiamo la nostra riflessione riportando “L’arte di ascoltare in sette regole” tratta da “L’arte di ascoltare e i mondi possibili” di Marianella Sclavi: – Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca. – Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva. – Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e

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perché. – Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico. – Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze. – Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta

i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti. – Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé. Genitori si diventa ha realizzato nel tempo svariati percorsi di informazione e sensibilizzazione per insegnanti a L’Aquila, Teramo, Reggio Emilia e Terni. Molto materiale emerso da questi corsi può venire rintracciato sul sito www. genitorisidiventa.org dove fra l’altro è aperto uno

sportello virtuale aperto a domande da parte di genitori, insegnanti e chiunque sia interessato. Le risposte sono di volontari dell’associazione da tempo coinvolti con il mondo della scuola, insegnanti loro stessi e genitori adottivi. Articoli dedicati alla scuola scritti da genitori, pedagogisti, insegnanti appaiono puntualmente sul mensile dell’associazione GSD Informa. Chiunque desideri avere informazioni sul materiale prodotto in questi anni sull’argomento “scuola”, o che desideri creare un contatto su questo argomento, può usare la E-mail scuola@genitorisidiventa.org


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BIBLIOGRAFIA Luisa Alloero, Marisa Pavone e Aura Rosati, Siamo tutti figli adottivi, Edizioni Rosemberg – Sellier, Torino, 1991 Francesco Berto, I bambini vanno a scuola. Trepidazioni, attese, paure. Come aiutare i figli a vivere questa esperienza?, Armando Editore, Roma, 1997 Francesco Berto e Paola Scalari, Sostenere la genitorialità, articolo in Animazione Sociale n° 6/7/2001, Gruppo Abele Periodici, Torino, 2002 T. Berry Brazelton, Stanley I. Greenspan, I bisogni irrinunciabili dei bambini. Ciò che un bambino deve avere per crescere e imparare. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000 Massimo Buscaglioni, «Adultità», , p. 33, ottobre 1995 M. Chistolini, Scuola e adozione, Edizioni Franco Angeli, Milano, 2006 Orlando Cian D. e Paola Milani, Nidi e scuole dell’infanzia come

luoghi di formazione dei genitori, «Studium Educationis» n. 2, p. 501-517, 2001

Anna Guerrieri, Maria Linda Odorisio, A scuola di Adozione, ETS, 2006

AA VV Bambini di carta bambini di carne Cifa Onlus

Vanna Iori, Ripartire dalla Famiglia, articolo in Strumenti Osservatorio Permanente sulle Famiglie del Comune di Reggio Emilia, n° 3, 1998

Commissione Adozioni Internazionali e Istituto degli Innocenti - L’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati – Collana “Studi e Ricerche” Duccio Demetrio, Metodo autobiografico – famiglie che si raccontano, articolo in Strumenti a cura di Antonio Fatigati , Genitori si diventa , Franco Angeli Editore, Milano, 2005. Thomas Gordon, Genitori efficaci. Educare figli responsabili. La Meridiana, 1994 Thomas Gordon, Insegnati Efficaci, La Meridiana John Gottman, Intelligenza Emotiva per un figlio, Rizzoli Anna Guerrieri, Maria Linda Odorisio, Oggi a scuola è arrivato un nuovo amico, Armando Editore, Roma, 2003

Margherita Lanz, Elena Marta, Cognizioni sociali e relazioni familiari, Milano, Franco Angeli, 2000 Marianella Sclavi, L’arte di ascoltare e i mondi possibili, Mondadori Anna Oliviero Ferraris Il cammino dell’adozione, Rizzoli Domenico Simeone, La consulenza educativa. Dimensione pedagogica della relazione di aiuto, Vita e pensiero, Milano, 2000 Graziella Fava Viziello, L’eccezione e la regola, Torino, Bollati Boringhieri, 1994


giorno dopo giorno

di Maria Rosaria Napoletano

L’elemosina di un giro di giostra 24

Ultima sera di vacanza nel luogo dove ho passato tutte le estati della mia infanzia e giovinezza, quasi sempre annoiandomi e aspettando l’età giusta per scegliere da sola le mie vacanze. Ora ci si annoia mio figlio grande, 13 anni, mentre aspettiamo le ferie del papà per partire tutti insieme. Ormai il momento è arrivato: l’indomani si parte e decidiamo di celebrare l’ultima serata andando al luna park del paese. Prima tappa obbligata è l’autoscontro, è la passione vera di mio figlio piccolo ma in effetti piace un po’ a tutti. Le macchinine sono piuttosto grandi e quindi decidiamo di andare tutti e quattro, così facciamo due contro due. Presi i gettoni ci avviamo verso la pista, quando mio marito è bloccato da un bimbetto di sei o sette anni dalla

pelle olivastra, occhi e capelli neri, uno zingarello per intenderci. “Mi dai un gettone?”. Ci guardiamo in faccia increduli e inteneriti, l’elemosina di un giro di giostra... non ci era mai successo! Ovviamente decidiamo di accontentarlo e, per non togliere nulla ai nostri figli che erano così contenti di quel gioco, io propongo: “Vai tu bimbo, ti cedo il mio posto accanto a mio figlio. Divertitevi!”. Rimango a bordo pista ad osservare i loro giri e scontri forsennati, piacevano tanto anche a me da bambina, devo ammettere che un po’ mi dispiace non essere su quella macchinina! Il bimbetto fa qualche giro con mio figlio grande che, essendo bello grosso, riesce a mantenere il controllo del volante. Poi si scambiano e va un po’ anche col piccolo che invece soccombe subi-

to ed è costretto a cedere il volante a quel furfantello che la sa molto più lunga di lui! Però stranamente non si dispera e alla fine tutti sembrano essersi divertiti parecchio! Salutiamo il nostro piccolo amico e continuiamo il giro al luna park. Lungo la strada del ritorno, nel buio della macchina, dal sedile di dietro ci giunge inattesa la voce di mio figlio grande: “Sapete, ho pensato che quel bambino potevo essere io...”. Restiamo senza parole, forse qualcosa abbiamo detto ma non me lo ricordo neanche più, tanta è stata la sorpresa mia e di mio marito nel sentire quelle parole. Sono passati sette anni da quando lo abbiamo adottato e mai aveva fatto il minimo accenno alla sua vita precedente. Certo la cosa ci aveva sempre preoccupato ma avevamo deciso


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di non insistere e cercare di rispettare i suoi tempi e il suo carattere introverso. Ed ora, finalmente, qualcosa si stava sbloccando. Improvvisamente davanti ai suoi occhi, in quel luna park, è comparso uno specchio e lui si è rivisto a sei anni, ignorato di suoi genitori, vagare da solo di sera senza le attenzioni di una famiglia. La differenza fra quell’immagine e la sua vita attuale (in cui invece spesso si lamenta perchè gli stiamo troppo addos-

so!) deve aver scatenato un piccolo terremoto interiore, tanto da far scaturire quelle semplici parole. Che forse gli avranno fatto anche male ma che sono state di certo liberatorie. È stato bello pensare che si stava fidando di noi e riusciva a dirci che lui era stato quel bambino, senza vergognarsene e senza paura di ferirci . Le lacrime non si sono fatte attendere sulle mie guance, ma ero seduta davanti e nel buio di quella incredibile serata, non

si sono viste. Del resto io piango per ogni stupidissimo film, basta che ci sia un lieto fine, come potevo trattenermi di fronte a quella breccia nel muro di rabbia e rancore che tante volte ci aveva diviso da nostro figlio e adesso sembrava incrinarsi? Da quella sera qualcosa è cambiato. Certo, sarà un percorso lungo quello che ricongiungerà il bambino delle giostre con il nostro adolescente arrabbiato, ma almeno siamo partiti...


giorno dopo giorno

di Antonello Ferzi

La principessa dell’Altay Storia di un’adozione - parte terza 26

BIJSK Il mattino successivo Mila di buon ora passa a prenderci in hotel. “Come va? Avete riposato bene?” “Figurati Mila, non abbiamo chiuso occhio, il nostro pensiero andava sempre li, a quella foto, a quegli occhi cosi espressivi e soprattutto a quello che accadrà oggi”. “Non preoccupatevi, vedrete che andrà tutto bene, adesso pero andiamo a prendere un’altra coppia di Roma, ancora non li conoscete, sono sistemati in un altro hotel, anche loro verranno in istituto per conoscere il loro bambino”.

Guidati da Vladimir e dal suo pulmino futuristico passiamo a prenderli. “Ciao, io sono Stefano lei e Ilaria”. “Piacere, io sono Antonello, mia moglie si chiama Patrizia”. Si parte, destinazione Bijsk1, dopo diversi chilometri a parlare del più e del meno, Patrizia si rivolge ad Ilaria: “Scusami, adesso che hai tolto gli occhiali da sole, ho la sensazione di conoscerti, di averti vista da qualche parte, il tuo volto mi e familiare”. “Mi avrai vista in TV, in questi giorni sta passando un importante sceneggiato dove recito una parte im-

portante”. “Ma certo, e vero! Accidenti che scema che sono, ora realizzo, ma come ho fatto a non pensarci prima? Ti seguo da sempre con grande ammirazione, devo ammettere che sei veramente brava”. “Grazie, grazie, ma non esagerare, non merito tutti questi complimenti, ti assicuro che recitare in tv e piu facile di quanto tu possa pensare. Nella mia carriera ho fatto molto teatro e non ci sono paragoni, agli errori in tv si rimedia facilmente, le scene la puoi girare molte volte quindi…” “E incredibile, che coincidenza, adottare insieme ad una persona cosi famosa,

Bijsk e seconda per popolazione del Kraj di Altaj dopo il capoluogo Barnaul. La sua popolazione e di circa 220.000 abitanti. La citta e situata nella Siberia meridionale, sul fiume Bija, non molto lontano dalla confluenza con il fiume Katun. La citta e stata fondata nel 1709 come una fortezza, ordinata da Pietro il Grande. Bijsk, in seguito, divenne un importante centro militare, ma acquisì cosi tanta importanza che nel 1782 ottenne lo status di città. Nel dopoguerra Bijsk divenne un importante centro di produzione delle armi. Bijsk e inoltre un importante centro culturale: infatti, e sede di un istituto tecnico, dell’Accademia statale dell’Istruzione dell’Altaj, di un teatro e di un museo. La città e inoltre dotata di una stazione ferroviaria e di un aeroporto. 1


noi stiamo andando a conoscere una bambina, e voi?” “Noi un maschietto, dalla foto che ci hanno fatto vedere al Centro Adozioni, sembra un tipetto molto sveglio, ha due orecchie grandi e appuntite, sembra un personaggio di Star Trek”. A quel punto Mila, che era seduta nel sedile anteriore al fianco di Vladimir si volta indispettita, giustamente su certi argomenti non accetta battute fuori posto, Ilaria se ne accorge e cerca di recuperare. “Guarda Mila che sto scherzando, passami la battuta dai, la tensione e cosi alta che in qualche modo dobbiamo stemperare”. Dopo quasi due ore di macchina entriamo a Bijsk. Attraversiamo una parte

poverissima della citta, le costruzioni sono basse e prevalentemente in legno, non tutte le strade sono asfaltate, fango e pozzanghere dappertutto, la temperatura esterna segna meno 13 gradi. Ci facciamo caso soltanto noi, le persone del posto sono abituate a ben altro. In inverno le temperature possono scendere anche sotto i 40/50 gradi! L’Istituto si trova oltre il fiume Ob2, durante il tragitto Mila ce ne indica un ‘altro e ci racconta che li ci vivono dei bambini più grandi. Ancora pochi chilometri e giungiamo davanti alla struttura, attraversiamo a piedi un piccolo cortile. Il mio sguardo viene attratto da vecchi giochi adagiati in giardino. Tra

un po’ la neve li farà scomparire, i bimbi per tutta l’estate li hanno sicuramente colorati con le loro vite, con il loro amore, con innocenti sorrisi. Entriamo, le gambe tremano, le mani sudano, il cuore galoppa e non vuole fermarsi, non vogliamo fermarlo. Mila ci dice di attendere in una piccolissima sala d’aspetto. Entriamo, la stanza e arredata con un divano di stoffa marrone e alcune sedie di legno, di lato una piccola scrivania dove siede una signora dai lineamenti decisamente asiatici, i capelli raccolti, ci sorride e nel tentativo di rompere il ghiaccio ci domanda: “Italiani?” “Si, si, italiani”. “Bambini?”

Fiume della lunghezza di 3.680 km, con un bacino di 2.975.000 km2 della Siberia occidentale, interamente compreso nella Russia, tributario del Mar di Kara. Si forma nella regione dell’Altaj, presso Bijsk, dall’unione dei fiumi Bija e Katun, alimentando numerosi bacini artificiali e bagnando le citta di Barnaul e Novosibirsk. 2

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“Si, siamo qui per i bambini” “Come si dice in russo “bambini”?”, domando io nel vano tentativo di rendermi simpatico. “ребенок” Provo a ripetere, l’unica cosa che mi riesce e quella di far uscire sillabe incomprensibili ed allora ci uniamo tutti in una fragorosa risata. Il rilassamento dura solo un attimo, il cuore riparte fortissimo, la tensione torna a salire, i volti sono tirati come corde di violino, ma passano per fortuna pochi attimi e Mila ci viene a chiamare, ci fa accomodare, finalmente siamo dentro. Ci assale subito un odore fortissimo, quasi

nauseante, non riusciamo a capire da cosa provenga, Mila dice di non preoccuparsi, che in poco tempo ci faremo l’abitudine. Nel primo corridoio incrociamo una signora che porta due bimbi, sono due maschietti, sicuramente non sono i nostri bambini. Incredibile! Mai provata una tensione cosi forte. Afferro la mano di Patrizia cercando protezione, ci fanno entrare in un ufficio, nella prima stanza una ragazza sta lavorando al computer. Alza lo sguardo ed accenna un sorriso, due passi e siamo in una seconda stanza, più grande, più accogliente. Ci riceve una signora alta, elegante, lo

sguardo severo e autoritario. E’ la direttrice dell’istituto, la signora Ludmila. Non parla italiano, traduce tutto Mila: dopo una presentazione veloce ci rivolge alcune domande, si informa del viaggio, chiede se tutto e andato bene, riesco a percepire che Mila le sta raccontando di noi, che siamo quei pazzi che sono giunti a Barnaul con la Transiberiana, la signora Ludmila ci guarda con tenerezza. Sprofondiamo su dei soffici divani, otto occhi ora sono puntati su Mila e la direttrice che parlano tra loro. Non sappiamo esattamente come si svolgeranno le cose, siamo convinti che da li a poco chiameranno ogni

La ferrovia Transiberiana (in russo: Транссибирская железнодорожная магистраль[?] Transsibirskaja Železnodorožnaja Magistral’; Транссиб, Transsib; il suo nome storico e Великий Сибирский Путь, Velikij Sibirskij Put’, ossia “la Gran Via Siberiana”) e la ferrovia che attraversa l’Eurasia, che collega Russia europea, con le sue grandi regioni industriali e la capitale russa, alle regioni centrali della Siberia e quelle orientali (l’Estremo Oriente russo). La sua lunghezza di 9.288,2 km ne fa la ferrovia più lunga nel mondo. 3


singola coppia e la faranno incontrare separatamente con il proprio bambino. Invece, all’improvviso, con nostra grande sorpresa, si spalancano le porte dello studio, entrano due donne. In braccio ognuna di loro ha un bambino, un maschietto ed una femminuccia. Sposto lo sguardo su Patrizia, sta piangendo, chiedo a Mila se questi sono i nostri bambini, con il capo mi fa cenno di si, mi volto di nuovo, Agnese e gia tra le braccia di mia moglie. La bimba e paffutella, ha i capelli legati, per niente intimorita da questa situazione. “Mio Dio Patrizia, e bellissima” sono le prime ed uniche parole che riesco a pronunciare in quel momento. Ci abbracciamo in tre, e la prima volta, e il primo passo verso una nuova vita.

Nel frattempo Dimitri, il bimbo di Ilaria e Stefano piange disperatamente. Non riescono a calmarlo. Dimitri e più grande di Agnese quindi anche più consapevole, la cosa divertente e che piange e mangia cioccolatini contemporaneamente. “Pa’, come ti senti?” “Adesso che ho lei tra le braccia mi sento benissimo”. “E molto più bella della foto sai, e incredibile come ti somigli, Nadieska aveva proprio ragione, guarda che guanciotte! Ti ha sorriso Patri, che amore”. Siamo storditi, confusi, rilassati e felici, abbiamo dentro un’infinita di sensazioni, non sappiamo e non sapremo mai cosa si prova durante un parto di un figlio naturale, ma ora sappiamo, e lo sapremo per sempre, cosa si prova per un figlio adottivo. Un’emo-

zione unica, straordinaria, completa, rischi di impazzire quando finalmente hai tra le tue braccia la bimba o il bimbo che hai sempre sognato, che hai sempre desiderato. Il soggiorno a Bijsk sarà molto breve. Mila ci sistema in un hotel situato a qualche chilometro dall’istituto e ci presenta la persona che ogni giorno ci accompagnerà in macchina per le visite, il signor Ghinnadi. Abbiamo la possibilità di vedere Agnese due volte al giorno, due ore la mattina e due ore il pomeriggio, il resto del tempo con Stefano e Ilaria lo dedichiamo a fare delle visite alla citta e, da buoni italiani, andiamo alla scoperta di qualche ristorante tipico. Prendiamo giocattoli e vestiti per i bambini dell’istituto, inoltre la direttrice ci propone l’acquisto di

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medicinali pediatrici. Lo facciamo molto volentieri, siamo sicuri che la signora Ludmila ne farà buon uso. Una bimba nel gruppo di Agnese compie gli anni. Ci danno il permesso di festeggiarla e portiamo una torta con dei giocattoli. Alina, cinque anni, occhioni blu, capelli sottili e biondi, bella e triste da morire. Molti di questi bambini, per diversi motivi, non sono adottabili. Il loro futuro sarà incerto, preghiamo molto, come mai abbiamo fatto nella nostra vita, affinché il Signore ci ascolti e dia una concreta possibilità a queste creature. Con lo sguardo li abbracciamo uno ad uno per non creare spiacevoli illusioni, li vorremmo portare via tutti, ma sappiamo che non e possibile, questo pensiero ci accompagnerà per tutta la nostra vita. Il volto e

l’espressione di quei bambini rimarrà scolpito nella nostra mente e nei nostri cuori. “Anto, Agnese e proprio come la immaginavo e soprattutto come la desideravo, credo che siamo stati proprio fortunati. Abbiamo aspettato tanto, abbiamo sofferto tanto, abbiamo lottato con tutte le nostre forze, ma ora il Signore ci ha ripagato, ogni ora che passa Agnese entra sempre di più nelle nostre vite”. “Non posso pensare pero che tra pochi giorni dovremo dividerci e rivederci poi chissà quando”. “Mila mi ha detto che se saremo fortunati passeranno solo pochi mesi”. “Pochi mesi! Io rischio di impazzire, dobbiamo trovare la maniera, in nostra assenza, di avere almeno notizie della bimba”.

“Mila in qualche modo ci farà sapere, me lo ha promesso”. Nel frattempo Ilaria e Stefano sono in partenza per l’Italia ed anche noi, a breve, li seguiremo. Abbiamo gia prenotato il treno per Mosca, ci salutiamo affettuosamente con la promessa di rivederci presto coltivando la speranza di tornare a prendere insieme i nostri bambini. Le procedure in Federazione Russa per le adozioni internazionali nel 2005 si svolgevano in questo modo: il primo viaggio dura circa 7 giorni per effettuare l’abbinamento della coppia con il minore, il secondo, dopo 5 o 6 mesi, di circa 7 giorni per effettuare l’udienza in Tribunale che emetterà il decreto di adozione. Infine, il terzo, dopo 15/20 giorni, per prendere il bambino e portarlo definitivamente a


casa. La mattina del 26 ottobre siamo ancora in hotel e ci stiamo preparando per andare in istituto a far visita alla bambina, quando riceviamo la telefonata di Mila. “Pronto Antonello, dovete subito venire a Barnaul”. “Ma Mila, come subito? Non abbiamo salutato nessuno in Istituto…” “Mi dispiace, ma dovete venire subito”. “Ti giuro che non ci muoviamo da Bijsk se prima non abbiamo visto Agnese per un’ultima volta”. “Ok, siete proprio due testoni, ma mi raccomando un saluto veloce”. “Grazie Mila, sei un angelo”. Arrivati in istituto ci incontriamo brevemente con Agnese. Il tempo per altre coccole e un infinita di baci ma dobbiamo andare. Lontano da lei soffriremo

terribilmente, odio queste stupide procedure, saranno anche necessarie, ma le trovo ciniche e spietate. Salutiamo calorosamente la signora Ludmila, persona molto cara e di grande spessore. Lei, oltre a dirigere l’istituto, svolge l’attività di medico pediatra e per giunta anche quella di parlamentare regionale. Per tutto il tratto di strada che da Bijsk ci riporta verso Barnaul, con il signor Ghinnadi non riusciamo nemmeno a proferire parola. La partenza del treno e fissata per le 23,00 e Mila, precisa ed attenta ad ogni particolare, non vuole farci spendere altri soldi inutilmente cosi ci fa ospitare in hotel da una coppia di Genova, Marina e Gabriele. Loro sono a Barnaul per il secondo viaggio, hanno da poco ottenuto la sentenza, sono molto gentili, ci offro-

no una succulenta cena a base di prodotti italiani e, cosa fondamentale, ci danno dei consigli utilissimi per affrontare con meno disagi i prossimi viaggi. “Marina, ci racconti per favore come si e svolta la vostra udienza?” “Veramente non vorrei crearvi agitazione, ma, in effetti, e un po’ dura. Sai, i russi sono severi, molto istituzionali, insomma, sarete accolti da un bell’ambientino… Vi faranno molte domande…Sai loro vogliono sapere tutto, ma proprio tutto…”. “Dai Marina, non creargli troppa pressione”, interviene Gabriele. “Lascia che elaborino le loro sensazioni. Quando sarà il momento faranno come noi. Tranquilli ragazzi, vedrete che troverete la forza ed il coraggio per af-

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frontare ogni cosa a testa alta”. Suonano alla porta, Gabriele apre, è Galia, un occhio all’orologio. In effetti non ci siamo resi conto ma e ora di andare alla stazione. Li ci aspetta il treno del ritorno. “Siete dei pazzi”, ci dice sorridendo Marina mentre ci salutiamo. “Si parlava di voi in associazione, ma non avrei mai immaginato di incontrarvi. Buon viaggio comunque, e buona fortuna per tutto, ci vediamo in Italia”. A differenza del viaggio di andata per il ritorno abbiamo prenotato dei posti in prima classe, tutta un’altra cosa. Velluto, tende merlettate, proiezione di film in inglese, the e biscottini, insomma una vera raffinatezza. Nelle tante ore in treno, oltre che divorare libri e ammirare l’affascinante paesaggio siberiano, inevitabilmente i pensieri e le parole tornano su Agnese e sul tempo che dovrà pas-

sare in attesa del secondo viaggio. Arriviamo a Mosca, ad attenderci c’è nuovamente Natalia che ci accompagna nello stesso hotel dell’andata sulla vecchia Abarth. Ci sentiamo un po’ russi anche noi. In fondo questo paese, da qui a pochi mesi, ci dara la gioia più grande della nostra esistenza. Il giorno successivo rientriamo in Italia. Il volo per Roma con Alitalia si svolge in assoluta tranquillità attenuando ulteriormente le mie fottute paure. All’aeroporto di nuovo mio fratello. “Ragazzi, come e andata? Raccontatemi un po’ di questa nipotina”. Due ore di macchina verso casa non bastano per spiegare le nostre sensazioni, parleremmo all’infinito di Agnese, dei suoi occhioni, delle sue morbide guance, della sua bocca a cuoricino, dei suoi dolci sorrisi, vorremmo essere due foglie di betulla, farci trasportare dal vento, sfiorare Kalin-

ka4, salutare Ghinnady, posarci su Ludmilla, ed arrivare li nell’istituto, per vedere anche solo per un attimo la nostra bambina, il nostro amore! UN INVERNO LUNGHISSIMO Sono passati alcuni mesi dal giorno della partenza di Bijsk e non abbiamo più avuto notizie della bambina. In associazione non possono aiutarci, le rigide procedure russe non consentono nemmeno a loro di avere contatti con l’istituto. Proviamo a cercare Mila più volte, ma e costantemente in Siberia, impossibile da rintracciare. Nel frattempo ci frequentiamo sempre più spesso con Stefano e Ilaria, anche loro vivono male questa situazione, oltretutto a complicare ancor di più il nostro stato d’animo, giungono notizie di sostanziali cambiamenti in Federazione Russa riguardo alle adozioni internazionali. Ogni giorno quindi lo viviamo con la


paura che possa accadere qualcosa, che tutto possa tornare in discussione, il rischio di compromettere la nostra precaria situazione e altissimo. Il giorno 7 di Marzo, un lunedì, quando ormai i nostri nervi gia provati in maniera terrificante stanno per cedere, arriva finalmente la notizia tanto attesa. “Ciao ragazzi, sono Donatella, hanno fissato per giovedì 17 la vostra udienza. Pero attenzione, potrebbe anche slittare. Infatti sembra che manchi un documento che deve produrre l’autorità centrale di Mosca. Ovviamente senza questo…” “Allora cosa dobbiamo fare?” “Dobbiamo decidere in fretta se effettuare ugualmente la partenza, correndo il rischio di fare un buco nell’acqua o chiedere lo spostamento della data, senza avere pero la certez4

za di quando sarà fissata la prossima udienza. Ovviamente il Tribunale ha gia un calendario prestabilito, quindi…” “Ma Mila che ne pensa? Lei e li ed ha il polso della situazione, ci potrebbe consigliare”. “Mi sono già sentita con lei poco prima di chiamarvi. Mila propende per la partenza, dice che la vostra presenza potrebbe essere determinante per sbloccare la situazione”. “Allora dobbiamo giocarcela questa possibilità”. “Quindi e deciso, mi date l’ok?” “Credo che non abbiamo altra scelta”. “Va bene, allora chiamo l’agenzia per organizzare velocemente il viaggio, ovviamente non metterti in testa assurdi spostamenti in treno, questa volta proprio non e possibile. Oltretutto non andrete neanche da soli, viaggeranno con voi Stefano e Ilaria, la loro udienza e fissata per il

Ristorante tipico di Biysk situato di fronte al nostro hotel

giorno 18”. “Che bella notizia! Grazie Dona”. “Non ringraziare me, il merito e tutto di Mila, ha lavorato tanto per far si che ciò accadesse”. “E un angelo, merita la beatificazione, ovviamente più tardi possibile!” Sapere di viaggiare con Stefano ed Ilaria ci ha reso molto felici. Io in particolare mi sento più tranquillo, forse con loro riuscirò a contenere la ormai cronica paura dei voli. Decidiamo inoltre, con la benedizione di Mila, di soggiornare in Siberia fino alla data del rientro definitivo, resteremo a Bijsk una trentina di giorni, ottenendo due risultati: primo, la bambina si abituerà sempre più alla nostra presenza e il distacco dall’istituto risulterà meno traumatico, secondo, ridurremo della meta il numero dei voli e questa per me e una grande notizia.

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giorno dopo giorno

di Greta Bellando

Alla ricerca dei ricordi storia di un ragazzo adottato a 15 anni 34

Carissimi lettori, ci siamo lasciati in Etiopia e ci tengo a restare ancora un momento in questa terra perché ho una storia ‘speciale’ da raccontarvi. Durante lo scorrere dei mesi ho costruito dei legami molto belli e profondi, di stima e fiducia reciproca, che hanno fatto sì che io potessi, intervista dopo intervista, arricchirmi e grazie alla ragazza di cui vi ho parlato il mese scorso sono riuscita ad entrare in contatto con un giovane dai tratti ed il cuore etiopi… Quando ci siamo sentiti lui mi ha detto di avere una storia alle spalle diversa dagli altri, e allora ‘in punta di piedi’ ho cercato di cogliere la sua ricchezza e la profondità del suo vissuto; di un vissuto diverso dagli altri perché è stato adottato all’età di 15 anni e al

momento dell’intervista ne aveva solamente 19. La sua vita è trascorsa con la mamma di nascita sino all’età di 4 anni e poi è stato trasferito in un collegio svizzero sino ai 12. Quella donna che gli aveva donato la vita non si è mai separata totalmente dai suoi figli, poiché andava a trovarli mantenendo sempre un contatto con loro. L’adozione vissuta da grande rende consapevoli di quanto potrà accadere; all’orizzonte non c’è futuro se non la possibilità di andare in un altro Paese, avere dei genitori che si prendono cura con amore di te e studiare per avere una possibilità di vita migliore. A. è il secondo, ha una sorella più grande ed una più piccola e dopo tre anni trascorsi nel villaggio di adozione gestito dall’Ente

italiano tramite cui è stato adottato, è riuscito a far breccia nel cuore di una coppia: “Non si trovavano subito le famiglie disponibili ad adottarmi poiché ero già grande. Al mio terzo anno di permanenza ho trovato una famiglia disposta ad adottarci tutti e tre. Noi avevamo trovato una famiglia e loro avevano trovato i figli. Subito sono stato adottato io assieme alla mia sorella più grande, poi dopo un paio d’anni è stata adottata mia sorella più piccola”. L’Etiopia è per A. la terra dei ricordi, dell’infanzia, delle amicizie, della serenità. L’Italia è invece il futuro, la possibilità di un riscatto e di una vita migliore attraverso l’istruzione. I viaggi di ritorno sono stati molto ravvicinati e non molto lontani rispetto


all’arrivo in Italia. Il primo viaggio di ritorno è stato importante poiché riguardava la sentenza per la sorella più piccola e quindi la possibilità, anche per lei di giungere in una nuova famiglia per essere amata; il secondo viaggio invece è stato più ‘libero’ poiché A. è tornato da solo ed ha potuto riannodare la ‘matassa della sua vita’. Del primo viaggio lui conserva nel cuore le forti emozioni del rivedere il proprio Paese e la gente, quella che lui conosceva bene: “Quando sono tornato alle mie radici mi sono sentito a casa e ho potuto vedere le tante sfaccettature della vita”. Nel corso del primo viaggio lui ha potuto ‘riabbracciare’ i ricordi dell’infanzia attraverso l’incontro con gli amici: “Durante il primo viaggio, sono voluto an-

dare da solo nel collegio in cui ho vissuto molti anni; anche solo il viaggio in taxi è stato molto emozionante. E’ stato bello rivedere i miei amici, che non avevo salutato al mio trasferimento. Per loro era strano che io non li avessi salutati e mi hanno fatto molte domande sulla mia vita”. E poi le emozioni si sono mescolate assieme alla sorella maggiore, poiché tutta la famiglia è tornata nel luogo in cui viveva assieme alla nonna e là…..c’era anche la mamma di nascita: “Successivamente siamo andati dove aveva vissuto mia sorella, ovvero da mia nonna, e là c’era anche mia mamma. Mi ricordo che abbiamo fatto un viaggio lunghissimo ed è stata una grande emozione perché ho potuto vedere dal vivo ciò che vedevo in televisione o quello che raccontava

mia sorella. C’è stata una grande accoglienza da parte di tutti”. Il secondo viaggio invece è stato quello dell’autonomia, dei fiumi di ricordi che sgorgavano passo dopo passo e riaffioravano nella memoria. Giunto in Etiopia da solo, A. ha chiamato la madre di nascita ed assieme hanno potuto recuperare quel rapporto mancato dovuto a tanti anni di separazione: “Andare da solo nel secondo viaggio mi ha fatto sentire autonomo. Appena atterrato ho chiamato mia madre e gli ho chiesto di accogliermi e lei mi ha ospitato per due settimane e poi sono voluto tornare nel collegio svizzero per poter soddisfare bene la mia voglia di rivisitarlo; volevo fare anche esperienze personali come girare un po’ per Addis e stare con mia madre e gli

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altri parenti. Stare con mia madre è stato bello, ho cercato di starle vicino per capire le sue condizioni. Di mio padre non ci sono notizie perché è morto quando ero molto piccolo, mi avevano dato una foto in cui si vede una forte somiglianza. E’ stato molto bello poter fare visita ai miei parenti poiché, avendo vissuto per molta parte della mia vita in istituto, non avevo avuto la possibilità di comprendere davvero cosa significasse avere dei parenti. Stare con mia madre mi ha permesso di conoscerla meglio e di avere un rapporto migliore con lei. Io e mia mamma alla fine

abbiamo un rapporto di amicizia e di rispetto le voglio bene ma non avendo vissuto molto tempo con lei non ho un forte attaccamento”. Questi viaggi non hanno donato ‘scoperta’ ma hanno dato ‘conferma’. Conferma di essere etiope, di amare il proprio popolo, la propria cultura: “Mi sento più etiope, per sentirmi italiano ci vorrà un po’ di tempo perché sono solo 5 anni che sono qui. Ad oggi conosco meglio l’amarico dell’italiano. Ho anche amici che sono stati adottati grandi come me e quando ci sentiamo parliamo in amarico e alle volte scrivo anche lettere a mia madre o tra-

duco lettere a dei genitori che ho conosciuto nel corso del tempo”. Questa storia ci insegna quanto il bagaglio dei giovani che giungono in adozione possa essere grande, ricco, coinvolgente e misterioso. Di sicuro A. conserverà per sempre una grande mappa geografica con due punti importanti l’Etiopia e l’Italia… in fondo da sempre queste due nazioni sono state storicamente legate. Seppur la distanza geografica sia molta A. conclude dicendo: “Ci sono tanti punti in comune tra questi due Paesi che mi appartengono; io ho accorciato le distanze sia fisicamente che nel mio cuore”.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Parole fuori

Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi Barchetta Blu di Venezia 38

1. Questo mese: Tirare fuori le parole e inventare storie Ci sono emozioni, desideri, paure che stanno sepolte dentro di noi e che non sempre siamo capaci di riconoscere. Emozioni a cui è difficile dare un nome e che è difficile portare fuori, tirare fuori allo scoperto. Sensazioni e sentimenti che ci cambiano ma non si lasciano individuare, comprendere, afferrare. Tra quelle emozioni difficili da decifrare si cela il lato più profondo di noi stessi, la parte che a volte abbiamo paura di vedere ma che è sempre ricca, intensa e vera. Parole fuori (AA. VV, Il Castoro, 2013) è un particolarissimo libro che ci può dare degli esempi su come trovare le parole per raccontare cose che sono difficili da spiegare.

Questo libro è composto da dodici racconti scritti da dieci grandi scrittori e due autori di graphic novel che esprimono in modo originale quello che a volte non riusciamo a dire ma che grida forte dentro di noi. Dodici storie per raccontare le emozioni più intense, con le parole e con le immagini. Parole per esprimere o anche per nascondere le emozioni di un’età difficile, di cambiamenti e di stravolgimenti che è

l’adolescenza: Desiderio, Vergogna, Timidezza, Dolore, Amore, Disperazione, Paura, Gioia, Coraggio, Colpa, Gelosia, Odio sono dodici parole che descrivono l’adolescenza e sono anche i titoli dei dodici racconti; parole apparentemente semplici che nascondono universi confusi, contorti che spesso rimangono rinchiusi dentro, che spesso rimangono segreti, impedendoci di affrontare la vita e di capire chi siamo veramente. In questo libro si raccontano universi di emozioni che vengono alla luce, che si lasciano penetrare e ci svelano proprio quella parte di noi che più difficilmente riusciamo a vedere; queste dodici piccole storie fatte di scomode verità, intricate sensazioni, istinti incontrollabili, ci aiutano a ripensare alle parte di noi più nascosta e ci danno


una chiave per capire noi stessi e il mondo che ci circonda fatto di debolezze, di rischi ma anche di relazioni profonde e felici. Ci sono pensieri che vorrebbero essere espressi ma che non riescono a trovare un modo adeguato per emergere in superficie. Ci sono situazioni in cui si desidererebbe avere accanto una persona che possa essere una guida, o che possa essere una compagna con cui considerare il mondo dallo stesso punto di vista, o che ancora possa essere un appoggio verso il quale siamo spinti nelle difficoltà. Dare un nome alle emozioni è davvero una sfida per questi dodici grandi autori del panorama italiano per ragazzi. Ognuno di loro si è misurato con il compito di evocare con le parole o le immagini le dodici emozioni; l’unica consegna era di non nominare mai la

parola scelta. Ogni autore ha preso in affido una emozione promettendo di non scriverla mai nel racconto. Tra le dodici storie raccontate con stili molto diversi mi ha molto colpito l’ultima dedicata all’Odio di Antonella Ossorio; forse mi ha attirato proprio per il suo inizio che può essere utilizzato anche per la rabbia, il rancore, la paura, la gelosia. Avercela a morte con qualcuno è un pessimo affare. Quando un tarlo del genere ti fa la tana dentro ti riempie il cuore di buchi. Se poi a starti sullo stomaco non è un tizio qualunque, ma qualcuno che ti è molto vicino – uno al quale non puoi dire: basta, non ti sopporto, sparisci! – allora sei messo veramente male. Io lo so bene, perché questo problema ce l’ho e forse mi peserà addosso per tutta la vita. Ecco l’ho detto; per

tutta la vita. Non ne sono fiero, ma non posso farci niente. E’ così che stanno le cose … … avercela a morte con qualcuno è un pessimo affare. Ma starsi sulle scatole da soli è il destino più crudele che possa toccare ad un essere umano. Il racconto che più mi ha emozionato è però quello di Silvana Gandolfi, una delle mie autrici preferite, intitolato Timidezza. Forse perché anch’io sono una persona timida che per ruolo o professione deve sembrare estroversa e sicura di se. Forse perché incontro spesso persone strafottenti e arroganti e la timidezza mi appare come una delicata, sensibile e preziosa riservatezza da coltivare e proteggere nei bambini e in generale nelle persone. Una festa di compleanno, un gruppo di ragazzi, la

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difficoltà di sentirsi a pro- sempre stato un mio sogno ma non mi ero mai cimenprio agio. tata veramente fino alla Il fatto è che io mi sento nascita del mio primo fia mio agio coi bambini. glio Tommaso. Quando lui Come mi vedono arriva- aveva solo pochi mesi, più re, si drizzano sui cuscini che storie le mie erano una perché sono contenti di sorta di strampalate farvedermi e non mi fanno neticazione senza un vero domande imbarazzanti … e proprio filo logico. AscolCon poche altre persone tando la mia voce, indipenmi sento me stesso senza dentemente da ciò che dicevo, il mio caro figliolino problemi come con loro. si tranquillizzava, si rilasNon posso svelare troppi sava e si addormentava; a particolari di questo bre- volte continuavo a racconve racconto con un finale a tare storielle anche dopo il sorpresa ma cito un’altra suo addormentamento in frase che tutti potremmo una sorta di trance, senza tenere in mente nelle no- accorgermi che lui non mi stava più ascoltando. stre relazioni: Non esistono gusci vuoti, A mano a mano che lui Guido. Forse tra le noci si, cresceva e con il mio sema non fra gli esseri uma- condo figlio, mi sono doni. Secondo me più è spes- cumentata e ho affinato la so il guscio, più dentro c’è mia tecnica; il mio modo di nascosta una polpa sapori- raccontare è rimasto semplice e rudimentale ma mi ta. Inventare delle storie è ha permesso di instaurare

una relazione di parole con i miei figli. Inizialmente le storie inventate erano molto brevi e si rifacevano a quanto accaduto durante la giornata. In una seconda fase ho poi iniziato a cambiare alcuni particolari come i nomi, i luoghi, le atmosfere. In tutti i casi era comunque un modo per dare una sorta di conclusione simbolica ad episodi che erano rimasti inconclusi. In quelle occasioni, ma anche in altre situazioni, il bambino a cui raccontavo una storia si divertiva a intervenire nelle descrizioni e nei racconti scoprendo qualcosa di familiare nelle varie vicende, ma senza rendersi conto proprio del tutto che si stava parlando anche di un pezzettino del suo vissuto. A volte i bambini vogliono cambiare intere parti del-


la storia affermando che le cose non stanno come si dice nel racconto e decidono di intervenire loro stessi nell’invenzione del finale. Alcune volte, davanti ad un problema, le spiegazioni e i consigli non sono efficaci per la sua risoluzione. Spesso può invece essere utile il racconto creativo delle storie; sia con i bambini che con gli adulti, che tendono a porre limiti, quesiti e dubbi, il racconto creativo può essere utile perché arriva in modo diretto, in modo giocoso e leggero, alla parte più profonda di chi ascolta. Così come fiabe, favole e miti sono fatte di metafore, anche le storie inventate da noi possono trasformare simbolicamente i problemi, proponendo strade da percorrere o soluzioni possibili.

Chi ascolta può decidere di vivere semplicemente un bel momento rilassante o può ripensare al proprio vissuto; sicuramente si mette in moto un inconsapevole percorso che inizia da dentro e porta ad un processo di elaborazione della criticità/trauma, riuscendo a far pensare che è ancora possibile continuare ad andare avanti nonostante tutti gli accadimenti. Per inventare una storia si può iniziare chiedendosi quale sia la difficoltà che fa star male il bambino, quale sia il modo per arrivare a raggiungere l’obiettivo o per risolvere il problema e verificare infine se ci siano le capacità per eliminare ciò che ostacola la risoluzione del problema. A questo punto, in modo semplice e sintetico, si può cercare di preparare

uno schema per la storia; fondamentale è riprendere un particolare della storia veramente accaduta come per esempio un aspetto atmosferico, un oggetto interessante, un colore prevalente. La metafora scelta deve essere comprensibile per chi ascolta senza però esser messa in una relazione consapevole con la difficoltà che sta vivendo realmente. Si deve anche fare attenzione a non riempire la storia di troppi dettagli per non creare confusione: meno si interessa l’intelletto, più i bambini seguono la storia con curiosità, senza dover impegnarsi per attivare collegamenti con la vita reale. In questo modo il messaggio arriva semplicemente e velocemente penetrando nella sfera emotiva più profonda e preparando il terreno interno ad una risoluzione della

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difficoltà. Se per esempio un paesaggio innevato rappresenta generalmente gioia e divertimento e può essere utilizzato in un lieto fine, per un bambino a cui l’inverno non piace, si dovrà cambiare ambientazione poiché quel bambino non riuscirà a immedesimarsi nelle sensazioni piacevoli raccontate e quindi sarà necessario inserire la storia in estate, al mare, nella spiaggia dove il bambino si sente spensierato e felice. Genitori e insegnan-

ti possono crearsi un piccolo bagaglio di informazioni relative ai bambini chiedendo loro, in momenti di calma e tranquillità, quali siano le circostanze in cui si sentono felici, i momenti della giornata, i rumori, gli odori e i sapori preferiti in modo da riutilizzare poi le informazioni nelle conclusioni a lieto fine delle storie inventate. Per contrapposizione si può ricavare quali siano invece le situazioni in cui il bambino si senta a disagio, triste

e in difficoltà. Credo sia meglio evitare domande dirette legate a ricordi spiacevoli o esperienze negative. Infine nella storia ci può anche essere una figura di soccorso che può essere sempre la stessa e può essere rappresentata da un animale in cui il bambino vorrebbe trasformarsi o comunque che ama e che quindi sente come un possibile amico e portatore di aiuto.


post

GSD attiva sul territorio gruppi di auto aiuto dedicati al Post adozione e all'Attesa, organizza incontri di sensibilizzazione e informazione, copre le spese vive contribuisce a coprire i costi

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trentagiorni

SVOLTA SULLE ADOZIONI “SI AI GENITORI AFFIDATARI ANCHE SE SONO SINGLE” Primo via libera del Senato alla riforma: salta il divieto di lasciare :i bambini alle famiglie che se ne prendono cura I bambini in affido non dovranno più cambiare famiglia. Perché potranno essere adottati anche dagli stessi genitori, (a volte monogenitori) a cui sono stati affidati. Sembrerebbe una cosa naturale ma in Italia non lo è. Fino ad ora infatti non era consentito ad una coppia o ad un single che accoglieva nella sua vita un bambino in affido, e magari lo cresceva per anni e anni, poterne poi diventare genitore a tutti gli effetti. Adozione e affido infatti sono sempre stati nel nostro paese due percorsi, radicalmente diversi. Ma un primo sì ieri in commissione Giustizia del Senato sulla riforma della legge attuale, potrebbe cambiare totalmente le cose,

aprendo anche, di fatto, un possibilità per l’adozione ai single. E riformando quella controversa norma, secondo la quale anche dopo anni e anni di convivenza armoniosa e di affetto, un b ambino o una bambina possano essere tolti ai genitori affidatari, e destinati invece ad una coppia idonea all’adozione. Spiega Francesca Puglisi, senatrice Pd, e prima firmataria della legge: «Quando il rapporto di affido familiare si protrae oltre i due anni, e il minore viene dichiarato adottabile, con la legge 1209 viene offerta la possibilità alla famiglia, o alla persona affidataria che ne faccia richiesta, se corrisponde al superiore interesse del minore, la possibilità di essere considerata in via preferenziale, ai fini dell’adozione stessa». Il senso profondo è quello di assicurare al bambino, dice Puglisi, “una continuità di

affetti e di legami”. E basta andare sul sito di una famosa associazione “La gabbianella e altri animali”, fondata da Carla Forcolin, che da sempre si batte appunto per questa “continuità di affetti”, eleggere le storie di Micha, di Beatrice, di Marco, di Mathias, per rendersi conto cosa significa, per un bimbo di pochi anni o per un adolescente, essere “strappato” da quella che oggi considera la sua famiglia, dopo aver perso quella naturale e dopo essere passato per un istituto. Famiglia che però non ha i requisiti di legge per l’adozione, l’età ad esempio, o magari perché la mamma affidataria è single... Ma è li però che quel bambino ha trovato il luogo giusto per crescere. Single appunto. Persona affidataria. In Italia chi è “solo”, oggi può diventare genitore “a tempo” ma non adottivo. Un paradosso non da poco. «In realtà attraverso


45 l’articolo 44 della legge attuale, ci sono già stati diversi casi di adozione ai single. Ma con un emendamento al testo attuale noi proporremo che non siano più casi speciali». Le maglie si allargano dunque, anche se in sordina. Ed è un fatto che la legge 184 del 1983sulle adozioni, fino adora considerata “intoccabile” stia lentamente cambiando. Se infatti una “persona affidataria” potrà adottare il minore di cui si è a lungo presa cura, come si farà a negare questo stesso principio per chi affronta il percorso dell’adozione nazionale e internazionale? FONTE: LA REPUBBLICA REGGIO CALABRIA, FIGLI AL LAVORO INVECE CHE A SCUOLA. DENUNCIATI 165 GENITORI I carabinieri hanno accertato che i minori, tra i 6 e i 15 anni, vivono in condizioni economiche difficili, e sono

avviati dalla famiglia a lavorare saltuariamente o a occuparsi dei fratelli più piccoli. Le denunce sono scattate in diversi comuni della Locride Non hanno mandato i loro figli a scuola o hanno permesso loro di assentarsi dalle lezioni per un periodo superiore al 25% delle giornate consentite, pari a 50 giorni su 200 di frequenza. Questo il motivo che ha portato i carabinieri del gruppo di Locri a denunciare 165 persone, genitori di 88 ragazzi di età compresa tra i 6 ed i 15 anni. Le denunce sono scattate dopo un monitoraggio svolto in tutte le scuole dei 42 comuni del territorio. Le più diverse le motivazioni alla base della mancata frequenza scolastica. Dalle indagini è emerso che i ragazzi con bassa frequenza vivono spesso in condizioni socioeconomiche difficili, tanto che

i minori rappresentano vere risorse per le famiglie che li avviano a saltuari lavori piuttosto che alla gestione quotidiana di mansioni di controllo su fratelli più piccoli. Un’attività di controllo, svolta dalle compagnie di Roccella Jonica, Locri e Bianco, che ha riguardato sia l’anno scolastico 2012/2013, con 87 genitori denunciati, sia quello successivo 2013/2014, 78 le posizione rassegnate al vaglio dell’autorità giudiziaria. Tra i comuni maggiormente interessati dal fenomeno nel primo lasso temporale preso in esame spiccano Caulonia (e la sua popolosa frazione di Caulonia Marina), Brancaleone e San Luca, mentre la seconda tornata di controlli ha visto il maggior numero di violazioni a Platì, Ardore, Caulonia e la sua frazione Marina, Marina di Gioiosa Jonica e Monasterace. FONTE: ILFATTOQUOTIDIANO.IT



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