Adozioni e dintorni - GSD Informa febbraio 2014

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - dicembre 2014 - anno IV, n. 2

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - dicembre 2014 - anno IV, n. 2

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Adozioni intern e politica

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Viaggi reali e fantas

GSD informa

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editoriale

di Anna Guerrieri

psicologia e adozione

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La nascita adottiva di Roberta Lombardi Franco Carola risponde ai lettori Perché adottare un bambino “Special Needs”? di Andrea Redaelli scuola e adozione

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Cecilia e le difficoltà in matematica: un caso di impotenza appresa di Daniela Lucangeli e Nicoletta Perini giorno dopo giorno

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Dammi tre parole di Maria Grazia Santoro Generare di Paolo Faccini Se una giraffa è di troppo di Antonio Fatigati leggendo

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Chissà. Viaggi reali e fantastici di Marina Zulian

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trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze

abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


editoriale

di Anna Guerrieri

Adozioni internazionali e politica È dei giorni scorsi la notizia della nomina della nuova vicePresidente della Commissione Adozioni Internazionali, la dott.ssa Silvia Della Monica. Si tratta di una nomina importante che verrà accompagnata dalla nomina di vari altri commissari decaduti nei mesi scorsi, tra cui un commissario familiare. La dott.ssa Della Monica viene dalla Magistratura ma non da quella minorile, è stata Consigliera della Corte di Cassazione. È stata eletta al Senato nella XVI legislatura nelle file del Partito Democratico nel 2008. Ha fatto parte della II commissione permanente (Giustizia) e della Giunta del Regolamento; è stata inoltre vicepresidente del Consiglio di garanzia, come si può leggere in Wikipedia. Quello che conterà, per chi le adozioni le ha a cuore, sarà il suo lavoro in Commissione, come verrà impostato e come si esplicherà. Attendiamo con attenzione di vederla all’opera e attendiamo la nomina degli altri commissari. In questi mesi molti hanno vissuto la sensazione di uno “sbando” sul tema delle adozioni internazionali. Forse era inevitabile, stante la situazione contingente della Commissione con tutti gli avvicendamenti e la situazione politica Italiana, forse non è nemmeno la prima volta che accade. Tuttavia è stata una percezione forte e spesso spossante. Viene da chiedersi quale sia l’attenzione reale alle famiglie che adottano all’estero, quali siano gli obiettivi e le progettualità sul tema. In meno di due anni si sono avvicendate due Presidenze differenti alla Commissione Adozioni Internazionali, i fondi e gli investimenti per le adozioni sono apparsi drasticamente calati e nei paesi esteri è sostanzialmente e rapidamente accaduto di tutto. Adottare all’estero è apparso più complesso e irto di incognite di un tempo. Nei mesi di Novembre e Dicembre abbiamo assistito alla situazione delle coppie partite alla volta di Kinshasa dopo



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che un Ministro di un governo Italiano, nel suo ruolo di Presidente della Commissione Adozioni Internazionali, si era recato nel paese al fine di garantire la situazione all’interno di un “blocco” annunciato dal paese estero. Abbiamo quindi visto una delegazione Italiana governativa partire a sua volta per la Repubblica Democratica del Congo e tornare senza un nulla di fatto. Abbiamo assistito al rientro delle coppie senza i figli e le abbiamo viste porsi in attesa di poterli andare a riprendere senza certezze sui tempi. Avere la consapevolezza che, a tutt’oggi, queste stesse coppie non ricevono alcun sostegno per la situazione creatasi, che il sostegno per il mantenimento dei figli lasciati in Congo è a carico loro, che sono ancora alle prese con le questioni legate ai mesi di “maternità” usati per poter stare più di due mesi a Kinshasa, ed infine che sono state a carico loro anche le spese di spostamento per un incontro a Roma su invito della Presidenza (ormai decaduta per fortuna) della Commissione, lascia senza fiato. Questa è l’assenza


di intervento e di progettualità istituzionale che si è palesata ampiamente nei mesi scorsi. Ora siamo già oltre. In questi giorni è anche apparsa l’indicazione che la Presidenza della Commissione resta in capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri nella persona di Matteo Renzi, come per default è a meno di deleghe più mirate. Dire che serve una Presidenza interessata al tema, con una comprensione di quel che significa famiglia che accoglie un bambino dall’estero, con una consapevolezza di cosa significhi stato di abbandono, che abbia una strategia politica sul tema, che preveda investimento, ricerca, prospettiva sulla situazione suona quasi patetico, viene davvero male dirlo, perché è “ovvio”. Da oggi guarderemo con attenzione a quanto accadrà in attesa di “fatti”. Come associazione familiare noi vogliamo, esigiamo dalla politica, e non solo per le adozioni internazionali, che ci sia attenzione al tema famiglia. I bambini in stato di abbandono in Italia e all’Estero hanno diritto ad avere una famiglia. Il riconoscimento di questo diritto sta nella realizzazione delle famiglie per adozione. Noi siamo lo strumento concreto attraverso cui la negazione di un diritto viene capovolta. È grazie a noi che viene contenuto il “danno” fatto a tanti bambini e tante bambine. La politica che vuole occuparsi dei cittadini ha il dovere di occuparsi di questo tema non solo per giocare a scacchi con i posti di potere ma per realizzare obiettivi di benessere per tutti i cittadini. Aspettiamo che la Presidenza della Commissione Adozioni Internazionali porti avanti un impegno reale a favore delle famiglie adottive Italiane.

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psicologia e adozione 8

La nascita adottiva

come se eri nella mia pan- re attraverso una storia di cia, che è bello, e anche io ci amore che (ri)dà fiducia, insegna a credere che amare credo”. fa bene, cura e risana. Diventare figli per adozione Mi piace dire che il compito è un percorso lungo, fatico- primario dei genitori adottivi è quello di permettere so, sovente doloroso. Parte da una frattura, che ai propri figli di nascere divide la vita del bambino nell’adozione. tra un prima e un dopo, uno E che il compito secondaiato che può essere nel tem- rio, nel tempo ma non per po interpretato come vuoto importanza, è aiutarli a “Perché non ero nella tua (abisso) o come movimento, tollerare e comprendere di essere nati da altri, senza passaggio. pancia?” “Te l’ho detto, il papà e io In questo sta la sfida adotti- che questo sia pericoloso o non avevamo bambini, la va, la possibilità di crescere spaventoso. mamma di prima ti ha te- sereni come famiglia, oppu- In una continua ricerca di nuto nella sua pancia e noi re oberati dal peso di una occasioni, affinché i propri figli possano crescere sosteti abbiamo tenuto nel no- diversità. stro cuore, aspettando di È un percorso che parte da nendo questa immagine di poterti abbracciare e ades- un evento infausto (la sepa- ‘doppia appartenenza’ con razione, la perdita, l’abban- leggerezza, con naturalità, so sei qui”. dono), spesso poco compre- perché possano avere una “Ma perché non ero nella so dal bambino perché trop- percezione del Sé coerente po piccolo per cogliere la e integro nel fluire del loro tua pancia?” … “Dai facciamo che ero nella complessità di un cambia- tempo. mento così drastico (e quin- Affinché questo avvenga, tua pancia?”… di sostanzialmente subito però, occorrono anni, si cre“Tu lo dici ed io ci credo” “Si amore mio facciamo passivamente), per passa- sce insieme (genitori e figli), “Mamma io sono nato dalla tua pancia?” “No amore mio, tu eri nella pancia di un’altra mamma, la mamma di prima che ti ha fatto nascere. Ma eri già nel mio cuore, prima ancora che ti conoscessi, noi ti abbiamo tanto cercato, per incontrarti finalmente e tenerti sempre con noi”


Premessa Accompagno mia figlia alla scuola materna. Quella mattina, come tutte le mattine. Ma all’uscita trovo ad aspettarmi una delle maestre, che mi approccia sorridente: “Marta, vogliamo organizzare uno spettacolo con i bambini. Sarà sul tema della bellezza di stare nella pancia della mamma. Lo dico a te in anteprima, perché la vostra storia è un po’ particolare. Ma penso che per voi non ci siano problemi…”. Io la guardo dubbiosa. Non so bene cosa rispondere: le dico la mia perplessità ma le prometto che ci penserò e che ne riparleremo presto. Esco dalla scuola: sono arrabbiata e delusa. Ma è logico solo per me che il tema è tutt’altro che neutro per mia figlia e per le altre tre bambine che vivono situazioni familiari un po’ diverse? Mi metto subito a caccia di argomentazioni per poter sostenere la mia tesi nel secondo round: non voglio dichiarare guerra alle maestre, ma vorrei portarle a ragionare sulla questione. Mi confronto con altre mamme adottive d’esperienza e ci viene l’idea di chiedere consiglio a un operatore del settore che conosciamo bene. La dottoressa Lombardi sposa subito la “causa” e confeziona in tempi da record una risposta di sostanza, che consegno alle maestre e alla direttrice dopo un lungo e franco colloquio [cfr. l’articolo nella pagina accanto].

Risposta Gentile signora, rispondo alla sua richiesta di chiarimento sulle modalità più opportune per promuovere una crescita serena e coerente della sua bambina, immaginando una integrazione famiglia/scuola sulle tematiche della nascita e della narrazione adottiva. Ritengo a tal fine utile iniziare con una riflessione su cosa intendo per ‘nascita adottiva’, per poi procedere quindi con delle indicazioni operative su come veicolare questi contenuti nella quotidianità, a casa ed eventualmente a scuola. Conclusione Come se non bastasse, un’altra mamma adottiva, che conosce le maestre dagli anni passati, le lavora ai fianchi, esprimendo anche lei tutte le proprie perplessità. E alla fine il lavoro di squadra ha colpito nel segno: lo spettacolo è stato archiviato e la direttrice mi ha ringraziato per l’occasione di dialogo e di crescita. Anche maestre (di figli adottivi) si diventa…

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si costruiscono man mano verità e racconti (la storia di ognuno, in relazione). Ma come fare ad accompagnare il proprio figlio in questo viaggio, soprattutto quando sono così piccoli? Sappiamo che la domanda “Mamma, io ero nella tua pancia?” è molto frequente, anzi direi sempre presente nei bambini adottati. I bambini iniziano presto a comprendere il loro stato di adottivi, se i genitori con sensibilità e serenità inseriscono sin da subito, anche per i figli molto piccoli, questa informazione, attraverso favole, canzoni etc., inventate o tratte dai tanti materiali disponibili. Quella domanda, dunque, diventa retorica: è frutto di un sapere che ‘non si era’ nella pancia, eppure aspetta di avere una risposta che dica il contrario. Intendo dire che, pur sapendo di essere stati adottati, può esserci il bisogno, in alcune fasi di sviluppo psichico e di consolidamento della appartenenza adottiva, di far finta che sia altro. La definizione “tu eri nella pancia di un’altra mamma, quella di prima”, non di rado trova un ferma opposizione nel bimbo adottato. Nella necessità di mettere ordine, di trovare coerenza a un percorso ancora incomprensibile, di senti-

re che non c’è separazione con la madre di cui hanno bisogno, nel desiderare fortemente di appartenere… non è raro che i bimbi chiedano di poter ascoltare un’altra storia, di poter credere insieme a una verità differente. Ed ecco allora che … Non è raro che i bambini chiedano alla mamma adottiva di poter ‘ritornare’ (entrare) in quella sua pancia, per recuperare magicamente un tempo mai stato, così che non sia andato perduto. E allora non è raro che insieme si possa immaginare di rimettersi (mettersi per la prima volta) dentro quella pancia, prendendo a prestito dalle coperte il potere di farsi culla-utero, e in quella pancia immaginaria sentirsi finalmente accolti, finalmente uniti con chi quel bimbo desidera fortemente stia per sempre con lui/lei (sia sempre stato con lui/lei). Ma attenzione, perché bisogna essere consapevoli che stare nella nascita (raccontandola, drammatizzandola etc.) nel percorso adottivo significa essere pronti ad accogliere, raccontare, sostenere contemporaneamente anche il vissuto dell’abbandono. Significa essere preparati a sostenere il dolore, la rabbia o più ‘semplicemente’ la confusione che queste te-

matiche, che risuonano così fortemente, possono provocare nel bambino. Solamente quando questo percorso di piena appartenenza si sarà consolidato, e bambino avrà avuto la possibilità mentale di accedere all’immagine di una madre di nascita accanto a una madre adottiva, si definirà nella sua storia una sorta di armoniosa continuità tra un prima e un dopo. LA NARRAZIONE DELL’ADOZIONE DENTRO/FUORI LA FAMIGLIA È possibile che nella sua esperienza di madre adottiva questi aspetti siano già emersi. Forse lei può averli già sperimentati. Sono certa che lei, prima dell’adozione, non immaginava di poter fare queste esperienze, così come è possibile che non ne abbiano alcuna consapevolezza quanti non fanno conoscenza diretta di questo particolare percorso di filiazione. Nella genitorialità adottiva ci sono degli aspetti che ne definiscono la specificità. Emergono e convivono contraddizioni affascinanti, e in primis proprio ciò di cui abbiamo parlato: l’incontro con un figlio partorito da un’altra donna e anche (psichicamente) partorito dalla madre adottiva; una pancia


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(una mente psichica) che si gonfia (si apre, si allarga) per accogliere un bimbo e farlo nascere di nuovo – per la prima volta alla vita. Nella possibilità di tollerare e stare in queste profonde contraddizioni, insistiamo fortemente, come operatori, sulla necessità di portare al bambino, sin dai primi mesi di vita (o dell’incontro adottivo), delle storie che raccontino l’adozione. Da una parte si può tollerare che, in modo magico e rituale, si faccia finta che quel bimbo sia sempre stato figlio, dall’altra si riporta (con le parole e nei modi propri dell’età attraverso favole, storie, canzoni etc.) il percorso adottivo che parla di due appartenenze, di un prima e di un dopo, di un di là e di un di qua, affinché pian piano questi aspetti possano trovare spazio e comprensione. Questa esperienza è molto affascinante, impegnativa, importante. È un percorso molto intimo, proprio dell’essere (in alcuni casi all’inizio dell’adozione del diventare) famiglia. È una relazione fatta di sensibilità e intuito, dove si va avanti e indietro sui temi dell’incontro, dell’appartenenza, dell’identità. Per tutti questi motivi è un percorso che va vissuto dentro la famiglia (il nido) e che certamente non può essere

delegato ad alcuno. Anzi ritengo azzardato coinvolgere il bambino su questi temi nell’ambito di un rapporto altro da quello madre/padre - figlio (ovvero con un educatore, uno psicologo, nella scuola) fintanto che la famiglia non li abbia vissuti, sviscerati, sperimentati, e non prima che il bambino abbia consolidato una identità adottiva consapevole e salda. Sovente nelle scuole elementari e medie è stato affrontato il tema dell’adozione, della doppia appartenenza, anche impegnando i ragazzi adottivi, chiamati direttamente in causa, a raccontarsi. Molti strumenti didattici sono ormai stati elaborati a tal fine. Sono progetti molto interessanti e anche delicati, che vanno gestiti nella piena collaborazione tra scuola e famiglia, e che sappiano tenere conto del particolare percorso del bambino (età all’adozione, carattere, consapevolezza del percorso adottivo, esperienze precedenti l’adozione etc.). E certamente sono percorsi che devono porre eccezionale attenzione al potere evocativo delle proposte. Finanche l’uso delle parole va attentamente pensato e concordato, nel rispetto delle famiglie e soprattutto del bambino.

Ritengo che la sola strategia possibile, sul tema della narrazione dell’adozione (che significa nascita, abbandono, accoglienza) fuori/dentro la famiglia, consista in un confronto schietto, sereno, basato sulla costruzione comune, in primo luogo con la scuola. Questo richiede un grande sforzo da parte di tutti, ma è la sola strada possibile per tutelare adeguatamente bambini che, sovente, sono stati trattati in modo molto ingiusto dalla vita, ma che proprio con la loro testimonianza ci insegnano a ‘pensare oltre’.

Roberta Lombardi Psicologa, psicoterapeuta sistemico-relazionale e giudice onorario Tribunale per i minorenni di Roma, si occupa da vent’anni di adozione. È presidente dell’associazione Contuttoilcuorefamiglie, per l’orientamento, il sostegno e la cura delle famiglie adottive www.contuttoilcuorefamiglie.it


psicologia e adozione Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Docente in training presso la SGAI (Società gruppoanalitica italiana), è Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process)

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Franco Carola risponde ai lettori Il dott. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione. La redazione


psicologia e adozione 14

Perché adottare un bambino “Special Needs”?

L’adozione è sempre un viaggio, un percorso tra l’immaginario e la realtà. O, sarebbe meglio dire, dall’immaginato al reale. Partiamo sempre dal bambino immaginato. Poi iniziamo a entrare in questo universo, prima di allora sconosciuto, e ci vengono incontro altre immagini. Storie vere si mescolano a statistiche e probabilità. È il percorso dell’adozione, quando l’interrogarci su noi stessi si accompagna a un più rumoroso essere indagati. In fondo però è anche lo spazio che ogni coppia si dà per conoscere meglio la realtà dell’adozione e dei bambini che cercano una famiglia: chi sono, da dove vengono, di quali storie, difficoltà e potenziali sono portatori. Uno spazio per potersi conoscere dentro questa realtà. In questo lungo percorso

sentiamo parlare di special needs, la realtà che forse più di altre ci mette a disagio, ci fa paura e fa nascere spesso paure nuove e risorse inaspettate. Ci viene chiesta la disponibilità ad accogliere come figlio un “bambino special needs”. Prima ancora di porci la domanda su chi siano questi bambini, forse è bene iniziare a chiederci chi siano le famiglie che adottano i bambini special needs. Cercando di uscire, anche in questo caso, da miti e leggende, ma cercando, piuttosto di riconoscere la realtà nelle sue forme reali e non fantasmatiche. In primo luogo diviene necessario iniziare a sfatare l’idea che la famiglia che adotta un “bambino con bisogni speciali” sia una “famiglia speciale”. L’adozione è sempre un incontro tra due realtà, una

relazione che si costruisce e si alimenta influenzandosi e perturbandosi reciprocamente. Dove l’adulto e il bambino si contaminano a vicenda, così come l’osservatore perturba sempre la realtà osservata in quanto ad essa vi appartiene. Il risultato è sempre un’alchimia che prende forme inaspettate, e a volte non prevedibili. In secondo luogo un bambino è sempre, innanzitutto, un bambino. E come tale questa sua condizione rimane maggiormente rilevante rispetto a tutte le altre variabili e condizioni di cui esso è portatore. Basti pensare che la pediatria in un ospedale è si un luogo in cui esistono medici e infermieri, ma anche un luogo dove l’ambiente richiama sempre più la dimensione infantile della persona malata. Un ambiente che gli parla della malattia e


non riuscire ad adottadella cura in maniera a lui solutamente cosa si sta re, o la paura di dover comprensibile. Perché sì la affrontando. Oltre ad esattendere tempi troppo malattia è sempre una masere un azzardo, non perlunghi ed estenuanti, mette nemmeno alla coplattia, un osso rotto è semspinge spesso a sottovapia di cercare le risorse pre un osso rotto, ma la relutare la realtà, o almeno per poter vivere consapelazione tra la malattia e il a distorcerla. Ovviamenvolmente e responsabilbambino è diversa da quelte questa è una scelta, o mente la propria adoziola dell’adulto. Come anche “non-scelta”, che nasce ne e il futuro insieme al la dimensione del tempo, dalla mancanza di conbambino; dell’attesa e dello spazio è vinzione nell’intrapren- - La via delle risorse: spesdifferente da quella dell’adere questo percorso, che dulto. Anche questo lo posso diamo per scontato alla lunga sarà il “tallone siamo notare se abbiamo che le nostre motivazioni di Achille” nell’affrontare sfortunatamente avuto l’eal voler intraprendere o qualsiasi difficoltà e che sperienza di doverci passameno un percorso come porterà facilmente a rimre un po’ di tempo. questo, siano le uniche pianti e delusioni, che Il bambino necessita di accettabili. In questo possono essere la base di cure e attenzione a premodo entriamo in un sifallimenti adottivi come scindere dal suo stato di stema di pensiero per pure di dissapori all’insalute. Anzi quella è una cui i nostri riferimenti terno della coppia che posua dimensione e non semculturali e valoriali sono trà iniziare ad accusarpre quella che il bambino universalmente e unisi reciprocamente della vive in maniera prevalencamente validi. Questo scelta; te: è un bambino ed è maè un pregiudizio, spesso lato. Non è solo malato. vissuto da operatori e fa- La via dell’incoscienza: o Quindi, quando parliamiglie, che non permette la via del non sapere asmo di adozione e di special needs, è sempre bene rincentrare l’attenzione sull’universo bambino e non cercare solo un’analisi e una comprensione della situazione esclusivamente attraverso le cartelle cliniche o i consulti medici. Parlando di famiglie che pensano di percorrere l’adozione di bambini con bisogni speciali possiamo individuarne tre tipologie. O, meglio, forse possiamo parlare di “3 vie” principali: - La via dell’adozione a tutti costi: la paura di

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di saper cogliere la differenza come una possibilità e la ricerca come un percorso da fare. Rimaniamo statici dentro una “meta-idea” rassicurante, senza considerare che ci possano essere persone che riscoprono risorse sufficienti, e tra queste potremmo esserci anche noi. In realtà un riadattamento del nostro sistema valoriale di riferimento sarà comunque e in ogni caso necessario lungo il percorso della vita. La mancanza di un atteggiamento che valorizzi gli aspetti di cambiamento, che potremo definire di resilienza, non ci permette di approcciare a noi stessi, e quindi pure all’adozione, guardando e scoprendo risorse presenti o utili anche in situazioni difficili o complesse. Questa è la via in cui si scoprono famiglie e coppie che si rimettono in gioco. E, a volte, si scoprono diverse e pronte. Pronte a cosa? Pronte ad affrontare la loro adozione. Pronte ad incontrare loro figlio. Che è un bambino e che necessita, come tutti i bambini, di accoglienza, calore ed educazione, e che in più necessita di quelle risorse di cui la famiglia è portatrice. L’adozione è un incontro e

i due termini dell’incontro sono la famiglia e il bambino, ma a un livello più profondo è un incontro tra i bisogni e le risorse: i bisogni del bambino e le risorse della coppia. Voglio escludere il mito, errato e, spesso, alimentato solo da chi l’adozione non la conosce nemmeno, che la coppia adotta per venire incontro a un proprio “bisogno” di filiazione. La realtà, invece, dovrebbe essere quella in cui due sono gli attori del processo: i bisogni dei bambini versus le risorse dei genitori. Dove quindi non si parla più di migliori o peggiori, di buone o cattive coppie, ma si parla di qualità in sé. Infatti, i primi, più quantitativi che qualitativi, uccidono la reale e sincera riflessione e sostituiscono l’emotività alla riflessione, anche emotiva, la morale all’etica personale. L’altro, invece, è il percorso che parla di bisogni e di risorse, quello che vuole conoscere e non giudicare, quello che dovremmo desiderare di intraprendere con chi ci accompagna nell’adozione. Un percorso che ricerca con noi, e dentro di noi, che non dà un valore aprioristico all’accoglienza. Taluni pensano che se sei disponibile ad accogliere un bimbo con un proble-

ma sanitario allora puoi accogliere tutti i problemi che possiamo (artificiosamente e arbitrariamente) considerare nella stessa fascia di “difficoltà”. Ovviamente non prendiamo nemmeno in considerazione chi sostiene che se si vuole adottare si debba essere disponibili a “tutto”. Questa è una logica che rientra forse più in una morale “salvifica” dell’adozione che spesso viene mascherata da una più laica teoria dell’adozione come riparazione di due ferite: dell’abbandono e della sterilità. Non c’è nulla di più falso. Infatti, quanto, e in che modo, una situazione di difficoltà, come anche una malattia, affondi le sue radici risvegliando nella coppia resistenze, o resilienze, non possono essere dettati da “a priori” o da “sistemi valoriali” particolari e/o individuali applicabili a chiunque. Una malattia può essere cronica o acuta, essere visibile o interna, essere invalidante o meno. Ma cosa questi elementi ci comunicano lo possiamo scoprire solo interrogandoci. La paura di affrontare certe richieste e certi questionari non dovrebbe oscillare tra il “se dico sì mio figlio avrà sicuramente quel problema” e il “se


dico no finisco in fondo alla lista”. Piuttosto dovrebbe far sorgere una domanda: come vengono lette le mie risposte? Quali significati vengono attributi ad esse? Ma soprattutto, come vengo aiutato a leggere meglio le mie risposte e a saperle, nel caso, trasformare? Perché nel percorso di una vita, come, ancor più, nel percorso verso l’adozione, i cambiamenti sono continui. Una fotografia oggi è diversa da una scattata l’anno scorso. Jesus Palacios propone un’analisi dell’incontro della coppia e del bambino a partire dal momento cruciale del matching come una valutazione tra i bisogni che esprime il bambino da una parte e le risorse della coppia dall’altra. Come vengo accompagnato a scoprire le mie risorse? E per risorse intendiamo la capacità di rispondere a una situazione in maniera adeguata e non necessariamente a risolverla autonomamente. Se un bambino ha la febbre alta, la mia risorsa/capacità è quella di saperlo rassicurare e consolare e quelle di chiamare un medico che mi dica cosa devo fare. Nessun genitore deve aver fatto studi di medicina, di pedagogia, di psicologia o di scienze alimentari, ma a tutti i genitori è richiesto

di saper riconoscere il bisogno di proprio figlio e di sapergli dare una risposta. Sia essa presente all’interno della famiglia, della famiglia allargata o sia necessario ricorrere ad uno specialista che dai genitori viene coinvolto. Per ragionarla per assurdo, nessun Tribunale per i Minorenni decreterà la decadenza della potestà di un genitore se non è in grado di aiutare i figli a risolvere le frazioni, ma probabilmente lo giudicherà negativamente se questo non compra i libri né lo manda scuola. Per poter scoprire quali possano essere le risorse di una coppia, essa dovrà necessariamente iniziare a confrontarsi con delle domande accompagnata da esperti, siano essi psicologi, per alcune problematiche, o siano essi sanitari per quelle di salute fisica, come è anche bene confrontarsi con coloro che l’adozione la conoscono perché ne hanno esperienza diretta. Esperienza della realtà toccata con mano, delle paure, delle domande e delle risposte, a volte, inaspettate, che da essa sono scaturite. Seguire corsi, o incontri, che parlino chiaramente di alcune patologie o di alcune situazioni deve essere visto come la possibilità di una

coppia di conoscere se stessa attraverso l’incontro con una realtà sconosciuta. Farsi delle domande, aprire la propria visuale, liberamente e senza paure delle conseguenze, per poter poi dare delle risposte consapevoli. Iniziare ad essere genitori che si muovono, si emozionano, cambiano per rispondere ai bisogni del proprio figlio. Amandolo attraverso il voler conoscere e conoscersi.

Breve bibliografia per approfondire: R. Rosnati a cura, Il legame adottivo, Edizioni Unicoli - 2010 G. Cecchin, T. Apolloni, Idee Perfette, Franco Angeli – 2003 J. Palacios, D Brodzinsky, in Il legame adottivo (a cura di R. Rosnati), Edizioni Unicopli - 2010

Andrea Redaelli psicologo, psicoterapeuta sistemico-familiare e formatore freelance

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scuola e adozione

Cecilia e le difficoltà in matematica: un caso di impotenza appresa 18

Nel 2007 Fioroni chiama “Asini” in matematica 408.000 studenti, ovvero il 43,3% del totale; Nel 2008 la Gelmini sostiene: “La matematica costituisce un’autentica emergenza didattica, il 45,7% ha debiti in matematica”. Le prove INVALSI ci segnalano percentuali di risposte errate in matematica che si aggirano, complessivamente e mediamente, intorno al 50%. Non possiamo interpretare questi numeri riferendoli esclusivamente a bambini che hanno un problema a livello dell’elaborazione del sistema di quantificazione (disturbo dell’apprendimento), né possiamo pensare di attribuire tali risultati ad una didattica inappropriata tout court: la psicologia cognitiva dell’apprendimento e la didattica della matematica si devono incontrare

per potersi aiutare vicendevolmente. Cecilia è una ragazza con grosse difficoltà in matematica che ben evidenzia quali possono essere i meccanismi che ostacolano un apprendimento matematico di successo. Cecilia ha 13 anni e sta frequentando la classe terza della scuola secondaria di I grado. I genitori e la ragazza riportano che il rendimento di Cecilia a scuola è molto buono, tranne che per la matematica. Gli insegnanti della scuola primaria avevano anche loro rilevato qualche difficoltà e pertanto consigliato alla famiglia di far allenare maggiormente Cecilia, mentre gli insegnanti della scuola attuale hanno richiesto un approfondimento. I genitori infatti riferiscono che, inizialmente, le difficoltà

erano lievi ma, man mano che la frequenza scolastica proseguiva, sono diventate sempre più ampie. Le difficoltà principali si concentrano nel calcolo mentale semplice, nella memorizzazione di alcune tabelline, nell’esecuzione delle espressioni e nell’esecuzione dei problemi. La mamma riporta come abbia la sensazione che gli insegnamenti di questa materia non riescano a consolidarsi. L’apprendimento della geometria procede, invece, un po’ meglio. Cecilia è stata sempre seguita nei compiti dalla mamma, mentre lo scorso anno ha intrapreso anche delle ripetizioni che hanno portato ad un lievissimo miglioramento. Le pagelle mettono in evidenza la discrepanza nelle votazioni: i voti sono tutti molto alti, tranne quello in matematica.


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valuta la capacità di svolfunzionale perché i calI genitori riportano anche gere dei problemi aritmecoli proposti sono tropche, relativamente alla tici, Cecilia ha dimostrapo complessi per essere matematica, Cecilia assuto di essere in grado di risolti in questo modo. me un atteggiamento ricomprendere il problema Inoltre Cecilia non riesce nunciatario: se non riesce, e la struttura matematia recuperare dalla meevita di continuare. Cecilia ca sottostante, di saperne moria un grande numero riferisce di provare sentiriconoscere la giusta rapdi fatti numerici (es. tamenti di preoccupazione e presentazione; nonostanbelline e semplici operadi tristezza rispetto a quete questo, però, non è in zioni che devono essere sta difficoltà e le dispiace grado di svolgerli. recuperate direttamente che questo le abbassi la dalla memoria) e questo Dagli elementi raccolti media dei voti, altrimenti la rallenta nell’esecuzio- emergono, quindi, delle molto alta. marcate difficoltà in ambine dei calcoli; Le abilità matematiche di Cecilia sono state indagate • Cecilia riesce ad eseguire to matematico. un’espressione proposta, Come è possibile che una a più livelli (Prove AC-MT, mentre ne sbaglia una a ragazza con buone abilità Discalculia TEST, SPM): causa di un errore di cal- di base incontri così grosse • L’applicazione degli aldifficoltà in matematica? Si colo; goritmi di calcolo scritto non risulta sicura: Ceci- • La ragazza dimostra di può trattare di un Disturbo essere un po’ in difficoltà Specifico di Apprendimenlia commette sia errori di quando deve confronta- to (Discalculia), oppure di calcolo sia errori nel core dei numeri e decidere una condizione di difficoltà piare i numeri dalla conqual è il maggiore, come matematiche sottovalutate segna; anche quando deve con- e che quindi hanno prodot• L’esecuzione di alcuni frontare delle quantità to una condizione emotivocalcoli mentali mette in rappresentate in modo motivazione poco funzionadifficoltà la ragazza; Cele all’apprendimento e alla analogico; cilia utilizza una strategia che non risulta • Infine, in una prova che costruzione di un’immagi-

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ne di sé come studentessa positiva. Infatti, la capacità di apprendere è permessa da buone abilità di base, ma anche da fattori emotivo-motivazionali che sostengono la voglia di imparare e la consapevolezza di poter raggiungere buoni risultati. Tutti noi, infatti, ci impegniamo nelle attività in cui ci aspettiamo di riuscire, mentre evitiamo quelle che ci mettono di fronte alle nostre difficoltà. Visto che le difficoltà matematiche di Cecilia sono generalizzate ai diversi ambiti della matematica e non circoscritte ad un ambito specifico (ad es. procedure di calcolo) e che questo profilo quindi si allontana dalle caratteristiche del Disturbo Specifico di Apprendimento, che di solito porta a delle marcate difficoltà in un ambito specifico della matematica, abbiamo deciso di approfondire anche gli aspetti emotivi e motivazionali di Cecilia nei confronti dell’apprendimento. Cecilia si descrive come una ragazza che va a scuola volentieri, ma che non è molto motivata rispetto all’apprendimento. Si descrive anche come una studentessa che è in grado di organizzare il proprio tempo di studio e conosce e mette in atto con flessibilità alcune strategie di elaborazione del mate-

riale durante lo studio delle diverse materie. Percepisce tuttavia una marcata preoccupazione rispetto alle performance scolastiche (QAS, Amos). Inoltre emerge un’autostima bassa sia in ambito scolastico sia rispetto al proprio vissuto corporeo e familiare; mentre la percezione che Cecilia ha di sé migliora in ambito interpersonale (Cosa penso di me). Approfondendo le credenze di Cecilia che possono sostenere la motivazione scolastica, emerge che Cecilia possiede una teoria dell’intelligenza prevalentemente statica (QC1I, Amos) ed una scarsa fiducia rispetto alle proprie abilità (QC2F, Amos). Queste convinzioni si traducono nell’idea che le persone nascono con una certa dose di abilità e che questa non si può modificare con l’allenamento e l’esercizio; se questa dose di abilità è buona, tutto procede adeguatamente, se invece è scarsa, lo studente non concepisce l’idea che si possa fare qualcosa per modificare la situazione e quindi percepisce un senso di inadeguatezza e sente di non poter fare niente per migliorare la sua condizione. Di conseguenza, se si sente inadeguato rispetto ai compiti che ha di fronte e non pensa di poter modificare la situazione, comin-

cerà ad evitare tutte quelle situazioni che lo mettono a confronto con questo tipo di esercizi, ma meno si allena, più evita i compiti che ritiene difficili e meno sarà capace di eseguirli adeguatamente. In questo modo la percezione di non possedere le capacità necessarie per affrontare quella materia si consoliderà. Quello appena descritto è un circolo vizioso che si può verificare nelle situazioni di difficoltà scolastiche e che ha il nome di Impotenza Appresa. La situazione di Cecilia mette in evidenza come una situazione di difficoltà in un ambito scolastico possa portare all’instaurarsi di una situazione emotivo-motivazionale di Impotenza Appresa che porta ad una cristallizzazione delle difficoltà associata a bassa percezione di efficacia in ambito scolastico e demotivazione rispetto all’apprendimento. Dal 2005, i servizi di neuropsichiatria infantile hanno ricevuto una segnalazione di emergenza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: l’allarme era rappresentato dal forte incremento del profilo di impotenza appresa, soprattutto in studenti che avevano una storia di insuccesso scolastico e in particolare in matematica. Ma cos’è


l’impotenza appresa? L’impotenza appresa è, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quella condizione in cui il soggetto, sperimentando una serie di insuccessi, impara e apprende il suo insuccesso, impara e apprende, cioè, di non essere capace. L’allievo apprende la propria incapacità e ne è convinto. In lavori recenti Moè (Moè, 2010; Moè e Lucangeli, 2010; Moè, Pazzaglia, Tressoldi e Toso, 2009), sintetizzando e contestualizzando i risultati emersi, sostiene che a fronte di un insuccesso scolastico, un giudizio negativo o un rimprovero, si possono avere reazioni diverse, a seconda dell’attribuzione causale che il soggetto mette in atto e che, a seconda della reazione, si sperimentano particolari emozioni. L’alunno può attribuire il motivo del suo fallimento alla severità dell’insegnante, alla difficoltà del compito, alla sfortuna, ad un momento di distrazione (cause esterne, instabili): ne conseguono emozioni di rabbia, delusione, ma non viene compromessa in questo caso la percezione che l’alunno ha di sé stesso e del suo valore. Può attribuire la causa del suo fallimento alla mancanza di studio, ad

un impegno inadeguato al compito (causa interna, controllabile): anche in questo caso l’immagine che l’alunno ha di sé stesso non viene messa in discussione, ma anzi, riconoscendo questi fatti, si può innescare il desiderio di migliorare, sempreché il bambino percepisca che il lavoro sia all’altezza delle sue forze. Ma se la causa del proprio insuccesso viene attribuita alla mancanza di capacità, alla convinzione di non essere portato per la disciplina (causa interna e stabile), l’attacco viene percepito come diretto alla rappresentazione del sé: è in questo caso che i sistemi profondi di difesa proteggono determinando il blocco dell’apprendimento (Moè e Lucangeli, 2010). Nella maggior parte, dei casi l’ansia che porta l’alunno a bloccarsi è legata alla valutazione e questo significa che il problema, almeno in parte, risiede nella dinamica che collega il docente all’allievo: l’insegnante rappresenta infatti l’elemento cardine della costruzione dell’immagine di sé come capace a scuola. Il parere dell’insegnante è determinante nell’avviare il meccanismo di difesa che da un’attivazione positiva può passare a livelli sempre più intensi fino ad arrivare al blocco, secondo le

modalità sopra descritte. Questo genere di esperienza è legato soltanto alla matematica? No, ma certamente è molto più frequente sperimentare l’insuccesso in matematica (Lau e Nie, 2008; Murayama e Elliot, 2009). Se il “sistema scuola”, più o meno consapevolmente, innesca questa reazione, è evidente che è necessario e quanto mai urgente individuare delle strategie per risolvere il problema. La ricerca scientifica ci suggerisce alcune soluzioni. La prima è relativa al “diritto di sbagliare”, espressione coniata da Susan Harter nel 1978: nonostante sia un principio antico e condiviso nel mondo della psicologia cognitiva, in tutti i sistemi di valutazione utilizzati dalla scuola e nei vari passaggi ministeriali, l’errore è connesso al modello di valutazione negativa. In realtà l’errore è l’informatore principale del bisogno di apprendimento. Margo A. Mastropieri, vincitrice del premio per l’Educational Science del 2012, ci spiega che l’occasionalità nello sbagliare, ricorre in una percentuale che non supera il 2% del totale degli errori che un bambino compie in un anno di scuola. E tutti gli altri? I restanti errori

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informano che il meccanismo di apprendimento ha incontrato qualche difficoltà. La ricercatrice quindi raccomanda di evitare comportamenti scorretti, quali il riproporre lo stesso compito ove l’alunno ha commesso l’errore senza modificarlo; a sostegno di ciò basti infatti ricordare i numerosi studi che hanno accertato come l’esercizio ripetuto di un compito si stabilizzi in memoria (per citarne alcuni: Gathercole, 2006; Landauer e Bjork, 1978; Mayer, 1983). Quindi, se il bambino sbaglia e l’insegnante non ripercorre insieme all’allievo il percorso cognitivo che ha generato l’errore, in modo da verificare il momento preciso in cui il processo di apprendimento si è inceppato, correggendo in tal modo l’errore e modificando il compito, il rischio è che si stabilizzi in memoria non solo il compito ma anche il suo errore. La seconda strategia che proviene dalla ricerca scientifica avanzata, si riferisce al cosiddetto “flow cognitivo”. Il flow cognitivo è una teoria che rappresenta il pensiero come un flusso dinamico in cui gli

aspetti cognitivi dialogano con le coloriture emozionali, legate all’interesse e al piacere del sentirsi efficaci; questo processo è descritto come esperienza di apprendimento intelligente ed è messo in contrapposizione con l’apprendimento passivo, costituito da contenuti depositati in memoria e semplicemente esercitati. Il flow cognitivo è il cardine dell’intelligere. L’intelligere è la funzione centrale del sistema, e non si accontenta della fase di assimilazione che muove dall’esterno verso l’interno (la ricezione passiva di informazioni), ma viene elaborata tutta all’interno in maniera divergente e costruttiva. Solo grazie ad una elaborazione personale ed intelligente dei contenuti appresi, il flusso di pensiero può muoversi dall’interno all’esterno, arricchito dalla consapevolezza, dalla motivazione ad apprendere e dal conseguente benessere del soggetto che apprende. In sintesi, per aiutare e non colpevolizzare, l’educatore, scuola compresa, deve essere alleato dell’allievo e non dell’errore e garantire “flow cognitivo”

e non l’“ingozzamento” di informazioni. Si può, quindi, ipotizzare che nella situazione di Cecilia sia successo che lei abbia manifestato qualche precoce difficoltà in matematica compiendo un numero rilevante di errori e facendo fatica a consolidare gli apprendimenti. Questo può essere stato interpretato dagli adulti di riferimento (genitori ed insegnanti) come segnale di una scarsa predisposizione per la materia. Se questi adulti, poi, possiedono una teoria dell’intelligenza statica, saranno stati convinti che non si potesse fare molto e così Cecilia avrà sviluppato la credenza di non essere capace di imparare la matematica e di non poter fare nulla per migliorare in questa materia. Questo a sua volta avrà portato la ragazza ad impegnarsi sempre meno negli esercizi di matematica, consolidando anche l’idea di genitori ed insegnanti di non predisposizione per la materia. Questo insiemi di fattori si traduce in un progressivo abbandono di strategie di aiuto alla ragazza e nel consolidamento della percezione di inefficacia


di Cecilia. In questo modo le piccole difficoltà si sono cristallizzate, impedendo lo sviluppo di abilità più complesse, ed hanno portato ad un costante insuccesso nell’apprendimento matematico. In situazioni simili a quelle di Cecilia è, invece, importante che il contesto di riferimento creda che le abilità si possono potenziare e interpreti l’errore del ragazzo o della ragazza

come indizio di ciò che non funziona, utile a trovare la modalità corretta per creare un miglioramento dell’apprendimento. Se poi si riesce anche a proporre ai ragazzi degli obiettivi di apprendimento in linea con le proprie capacità, si può loro garantire flow cognitivo e sostenere così la loro motivazione ad apprendere.

Daniela Lucangeli Professore ordinario di psicologia dello sviluppo presso l’Università di Padova Nicoletta Perini Psicologa, esperta di disturbi dell’apprendimento

Cornoldi, C. e Cazzola, C. (2003). AC-MT 11-14. Test di valutazione delle abilità di calcolo e problem solving dagli 11 ai 14 anni. Trento, Erickson.

ing student outcomes: A multilevel analysis of person-context interactions. Journal of Educational Psychology, 100, 15-29.

Cornoldi, C., De Beni, R., Zamperlin, C. e Meneghetti, C. (2005). AMOS 8-15. Abilità e motivazione allo studio: prove di valutazione per ragazzi dagli 8 ai 15 anni. Trento, Erickson.

Lucangeli, D., Tressoldi, P.E. e Cendron, M. (2004). SPM. Test delle abilità di soluzione dei problem matematici. Trento, Erickson.

Gathercole, S. (2006). Nonword repetition and word learning: The nature of the relationship. Applied Psycholinguistics, 27, 513–543. Halberda, J., Mazzocco, M. M., & Feigenson, L. (2008). Individual differences in non-verbal number acuity correlate with maths achievement. Nature, 455(7213), 665–668. Harter, S. (1978). Effectance Motivation Reconsidered: Toward a Developmental Model, Human Development, 21, pp 34-64. Landauer, T. K. e Bjork, R. A. (1978). Optimum rehearsal patterns and name learning. In M. M. Gruneberg, P. E. Morris e R. N. Sykes (Eds.), Practical aspects of memory. London: Academic Press, pp. 625-632. Landerl, K., Bevan, A., & Butterworth, B. (2004). Developmental dyscalculia and basic numerical capacities: A study of 8–9 year old students. Cognition, 93, 99–125. Lau, S. e Nie, Y. (2008), Interplay between personal goals and classroom goal structures in predict-

Lucangeli, D., Tressoldi, P.E., Molin, A., Poli, S. e Zorzi M. (2009). Discalculia Test. Trento Erickson. Mayer, R. E. (1983). Can You Repeat That? Qualitative Effects of Repetition and Advance Organizers on Learning from Science Prose. Journal of Educational Psychology, 75,40-49. Moè A., Lucangeli D. (2010). Difficoltà in matematica e motivazione. In D. Lucangeli e I. C. Mammarella, Psicologia della cognizione numerica: Approcci teorici, valutazione e intervento. Milano, Franco Angeli, pp. 207-235. Moè A., Pazzaglia F., Tressoldi P., Toso C. (2009). Attitude towards school, motivation, emotions and academic achievement. In J. E. Larson, Educational Psychology: Cognition and Learning, Individual Differences and Motivation. New York, Nova Science Publishers, pp. 259-274. Murayama, K. e Elliot A. J. (2009). The joint influence of personal achievement goals and classroom goal structures on achievement-related outcomes. Journal of Educational Psychology, 101, 432-447.

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Maria Grazia Santoro

Dammi tre parole… 26

Tempo fa ho partecipato a una serata in cui si parlava di scuola: fra genitori e insegnanti eravamo in tanti. Ho partecipato in qualità di insegnante (sono docente di lettere in una scuola media di Monza), madrina di una figlioccia adottata, amica del cuore di una mamma adottiva. Anna Guerrieri ci ha parlato del ruolo della scuola nel percorso di crescita di un bambino adottato. Una volta tanto il compito mi è stato assegnato: “Compito della scuola è quello di dare le parole!” . Evviva! Mi si è aperto un mondo: finalmente ho trovato il mio posto! Torno a scuola determinata: so in che direzione andare; mi metto al lavoro. Tra i miei alunni di allora non c’erano ragazzi adottati, ma ragazzi feriti dalla vita. Tanti.

Ovviamente il combattimento è epico: ci vuole tenacia e coraggio per riempire di parole i silenzi partoriti dall’ingannevole convinzione che il silenzio sia un mantello che protegge dalle intemperie. Armata di questa mission non ho inventato cose nuove: ho colto tutte le occasioni per raccontare storie, offrire punti di vista, ragionare sui significati. Soprattutto: abbiamo cercato di dare un nome a tutte le cose, belle e brutte. Perché non è vero che “una cosa se non la dico, non c’è” …. Al contrario: se la nascondo, scavo dentro un buco nero che mangia tutto, preferibilmente la nostra parte migliore. Con i ragazzi si apre un dialogo sincero. Con la grammatica costruiamo l’impalcatura del nostro discorso, con antologia intercettiamo emozioni e

pensieri, con la storia impariamo a sentire vicino ciò che ci appare lontano, con la geografia ci scopriamo cittadini del mondo. Si conclude il ciclo: la traccia per la prova scritta di italiano, scelta in massa dai ragazzi, è quella in cui si chiede un bilancio dei tre anni di scuola media. È il tema che loro giudicano più semplice, ma soprattutto è ciò in cui hanno imparato a sentirsi competenti: hanno preso gusto a parlare di sé, del proprio mondo, delle loro emozioni. Sono stata molto contenta di leggere quello che hanno scritto, non tanto per le prevedibili captatio benevolentiae, quanto piuttosto per averli “licenziati” con una competenza acquisita: quella di aver trovato le parole per esprimere i loro vissuti, pensieri, emozioni. Inizio un nuovo anno sco-


lastico: la classe sulla carta si rivela complessa. Malattie degenerative, separazioni, abbandoni, conflitti hanno segnato la vita di questi cuccioli umani. Tra loro Patricia: brasiliana, adottata a 5 anni con la sorellina, amata da una mamma e un papà la cui gioia ed entusiasmo sono davvero contagiosi. La sua mamma e il suo papà mi regalano una fiducia incondizionata. Inizia la scuola media, affianco Patricia in questo pezzo di cammino. Siamo in seconda media. La ripresa settembrina dell’attività didattica ci riserva un doppio evento luttuoso: nella classe parallela alla nostra muoiono a distanza di quindici giorni un papà e una mamma di due alunni diversi. Capisco che alcuni miei alunni sono molto toccati da questi accadimenti: i ragazzi rimasti orfani sono loro amici carissimi, l’amicizia nell’interclasse funziona, per fortuna. Dico loro che ovviamente sono al corrente di quanto accaduto nella classe accanto; esprimo la mia tristezza e il pensiero che forse anche loro si sentono turbati di fronte a eventi così gravi. Qualcuno ammette di sentirsi disorientato e spaventato, tutti sono concordi

nel chiedere uno spazio per parlare della morte di una persona cara. Chiedo tempo: si tratta di temi delicati, ho bisogno di trovare le parole giuste per parlarne con loro. Prometto, però, che a breve avrei dedicato uno spazio speciale per affrontare questo tema, magari con l’aiuto di qualche buon video o libro. Tra tutti ovviamente mi preoccupa Patricia: avviso la sua mamma che parleremo di questo tema. Le chiedo supporto. Trovo in biblioteca il libro “Perché non ci sei più?” di Tamborini-Pellai: è il testo che fa al caso mio, peraltro è corredato di un DVD con una puntata della Melevisione realizzata proprio per accompagnare i bambini nell’esperienza del lutto. Anche se sono alla scuola media, i miei alunni sono ancora dei bambinoni a cui la Melevisione piace ancora moltissimo. E soprattutto rassicura. Sono pronta: un venerdì mattina le ore di antologia sono tutte per Lupo Lucio, che è molto triste perché è morto uno zio carissimo. I ragazzi seguono in religioso silenzio: poche parole, tante emozioni. Affido loro il compito di provare a raccontare, se riescono, di quando hanno

perso una persona cara. Non sono obbligati. Patricia annuisce. Lunedì Patricia mi viene a cercare, mi consegna la “brutta” della sua storia: il racconto dettagliato del ricordo legato alla morte della sua mamma biologica. Leggo commossa, le dico che va benissimo. “Allora la scrivo in bella,- ribatte- così venerdì la leggo ai miei compagni”. Venerdì Patricia chiede di leggere la sua storia, i compagni ascoltano. Silenziosi. Rompono l’emozione con uno scrosciante applauso, qualche lacrimuccia, un abbraccio da parte delle compagne del cuore. Tutti le scrivono un biglietto: Patricia legge fiera e felice i tanti “grazie” scaturiti dalle penne e dalle matite colorate dei suoi compagni. Così si porta a casa quei pezzetti di carta, pezzi di vita da mettere nel cassetto dove sono custoditi i ricordi più belli.

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Paolo Faccini

Generare 28

Fin dall’adolescenza mi hanno sempre accompagnato le domande su Dio: chi è, perché il male, perché la sofferenza, da dove viene la bellezza del creato, qual è la forza generatrice del tutto? Trovo sia un tema laico, non necessariamente religioso. Tutti ci poniamo queste domande. Nell’ultimo libro che ho letto, del neuropsichiatra Vittorino Andreoli, non credente, ho trovato questa definizione: Credente è colui che ha avuto esperienza di Dio, e poi, più avanti… la verità sta nel mistero. Mah! I grandi saggi liquidavano il discorso dicendo che “cercare è un po’ trovare”. Non è una banalità. Ma cercare cosa? Questo ragionamento mi porta al tema “generare”. In fin dei conti quello che cerchiamo è la relazione.

La relazione “genera”; l’amore, l’amicizia, il progettare per il bene comune; spendersi per il quartiere, per la scuola, per l’oratorio, fare rete e condividere un progetto all’interno di un’associazione. Credere che il bene diventi potente e forte quando viene condiviso, quando viene vissuto in compagnia di altri. Quindi cerchiamo il bene, nella relazione con gli altri. Siamo fatti per questo. Condividere un’esperienza è il sale di ogni relazione. Generare è credere nella realtà in cui viviamo, nonostante e oltre le fatiche. Credere che noi possiamo fare molto. (Dicono che addirittura le malattie trovano meno forza di diffusione nelle persone che hanno uno sguardo positivo sulla realtà) Questo avviene anche e soprattutto all’interno dei nostri rapporti familiari.

C’è una ricchezza di percorsi in tutto questo, c’è una molteplicità di strade, una creatività indescrivibile, frutto della vita e delle storie dei “giocatori in campo”. Non c’è un’esperienza uguale alle altre, ma la nostra vita condivisa produce ricchezza in grande quantità, se solo abbiamo il coraggio di giocarci. I nostri figli sono una delle sfide più grandi, lo sono sempre, adottivi o no. A volte non ne abbiamo perfettamente la consapevolezza. Adozione è una sfida che amplia ancor di più il generare e lo fa diventare inequivocabilmente una non proprietà. C’è ancora chi pensa che generare sia una proprietà. Accogliere un figlio, l’imprevisto, in una scelta libera, vederlo crescere, ci mette di fronte a nuove domande: cosa abbiamo


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fatto? Perché lo abbiamo fatto? Per quale motivo abbiamo deciso di “generare”? In particolare quando i nostri figli iniziano a non corrispondere più alle nostre aspettative, queste domande si fanno impellenti. I percorsi della vita ci conducono inoltre a incrociare anche la fatica e il dolore. La risposta non si può chiudere dentro di noi, dentro la coppia, dentro un concetto di famiglia troppo spesso soffocante. I nostri figli sono assetati, hanno sete di vita. Non possiamo frenare questo desiderio, anche se questo significa percorrere vie tortuose, tornando indietro, a volte anche ripartendo. Spesso ci mancano le forze, l’ossigeno, e abbiamo paura di non farcela. Sembra che si spenga la fiammella che incendiava il nostro desiderio, la nostra disponibilità. Improvvisamente le cose non funzionano più, e tutto diventa difficile, faticoso… Gli altri ci sembrano giudici, non amici. La strada diventa troppo tortuosa, le relazioni fredde, e piano piano ci chiudiamo. Dove trovare la forza per spingerci oltre i confini, i muri dell’improvvisa solitudine? Di fronte a questo la prima sensazione che mi pervade © simone berti

il cuore è il silenzio. Come siamo frettolosi a giudicare, a riempire di parole e contenuti le fatiche e i dolori. No, le risposte non sono semplici. A volte la vita ci mette di fronte a esperienze che mai avremmo immaginato di vivere, e di fronte alle quali ci sentiamo disorientati, spaventati, incapaci. Forse l’amore per i figli oltrepassa la soglia del dicibile, trascina nelle regioni del silenzio, verso luoghi sconfinati e pur sempre prossimali, limitrofi, visibili alla coda dell’occhio ma quasi mai percorsi, tranne quando ti accorgi della vacuità, dell’irriducibile inadeguatezza della parola. Di qualsiasi parola. E allora? Due figli, un maschietto di 10 anni e una ragazza di 16. Il piccolo è la fontana dove si va sempre a dissetarsi, a riempire l’anfora. Impegno sì, certo, ma quanto ricevere! Il merito è suo, certo, ma è l’età, è innegabile. La grande è la sfida, perché ti pone di fronte all’obbligo di decentrarti; non sei più tu il soggetto, devi vedere i bisogni, le esigenze, lo sguardo dell’altro, che non è tenero con te. Quando a scuola non si va bene, quando anzi bisogna pensare a cambiarla,

la scuola. Quando le amicizie diventano un problema, una preoccupazione; quando si pretende di andare a letto tardi, di uscire e tornare tardi; quando i pensieri non sono espressi, quando si tiene tutto dentro e tu non capisci nulla; quando il sesso non è più un argomento interessante ma qualcosa che tua figlia può anche fare; quando il look, il vestire, il telefono, il cinema, la mancetta settimanale, la tv e le trasmissioni demenziali, il vivere “sdraiati” (vedi l’ultimo libro di Michele Serra); quando il mangiare fa schifo, quando non capisci nulla, quando l’umore è sempre incazzoso, quando svegliarsi la mattina è una fatica mostruosa, quando… Meglio rendersi conto che avere un figlio è sempre un’esperienza di limite. Generare.

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Antonio Fatigati

Se una giraffa è di troppo 32

Non sarà facile per nessuno di noi dimenticare con facilità il muso della giraffa Marius, già ospite dello zoo di Copenaghen, abbattuta con un colpo di pistola perché in soprannumero genetico. Che tradotto vuol dire che era di troppo rispetto al numero di giraffe che quello e altri zoo hanno deciso di ospitare. Neppure però dimenticheremo la scena della giraffa sottoposta ad autopsia davanti a una folla di persone tra cui tanti, tantissimi bambini perché, come ha sostenuto il direttore dello zoo, assistere all’autopsia di una giraffa non è cosa di tutti i giorni e poi il cuore di una giraffa merita di essere visto, grande com’è… Ancora meno facile sarà accettare che i bambini abbiano assistito al pranzo che alcuni animali hanno compiuto con le carni se-

zionate di Marius, verificando con i propri occhi che il ciclo della natura, tante volte letto sui libri di scienza esiste davvero: gli animali nascono, vivono, muoiono e da morti diventano cibo per altri animali. Già… Peccato che in questo caso l’equilibrio della specie è stato garantito da conti matematici e il contenimento non è avvenuto con le regole della caccia ma con un brutale e infallibile colpo di pistola. La legge di natura è divenuta, ancora una volta, legge dell’uomo. E in tutto questo, ecco in prima fila i bambini, chiamati ad assistere a un’opera di macelleria in diretta e educati a considerare la scelta della soppressione come un atto possibile se non obbligato. A tutto questo si sono opposti, e giustamente, gli animalisti ma forse dovrebbe

pesarci il silenzio dei filosofi dell’umano e degli psicologi dell’infanzia, gli uni chiamati a dirci che questi processi mentali sono a rischio di sconfinamento anche nel rapporto tra gli uomini e che quindi occorre tenerli accuratamente sotto chiave; i secondi a raccontarci che forse per un bambino, che dovrebbe sviluppare il senso di tenerezza e di accudimento osservando un animale vivo, partecipare a una simile crudeltà potrebbe anche non essere un’esperienza irrinunciabile…


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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Chissà. Viaggi reali e fantastici 34

Il viaggio fa parte della vita di tutti noi. Che si tratti di viaggi reali o fantastici, si tratta comunque di cambiamenti, di modi per conoscere ciò che ci sta intorno e anche se stessi. Viaggiare è un modo per confrontare mondi e persone, abitudini ed emozioni restando nello stesso posto o spostandosi da una parte all’altra del mondo. Quando gli occhi di un bambino iniziano a osservare profondamente ciò che li circonda, si possono scorgere nelle sue espressioni visioni ricche e fantastiche, nelle quali anche i

più piccoli particolari possono assumere grande importanza. Imparare a leggere negli occhi dei bambini è il sogno di ogni adulto, di ogni genitore, di ogni insegnante. Gli adulti quando vedono un bambino assorto cercano, spesso invano, di immaginare cosa c’è dietro a quello sguardo. A volte anche gli adulti si fermano a contemplare il mondo, immersi nei loro pensieri. Spesso però la fantasia e i colori dei sogni ad occhi aperti dei bambini sono impareggiabili. Quando i bambini guardano fuori dalla finestra di casa, dal finestrino dell’auto o del treno noi ci chiediamo Chissà cosa stanno pensando? Un viaggio in automobile, in treno o in aereo per un bambino alla sua prima esperienza è una grande emozione. Spesso succede

che il viaggio per raggiungere l’Italia per un bambino adottato dall’altra parte del mondo, sia proprio il suo primo grande viaggio. Oggi per Marco è un giorno speciale. Il giorno del suo primo viaggio in treno. È seduto accanto al finestrino e guarda fuori, mentre il treno scivola verso la sua destinazione. Dedicato a tutti quelli che si lasciano ancora incantare dai sogni, Chissà è il libro di Marinella Barigazzi, illustrato da Ursula Bucher, su un lungo viaggio in treno; un treno lungo, lungo che percorre la città e la campagna, fischia e sbuffa; un libro sulle mille emozioni che avvolgono un bambino che guarda dal finestrino durante il suo primo viaggio in treno. Marco, naso incollato al finestrino, vede sfilare davanti a sé


paesaggi e animali, cieli e terre, pioggia e sole. Il piccolo Marco attraversa un mondo di sfumature, di sorprese e d’incontri. Le suggestioni dei colori e delle forme sollecitano idee e domande. Il protagonista si crea delle semplici spiegazioni scientifiche della realtà ma sempre le accompagnate alla poeticità e all’incanto, tipico dei bambini. Se da un lato si lascia cullare dalle immagini che scorrono fuori dal finestrino mentre il treno corre a tutta velocità, dall’altro c’è la voglia di chiedersi il perché di tutte le cose: Chissà se gli uccelli mentre volano parlano tra loro come fanno gli amici? Chissà quanti papà lavorano nei palazzi di vetro e forse si sentono soli là dentro? Chissà se anche gli spaventapasseri a volte hanno

paura degli spari dei cac- fin lassù … Poi lentamente il treno ciatori? entra nella stazione. Sul Marco guarda il mondo che binario parallelo un altro scorre davanti ai suoi occhi, treno sta partendo. Marco in silenzio, riempiendosi guarda il finestrino di frondi immagini, forme, colo- te al suo e vede una bamri e sensazioni. Le grandi bina che gli sorride. Marco illustrazioni riempiono le si chiede se anche il cuore pagine; l’illustratrice ha della bambina batta forte saputo accompagnare il come il suo. Il treno divensemplice testo inserendo i ta così la metafora dell’avdisegni fra le frasi; le illu- ventura, di una magia in strazioni fresche, precise e movimento che errando a doppia pagina, spaziano in tanti luoghi fa correre passando dalla città alla i pensieri e fiorire la fancampagna, dalle colline al tasia. Panorami, colori e immagini pieni di mille bosco, dal fiume al mare. E ancora dal temporale al sfumature fanno pensare tramonto, dalla luna alla ad altri mondi e provare contrastanti sentimenti. notte. Gli scenari sono meravi- L’autrice stessa racconta gliosi e nel cuore del bam- di aver avuto lo spunto per bino le suggestioni sono in- scrivere questo poetico albo illustrato proprio durante dimenticabili. Marco guarda la luna e si un viaggio al termine di chiede chissà come mai se una giornata difficile, fissando il paesaggio scorrere ne sta sdraiata a metà. Sarà perché deve cullare davanti ai suoi occhi. Ha tutti i sogni che arrivano pensato che se a guardare

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quel paesaggio fosse stato un bambino, sicuramente avrebbe visto un mondo molto più poetico del suo, in quel momento di stress e stanchezza. Un bambino avrebbe visto un mondo da esplorare con la sua infinita ricchezza di creatività e immaginazione. Mi è sembrato molto interessante l’uso del termine chissà e non del solito perché, meno coinvolgente e stimolante. Ad ogni modo il viaggio può essere utilizzato anche come spunto di riflessione e di conversazione. Si può raccontare un viaggio realmente fatto o uno immaginario. Il viaggio può essere anche simbolo di un percorso di vita o metafora della crescita, lasciando a ciascuno la scelta di partire da dove e da quando vuole. Quando a scuola le insegnanti svolgono l’unità didattica sul tempo chiedono ai bambini il racconto della loro storia personale; spesso le insegnanti chiedono ai bambini di partire dalla nascita senza pensare che invece è possibile raccontare un’esperienza vissuta a scuola, un viaggio con un prima, un durante e un dopo cioè con una partenza iniziale, un percorso e un arrivo finale. Per un bambino che magari non ha potuto conoscere i genitori naturali, può es-

sere doloroso ripensare ad un periodo che non conosce o di cui non si ricorda niente. Sicuramente ogni bambino adottato ha fatto un viaggio e per lui è sicuramente una esperienza fondante; non sempre se lo ricorda direttamente, non sempre ha voglia di raccontarlo, ma sempre lo ha condizionato nella sua esperienza di vita. Per un bambino che, nato lontano dall’Italia, sta per intraprendere il viaggio per arrivare nella sua nuova terra, non si tratta solo di salire su un aereo, magari per la prima volta, ma significa anche fare un viaggio dentro se stesso insieme alle proprie forti emozioni. In questo senso anche per i genitori si tratta di un viaggio intenso e a volte difficile. Le ansie e le paure, i timori e le aspettative coinvolgono sia il bambino che l’adulto e sono molte volte difficili da contenere e da sostenere. Ci sono vari giochi che si possono fare a casa o a scuola pensando ad un viaggio. Ogni bambino può mettere un biglietto in una scatola con una indicazioni di viaggio: dove vuole andare, con chi, con quale mezzo di trasporto, cosa vuole mettere in valigia e poi cosa ha vi-

sto. Poi si possono mescolare i biglietti e pescarne alcuni per ricreare un viaggio realizzabile o impossibile. Si può costruire un treno con molti vagoni ed incollare ai finestrini foto o disegni di cose viste o immaginate nel viaggio. Si può infine costruire un finestrino di cartoncino attraverso il quale inquadrare la realtà che ci circonda e giocare al gioco del “chissà …?” Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda è un’altra storia di viaggio drammatica e commovente; una storia che mette i brividi perché sembra una storia impossibile e invece è una storia vera. È la storia di un viaggio di un ragazzo afghano pieno di sofferenze e di speranze. Enaiatollah racconta la sua storia con coraggio, si vuole fidare di chi incontra ma ha paura di farlo. Nel libro c’è proprio la cartina geografica e la linea del percorso che il protagonista ha fatto attraverso molti paesi: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia, Grecia e Italia. Un lunghissimo viaggio da solo, senza amici o famiglia, per terra e per mare dove, come recita il titolo, forse ci sono i coccodrilli. Leggendo questo libro viaggiamo insieme al ragazzo ed entria-


mo in mondi inimmaginabili ma reali che ci aprono orizzonti violenti e tragici e che ci aiutano a capire che spesso è necessario sospendere il giudizio. A dieci anni il bambino gentile e ironico inizia un viaggio verso qualcosa che non conosce, obbligato dalla sua stessa famiglia a lasciare l’Afghanistan. Dopo cinque anni tra molti lavori, imprevisti e speranze, grida e sorrisi, il protagonista ci racconta che comunque c’è ancora la speranza di una vita migliore. Nel suo racconto si sente la voglia di condividere un pezzo importante della sua vita anche se c’è la consapevolezza che a volte dimenticare potrebbe essere meglio. Quindi mettiamoci in ascolto, facciamoci raccontare dai bambini i loro viaggi. Dimostrando la voglia di ascoltare, in qualche modo diamo anche un senso al racconto di quel lungo viaggio di Enaiatollah. Ascoltando i viaggi degli altri e raccontando i nostri, possiamo sicuramente aiutare grandi e piccini a dare nuove possibilità alla vita e a vedere il mondo con occhi diversi, come quelli di un bambino che guarda dal finestrino di un treno al suo primo viaggio.

Bibliografia Chissà. M. Barigazzi, U. Bucher, Kite Edizioni, 2009 Nel mare ci sono i coccodrilli: storia vera di Enaiatollah Akbari. F. Geda, Baldini Castoldi Dalai, 2010 Nel paese dei mostri selvaggi. M. sendaK, A. Porta, Babalibri, 1999 La strega Rossella. J. Donaldson, A. Scheffler, Emme Edizioni, 2001 Il viaggio di una stella. G. Zoboli, M. Del Cinque, Topipittori, 2012 Pezzettino. L. Lionni, Babalibri, 2006 Fortunatamente. R. Charlip, Orecchio Acerbo, 2011 La piccola macchia rossa. M. Mahringer, E. Battut, Bohem Press, 2002 Il paese di Solla Sulla. Dr. Seuss, Giunti, 2012 Mattia e il viaggio in treno. L. Slegers, Clavis, 2009 Il ranocchio giramondo. M. Velthuijs, Mondadori, 1999 La chiocciolina e la balena. J. Donaldson, A. Scheffer, EL edizioni, 2006 Giovanna prende il treno. K. Scharer, Lo Edition, 2013 Puff. W. Wondriska, Corraini, 2013 Zoom. I. Banyai, Il castoro, 2003 Quando Noè cadde dall’arca. N. Cinquetti, G. Tessaro, Lapis, 2004 Il grande viaggio della piccola angelica. C. Gastaut, Gallucci, 2010 Pasta di drago. S. Gandolfi, Salani, 2009 La bussola d’oro. P. Pullman, Salani, 2007 L’occhio del lupo. D. Pennac, Salani, 2006

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trentagiorni

Minori, 30mila allontanati da casa Presentata una proposta di legge sulle case famiglia I minori allontanati dalla famiglia ed accolti dalle famiglie affidatarie o in comunità, la cifra è frutto di stime, per la carenza di dati in alcune Regioni, è di circa 30mila unità con un aumento dell’affidamento temporaneo cresciuto del 24% negli ultimi anni e con un’equa ripartizione tra bambini e ragazzi in affido (circa 15mila) e accolti in servizi residenziali (gli altri 15mila). I dati sono stati resi noti nel corso del convegno “Affidamento temporaneo: abuso o tutela?” promosso dalla presidente della Commissione infanzia e adolescenza della Camera, Michela Vittoria Brambilla. Il 60 per cento degli accolti in famiglia sono in affidamento da più di due anni, nel 74 per cento dei casi l’affidamento è giudiziale. I bambini in affidamento familiare sono generalmente più piccoli di quelli in casa famiglia, i quali sono in

gran parte adolescenti ed il 60% di loro è di sesso maschile. Oltre il 50% degli inserimenti in strutture è dovuto soprattutto alla inadeguatezza o alla incapacità genitoriale o all’assenza di una rete familiare adeguata o a problemi giudiziari di uno o entrambi i genitori. Poco meno di un bambino su dieci presenta una qualche forma di disabilità certificata. Secondo recenti stime, sono più di 1800 i centri di accoglienza per i minori, con alcune regioni, come Emilia Romagna, Lazio, Lombardia e Sicilia, che registrano una concentrazione di 300 strutture. In assoluto la regione che presenta il maggior numero delle strutture è la Sicilia, con 63 istituti per minori. Ogni minore ospitato in una casa famiglia costa mediamente attorno ai 200 euro al giorno, retta che viene erogata fino a quando il minore risiede nella struttura. «Da quanto emerso - si legge nella relazione che accompagna

la proposta di legge per l’istituzione di un Osservatorio nazionale sulle case famiglia, presentata dal presidente della Commissione infanzie e adolescenza della Camera, Brambilla - il fenomeno degli allontanamenti facili ha assunto sempre più la connotazione di un vero e proprio giro d’affari dove i minori rappresentano merce di scambio per lucrare sui fondi destinati alla accoglienza residenziale dei minori». Fonte: Secolo d’Italia Il «pentimento» ferma l’adozione Anche dopo 60 giorni La madre che non riconosce il figlio al momento del parto può cambiare idea, anche se sono scaduti i due mesi che la legge fissa per il ripensamento. Purché l’intenzione di tenere con sé il bambino sia manifestata prima del verdetto finale sulla procedura di adozione o di affidamento preadottivo. Con la sentenza 2802, depositata ieri, la


Cassazione accoglie il ricorso di una cittadina congolese, suora all’epoca dei fatti. La donna rimasta incinta, in seguito ad una violenza subita da un sacerdote, aveva espresso dopo il parto la volontà di non riconoscere la bimba che veniva iscritta nei registri di stato civile come figlia di genitori ignoti. La scelta rivista solo 73 giorni dopo la nascita, a fronte dei 60 giorni concessi dalla norma, aveva comunque indotto il Tribunale minorile a fermare la dichiarazione di adottabilità, lasciando la bimba presso la famiglia affidataria con la possibilità di vedere la madre. Passando così dal procedimento abbreviato (articolo 11 della legge 184/1983) all’ordinario (articolo 8) che impone al tribunale la necessità di verificare lo stato di abbandono. Una linea dalla quale si dissocia il pubblico ministero che impugna, con successo, la decisione in Corte d’Appello. Peri giudici di secondo grado

andava applicato alla lettera l’articolo 11 che prevede, in caso di mancato riconoscimento alla nascita e di rinuncia alla facoltà di chiedere un termine per provvedere al successivo riconoscimento, la dichiarazione dello stato di adottabilità immediatamente senza ulteriori accertamenti, per assicurare, nell’interesse del minore, un tempestivo inserimento in una famiglia. La Cassazione censura però la corte d’Appello a cominciare dalla possibilità di configurare, in sede stragiudiziale, la validità di una rinuncia da parte della madre a formulare la richiesta di sospensione. Il diritto soggettivo a essere genitori giuridici, oltre che biologici, riguarda, infatti lo stato delle persone e, in quanto tale è un diritto indisponibile «e dunque non estinguibile per volontà abdicativa». La genitorialità giuridica è irreversibilmente pregiudicata, con effetti stabilizzati nel futuro, solo quando il mancato

riconoscimento va fuori dai limiti imposti dall’ordinamento. Una dead line che la Cassazione fa coincidere con la dichiarazione di adottabilità e dell’affidamento preadottivo. Riguardo alla tassatività del termine dei due mesi per il riconoscimento la Cassazione precisa che questo va messo in relazione alla peculiarità del caso e con l’interesse preminente del minore. Per la Cassazione il sì della madre, nel caso specifico è arrivato in tempo utile, malgrado lo sforamento di 13 giorni, per far chiudere il procedimento abbreviato. Un’elasticità non adottata dai giudici di secondo grado che hanno deciso «con freddo tecnicismo metagiuridico» slegato dalle norme interne e anche sovranazionali (Cedu). La Cassazione rinvia per un nuovo giudizio d’Appello, che dovrà essere espresso seguendo le sue indicazioni. Fonte: Ilsole24ore.it


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