Adozioni e dintorni - GSD Informa gennaio 2013

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - gennaio 2013 - anno III, n. 1

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gennaio 2013 | III, 1 Adozione e dintorni GSD informa - mensile - gennaio 2013 - anno III, n. 1

GSD informa

Fratelli si diventa La scelta della

classe

La pedagogia della

lumaca

GSD informa

di Anna Guerrieri

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editoriale

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Fratelli si diventa di Carmine Pascarella

psicologia e adozione

salute e adozione

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Utilità di una preparazione antropologica di Raffaele Virdis scuola e adozione

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La scelta della classe di Livia Botta Quando la mediazione aiuta a crescere: il metodo Feuerstein di Lorenza Del Vento Da un lettore giorno dopo giorno

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Di tutti i colori di Marta e Alberto leggendo

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La pedagogia della lumaca di Marina Zulian

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Adozioni: miti, semplici e plenarie di Angelamaria Serpico

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trentagiorni

sociale e legale

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@ genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pea Maccioni, Lecce

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma; Diana Giallonardo, L’Aquila; Raffaella Ceci, Monza.

abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


editoriale

di Anna Guerrieri

Se ne parla ovunque… di adozione

Di adozione, in questo periodo, si sta parlando tanto ovunque: quotidiani, riviste, programmi televisivi, social media, libri. Se ne mettono in luce le zone d’ombra. Ombre che diventano vaste e rischiano di oscurare realtà importanti. L’adozione (nazionale e internazionale) è uno strumento giuridico fondamentale per dare una famiglia a bambini e bambine che non la hanno. Se non ci fosse l’adozione, tanti bambini resterebbero soli. Ogni volta che un paese chiude le porte all’adozione, di fatto si assiste a tanti bambini che crescono “nella cura dello stato”, con tutte le conseguenze del caso. È bene quindi tenere la discussione saldamente su un binario preciso: come far sì che l’adozione (nazionale e internazionale) funzioni al meglio. La grande attenzione che l’Italia da sempre ha sul tema, ha fatto sì, almeno a mio vedere, che il dibattito sia da anni forte, con proposte legislative di vario tipo, con confronti intensi. Non è un caso che l’Italia sia paese dove le adozioni si fanno, dove i numeri dell’adozione internazionale, nonostante il calo del 2012 (inferiore peraltro a quello di altri paesi europei), sono elevati, dove i meccanismi pro-adozione sono più di quanti si potrebbe pensare. Quello che manca ancora, tuttavia, sono risultati positivi più stabili in materia di accuratezza del processo, di attenzione alle prassi, di aiuto economico alle famiglie che si rendono disponibili, di preparazione prima e di sostegno dopo l’adozione. È vero, i costi delle adozioni internazionali devono ridursi, come è giusto che anche i costi dopo le adozioni debbano essere presi in considerazione. È vero, l’Italia deve impegnarsi per rendersi disponibile alle adozioni in sempre più paesi esteri dove i bambini abbiano bisogno di famiglie, ma deve farlo muovendosi con attenzione nelle situazioni più critiche e fragili, in modo da evitare con-


testi di grande drammaticità come quello che sta accadendo alle famiglie che quest’estate sono partite per il Kyrgyzstan, convinte di incontrare i propri figli e magari portando con sé i propri primi figli. Ecco che qui scatta fondamentale la necessità di una grande cautela, una grande attenzione, una grande cura. Perché se è vero (e lo è) che nell’adozione internazionale sono sempre presenti fattori di rischio, tali rischi vanno minimizzati, vanno considerati e previsti, evitando che a correrli siano, ad esempio, degli altri bambini. Dalla parte dei bambini bisogna stare sempre, quelli che hanno bisogno di una famiglia, quelli che in famiglia ci sono già. Siamo certi della grande attenzione che le autorità italiane hanno sul tema del Kyrgyzstan, e come promesso, seguiamo, come famiglie, con attenzione gli sviluppi. Li aspettiamo. Dunque, se abbiamo a cuore l’istituzione dell’adozione, se ci crediamo, abbiamo il dovere di intervenire nel dibattito di questi mesi e di dire che, ben consapevoli dell’intenso lavoro dei tanti che credono fortemente nel bene dell’adozione, si può fare “meglio” e “di più”. Si può farlo ad esempio in materia di controllo di quelle che sono le strutture all’estero delle controparti italiane, i referenti esteri. Una normativa esiste e appare piuttosto chiara, piacerebbe darne per scontata l’attuazione. Si può farlo nell’investire sulla preparazione di chi si apre all’adozione, aprendo una finestra vera sulle realtà dei bambini che si incontreranno, non minimizzando il significato di “bisogno speciale” dal punto di vista medico, anagrafico o di fratria, bensì aiutando a comprendere l’entità di quello che si sta facendo prendendosi cura di una persona con una propria storia, un proprio vissuto e una propria realtà importanti, forti. Se l’adozione è quello che deve essere, uno strumento per i bambini, si può fare certamente di più.


Quello che però riteniamo non si debba fare è quella di confondere ruoli e contesti. Di confusione ne abbiamo già abbastanza. Ci riferiamo alle proposte, provenienti da più parti, di spostare, ad esempio, il lavoro di accertamento dell’idoneità per l’adozione internazionale, in carico a quegli stessi enti autorizzati che poi si occupano delle pratiche all’estero. È vero, di preparazione prima dell’adozione ne serve davvero tanta, perché essere adottati è diritto naturale dei bambini e adottare non è un diritto naturale dell’adulto. Perché a chi è in contatto con le famiglie, non sfuggono né le situazioni di abbinamenti rifiutati, né le situazioni di abbinamenti non andati a buon fine nei paesi esteri dopo aver incontrato i bambini, né le situazioni di progressivo affanno e disagio che a volte si innescano al ritorno in Italia, né alcune situazioni di serio disagio famigliare a distanza di anni quando i figli crescono. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con l’attribuire funzioni di valutazione e di decretazione di idoneità agli enti autorizzati, è tutt’altra cosa. Gli enti autorizzati hanno una funzione ben precisa, realizzare le adozioni all’estero. Il loro primo scopo dovrebbe essere fare questo “bene” con professionalità e chiarezza, mettendo a disposizione delle famiglie competenza, cura, trasparenza nelle prassi e nei costi e certamente un patrimonio di esperienza. Accade per davvero? Accade per tutti? Può il privato che poi dovrò scegliere per adottare essermi presentato prima di ogni mia scelta in fase valutativa? Non si configura un evidente conflitto di interessi? Guardiamo la realtà per come è e diciamoci con franchezza, che c’è molto cammino da fare, anche da parte degli enti autorizzati, prima di proporsi con funzioni di cui andrebbe verificata l’opportunità, la necessità, l’efficacia oltre che il costo.

© sabina betti



psicologia psicologiaeeadozione adozione 8

Fratelli si diventa

Il tema dei fratelli in adozione rappresenta un capovolgimento della prospettiva con la quale abbiamo affrontato, la volta scorsa, il tema dell’adozione di fratelli. In realtà, l’adozione di fratelli rappresenta un sottoinsieme dell’insieme più vasto riferito al tema dei fratelli in adozione, con tutte le sue possibili combinazioni che sarebbe interessante approfondire ulteriormente. Ho scelto il titolo Fratelli si diventa facendolo discendere proprio dal nome dell’Associazione, in quanto, anche il processo di “affratellamento”, unitamente a quello di “ammaternamento” e “appaternamento”, rappresenta una sfida che infrange lo ius sanguinis a favore della costruzione di relazioni familiari non fondate sul substrato biologico. In verità, nel riflettere sul

legame costitutivo di una genitorialità adottiva, in presenza di figli biologici, alcuni autori presuppongono l’esistenza di un’asimmetria, ovvero di una mancanza di reciprocità che potrebbe mettere a rischio il legame con il figlio adottivo nel periodo dell’adolescenza, differenziandolo marcatamente dal legame con il figlio biologico. Per esplicitare quanto affermato, mi riferisco al fatto che il legame di una coppia sterile con il figlio adottivo, si fonda su una reciproca riparazione connessa con due mancanze: la mancata procreazione biologica da un lato e la mancata continuità delle relazioni, da parte del figlio adottivo, con la sua famiglia di origine. La reciproca riparazione avrebbe una forza di coesione più intensa di quanto non avverrebbe nella scelta adot-

tiva di una coppia, appagata sul piano biologico, che accoglie un bambino i cui legami primari sono stati violentati dall’abbandono. I due bisogni in questa seconda fattispecie si collocherebbero su piani diversi e verrebbe a mancare la reciprocità nel processo di riparazione. La sfida della scelta adottiva in presenza di figli biologici sta proprio nella capacità di riconoscere le differenze fra due diversi tipi di genitorialità, reclamanti ognuno una propria esclusività, ma capaci di avere in comune il senso profondo di un’accoglienza nella propria mente, nei propri affetti e nei propri pensieri. Il processo di riconoscimento dell’importanza di un legame, in realtà, riguarda tutti i legami che costruiamo, compreso quello con il figlio biologico. Certamen-


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te i tempi saranno diversi, si attraverseranno diverse fasi, ma quando l’appartenenza sarà costruita il legame con il figlio adottivo, nella sua peculiarità, non potrà essere immaginato come un legame di “serie b” rispetto al legame con il figlio biologico, a meno che non s’immagini di “serie b” la genitorialità adottiva rispetto alla genitorialità naturale. Pertanto, le motivazioni verso una scelta adottiva in presenza di figli naturali dovranno essere approfonditamente valutate e dovranno riguardare l’intero nucleo familiare.

Può accadere che una prima gravidanza difficoltosa, non lasci speranza per una seconda gravidanza e pertanto il progetto adottivo può assumere spessore dopo qualche anno dalla nascita del figlio primogenito. Altre volte è il crescere del proprio figlio che, unitamente all’avanzare dell’età della coppia, induce i genitori a presentare la disponibilità per l’adozione. Sarei più perplesso di fronte a motivazioni legate unicamente a scelte di tipo solidaristico, ritenendole non sufficienti a sostenere il processo di costruzione

della reciproca appartenenza, anche se, nella scelta dell’adozione si richiede una solida capacità di assumere responsabilità in un contesto di apertura mentale e culturale. Ma per il figlio naturale che cosa significa la scelta dei suoi genitori? È necessario da parte degli operatori valutare con molta attenzione quali sono i livelli di organizzazione emotiva sia dei figli biologici che di quelli adottivi già presenti nel nucleo familiare. Sarà pertanto fondamentale considerare la capacità dei genitori di leggere gli stati


mentali del proprio figlio. Quest’ultimo potrebbe implicitamente interrogarsi sulle sue qualità, magari fantasticando di non essere sufficientemente capace di appagare le aspettative dei suoi genitori, i quali sono alla ricerca di un figlio molto speciale, molto diverso, proveniente da un paese molto lontano. In altre parole, l’assetto narcisistico (potremmo anche leggere autostima) può essere messo in discussione. D’altra parte, il figlio biologico non ha alle spalle una storia di abbandono e pertanto potrebbe, se non sufficientemente supportato, essere in difficoltà nel confrontarsi con la storia abbandonica di un figlio adottivo. Non dobbiamo dimenticarci che “figlio adottivo” significa essere stato un bambino abbandonato e che il tema dell’abbandono evoca delle risonanze interne con i nostri timori abbandonici, riguardanti sia i bambini che gli adulti. Chi non ha mai provato un timore abbandonico? Sarà fondamentale quindi dare voce agli interrogativi e costruire insieme delle risposte. Anche questo vale sia per gli adulti che per i bambini. Saremo capaci di educarli in modo adeguato? Di amarli nello stesso modo? Saremo capaci di farli sentire fratelli nono-

stante le differenze somatiche? Dal punto di vista del figlio biologico: “Riuscirò a giocare con lui? Mi capirà quando parleremo? Potrò presentarlo ai miei amici?”. La condivisione del progetto adottivo dovrà pertanto implicare una comprensione del senso della scelta che sia capace di permettere una rappresentazione il più possibile realistica dei nuovi scenari intrafamiliari: il futuro fratello adottivo non sarà semplicemente un compagno di giochi, ma condividerà tempi e spazi del futuro crescere insieme. Condividere non significa dividere, ma ampliare l’espressione degli affetti e degli scambi fra i componenti di una famiglia che ha accettato questa sfida. Per certi aspetti la prospettiva è un po’ diversa se ci riferiamo alle seconde adozioni. È altrettanto importante saper leggere gli stati mentali dei propri figli, ma è necessario valutare quale livello di appartenenza si è, nel frattempo, consolidato. Se, in altre parole, l’adozione cura i legami e i modelli operativi interni, spesso disorganizzati dei bambini in stato di abbandono, è fondamentale che il legame con i genitori si sia evoluto verso una relazione caratterizzata da un

attaccamento sicuro. Saper leggere gli indicatori di disagio provenienti dal passato del bambino può orientare la coppia verso una scelta più appropriata. Difficoltà di addormentamento, rifiuti del cibo, difficoltà o eccessiva facilità nel separarsi dai genitori, iperattività, se assumono la caratteristica di comportamenti consolidati sconsigliano una seconda adozione nello stesso modo in cui i disturbi della condotta, i comportamenti oppositivoprovocatori, la presenza di furti e bugie, la controindicano. Diversamente si può ragionare di fronte a comportamenti che indicano crisi evolutive transitorie. I Servizi e i Tribunali per i minorenni indicano la necessità che trascorra un congruo periodo di tempo fra l’adozione del primo figlio e l’inizio delle pratiche finalizzate all’ottenimento del decreto d’idoneità per la seconda adozione. Questo riconoscimento temporale dovrebbe favorire il consolidamento del legame, mentre i decreti così detti vincolati (che prevedono una differenza di almeno due anni di tempo fra la data di nascita dei due figli) garantiscono il rispetto della naturale linea di affiliazione. Alcuni autori suggeriscono che

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sia preferibile, nel caso della seconda adozione, l’accoglienza di un bambino di sesso diverso da quello del primogenito, al fine di preservare entrambi i bambini da possibili conflitti derivanti da posizioni non sufficientemente differenziate. La gelosia, fisiologica nella relazione tra fratelli, assume una connotazione più specifica nel caso delle seconde adozioni. Il rischio che un nuovo intruso possa sconvolgere precedenti equilibri è presente sia nelle fantasie dei bambini che in quelle dei genitori. D’altra parte, prepararsi a una seconda adozione significa coinvolgere il figlio adottivo nelle rappresentazioni che potranno caratterizzare il tempo dell’attesa; si tratta di un tempo la cui estensione non è definita e nel quale le prefigurazioni del

fratello adottivo non sono fondate sulle trasformazioni biologiche e sui tempi della genitorialità naturale. La seconda adozione diventa anche un’occasione per ripensare la propria storia, per rispecchiarsi in un altro da sé simile a sé (soprattutto se il bambino proviene dallo stesso paese nel quale è stato adottato il primo figlio), ma diverso da tutti gli altri. Queste riflessioni sono riferibili prevalentemente al momento della scelta adottiva. Nel riflettere su questi temi è comunque opportuno pensare che ogni figlio adottivo lascia dei fratelli da qualche parte nel mondo e, nel nostro caso, ne ritrova altri. Al bambino è richiesto il compito di costruire una relazione di attaccamento con i fratelli incontrati, mentre contemporaneamente deve

elaborare il lutto per i fratelli lasciati. Il compito si presenta piuttosto difficile. Sarà necessario pertanto affrontare con grande senso di consapevolezza le trasformazioni che riguarderanno la propria vita di genitori. Nei momenti di maggiore fatica nell’affrontare i nuovi processi trasformativi, potrà essere utile apprendere dai cambiamenti che hanno saputo affrontare i propri figli.

Carmine Pascarella Psicologo presso l’AUSL di Reggio Emilia


Avviso ai lettori Vi informiamo che il dott. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione. La redazione

Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Docente in training presso la SGAI (Società gruppoanalitica italiana), è Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process)

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salute e adozione

Raffaele Virdis

Utilità di una preparazione antropologica 14

Un recente libro Malati fuori luogo scritto da un antropologo, Ivo Quaranta, e da un professore di diritto interculturale, Mario Ricca, ha “esplorato” i diversi atteggiamenti rispetto alla malattia, alla salute e alla stessa sanità pubblica dei migranti presenti in Italia in base alla loro cultura, alle abitudini e alle credenze e, infine, ma non ultimo, alla religione. Perché parlarne qui in una rubrica pediatrica indirizzata ai bambini adottivi? Non saprei rispondere con certezza, ma certo i nostri bambini nati in tutte le parti del mondo, anche le più lontane e diverse dalla nostra, possono essere considerati da altri come stranieri, o essi stessi sentirsi tali o differenti dalla media dei coetanei. Questo sentimento, presente an-

che in molti bambini e adulti italiani cresciuti lontani dalle regioni di origine, può essere vissuto con orgoglio, come espressione di autonomia dalla “folla” o essere sofferto perché non ci sente del tutto parte della stessa. Possono i nostri bambini arrivati da differenti culture, spesso molto antiche, ma in genere anche meno moderne di quella occidentale (e il concetto di moderno non sempre è positivo) subire ancora l’influenza del luogo d’origine? Certamente sì, specie se arrivati già grandicelli, o se, divenuti adolescenti, hanno voluto approfondire le loro origini e hanno riscoperto nel loro subconscio imprinting, credenze, atteggiamenti dimenticati. In molti popoli di paesi in via di sviluppo economico (perché si afferma sempre di più la

convinzione che maggiore tecnologia non significhi anche migliore cultura e civiltà) e con minore diffusione delle conoscenze scientifiche e mediche nella popolazione generale, un atteggiamento religioso, quasi magico, di fronte alla salute è frequente se non d’obbligo. Perciò si guarisce anche o soprattutto grazie alla volontà di Dio (Inshallah, se Dio vuole, ma anche noi diciamo spesso grazie a Dio, sia per la salute sia per altri avvenimenti a nostro vantaggio) e ci si può ammalare anche in seguito all’odio, al malocchio di qualcuno, aiutato da stregoni o fattucchieri, o perché Dio ci vuole provare. Ho visto talvolta presso qualche popolo, non faccio i nomi per non instillare in qualcuno pregiudizi o un senso di superiorità, la rinuncia a


lottare contro il male perché l’eventuale guarigione forzava la volontà di Dio o perché le menomazioni residue sarebbero state troppo pesanti in un mondo di sopravvivenza quotidiana. Se qualcuno si scandalizzasse di ciò e di credenze come malattia causata dal malocchio o da cause estranee, quasi magiche, vorrei ricordare che in Italia circa dieci milioni di persone ogni anno si rivolgono a maghi, cartomanti, veggenti, imbroglioni vari o preferiscono medicine alternative senza nessuna base scientifica, nonostante che per alcune di esse si cerchi inutilmente di dimostrarne la scientificità da decenni o secoli. Nella guarigione sono importanti la forza risanatrice della natura (vis sanitrix Naturae), ben nota ai medici antichi Greci e Romani, e © mario lauricella

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la risoluzione spontanea e autonoma della maggior parte di esse anche senza cura specifica; concorrono anche l’atteggiamento culturale, l’affidarsi alla misericordia di Dio, la preghiera, l’aver fiducia nelle cure, scientifiche o alternative che siano. Perché questo lungo discorso? Perché fra le tante conclusioni del libro citato vi è l’asserzione che chi sta male non è mai fuori luogo, non è straniero e se verrà “curato” senza che riesca a capire quello che gli stanno facendo, che può essere in contrasto con le sue credenze, non avrà il giovamento di chi comprende e accetta. Per esempio il disturbo causato da occhi indiscreti di medici e infermieri, specie se uomini, sulle nudità di una paziente molto pudica per cultura e/o religione può danneggiarla psicologicamente e clinicamente, può farle sorgere la paura di essere stata violata e/o non avere speranze per un futuro matrimonio “perché già vista” da altri. In altri casi simili situazioni possono far sorgere alla donna il timore, non del tutto improbabile, della reazione del marito che potrebbe arrivare fino al ripudio, aggiungendo al suo problema sanitario anche ansia, angoscia e depressione. Gli

autori del testo raccontano il caso tragico di un paziente malese, forse un po’ depresso, che dopo un diverbio sul lavoro sente un “peso sullo stomaco e difficoltà a respirare”, come diremmo noi, ma che lui, traducendo bene in italiano dalla sua lingua, riferisce al fegato, perché nella sua cultura l’organo del coraggio, dei sentimenti è indicato come fegato (anche noi diciamo di una persona coraggiosa, ardita che “ha fegato”). Al Pronto soccorso lo visitano attentamente, in base alle sue spiegazioni gli fanno un’ecografia addominale, vedono un fegato lievemente alterato, un colon dilatato, lo rassicurano, “non è nulla di grave”, gli danno un qualche farmaco, forse palliativo, e lo rimandano a casa, dove muore di arresto cardiaco. Il migrante, pur con buona conoscenza dell’italiano, aveva espresso i suoi disturbi in base alla sua cultura e li aveva tradotti in italiano alla lettera, il medico lo aveva ascoltato, e indirizzato da come riferiva i sintomi, aveva agito di conseguenza. Forse era stato superficiale nel non ascoltare bene il cuore, che fa parte sempre della visita generale, ma che poteva anche apparire del tutto normale, e nel non fargli un ECG, ma, soprattutto,

il medico, la struttura e la metodologia d’approccio non avevano tenuto conto del fenomeno sociale dell’immigrazione, della sua antropologia, della possibilità che di fronte alla malattia, al dolore ci si esprima in modo differente anche in base all’educazione e alle abitudini, alle credenze. Questa insufficienza della nostra medicina, pubblica o privata, è causata dalla ristrettezza di risorse, dall’essere anche dovere del migrante adeguarsi alla nuova cultura, dal cattivo uso che molti, specie se stranieri (ma noi italiani siamo maestri in questo), fanno delle strutture di urgenza utilizzate al posto del medico di famiglia e di tanti altri problemi sociali, sanitari e antropologici. D’altra parte una cosa è certa: questa mancanza di conoscenze da parte nostra, di disponibilità (e direi anche di cultura) non va incontro, non soddisfa le esigenze (pongo l’accento su questa parola) di salute di migranti, di nomadi, regolari e irregolari. Tutto quanto detto non ha valore assoluto per i nostri bambini adottati dall’estero, perché appena diventano i nostri figli sono italiani a tutti gli effetti e non dovrebbero mai essere considerati stranieri. A


mio vedere, però, a molti o per l’aspetto o il colore della pelle, o per scelta culturale loro, l’origine straniera resterà sempre nel cuore (nel senso di cervello non di fegato!) e magari un domani saranno loro a colmare questo gap culturale (risorse economiche permettendo). Un approccio antropologico e culturale è importante anche in occasione della loro accoglienza, o nell’affrontare certe problematiche sanitarie e sociali come l’inserimento scolastico, la scelta delle scuole superiori e del lavoro e non ultimo in caso di malattie o altri problemi. Frequentando da oltre venti anni molti genitori “adottivi” ho notato che tanti spontaneamente sono a conoscenza delle molte caratteristiche, della cultura e degli usi delle nazioni e delle etnie dei loro amatissimi figli e penso che ciò sia un ottimo modo, certo non l’unico e non necessariamente indispensabile, per aiutare i bambini a integrarsi sia nella famiglia sia nella società. Non ho conclusioni certe per questa breve nota, ma penso che per aiutare molti di questi figli internazionali in occasione di malattie, di esami medici, di terapie prolungate, magari per disturbi asintomatici come le infezioni

silenti, le parassitosi e i disturbi della crescita o dello sviluppo puberale, un genitore italiano debba in parte spogliarsi della sua “italianità”, delle sue paure o del suo modo di vedere e assumere anche quello del bambino o dell’adolescente forse ancora influenzato dal suo passato. In occasione di mie esperienze in paesi in via di sviluppo ho imparato molto dai medici locali e anche dai colloqui con la gente. Una collega africana, per esempio, in margine a una mia lezione sulle cause di bassa statura nell’ambito di un Master panafricano su argomenti endocrinologici pediatrici, che annualmente si tiene a Nairobi, mi “insegnava” che noi occidentali siamo troppo interessati, quasi ossessionati, a poter avere una buona statura. Al contrario in Africa chi è piccolo di statura ha il suo vantaggio e le etnie basse sono di preferenza contadini, piccoli ma robusti, gli alti, invece, sono avvantaggiati nel fare i pastori, potendo meglio controllare le corna degli armenti nell’erba alta della savana o nell’individuare tempestivamente pericoli quali bestie feroci o i ladri di bestiame. Una saggezza che noi, che ci consideriamo più civili, forse abbiamo perso o di-

menticato. Nel capitolo conclusivo l’antropologo Quaranta, che auspica una preparazione antropologica e multiculturale per i medici in considerazione di pazienti e assistiti sempre più multietnici, conclude che il problema è complesso e che la malattia non è solo interpretabile con parametri fisici, organici, ma chiama in causa rapporti simbolici, processi sociali, dinamiche economico-politiche, questioni sociali, culturali”, religiose e altro” Solo comprendendo a fondo la complessità del problema il medico sarà consapevole della necessità della formazione di fronte a questo nuova esperienza e dell’organizzazione personale e di tutta la struttura sanitaria. Qualcosa di simile può essere utile anche per la famiglia adottiva, non solo in occasione di malattie ma anche nella vita di tutti giorni.

Ivo Quaranta, Mario Ricca Malati fuori luogo. Medicina interculturale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012

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scuola e adozione

Livia Botta

La scelta della classe 18

Per un bambino adottato internazionalmente, non è solo la decisione di quando iniziare la frequenza scolastica a dover essere ponderata con attenzione. Anche la scelta della classe merita una riflessione accurata, poiché avrà ripercussioni su tutto il successivo percorso scolastico. Poiché si tratta di una decisione non semplice, è bene preparare il terreno ancor prima dell’arrivo del

bambino tramite contatti preliminari con la scuola individuata. Oltre a dover essere calibrata sulla situazione del bambino, infatti, la scelta della classe dovrà tener conto delle opportunità d’inserimento offerte dalla scuola, oltre che dei vincoli posti dall’attuale normativa scolastica. La collaborazione tra genitori, dirigente scolastico e insegnanti è fondamentale: l’assegnazione alla classe

compete, infatti, alla scuola, a cui è opportuno che i genitori forniscano tutte le informazioni in loro possesso, affinché questa delicata decisione sia ben ponderata e presa di comune accordo, a partire da una conoscenza il più possibile approfondita del bambino nei suoi punti di forza e nelle sue vulnerabilità. La normativa attuale1 prevede la possibilità di inserire i bambini e i ragazzi provenienti da un paese straniero o nella classe corrispondente all’età o in quella precedente, con l’eccezione dell’iscrizione alla classe prima della scuola primaria, che deve tassativamente avvenire al compimento del sesto anno di età2. Nel caso di bambini adottati internazionalmente, la scelta più comune è l’iscrizione alla classe precedente a quella che competerebbe per età, © simone di sora


per non sottoporre il bambino appena arrivato a uno sforzo cognitivo eccessivo e per dargli più tempo per familiarizzare con la nuova lingua. In qualche situazione particolare (ad esempio bambini già grandicelli con una scolarizzazione pregressa particolarmente carente) si può anche optare per uno slittamento all’indietro di due anni. Sono comunque più di una le variabili da considerare al momento di decidere, sia sul versante “bambino” che sul versante “scuola”. È infatti sempre opportuno cercare la soluzione più adatta al singolo caso, evitando di scegliere sulla base di preconcetti che spesso precedono la conoscenza del bambino: a seconda dei casi il suo “diritto” di frequentare comunque la classe che gli compete per età, o al contrario il suo “bisogno”, stabilito a priori, di misurarsi con l’apprendimento con tempi rallentati. Analizziamo una per una le variabili da prendere in considerazione. L’età anagrafica è senz’altro la prima. Alcuni genitori preferiscono che il figlio venga inserito in una classe di pari età perché nutrono molto aspettative sulla sua scolarizzazione, o perché temono che

possa sentirsi a disagio in un gruppo di bambini più piccoli. Si preoccupano inoltre al pensiero che la differenza d’età possa diventare più visibile e problematica in adolescenza, soprattutto nel caso di ragazzi appartenenti a etnie che tendono ad avere uno sviluppo fisico e sessuale precoce rispetto ai coetanei italiani. Va ricordato, tuttavia, che il momento dello sviluppo puberale varia molto da soggetto a soggetto, e che è normale in una classe di scuola media veder convivere ragazzini di pari età con sviluppo fisico molto diverso. Spesso, inoltre, nei bambini adottati può esserci una sfasatura tra l’età anagrafica e quella mentale e affettiva, ed è meglio riferirsi a quest’ultima per progettare l’inserimento scolastico. Lo slittamento di un anno all’indietro, se ritenuto opportuno per dare al bambino delle basi solide, non dovrebbe preoccupare. Il bambino potrebbe invece trovarsi in difficoltà dovendosi misurare con l’apprendimento all’interno di un gruppo di coetanei più sicuri sul piano cognitivo. Non dobbiamo dimenticare che una delle aree più carenti per i bambini adottati è quella dell’autostima, che certo non viene

(Non esiste una normativa specifica che riguardi i bambini adottati internazionalmente. Si fa pertanto riferimento, per analogia, alla C.M. 24/2006 “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri”, che recita: «…rimane fondamentale il criterio generale di inserire l’alunno secondo l’età anagrafica. Slittamenti di un anno su una classe inferiore vanno ponderati con molta attenzione in relazione ai benefici che potrebbero apportare e sentita la famiglia. Scelte diverse andranno valutate caso per caso dalle istituzioni scolastiche».) 2 D.P.R. 89/2009 “Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del 1° ciclo” in base al quale «la scuola dell’infanzia accoglie bambini di età compresa tra i 3 e i 5 anni compiuti entro il 31 dicembre dell’anno scolastico di riferimento», mentre «sono iscritti alla scuola primaria le bambine e i bambini che compiono 6 anni di età entro il 31 dicembre dell’anno scolastico di riferimento».) 1

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rafforzata dal confronto quotidiano con compagni “più bravi” scolasticamente. Altra variabile da considerare è quella della scolarizzazione precedente. Anche qui bisogna evitare di dare tutto per scontato. Oggi le realtà di provenienza possono infatti essere molto diverse. Può esserci stato (e spesso è così) un avvicinamento

alla scuola solo precario e carente; ma esistono ormai anche casi di bambini che hanno avuto una discreta scolarizzazione nel paese d’origine: bambini desiderosi di misurarsi con l’apprendimento, che arrivano con un’abitudine a rispondere a stimoli culturali che può essere trasferita senza eccessiva difficoltà nel nuovo contesto, rendendo lo scoglio della lingua non

troppo arduo da superare. I genitori dovrebbero cercare di raccogliere più informazioni possibili sulla prima scolarizzazione dei loro bambini durante la permanenza nel paese d’origine (magari anche recuperando libri e quaderni), per poter poi trasmettere alla scuola la maggior quantità di dati utili per decidere. La terza variabile, impor© simone di sora

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tantissima, riguarda il “clima” del gruppo classe in cui inserire il bambino. Si tratta di una realtà conosciuta solo dalla scuola ed è quindi importante che i genitori si fidino e diano ascolto ai suggerimenti degli insegnanti e dei dirigenti scolastici. Un gruppo classe tranquillo e accogliente, o con insegnanti particolarmente empatici e attenti all’individualizzazione, può facilitare l’inserimento. Al contrario, una classe troppo affollata o difficile, o con insegnanti poco flessibili, potrebbe non garantire quell’accoglienza e quell’attenzione individuale di cui un bambino adottato ha bisogno, anche se potrebbe essere la classe più adatta dal punto di vista strettamente didattico. Un discorso a parte merita l’iscrizione alla prima classe della primaria, da fare obbligatoriamente al compimento dei sei anni, anche se il bambino è appena arrivato e la permanenza di un anno nella scuola dell’infanzia sarebbe auspicabile. In quest’ultimo caso, tuttavia, è possibile concordare con la scuola (se si tratta di un istituto comprensivo) un progettoponte di continuità educativa, in base al quale il bambino è regolarmente iscritto alla prima classe

della primaria, ma inizia la frequenza presso la scuola dell’infanzia, per poi transitare alla scuola primaria nel corso dell’anno nel momento ritenuto più opportuno. Alla fine dell’anno scolastico sarà il team docente a valutare se passare il bambino alla seconda classe o lasciarlo ancora in prima. Per completezza ricordo che la normativa scolastica prevede anche la possibilità di ricorrere, per tutti gli anni della scuola dell’obbligo, all’educazione parentale. Si tratta della possibilità, da parte dei genitori, di impartire direttamente l’istruzione ai propri figli o di avvalersi di figure professionali da loro scelte, eventualmente in condivisione con altri genitori e facendo sostenere presso una scuola solo gli esami di passaggio da una classe alla successiva3. Cito questa possibilità poiché si tratta di un’alternativa poco conosciuta dalle famiglie, anche se non la consiglierei, perché priverebbe i bambini di quella tappa cruciale dell’appartenenza alla nuova società che la frequenza scolastica rappresenta, nei suoi aspetti di comunità dei pari e di luogo di acquisizione delle nuove norme e consuetudini del vivere insieme.

D.L. 297/1994 “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione” e Nota MIUR prot . 781 del 4 febbraio 2011. 3

www.adozionescuola.it www.liviabotta.it

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scuola e adozione

Quando la mediazione aiuta a crescere: il metodo Feuerstein

Reuven Feuerstein, Raphael S. Feuerstein, Louis Falik, Yaacov Rand, Il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein. Fondamenti teorici e applicazioni pratiche, Trento, 1

Edizioni Erickson, 2008, p. 107.

“Prima del cosa imparare, un bambino ha bisogno di capire per chi imparare”. Questa fu la frase detta anni fa a me, allora educatrice di comunità per minori a rischio, dall’insegnante di A., bambina con alle spalle una terribile storia di abusi, che ogni fine settimana versava lacrime infinite davanti alla classica poesia da imparare a memoria. Quella frase mi colpì molto e diede una chiave di lettura per comprendere il bisogno di A. e per poterla sostenere nel suo percorso che l’avrebbe poi portata dalla comunità alla famiglia adottiva. Quando diversi anni dopo, attraverso l’Associazione Insieme Intelligenti, incontrai il Metodo Feuerstein quella frase mi risuonò con un significato ancora più profondo e chiaro. Reuven Feuerstein, infatti, sostiene che la persona-

lità è come una medaglia trasparente: un lato cognitivo e un lato emotivoaffettivo. Se la persona ha problemi cognitivi anche la sua sfera emotiva mostra fragilità, mentre un’emotività squilibrata può compromettere l’intero processo cognitivo. Ho riletto così la storia della piccola A. e l’esperienza vissuta a fianco di bambini allontanati dalla famiglia di origine in quel passaggio doloroso che avrebbe condotto la maggior parte di loro verso nuove famiglie adottive. La grande difficoltà a mantenere lunghi tempi di attenzione, la fatica a trattenere le informazioni apprese, le povere esperienze di vita pregressa che portano a uno scarso bisogno di conoscenza e a una incapacità a creare relazioni tra cose ed eventi, una profonda insicurezza personale e un senso di


competenza tutto da ricostruire che spesso sfocia in atteggiamenti di sfida e di opposizione: in questi bisogni, su cui spesso come Mediatrice Feuerstein mi trovo a lavorare, riconosco molti dei bisogni dei “miei” bambini della comunità di allora. Come avrebbe potuto aiutarli il Metodo Feuerstein? In primo luogo Feuerstein fornisce una visione pedagogica profondamente ottimista e rispettosa del valore della persona umana, della sua unicità e ricchezza irripetibile. In particolare, propone un’attitudine attiva-modificante in opposizione a una passivo-accettante: vale a dire chiede, in particolare ai genitori, primi mediatori naturali di esperienze e significati, di non accettare i propri figli per quello che sono, ma piuttosto di stimolarne le competenze senza abbassare le aspettative e senza rinunciare o eliminare le sfide. Se mi ami, aiutami a cambiare: questo titolo di un importante libro di Feuerstein è esemplificativo. È quella che Feuerstein chiama Esperienza di Apprendimento Mediato (EAM) a consentire alla persona questo cambiamento e la piena attivazione di capacità cognitive ed emotive. Il bambino non è solo nel

suo apprendimento della realtà ma è accompagnato, guidato da un Mediatore che seleziona e organizza gli stimoli presenti nella realtà secondo particolari criteri, detti appunto Criteri di Mediazione. Il Mediatore è l’adulto, in primis il genitore, che decide intenzionalmente di entrare in relazione con il bambino, mettendosi lui stesso in gioco in un’esperienza in cui adulto e bambino si trovano insieme di fronte alla realtà che il mediatore desidera far sperimentare al bambino. L’EAM non è un passivo passaggio di conoscenza dall’adulto al bambino ma va pensata come un circuito ad anello “in cui gli stimoli, il soggetto mediato e il mediatore subiscono delle trasformazioni e le trasformazioni sono tradotte in azioni attraverso questa esperienza di reciprocità”1. Intenzionalità e reciprocità sono, infatti, i primi Criteri di Mediazione imprescindibili dell’EAM. Devo avere l’intenzione di portare il bambino all’interno di questa esperienza ma non posso prescindere dalla creazione di una reciprocità, che è la risposta di attenzione e consapevolezza del bambino. Senza questo “stile interattivo” non si trasforma il pensiero, né la sfera emotiva e

motivazionale e il bambino rimane chiuso davanti al mondo che sperimenta perché non ne è consapevole. Accanto a ciò si pone la mediazione di trascendenza, che rimanda a una visione un po’ filosofica. Noi non viviamo solo nel “qui e ora” ma siamo calati in una realtà con una prospettiva ben più ampia e con un significato più profondo, in una dimensione di tempo e spazio che vanno “oltre”. Questo per un bambino adottato può risultare difficile, a volte spaventoso, perché lo pone dentro una storia, dentro esperienze che farà ma anche dentro esperienze già fatte. La trascendenza crea apertura mentale, flessibilità nel trovare relazioni tra cose ed eventi, rende la persona modificabile. Ma come aiutare un bambino adottato, con esperienze fatte che fanno ancora male, a superare il rassicurante “qui e ora”? Ci viene in aiuto l’ultimo elemento che non può mai mancare in EAM: la mediazione di significato. È un criterio legato alla dimensione affettiva della mediazione che richiama la frase che mi disse quell’insegnante di tanti anni fa. Mediare il significato vuol dire rispondere a domande come “perché?”,

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Lorenza Del Vento

“per che cosa?”. Parte innanzitutto dal significato affettivo che noi mediatori attribuiamo alle cose e agli eventi per riflettersi nel significato che le medesime cose ed eventi possono assumere per il bambino. La

Laureata in Filosofia con indirizzo in Scienze Umane presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, perfezionata in “Relazioni famigliari: interventi clinici e sociali”, consulente famigliare e Mediatrice Feuerstein dal 2008, ha iniziato la sua esperienza professionale come educatrice presso un Istituto per minori a rischio. Dopo varie esperienze nell’ambito dell’editoria multimediale ritorna all’impegno professionale in campo sociale e nella formazione di volontari. Nel 2001 inizia la sua collaborazione con l’Associazione Insieme Intelligenti prima nell’ambito della progettazione sociale e, dal 2008, come Mediatrice Feuerstein e coordinatrice dei progetti di potenziamento e dello Spazio di Ascolto

mediazione di significato genera ottimismo, energia e questa forza propulsiva è ciò che serve per cambiare: per cambiare un modo di pensare, una modalità di affrontare i problemi, per cambiare una storia di

vita orientandoci insieme, adulto e bambino, verso la ricerca di significati nuovi che facciano sperimentare a bambini feriti nuovi modelli di amore e fiducia negli altri ma soprattutto in se stessi.


Chi è Reuven Feuerstein Il professor Reuven Feuerstein, ebreo nato in Romania nel 1921 e scampato ai campi di concentramento nazisti, incontra Jean Piaget e approfondisce le sue teorie sullo sviluppo cognitivo e sulla modificabilità cognitiva dell’essere umano. Con lui si laurea a Ginevra nel 1970, ottiene il dottorato presso l’Università della Sorbona di Parigi. Docente di psicologia all’università Bar Ilan di Tel Aviv e professore associato alla Vanderbilt University di Nashville, nel 1999 l’Università di Torino gli conferisce la laurea Honoris Causa in Scienza della Formazione. Dal 1992 esiste l’ICELP (International Center for the Enhancement of Learning Potential) ora chiamato Feuerstein Institute a Gerusalemme. Il centro si occupa di formazione, ricerca e riabilitazione per ciò che riguarda la modificabilità cognitiva. Viene raggiunto da famiglie di tutto il mondo che desiderano seguire la Metodologia Feuerstein per far emergere il potenziale cognitivo dei loro figli. Siti utili http:// en.feuerstein-global.org/ http://feuerstein-foundation.org www.insiemeintelligenti.it

associazione di Insieme Intelligenti è un’ obre 1999 in occasione volontar iato nata il 26 ott in Scienze della laurea honoris causa euven Feuerstein f. R pro il dell’educazione che di Tor ino. ha ricevuto all’Università lontar iato onlus È un’organizzazione di vo ltà di apprendimento che si occupa di diffico abilità cognitive secondo e del recupero delle dis della mediazione i principi della Pedagogia del prof. Feuerstein. via Ciriè, 9 - 20162 Milano tel.-fax 02 36535987 cell. 347 7195879 lun.-ven. 9.0 0 - 13.00

seg ret eri a@ ins iem ein telligenti.it ww w.i nsi em eintel ligenti.it

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Bibliografia - Come insegnare l’intelligenza ai vostri bambini - Nessia Laniado - Ed. Red - Come stimolare l’intelligenza dei vostri bambini - Nessia Laniado - Ed. Red - La disabilità non è un limite - R. Feuerstein, Y. Rand, R. Feuerstein Ed. Libri Liberi - L’apprendimento mediato - J. Kopciowsky Camerini - Ed. La Scuola - Potenziare la mente? Una scommessa possibile - P. Vanini - Ed. Vannini

- Migliorare se stessi per ottenere di più. Riflessioni teoriche e proposte operative secondo il pensiero di Reuven Feuerstein - J. Kopciowsky - Ed. Koinè - Il programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein - R. Feuerstein, R.S. Feuerstein, L. Falik, Y. Rand, Ed. Erickson - Migliorare i processi di apprendimento. Il metodo Feuerstein: dagli aspetti teorici alla vita quotidiana - M. Minuto, R. Ravizza, Ed. Erickson


scuola e adozione

da un lettore 26

Buongiorno. Leggo sul vostro sito, che spesso mi capita di frequentare come iscritta alla mailing list, che è sorto un dibattito abbastanza profondo sul tema della scuola che ha portato all’uscita della circolare del Miur sull’inserimento scolastico dei minori adottati. La nostra esperienza, come genitori adottivi di un bambino arrivato Italia a 8 anni, è stata costellata di dolore e insuccesso per quello che riguarda la scuola. Dolore per il senso di impotenza provato nel realizzare di non poter aiutare in alcun modo nostro figlio nel suo disagio, insuccesso nel constatare di non essere riusciti a far comprendere e quindi a far superare questo disagio nella complessa realtà scolastica. Devo precisare che i problemi non ci sono stati alla

scuola elementare dove anzi, l’intelligenza brillante di mio figlio è riuscita a superare il divario formativo con gli altri bambini, e dove le insegnanti sono state di grande supporto. Pensavamo quindi, erroneamente, di trovare la stessa disponibilità nel prosieguo, invece i problemi, già manifestatisi alla scuola media, sono diventati un vero e proprio calvario alle superiori. Non voglio soffermarmi sui particolari della storia, che ovviamente è personale, e come tale vale solo per la nostra esperienza. Abbiamo trovato conforto nei veri e propri momenti di disperazione parlando con altre famiglie adottive nella stessa situazione, e non sono poche. Infatti, se è nella età delicata dell’adolescenza che i ragazzi cominciano a fare i conti con i propri fantasmi, per

i ragazzi adottati questo tumulto interiore può diventare di una forza devastatrice, che tende a rimettere tutto in discussione. Per fortuna nel nostro caso, questo momento, a livello psicologico, è stato superato e nostro figlio ha ritrovato una sua serenità interiore. Ci resta però una profonda amarezza per il fallimento del mancato dialogo con l’Istituzione Scuola. Infatti, dopo vari tentativi che ci hanno portato a cambiare tre diversi istituti, ci siamo arresi all’evidenza. Evidenza che la scuola non possiede, allo stato attuale, le risorse per far fronte alle particolarissime esigenze di questi ragazzi ed era inutile e dannoso continuare a cercare un colloquio e una comprensione alla quale la scuola, per lo meno quella superiore, non è pronta. Non certo


per cattiva volontà, ma per mancanza di direttive chiare e strumenti formativi ad hoc per insegnanti e operatori. Questi ragazzi, già tanto provati dalla vita, hanno diritto a percorsi formativi che diano loro “pari opportunità”, poiché troppo spesso, quando sono già grandicelli e parlano bene l’italiano, ci si dimentica chi sono e da dove vengono. Mio marito ed io, sembra incredibile, ci siamo trovati quasi a dover “difendere” nostro figlio dalla condizione di adottato, perché lo si stava considerando un privilegiato …”visto da dove lo avete preso”… “come è stato fortunato”… e quindi, in un certo qual modo, poco meritevole di essere ulteriormente aiutato. Io credo che la Scuola, a proposito di adozione, debba “fare i conti” con sé stessa e capire se vuole

davvero essere strumento di integrazione piuttosto che di esclusione sociale. Spero quindi vivamente che tale percorso di approfondimento venga portato avanti con decisione e autentica volontà di aiutare i ragazzi adottati nella realtà scolastica. A GSD va un grande ringraziamento per tenere alto il focus su questo tema. © sabina betti

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giorno dopo giorno

Marta e Alberto

Di tutti i colori 28

Se mio figlio non parla di sua madre nei temi di scuola, mia figlia le procura grandi soddisfazioni nell’arte pittorica. La sua produzione grafica è continua, una galleria permanente che si arricchisce ogni giorno di nuove opere rigorosamente monografiche: lei e la sua mamma, vestite di mille colori. Compaiono ogni tanto (più che altro, penso, sotto minaccia di mia moglie o dietro suggerimento delle maestre) due altre figure (a volte più simili ad ectoplasmi che a esseri umani…) sullo sfondo: interrogata, la piccoletta dichiara trattarsi del fratello e del papà. Lo si intuisce anche dai colori che usa: il giallo per i capelli e l’azzurro per gli occhi. Ma rigorosamente in primo piano è lei a dominare lo spazio e vicino trova sempre posto la sua mamma. Lungi da me tentare interpretazioni psicologiche dei suoi disegni: materia trop-

po delicata e in continua evoluzione. Il test dell’albero non l’ho mai capito! E trovo per la verità un po’ astruse, come il nome dello psichiatra che le ha messe a punto, le interpretazioni delle macchie di Rorschach. Ricordo che un mio disegno da bambino fu “analizzato” da uno psicologo: disse che rivelava molta fantasia, il cosiddetto pensiero divergente; ma l’anno dopo lo stesso “esperto” incontrato nello stesso hotel dove passavo la settimana bianca con i miei, fece un commento del tutto opposto: il disegno fu giudicato stereotipato e banale e il commento tagliente mi ferì, frustrando definitivamente la mia vena artistica. L’episodio rientra nella categoria “traumi infantili” felicemente rielaborati… Fatto sta che, imbevuti come siamo di psicologia da banco, la tentazione di dare significati netti ai tratti ancora incerti dei

nostri bambini, è a volte insidiosa. Ricordo una coppia di amici, genitori adottivi di una bimba etiope ora adolescente, tutti preoccupati perché la figlia alla scuola materna si disegnava sempre rosa. Non accettava forse la sua identità? La pedagogista (sicuramente meno frettolosa e più competente del mio guru dell’hotel sulle dolomiti), consultata con un po’ di preoccupazione, analizzò con cura quel materiale pittorico, e disse loro sorridendo che in realtà i disegni della bambina erano molto espressivi. Raccontavano di una fase particolare dello sviluppo in cui era prioritario per lei appartenere alla sua famiglia e al suo nuovo mondo, fatto tutto di bambini e adulti con la pelle rosa. Ma di non temere: presto avrebbe afferrato la matita marrone per colorarsi. E come d’incanto la profezia si avverò poco dopo! Mia figlia invece si disegna


così com’è, nella sua diversità: occhi scuri grandi e capelli nerissimi e diritti, in contrasto con i colori chiari che usa per me e per il fratello. Il soggetto negli ultimi tempi è sempre molto simile (un po’ ossessivo?!?), con pochissime variazioni sul tema: la sua famiglia. Ultimamente ha aggiunto una sorta di arcobaleno che chiude tutti noi in un cerchio magico. Devo ammetterlo: una volta proprio io, il suo papà, sono diventato la star dell’asilo. La maestra mi ha accolto tutta orgogliosa del disegno della sua scolara più piccola - mia figlia per l’appunto - che a poco più di tre anni aveva ancora poca dimestichezza con foglio e pennarelli. Aveva disegnato, tanto per cambiare, se stessa con mamma e fratello, ma aveva inserito sopra le tre teste (io il dubbio ce l’ho: forse non aveva semplicemente trovato altro spazio nel foglio…) una quarta figura

© maddalena di sopra

umana, che aveva detto essere il suo papà, sdraiata a mo’ di ombrello di protezione per tutti. Non so se la maestra abbia effettive e raffinate competenze pedagogiche, ma questa volta voglio crederle: la sua lettura di un “padre-

matrioska” nei confronti della famiglia mi ha fatto sentire un papà molto fiero e compiaciuto!

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

La pedagogia della lumaca 30

Leggere, fare e raccontare Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di BarchettaBlu

Mi piace moltissimo l’espressione bisogna perdere tempo per guadagnarne. Spesso ho l’impressione che, soprattutto nel mondo adulto, ma anche con i bambini, si tenda a considerare tempo perso un tempo lento; invece, un tempo rallentato, è adatto a favorire lo sviluppo della creatività e dei naturali processi di apprendimento. A casa come a scuola i bambini hanno bisogno di rallentare i ritmi e di apprendere nel rispetto dei loro tempi. L’ascolto reciproco tra adulti e bambini è la base di una conoscenza serena e di una relazione positiva. E ciò necessita

di molto tempo. L’adulto legge una storia, il bambino commenta le situazioni; l’adulto propone una attività creativa e il bambino esprime le proprie emozioni nel farla. Parlare con i bambini significa farsi conoscere e conoscere la loro storia; raccontarsi le vicende quotidiane e conversare sui propri sentimenti e sui propri stati d’animo permette una crescita di entrambi. I ritmi sempre più frenetici costringono invece genitori ed educatori a tempi sempre più ristretti, catapultando tutti in realtà artificiali che non tengono conto dei reali bisogni di ciascuno. Nelle relazioni educative il perdere tempo a parlare e la capacità di ascolto rappresentano i fondamenti per l’instaurarsi una necessaria empatia. Dopo tanti anni di insegna-

mento nella scuola d’infanzia, il dirigente scolastico Gianfranco Zavalloni ha voluto elaborare una profonda riflessione su questi tempi. Ha così scritto e poi pubblicato La pedagogia della lumaca, derivante da studi approfonditi ma soprattutto da un contatto continuativo con il mondo della scuola. Nella sua biografia si racconta della sua infanzia felice passata a giocare con la terra e l’acqua, con un tavolo da falegname dove potersi costruire giochi e giocattoli. In tutto il suo lavoro, Zavalloni ha cercato di intraprendere un nuovo cammino educativo e di rispondere ad alcune domande: Sapremo ritrovare tempi naturali? Sapremo attendere una lettera? Sapremo piantare una ghianda sapendo che saranno i nostri pronipoti a vederne la ma-


estosità secolare? Sapremo aspettare? Nel contempo l’autore ha chiesto a tutti gli adulti di riflettere sulla necessità di adottare strategie didattiche di rallentamento. Sembra che la famiglia, la scuola e più in generale la società, spingano i bambini alla velocità e alla competizione, educandoli fin dai primi anni di vita ad un modo di vivere senza attesa, in una dimensione del tutto e subito. I nostri bambini ancora una volta ci insegnano invece a non farsi prendere dalla fretta e a osservare la realtà con meraviglia. Tutto ciò è possibile, ma ha bisogno di un tempo lungo e lento, di un tempo che permetta ancora di stupirsi e di apprezzare le piccole cose della vita. Perdere tempo per darsi tempo. Perdere tempo per parlare, per conoscersi,

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per giocare, per crescere. Perdere tempo per guadagnare tempo, perché la velocità si impara nella lentezza. Anche secondo Zavalloni, per apprendere bisogna giocare, studiare, fare. In particolare la scuola dovrebbe essere un concentrato di esperienze, una grande avventura che può essere vissuta come se fosse un viaggio, un libro da scrivere insieme, uno spettacolo teatrale, un orto da coltivare, un sogno da colorare. Quando allora ci fermiamo a leggere un libro con i bambini, quando poi facciamo una attività manuale con loro, quando ci diamo il tempo che serve per fare tutto questo, allora forse attuiamo almeno in parte il prezioso e saggio insegnamento di Zavalloni. Sempre di più le scienze dell’educazione si rivolgono ad una pedagogia del fare e del creare piuttosto che a quella del comprendere e dell’interpretare. Inventare delle situazioni che portino i bambini a nuove esperienze, organizzare situazioni aperte dove i bambini si possano muovere liberamente attratti da materiali e spazi stimolanti, permette di far emergere i veri bisogni. Il bambino deve poter fare

delle scelte autonome anche nei piccoli eventi quotidiani. Per esempio, ritornando ai nostri momenti di lettura e di fare creativo, il bambino deve poter scegliere il libro che più lo incuriosisce e l’attività che più stimola la sua fantasia. Naturalmente il fare creativo si può realizzare solo in un clima di sicurezza affettiva e di relazione significativa. Possiamo leggere un colorato albo illustrato e giocare con la farina gialla, i colori a dita o le costruzioni di legno, ma dobbiamo sempre ricordarci che, ancora più del cosa, è importante il come si fa quella cosa. Zavalloni racconta anche di come a scuola e a casa, in giardino o in terrazza si possa coltivare un piccolo orto. Lui li chiama anche orti di pace, in contrapposizione agli orti di guerra ma in contrapposizione anche alla frenesia a favore del rallentamento. Seminare e coltivare sono esperienze altamente significative che al tempo stesso sviluppano abilità manuale, conoscenza scientifica e pensiero logico. Ma nell’ottica della pedagogia della lumaca servono soprattutto per far riflettere sui tempi dell’attesa e sulla capacità di previsione.

Nell’albo illustrato Vorrei essere un fiore, Eric Battut affronta proprio il tema della natura e della crescita utilizzando parole e immagini semplici. Si racconta di una piccola piantina nata un giorno di primavera. La piantina amava il sole, il cielo azzurro e l’aria fresca e a farle compagnia un bel momento spuntò un fiore che fu subito attorniato da farfalle coloratissime. Arrivarono l’estate, l’autunno e l’inverno; neanche con la nuova primavera alla piccola piantina spuntarono dei fiori. La piantina era sempre più triste, ma con molta pazienza seppe aspettare; un giorno aprì gli occhi e si accorse di essere molto cresciuta, di essere diventata un albero con foglie e fiori e di avere attorno a se un sacco di farfalle. Con i bambini si può fare un piccolo esperimento: in poco tempo potranno ammirare la trasformazione del seme in una vera e propria piantina. Serve un piccolo contenitore di plastica, del cotone e dei semi di mela, dei fagioli secchi o dei ceci. Bisogna appoggiare nel contenitore l’ovatta leggermente bagnata e appoggiare sopra i semi distanziati fra di loro di qualche centimetro l’uno


Bibliografia La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e solidale. G. Zavalloni, EMI, 2008 Vorrei essere un fiore. E.Battut, Bohem Press, 2003 Link www.pedagogiadellalumaca.org www.scuolacreativa.it

perdiamo tempo “per...guadagnarne! dall’altro. Poi si deve mettere il contenitore in un posto dove arriva la luce solare. Mettendo la piantina al buio crescerebbe priva del colore verde poiché non potrebbe captare l’energia luminosa che serve alle piantine per svolgere la fotosintesi clorofilliana. Che bello alzarsi la mattina e controllare quanto il piccolo filo verde sia cresciuto. Che emozione parlare della crescita della piantina, di quando era un seme e del dentino che sta spuntando in bocca al bambino. Che fantastica occasione per parlare con i propri figli e i propri alunni di come cambiamo e ci modifichiamo quotidianamente.

I bambini, dal canto loro, potranno sentirsi liberi di raccontare di come fino a ieri avevano paura di addormentarsi da soli e di come ora riescono a dormire anche al buio. I bambini potranno identificarsi con il piccolo filo verde che cresce e si modifica. È facile intuire come i bambini si possano identificare nella piccola piantina. Ma non ci deve sfuggire di come con la lettura del libro e l’esperimento della trasformazione, noi adulti siamo riusciti a creare un’imperdibile occasione di scambio e di condivisione. E allora perdiamo tempo per guadagnarne!


sociale e legale

Angelamaria Serpico Avvocato specializzato in diritto di famiglia e diritto minorile

Adozioni: miti, semplici e plenarie 34

L’adozione mite, oggetto di varie proposte legislative succedutesi nel tempo e di un esteso e non univoco dibattito da parte dei tecnici, non è stata ancora trasfusa in legge ma è avvicinata, nella sua regolamentazione, all’art. 44 della legge vigente in materia di “Adozione in casi particolari”. Con questo tipo di adozione l’adottante assume gli obblighi di istruzione, mantenimento e assistenza nei confronti dell’adottato, la titolarità e l’esercizio della patria potestà su di lui, ma non l’usufrutto legale sui suoi beni; ha l’obbligo di effet-

tuare l’inventario sui beni del minore, con poteri in tutto e per tutto coincidenti con quelli del tutore. L’adottato, invece, conserva diritti ed obblighi nei confronti della famiglia originaria, e, contemporaneamente, li acquista verso quella adottiva. Ha diritto di successione sia rispetto alla famiglia originaria che rispetto alla famiglia adottiva (mentre l’adottante non diventa suo successibile o erede); conserva il cognome originario, ma con l’anteposizione di quello dell’adottante. Pur in permanenza dei divieti matrimoniali, non ha rap-

porti giuridici con i parenti dell’adottante (ma la regola vale anche per l’adottante nei confronti dei parenti dell’adottato). Lo stato di figlio adottivo può essere revocato giudizialmente per indegnità dell’adottato (art. 51 L. 4/5/1983 n. 184), quando questi abbia commesso gravi delitti nei confronti dell’adottante o della sua famiglia, ovvero può essere revocato per indegnità dell’adottante (art. 52 legge cit.) o, infine, su richiesta del pubblico ministero quando vi sia violazione degli obblighi gravanti sugli adottanti.


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Dallo sportello

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Domanda Vorrei capire - persone unite al minore da parentela fino al seche differenza c’è tra l’asto grado, ovvero da un dozione in casi particolari rapporto stabile e duex art. 44, definita adozioraturo quando il minore ne non legittimante e l’asia orfano di padre e di dozione mite. Grazie. madre; Risposta L’adozione in - il coniuge nel caso in cui il minore sia figlio ancasi particolari è discipliche adottivo dell’altro nata dall’art. 44 della legconiuge; ge n. 184/83 così come sostituito dalla legge n. - i minori che si trovino nelle condizioni indica149/2001, e tutela, alla te dall’art. 3 della legge lettera a) e b), il rapporto n. 104/92, e siano orfani che si crea nel momento di entrambi i genitori; in cui il minore viene inserito in un nucleo familiare - constatata impossibilità di affidamento preacon cui in precedenza dottivo. ha già sviluppato legami affettivi, mentre alle lette- Nei casi di cui ai nure c) e d), i minori che si meri 1, 3 e 4 l’adoziotrovino in particolari situa- ne è consentita oltre che ai coniugi anche a zioni di disagio. Le ipotesi in cui si può chi non sia coniugato. far ricorso a questo tipo I legami con la famiglia di istituto sono tassati- di origine permangovamente previste dalla no e in tale tipo di adolegge e di norma, tranne zione gli adottandi non alcune eccezioni, l’adot- acquistano alcun diritto tato antepone al proprio su eventuali beni del miil cognome dell’adottan- nore adottato. Il minore, invece, è equiparato ai te. Presupposto fonda- figli legittimi e concormentale è che i genitori re come ogni altro figlio dell’adottando prestino il nella divisione ereditaria proprio assenso, qualora dei beni degli adottanti. siano in condizioni tali da Va, infine, precisato che fornirlo. I casi contemplati a differenza dell’adozioprevedono tale opportu- ne ordinaria l’adozione in casi particolari può, nei nità per:

casi previsti dalla legge, essere revocata. La cosiddetta “adozione mite” non è disciplinata dal nostro ordinamento ma è stata di fatto applicata nel distretto del Tribunale per i Minorenni di Bari sotto forma di sperimentazione in tutti quei casi in cui il minore sostanzialmente abbandonato si trovi, oltre al tempo massimo previsto dalla legge, in affidamento familiare per il quale non è possibile un rientro nella famiglia di origine, perdurando lo stato di difficoltà. In queste ipotesi, valutato che tra il minore e gli affidatari si è instaurato un solido rapporto affettivo, tale che l’allontanamento possa essere pregiudizievole al minore, viene dichiarato giudizialmente lo stato di semiabbandono permanente. Questa situazione non interrompe il rapporto di filiazione tra minore e genitore di origine, ma ne aggiunge un secondo, quello con gli adottanti, cui spetta naturalmente anche la potestà genitoriale. Da un punto di vista giuridico l’adozione cd. mite è considerata una va-


riante dell’adozione in casi particolari, di cui si è detto sopra ed alla quale più di ogni altro istituto si avvicina. Il dibattito giuridico è tuttavia aperto, in quanto l’applicazione tout court dell’art. 44 legge cit. non presenta sufficienti garanzie per tutte le persone coinvolte nella vicenda: è quindi auspicata una sollecita regolamentazione giuridica di questa fattispecie. Altra situazione particolare, che viene a verificarsi nell’ambito delle adozioni internazionali, è quella corrispondente agli istituti dell’adozione semplice e dell’adozione plenaria, la cui terminologia è estranea al diritto italiano, ma il cui contenuto è invece assimilabile all’adozione in casi particolari e all’adozione legittimante: Domanda Ho letto che vari paesi permettono sia l’adozione semplice che la plenaria. Può spiegarmi la differenza tra le due? È possibile adottare internazionalmente un bambino in entrambe le maniere? Grazie per il chiarimento.

Risposta La differenza sostanziale tra i due tipi di adozione sta nel fatto che con la cosiddetta adozione semplice non vengono recisi i legami familiari con la famiglia di origine, mentre l’adozione plenaria è legittimante, nel senso che il minore adottato acquista lo status di figlio legittimo. In questo senso potrà vedersi una somiglianza con i nostri istituti giuridici dell’adozione dei minori e dell’adozione in casi particolari ex art. 44 L. 184/1983. Venendo alla seconda parte del Suo quesito, la risposta è data dall’art. 32 della Legge sulle adozioni succitata, in base al quale, affinché l’adozione dichiarata presso lo Stato estero abbia efficacia in Italia è necessario: - che dalla documentazione trasmessa dall’autorità del Paese straniero emerga la situazione di abbandono del minore e la constatazione dell’impossibilità di affidamento o di adozione nello Stato di origine; - che nel Paese straniero l’adozione determini per l’adottato l’acquisi-

zione dello stato di figlio legittimo e la cessazione dei rapporti giuridici fra il minore e la famiglia di origine. Qualora ciò non avvenga (perché, appunto, l’adozione non è legittimante) l’adozione è comunque efficace in Italia se i genitori naturali abbiano espressamente consentito al prodursi di tali effetti. Nel caso poi che nel Paese straniero l’adozione non produca la cessazione dei rapporti giuridici con la famiglia di origine, la stessa può essere convertita in una adozione che produce tale effetto se il Tribunale per i Minorenni la riconosce conforme alla Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993. Solo in caso di riconoscimento di tale conformità è ordinata la trascrizione.” Tra i Paesi le cui legislazioni prevedono questi istituti si ricordano la Bosnia, il Costa Rica, le Isole Mauritius, la Francia.

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trentagiorni

Le adozioni internazionali nel 2012 Nel corso del 2012 la Commissione ha rilasciato l’autorizzazione all’ingresso in Italia per 3106 bambini provenienti da 55 paesi, adottati da 2469 famiglie residenti in Italia. Rispetto al 2011, si evidenzia dunque un calo piuttosto consistente, pari al 22,8% per quanto riguarda il numero di minori adottati, e al 21,7% per quanto riguarda le coppie adottive. Tale flessione è dovuta principalmente al rallentamento delle attività constatato in alcuni paesi: in Colombia, a causa della revisione delle procedure dichiarative dello stato di abbandono, che ha necessariamente comportato un rallentamento delle procedure di adozione; in Bielorussia, stante il quasi completato esaurimento delle procedure instradate nel 2009; in Vietnam, in India e in Polonia, in conseguenza della progressiva ma non ancora

completa riattivazione delle procedure dopo l’entrata in vigore delle rispettive nuove normative interne; in Ucraina, a causa di ricorrenti difficoltà procedurali interne. Di segno positivo è il consolidamento della collaborazione con la Repubblica popolare cinese, il Burkina Faso, il Cile, la Repubblica democratica del Congo. Il rapporto statistico annuale sarà disponibile sul sito della Commissione nel mese di febbraio. Fonte: Commissione adozioni internazionali Sentenza storica: “I bambini crescono bene anche nelle famiglie gay” Basta pregiudizi: un bambino può crescere in modo equilibrato anche con una coppia omosex. La sentenza della Corte di cassazione ha legittimato l’affido di una bimba a una coppia formata da due donne. La presidente della prima sezione civi-

le, Maria Gabriella Luccioli – nota per importanti innovazioni nel diritto di famiglia – afferma quanto «il mero pregiudizio possa essere dannoso per lo sviluppo di un minore». Così è stato respinto il ricorso di un padre musulmano rivoltosi alla suprema corte per contestare la sentenza d’appello (luglio 2011) che aveva affidato la figlia alla ex compagna. Il padre lamentava che la madre della bambina convivesse con un’altra donna invocando l’art. 29 della Costituzione (famiglia come società naturale fondata sul matrimonio) e il diritto del minore a essere educato secondo i principi religiosi di entrambi i genitori. Sulla relazione omosessuale dell’ex convivente, la Cassazione ha sottolineato come «alla base delle doglianze del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, ma solo mero pregiudizio». Esultano le associazioni omosex


mentre è scontato lo sconcerto da parte della Conferenza episcopale: «Non si può costruire una civiltà sui tribunali», dice monsignor Domenico Sigalini, presidente della commissione Cei per il laicato. I politici restano divisi: se, infatti, il presidente del Pdl al Senato Maurizio Gasparri reputa la sentenza “un precedente molto pericoloso in quanto apre ai figli nelle coppie gay sostituendosi al legislatore giacché nel nostro paese non è possibile dare in affido un bambino a coppie dello stesso orientamento sessuale”, da un altro esponente del Popolo della libertà arriva un giudizio opposto: «Questa sentenza è un passo avanti perché lo Stato laico deve ascoltare i cittadini e nessun altro», sostiene Giancarlo Galan. Medici e specialisti invitano a valutare di volta in volta ma il Movimento italiano genitori invoca «i principi di natura».

Mentre la polemica si infiamma, le associazioni omosessuali chiedono alla futura maggioranza di legiferare in merito: “Quello di oggi è un pronunciamento istituzionale storico che dà un assist formidabile alla futura maggioranza per legiferare finalmente per il matrimonio tra persone dello stesso sesso e la piena uguaglianza delle famiglie”, afferma il presidente dell’Arcigay Flavio Romani. In Europa l’adozione per gli omosessuali è legale in diversi paesi: Gran Bretagna, Spagna, Svezia, Belgio, Olanda. Nel 2008 la Corte di Strasburgo ha stabilito infatti che anche i gay hanno diritto alla genitorialità, lasciando ai paesi dell’Unione la libertà di decidere. Fonte: larepubblica.it DOPO IL BRACCIO DI FERRO CON GLI USA. Mosca sfida il no alle adozioni: «Giù le mani dai bimbi» «Vergogna» e «Putin è un mascalzone». Sono gli

slogan gridati da diverse migliaia di manifestanti scesi un piazza ieri a Mosca per protestare contro l’approvazione della legge che blocca l’adozione di bambini russi da parte di cittadini americani. Una risposta, quest’ultima, alla normativa Magnitski approvata in Usa per bandire i dirigenti russi ritenuti coinvolti nella sospetta morte in cella dell’omonimo avvocato dopo che aveva denunciato una truffa da 230 milioni di dollari. Sfidando le temperature polari, i manifestanti, che hanno risposto all’appello dell’opposizione, si sono riuniti nella piazza centrale Pushkin e hanno accusato platealmente Putin di aver fatto diventare i bambini pedine in una disputa politica. Fonte: Ilgiornale.it


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