Adozioni e dintorni - GSD Informa giugno-luglio 2013

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - giugno/luglio 2013 - n. 6

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giugno/luglio 2013 | 006

GSD informa

di Simone Berti

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editoriale

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scuola e adozione

Gli Istituti Professionali di Raffaella Ceci

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L’Insegnante perfetto di Emanuela Tomè

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A scuola con la mia storia di Livia Botta

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giorno dopo giorno

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Dagli Appennini alle Ande: un fantastico viaggio in Cile - 2 di Carmine Pascarella e Federica Sassi

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Parole dette e non dette di Marta e Alberto

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leggendo

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trentagiorni

Sono debitrice al Mali di Monia Isidori

Leggere, fare e raccontare di Marina Zulian

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Pea Maccioni, Lecce; Paolo Faccini, Milano

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro;

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze

abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Simone Berti

Compiti per l’estate

editoriale

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Dopo una lunga attesa, la Ministra per l’Integrazione Cécile Kyenge ha assunto formalmente la presidenza della Commissione per le Adozioni Internazionali a seguito dell’attribuzione della delega da parte del Presidente del Consiglio Enrico Letta. Le avremmo rivolto comunque i nostri auguri per il compito importante e gravoso che si è assunta, ma lo facciamo con particolare piacere ringraziandola per la preziosa lezione che ci ha consegnato con la semplicità che connota i grandi insegnamenti Di fronte ai continui insulti provenienti, ci piacerebbe dire da squilibrati, ma dobbiamo poi aggiungere da rappresentanti dello stato, consiglieri comunali ed europarlamentari ha dichiarato “Le offese non toccano me, ma tutti”. Sì, quelle offese toccano tutti e non da spettatori infastiditi e sconvolti nella propria sensibilità; sono offese che colpiscono ognuno di noi in quanto ognuno di noi rappresenta innanzi tutto una singolarità non assimilabile. Guai se dovessimo non sentirci profondamente inclusi in quelle offese e in quei gesti di violenza incivile. Nessuno escluso: pensiamo sempre che il nostro compito sia soltanto la solidarietà, la tolleranza, la partecipazione verso chi è diverso, minore o in difficoltà ma finché non ci sentiamo davvero noi quel diverso, quel minore, quella persona fragile e indifesa resteremo distanti e non potremo assumerci fino in fondo il compito di portare la sua voce in ogni gesto, in ogni parola scritta o proferita. Ci vuole una propedeutica di civiltà che dovrebbe partire dalle famiglie, (e in prima linea potrebbero stare famiglie “maestre” di differenze come quelle adottive), e dalla scuola. Famiglie e scuola tuttavia sembrano loro stesse evanescenti, assenti. Integrazione e razzismo mi hanno riportato a qualcosa che avevo ripreso proprio qui tempo fa da Ben Jelloun che ricordava alla figlia come il razzismo sia pericoloso proprio in quanto banale perché agisce in modo silente. Lo attraversiamo e lo facciamo nostro senza neanche accorgercene, il razzismo, perché la sua semplicità passa attraverso quel senso comune a cui spesso siamo felici di aderire in maniera troppo frettolosa, passa


psicologia e adozione

attraverso la diffidenza ma anche la curiosità con cui accostiamo il diverso e la caparbietà con cui lo rifuggiamo anche semplicemente cercando di accelerare il processo di inserimento e di integrazione dei nostri figli. Desideriamo prepotentemente essere assimilati. E di questo desiderio di assimilazione parlano indirettamente alcuni articoli sulla scuola che trovate in questo numero che si interrogano proprio sulla tensione ad assoggettare sempre di più tutto a misurazioni oggettive sia nel modo di recepire il voto sia nella scelta degli indirizzi scolastici. E’ estate. Il nostro compito per l’estate dovrebbe essere quello di darsi una tregua. Di uscire da ciò che ci trascina in un tempo che chiamiamo tiranno per poi a poco a poco imparare a farci tiranno con lui. Così facendo non riusciamo più a rispettare e riconoscere l’importanza di perder tempo, della lentezza, del gioco, della leggerezza. Abbiamo dimenticato rapidamente che se educare è uno dei mestieri impossibili lo è anche perché non si tratta di guadagnare tempo ma di perderne, imparare a perder tempo per guadagnarne, scriveva Rousseau, e non impartire oggi la lezione che pensate di poter rinviare senza danno a domani. Quante volte invece ci intestardiamo a riempire il tempo libero dei nostri figli di giochi istruttivi e intelligenti in modo che, se proprio deve giocare, almeno ne tragga un vantaggio! Così voglio chiudere questo editoriale con l’elogio di un bambino di cui ho letto in questi giorni in un bel numero di “aut aut” intitolato proprio “Scuola impossibile”. Si racconta di un bambino di una scuola materna sottoposto a un test psicologico che prende un cucchiaio ricevuto e invece di introdurlo nella tazza se lo mette in una scarpa. Nella preoccupazione generale degli operatori, alla richiesta della ragione di quella scelta, lui tranquillamente risponde “L’ho fatto per ridere!” Siamo così sicuri che anche nella scuola si possa così facilmente rinunciare a ridere? Buona estate, buon riposo e buona lettura!

AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a: rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione.

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psicologia scuola e adozione 6

di Raffaella Ceci

Gli Istituti Professionali

L’Istruzione Professionale ha vissuto periodi di grandi mutazioni negli ultimi 30 anni. Quando ho iniziato la mia carriera di insegnante, nel 1985, c’erano per lo più corsi biennali o triennali, che si concludevano con un diploma di qualifica statale. La concorrenza con i corsi regionali, che rilasciavano solo attestati con validità regionale e non statale, era comunque forte. Così, a livello sperimentale, sono partiti i primi percorsi post-qualifica, al termine dei quali, conclusi i cinque anni di scuola, si poteva conseguire quello che allora si chiamava “Diploma di maturità”, ora convertito in “Diploma di Stato”. L’eccessiva somiglianza con i corsi regionali ha portato il Ministero della Pubblica Istruzione a modificare i quadri orari ed il monte ore degli Istitu-

ti Professionali, facendoli assomigliare più a una versione semplificata degli Istituti Tecnici. E’ stato aumentato il peso delle materie culturali di base (italiano, storia, matematica, scienze, diritto...) rispetto alle materie professionalizzanti nel primo biennio, proporzione poi invertita nelle classi successive, per permettere agli studenti che decidevano di fermarsi dopo il terzo anno di avere comunque buone competenze da spendere nel mondo del lavoro, e sono state introdotte delle ore dedicate al recupero ed all’approfondimento degli argomenti trattati, nonché un periodo di stage in azienda obbligatorio a partire dal terzo anno. Nel frattempo, la percentuale di studenti che interrompeva il percorso di studi dopo la qualifica si riduceva sempre più, soprattutto

in alcune regioni, a causa della difficoltà nel trovare un posto di lavoro. Il carico orario settimanale, però, era quasi improponibile: 40 ore settimanali, anche se organizzate con materie di laboratorio, era veramente troppo per i nostri studenti. Concludo l’excursus storico (saltando un paio di altre sperimentazioni) con la riforma Gelmini, che ha portato il monte ore settimanale a 32 ore ed ha cercato di rendere il primo biennio di scuola superiore abbastanza simile tra i vari ordini di scuola, in modo da permettere ad uno studente che si accorge di aver intrapreso un percorso sbagliato il passaggio ad altra scuola sostenendo un numero limitato di esami integrativi. Quanto ho appena scritto potrebbe dare una errata impressione sulla mia opinione in me-


In Lombardia, con la riforma Gelmini, sono stati sospesi gli esami di qualifica alla fine del terzo anno, quindi anche gli Istituti Professionali hanno ormai, dall’anno scolastico 2012/2013, un percorso quinquennale che porta direttamente al Diploma di Stato. Così sono stati attivati, in collaborazione con la Regione, dei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale, che permettono di conseguire una qualifica di II livello europeo alla fine del terzo anno, una qualifica di III livello alla fine del quarto anno e poi, comunque, di accedere agli esami per conseguire il Diploma di Stato. Questi corsi hanno un’impronta più professionalizzante e preparano a settori specifici del mondo del lavoro. Per esempio, nella nostra scuola abbiamo attivato il corso di “Sartoria” e di “Accoglienza e promozione turistica per strutture ricettive”, cioè i futuri receptionist negli hotel.

rito alla riforma negli Istituti Professionali, ma non è questo il momento per parlarne. Finora si è parlato di problemi di “carte e normativa”, ma non si è parlato dell’elemento che rende così particolare ed avvincente lavorare in un Istituto Professionale: gli studenti! Studenti per lo più demotivati, spesso con un livello basso di autostima, in parte perché trattati alle medie come “quelli che possono al massimo fare un professionale”, in parte perché, già in prima, ripetenti o pluriripetenti dopo altre esperienze fallimentari in altri istituti. Cos’ha comportato la riforma a cui avevo accennato nel paragrafo precedente? Molti genitori, vedendo la minima differenza di quadro orario fra un istituto professionale ed un istituto tecnico di simile indiriz-

zo, preferiscono iscrivere i figli all’indirizzo tecnico, spesso contravvenendo alle indicazioni date dai professori della scuola secondaria di primo grado e non sempre questa decisione porta a risultati soddisfacenti. E così eccoli, i miei studenti di prima, me li ricordo a settembre, quando li ho incontrati per la prima volta. “Buongiorno, sono la prof di matematica”, ho scritto il mio cognome alla lavagna e mi sono voltata a guardarli ed ho pensato: mamma mia quanti sono! Già, erano 32, perché fra un taglio e l’altro nel settore istruzione uno degli effetti è stato l’aumento del numero di alunni per classe. Bisogna approfittare dell’elemento sorpresa e farli parlare intanto che mi stanno studiando, perché poi dalla seconda ora

me li dovrò conquistare e portarli, loro malgrado, a studiare…. MATEMATICA! Già, la materia non aiuta molto, però…. Si presentano, ed alla fine mi ritrovo un gruppo variegato con età variabile dai 13 (ha anticipato l’inizio della scuola alle elementari) ai 17 (quasi 18, a dire il vero); 17 alunni italiani e 15 stranieri, fra i quali un gruppettino di alunni neoarrivati, che parlicchiano italiano ma probabilmente non sono in grado di studiare da soli. Solo 10 alunni arrivano dalla terza media e fra gli altri 22 ben 12 sono pluriripetenti. Uau, come inizio non è male. Ma lo dicevo anche prima: il contatto con questi allievi è la parte stimolante del mio lavoro, perché per lo più sono brillanti, intelligenti, intuitivi … devono solo scoprire di esserlo! Però sono anche pigri e

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svogliati e, mi raccomando, che non ci siano troppi compiti da fare a casa! Sono monete a due facce: quando entri in classe dipende quale faccia decidono di farti vedere, e devi sperare che non siano compatti sulla faccia “oggi vacanza” perché poi diventa un’impresa smuoverli. Chi, come me, dopo così tanti anni rimane ancora nell’Istruzione Professionale è perché ha imparato a tener conto di entrambe queste facce e cerca di ottenere sempre il meglio da loro. Sono convinta che non esistano alunni normodotati incapaci di capire la matematica: ci sono alunni che si impuntano e che decidono autonomamente di non volerla studiare, ma questo credo valga un po’ per tutte le discipline. Ma cosa cambia nell’insegnamento in un Istituto Professionale rispetto agli altri Istituti Superiori? Stiamo insegnando agli studenti una Professione, per cui la parte applicativa di ogni disciplina deve pre-

valere sulla parte teorica. Che cosa intendo? Se spiego i sistemi di equazioni di primo grado tanto per far vedere come si risolvono, a loro non rimarranno mai in mente. Se scoprono, però, che con i sistemi di primo grado possono calcolare quale tariffa del cellulare è più conveniente, allora conquisto la loro attenzione e, probabilmente, anche in futuro ricorderanno il procedimento utilizzato. Ma stiamo parlando di una materia “dell’area comune”: matematica c’è in tutte le scuole, approfondita o affrontata in modi diversi, ma non è nulla di nuovo sotto il sole. Quello che rende gli Istituti Professionali speciali, a mio avviso, sono le materie di indirizzo. Nel nostro Istituto ci sono gli indirizzi “Servizi Commerciali” e “Moda ed Abbigliamento”. Nei “Servizi Commerciali” si impara a gestire tutta la documentazione che passa in un ufficio, non ultima la contabilità. Lo stage a partire dalla terza permette

agli studenti di vedere “sul campo” quello che hanno studiato e capire se è il tipo di attività che vorranno poi svolgere per gli anni a venire, per potersi mantenere. Ma il corso del quale sono particolarmente fiera è il corso di Moda: le nostre studentesse (sono per lo più femmine) iniziano la prima classe spesso senza saper tenere un ago in mano, ed imparano a disegnare un figurino, a immaginarsi un modello e a riportarlo in piatto su un cartamodello, per poi tagliare la stoffa e realizzare il capo finito. In prima studiano le gonne, per poi passare a pantaloni, camicie, bluse, ecc fino ad arrivare all’abito da sposa al quinto anno. Ovviamente realizzano capi per loro stesse e per i famigliari e immagino che questo dia molta più soddisfazione che risolvere correttamente un’espressione di matematica o impostare correttamente una fattura.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.


scuola e adozione

Emanuela Tomè

L’insegnante perfetto 10

Da quando sono ricomparsi i voti anche alla scuola primaria, la consegna delle pagelle è diventata per me un rituale imbarazzante e piuttosto deprimente: quest’anno osservo i nuovi genitori della prima spulciare i numeri per accertarsi se il loro bambino si è guadagnato o meno il premio promesso, confronti fra risultati, delusione se il proprio figlio non è tra quelli che hanno conquistato il 10. Mesi di lavoro scolastico in un clima di cooperazione, in cui ciascuno ha dato a suo modo il meglio di sé, in cui abbiamo insieme condiviso la gioia e la fatica di ampliare l’orizzonte, di superare ostacoli, di realizzare assieme cose importanti, di scoperte, si risolvono in considerazioni di tipo mercantile: tu quanti 9? E tu quanti 10? D’istinto mi viene da pren-

dermela con i genitori: perché è mai possibile - mi chiedo - che nonostante che in assemblea di classe abbia messo in chiaro che ritengo il voto opinabilissimo, che siamo obbligati a usarlo ma che è il caso di non darci tutta questa importanza, che quello che conta è il percorso che ogni bambino fa, che ciò che dobbiamo guardare è quello che davvero ha imparato, che la più grande sconfitta sarebbe trasmettere ai bambini il messaggio che si impara solo per avere un bel voto, che un numero non può descrivere la complessità di una persona… è mai possibile che, molti di loro, quello che guardano alla fine è il voto? Però a bocce ferme mi rendo conto che questi genitori sono colpevoli solo in parte. Negli ultimi tempi nella

realtà della scuola sembra sia avvenuta una mutazione che ha investito sia il fare scuola sia l’idea profonda di ciò che è un bambino e la sua educazione. In contraddizione con ciò che dicono i documenti ufficiali come le “Indicazioni nazionali per il curricolo” ispirati a principi pedagogici quali la “centralità della persona” e l’aspirazione a “un nuovo umanesimo”, si è negli anni imposta una prassi intrisa di tecnicismi, si è verificata una rincorsa alla quantificazione, all’uso di griglie, di test, alla traduzione in termini numerici dei cosiddetti “esiti” degli apprendimenti. La scuola ha iniziato a parlare una lingua sempre più “ingegneristica” e a lasciarsi sedurre da quello “scientismo” postmoderno che ha pervaso molti altri ambiti che si occupano delle persone.


Nella mia quotidianità di insegnante di scuola primaria tocco con mano ogni giorno l’importanza dell’atto della valutazione e la necessità che i bambini avvertono di avere un riscontro, rispetto al loro operato, da parte di coloro che considerano i loro riferimenti formativi. Fin da piccoli i bambini intuiscono che “saper valutare” è in fondo l’essenza stessa del diventare competente in qualche ambito. E’ per questo che nella mia classe mi sembrano fondamentali, ad esempio, quei momenti in cui appendiamo tutti i disegni prodotti per illustrare un libro fatto da noi e dedichiamo del tempo a valutarli insieme: quali sono, e perché, le parti meglio riuscite e quali invece i punti deboli, e ascoltiamo chi ha idee e suggerimenti da dare per migliorare questo o quel disegno, e

ciascuno è interessato a far sì che quei lavori siano davvero ben fatti perché il libro è di tutta la classe. “Il cavallo non mi è venuto bene perché io non sono bravo a fare gli animali…”. Una dichiarazione come questa può aprire tutto un discorso su cosa significhi “disegnare bene” e posso intervenire mostrando quanti modi diversi ci siano di rendere graficamente un cavallo, che non è solo il tratto realistico quello più efficace e possiamo finire ad osservare il cavallo di “Guernica”, e molto altro ancora. Questo tipo di valutazione non è mai disgiunta dall’apprendimento, che in fondo non è che un cercare, e un tentare di orientarsi in territori sconosciuti; è quella che il lessico pedagogico chiama “valutazione formativa”. Nella quotidianità scola-

stica ci troviamo, però, ad aver a che fare anche con altri modi di imparare, dove il bambino ha bisogno di esercitare delle abilità per poterle padroneggiare: imparare a decifrare un testo scritto, scrivere in corsivo, memorizzare l’algoritmo per eseguire una divisione… queste sono attività che richiedono una convergenza ad un “saper fare” codificato piuttosto strettamente, e il bambino deve trovare la strada per adeguarvisi. In questo caso la valutazione non può che essere demandata all’insegnante, a colui che “padroneggia il codice”; qui la valutazione numerica può avere anche un suo senso se, in un rapporto di fiducia tra alunno e insegnante, serve a dire molto semplicemente: “Bene, su questa cosa sembra che tu sia a questo punto”; è la registrazione di un fatto

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circoscritto (“oggi hai fatto bene 5 divisioni su 10”) che per assumere un significato deve però essere letto alla luce della storia di quel bambino (e dunque: “Sono contentissima! Pensa, questa volta sei riuscito a farne ben 5 di giuste” oppure “Cosa ti succede oggi, tu che non le sbagli mai?”). E quell’esito è comunque un qualcosa che implica e coinvolge, alla pari, l’insegnante e il bambino. La valutazione è fondamentale, ma penso non possa che essere quell’azione imperfetta, di cui l’adulto assume la responsabilità, all’interno di un rapporto in cui l’insegnante non si nasconda completamente dietro il ruolo, ma si conceda il lusso della propria

umanità. La valutazione credo abbia un senso formativo solo tra imperfetti. Altrimenti diventa “giudizio”, che impietrisce. Quello che accade da un po’ tempo nella scuola è un susseguirsi di ingiunzioni, con diversi gradi di prescrittività, che vanno in tutt’altra direzione. Sembra che ora la scuola stia cercando di dotarsi di strumenti “perfetti” per misurare quanti più aspetti possibili dei propri alunni: verifiche ‘oggettive’, test per valutare il rischio di dislessia, griglie sociometriche, test Invalsi di valutazione nazionale… Strumenti a volte anche interessanti, se però non vanno a sostituire quella necessaria parzialità che è

insita in ogni vera relazione tra esseri umani. Il concetto di “standard” è entrato nel lessico didattico-pedagogico corrente portando con sé l’idea che ciò a cui bisogna tendere è l’adeguamento a una norma. La capacità di uno studente di capire qual è la risposta che aveva in mente chi ha formulato il test, diventa la capacità più premiante. Certamente il sapere scolastico contiene anche aspetti “normativi”, poco negoziabili, ma mi chiedo se la scuola faccia davvero bene il suo lavoro quando trascura di incuriosirsi delle persone che ha il compito di educare, quando non si occupa abbastanza dei loro pensieri, delle riso-


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nanze emotive, delle loro vere domande, quando non si incuriosisce del percorso che stanno facendo per costruirsi come persone. Mi chiedo anche, con preoccupazione, che “sapere” sia quello che non cambia profondamente una persona, che non la raggiunge oltre la facciata del “bravo scolaro”, che non la mette in movimento su strade nuove. Quando scopro in un mio alunno l’occhio brillare nella speciale maniera di chi ha “capito” veramente qualcosa di nuovo, quando vedo la felicità che dà il senso di una scoperta vera, mi dico che non c’è una griglia in cui registrare quell’evento così fondamentale. Quando vedo

Laura, che durante la ricreazione sceglie di leggere un libro della biblioteca di classe, invece di giocare, perché ha scoperto il piacere della lettura, penso che nessun test registrerà mai questo, che a me pare un vero e preziosissimo miracolo. Quando osservo Davide mentre rallenta la corsa durante il gioco per far sì che Lisa, che ha difficoltà motorie, lo possa acchiappare, so che questa azione, pur di così rara grandezza, non ha un posto nei documenti scolastici. Da mamma di una studentessa liceale, sempre in affanno con le verifiche, mi chiedo perché una scuola umanistica non sappia che farsene del fatto che mia figlia sia una forte ed ap-

passionata lettrice, che attraverso i libri nutre molti dei suoi pensieri: mi chiedo come sia possibile che non ci sia spazio per questi pensieri, ma solo centinaia di domande a cui rispondere nel più breve tempo possibile, cercando di individuare la risposta “giusta”. Credo che nell’esperienza di ciascuno di noi, l’insegnante che ricordiamo come importante per la nostra formazione non sia quello che ci ha misurato con più esattezza, ma quello che ci ha aperto dentro uno spazio nuovo. Ha scritto il filosofo Irwin Thompson: “Ciò che veramente conta non può essere contato”


scuola e adozione

di Livia Botta Psicoterapeuta e Formatrice Responsabile del Gruppo di Ricerca e Progettazione “Adozione e Scuola” www.liviabotta.it – www.adozionescuola.it

A scuola con la mia storia 14

Solitamente nel secondo o nel terzo anno delle elementari - ma talvolta già nella scuola dell’infanzia si cominciano a proporre ai bambini riflessioni sui primi concetti storici a partire dalla storia personale e da quella della propria famiglia. Anche negli anni successivi - ad esempio all’inizio della scuola media - questo approccio può essere riproposto. Si tratta di lavori belli e importanti, che aiutano i piccoli studenti a collocare nel tempo fatti ed esperienze vissute, a riconoscere i rapporti di successione e contemporaneità, a prendere dimestichezza con i concetti di fonte storica, datazione, generazioni, con l’ausilio di esempi vicini e non astratti. Chi si occupa di didattica della storia sottolinea le potenzialità di questo approccio

al concetto di tempo storico. La condivisione dei racconti consente inoltre ai bambini di comprendere che ciascun individuo è unico e che unica e originale è la sua storia. Favorisce la costruzione di sé, sviluppa l’empatia e la coesione tra compagni. Anche le ricerche sulle valenze didattiche delle pratiche autobiografiche (che possono essere proposte, a diversi livelli di complessità, dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore) concordano sull’importanza del partire da sé, del lavoro della memoria e della ricostruzione della storia personale come sostegno alla costruzione dell’identità e della relazione con gli altri. Si comprende pertanto come tali proposte didattiche, se affrontate con la

dovuta attenzione e sensibilità, possano essere di grande utilità per i bambini adottati e per altri il cui percorso di vita abbia conosciuto passaggi complessi. Ma è altrettanto evidente che queste tematiche vanno trattate con grande delicatezza e competenza, poiché in ogni classe possono essere presenti alunni con memorie dolorose: non solo bambini adottati, ma anche minori in affido, o con situazioni familiari difficili, o con lutti o separazioni alle spalle. Molti genitori adottivi temono il momento in cui nella classe dei loro figli si tratterà l’argomento “storia personale” per il disagio che tale iniziativa, se mal gestita, potrebbe creare nei loro bambini. Alcuni preferirebbero addirittura che queste attività non venissero proposte e che sul-


la storia precoce dei loro figli si mantenesse il silenzio. Ma una tale soluzione non sarebbe né possibile né utile. Non sarebbe possibile perché i bambini tra loro parlano, si raccontano, chiedono. E siccome le storie di adozione sono difficili da raccontare e da capire all’interno del gruppo dei bambini, è senz’altro preferibile che siano accolte, introdotte e condivise con l’aiuto di una figura adulta. In secondo luogo non va dimenticato che si riesce a imparare veramente solo quando ci si sente a proprio agio nella classe come persone intere, anche se complesse: quindi non solo con la propria testa, ma anche con le proprie emozioni e la propria storia. Per questo è importante che a scuola si creino occasioni in cui tutti gli alunni possano

esprimersi e narrarsi, a partire dal proprio vissuto attuale o passato: evitando forzature e richieste troppo dirette, rispettando i tempi di ciascun bambino, confrontandosi con i genitori quando necessario. E’ vero che i bambini adottati sono tutti diversi: c’è chi si racconta volentieri, chi è orgoglioso di parlare di sé, chi invece ha bisogno di mantenere più protetta la propria intimità. Molto dipende anche dall’abitudine a parlare normalmente in famiglia della storia precoce dei bambini, o invece a lasciarla nell’ombra. Anche il momento è importante: ciascun bambino attraverserà fasi di minore o maggiore chiusura. Ma per tutti sarà di grande aiuto riuscire prima o poi a parlare, a raccontarsi, a essere ascoltati in un contesto accogliente, per capire che

le proprie storie non sono storie di serie B e non fanno paura. E’ indubbio che, affinché tali attività risultino davvero utili e non disturbanti per i bambini adottati, occorrono alcune imprescindibili condizioni di contesto: un dialogo aperto e una collaborazione reale tra insegnanti e genitori, che devono essere messi al corrente dei tempi e dei modi in cui questi progetti verranno realizzati; un clima di classe accogliente e già avvezzo a dar valore alle differenze di storie, di situazioni familiari, di culture. E’ infatti fondamentale che rievocazioni e narrazioni avvengano in un contesto di benessere, rilassamento e comunicazione empatica. Occorrono poi grande attenzione e sensibilità nella scelta delle attività didat-

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tiche. Anche se molte/i insegnanti ne sono consapevoli e propongono progetti che tengano conto di tutte le differenze presenti nelle loro classi, è sempre bene che i genitori esprimano esplicitamente le loro preoccupazioni e i loro timori rispetto a queste attività, per “ricordare” alle/gli insegnanti di trattarle con la

necessaria delicatezza. Le possibilità tra cui orientarsi sono molte, se si riesce a guardare oltre le proposte più scontate (spesso purtroppo veicolate dai libri di testo!) che prevedono la solita raccolta di foto alla nascita, giocattoli, indumenti della primissima infanzia. Come criterio generale, è necessario far

sì che nessun alunno possa sentirsi diverso in senso negativo: non chiedere di portare oggetti che qualche bambino potrebbe non avere (fotografie e oggetti dei primi mesi di vita), non chiedere informazioni che non si possiedono (peso alla nascita, il primo dentino, ecc.). Ma l’insegnante può chie-


dere ad esempio di portare foto “di quando si era più piccoli di adesso” piuttosto che foto da neonati; di collocare nella scatola dei ricordi oggetti che i bambini ritengono importanti per loro, piuttosto che oggetti specifici; chiedere ai bambini di raccontarsi attraverso disegni piuttosto che attraverso fotografie... Ciò che è importante è lasciare sempre molto spazio alla possibilità di narrarsi verbalmente: senza forzare, senza porre i bambini adottati al centro dell’attenzione, ma creando le condizioni perché possano liberamente parlare di sé, se e quando vorranno farlo. Né deve rappresentare una remora il fatto che i loro racconti (e le loro produzioni grafiche) non saranno, a volte, strettamente ancorati alla realtà, ma conterranno “pezzi di fantasia” per colmare le lacune. Affrontare questi argomenti a scuola, dunque, non solo non è negativo, ma può essere addirittura d’aiuto per i genitori. Può rappresentare un’occasione, un innesco per parlare di argomenti “difficili” e impegnativi con i propri figli. Lascio la parola a due mamme, che raccontano come da situazioni potenzialmente critiche sia sca-

turito qualcosa di buono e di costruttivo. “Di fronte alla richiesta intelligentemente generica della maestra di portare foto di quando erano più piccoli (quindi non ecografie, foto di neonati, ecc.), mia figlia mi ha chiesto qual’era la foto che avevamo in cui era più piccola, e se sapevo com’era da piccolissima. Io le ho mostrato la prima foto che ci era arrivata, al momento della proposta di abbinamento, e le ho detto ‘Vedi, qui eri molto più piccola di adesso; possiamo provare a immaginare com’eri quand’eri ancora più piccola; purtroppo foto più vecchie non ne abbiamo, però puoi portare questa’. Da lì si è aperto un discorso piuttosto lungo e impegnativo con la bambina, che ha fatto domande di vario tipo, tra cui quando potrà tornare al suo paese e reincontrare la sua famiglia (il discorso non è indolore, ma penso che sia sano e giusto poterne parlare). Poi mia figlia, ignorando la mia proposta, ha spontaneamente scelto di portare una delle prime foto fatte con noi, in cui era più grandina. Insomma: una richiesta generica è diventata da un lato occasione per aprire argomenti importanti e smuovere cose, dall’altra di manifestare un’appartenenza che

non esclude la storia precedente”. Un’altra mamma, di fronte a un libro di testo con la richiesta dei soliti dati alla nascita, dopo un’arrabbiatura iniziale ha scelto questo approccio: “…andare su Internet, cercare foto e informazioni sui neonati, magari (ma non necessariamente) del suo paese d’origine, lasciare che scegliesse quella in cui potersi in qualche modo ‘identificare’, raccontare quanto pesa più o meno un bambino alla nascita... Tutto questo è diventato occasione per parlare del fatto che il mio bambino è stato anche lui neonato (qualche volta diceva di essere ‘nato già grande’) e di tante altre cose legate al suo paese, alla ‘mamma di pancia’ e altro…”. Insomma, anche una situazione critica può trasformarsi in un’opportunità, se si ha l’apertura, la disponibilità e il coraggio di non considerare la storia dei propri figli un tabù, qualcosa la cui rievocazione possa provocare solo dolore. E se si ha la consapevolezza che sia sempre utile mettere e rimettere insieme, raccontare e riraccontare i pezzi del puzzle fino a costruire una figura intera.

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di Monia Isidori

Sono debitrice al Mali 18

Sono debitrice al Mali di molto: sono debitrice in primo luogo di mio figlio, un essere vitale e speciale, mio figlio fin dall’attimo in cui ci è venuto in braccio curioso scrutandoci per trenta secondi , prima di regalarci il suo primo sorriso. Sono debitrice di suo fratello, o di sua sorella, che cresce pian piano nella mia pancia, inaspettato inatteso dono. Sono debitrice dell’esperienza forte e totale che ci ha permesso di vivere, apparentemente incastrati in un paese in guerra, con le sue incertezze e le sue lentezze, con la sensazione che nessuno sapesse cosa fare e come aiutarci. Sono debitrice dello sguardo prezioso e degli abbracci autentici delle persone che abbiamo potuto conoscere , o anche solo sfiorare, dell’aver varcato la soglia di un mondo profondamente diverso, dove vita e morte hanno confini labili e crudamente naturali, dove si vive in

strada fra la polvere, dove non si è mai soli, dove il tempo assume connotazioni grottesche e sembra permeare il tutto di un nonsenso. Sono debitrice, soprattutto, dell’aver sperimentato il senso magico della Vita, della Fiducia dell’abbandono e del Lasciar Andare, perché ogni cosa trova strade e tempi per evolversi e compiersi. Siamo partiti per il Mali il 23 dicembre, in modo precipitoso...i documenti non erano pronti, ma la guerra civile sembrava in procinto di estendersi anche al sud del paese, e la nostra paura di non riuscire più ad esser laggiù, dove nostro figlio ci aspettava, ci serrava stomaco e sogni. Alla fine l’ente ha acconsentito, e ci ha permesso di partire... tre coppie emozionate hanno varcato la soglia dell’orfanotrofio la vigilia di Natale, con tante emozioni addosso e nessuna immagine dei nostri figli, solo uno stralcio di

un video che casualmente avevamo trovato su youtube, dove una volontaria sconosciuta mormorava il nome di Bilali in una frazione di secondo, e che Sandro non voleva guardare, perché sentire che forse c’è tuo figlio che dorme beato in un lettino a km da te, dove gente sconosciuta si prende cura di lui, di lui che non sa nulla di te, che non puoi proteggere come ogni genitore sente di dover fare per suo figlio, lo sconvolgeva più di quanto potesse sopportare. Sei genitori in lacrime pronti ad accogliere i figli tanto attesi, e intimoriti dal non sapere, non immaginare, che si sentono dire di tornare due giorni dopo, perché la direttrice non c’è e senza di lei i bimbi non vengono dimessi. E così , senza protestare, con un senso di impotenza e delusione cocenti, inebetiti usciamo, senza opporci, senza chiedere spiegazioni, senza proporre di farci


dar loro almeno una sbirciata....così, usciamo e ci ritroviamo tra la polvere rossa, attorniati dai bimbi del quartiere che ci urlano tubabu tubabu. Ricordo questo momento perché ci abbiamo ripensato spesso, a come tutti e sei reagimmo nella stessa modalità... affidandoci, e cercando di non abbatterci, senza incattivirci, senza perdere l’atteggiamento collaborativo e ingenuamente positivo che ci ha dato forza e tempra in tutta quest’avventura. In un mese e mezzo son accadute molte cose, eppure il tratto peculiare del nostro affiatato gruppo è rimasto ogni volta il saperci rimotivare, la speranza che oggi no, ma domani, domani sarà il giorno buono. E così, ogni cosa pian piano è andata a posto, ogni inconveniente in qualche modo è scorso... anche il paradosso finale, di aver atteso tre settimane il passaporto di Bilali e di poterlo festeggiare infine per poter tornare a casa, per poi accorgerci che era sbagliato...e sudare sette camicie su tutti i voli per il rientro, temendo che ci fermassero...eppure, di noi tre coppie, solo i documenti di Bilali non ci sono mai stati controllati. E alla fine ci veniva da sorridere

osservando i nostri amici fare file, tirar fuori liste di documenti, spiegare a funzionari severi che quei bimbi lì erano proprio figli loro e non li avevamo trafugati chissà dove. Non voglio essere ingenuamente romantica, né scioccamente ottimista, ma davvero ogni cosa ha funzionato come doveva. Questo non rinnega le difficoltà e le sofferenze, le lungaggini di un percorso che strazia e talvolta demotiva, dandoti la percezione che tutto il mondo giri mentre tu rimani fermo, come se il Signore si fosse dimenticato di te. Eppure, posso oggi dire, con la serenità di chi ha trovato finalmente la strada, che ogni cosa ha avuto il suo senso, che bisogna perseguire i propri obiettivi, ma accettando il mistero che la vita segue strade e tempi che non potremo mai conoscere fino in fondo. E che c’è magia in tutto ciò, la magia di un senso che si esplica e si costruisce solo vivendo, accettando di lasciar andare e di farsi portare. Solo quando abbiamo compreso che lottare contro non ci avrebbe aperto nessun varco, che l’ostacolo non andava buttato giù a testate, come Cinzia e Stefano ci disse-

ro a suo tempo, ma forse guardato e affrontato da un’altra prospettiva, solo allora siamo stati pronti per comprendere e iniziare a percorrere la nostra strada. E non c’è niente di più bello del capire dopo il tempo di cui ciascuno ha bisogno, qual è il proprio percorso, perché poi si sarà anche capaci di non lasciarsi abbattere dagli ostacoli e dalle svolte che esso inevitabilmente porterà con sé. Sono debitrice al Mali per avermi permesso di prender parte del meraviglioso imperscrutabile senso dell’esistere, della serenità che l’affidarmi oggi mi dona. E se dal Mali siamo tornati non in tre, ma in quattro come non avremmo immaginato né forse allora desiderato, non è perché, come tutti mi dicono, finalmente ci eravamo rilassati. No, c’era la guerra, la tensione, i documenti che non andavano a posto...no, non eravamo propriamente rilassati. È semplicemente perché ogni bivio ha un suo perché, e ogni tappa il suo profondo valore. È perché c’era Bilali ad aspettarci, prima di ogni altro, anche se noi non lo sapevamo, e non avremmo potuto essere completi senza esserci prima ricongiunti con lui.

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giorno dopo giorno 20

di Carmine Pascarella e Federica Sassi

Dagli Appennini alle Ande: un fantastico viaggio in Cile - 2

Non ci crederete… mentre mi accingo a scrivere del nostro viaggio di ritorno in Cile, mio figlio si trova di nuovo in America Latina, precisamente a Cuba per il suo viaggio di nozze. Il continente Sudamericano continua a rappresentare una calamita dal magnetismo ancora attivo ed attraente. Dicevamo la volta scorsa che eravamo arrivati io, mio figlio Mauro e Federica, oggi sua moglie, a Santiago e stavamo respirando l’incredibile intreccio di suoni, odori, immagini, ricordi che ci avevano sommersi come uno tsunami. Nell’avvicinarci, dall’aeroporto all’avveniristico albergo che ci ospitava, con la nostra macchina abbiamo oltrepassato uno degli innumerevoli ponti che attraversa il Rio Mapocho, un grande fiume, spesso capace di esondare e creare

danni ingenti, dalle acque limacciose che attraversa Santiago del Cile. In quel momento mi è subito tornata in mente una frase che spesso diceva mio figlio quando aveva tredici anni, durante il nostro soggiorno a Santiago per adottarlo. Mauro era già grande ed era molto timoroso di lasciare il suo Paese per venire in Italia, dove avrebbe potuto raggiungere Zaida ed Hector, i suoi fratelli che avevamo adottato un anno prima. Manifestava sovente la sua preoccupazione ripetendo spesso questa frase: “tengo claro el mio futuro como l’aqua del Rio Mapocho”. Considerando quanto erano torbide quelle acque, credo che non riuscisse a bucare un orizzonte ormai così impenetrabile ed indecifrabile. È stato inevitabile l’affiorare di quel ricordo confortato

dalla consapevolezza che in realtà il suo futuro sarebbe stato piuttosto limpido e brillante e questa consapevolezza ci ha fatto sorridere per questo dolce ricordo. D’altra parte ogni angolo della città si ricollegava a passato, ai luoghi frequentati, agli avvenimenti accaduti, diventando per noi un oggetto parlante. I primi momenti della nostra permanenza in Cile sono stati progettati per rivedere le persone e i luoghi più significativi della vita dei nostri figli a Santiago. Alcuni contatti erano già stati mantenuti in precedenza e pertanto gli incontri non sarebbero stati un evento discontinuo, ma si sarebbero caratterizzati come l’evoluzione di un’aspettativa già costruita, anche se le emozioni provate andavano ben oltre. Fra i ricordi più importan-


ti che ci hanno guidato nel nostro itinerario, certamente un ruolo fondamentale lo ha avuto il collegio che ha ospitato mio figlio Mauro dal 1990 al 1993. E’ stato l’ultimo di una serie di Istituti attraverso i quali era passato. In precedenza aveva trascorso altri periodi di tempo in altri Istituti ubicati al sud del Cile. L’Aldea Mis Amigos ha avuto per Mauro un notevole valore formativo ed è l’Istituto dove noi lo abbiamo conosciuto diciannove anni prima. Si tratta di una struttura a casette, dotata di spazi adeguati, campi da calcio, piscina, immersa in un contesto verde che non ti fa pensare di essere ad una quarantina di chilometri ad ovest di Santiago del Cile. Il ricordo di questo Istituto in me era vivissimo: il direttore di allora, Hermano Leo, era un

religioso canadese animato da grande vocazione pedagogica. L’Istituto era ben sovvenzionato, proiettato all’esterno, i bambini frequentavano la scuola pubblica, e dotato di educatori capaci di personalizzare il rapporto con i bambini. Quando abbiamo portato Mauro, per l’ultima volta a salutare i compagni dell’Istituto, nel mese di febbraio 1993, erano tutti in vacanza in una spettacolare località al mare, sull’Oceano Pacifico chiamata El Garrobo, non lontano da Isla Negra, dov’è sepolto Pablo Neruda. Ricordo ancora quell’ultimo pranzo, dove ci furono offerte stranissime qualità di pesce introvabili nei nostri mari. Quando uscimmo dal cancello per l’ultimo saluto, tutti i ragazzi ci cantarono una canzone napoletana per sottolineare la parten-

za di Mauro verso l’Italia. Mi sembrò un po’ strano a quattordicimila kilometri dall’Italia. Uno degli educatori di Mauro era Luis, oggi è l’attuale direttore dell’Aldea Mis Amigos, mentre Hermano Leo è rientrato da anni in Canada. La strada che conduce l’Aldea Mis Amigos non è più una strada di campagna: intorno sono state costruite molte case e la struttura è raggiungibile in circa trenta minuti di auto da Santiago. Il primo giorno che ci rechiamo all’Aldea ci accoglie il direttore Luis, insieme ai suoi collaboratori e ci conduce nel suo ufficio. È stato un momento intensissimo di abbracci interminabili. Io per Luis sono subito diventato Don Carmelo e da allora quest’appellativo mi accompagna sempre. In verità mio figlio era già stato all’Aldea Mis

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Amigos, per la prima volta dopo quattordici anni, nel 2007 in occasione di un viaggio di lavoro. A quell’epoca stava incontrando un rivenditore di attrezzature di giardinaggio che l’azienda in cui lavora mio figlio esporta. Nel raccontargli di essere di origine cilena il rivenditore, per la sua storia, si commosse e gli fece una sorpresa conducendolo all’Aldea Mis Amigos. In quell’occasione Luis gli fece incontrare tutti i ragazzini ospiti e Mauro raccontò loro la sua storia, gli mostrò il letto in cui dormiva che divenne oggetto di competizione fra tutti i bambini che avrebbero voluto accaparrarselo. L’incontro è stato un’esplosione di racconti nei quali naturalmente siamo stati coinvolti anch’io e Federica. Siamo tornati nella casetta dove dormiva Mauro

e il suo letto era ancora lì. Ho sentito proprio il bisogno di toccarlo. Le cuoche, le educatrici, alcune c’erano ancora. Abbiamo fatto un giro di ricognizione: la sala del refettorio, la piccola chiesina, gli spazi comuni e un sacco di bambini che si sono avvicinati a noi. I bambini negli Istituti sud americani sono proprio capaci di toccare le corde emotive più profonde. Per professione mi capita di entrare in molte case famiglia qui in Italia, ma non succede quello che accade lì. Un bambino, in particolare, non ci ha mai lasciati ed ha girato con noi per tutto il tempo della nostra visita. Alla fine ha avvicinato Mauro e Federica dicendo: “el mi papà, la mi mamà” e, rivolgendosi a me, “el mi avuelito”. Non vi descrivo le reazioni, soprattutto di Federica, palesemen-

te commossa ed anch’io mi sono lasciato andare a qualche riflessione sull’età che dimostravo. Un altro ragazzino si era molto legato a noi; si trattava di un bambino adottabile con bisogni molto speciali che si metteva a piangere e ad urlare ogni qualvolta l’educatrice si proponeva di riportarlo nella casetta insieme agli altri bambini per l’ora della merenda o della cena. Poteva finire qui la nostra visita all’Aldea Mis Amigos? C’erano ancora troppe cose e troppe emozioni che dovevano trovare possibilità d’espressione. Tantissime altre cose da raccontare. Ed ecco che Luis ci invita per una grande festa che sarebbe accaduta di lì a due giorni. In quel periodo si stavano preparando i festeggiamenti per la festa nazionale dell’indipendenza cilena. All’Aldea


Mis Amigos avevano preparato un grande pranzo e uno spettacolo nel quale i bambini avrebbero rappresentato la parata militare. Ci troviamo tutti a tavola con educatori, bambini, il direttore Luis e due giudici del SE.NA. MEN. (Servicio National Menores) che rappresenta l’autorità centrale cilena per le adozioni internazionali. Di fronte al tavolo, con tanto di musica e presentatore, inizia la sfilata: un bambino di circa quattro anni su una piccola motocicletta rappresenta la Polizia di Stato, un altro bambino viene presentato come il Ministro degli Interior, sfila la Marina e l’Aviazione, sempre rappresentata da bambini piuttosto piccoli che sfilano su navi e aerei giocattolo e finalmente, da ultimo, compare un bambino di circa tre anni che

rappresenta Sebastian Pinera, Presidente della Repubblica. Scroscianti sono gli applausi, il divertimento, il tutto accompagnato dall’inno nazionale. Non da ultimo lo speaker dedica un tributo alla famiglia Pascarella e gli applausi ci fanno un po’ tremare. Mi chiedo che effetto avrebbe avuto un simile spettacolo organizzato in Italia con i bambini che, sfilando, avrebbero rappresentato i nostri personaggi politici. Devo dire che è stata una giornata fantastica, di quelle che ti fanno sentire partecipe, vicino, alla storia dei tuoi figli. Mauro e Federica sono felicissimi, Luis è entusiasta e si impone un nuovo incontro. Qualche giorno dopo torniamo ancora all’Aldea, la strada è ormai familiare, potremmo fare senza navigatore satellitare. Luis aveva or-

ganizzato un incontro con alcuni dei ragazzi che erano ospiti dell’Aldea quando c’era Mauro. Incontriamo Pato (Patrizio), che ora lavora in un’azienda di Santiago ed è un provetto musicista. Francisco che ora svolge l’attività di ingegnere e il mitico Pancho Garcia, avvocato, sposatosi di recente e in attesa di un bambino. Anche qui l’incontro è a forti tinte emotive, i ricordi affiorano, ma la cosa straordinaria è che si ha l’impressione che i contatti siano stati mantenuti fino all’altro giorno. È un’affinità che affiora, sottile, ma che si avverte. Ho definito mitico Pancho Garcia perché appare una persona molto dolce e riflessiva. Ha rilasciato un’intervista alla televisione cilena sulla sua storia descrivendo com’era riuscito a trasformare “lo malo”

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in opportunità per crescere. Questa intervista si può ritrovare anche su Youtube e rappresenta un meraviglioso inno alla resilienza. Tutti questi racconti non potevano non esitare in un successivo pranzo organizzato a casa di Luis, a pochi kilometri dall’Aldea Mis Amigos. La casa di Luis è una villetta in legno in mezzo alla campagna in un luogo che a noi apparirebbe fuori dal tempo. Possiede diversi animali fra i quali un serpente che mi è rimasto molto impresso e che ho tenuto a debita distanza. Non mi dilungo sul pranzo, sulle empanadas, sempre amate e rievocate da Mauro, sui canti con Pato alla chitarra e sul tipico ballo della cueca. L’atmosfera conviviale; ormai eravamo in poco tempo tutti cileni. Nel frattempo erano passati svariati giorni dal nostro arrivo in Cile e sembrava quasi serpeggiasse il timore che quello avrebbe potuto essere il nostro ultimo incontro perché pian piano si stava avvicinando la partenza per l’Italia. Ebbene, non era così. Pancho Gar-

cia ci ha voluto invitare, insieme a sua moglie incinta, per una cena nella sua bellissima casetta situata in un residence protetto da sbarre di accesso nelle vicinanze di Talagante, ad Ovest di Santiago. Anche questa è stata una cena fantastica, nella quale io, Mauro e Federica abbiamo assistito ad un’incredibile prolusione di Luis sui temi dell’adozione, della vita in Istituto, della resilienza e tanto altro ancora. Ci siamo anche chiesti se dopo una cena così impegnativa il discorso poteva acquisire ancora più forza dalle inevitabili libere associazioni che ne potevano derivare da così abbondanti libagioni. Siamo ormai in vista della partenza, ma Luis ci vuole incontrare ancora una volta. Sapendo della mia attività professionale, vorrebbe approfondire il tema delle adozioni in Cile. Mi riferisce che nel Paese vi sono “tremila nînios declarados adotables, ma altri quindicimila nesessitan de esta declaration”. Se in Itali avi fossero tante famiglie che possono presentare la loro dichiarazione di

disponibilità all’adozione internazionale presso il Cile, forse si potrebbe sollecitare il SE.NA.MEN ad accelerare le procedure. Mi ha pertanto organizzato un incontro con una psicologa del SE.NA.MEN. e due giudici del Tribunale dei Minori di Santiago del Cile. Naturalmente spiego che l’Italia aderisce alla convenzione dell’Aia e che le convenzioni di disponibilità possono essere presentate al SE.NA. MEN. attraverso gli Enti Autorizzati ad operare in Cile. È stato un confronto molto utile, ci siamo ascoltati reciprocamente con grande interesse e per un attimo mi sono sentito un Ente Autorizzato che stava operando in Cile. Effettivamente di lavoro e di possibilità ce ne sono tante e ho preso, al mio ritorno in Italia, contatti con alcuni Enti Autorizzati al fine di favorire ed eventualmente snellire i rapporti. Che cosa avrei potuto desiderare di più da un viaggio che ci ha fatto rivivere emozioni straordinarie dandomi anche la possibilità di aiutare altri bambini e fa-


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miglie attraverso gli Enti? Un pizzico della mia vita professionale è stata tirata in gioco dentro questo mare di emozioni. Non è finita qui. L’ultimo giorno prima della partenza per l’Italia stavamo tornando dal mare, siamo arrivati a Santiago alle dieci di sera e dovevamo ancora preparare le valigie per il lungo viaggio del giorno dopo. Ci aspettavano ancora all’Aldea per un ultimo saluto. Una grande torta con scritto “buon viaggio famiglia Pascarella” ci attendeva. Insieme alla torta

ha voluto essere presente il giudice del Tribunale per i Minorenni Hector Jeres, vent’anni prima tutore di Mauro. Non potevamo mancare. Ancora un ultimo saluto anche col giudice ed un lunghissimo abbraccio sapendo che non sarebbe finita lì. Mauro e Federica in occasione del loro matrimonio hanno destinato una parte dei loro regali per attrezzare la sala di psicoterapia che il direttore Luis ha intenzione di rinnovare dentro l’Istituto. Vi apparirà incredibile, ma sembra che voglia dedicare a Mau-

ro l’intitolazione della sala. Dopo il nostro viaggio, durante le vacanze di Natale, abbiamo ospitato per alcuni giorni il figlio del direttore in viaggio in Europa. L’avevamo conosciuto a Santiago. Vi ho raccontato un pezzo importante del nostro viaggio. Non è l’unico. Nel prossimo numero ne vedrete un’altra parte. Certamente si tratta di una storia, una storia che continua, una storia che non si sostituisce, una storia che arricchisce.


giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

Parole dette e non dette 26

Parole dette e non dette è il nome di un progetto di prevenzione all’abuso sessuale per i nostri bambini di 10 anni che l’Associazione L’Ombelico (www.lombelico.org) ha proposto alla scuola. I genitori della classe quarta erano un po’ perplessi. “Parlare di sessualità e soprattutto di abusi: non sarà troppo?” “Forse prematuro?” “A noi non capiterà mai…” Gli interrogativi e le resistenze si avvertivano tutte all’incontro di presentazione. Lo psicologo è stato bravo e alcune argomentazioni molto convincenti: gli abusi sono in crescita, riguardano tantissimi minori. Anche sottoporre alla visione di atti sessuali o alla violenza verbale di natura sessuale rientra in quegli abusi sull’infanzia che segnano indelebilmente la storia di

una persona. E l’età critica è proprio quella intorno ai 9-10 anni, quando i genitori allentano giustamente il loro controllo sui figli, e i bambini incontrano nella loro giornata molte figure di riferimento (allenatori, educatori, altri ragazzi più grandi, …). Il pedofilo non è quasi mai un mostro sconosciuto che approfitta improvvisamente dei bambini. E’ in genere invece una persona della cerchia dei familiari e dei conoscenti che avvicina i bambini in modo suadente, conquistando passo passo la loro fiducia, lavorando sulla bassa autostima di molti e sulla curiosità tipica di quell’età di mezzo. Le vittime di piccoli e grandi abusi entrano in una spirale difficile da bloccare: i pedofili lavorano sul senso di vergogna, i bambini difficilmente parlano di quel-

lo che sta accadendo. Senza allarmismi, dimostrando da subito grande competenza e delicatezza, gli operatori si sono conquistati la fiducia di noi genitori e il percorso dei nostri figli è cominciato. Re e regine Hanno proposto un gioco che è piaciuto molto. Ciascun bambino è stato a turno proclamato re o regina della classe: gli altri compagni hanno consegnato ai sovrani una serie di bigliettini in cui era scritto un complimento sull’aspetto fisico di ciascuno. E’ così che mio figlio si è ritrovato a riempire una busta segretissima del suo diario personale con tante “carezze” dei compagni di cui fare scorta anche per i momenti più difficili. Lui stesso si è dovuto cimentare nella ricerca di aspetti


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positivi di compagne poco amate o un po’ anonime nel gruppo classe. Lavorare sull’autostima – lo hanno ribadito gli psicologi - è il primo passo da fare per prevenire ogni sorta di abuso, ma anche tutti i fenomeni di bullismo. Un bambino che si fida delle sue capacità, si fida anche di più degli adulti, parla con maggior sicurezza di ciò che gli succede, sa ascoltare il suo cuore e la sua pancia. Le attività proposte alla classe sono state tutte molto giocose, e per que-

sto molto efficaci. Da ogni gioco è emerso poi il vissuto di ciascuno e nessun argomento è stato eluso. I bambini hanno sperimentato ad esempio i vari tipi di tocchi sul corpo: tirata di capelli, carezze, baci, schiaffi. Cosa preferiscono? Perché? Cosa distingue un tocco dall’altro? Cosa fa la differenza? Forse la persona che te lo fa? O la tua voglia di ricevere quel bacio o quella carezza? E alla fine dell’attività è emersa la possibilità di scelta: nessun gesto è neutro, e

ad ogni gesto sul corpo un bambino deve poter dire di sì o di no. Anche ai parenti, anche agli amici. Che imbarazzo! Quando hanno affrontato l’incontro più propriamente dedicato all’educazione sessuale, i bambini erano tutti molto attenti, anche se un po’ ritrosi. Avevano dovuto a casa disegnarsi nudi su un foglio, da non mostrare a nessuno. Provavano imbarazzo a mostrare il loro disegno? “E’ giusto” – è stato spiegato loro – le parti intime del


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corpo sono molto preziose e non devono essere esibite o mostrate a chi non vogliamo. La lezione sul corpo ha fatto capire loro come “funzionano” maschi e femmine, e che proviamo piacere nel contatto con gli organi sessuali, a volte anche indipendentemente dalla nostra volontà. Mio figlio mi ha riferito che quella lezione gli ha fatto un po’… schifo (!), soprattutto quando si è parlato di “come si fanno i bambini” (… ma non glie lo avevamo già spiegato noi?). Io non sapevo bene come reagire. Lo psicologo – nell’incontro di restituzione – mi ha suggerito una riflessione da proporgli che ho trovato calzante: “Hai ragione! Queste cose riguardano gli adulti. Voi siete ancora bambini ed è giusto provare disagio, imbarazzo rispetto alla sessualità che

è una cosa bellissima, ma è una cosa dei grandi, che non potete giustamente provare e capire!”. Le ultime puntate del percorso sono state le più difficili da affrontare: gli psicologi hanno raccontato delle brevi storie di situazioni di pericolo. I bambini dovevano individuare gli indizi sulla pericolosità e attivare le strategie giuste per evitare o uscire dalla situazione di emergenza. Non è stato facile per i bambini smascherare il pedofilo di turno in uno zio (per fortuna in quel caso un personaggio di fantasia). E hanno capito al volo che la situazione in cui il protagonista della storia si era cacciato suo malgrado era pericolosa in quanto il carnefice chiedeva a lui di tenere il segreto, di non parlare con nessuno di ciò che avrebbero fatto insieme.

Quando il percorso è terminato, i bambini hanno salutato i conduttori con un lungo abbraccio ciascuno: l’esperienza è piaciuta molto e loro erano riusciti a conquistarsi una grande fiducia. Nessun bambino voleva mancare agli incontri, persino con la febbre! I superlativi si sprecano nei testi di commento che la maestra ha mostrato ai genitori. “Ci mancherà molto questa attività!” “E’ stato bellissimo” “Ho capito tantissime cose” “Ho imparato a conoscere il mio cuore e la mia pancia”… E anche noi genitori eravamo alla fine molto contenti: dando fiducia a persone sensibili e competenti, anche gli argomenti più spinosi possono essere affrontati.


Nel mio corpo di bambino È la pancia il centralino Il cervello sai funziona Ma la pancia è un’altra cosa Lei sa bene I ma e i perché Della gente intorno a me Se uno sguardo non funziona C’è la pancia che ragiona Se io debbo dire “no” Dalla pancia lo saprò E perciò è la mia opinione Che alla pancia do ragione Maria Rita Parsi 29


leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Leggere, fare e raccontare

Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di Barchetta Blu 30

7. Questo mese: Hai mai ghi d’arte presenti in città. visto Mondrian? Arte e Le iniziative si basano sulla fondamentale premessa Lettura che tutto ciò che circonda i In questi ultimi anni la bambini è per loro motivo Biblioteca Ragazzi di Bar- di scoperta, esplorazione, chettaBlu ha organizzato ascolto e quindi voglia di laboratori e iniziative per toccare, guardare, sentibambini e famiglie in occa- re, annusare. I laboratori sione di particolari eventi creativi seguono il metodo artistici. Attraverso attivi- Giocare con l’Arte di Bruno tà ludiche e giocose abbia- Munari; tale metodo parte mo cercato di avvicinare i dalla consapevolezza che bambini ai tantissimi luo- l’esperienza diretta facilita

le conoscenze del bambino; quest’ultimo può esprimere liberamente la propria creatività in un gioco solo minimamente guidato. Durante le visite ai diversi musei o alle collezioni d’arte si leggono e raccontano delle storie per rendere più familiari e comprensibili le opere esposte. Le tecniche di lettura utilizzate spaziano dalla tradizionale lettura frontale, a quella musicata, a quella luminosa o teatrata. C’è quindi un vero e proprio progetto chiamato Arte e Lettura che prevede la partecipazione di bambini e ragazzi agli eventi culturali della città come occasioni per sperimentare la capacità di osservare con gli occhi e con le mani, per sviluppare un pensiero progettuale creativo fin dall’infanzia. Presso musei e fondazioni, in occasione di mostre


e concerti, l’equipe di BarchettaBlu propone l’ascolto di storie originali ispirate all’evento culturale e raccontate con tecniche teatrali o con accompagnamento musicale. In ogni città si potrebbero progettare iniziative per avvicinare i bambini all’arte; il nostro progetto prevede momenti distinti e articolati, ma, per iniziare, è sufficiente convincere gli amministratori ad aprire le porte dei musei, considerati generalmente luoghi esclusivamente per adulti; i tre momenti del progetto sono: 1. conoscenza dell’evento attraverso una storia originale 2. ascolto di storie scelte in tema con l’evento e raccontate con varie tecniche 3. laboratori creativi di produzione di una storia, o parte di essa, da parte dei

bambini e dei ragazzi coinvolti, attraverso le tecniche della scrittura creativa, del teatro, delle ombre, della costruzione del libro. In quest’ultimo anno abbiamo collaborato con i Musei Civici di Venezia (il museo Correr e il museo di Palazzo Ducale), la Fondazione Querini Stampalia e la Collezione Guggenheim, il Teatro Groggia, Palazzetto Bru Zane e Ca’ Foscari; abbiamo portato nidi, scuole e famiglie in luoghi bellissimi e solitamente inaccessibili ai bambini. L’intento è stato quello di far riscoprire i tesori artistici di questi luoghi, famosi in tutto il mondo e ricchi di suggestioni; tramite esperienze straordinarie si è offerto un’immagine nuova e inconsueta del museo, come luogo di divertimento e aggregazione, suggerendo un

modo alternativo di stare insieme. Sarebbe davvero bello che in ogni città si potesse fare lo stesso! Negli incontri al museo si creano momenti e spazi predisposti per inventare, scoprire, costruire, giocare, sempre nel rispetto delle opere d’arte; quindi si inventa un luogo fisico e metaforico capace di favorire relazioni, conoscenze, scambi tra bambini e tra adulti e bambini. Per i bambini più piccoli le attività ludico-creative vengono fatte con i genitori e rappresentano per il bambino l’occasione di costruire legami di intimità carichi di significato e di affettività. Anche giocare con l’arte consente a genitori e figli di conoscersi meglio, di trovare insieme linguaggi e codici da condividere, di scoprire il piacere di stare insieme.

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Mettersi in gioco insieme, genitori e figli, significa godere del piacere della relazione giocosa, trarne occasioni eccellenti di conoscenza di sé, degli altri e naturalmente dell’arte che riempie moltissime città italiane. In collaborazione con la collezione Peggy Guggenheim di Venezia, la Biblioteca di BarchettaBlu ha organizzato delle speciali giornate in cui le stesse opere, attraverso la voce dell’attrice Sabina Italiano, hanno parlato direttamente ai bambini. Come sempre anche noi adulti siamo rimasti affascinati e abbiamo rivisto quadri e sculture con occhi diversi, anche se magari li avevamo già incontrati tante volte. Se “non abbiamo una attrice a disposizione”, possiamo comunque trovare molti libri e albi illustrati che ci possano aiutare a raccontare ai bambini pitture, sculture e opere d’arte. Quindi possiamo anche noi genitori decidere di improvvisarci raccontatori di opere, aiutati dai testi e dalle illustrazioni dei molti albi illustrati pubblicati sull’arte in questi ultimi anni.

gorati provando emozioni incontenibili come davanti alle opere d’arte. Magari ancora una volta, con la scusa di portare i bambini al museo, anche noi genitori potremmo scoprire l’inaspettato. La premessa di Sanna termina con il racconto che la gioia che lo ha assalito dopo aver incontrato un grande pittore, gli fa venir voglia di andare fuori per rivedere il cielo, gli alberi, le persone e le case. La vita cambia per un’intera giornata e ci viene da guardare, scrutare, osservare, contemplare il mondo per ritornare a scoprire cose che si crede di aver già visto ma non in quel nuovo modo. In questo libro, vincitore del premio Andersen 2006 come miglior libro fatto ad arte, Sanna coglie e traduce le figure e le astrazioni del pittore in raffinate illustrazioni esaltando lo sguardo e lo spirito poetico di Mondrian.

Alessandro Sanna, nel suo Hai mai visto Mondrian? cita proprio la piccola e preziosa mostra di pittura vista al Peggy Guggenheim Museum di Venezia, dove dice l’autore, pittori straordinari come Kandinski lo hanno entusiasmato e lo hanno reso felice. Anche con i bambini si possono ritrovare nei musei entusiasmi e momenti indimenticabili e non noia e stanchezza come spesso si pensa dei musei nell’immaginario comune. Sanna racconta che all’improvviso ha incontrato un grande quadro rettangolare, dipinto di blu, azzurro, viola e giallo. All’inizio è rimasto ammutolito e con gli occhi spalancati come un gufo, ma poi ha provato un’emozione pura! Tutto ha avvalorato ancora di più la sua idea che per comprendere fino in fondo un artista sia necessario vedere le sue opere dal vivo; nella vita di adulti e bambini è decisamente importante poter Mi piace moltissimo come i qualche volta uscire dalla due autori a distanza di monotonia e rimanere fol- anni riescano a sfrondare,


a ricercare l’essenziale e a eliminare il superfluo. Mi ricordano che anche nella vita, nella difficile routine quotidiana, cogliere solo il necessario sia davvero difficile. Mondrian gioca con le figure geometriche, con i quadrati quasi come se il cerchio e la curva gli sembrino pigri e indolenti.

Anche nel libro gioco Capogrossi e i cieli d’autunno sopra Roma i bambini imparano a conoscere il pittore, che doveva fare l’avvocato ma che poi si è innamorato delle forme e dei segni e ha deciso di intraprendere la professione dell’artista. Capogrossi ha iniziato a dipingere la figura umana e la natura con colori bellissimi, poi dal 1949, fra i tanti segni che aveva, ne ha scelto uno. Nei suoi disegni e nei suoi collages lo ha rovesciato, centuplicato, ingrandito, bucato. Anche i bambini a volte si fissano con un segno, un simbolo e lo ripetono all’infinito. In questo libro i bambini sono stimolati a chiedersi che cosa significano e che cosa ricorDa un lato Mondrian nei dano i segni di Capogrossi. suoi quadri usa tre colori Ci si chiede perché i suoi e due linee, dall’altro nella quadri siano pieni di quei sua vita ama il ballo scate- segni neri così come son nato e la palpitante musi- pieni di stormi i cieli d’auca jazz. In questo colorato tunno sopra Roma. Poi si libro Mondrian con le sue può scoprire, come dice tele e Sanna con i suoi di- l’artista, che i segni non segni ci trasmettono ener- sono necessariamente l’immagine di qualcosa che si è gia e dinamismo. visto, ma possono esprimere qualcosa che è dentro di noi …

Nell’inserto centrale dei libri di questa interessante collana, sono riportate alcune proposte di attività manuali per i bambini. Segnalo anche l’esauriente bibliografia di libri per bambini su arte e artisti La vita dei pittori (http:// buoneletture.wordpress. com/2010/01/27/la-vitadei-pittori-una-bibliografia-di-libri-per-bambini/) che ci può aiutare a riscoprire con i nostri figli la bellezza di girare per musei. Ricordo infine un’interessante iniziativa: durante il mese di giugno molte collezioni ed esposizioni partecipano ad Art Night, l’arte libera la notte dove si aprono le porte gratuitamente anche a bambini e famiglie. Potrebbe così essere l’occasione per sperimentare la meravigliosa emozione che ci può dare un’opera d’arte.

Bibliografia Hai mai visto Mondrian? A. Sanna, Artebambini, 2005 Giuseppe Capogrossi e i cieli d’autunno sopra Roma, P. Marabotto, 2000Lapis, Quadri

di

un’esposizione,

C.Carminati, P.Valentinis, Fabbri Editori, 2007 Vasilij Kandinskij. Il tratto, tratto dal ritratto è diventato astratto! P. Marabotto, Lapis

33


trentagiorni

COMMISSIONE: KYENGE PRESIDENTE Sarà il ministro per l’Integrazione, Cécile Kyenge, a firmare l’autorizzazione all’ingresso dei bambini stranieri adottati da coppie italiane e a concedere loro, quindi, la cittadinanza italiana. Il ministro ha infatti assunto formalmente la presidenza della Commissione per le adozioni internazionali (Cai) dopo l’attribuzione della delega da parte del presidente del Consiglio, Enrico Letta. «Le adozioni internazionali - ha detto ieri il ministro durante la prima riunione della Commissione - sono un importante strumento di formazione di nuove famiglie e soprattutto di integrazione». Il ruolo della commissione per le adozioni internazionali è quello di garantire che le adozioni di bambini stranieri avvengano nel rispetto dei principi stabiliti dalla convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale. L’Italia è, attualmente, il secondo Paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per numero di famiglie che accolgono bambini stranieri in adozione. Oltre ad autorizzare l’ingresso dei minori, la Commissione si occupa della valutazione e dell’autorizzazione degli enti allo svolgimento delle proce-

dure di adozione. Fonte: ilsole24ore.com NON MANDANO FIGLI A SCUOLA, DENUNCIATI Controlli carabinieri con dirigenti istituti della zona (ANSA) - NARDODIPACE (VIBO VALENTIA) - Sei genitori sono stati denunciati in stato di libertà dai carabinieri di Nardodipace per non avere mandato alla scuola elementare i loro figli. Dalle indagini, relative all’anno scolastico 2012-2013 e condotte di concerto con i dirigenti degli istituti scolastici della zona, è emerso che i sei, senza giustificato motivo, non hanno fatto frequentare ai figli la scuola, incorrendo nel reato di inosservanza dell’obbligo dell’istruzione elementare dei minori. FONTE: ANSA LA CAMERA ELIMINA LA DISTINZIONE TRA FIGLI LEGITTIMI E NATURALI CAMERA: LEGGE FIGLI – La Camera dei Deputati ha finalmente approvato ieri la legge che riconosce i diritti dei figli naturali, eliminando le distinzioni con i figli legittimi, cioè nati all’interno del matrimonio. Il disegno di legge è passato con 366 voti a favore, 31 contrari e 58 astenuti. Il testo del provvedimento, che era in terza lettura, non è stato mo-

dificato rispetto all’ultimo varo del Senato, pertanto è diventato legge. L’approvazione è stata bipartisan e condivisa dalle forze politiche, eccetto alcune dissociazioni a titolo personale nell’Udc e nel Pdl. La nuova legge all’articolo 1 stabilisce che “la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età”. Viene poi eliminata nel codice civile la distinzione tra figli legittimi e figli naturali, che d’ora in poi saranno indicati semplicemente come figli. L’altra novità introdotta nella legge è la possibilità di riconoscimento dei figli nati da rapporti incestuosi, anche se previa decisione di un giudice. L’articolo 2 della legge, poi, contiene la delega al governo che entro 12 mesi dovrà adottare “uno o più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità per eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi“. Fonte: direttanews.it


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