Adozione e dintorni GSD informa - mensile - maggio 2012 - anno II, n. 5
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maggio 2012 | II, 5 Adozione e dintorni GSD informa - mensile - maggio 2012 - anno II, n. 5
GSD informa
nano I bambini ci inseg i
Il tema delle origin Il rischio giuridico
GSD informa
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editoriale
di Simone Berti
psicologia e adozione
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Il tema delle origini di Franco Carola L’accoglienza sanitaria come nascita di una nuova famiglia di Rosanna Martin
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Nello studio del pediatra di Giuseppe Gregori
salute e adozione
giorno dopo giorno
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Mamma è proprio una fifona di Marta e Alberto leggendo
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I bambini ci insegnano di Marina Zulian
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Il rischio giuridico di Angelamaria Serpico
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trentagiorni
sociale e legale
Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956
redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@ genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro
editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org
impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pea Maccioni, Lecce
ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro
progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma; Diana Giallonardo, L’Aquila; Raffaella Ceci, Monza.
abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile
editoriale
di Simone Berti
Sabbia e cemento A distanza di pochi anni ci troviamo nuovamente a vivere l’esperienza devastante di un terremoto. Dopo L’Aquila, che ci ha così profondamente toccati anche come associazione, adesso l’Emilia. Il terremoto ci mette brutalmente di fronte a un dolore inevitabile e senza rimedio, che arriva, ci sconvolge e dal quale non possiamo più tornare indietro. Ci sono eventi che scavano qualcosa di irreversibile nonostante il nostro desiderio di condividere, di uscire e far uscire dalla solitudine, di reagire alla mancanza di parole, allo stupore inorridito. Un terremoto ci richiede prepotentemente l’impegno tenace alla ricostruzione. Lo dobbiamo ai morti, ai feriti, a chi si è trovato la vita e gli affetti travolti e devastati. Tuttavia non possiamo ricostruire con la cura dovuta se non facciamo spazio a un sapere che è quello di una fragilità che ci connota. Dobbiamo sapere, dirci e ripeterci che la terra dove abitiamo può tremare, improvvisamente, in maniera violenta anche se spesso si è incaricata di farci arrivare degli avvertimenti. Non possiamo permetterci di continuare a far finta di non sentire. Dobbiamo imparare ad ascoltare questa terra che trema e che può mettere improvvisamente a dura prova le fondamenta delle nostre case, dei nostri palazzi, delle nostre città. Anche in questi giorni vediamo quanto illusoria possa rivelarsi l’aspettativa di un ritorno rapido alla sicurezza dell’assenza di scosse che ci permetta di dire che è definitivamente passato e dobbiamo invece dolorosamente e con angoscia abituarci a convivere con uno sciame sismico che può durare anni e anni ancora dopo la devastazione. Ed è proprio sapere questa precarietà che può indicare il compito che deve starci più a cuore: non permettere più, gridando se occorre con tutta la forza, che si continui a mischiare, come abbiamo visto sgomenti a L’Aquila, sabbia di mare con cemento in ciò che edifichiamo.
© diana giallonardo
Mai più sabbia di mare nel cemento. Anche l’esperienza dell’adozione ci mette in contatto con una ferita dalla quale non potremo tornare più indietro e con la quale occorre proseguire per prendercene cura. Non dimentichiamo, infatti, che siamo uomini e donne, padri, madri e figli feriti dalla vita e che abbiamo trovato con fatica la forza di andare avanti facendo spazio con il nostro dolore alle ferite che ci hanno portato coloro che ci sono diventati cari. Non abbiamo ferite da dimenticare, ma storie da ricostruire insieme. Abbiamo provato lungo il tragitto ad accogliere la fragilità e l’imperfezione per poter guardare il male che ad un certo punto è arrivato nella vita dei nostri figli devastandone le sicurezze e i punti di ancoraggio. Ci siamo imbattuti più volte nell’ostinato rifiuto di qualsiasi tipo di fragilità e conosciuto quanto possa far male un modello di integrità a cui la nostra società ci invita a conformarci
additando come colpa, nel nome di un controllo che promette assoluto, ogni occasione in cui possiamo trovarci a inciampare, zoppicare, restare indietro o cadere. Sì, abbiamo imparato a fare posto ai nostri limiti. Abbiamo dovuto con fatica inventarci come mettere a frutto le nostre ferite e apprendere quanta cura ci voglia nel ricostruire e nel tentare di riedificare dove qualcosa è crollato. Anche le relazioni e gli affetti nei quali abitiamo possono essere messi a dura prova e di fronte alle criticità non possiamo permetterci di far finta di non sentire. Dobbiamo imparare ad ascoltarci e a volte abituarci a convivere con le scosse che ogni relazione e legame in fin dei conti producono. Siamo precari anche nei nostri affetti e sappiamo gli effetti della devastazione di precedenti incurie nella vita di chi ci sta più a cuore. E allora dobbiamo chiederci: Quanta sabbia di mare c’è nella costruzione dei nostri legami, nei rapporti che intrecciamo con noi stessi e con gli altri? Quanta sabbia di mare usiamo nella bramosia di accorciare i tempi e di investire al minimo sulle relazioni e gli affetti che costruiamo? Quanta sabbia di mare nelle nostre leggi, negli interventi sociali? Quanta perché costa meno, e quanta perché ci accontentiamo di una tenuta apparente? Quanta nella prevenzione delle situazioni a rischio, nelle relazioni da cui vengono i nostri figli? Per questo non dobbiamo dimenticare di ricordare, rivolgerci indietro agli effetti devastanti dell’incuria per pretendere che quegli effetti non li debba subire più nessuno. Dobbiamo aver cura della fragilità di fondo nella quale viviamo, della precarietà inevitabile che alimentiamo quando vogliamo soltanto nasconderla. Ebbene sì dobbiamo ripetere con forza
mai più sabbia di mare in mezzo al cemento.
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Il tema delle origini Segreti, bugie e verità
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Ostacoli alla narrazione I pedagoghi e i tecnici del settore educativo sono concordi nel riconoscere l’importanza di crescere in un clima educativo imperniato sulla trasparenza delle comunicazioni intra-famigliari. I genitori hanno il compito di supportare il più possibile il processo evolutivo dei membri più giovani verso una personale ricerca di verità interiore. L’adozione comporta due ordini di problemi in merito al tramandare e supportare una giusta trasmissione di notizie e valori di gusto trans-generazionale: la conoscenza diretta delle notizie che riguardano la storia del proprio figlio e il riconoscimento di un diritto di accesso a questa conoscenza. Quest’ultimo, sebbene regolamentato le-
galmente, è un diritto che prima di tutto va riconosciuto dal genitore che può scegliere, quando sa qualcosa, di non trasmetterla al figlio o mascherarne alcuni aspetti. La conoscenza e conseguente narrazione delle origini biologiche può essere quindi ostacolata da diversi fattori, tra i quali: 1) la mancanza di notizie e conseguente impossibilità o difficoltà a raggiungerle; 2) la conoscenza di “notizie” potenzialmente traumatiche o reputate difficili da elaborare per il bambino (ad es.: incesti, abusi o molestie sessuali subite o testimoniate); 3) la mancata elaborazione della propria storia personale e di coppia da parte dei genitori con conseguente svalutazio-
ne di ciò che profondamente significa “conoscersi”; 4) la mancata elaborazione del lutto della sterilità nella coppia genitoriale. La famiglia adottiva alle volte può assumere, più o meno consapevolmente, un atteggiamento di proibizione, o forte limitazione di accesso alla conoscenza del proprio figlio alle informazioni circa le proprie origini. Tale proibizione si può realizzare come: 1) non parlare al bambino dell’argomento «Perché lui non fa domande»; 2) sviare il discorso facendolo “cadere”; 3) rinviare il discorso: «Ne parleremo quando sarai grande»; 4) reagendo ansiosamente o con imbarazzo alle domande del bambino; oppure con silenzi, men© simone berti
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zogne, distorsioni o manipolazioni delle informazioni o altro; 5) parlando al bambino delle sue origini biologiche con modalità non appropriate alle sua età. L’importanza dei segreti
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Il figlio adottivo, dal canto suo, può vivere un forte conflitto interno tra il voler sapere e il non volere sapere affatto. È importante ricordare il ruolo fondamentale che assume nella vita di ogni individuo il costrutto di “Segreto”. Il segreto, ciò che non ci viene permesso di conoscere, che viene celato al nostro sapere, relativo alle informazioni circa le nostre origini, da una parte costituisce un grave ostacolo al raggiungimento di un’identità personale, ma dall’altra protegge da una realtà potenzialmente dolorosa. Non è quindi assolutamente detto che un bambino voglia a tutti i costi sapere delle proprie origini. La necessità di svelare elementi del proprio passato alle volte maschera semplicemente il bisogno di sentirsi confermare la realtà oggettiva presente, in cui le origini percepite risalgono all’incontro con la famiglia adottante. La ricerca delle proprie origini biologiche per un
figlio adottivo può essere anche impregnata di forti vissuti di colpa. Egli potrebbe considerare che la propria ricerca venga vissuta dai genitori adottivi come un rinnegarli al fine di trovare genitori migliori, vivendo un conseguente “conflitto di lealtà”; parimenti, l’idea di genitori biologici che si sono negati fin dall’inizio, imponendo silenzio e segretezza, può far nascere il desiderio di ubbidire al loro intrinseco volere di “non essere visti” e portare i figli adottivi a negare arbitrariamente una eventuale propria volontà di conoscenza. La linea di confine è sottile: quando aprire il discorso e quando lasciare che venga da sé? Il genitore adottivo a volte cela in questo dubbio parte della propria ansia circa il voler riparare il più in fretta possibile un danno subito dal proprio figlio. La capacità del genitore ad attendere che sia il figlio stesso a chiedere o mandare segnali circa la propria “volontà di sapere” diventa essa stessa una riparazione per il figlio, che impara a convivere con dubbi che comunque lo accompagneranno nel proprio cammino esistenziale. I grandi possono così trasmettere ai figli una importante lezione di vita emotiva: i dubbi non cancellano ciò che una
persona è nel presente; cercare la verità, il Vero Sé, fa parte del cammino dell’uomo e, per tutti, esso contiene dei misteri impliciti con i quali si può convivere. Certo, a volte è faticoso, ma non impossibile o necessariamente doloroso, quando c’è chi ti sta vicino a condividerne il peso. Le domande del bambino I bambini che hanno vissuto esperienze di abbandono morale e materiale avvertono, rispetto alle proprie origini, un vuoto e un dolore che li angoscia e che li spinge a domandare spiegazioni ai genitori adottivi. Tali quesiti possono essere divisi in tre categorie: domande sulle proprie origini («Da dove vengo?»), sulle motivazioni dell’abbandono («Perché non mi hanno voluto?») e sulla nuova famiglia adottiva («Perché voi mi avete voluto?»). Il compito dei genitori adottivi non consiste nel rispondere a tutti i costi a domande di cui spesso ignorano completamente la risposta, bensì di trasmettere al figlio una sincera disponibilità ad accogliere nel proprio tessuto familiare due figure, spesso fantasmatiche, legate a una realtà interna molto dolorosa per il proprio figlio. Se il genitore adottivo
Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Docente in training presso la SGAI (Società gruppoanalitica italiana), è Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process)
BIBLIOGRAFIA Fonzi D., Carola F., Il tema delle origini: strumenti operativi, Roma, Seminario Asl RmB, 2011.
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Miller A., Il bambino inascoltato, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. Scabini E., Cigoli V., Il famigliare. Legami, simboli, transizioni, Milano, Raffaello Cortina, 2000. riesce a pensare al figlio adottato come “connesso” dolorosamente ai genitori biologici, riconoscerà implicitamente la valenza di un legame che il bambino vive come reale, anche quando l’abbandono è avvenuto nella primissima infanzia. Più il genitore dimostrerà al figlio la propria consapevolezza circa il valore di quel sentimento confuso che il piccolo vive nei confronti di “chi non c’è e non ci sarà più”, più contribuirà allo sviluppo di un’immagine di sé integrata nel bambino. La rappresentazione di sé che il bambino compone nel pro-
prio processo evolutivo non può essere disgiunta dalla percezione e dai pensieri che fa sui genitori biologici. È necessario però che siano primariamente i genitori adottivi a elaborare un’adeguata rappresentazione dei genitori biologici e che s’interroghino sulle motivazioni dell’abbandono. Il che non significa certo dover spiegare a tutti i costi eventi ignoti, ma certamente essere pronti ad ammettere anche i propri dubbi o perplessità circa una questione così scottante. Se il proprio figlio chiede: «Perché mi hanno lasciato?», ventilare del-
le ipotesi è utile, ma forse lo è di più ammettere che non lo si sa, quando è così. Se questo dialogo “intellettualmente onesto ed emotivamente paritario” tra genitori e figli riesce ad avvenire, i giovani saranno facilitati nel percorso di integrazione interna tra il prima e il dopo, tra immagine dei genitori biologici, immagine dei genitori adottivi e tra le diverse e contrastanti visioni di sé. I figli adottivi potranno accogliere nella propria realtà interna tante nuove sfumature, tutte parti integranti di un Sé ampio e riccamente sfaccettato.
psicologia e adozione 12
L’accoglienza sanitaria come nascita di una nuova famiglia
Mi capita spesso di incontrare genitori adottivi dopo il loro arrivo in Italia in preda a emozioni diverse ma sicuramente colorate da tinte forti: rabbia, tristezza, incertezza e paura. Mi capita altrettanto spesso di mettermi in contatto con queste emozioni e sentirle proprie di ogni bambino che ha iniziato un nuovo percorso di vita. Chiamare per nome il bambino di cui stiamo parlando in quel momento e di non appellarlo con semplicità “mia figlia, mio figlio”, “suo figlio, sua figlia”, ci dà la dimensione di un cammino, di una partenza e di un arrivo. La partenza quasi sempre non è graduale, i genitori si trovano catapultati a una folle velocità dentro un marasma emotivo. Ma per tutti loro è un momento simbolico importante, è l’incontro,
l’inizio di un nuovo viaggio insieme. All’ambulatorio del bambino immigrato e adottato presso l’Ospedale Meyer di Firenze, le nuove famiglie vengono accolte sia con un completo e accurato screening medico sia con l’offerta di uno spazio psicologico per i genitori. I genitori che incontro sono spesso molto provati da un punto di vista emotivo e hanno tutte le ragioni per esserlo. Freud (Inibizione, sintomo e angoscia, 1925) parla di «impressionante cesura dell’atto della nascita» e sebbene la nascita biologica di questi bambini sia già avvenuta, l’impatto con la nuova vita che li aspetta mi porta ad associare questo evento all’esperienza dell’incontro con i genitori.
È vero che l’ambiente che li ha ospitati fino a quel momento non è stato caldo e accogliente come l’utero che accoglie il feto, ma è pur vero che è stato l’unico ambiente da loro conosciuto. Le reazioni di alcuni bambini che lasciano l’istituto (o l’ambiente che li ha ospitati fino a quel momento) è associabile all’uscita dal grembo materno: pianti e urla, angoscia, sorpresa e paura. I loro nuovi genitori sono lì, accolgono le reazioni dei figli, cercano di non spaventarsi, si sostengono l’un l’altro e sostengono il loro bambino in quei momenti difficili. Nei colloqui con i genitori al loro rientro in Italia credo che una parte di quelle emozioni espresse dai bambini e accolte dai loro genitori vengano necessariamente trasferite dall’incontro figli-genitori © simone berti
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all’incontro genitori-psicoterapeuta e dare un significato a tutto ciò sembra necessario. Lo psicologo fornisce loro un luogo e uno spazio (la stanza di consultazione) per “evacuare” e “urlare” tutte le emozioni vissute, compresse e fantasticate. Un buon accoglimento, senza critica, permette loro di esprimere anche pensieri indicibili, frutto della paura e della disperazione del momento. Lo spazio psicologico allora diventa una «madre sufficientemente buona» (D.W. Winnicott) che accoglie le emozioni, le digerisce e le restituisce trasformate pronte a essere elaborate. Spesso accade che in situazioni particolarmente complicate anche i pensieri più “espulsivi” rispetto al bambino rientrino subito dopo il primo colloquio. Lo stare fermi insieme e dare il campo all’emozione e al pensiero, ci permette di non agire e di non stare sull’onda del fare ma del pensare. Oltre a questa importante funzione credo che lo spazio psicologico assolva altri due compiti importanti: - Riconoscere la validità del nuovo ruolo genitoriale; - Aiutare i genitori a decifrare e comprendere i comportamenti dei loro figli. Alcune delle domande più
profonde e nascoste che sento provenire dai genitori che incontro sono: «Sono capace di amare il mio bambino?», «Conosco il modo di amarlo?», «Il mio bambino sarà capace di amarmi?». I genitori si chiedono se hanno l’autenticità di amare loro figlio in modo che esso diventi il loro bambino e non un bambino qualsiasi. All’inizio di ogni relazione d’amore c’è un gioco di improvvisazione e spontaneità che sfugge a ogni regola e si oppone a una “tecnica” e proprio per queste caratteristiche essa è sentita come pericolosa e incerta. I genitori cercano così conferme continue in libri o colloqui con “esperti” che possono in qualche modo dare loro un bollino di certificazione, di autorizzazione. Sembra dunque importante, in questa fase, puntare l’attenzione sulle loro emozioni che piano piano si formano all’interno della famiglia e che sono le sole che differenzieranno il loro ruolo di genitori dal mero ruolo di educatori. Riconoscere, ma soprattutto riconoscersi come nuovi genitori che insieme al figlio stanno costruendo l’impalcatura sulla quale tutto il loro futuro si reggerà, un’impalcatura nella quale la parte invisibile e silenziosa è il loro spontaneo amore.
La maggior parte dei genitori desidera e sente il bisogno di sapere quello che succede nella mente del bambino in determinati momenti. I genitori si sforzano di mettersi nei panni del figlio e di capire cosa sta succedendo e se non ci riescono cercano di indovinare, basandosi sulla loro sensibilità. Quando si ama qualcuno, si desidera condividerne i sentimenti ed è proprio da questo desiderio che nasce la capacità di comprendere e di immedesimarsi. Questo processo è necessario per i genitori e per il bambino e progressivamente si forma un profilo che i genitori consultano di continuo. Spesso è difficile per i genitori adottivi trovare una chiave di lettura dei comportamenti dei loro bambini, essi appaiono confusi e incomprensibili, a volte la confusione può trasformarsi in arrendevolezza o rifiuto. Aiutare i genitori a trovare il senso di alcuni comportamenti dei loro figli permette di riaccendere quel lume della comprensione che era andato momentaneamente perso, ritrovando l’immedesimazione con il figlio e con essa la vicinanza. All’inizio di questo scritto ho parlato della nascita
© diana giallonardo
non reale ma specifica per ogni nuova genitorialità ed è così che Lity, una bambina di quattro anni, la mette in scena suggellando dopo più di un anno dal suo arrivo in Italia, la sua nuova nascita nella sua nuova famiglia: Lity chiede notizie della morte della madre naturale, i genitori, pazienti e accoglienti, sentono che è un momento importante per la figlia che sembra aver bisogno di uno spazio emotivo e non solo intellettivo per la propria storia passata. Lity chiede, fa domande su domande, sul suo passato, sul suo paese, sui bambini dell’istituto rimasti. Dopo aver ascoltato le parole dei genitori, Lity “mette in scena” la morte della mamma
naturale, così come se la immagina, poi chiede alla mamma di metterla nella posizione che i bambini assumono dentro la pancia della mamma e s’infila sotto la maglietta della mamma, ne esce “rinata” ed emettendo vagiti da neonata, ritorna in posizione fetale e “rinasce” nuovamente dalla pancia-maglia del babbo. Una volta fuori, Lity recita una sorta di evoluzione passando dal vagito del neonato al linguaggio. Poi emette un sospiro e si addormenta! Quante emozioni, quanti passaggi importanti è stata in grado di affrontare e rivivere questa coraggiosa bambina. Lity ha bisogno di trovare un continuum nella propria storia, quel filo tra passato e presente
che non dovrebbe spezzarsi mai ma assumere nuovi significati. Lity ha ritrovato nella morte della madre naturale una parte importante della propria storia ma ha saputo andare avanti, proseguendo con la sua rinascita. L’accoglimento dei genitori di tutte le emozioni della figlia, anche quelle che possono portare dolore e sofferenza, ha permesso a Lity di viverle e non di negarle, ha permesso inoltre di fare tutti insieme un percorso che non può essere di crescita se non si ritrova e non si elabora un passato anche se doloroso. Questa è la fine ma non è che l’inizio così come ci ha insegnato Lity.
Rosanna Martin Psicologa psicoterapeuta A.O.U. Meyer, Firenze
salute e adozione
Nello studio del pediatra 16
Ancora oggi, nonostante siano passati quasi trent’anni da quando ho cominciato a lavorare come pediatra di famiglia, il mio primo incontro con un bambino in adozione e la sua nuova famiglia determina una sensazione di novità “supplementare” e particolare, comunque diversa rispetto a quella dal primo contatto e dalla prima visita di un altro bambino. Questo modo di sentire una volta suppongo fosse prevalentemente dettato dalla diversa etnia dei bambini adottati provenienti da altri continenti, in qualche modo “diversi”, che rischiavano di mettere a dura prova alcune mie certezze professionali: come farò a fare diagnosi di una malattia esantematica come il morbillo o la scarlattina in un bambino di pelle scura? Era uno dei dubbi che ciclicamente mi ponevo.
Oggigiorno i bambini in adozione continuano a giungere prevalentemente attraverso adozioni internazionali da paesi lontani (negli ultimi vent’anni anche dai paesi dell’est europeo) ma nel frattempo sono avvenuti anche importanti flussi migratori che hanno portato nei nostri ambulatori tanti bambini, nati all’estero o in Italia, da genitori stranieri. Mediamente almeno il 10% di bambini in cura da un pediatra non è di nazionalità italiana: il fatto di venire da lontano non è quindi più una novità. Negli anni passati era più facile incontrare bambini adottati in tenera età, sotto l’anno di vita. Questo naturalmente semplificava il percorso di adozione non solo per gli aspetti affettivi e psico-relazionali ma anche per quelli sanitari (abitudini alimentari, vaccinazioni ecc).
Per contro negli stessi anni spesso i percorsi adottivi dal paese di origine erano assolutamente lacunosi riguardo le informazioni di carattere sanitario che accompagnavano il bambino. La documentazione, con traduzioni a volte molto fantasiose, era generalmente di scarso aiuto e verosimilmente, in alcuni casi, contenente informazioni incomplete se non addirittura false. In questi ultimi anni nella mia esperienza i bambini in adozione continuano a giungere quasi sempre tramite le adozioni internazionali mentre si è aggiunta con maggior frequenza l’istituzione dell’affido che coinvolge prevalentemente bambini italiani. I bambini che giungono in Italia attraverso le adozioni sono mediamente più grandicelli rispetto al passato, in genere di almeno
© roberto gianfelice
5-6 anni di età ma anche di 8-10 anni. Sono bambini che generalmente hanno vissuto in istituti per periodi medio-lunghi e la cui data di nascita rimane tuttora quasi sempre presunta. I percorsi adottivi oggi sono più tutelanti per i bambini: vivere in strutture collegate alle associazioni che si occupano di adozioni internazionali significa generalmente non solo essere seguiti almeno dal punto di vista nutrizionale e sanitario con regolarità ma essere accompagnati anche dal punto di vista affettivo da persone motivate e appassionate. In questi ultimi anni ho avuto modo di visitare personalmente più volte un orfanotrofio di un paese africano, l’Etiopia, con sede ad Addis Abeba, di conoscerne il personale e la responsabile e di visitarne i bambini
e la mia impressione è stata ottima: scheda sanitaria aggiornata, vaccinazioni in regola, alimentazione e igiene adeguate, clima sereno. Le cartelle mediche che accompagnano questi bambini sono quindi adesso molto più complete e documentate dal punto di vista sanitario. Ma, come è normale che sia, poco si sa della storia di questi bambini e della realtà in cui sono vissuti prima di essere istituzionalizzati se non attraverso i racconti sicuramente attendibili, ma giocoforza spesso lacunosi, delle strutture di accoglienza che li hanno ospitati prima dell’arrivo dei genitori adottivi: le relazioni parentali, l’educazione, l’alimentazione… La visita pediatrica rappresenta per i genitori una priorità appena giunti in Italia. Tra le prime preoc-
cupazioni della famiglia vi è quella di verificare con il medico curante lo stato di salute del bambino: sappiamo quanto possa essere presente il dubbio di avere ad esempio un bambino sieropositivo. Se il bambino è affetto da una patologia già documentata prima dell’adozione sarà necessario verificare il quadro clinico e attivare gli eventuali approfondimenti (visite specialistiche, esami, terapie ad hoc ecc.). Certamente gli attuali protocolli di valutazione e di approccio nell’adozione internazionale consentono di non tralasciare i vari aspetti di salute puntando a escludere problemi correnti e permettono anche di impostare un lavoro di prevenzione a cominciare dalla scheda vaccinale. Inizia quindi un periodo di adattamento e di adeguamento reciproco tra bam-
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bino, genitori e ambiente (alimentazione, scuola, clima, vita sociale, gioco) di cui noi siamo a volte spettatori e a volte consulenti. Sicuramente ogni caso fa storia a sé e i problemi che ci si pone e le domande che ci rivolgono i genitori cambiano a seconda dell’età alla quale vengono adottati, al paese di provenienza, al vissuto degli stessi genitori ecc. Ad esempio a livello alimentare la dieta “italiana” piuttosto che mediterra-
nea incontra difficilmente ostacoli tra i bambini di paesi lontani. Alla qualità del cibo si aggiunge spesso un apporto eccessivo di calorie e purtroppo anche per loro si apre la porta del sovrappeso nel giro di pochi anni in misura per lo meno simile a quella dei coetanei autoctoni. Catapultati in un ambiente sociale in genere molto diverso da quello del paese di origine subiscono gli stessi attacchi informatici dei bambini italiani (TV,
videogiochi, computer) ma con il rischio, a mio avviso, di cadere più facilmente nella dipendenza. In questo senso dosare gli stimoli nuovi potrebbe essere un modo per ridurre il rischio di situazioni stressanti e dannose per il bambino. Non sono inoltre rari i problemi d’inserimento scolastico legati a volte al vissuto precedente del bambino ma a volte a una scarsa esperienza e competenza gestionale degli educatori. Sicuramente il loro vissuto
si riflette anche nell’atteggiamento che prevalentemente osservo durante le visite in ambulatorio: non ricordo da parte loro scene di panico, pianti, comportamenti che esternassero paura o timori. Al contrario dal punto di vista caratteriale ho avuto il riscontro di buone capacità di gestire l’emotività, ad esempio quella legata al dolore fisico. Avere quindi tra i propri pazienti bambini adottati è un’esperienza sempre
© simone berti
nuova e particolare che mi incuriosisce e che mi arricchisce dal punto di vista umano così come attira la mia attenzione il modo con il quale vedo i genitori adottivi che cercano di sintonizzarsi sulle stesse onde emotive dei loro figli e di coglierne ogni sfumatura. La pediatria di famiglia negli ultimi vent’anni è cambiata radicalmente perché radicalmente è cambiato anche l’approccio al paziente pediatrico: da me-
dicina prevalentemente di “attesa” pronta a intervenire nelle patologie acute (classicamente le malattie infettive) si è trasformata principalmente in medicina della prevenzione e della gestione della cronicità. Credo che allo stesso modo sia cambiato da parte del pediatra di famiglia il modo di incontrare e di seguire il bambino adottato e la sua famiglia cercando di essere per loro un punto di riferimento non esclusivamente di tipo sanitario.
giorno dopo giorno
Mamma è proprio una fifona 20
Sono cresciuta a latte e… ansia. Da bambina non potevo mangiare i gelati per il fantasma dell’acetone (esiste ancora nei manuali della moderna pediatria?). I bagni in mare a giugno (rigorosamente unico mese in cui si andava in riviera) dovevano essere molto brevi per evitare il raffreddore. Mi fu impedita a un certo punto la danza classica, che adoravo, per il rischio della scoliosi (che nessun ortopedico mi ha mai diagnosticato…). Insomma, non posso dire di aver vissuto un’infanzia infelice, ma certamente l’ansia materna ha rischiato a tratti di inquinarmi l’atmosfera intorno. Poi anche mia mamma si è accorta che in fondo l’intraprendenza di Pippi Calzelunghe le stava proprio simpatica e, con l’avvicinarsi dell’adolescenza, per fortuna, ha allentato il laccio: sono arrivati senza
fatica i sì alle vacanze in gruppo in regimi controllati (ma comunque senza i miei), i sì all’università lontana da casa. I miei genitori si sono tranquillizzati, io mi sono resa sempre più autonoma. Me lo domando ancora oggi quale sia l’origine remota di tanta ansia nel romanzo familiare: forse, semplicemente, il desiderio di controllare tutto, di prevedere i pericoli, di esorcizzarli. Fino a una maggior consapevolezza che non ce la si può fare, che i figli il proprio percorso lo devono compiere allontanandosi piano piano dalle ali di mamma e papà. Anch’io sono una tipa ansiosa: per le mille cose da fare che vorrei sempre perfette, per la casa troppo in disordine, per gli esami del sangue da ritirare, per un ritardo dell’aereo su cui viaggia mio marito…
L’ansia ha rischiato di traboccare nei momenti cruciali della vita: prima di sposarmi, e soprattutto prima di adottare, quando immaginavo i miei figli, pensavo ai loro possibili vissuti, a tutte le più svariate problematiche in cui avrei potuto imbattermi. Ha fatto capolino anche all’appuntamento più importante, quello dell’incontro con loro: mentre per mio marito è stato amore a prima vista, io mi sono fatta sopraffare dall’agitazione. Mio figlio – un bellissimo bimbetto paffuto – mi sembrava avere un naso enorme che gli avrebbe creato problemi seri nell’età dello sviluppo (!!!). Ricordo ancora con tenerezza i suoi pianti disperati, causati da semplici mal di pancia, tra le braccia di una madre in preda al panico che si chiedeva se tutto quel disagio fosse dovuto al fatto che
© simone berti
non mi riconoscesse come mamma. E quanti pensieri foschi davanti alla prima foto di mia figlia, arrivata dal Vietnam con la proposta di abbinamento, troppo sfocata per fugare ogni dubbio sul suo sviluppo e la sua salute… Oggi combatto la battaglia più difficile, quella di non permettere che l’ansia avveleni l’aria che respirano i miei figli. Per questo mi impegno perché diventino sempre più autonomi e, malgrado qualche resistenza interna, li spingo a volare. Mando la piccolina al
mare con mia suocera per una settimana ogni anno (e assicuro che il rischio di perdersela in spiaggia è molto elevato!!!) e, appena ha avuto l’età minima per l’ingresso, ho iscritto mio figlio agli scout. E lo saluto con gioia – mista a terrore – quando parte, anche sotto la pioggia torrenziale dello scorso weekend, con uno zaino decisamente più grande di lui con dentro poche cose ma pesantissime: il sacco a pelo, il materassino e la gavetta. Eppure si sente leggero: è la voglia di sperimentarsi
e di diventare grande che lo fa camminare spedito. Ma lo dichiaro apertamente anche ai miei figli: «Mamma è proprio una fifona!». Inutile nascondersi dietro a un dito, giustificandosi dicendo che oggi è tutto così pericoloso, le insidie sono dappertutto, non ci si può fidare di nessuno… Meglio ammettere spudoratamente di avere qualche paura eccessiva che ossessionarli con richieste e divieti, e magari riderci sopra insieme.
Marta e Alberto
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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu
I bambini ci insegnano 22
Imparare dai bambini: una straordinaria avventura e una occasione unica di rinnovamento e trasformazione. In questo modo lo psicoterapeuta e filosofo Piero Ferrucci definisce ciò che intende con il suo libro Imparare dai bambini. Già dalle prime pagine ci racconta anche come un genitore si possa sentire prigioniero di un tiranno pazzo. L’autore racconta di come un giorno si ritrovi a cercare disperatamente la rotella di plastica che si è staccata dall’automobilina del suo figlioletto Emilio di cinque anni. Mentre guardava dappertutto senza successo, si sentiva sempre più stanco e irritato; nella sua mente si affollavano pensieri quali “Chi me lo fa fare di cercare una maledetta rotellina?”, “Come posso essermi ri-
dotto così?”, “Quanto tempo dedico a queste attività faticose e banali?”. Sotto al divano, in mezzo alla polvere, tra un cuscino e l’altro, il promettente psicologo pensava a come fosse cambiata la sua vita con l’arrivo di un bambino. Probabilmente anche noi ci siamo fatti mille volte questo genere di domande. Dal fatidico momento dell’arrivo di un bambino ognuna delle nostre vite si può dividere in prima… e dopo… Quanto del nostro tempo viene dedicato ai figli è impossibile dirlo: oltre a quello che passiamo con loro, a quello in cui organizziamo le loro giornate o le nostre in funzione delle loro, c’è da considerare anche tutto il tempo in cui li abbiamo in mente. Però, scrive Ferrucci, poi qualcosa cambia. Occuparsi delle piccole
cose, essere disponibili nei confronti di un bambino, può, per uno strano meccanismo interiore, affaticare molto ma può anche far stare bene. Ogni tanto, allontanarsi dal mondo razionale degli adulti e aggirarsi negli universi infantili, nei quali la razionalità spesso viene dimenticata, permette di prendersi meno sul serio e di ritrovare o riscoprire un ordine diverso delle cose. Come l’autore, nel mio universo di prima dei figli potevo tranquillamente leggere, potevo viaggiare, potevo guardare un film dall’inizio alla fine senza interruzioni, potevo persino parlare con il mio compagno per più di dieci minuti di seguito. Eppure la vita del dopo è decisamente più ricca e profonda. Ho scoperto che molte situazioni apparentemente prive di valore,
© fabio antonelli
banali o addirittura fastidiose, nascondono imprevedibili sorprese e possibilità. Vivere con i figli ci trasforma. Soprattutto quando i figli sono piccoli e i momenti di contatto fisico sono frequenti, c’è un modo di comunicare molto più vero e più profondo di quello verbale. Si tratta del dialogo tonico, una sorta d’insieme di vibrazioni e risonanze che le emozioni spingono verso l’altro. Nel tenere un bambino in braccio, nel tenersi la mano, nell’abbracciarsi vengono inviati messaggi affettivi molto intensi. A volte, nel caos che i figli portano, ci distraiamo dal valore effettivo delle situazioni e delle relazioni e ci concentriamo su piccole parti insignificanti. Altre volte riusciamo invece a non sentirci sopraffatti dalla confusione e, uscendo
dalla superficialità, riusciamo a cogliere particolari preziosi. Dopo aver vissuto momenti di tenerezza con i propri figli non si è più gli stessi. I bambini sono teneri, onesti, originali, entusiasti, spontanei. Stare accanto a loro ci stimola e ci cambia. Vivendo con i nostri figli possiamo crescere. Possiamo sviluppare humour e pazienza, approfondire l’intelligenza del cuore, imparare a trovare i tesori nascosti nella banalità quotidiana, persino riscrivere la nostra storia, aprirci alla felicità. Ma non sempre questa crescita è indolore. Accanto ai momenti di gioia ci sono gli episodi più difficili, in cui le nostre debolezze, i piccoli ricatti, le bugie, le contraddizioni, le incertezze, tutto viene messo in luce senza pietà.
Prima di avere figli osservavo i genitori con un senso di superiorità. Mi parevano patetici e maldestri. Forte delle mie conoscenze di psicologia, notavo i loro errori, dentro di me li criticavo e dispensavo numerosi consigli. Ero convinto che io avrei potuto fare meglio. Ora, due figli più tardi, sono molto più umile. Tutte le mie teorie sono crollate come castelli di carte. Ho perso ogni certezza. Più volte sono caduto nella polvere. Ma ciò non è affatto un male. Per capire qualcosa, per andare avanti, bisogna disfarsi di ogni forma di sicurezza e di autocompiacimento. Questo è il primo passo sulla strada buona. Come ogni genitore sono stato spremuto, punzecchiato, ferito, ridimensionato: mai risparmiato. In molte occasioni i miei figli hanno, con intuito diabolico, toccato i
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miei punti deboli più nascosti. Anche questi episodi mi hanno trasformato. In maniera più o meno faticosa o dolorosa, mi hanno reso diverso dalla persona che ero prima.
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D’altra parte quando si diventa genitori si può imboccare la via della nevrosi, dell’ansia e della preoccupazione o dell’entusiasmo, del cambiamento e della trasformazione. Per me, a dire la verità, c’è una continua alternanza delle due vie: dalla vetta all’abisso, dalla forza alla stanchezza, dalla felicità alla depressione. I contrasti, le delusioni, le discussioni sono prove continue e difficili. Quando è arrivato il mio primo figlio Tommaso, la mia vita è cambiata radicalmente non solo a livello di abitudini personali ma anche professionali. Ho deciso di cambiare lavoro: la scusa ufficiale è stata che i rigidi orari del vecchio lavoro non mi permettevano di stare con il mio piccolo Tommy, ma la verità è che quel piccoletto mi ha dato la forza di guardare in me stessa e nelle mie aspirazioni più vere; mi ha permesso di mettermi a confronto con le mie aspettative e mi ha dato l’occasione di poter scegliere con
maggior consapevolezza il mio possibile futuro. Sin dall’inizio ho pensato a cosa avrei potuto insegnare a mio figlio, ma con l’andare del tempo ho iniziato a chiedermi anche cosa avrei potuto imparare da lui: sicuramente il suo mettersi in gioco e il suo essere sempre creativo e spontaneo. Ad ogni modo, la decisione di cambiare lavoro non è venuta magicamente o a caso, ma grazie a una forza e a una energia dirompente, come quella di ogni bambino. Avrei voluto dedicare l’intero articolo al meraviglioso libro di Ferrucci poiché mi sono ritrovata in ogni capitolo e in ogni pagina. Ho fatto molte citazioni, riprendendo alcune frasi dell’autore e ho riportato concetti che ho completamente condiviso. Ma vorrei comunque presentare qualche lettura da poter fare con i bambini. L’albo illustrato Una grande missione racconta ad esempio della magia dei bambini e di chi sa vederla, come sottolinea Pepi Persico, che con originalità ha illustrato il libro. Viene rappresentato l’universo dei bambini attraverso la fusione di un particolare linguaggio e di
immagini colorate e viene raccontata la grande missione della crescita. L’arrivo di un figlio ci spinge a cercare di capire meglio quale sia la nostra missione; spesso si guarda molto lontano verso una possibile meta che può sembrare lontanissima da raggiungere, ma che invece è molto vicina. Le nostre insoddisfazioni e i nostri desideri si mescolano nel caos della vita quotidiana. Cercando di fare ordine e spazio alle idee e ai sentimenti, possiamo però vedere che quel posto che cerchiamo insistentemente, continuamente, testardamente è proprio lì dove siamo ora. I dubbi, le fatiche, le angosce ci lasciano dei segni indelebili ma ci lasciano scorgere il senso dell’essere genitori e dell’essere prima di tutto persone. In questo libro sono invece i bambini che ci raccontano come, a volte, per andare avanti sia necessario un coraggio prodigioso e un’infinita forza di volontà. Sfogliando e leggendo questo libro mi è quasi sembrato che i bambini parlassero proprio a me, che molte volte sottolineo la fatica dell’essere genitore. Elena Magni, autrice del libro, ha rovesciato la situazione con abilità e ironia e i pro© raffaella ceci
tagonisti, tutti bambini, ci parlano già dalla prima pagina in modo schietto e sincero. Essere bambini è un lavoro impegnativo. Qualcuno, però, deve pur farlo. La nostra è una missione quasi impossibile, ma dobbiamo compierla quasi a ogni costo.
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Essere bambini non è un’impresa da poco, affermano i protagonisti. Le illustrazioni, realizzate con disegni e collage, traducono in immagine il variopinto mondo dei bambini; mentre il testo, giocato su due colori, ci svela quanto sia impegnativa la missione di diventare grandi, districandosi tra regole, consigli e raccomandazioni (non sporcarti, non saltare sul divano, non gridare…), senza farsi incantare da televisione e pubblicità. Essere piccoli è davvero un lavoro duro, faticoso, che comunque deve essere fatto, e la strada per diventare grandi è spesso in salita. I bambini, però, con la loro spontaneità ed energia, hanno tutte le carte in regola per compiere questa grande impresa. Si tratta davvero di una grande missione, ma compierla non è impossibile. Chiunque può crescere e riuscire
a diventare una persona Tu, ora che sei cresciuto, importante o famosa, ma sei bianco. solo chi ha fatto bene il Io, quando prendo il sole, proprio lavoro di bambino sono nero. potrà diventare una gran- Tu, quando prendi il sole, de persona. sei rosso. Io, quando ho freddo, A chi crede che i bambini sono nero. debbano essere da esem- Tu, quando hai freddo, pio per ridimensionare le sei blu. certezze e le convinzioni Io, quando ho paura, stereotipate degli adulti, sono nero. consiglio un racconto della Tu, quando hai paura, sei tradizione orale africana verde. che fa guardare a noi e agli Io, quando sarò morto, altri sotto una prospettiva sarò nero. diversa. Questo libro è nato Tu, quando sarai morto, dalle suggestioni della sto- sarai grigio. ria africana e pagina dopo E tu mi chiami uomo di pagina presenta e ci spiega colore! perché l’espressione uomo di colore non sia esatta. Un altro libro in cui è una Proprio grazie a una con- bambina ad aprire gli occhi versazione fra due bambi- e la mente al proprio genini, viene spiegato il concet- tore è Chi ha paura dell’uoto con ironia e semplicità. mo nero? di Raftk Shami, In un piccolo albo illustra- edito da Mondadori. to con poche parole e molti La protagonista racconta disegni colorati, vengono del suo papà grande, forte affrontati temi importanti e intelligente; il suo papà quali le emozioni, gli stere- sa persino fare spettacolaotipi, la morte. Di seguito il ri giochi di prestigio. poetico racconto, purtroppo Eppure questo papà quamancante delle magiche il- si perfetto ha un piccolo lustrazioni di Jérome Ruil- problema: è spaventato a ler, spesso ancor più esau- morte dagli stranieri, sostive delle parole. prattutto se sono di colore. Lui vorrebbe nasconderlo Io, uomo nero, quando ma la sua bambina è sisono nato, ero nero. cura: ogni volta che passa Tu, uomo bianco, uno straniero, il papà le quando sei nato, eri rosa. stringe la mano per la pauIo, ora che sono ra! Tocca a lei aiutarlo, ma cresciuto, sono sempre deve farlo senza che lui se nero. ne accorga.
Bibliografia I bambini ci insegnano. P. Ferrucci, Mondadori, 2010 Una grande missione. E. Magni, P. Persico, Gribaudo, 2011 Uomo di colore. J. Ruillier, Edizioni Arka, 2000 Chi ha paura dell’uomo nero? R. Shami, Mondadori, 2005
Il libro si presenta come una dichiarazione contro gli stereotipi e la discriminazione. È importante che il razzismo venga combattuto non solo dagli adulti. I bambini, generalmente più aperti e liberi, possono essere attori protagonisti di questa battaglia. Per fortuna nelle classi dei nostri figli ci sono sempre più spesso bambini che arrivano da paesi lontani: all’inizio ci può essere anche un po’ di diffidenza, ma poi, soprattutto attraverso il gioco, s’impara che il colore della pelle non è un ostacolo per l’amicizia. La protagonista di Chi ha paura dell’uomo nero? diventa infatti la migliore amica di Banja, che fre-
quenta la sua stessa scuola, ma è nata in Tanzania. Con la scusa che il papà è molto bravo con i giochi di prestigio, la protagonista lo invita a esibirsi durante la festa del compleanno di Banja, senza dirgli che si tratta di una bambina straniera, per evitare che si rifiuti di accompagnarla. Così entrano nell’appartamento di Banja, dove tutti hanno la pelle nera e il papà riesce a imparare proprio dalla figlia quanto le diversità siano occasioni di crescita e di arricchimento. La vita con i figli è un continuo terremoto: crollano antiche certezze, scompaiono vecchie abitudini mentali,
affiorano nuove emozioni. I bambini, tutti i bambini, sono spontanei, entusiasti, originali, veri. Quando mettono in crisi il genitore, fatto inevitabile, lo costringono anche ad attingere a risorse e conoscenze interiori fino ad allora ignorate. Dai momenti difficili gli adulti escono così più forti e più liberi. Genitori e figli possono vivere la loro relazione come delusione e stanchezza ma anche come opportunità e occasione. Il cosiddetto mestiere di genitori, e anche quello di figli, è comunque sicuramente un’avventura.
sociale e legale
Angelamaria Serpico Avvocato specializzato in diritto di famiglia e diritto minorile
Il rischio giuridico 28
Per rischio giuridico si intende la possibilità che il bambino debba ritornare nella famiglia di origine (con ciò intendendosi i parenti sino al 4° grado) durante il periodo di collocamento provvisorio, cioè quando il bambino sia già stato assegnato alla famiglia adottiva, ma in attesa del decreto di affidamento preadottivo. I rischi sono legati ai seguenti casi: 1) Figli di madre che non vuole essere riconosciuta In Italia, ogni donna può non riconoscere il figlio pur mantenendo il diritto di usufruire di tutta l’assistenza medico-sanitaria per il parto. La madre ha 10 giorni di tempo dalla data della nascita per riconoscere il neonato, successivamente, dall’undicesimo giorno viene dichiarato lo
stato di abbandono e il Tribunale cerca una famiglia a cui affidare il bambino. Il rischio giuridico permane per un breve periodo (pari a circa due mesi), poi ha inizio il periodo di 12 mesi di affido preadottivo, a conclusione dei quali l’adozione diventa definitiva. (art. 11 legge 4/5/1983 n. 184, così come modificato dall’art. 11 legge 28/3/2001 n. 149). Tale periodo decorre, ovviamente, anche per il padre a partire, però, dal momento in cui viene a conoscenza della nascita (che può quindi coincidere con un momento successivo, anche di parecchio, dall’evento de quo) e fino al provvedimento di affidamento preadottivo. 2) Bambini tolti dalla custodia delle famiglie naturali dal Tribunale dei minori Nel secondo caso i bambini possono essere tolti
alle famiglie di origine su segnalazione dei Servizi sociali, per venire affidati a strutture preposte. Il Tribunale dei minori valuta se le difficoltà della famiglia di origine siano temporanee o permanenti; vengono disposti degli aiuti, sia di tipo economico sia di supporto psicologico. Se il Tribunale lo ritiene può proporre dei casi di affido (anche congiunto con la famiglia di origine); se il Tribunale – trascorso un periodo di tempo variabile a seconda delle situazioni – decide di emettere un “decreto di adottabilità”, il bambino può essere collocato provvisoriamente presso una struttura comunitaria ma anche, a seguito di un “decreto di collocamento familiare” presso una coppia ritenuta idonea all’adozione. La madre, il padre e i parenti biologici fino al 4° grado che abbia-
no rapporti significativi col minore possono, entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento di adottabilità, proporre impugnazione avanti alla Corte di appello. La predetta Corte emette una sentenza che deve essere notificata ai ricorrenti, questi ultimi possono ancora, entro 30 giorni dalla notifica, effettuare un ultimo ricorso alla Corte di cassazione. In ogni caso l’udienza di discussione dell’appello e del ricorso deve essere fissata entro 60 giorni dal deposito dei rispettivi atti introduttivi. Tutto questo iter ha tempi che non possono essere quantificati in quanto dipendenti da vari fattori. Può anche accadere che i membri della famiglia di origine siano irreperibili e quindi la notifica non venga consegnata; in questo caso la sentenza viene pubblicata sull’Albo pretorio e dopo 20 giorni si considerano scaduti i termini per un eventuale ricorso. Durante questo periodo di tempo le informazioni alla famiglia adottiva sono spesso carenti, non essendo essa soggetto processuale. C’è comunque da considerare che più tempo il bambino sta con la famiglia adottiva e minori sono le probabilità che venga accolto un ricorso dei paren-
to all’adozione nazionale, i Tribunali richiedono che le coppie ne abbiano piena consapevolezza e che ne accettino la sussistenza, con la conseguenza che la coppia deve saper fare ricorso alle proprie migliori risorse per la gestione di questo rischio allorché venga abbinata a un minore che versi in tale situazione. Essendo il rischio giuridico, come si è detto, astrattamente sempre connaturati biologici; inoltre i tempi lunghi spesso disincentivano le famiglie naturali dal presentare ulteriori ricorsi. Quando tutte le sentenze sono state emesse o sono scaduti i termini per i ricorsi, parte il periodo dell’affido preadottivo e dopo 12 mesi l’adozione diventa definitiva.
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Dallo sportello
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Domanda Sul questionario del Tribunale si parla di rischio giuridico, i servizi ci hanno detto un poco che cosa è. Abbiamo capito che se si dice no è come rinunciare alla nazionale. Per favore può dirci cosa vuol dire davvero adottare un bambino a rischio giuridico? È vero che ci sono rischi lievi e gravi e che ce lo diranno all’abbinamento? Risposta L’art. 10 e seguenti della legge 184/1983 dispongono che il Tribunale, al quale risulti una situazione di abbandono di un minore, può disporre in ogni momento ogni opportuno provvedimento provvisorio nell’interesse del minore, ivi compreso il suo collocamento temporaneo presso una famiglia. Durante questo periodo, e fino a quando non venga emessa sentenza definiva che dichiari lo stato di adotta-
bilità, i genitori e i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore, con l’assistenza di un difensore, anche d’ufficio, possono partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale e contrastarli assumendo la posizione di parte processuale. Tale situazione potrebbe protrarsi anche nei tre gradi di giudizio: Tribunale, Corti d’appello e cassazione e quindi durare per parecchi anni. Quando si verifica tale condizione si parla di “rischio giuridico”, in quanto il minore, provvisoriamente collocato presso una famiglia che ha dato la propria disponibilità all’adozione nazionale, potrebbe rientrare presso la propria famiglia naturale, vittoriosa in sede giudiziaria. In caso di minore non riconosciuto alla nascita il Tribunale provvede immediatamente e senza indugio
alla dichiarazione dello stato di adottabilità. È tuttavia possibile che uno dei genitori naturali chieda termine per procedere al riconoscimento del minore. Tale sospensione può essere disposta per il periodo di due mesi, decorsi i quali o avviene il riconoscimento da parte del genitore naturale, oppure il Tribunale provvederà alla pronuncia dello stato di adottabilità. Una volta intervenuta la dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo, l’eventuale successivo riconoscimento è privo di efficacia. Al momento dell’abbinamento il Tribunale è tenuto a informare la coppia circa la situazione giuridica del minore. Domanda nel periodo in cui permane il rischio giuridico chi ha la patria potestà del bambino? Mi hanno parlato del ruolo
dovrà dare atto delle iniziative necessarie prese per la cura del minore: ad esempio iscrizione a scuola; esecuzione delle vaccinazioni obbligatorie ecc. Solitamente lo scambio di queste informazioni avviene per via epistolare. Spesso il tutore non è una persona fisica, ma un ufficio all’interno del quale è individuato un responsabile della pratica. Altre volte è invece nominato un Risposta Fintanto che la giudice tutelare, oppure situazione giuridica del un curatore speciale bambino non è definita Buongiorno, viene nominato un tu- Domanda tore al quale la famiglia leggendo le risposte reaffidataria deve fare ri- lative al rischio giuridico, ferimento per tutti gli atti mi è sorto un quesito: c’è di “straordinaria” ammi- un “limite di tempo stabinistrazione. In sostanza: lito” per il collocamento decisioni importanti de- temporaneo del minore vono essere autorizzate presso una famiglia che dal tutore. Per esempio ha dato la disponibilità nazionaun intervento chirurgi- all’adozione co, la possibilità di un le?… oppure il minore viaggio all’estero ecc. può rimanere “collocaAl medesimo tutore si to” entro un certo periodi un tutore del bambino che controlla periodicamente la situazione del minore; in che cosa consiste e come avviene il controllo? La domanda nasce dalla constatazione che ci sono adozioni nazionali per le quali il rischio giuridico si scioglie soltanto dopo molti anni. Mi domando quindi quanto questa situazione di “limbo” possa incidere sulla serenità familiare.
do (per esempio non più di un anno)? Risposta L’art. 25 comma 1 della legge 184/1983 stabilisce che, decorso un anno dall’affidamento preadottivo il Tribunale decide sull’adozione. Nessun termine è prescritto in questo senso per il collocamento provvisorio. Qualora sia presente una situazione di rischio giuridico non potrà perfezionarsi l’adozione fino alla cessazione del predetto rischio, la cui durata è legata alla durata dei processi nei tre gradi di giurisdizione (ricordo che il rischio giuridico è rappresentato dalle opposizioni presentate dalla famiglia naturale del minore alla dichiarazione di adottabilità. Tali opposizioni possono essere presentate in primo grado, in grado di Appello e in Cassazione. La durata è imprecisabile).
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trentagiorni
Istat: un quinto nuovi nati è “straniero” Roma - I nati in Italia da almeno un genitore straniero sfiorano i 105.000 nel 2010, quasi un quinto del totale delle nascite, dieci volte di più rispetto al 1992. È quanto emerge dal Rapporto annuale 2012 dell’Istat sulla situazione generale del paese. Secondo l’analisi aumentano contemporaneamente le “seconde generazioni”, ovvero i minori stranieri residenti: 993.000 nel 2010 (il 21,7% del totale dei cittadini stranieri residenti). Ne consegue che la presenza nelle scuole di alunni con cittadinanza straniera è in costante crescita: nell’anno scolastico 1994-1995 risultavano iscritti meno di 44.000 stranieri, valore inferiore a sei studenti ogni mille, nel 2010-2011 si arriva a quasi 711.000, vale a dire 79 su mille. Fonte: www.redattoresociale.it
ADOZIONI. I figli adottivi? Più soddisfatti e più integrati. Una ricerca di Cifa e Nova sfata i luoghi comuni È in corso a Roma, alla Camera dei deputati, il convegno di Cifa e Nova onlus «Crescere assieme, genitori e figli nell’adozione internazionale». Sono stati presentati i risultati della ricerca condotta dalle Università di Torino e Bologna dal 2008 al 2010 sui processi di integrazione in Italia e in Piemonte dei bambini e dei maggiorenni nell’adozione internazionale (edita da il Mulino). Si tratta di una novità assoluta. Secondo quanto emerge dalla ricerca, i figli adottati sono soddisfatti della loro vita sociale e si sentono “italiani” molto più dei figli naturali. Anche i giovani adulti adottati sono maggiormente soddisfatti della loro vita
(relazioni e lavoro). Il risultato è un quadro non privo di difficoltà, ma che induce sostanzialmente all’ottimismo, poiché i giovani adulti «figli adottivi» presentano livelli di autostima, adattamento sociale, soddisfazione nei confronti dei diversi aspetti della vita non inferiori – e in alcuni casi addirittura superiori – a quelli dei loro coetanei «figli biologici». Daniela Bacchetta (vice presidente della CAI) ha commentato: «la ricerca apre il cuore. I risultati sono incoraggianti». Il garante nazionale per l’infanzia, Vincenzo Spadafora, presente al convegno, ha elogiato l’iniziativa: «è importante per dare una svolta seria nel lavoro di tutela dei minori in Italia. Le politiche per l’infanzia hanno bisogno di strumenti come questa ricerca». Fonte: www.vita.it
I genitori che hanno un figlio disabile possono adottare Milano - I genitori che hanno già un figlio disabile, possono comunque adottare. È quanto ha stabilito oggi la Corte d’appello di Milano, che ha ribaltato così il provvedimento del Tribunale dei minorenni che aveva negato a una coppia l’idoneità all’adozione internazionale perché il loro figlio naturale è disabile. Per i giudici di secondo grado, anzi, i due genitori sono già «preparati alla diversità» e quindi pronti ad affrontare le possibili difficoltà legate all’adozione. Per questo hanno accolto il reclamo della coppia in cui si contestava come «il giudizio di non-idoneità non tenesse conto dell’evoluzione culturale nell’approccio alla disabilità
e fosse frutto di pregiudizi». “Siamo di fronte a una vittoria importante per quanto riguarda i diritti delle persone con disabilità», commenta Fulvio Santagostini, presidente di Ledha (Lega per i diritti delle persone con disabilità). «Il riconoscimento del diritto ad avere un figlio anche quando all’interno del nucleo familiare c’è una persona con disabilità è un passo in avanti significativo. La presenza di un bambino con disabilità deve essere considerato un valore positivo e non un impedimento». La coppia, che vive in provincia di Varese, era stata valutata positivamente dai servizi sociali e dalla Asl del territorio, per i quali la presenza di un figlio affetto dalla sindrome di Dravet (una rara forma di epilessia) non rappresentava un
«fattore ostativo» alla possibile adozione di un bambino straniero. Ledha, assistita dall’avvocato costituzionalista Marilisa D’Amico, ha supportato, insieme a Elo (Epilessia Lombardia), l’azione legale presentata dalla coppia costituendosi in giudizio con un atto di intervento in cui si evidenzia come il provvedimento del Tribunale dei minorenni di Milano sia fondato «su un approccio alla disabilità ormai superato e contrastante con i nuovi principi giuridici introdotti dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con legge 18/2009». Una lettura che è poi stata accolta e fatta propria dai giudici di secondo grado. Fonte: www.redattoresociale.it
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