Adozioni e dintorni - GSD Informa febbraio 2013

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - febbraio 2013 - n. 2

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febbraio 2013 | 002

GSD informa

di Simone Berti

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editoriale

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psicologia e adozione

La macchina del tempo e i buchi neri di Carmine Pascarella

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salute e adozione

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scuola e adozione

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Imparare ad imparare di Lorenza Del Vento

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giorno dopo giorno

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Al buio si vede meglio di Marta e Alberto

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Una petizione per il Mali di Berta Martin

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leggendo

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trentagiorni

Determinazione dell’età in minori stranieri non accompagnati di Raffaele Virdis La fatica di imparare di Livia Botta

Siamo uguali, siamo diversi di Antonella Avanzini

Leggere, fare e raccontare di Marina Zulian

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Pea Maccioni, Lecce; Paolo Faccini, Milano

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro;

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma, Diana Giallonardo, L’Aquila, Raffaella Ceci, Monza.

abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Simone Berti

Da solo non ce la faccio

editoriale

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In questi giorni, dopo dieci anni di vita insieme, mi sono sentito rivolgere da mio figlio una domanda esplicita di aiuto. Non una domanda qualunque, che spesso i figli rivolgono ai padri per affrontare problemi pratici o risolvere aspetti tecnici su compiti specifici e giochi complicati. E neanche la richiesta di un semplice importante consiglio per affrontare una situazione ingarbugliata con amici o con una ragazza. Ma una domanda radicale, ponderata e che chiedeva di non essere minimizzata. Lo ha fatto in modo inaspettato, caricandola di una certa ufficialità che ha spiazzato inizialmente sia me che mia moglie. All’uscita della lezione di ripetizione si è fatto accompagnare da mia moglie nel mio studio. Le ha chiesto di attendere in sala di attesa e mi si è seduto di fronte affrontandomi direttamente: “Papà, tu aiuti molte persone e quindi devi aiutare anche me, perché da solo non ce la faccio”. Poco importa adesso se lo spunto da cui partiva erano le continue note che i professori gli rifilano sul diario o sul libretto rosso e che lui metodicamente cancella o semplicemente sbianchetta nel tentativo di renderle non avvenute, dando vita così a un’inevitabile spirale ripetitiva. Improvvisamente qualcosa che ci aveva visto fino a quel momento su due fronti contrapposti, tesi ma sfiniti entrambi da un senso di impotenza e una sorta di ineluttabilità, diventava spunto di una possibile alleanza tra di noi. Di fatto, mi sono complimentato con lui, perché per chiedere aiuto ci vuole coraggio, ricordandogli però che chi chiede aiuto si impegna a sua volta a metterci del suo. Mi fermo qui nel racconto che naturalmente non ha un seguito così lineare e ha già dato vita a brusche frenate, numerose inversioni di marce e cappottamenti. Il lieto fine come


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immaginerete non sembra affatto scontato. Tuttavia quel “da solo non ce la faccio” ripetuto tante volte ma stavolta così generosamente consegnatomi a domicilio da mio figlio ha lasciato un segno profondo. Certo parla direttamente delle difficoltà, del carico di fatica, di sofferenza e problematicità che grava sull’esperienza dell’adozione e su chi la vive in prima persona. Dice anche che non si deve dimenticare la fatica che ricade inevitabilmente sui nostri figli e alla quale spesso sovrapponiamo la nostra finendo così per occupare gran parte del nostro sguardo. Riconoscere la loro fatica, aiutare loro a dargli voce è spesso un compito che ricade su noi genitori. In nome di questa fatica occorre impegnarci a formulare le domande giuste per far emergere i problemi reali e portarle ai corretti interlocutori senza permettere di lasciarle richiudere su risposte formali. Occorre riflettere con rigore sull’adozione, ce n’è un estremo bisogno. L’adozione è un processo complesso che anima situazioni ed emozioni complesse. Ma la frase di mio figlio apre anche inevitabilmente a “sono qui perché credo che con il tuo aiuto ce la possiamo fare”. Sì insieme ce la possiamo fare. Perché no? E allora mi avverte di non dimenticare che non bisogna mai cessare di alitare fiducia sulle potenzialità di trasformazione nostra e dei nostri figli, sulla capacità di tirar fuori inaspettate risorse che chiedono solo di essere riconosciute, valorizzate, per non smarrirsi. Per questo occorre anche non stancarsi e continuare a portare un pensiero in cui la complessità di un’esperienza, la sua diversità rappresenta anche la possibile fonte di un’inedita ricchezza. Adozione e dintorni vuole essere anche e soprattutto questa voce.


psicologia e adozione 6

di Dott. Carmine Pascarella psicologo, AUSL di Reggio Emilia

La macchina del tempo e i buchi neri

Non lasciatevi ingannare, non stiamo parlando di astronomia e di scoperte di altri mondi. Il titolo che ho utilizzato rappresenta una metafora per significare il tema del viaggio dentro di sé che ogni figlio adottivo dovrebbe essere aiutato a compiere per gettare luce anche su quel buco nero che contrassegna, talvolta, la mancanza di memoria relativamente alla sua origine. Oggi non immaginiamo più l’adozione come una seconda nascita, ma come uno snodo trasformativo di un percorso biografico che ricomprende lungo un continuum, la memoria del passato, la memoria del presente e la memoria del futuro, all’interno del quale l’Io del bambino, inteso come sguardo soggettivo, può orientarsi scivolando lungo tutta questa dimensione. Tutti noi siamo interessati al racconto di come

siamo venuti al mondo, in altre parole a conoscere la nostra origine: si tratta di una curiosità naturale che trova risposte nei nostri genitori che hanno contenuto le nostre preoccupazioni e i nostri interrogativi, spesso stando attenti a darci le risposte che ci aspettavamo. Il bambino neonato, abbandonato alla nascita, vive un’esperienza traumatica che potrà dimenticare ma non cancellare e che esemplifica la metafora del buco nero. Per farvela immaginare ricorrerò a un sogno. È frequente l’esperienza del sognare di precipitare, di svegliarsi di soprassalto, di sobbalzare nel letto e di tranquillizzarsi nel riconoscere il profilo dell’arredamento della vostra camera da letto nella penombra o nel buio appena rischiarato nella luce della notte. L’esperienza abbandonica

è paragonabile allo stesso sogno, ma quando vi risvegliate, sobbalzando, non riconoscerete alcun profilo familiare e continuerete a precipitare all’infinito. Nessuno vi ha tenuto, trattenuto e l’angoscia sarà pervasiva e incontenibile. Questo vuoto rimarrà nella biografia di chi, adottato, è stato abbandonato alla nascita. Come gettare luce in questo mare di oscurità? L’attuale normativa tutela l’anonimato della madre che abbandona il figlio in ospedale, anche se alcuni innovativi progetti di legge sono depositati in qualche cassetto in Parlamento. Gli effetti del trauma si riverbereranno anche a distanza di anni: l’insicurezza, il timore della solitudine, la paura di essere abbandonati, un senso di disistima del sé che non li fa percepire meritevoli dell’amore di qualcun al-


AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a: rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione.

tro permarranno se non si sono create le occasioni per l’elaborazione di questo trauma. Se non avete elementi storici per raccontarlo si potrà pensare ad una narrazione che

aiuti il bambino a pensare qual è il percorso che conduce una coppia di genitori a non saper fare i genitori. Genitori non responsivi, non solleciti, trascuranti o, peggio, maltrattanti

non hanno avuto nella loro infanzia la possibilità di costruire le basi della loro futura funzione genitoriale. Una lettura storica, trigenerazionale riempie di senso ciò che apparen-

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temente senso non sembra proprio averne avuto. Nello stesso modo può essere compreso come si diventa genitore capace di rassicurare, di essere sollecito, di essere responsivo, se si è avuta un’infanzia nella quale i propri bisogni, le proprie paure, i propri timori hanno incontrato risposte, supporto e consolazione. D’altra parte è noto come i bambini molto piccoli siano capaci di sperimentare emozioni fondamentali quali la paura, la rabbia e il dolore. Tali emozioni possono essere attivate appunto dalla paura di stare soli, di sperimentare l’inefficacia dei propri

messaggi o dall’inconsolabilità per un dolore fisico. Se queste emozioni non hanno incontrato parole, attenzione, contenimento, potranno rimanere come emozioni non ancorabili a un ricordo preciso, ma capace di riattivarsi di fronte ad una futura paura, rabbia e timore. Quando il bambino sarà più grande, potrà essere spaventato e spaventarvi per un’esplosione di rabbia ingiustificata, o per una paura immotivata. Gli eventi che potranno attivare queste reazioni emotive, come ad esempio la frustrazione per un no, o l’andare da soli in bagno, saranno mo-

bilitate da quelle antiche emozioni. Ripercorrere la propria storia attraverso la costruzione di ipotesi su verità sostanziali (quando non si ha alcuna notizia) o attraverso il ricordo dei genitori, il racconto dei bambini, gli oggetti che ricordano il viaggio nel suo paese di origine, aiuterà il figlio adottivo a rileggere le proprie esperienze, anche quelle più dolorose, bonificandole e attenuando quel dolore indicibile che ora, più condiviso, appare più sopportabile e integrabile nella mente del bambino. Non si tratta di rivolgere sempre lo sguardo al proprio passato. La propria


storia, però, rappresenta un fondamento, possibilmente più consolidato, sul quale costruire lo sviluppo della propria identità. Riuscire pertanto a raccontarla, rendendola possibilmente coerente, significa promuovere nel bambino la consapevolezza del proprio sé e precostituire le basi per uno sviluppo fondato su una relazione di attaccamento sicuro. Lungo questo iter l’adolescenza rappresenterà una nuova perturbazione. Come tutti gli adolescenti, ma in modo peculiare, anche l’adolescente adottato, sotto la spinta dei cambiamenti fisici e ormonali, la mancanza nella nostra società, di specchi che riflettano la sua immagine somatica, il bisogno di ridefinire la propria identità, compie una sorta di inventario del sé che lo traghetterà, passando attraverso un mare molto mosso, verso l’età giovanile. Molti interrogativi torneranno d’attualità e si presenteranno ineludibili nella mente del ragazzo adottato. Domande come: perché sono stato abbandonato? Perché mi hanno adottato? Come mi fa sentire la mia identità etnica/somatica? Quanto italiano o straniero mi sento? Evidenziano il bisogno di consapevolezza di una storia caratterizzata non

come una semplice conoscenza cronologica degli eventi che l’hanno contrassegnata, bensì come una memoria fondata sul capire, sull’attribuzione di senso, sulla comprensione della causalità. Il viaggio verso il proprio paese di origine è un desiderio che compare con una certa frequenza nell’età adolescenziale e giovanile. Può apparentemente rappresentare un viaggio all’esterno di sé, ma in realtà rappresenta un viaggio nel proprio mondo interno, una continuazione di quella ricostruzione storica della quale abbiamo parlato fino ad ora. Di norma i servizi non affrontano il tema del viaggio verso il proprio paese di origine che gli adolescenti e i giovani, futuri “ricercatori”, affronteranno, se non attraverso sporadiche esperienze che, però, si rivelano fondamentali per “chiudere un cerchio”. È, però, evidente che il viaggio rappresenta un prolungamento del bisogno di conoscenza precedentemente affrontato che non si presenta in tutti gli adottivi, pur rappresentando un’esperienza percentualmente sempre più rilevante. Il mondo si è compresso, le distanze si sono accorciate, le possibilità comunicative sono

infinitamente più ricche e il ruolo dei social network ha cambiato la fenomenologia dell’adozione. Questa riduzione delle distanze è come se rendesse oggi molto più possibile un viaggio che avvicina punti molto più lontani di quanto non si potesse fare ad esempio all’inizio degli anni ’90. Come si diceva all’inizio, il bisogno di ridefinire la propria identità e di conoscere che cosa si è lasciato, mobilitano la ricerca. Quali sono gli interrogativi che la sottendono? Qual è il momento per effettuare un viaggio nel proprio paese di origine? Fin dove può spingersi la ricerca? Quali sono le domande alle quali si cerca una risposta? Come prepararsi al viaggio? Quali scenari possibili possono essere prefigurati? Quali paure sono presenti in chi accompagna e in chi è accompagnato? Che cosa ha significato non assomigliare a nessuno e ritrovare uno specchio che gli riflette la sua immagine? Quali sono le migliori condizioni per partire? Alcuni studiosi ritengono che il momento migliore per realizzare un viaggio presso il proprio paese di origine debba avvenire quando ci si sente pronti, sotto la spinta del bisogno di ridefinire la propria identità. Altri studiosi ri-

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tengono che debba essere trascorso un congruo periodo di tempo dall’adozione, almeno cinque anni, importanti per consolidare un legame di attaccamento più sicuro. Lo scopo della ricerca potrebbe essere quello di visitare il proprio Paese di origine, oppure la propria città, magari il proprio Istituto. Il viaggio potrebbe anche essere finalizzato alla ricerca della propria madre, con tutte le fantasie a essa correlata, compreso il timore di un nuovo rifiuto, di un incontrarsi senza ritrovarsi. Oppure potrebbe essere finalizzato alla ricerca di compagni, amici e parenti. Durante il viaggio le domande che hanno precedentemente caratterizzato il percorso di crescita del figlio adottivo possono incontrare una risposta reale che consente di divenire

più consapevoli del perché si è stati abbandonati: vedere la vecchia casa semi diroccata nella quale si è cresciuti, l’Istituto nel quale si è stati collocati, magari alcune persone che abitavano vicino, immergersi negli odori, nei sapori, nelle sonorità ritrovate, permette di riassemblare i tasselli di una memoria ridefinendo il senso della propria storia. Prepararsi al viaggio significa esplorare, anche in gruppo, quali sono le finalità, che cosa si ricerca e quali aspettative si hanno. Si potranno ritrovare le stesse persone, ma si potrebbero anche sperimentare delusioni o forse non si potrà incontrare più nessuno perché ormai è passato troppo tempo. Si potrebbe essere riconosciuti, ma anche ignorati. È fondamentale, pertanto, nel corso della prepara-

zione al viaggio, lavorare sulle prefigurazioni delle proprie reazioni immaginando tutte le possibili circostanze che si potranno verificare considerando che forse tutto ciò non sarà sufficiente perché la realtà supererà la fantasia. Il tempo si potrà accorciare e sembrerà che è passato poco tempo dall’adozione, oppure si potrà allungare tanto da avvertire un senso di profonda estraneità. Ci si potrà specchiare somaticamente, riscoprendo un’appartenenza nella quale estranei potranno essere i genitori adottivi se li avranno accompagnati. Nella fase di preparazione sarà altresì necessario evidenziare le paure di chi accompagna e di chi è accompagnato, fermo restando il fatto che una simile esperienza rappresenterà un punto di cambiamento dell’adozione nella quale si


potrà ridefinire attraverso un ulteriore consolidamento il legame con i genitori che accompagnano i propri figli. Per certi aspetti è come adottarli una seconda volta. Il Paese di origine del figlio adottivo diventa il Paese di origine dei genitori che lo hanno adottato nel senso che è lì che si sono originati i primi passi di una nuova storia adottiva. Gli enti autorizzati hanno

maturato una ricca esperienza sul tema del viaggio verso il Paese di origine, sia attraverso percorsi preparatori, sia attraverso l’accompagnamento dei figli adottivi e delle loro famiglie, sia attraverso una rilettura, dopo qualche mese, dell’esperienza stessa. Il compito dei servizi pubblici è stato quello di stimolare un approccio storificante che si pone lungo un continuum inte-

grato con l’esperienza del viaggio. La costruzione di storie, anche attraverso fiabe inventate dai genitori, che potessero diventare regali da offrire ai propri figli adottivi, unitamente alla costruzione di percorsi di biografia famigliare, costituiscono l’humus capace di generare la curiosità e la ricerca che saranno fondamento della costruzione del futuro benessere del figlio adottivo.

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salute e adozione

Raffaele Virdis pediatra

Determinazione dell’età in minori stranieri non accompagnati 12

Numerosi genitori adottivi richiedono una valutazione dell’età del/la figlio/a quando non sono sicuri della data di nascita certificata nel paese di provenienza. Ciò può avvenire quando i bambini sono stati abbandonati per strada, quando non hanno un certificato di nascita sicuro e talvolta quando il loro aspetto, comportamento e maturità discordano dall’età denunciata. In alcuni casi, in particolare quando l’età attribuita dalla certificazione procura problemi psicologici, sociali e scolastici, sono state avviate pratiche legali per l’attribuzione di un’età più consona al bambino, solitamente con esito positivo. Non penso che tale problema sia rilevante, tranne in casi selezionati come quelli ricordati sopra; invece un’attribuzione precisa dell’età è molto importan-

te nei “minori non accompagnati”, specie se vi è il rischio di complicazioni legali fino all’incarceramento o al rinvio al paese di origine. Per “minori non accompagnati” si intendono tutti quei ragazzi, maschi e femmine, che a migliaia arrivano clandestinamente in Italia da paesi per lo più con gravi problemi socio-economici e con situazione di disastro civile, sociale e ambientale (guerre, rivoluzioni, terrorismo, siccità, carestie, epidemie e altro). Altri minori sono portati da adulti senza scrupoli o da organizzazioni malavitose a scopo di delinquere o per essere avviati alla prostituzione. Molteplici sono le motivazioni per intraprendere una pratica di determinazione dell’età in questi ragazzi (mi si permetta di parlare al maschile per co-

modità ma quanto dirò interessa maschi e femmine) se privi di documenti o se questi sono sospetti o vistosamente falsi. Tra questi in particolare: 1) Estrema vulnerabilità di un minore rispetto ad un adulto che lo fa rientrare nella categoria di “stato di abbandono” e quindi necessità di assistenza e tutela; 2) diritto dei minori, rispetto agli immigrati illegali adulti, all’istruzione, all’assistenza sanitaria e ad altre forme di tutela quali protezione, assistenza, accoglienza in luogo sicuro, permesso di soggiorno e possibilità di far ricorso agli istituti giuridici della tutela legale e dell’affidamento familiare. 3) Diverso comportamento delle leggi italiane nei confronti di minori, che non possono essere espulsi


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(articolo19, comma 2 T.U. sull’immigrazione), mentre un adulto riceve un’ingiunzione di espulsione e spesso viene accompagnato fuori dai confini nazionali. Per il minore viene avviato un processo di ricongiungimento familiare che porta al rimpatrio assistito solo nel caso sia di vantaggio per lui e per la famiglia, in collaborazione con le autorità del paese di origine. 4) Diverso comportamento dell’autorità giudiziaria, in base alla maggiore o minore età e, per i minori, in base all’età anagrafica, in seguito a condotte contro le leggi italiane (furti, prostituzione, violenze e altre). Infatti, per i minori di 14 anni vi è una “presunzione di assoluta impunibilità”, per quelli fra 14 e 18 anni “l’imputabilità va accertata caso per caso”(art. 98 codice pena-

le), e la competenza è del Tribunale per i minorenni (art 67). “Qualora, anche dopo la perizia, permangano dubbi sulla minore età, questa è presunta ad ogni effetto (art. 8 codice di procedura penale –c.p.p.-). Infine, l’articolo 349 del c.p.p. sull’identificazione dei soggetti indagati stabilisce che l’autorità giudiziaria proceda all’identificazione della persona (non dell’età) “anche eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti”. Questo ultimo punto non indica la possibilità di fare indagini mediche ma non le esclude. La visita medica può e deve essere richiesta solo dall’autorità giudiziaria; in precedenza una commissione istituita dal “Ministero del Lavoro, della

Salute e delle Politiche Sociali” ha portato alla formulazione del parere della II sezione del Consiglio Superiore di Sanità (CSS) del 25/02/2009 che prevede, come accertamenti dell’età del minore, fra l’altro di eseguire: 1) Visita medica accurata e finalizzata ad accertare lo sviluppo psico-fisico, anche con riferimento alla maturità puberale; 2) (Utilizzare) tabelle auxologiche aggiornate e relative alla maggior parte della popolazione o alla nazione di provenienza; 3) Radiografia della mano e del polso; 4) Colloquio con personale qualificato (mediatore culturale, psicologo, etc); il tutto analizzato in modo integrato, tenendo conto anche della valutazione psicologica. A tale scopo si


minori, quali Save the Children, che hanno contestato la preminenza della visita medica sulla valutazione psico-sociale, preferita in altre nazioni come il Regno Unito e la Svezia con fondamentale riferimento al racconto del minore. In questi Paesi, solo in casi particolari all’indagine sociale si associa Tale parere è stato in se- anche una perizia medica guito criticato da varie or- ma sempre sotto la coordiganizzazioni a difesa dei nazione e la responsabilità indica come principale attore e coordinatore di tale procedimento la figura di un pediatra di un centro pubblico qualificato (ospedale o USL) che richiederà, se necessario, la partecipazione di altre figure quali psicologi, operatori sociali e mediatori culturali (non previsti però d’obbligo).

degli operatori sociali. Tralasciando le varie considerazioni etiche sull’opportunità o meno di fare certe valutazioni (soprattutto quelle radiologiche), da riservare solo a casi vantaggiosi per il minore, da tutti gli studi e i commenti sull’argomento emerge che è difficile, se non impossibile ed in ogni caso mai sicuro, fare una stima reale dell’età cronologica (e ciò vale anche per i bambini adottati con età non certa!). Non esiste un metodo sicuro e l’utilizzo di più procedimenti non può dare risultati certi. Come si asserisce da più parti nella letteratura scientifica, la determinazione dell’età non è una scienza esatta, i risultati possono presentare un considerevole margine di errore, solitamente indicato in più o meno 2 anni rispetto all’età reale e

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in alcuni casi anche 5. Mi si permettano alcuni commenti sui quattro capisaldi di valutazione proposti dalla Commissione ministeriale, che non possono dare certezze assolute e possono portare anche a valutazioni distanti dalla realtà. Le disposizioni attuali, anche se non ancora completamente attuate e in revisione da parte di una commissione inter-regionale, privilegiano il parere medico, integrato dalla valutazione radiologica. Questo (parere medico) in tale circostanza è molto opinabile e può essere addirittura discordante da operatore a

operatore in base alle competenze e all’importanza che si vuole dare a questo o a quell’ aspetto. Le valutazioni antropometriche possono essere differenti, a parità di età anagrafica, a seconda dell’etnia, della genetica familiare, delle caratteristiche di crescita e sviluppo puberale - anticipato o regolare o ritardato-, dello stato di salute e di nutrizione e della condizione sociale e psicologica. Le variabili sono tante che anche il ricorso a curve di crescita nazionali o a dati statistici riguardanti le differenti popolazioni non è in grado di eliminare tutti gli elementi di errore e

di pregiudizio (bias) statistico. Le curve per popolazioni sono solitamente di relativa importanza perché costruite su un piccolo campione, spesso non rispecchiante la variabilità dell’intera popolazione. Ciò è particolarmente vero per ragazzi provenienti dall’Africa sub-sahariana o dall’Asia, (Afganistan e India in particolare) dove convivono etnie profondamente diverse con strutture fisiche differenti. Anche le popolazioni europee possono presentare grosse discrepanze in considerazione delle varie origini e lingue. A questo proposito, in ri-


ferimento a quanto detto sopra sulle variazioni etniche e personali, fisiologiche e/o patologiche, vorrei ricordare che i dati antropometrici sono strettamente dipendenti dallo sviluppo puberale e che questo presenta ampie oscillazioni intra- e interpopolazioni e subisce l’influenza di variabili sia fisiche (genetica, malattie) sia ambientali (latitudine geografica, stato nutritivo, sostanze esterne alimentari e ambientali, stato sociale, situazione psicologica ed altre). Per fare un esempio i popoli mediterranei e i tropicali benestanti tendono ad iniziare e concludere lo sviluppo puberale in modico anticipo rispetto a quelli del Nord-Europa, ma la media generale di età di sviluppo delle popolazioni tropicali, e del sud del mondo, è in ritardo rispetto a quella del nord Europa e rispetto alle minoranze abbienti (meglio nutrite e con minori stress psicologici) delle loro stesse nazioni. Ma altri fattori concorrono, come per esempio precedenti gravidanze (nelle ragazze Rom) o terapie anticoncezionali e continui stimoli sessuali come nelle baby-prostitute portate dall’Europa dell’Est, situazioni che possono spostare in avanti la valutazione dell’età

presunta, esponendole a gravi sanzioni se trovate a delinquere (furti e prostituzione). In conclusione e in sintesi, non avendo conoscenze anamnestiche non possiamo dire se l’aspetto più o meno maturo, la taglia corporea, lo stadio puberale e l’apparente grado di maturità psicologica siano correlati all’età reale o a una tendenza familiare a svilupparsi in anticipo o in ritardo o a vere patologie dello sviluppo stesso. L’età ossea è solo un indice del grado di maturazione scheletrica correlata allo sviluppo puberale, allo stato di nutrizione (o denutrizione anche pregressa), al peso corporeo se in eccesso, e ad altre variabili, anche etniche, e quindi può differire di molto dall’età reale del minore. A mio parere, la valutazione dell’età ossea dovrebbe essere riservata solo a casi particolari e, se eseguita, deve essere integrata con la valutazione clinica e con una valutazione psicologica o neuropsichiatrica infantile e sociale e, sempre, con il consenso informato del minore. Fra i limiti dell’età ossea ricordo l’uso di standard vecchi di decenni, le variabilità etniche, importanti fra i minori non accom-

pagnati che si trovano in Italia, perché asiatici, sudamericani e africani hanno una più rapida maturazione scheletrica adolescenziale, che all’età critica di 16-18 anni li può far considerare già maggiorenni. Infine il maggiore limite è rappresentato dall’esposizione a radiazioni che, se sono giustificate in accertamenti rivolti alla salute del bambino, non lo sono per fini giudiziari. A mio parere, quindi, la determinazione dell’età dovrebbe basarsi soprattutto sulla valutazione sociale con riferimento al racconto del minore e ad una valutazione psicologica sul suo grado di maturità che tenga conto del vissuto e delle esperienze del soggetto. Solo in casi particolari a questa indagine si dovrebbe associare anche una perizia medica che deve integrare quelle precedenti e non sostituirsi ad esse. Infine gli operatori interpellati (sociali, medici e psicologi) per questa determinazione devono sempre ricordare la disposizione della legge italiana che “qualora permangano dubbi sulla minore età, questa è presunta ad ogni effetto” e quindi anche nel loro giudizio, se incerti, devono optare per l’età minore.

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psicologia scuola e adozione 18

di Livia Botta Psicoterapeuta e Formatrice Responsabile del Gruppo di Ricerca e Progettazione “Adozione e Scuola” www.liviabotta.it – www.adozionescuola.it

La fatica di imparare

I bambini e i ragazzi adottati incontrano più facilmente dei coetanei difficoltà di apprendimento? La risposta è sì, se consideriamo le numerose ricerche effettuate a livello nazionale e internazionale: pur nella grande varietà dei casi singoli, i minori adottati sono una categoria maggiormente vulnerabile alle difficoltà scolastiche. Ciò non significa che per tutti i bambini adottati il percorso scolastico si presenti irto di ostacoli. Se molti hanno difficoltà anche serie, ce ne sono altri che nonostante esperienze precoci particolarmente avverse riescono ad avere una buona crescita cognitiva e a confrontarsi positivamente con l’apprendimento. E’ inoltre dimostrato che bambini che incontrano difficoltà all’inizio del loro percorso scolastico

possono recuperare molto, se ricevono attenzioni adeguate. Sono molte le variabili che possono fare la differenza tra caso e caso: l’età in cui il bambino viene adottato, il paese di provenienza, la lingua appresa prima dell’adozione, le esperienze precoci, le caratteristiche della famiglia adottiva e del contesto di vita del post-adozione. Contano molto anche fattori individuali come il patrimonio genetico del bambino, il suo temperamento, la sua capacità di resilienza (cioè la capacità di far fronte e superare le esperienze avverse), senza escludere la casualità, anch’essa un fattore che influenza lo sviluppo umano. Ma vediamo cosa ci dicono le ricerche. La letteratura sul tema è concorde nel sostenere che, mediamente, i minori

adottati presentano generiche difficoltà scolastiche e disturbi specifici di apprendimento in percentuale maggiore dei coetanei. Il termine “disturbi specifici di apprendimento” si riferisce a difficoltà tipiche di lettura (dislessia), scrittura (dislessia e disortografia) e calcolo (discalculia), che si presentano in bambini con intelligenza nella norma. Queste difficoltà, che possono permanere per tutta la vita, si incontrano spesso insieme, e oltre a rendere difficoltoso l’apprendimento possono generare sentimenti di demoralizzazione, scarsa autostima e disaffezione nei confronti della scuola. Le ricerche internazionali ci dicono che queste difficoltà sono presenti nei bambini adottati in percentuale quattro volte superiore alla norma. Divengono solitamente evidenti


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dopo i primi due anni di scolarizzazione, quando le abilità di lettura, scrittura e calcolo dovrebbero essere acquisite. E’ importante riconoscerle per tempo, per evitare di attribuire gli insuccessi scolastici a tratti personali quali svogliatezza, pigrizia, scarsa concentrazione. Sono cosa diversa dai disturbi specifici di apprendimento le difficoltà scolastiche generiche, che possono essere correlate a una immaturità psicologica e funzionale del bambino. Rallentamenti nello sviluppo delle funzioni intellettive causati da problematiche perinatali, situazioni di deprivazione precoce o traumi possono far sì che il bambino non sia pronto per gli apprendimenti scolastici adeguati alla sua età cronologica. Nel caso dei minori adottati in età scolare, aver iniziato i primi apprendimenti in una lingua diversa rappresenta un ulteriore fattore di rischio, così come l’aver frequentato nel paese d’origine scuole con insegnamento inadeguato. Ma le problematiche maggiori sembrano presentarsi nell’ambito dell’attenzione, della concentrazione e della capacità di autoregolarsi. Scarsa capacità di prestare attenzione alle conse-

gne e alle spiegazioni, di mantenere la concentrazione, di memorizzare, di organizzarsi, di completare un compito in autonomia; iperattività, difficoltà nel controllo degli impulsi e nel rispetto delle regole: questi tratti si traducono in ostacoli potenti all’apprendimento, E un bambino che incontra tali difficoltà nell’imparare finisce o per utilizzare la passività come espediente per evitare di mettersi in gioco, o per assumere in classe condotte disturbanti e atteggiamenti oppositivi difficili da gestire. L’incapacità di contenere l’aggressività può generare atteggiamenti di rifiuto da parte dei coetanei, in un circolo vizioso che rischia di rendere questi bambini sempre più arrabbiati e intrattabili. Anche queste problematiche possono essere presenti in soggetti di buona intelligenza, il che può trarre in inganno genitori e insegnanti che, soprattutto nel progredire del percorso scolastico, possono attribuire gli insuccessi a “cattiva volontà” e “scarso impegno”, piuttosto che a difficoltà più radicate e più difficili da superare. Ma da cosa dipendono queste difficoltà? Cosa appesantisce il percorso scolastico di un così gran nume-

ro di bambini adottati? Va detto subito che non esiste una risposta univoca. Le ragioni possono essere molteplici e ascrivibili a fattori differenti, spesso in interazione tra loro. Dobbiamo aver chiaro che analoghe manifestazioni possono avere alla base cause diverse, di cui possiamo non avere conoscenza. Sono tre le variabili che entrano in gioco: la biologia, la storia pregressa del bambino e l’ambiente attuale. Consideriamole una per una. Le componenti biologiche. Il cervello umano si forma e si differenzia nelle sue funzioni durante il periodo prenatale. L’affinamento della capacità sensoriali si completa entro l’età prescolare, mentre lo sviluppo dei sistemi responsabili delle attività cognitive superiori continua fino all’adolescenza. Si tratta di processi in parte automatici, in parte sensibili alle interazioni con l’ambiente: lo sviluppo neurologico di un bambino può cioè essere influenzato, oltre che da variabili genetiche, anche da eventi negativi o positivi, sia prenatali che postnatali. La malnutrizione o l’assunzione di sostanze nocive da parte della madre in gravidanza, così come un suo profondo malesse-


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re emotivo o fisico, possono provocare un rallentamento dello sviluppo cerebrale del bambino, che potrà evidenziarsi nelle aree dell’acquisizione del linguaggio, del grafismo, delle abilità visuo-spaziali e cognitive (memoria, attenzione, concentrazione...), nei processi sociali ed emotivi (iperattività, difficoltà di controllo emotivo). Numerose ricerche hanno evidenziato che è soprattutto l’esposizione prenatale all’alcol ad avere, potenzialmente, gli effetti più dannosi sullo sviluppo neurologico del bambino. Nel periodo successivo alla nascita, il normale svilup-

po cerebrale può essere rallentato da un’alimentazione inadeguata, malattie, stimoli sensoriali e interazioni sociali carenti. Alcuni studi di neurobiologia hanno dimostrato che nei primi anni di vita anche i traumi e le situazioni di istituzionalizzazione più critiche possono influenzare lo sviluppo cerebrale, alterando la produzione di cortisolo (il cosiddetto “ormone dello stress”) e danneggiando il sistema di allarme interno di risposta allo stress, che finirà per attivarsi in modo anomalo e scattare con niente. Se questi sono i fattori di rischio, non è detto che gli

esiti siano per forza drammatici. Molti bambini si sviluppano bene anche in condizioni difficili, probabilmente poiché posseggono dei fattori genetici di protezione in grado di contrastare o di correggere tempestivamente i danni delle esperienze avverse. Anche nei casi più critici, dobbiamo comunque ricordare che il cervello in fase evolutiva è un organo con incredibili capacità di recupero: benché alcune compromissioni possano essere permanenti, altri circuiti si possono riorganizzare grazie alla maturazione e all’esperienza. Questa considerazione deve spin-


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gerci a non scoraggiarci e a studiare gli interventi più efficaci per mettere in grado questi bambini, nel periodo post-adozione, di sviluppare al massimo le loro potenzialità. Le componenti psicologiche. Diverse teorie psicologiche ci vengono in aiuto per comprendere perché esperienze difficili e/o traumatiche sperimentate nella prima infanzia possono tradursi in ostacoli all’apprendimento. Dobbiamo in primo luogo considerare che la scuola è un ambiente in cui riescono a dare il meglio di sé bambini fiduciosi e sicuri,

capaci di entrare in sintonia con gli adulti, dotati della curiosità necessaria per usufruire delle opportunità offerte dalla scuola e per correre i rischi che l’apprendimento comporta. Ma è difficile che un bambino adottato abbia ricevuto nella prima infanzia la protezione e la stabilità indispensabili per acquisire un tale senso di sicurezza e fiducia. La precoce separazione dalla madre biologica e la mancanza di continuità nei successivi legami di attaccamento tendono infatti a generare stili di attaccamento insicuri, orientati o all’evitamento

del contatto emotivo o ad “aggrappamenti” accompagnati dal bisogno di controllo continuo dell’adulto, che si riflettono anche nel contesto scolastico. Le ripetute interruzioni dei legami sperimentate dai bambini prima dell’adozione possono farli sentire “di scarso valore”, non meritevoli di amore. L’autostima carente si traduce in sfiducia nelle proprie capacità e difficoltà a tollerare la frustrazione e l’insuccesso, laddove “imparare” comporta proprio il riconoscimento di non sapere (cioè la possibilità di tollerare la mancanza), la dipendenza da qualcuno


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che sa (cioè la possibilità di affidarsi) e infine la possibilità di ricevere e assimilare. La mancanza, nei momenti iniziali della vita del bambino, di un adulto che lo abbia accudito amorevolmente, dando di volta in volta nome e significato alle sue prime esperienze sensoriali ed emotive, può rendere difficoltosa la costruzione di quel contenitore-mente che consente di dar senso, immagazzinare e collegare conoscenze ed esperienze. Le rotture di continuità dovute alle ripetute interruzioni dei legami e alla stessa adozione possono ri-

flettersi in una frammentazione e disorganizzazione del pensiero. Difese emotive come la rimozione o la scissione, utilizzate per tenere lontane e separate le esperienze dolorose del passato, possono attaccare la capacità di pensare, facendo perdere il contatto con alcune aree della mente e generando i meccanismi di inibizione cognitiva riconoscibili in quei bambini e adolescenti con buona intelligenza che manifestano inspiegabili “blocchi del pensiero”. Mentre alcuni di questi meccanismi hanno un carattere strutturale e sono difficilmente modificabili,

altri sono di natura transitoria. Si presentano nei momenti critici e possono trarre grande vantaggio dalle funzioni di accoglienza, riconoscimento e valorizzazione che la scuola può offrire. Le componenti ambientali. L’ultima variabile è il contesto attuale, che può favorire o al contrario ostacolare il raggiungimento di risultati di apprendimento soddisfacenti. E’ la variabile su cui è possibile intervenire, sia a scuola che a casa, per aiutare i bambini più vulnerabili. Ma di questo parleremo in dettaglio in un prossimo articolo.


scuola e adozione

Lorenza Del Vento Mediatore Feuerstein

Imparare ad imparare:

il programma di Arricchimento Strumentale di Reuven Feuerstein 24

Se si cerca sul dizionario il termine “metodo” si trova questa definizione: “insieme di procedimenti messi in atto per ottenere uno scopo”. Parlando allora di Metodo Feuerstein cosa si intende? Certamente una serie di “azioni” che l’adulto Mediatore mette in atto con lo scopo di ottenere quella che Reuven Feuerstein chiama la Modificabilità Cognitiva Strutturale (MCS): “modificabilità cognitiva come forza posseduta da ciascuno e attraverso la quale l’uomo è in grado di auto-modificarsi in modo molto più significativo di quanto comunemente si creda” (Reuven Feuerstein, 2008, p. prefazione). La MCS va intesa proprio come cambiamento della struttura del cervello e del pensiero, frutto di un lavoro sistematico di mediazione e sollecitazione che

interviene sulla plasticità del cervello. È un po’ come l’effetto di un allenamento sulle prestazioni di un atleta: l’allenamento modifica la sua struttura muscolare e le abilità in gara, portando l’atleta alla vittoria o comunque al raggiungimento di risultati via via migliori. Certo è riduttivo pensare alla Mediazione Feuerstein come a un training, a un addestramento. Non è una semplice tecnica ma ogni intervento del Mediatore parte da un intento pedagogico e dalla fiducia smisurata nelle capacità umane, tale per cui tutto può essere modificabile, chiunque può essere modificabile, il Mediatore stesso si modifica nell’esperienza di mediazione. Come ottenere questo scopo? Proponendo al bambino Esperienze di Apprendimento Mediato, che stimolano, grazie all’interazione

con il Mediatore, la creazione di nuove capacità di pensiero, di elaborazione di concetti, di riflessione per sviluppare flessibilità mentale, capacità di ragionamento, pensiero ipotetico e inferenziale. Feuerstein, in particolare, mise a punto dei Tools, degli Strumenti che consentissero al Mediatore di seguire un Programma di Arricchimento Strumentale (PAS), “una strategia per lo sviluppo delle strutture cognitive dell’individuo in fase di apprendimento” (Reuven Feuerstein, 2008, p. 43). Attraverso l’applicazione del PAS, il cui scopo è migliorare la capacità di avere un pensiero autonomo e flessibile, è possibile potenziare le funzioni cognitive carenti che caratterizzano l’atto mentale dell’apprendimento, consentendo al bambino di “imparare ad imparare”.


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Il focus del lavoro è posto sul processo mentale più che sul risultato raggiunto: la domanda del Mediatore è “dimmi come hai fatto a dare questa risposta!”. In tal modo al ragazzo si chiede un lavoro di metacognizione da compiere insieme

all’adulto, mediatore con lui di stimoli e processi attraverso l’utilizzo di criteri specifici, detti Criteri di Mediazione, che danno qualità all’interazione tra Mediatore e bambino. In particolare il Mediatore Feuerstein, di fronte

all’errore, non dirà mai al bambino “è sbagliato!”, ma piuttosto lo inviterà a pensare bene proprio perché la finalità non è didattica (acquisizione di contenuti) ma proprio meta cognitiva (acquisizione di consapevolezza del processo compiuto


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dal pensiero per giungere a quella risposta piuttosto che a un’altra). Uno degli obiettivi principali del PAS è quello di recuperare le funzioni cognitive carenti, cioè “le condizioni mentali essenziali all’esistenza delle operazioni mentali e di ogni altra funzione del comportamento, (…) suddivise, per natura, nelle fasi dell’atto mentale, corrispondenti ai processi di input, elaborazione e ou-

tput” (Reuven Feuerstein, 2008, p. 117, 178). Ogni volta che il Mediatore PAS lavora con il bambino, ha come obiettivo non solo l’esecuzione pratica dello Strumento ma soprattutto il lavoro di generalizzazione che ne consegue, formulando quello che in termini tecnici chiamiamo il Principio e il Bridging. Il Principio è proprio la generalizzazione dell’esperienza metacognitiva

appena vissuta sulla scheda, è la “regola” di pensiero che posso estrarre da quanto fatto. Non è il Mediatore a dettare il Principio ma piuttosto invita il bambino e lo accompagna nella riflessione su quanto fatto e nella ricerca di ciò che ritiene più significativo e che merita d diventare “regola”. Per esempio, posso riflettere con il bambino su come ha fatto a lavorare “bene”: controllando il comportamento, rimanendo concentrato, osservando con calma, raccogliendo con sistematicità i dati, ecc. Poi lo invito a scegliere uno di questi aspetti e a farla diventare una regola: il Principio. Infine partendo dal Principio ne cerchiamo esempi applicabili nei diversi contesti di vita: a scuola, a casa, nel tempo libero, nelle relazioni interpersonali. Questo “ponte” tra la “regola” (Principio) e l’esperienza è il Bridging, vale a dire l’esempio trat-


to dal Principio, ciò che dal generale riporta il bambino al particolare in un continuo passare tra concreto e astratto, tra generale e particolare che va a costituire il vero valore del PAS perché agisce sulla flessibilità del pensiero e sulla plasticità dell’intelligenza. In questo senso, per esempio, se con il bambino formuliamo il Principio: ”quando sono calmo penso meglio”, evidenziando in tal modo l’importanza del controllo dell’impulsività, possiamo insieme a lui fare esempi di situazioni concrete in cui si è trovato a pensare bene perché era riuscito a stare calmo o viceversa quando si è accorto che non era riuscito a pensare bene perché si era lasciato prendere dall’agitazione o dall’impulsività. Appare evidente allora che la stessa pagina dello Strumento affrontata da persone diverse e in situazioni differenti fa emergere riflessioni e Principi

molto diversi. In tal senso il Metodo Feuerstein è davvero personale e non standardizzabile. Cosa vuol dire concretamente per una famiglia seguire con il proprio bambino un percorso PAS? Le modalità applicative del PAS possono in parte variare da professionista a professionista in base alle esigenze che incontra. L’esperienza ha dimostrato l’efficacia non di un intervento isolato ma piuttosto nella ricerca, a volte anche faticosa, di un lavoro di rete tra Mediatore Feuerstein, neuropsichiatra, famiglia, scuola e tutte le altre figure professionali che possono ruotare intorno al bambino, come logopedisti, psicomotricisti o psicologi. Si è arrivati a sviluppare un modello del tutto personalizzabile e, per certi aspetti, unico rispetto ad altri modelli di applicazione del Metodo Feuerstein, perché integrato nel contesto scolastico affinché il

bambino sia il più possibile a mente fresca e per avere un canale privilegiato di scambio e condivisione di obiettivi con la scuola. Certamente l’efficacia del percorso di potenziamento è data soprattutto dal ruolo che la famiglia decide di giocare: si possono registrare cambiamenti significativi nel bambino solo se nella sua quotidianità si riesce davvero a creare un Ambiente Modificante, che stimoli continuamente l’intelligenza. Per questo motivo è importante la ripresa dei Principi sviluppati durante l’ora di PAS da parte dei genitori in tutte quelle situazioni di vita comune in cui può essere utile richiamarli. Solo in questo sforzo congiunto si può davvero ottenere la Modificabilità Cognitiva Strutturale e un reale cambiamento. Reuven Feuerstein, R. F. (2008). Il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein. Fondamenti teorici e applicazioni pratiche. Trento: Erickson.

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di Antonella Avanzini

Siamo uguali, siamo diversi 28

Mi accorgo ora, dopo tre anni che i miei bambini sono con noi, che devo cambiare il mio pensiero su di noi, sui genitori adottivi, sui figli adottivi. Ma questo cambiare idea mi da fastidio, perché mi da fastidio in primo luogo chiamare i miei figli “figli adottivi”, definire la mia famiglia una “famiglia adottiva”. Perché devo aggiungere questo aggettivo? Io sono uguale agli altri! I miei figli sono uguali ai figli degli altri! Non voglio che si distingua tra famiglia adottiva e famiglia biologica! Questo è quello che ho pensato sempre, che è presupposto al passo dell’adozione: potere sentire bambini nati da altri, bambini che prima erano figli di qualcun altro, tuoi figli in tutto e per tutto come un figlio nato da te. A consuntivo di questi tre anni di vita insieme ai mei figli, devo invece rendermi conto che purtroppo no: noi non siamo uguali agli

altri. E me ne sono resa conto soprattutto quando ho dovuto confrontarmi con le maestre e i genitori dei compagni di classe dei mei bambini. Perché nella quotidianità della vita scolastica, nelle anche banali vicissitudini di ciò che accade a scuola, mi sono accorta di quanto i miei figli fossero diversi dagli altri bambini, di quanto io mamma, sia diversa dalle altre mamme. I miei figli hanno trovato ambienti scolastici accoglienti, non sono mai stati aggressivi né con noi, né con altri, né con le cose. Sanno comunicare i loro sentimenti e hanno una sincera voglia di trovare il loro giusto posto, sia nel mondo dei piccoli che nel mondo degli adulti. Tutto bello. Tutto perfetto. Ma dietro e dentro a questi bambini c’è qualcosa che dentro e dietro alla maggior parte degli altri bambini non c’è. Hanno una scimmia sulle spalle, che

devono portare, e a cui loro e noi dobbiamo badare. Come spiegare, in primo luogo a me stessa e in secondo luogo agli altri, che la storia di questi bambini non è passata, non è scomparsa nell’istante stesso in cui siamo atterrati alla Malpensa, ma è invece ancora tutta lì, e lì ci starà per sempre? E anche io, è solo ora, con la tranquillità che i tre anni ormai felicemente passati mi hanno dato, che riesco a vedere meglio e a capire meglio. Ho sempre parlato apertamente dei miei bambini e della loro storia alle maestre, sanno chi sono e i motivi per cui ora sono nostri figli. Sono oramai quasi tre anni che anche le insegnanti, sempre le stesse, conoscono mia figlia, che ora ha dieci anni. La conoscono? E io stessa, la conosco? Ho sempre pensato che a scuola non era giusto adattare i programmi per


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i bambini adottivi. Ma ora mi chiedo invece se è meglio essere cauti, piuttosto che mettere alla prova questi bambini e fare loro superare a forza quelle prove. Pochi giorni addietro si è celebrata anche a scuola la “giornata della memoria” del genocidio degli ebrei. Per le classi quinte viene proiettato un film, diviso in due parti, che i bambini vedono in due giorni successivi e che racconta la storia di Anna Frank. Appena usciti da scuola mia figlia subito mi racconta: <<Mamma abbiamo visto il film di Anna Frank! Tu sai chi è? Hai visto anche tu il film?>> Si, Natascia, credo di si, sicuramente ho letto il libro, anzi forse ce l’abbiamo ancora. <<Eh … mamma … ti devo dire … è successa una cosa … ho pianto!>> Eravamo insieme a una amichetta sua compagna:

per sdrammatizzare chiedo all’amichetta se anche lei aveva pianto. Mi risponde che lei no, ma quando ha visto Natascia piangere, si è preoccupata e allora quasi quasi piangeva anche lei. Lei non avrebbe pianto per Anna Frank, avrebbe pianto per la sua amica di classe. Mia figlia invece ha proprio pianto per Anna Frank. Perché mia figlia cosa vuol dire essere prigionieri in un posto, sa cosa vuol dire. Guardare il mondo da un posto chiuso, potendo vedere solo briciole di quello che c’è fuori, sa cosa vuol dire. Perché mia figlia cosa vuol dire essere senza niente da mangiare, lo sa cosa vuol dire. Perché mia figlia avere amici, parenti che scompaiono, che ci vengono tolti e di cui non si sa più nulla, sa cosa vuol dire. E’ stato un bene vedere quel film per mia figlia? Non lo so. Ma credo che

un male non sia stato. Ha condiviso la sua storia, il suo dolore. Per un pezzettino ha fatto i conti con se stessa. Al colloquio con la maestra per la consegna delle pagelle, la maestra era preoccupata. Per la prima volta anche lei ha visto davvero, anche lei ha visto quella scimmia che Natascia ha sulla spalla. Si aspettava forse qualche parola da parte mia, di rimprovero o di disappunto per avere fatto vedere quel film a Natascia, senza avercelo comunicato prima; in effetti, noi non sapevamo niente. Era sinceramente dispiaciuta che la bambina avesse sofferto così tanto da piangere disperatamente. Per la prima volta anche lei ha visto. Ha visto come un evento in fondo abbastanza banale - di routine in un anno scolastico che prevede gite, laboratori, lezioni, e intervalli di gioco - può far gridare quell’ani-


male invisibile e silenzioso che è dentro Natascia. La maggior parte dei bambini quell’animale non ce l’ha, quella bestia così potente, non ce l’ha. E forse per la prima volta ha capito, che io non ero una mamma poi così apprensiva, come altra volta mi aveva definito. Perché mi preoccupavo di alcuni comportamenti di cui ero venuta a conoscenza che accadevano in classe, e che non ritenevo idonei. Ha capito finalmente la mia paura, perché ha visto come un episodio in fondo “normale” per gli altri bambini, ha invece avuto su Natascia un effetto esponenziale. Come possiamo far capire alle maestre e a tutti, senza cadere nel melodrammatico, nel compassionevole, quello che i nostri bambini hanno dentro? Le persone che ci stanno attorno - così come i bambini e le maestre che han-

no ascoltato la storia di Anna Frank - ascoltano quello che possiamo dire dei nostri figli, quello che raccontiamo, ma non riescono a capire cosa significhi veramente.

bambino, è pressoché impossibile! Mi risponde che lui non gli può dire niente, perché ha paura. Parlo con le maestre per sapere se quanto racconta mio figlio, in effetti corrisponde al vero. So coUna mamma, una ma- munque che è vero, perché estra, può comprendere ascolto quotidianamente per esempio il disagio di anche le lamentele delle un bambino se i genitori altre mamme della classe. si sono separati. Capisce La maestra mi conferma il dramma di un divorzio, che si, mio figlio le prende. di una separazione, di un Chiedo di trovare una sobambino che vive in mezzo luzione tutti insieme. a due genitori che litigano La risposta è che insome si odiano. Ma non può ca- ma, bisogna capire, aspetpire i drammi che hanno tare, che il bambino manetoccato i nostri bambini, sco si assesti, perché è un perché sono troppo lontani bimbo i cui genitori si sono dal loro mondo vissuto. separati e quindi in questo L’altro mio figlio ha ini- momento è un po’ scomziato la prima quest’anno. bussolato. C’è nella classe un bim- Io posso capire. Che picbo manesco che “picchia” chiarsi tra bambini di sei quotidianamente. Ascolto o sette anni non è poi un le quotidiane lamentele di dramma così sconvolgenmio figlio. Gli chiedo di di- te. Un certo contatto fisico fendersi almeno a parole, può essere a volte anche visto che una difesa fisica un modo per conoscersi. per mio figlio, molto più Ma come faccio a spiegapiccolo e magro dell’altro re alle maestre, alle altre

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mamme, a far capire loro che la paura di esser picchiato, per mio figlio ha tutta una valenza diversa. Che mio figlio ha subito la violenza di famigliari alcolizzati durante il suo primo anno e mezzo di età, nella famiglia di origine. Che mio figlio ha subito fino ai quattro anni la paura della violenza dei compagni di istituto, che lo picchiavano, che gli rubavano il cibo. Come hanno da subito raccontato lui e la sorella più grande. Che ha subito la paura delle punizioni fisiche e psicologiche degli operatori degli istituti in cui ha vissuto, che chiudevano al buio negli sgabuzzini, che picchiavano e urlavano se facevi la pipì addosso o rompevi per sbaglio qualcosa, o non facevi bene il tuo lettino. Come posso spiegare alle maestre che quello che ha dentro mio figlio è una bomba a orologeria. E che non ha senso fare una gara tra mamme, a giustificare

i diritti dei figli, misurando chi ha il figlio con il trauma più grosso. Ma come spiegare alle maestre che si sta giocando col fuoco. Che questo bambino tiene a bada la sua bomba attraverso un lavoro faticoso e costante, che ci vuole una bravura da vero equilibrista, che cammina ogni minuto di ogni giorno su un filo. Che la nostra famiglia si è attivata come le squadre emergenza dei telefilm, come le squadre investigative che setacciano al microscopio ogni indizio, per riuscire a neutralizzare tutte le micce che rischiano di accendere quella bomba, e che si sforza per arrivare in un domani, a disinnescarla definitivamente quella bomba. Come spiegare che ogni giorno, crescere questo bambino, che ormai ha sette anni, significa confrontarsi con un bambino ri-nato a quattro anni; un bambino a cui per un anno

intero dal suo arrivo nella nostra famiglia, è stato impossibile chiedere di fare qualunque cosa, perché scoppiava immediatamente in un pianto disperato; che c’è voluto un altro anno perché alle nostre richieste non si mettesse più a piangere, ma che almeno ascoltasse cosa dicevamo. Che ci sono voluti ancora altri mesi, perché ogni tanto, alle nostre richieste - per esempio di mettere a posto un gioco – ci ascoltasse guardandoci e finalmente facesse, una volta si e dieci no, quello che gli chiedevamo di fare. Ora stiamo lavorando perché ogni volta che gli chiediamo qualcosa ci ascolti e si comporti secondo le indicazioni date. Come facciamo a spiegare alle maestre che i compiti li fa, che gli piace anche imparare, ma che non è possibile chiedere a mio figlio che tenga in ordine l’astuccio e ottenere che ogni giorno lo faccia. Per questo ci vuole ancora tempo.


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Io credo che i nostri figli debbano avere il diritto ad essere conosciuti per quello che sono, che quando qualcuno li guarda è giusto che veda anche la scimmia che si portano sulla spalla. Non dobbiamo nasconderla, perchÊ se anche gli altri

la vedono possono capire meglio i nostri figli, possono non sorprendersi di quello che sono, di quello che fanno. E’ con il lavoro di tutti, con la quotidiana attenzione affinchÊ i nostri figli siano compresi, siano ascoltati

per quello che sono, dentro la famiglia ma anche fuori, che forse potranno attraversare la loro vita, convivendo pacificamente con quella parte di loro stessi che ha devastato con onde burrascose la loro vita di bambini.


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di Marta e Alberto

Al buio si vede meglio 34

All’Istituto dei ciechi di Milano è possibile fare una esperienza molto particolare: un percorso completamente al buio, non tanto per assaggiare drammaticamente cosa manca alla vita di un non vedente, ma per sperimentare quanto anche la sua esistenza sia densa di emozioni. La vista – ti viene spiegato – finisce per inibire tutti gli altri sensi che, riattivati, ti aprono a sensazioni nuove e inaspettate! Abbiamo fatto il percorso insieme a nostro figlio di 9 anni. Lui è un tipo diffidente, non si butta con entusiasmo nelle nuove situazioni: parla poco, esprime a fatica le sue emozioni. All’ingresso di “Percorso al buio” una prima signora gentile ci ha istruito, mentre percorrevamo un corridoio in penombra, con il bastone impugnato, unico

attrezzo a nostra disposizione. Prima annotazione fondamentale rivolta al bambino: non annuire per dire di sì! (gesto per lui automatico e frequente). “Senza la voce, al buio, la guida non vedente che vi accompagnerà non può certo capire le risposte alle tue domande…” gli ha suggerito con dolcezza. Mio figlio ha annuito di nuovo, un attimo dopo si è corretto, pronunciando un laconico “Sì”. Ancora un passo, un fremito ed è cominciata l’avventura. Il buio, nero come l’inchiostro, ma caldo come un abbraccio, ci ha avvolto completamente per più di un’ora. La voce musicale di Rosanna, mamma anche lei, non vedente, ci ha fatto da guida alla scoperta di ambienti diversi, ricchi di suoni, profumi e sapori: l’erba soffice sotto i piedi di

un giardino, la brezza della spiaggia, i clacson impazziti del quartiere cittadino, la merce esposta al mercato; e, per chiudere, una chiacchierata al bar dove abbiamo preso caffè e succo di frutta! Tutto sempre rigorosamente al buio, apparentemente soli con noi stessi, ma in realtà vicini, non solo fisicamente. A questa età i nostri figli, a un primo sguardo superficiale, possono sembrarci un po’ apatici, per nulla espansivi, poco interessati alle mille esperienze che fanno nelle loro giornate così sovrabbondanti di stimoli. Alle mie classiche e irrefrenabili domande (vorrei mordermi la lingua ogni volta che apro la bocca per pronunciarle…) di fine giornata: “Come è andata oggi? Cosa è successo? E la scuola?” ottengo in genere una reazione molto simile


a un mugugno. Eppure la guida non vedente alla fine del percorso mi ha sussurrato: “Che bambino curioso!” Ho subito pensato: “Magari fosse il giudizio della maestra che nell’ultimo colloquio mi ha detto che mio figlio appare svagato e distratto…!” Reagisco: “Come ha fatto a capirlo? Mio figlio non ha fatto domande… e ha detto pochissime parole…”. “Dalla fiducia che mi ha dimostrato, da come si è mosso nello spazio: ha voluto toccare tutto e indovinare ciò che lo circondava!...” mi ha risposto sicura della sua intuizione. Bisogna affinare lo sguardo – ma non bastano gli occhi, ci vuole il cuore – per comunicare su un altro piano e meglio capire i nostri figli, cogliere la loro natura più profonda.

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giorno dopo giorno

di Berta Martin

Una petizione per il Mali 36

Mi chiamo Berta Martin, sono spagnola e sposata da anni con Giampiero; viviamo a Genova, la sua città natale. Insieme, da due anni e mezzo abbiamo intrapreso la strada dell’adozione per arrivare da nostro figlio, in Mali. A luglio 2011 abbiamo dato l’incarico al nostro ente che ci aveva scelto come coppia pilota insieme ad un’altra famiglia, con la quale ormai siamo uniti nella lotta per portare a termine il progetto di famiglia che condividiamo. Stiamo vivendo un’attesa complicata, in un paese che sembrava tranquillo, ma nel quale nell’ultimo anno sono successi una serie di fatti molto gravi. Come genitori e come amanti della terra dei nostri figli, abbiamo deciso di portare avanti una PETIZIONE INTERNAZIONALE perché la riapertura delle adozioni

internazionali in Mali avvenga il prima possibile. Vogliamo fare arrivare alle autorità maliane l’opinione internazionale, lottiamo in nome di questi piccoli angeli che non possono urlare il grosso bisogno che hanno di avere una famiglia per sempre. Sono promotrice di questa iniziativa insieme ad un caro amico, Karl Babin, cittadino francese e titolare di una piccola Ong che aiuta il Mali da tanto tempo, e con la quale abbiamo collaborato già in diversi fronti. La petizione esiste in quattro lingue (italiano, spagnolo, francese e inglese) e sta girando in tutto il mondo. Il Mali è uno dei paesi firmatari della Convenzione dell’Aja per le adozioni. In Italia ci sono quattro enti che lavorano in Mali. L’elenco si trova sul sito della Commissione Adozioni Internazionali. In questo mo-

mento il paese è sommerso da una forte crisi economica e sociale, a causa del conflitto nel nord del paese, che si trova invaso da quattro gruppi islamisti da gennaio 2012, alcuni dei quali sono estremisti e terroristi. Il governo è un governo di transizione, messo in atto dopo un colpo di stato portato a termine a marzo del 2012 dall’esercito maliano. A dicembre del 2011, l’expresidente della Repubblica del Mali ratificò una legge interna che conteneva il nuovo Codice delle Persone e la Famiglia, al quale la popolazione si oppose fortemente attraverso molte manifestazioni. Il codice sembra esser stato frutto del processo di “islamizzazione” imposto dai gruppi etnici del Nord al governo del Mali, che esigevano l’indipendenza di quella parte di territorio che loro chiamano Azawad. Inoltre


minacciavano l’invasione e l’applicazione della Sharia se le loro richieste non fossero state accolte, fatti messi in atto e portati a termine un mese dopo, a cause delle esigue forze dell’esercito maliano. Il nuovo Codice delle Persone e la Famiglia del Mali dedica tre pagine all’adozione; sono venti articoli dei quali solo sei trattano l’adozione-filiazione. Il suddetto documento forma parte dell’ordinamento giuridico interno del paese. L’articolo 540 regola solo i requisiti delle coppie e persone di nazionalità maliana con un minimo di trenta anni che possono far domanda di adozione-filiazione. Se analizziamo bene l’articolo, si può osservare che il codice non fa riferimento alcuno ai requisiti dei cittadini non maliani. Questo ha portato a diverse inter-

pretazioni; fino a novembre del 2012 il direttore dell’autorità centrale per le adozioni lo interpretò come un’autorizzazione tacita, data dalla supremazia che la stessa Costituzione maliana dà ai trattati internazionali ratificati dal paese. Il direttore, basandosi sulla disposizione costituzionale e davanti alla NON denuncia da parte del Mali della Convenzione dell’Aja (entrata in vigore in Mali il 1° settembre 2006), considerò l’adozione da parte di cittadini stranieri giuridicamente sostenibile, ritenendo qualsiasi altra interpretazione chiaramente incostituzionale e assolutamente illegittima. Con l’arrivo, a novembre 2012, del nuovo direttore dell’autorità centrale questa interpretazione è stata completamente rivoltata e il Mali dichiarò che le ado-

zioni internazionali per cittadini non maliani non erano più possibili da quello stesso momento. Le procedure delle famiglie con abbinamento ufficiale firmato dall’autorità centrale sono andate avanti per l’interesse superiore del minore, ma ai dossier che si trovavano da anni o mesi nel paese (addirittura quelli accettati dalla commissione adozioni maliana e ai quali l’orfanotrofio ha già segnalato un minore) è stato comunicato che la procedura veniva fermata, finché questo articolo 540 non sarà modificato o interpretato ufficialmente in modo diverso. Da quel momento, gli enti che effettuano adozioni in Mali di diversi paesi (Francia, Spagna, Italia, Canada, ecc.), attraverso i loro referenti e avvocati locali, gli orfanotrofi pubblici e privati e le famiglie

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hanno iniziato un processo di sensibilizzazione perché le adozioni internazionali potessero riprendere. Si sono intraprese diverse vie per risolvere il problema. In questo momento gli avvocati locali sono in attesa di una risposta da parte della Corte Suprema del Mali relativa ad un ricorso presentato, dove si richiede la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art.540 del Codice della Famiglia Maliano, ma soprattutto

la possibilità di poter concludere tutte le pratiche in corso. In Italia almeno una trentina di famiglie attendono che questo ricorso venga accettato. D’altra parte, l’attuale direttore dell’autorità centrale ha cambiato posizione. Dopo diverse riunioni con avvocati e orfanotrofi, e dopo essersi reso conto dalle conseguenze disastrose che comporterebbe la chiusura delle adozioni internazionali in un paese dove, per

cultura e tradizione l’adozione nazionale è quasi completamente inesistente, il direttore ha creato un gruppo di lavoro insieme ai referenti di diversi enti per scrivere una richiesta all’Assemblea Nazionale del Mali affinché dichiari momentaneamente nulla l’applicazione dell’articolo 540 fino a quando non sarà stato modificato. Inoltre, come abbiamo detto, le famiglie francesi, spagnole e italiane stiamo portando


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avanti la raccolta firme per la petizione internazionale che in questo momento ha superato le 3000 firme, per fare arrivare alle autorità maliane l’opinione internazionale sull’argomento. Fortunatamente le famiglie che al momento della chiusura delle adozioni avevano avuto l’abbinamento ufficiale con un minore ed era stata emessa la sentenza in cui venivano dichiarati genitori, stanno viaggiando a Bamako per

poi ritornare a casa con il proprio figlio. Nel frattempo nel paese è iniziato un conflitto armato in cui sono intervenute le forze internazionali, principalmente francesi; è in corso la riconquista del nord del Mali e si è messo in sicurezza sia la capitale Bamako che il sud del paese. Inoltre, grazie alla sensibilizzazione portata a termine dagli operatori del settore adottivo, la strada verso l’apertura delle adozioni

internazionali sembra ormai aver preso la direzione giusta. Non resta che attendere che l’articolo 540 del Codice della Famiglia venga dichiarato incostituzionale da parte dell’autorità competente in questa materia. Noi famiglie coinvolte lottiamo per raggiungere i nostri figli; lottiamo perché possano avere una famiglia per sempre, che li accolga con l’affetto e l’amore a cui hanno diritto.


leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Leggere, fare e raccontare

Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di Barchetta Blu 40

3. Questo mese: Prosciutto e uova verdi Per stare bene, adulti e bambini hanno bisogno di alimentarsi bene. Un buon rapporto con il cibo si può creare solo se sin da piccoli si sviluppano delle sane abitudini e dei comportamenti appropriati. Grazie ai genitori e agli educatori i bambini possono imparare delle buone abitudini alimentare anche attraverso attività ludiche e giocose. Quindi è importante che gli adulti che si occupano di bambini conoscano le principali regole per una alimentazione che fornisca all’organismo tutte le sostanze nutritive in una misura adeguata all’età. Un buon rapporto con il cibo nasce anche da una condivisione con i bambini;

essi vedono spesso la cucina come un luogo magico, ma a volte anche misterioso, nel quale gli alimenti si trasformano in modo irriconoscibile, dove ci sono colori e profumi intensi, dove si possono inventare pozioni capaci di solleticare e incuriosire anche i palati più esigenti. Aprire le porte della cucina ai bambini può essere una complicazione ma, soprattutto se all’adulto piace cucinare, per il bambino può essere una buona occasione per diventare un piccolo aiuto e soprattutto per sviluppare cura e amore verso i cibi. Il principale motivo per stare insieme in cucina rimane comunque quello di condividere insieme ai bambini un’esperienza che coinvolga tutti i cinque sensi. Tra pentole, mestoli

e farina c’è spazio per confidarsi con l’altro, parlare della giornata trascorsa e raccontare storie interessanti. A fine preparazione il premio è l’assaggio del piatto preparato, la gratificazione per aver raggiunto l’obiettivo, l’acquisizione di maggior fiducia in se stesso per essere riusciti anche ad evitare e gestire pericoli e rischi come fuochi e coltelli. Spesso l’alimentazione dei bambini rappresenta una grande fonte di ansia per i genitori. Proprio per questo e su richiesta di mamme e papà in difficoltà, in biblioteca organizziamo degli incontri con esperti e specialisti del settore. In uno di questi incontri, una pediatra ha raccontato come per i bambini alimentarsi non rappresenti


solo introdurre del cibo ma molto di più. Molte volte i bambini lo capiscono e, nel loro tentativo di affermarsi, utilizzano proprio il cibo per imporsi. Quante volte abbiamo sentito dire ai bambini “no, no e poi no! Non lo voglio, non mi piace!...” magari senza neanche sapere che cosa avevano davanti.

mentazione dei bambini è iniziato con la lettura di un libro legato al tema affrontato. Per quella occasione è stato scelto Prosciutto e uova verdi che è uno dei successi più conosciuti tra gli oltre 60 libri per bambini pubblicati in tutto il mondo dal dottor Seuss. Le rime illustrano una straordinaria gamma di situazioni e di personaggi che giocano con uno strano e inverosimile piatto di prosciutto. Questo esilarante albo illustrato può essere utilizzato come un vero e proprio antidoto in rima contro la naturale diffidenza dei bambini verso i nuovi sapori. Le immagini sono vivaci e colorate, l’ironia è irresistibile, Come in occasione di tutti il ritmo incalzante, i testi questi incontri in bibliote- surreali, i luoghi e i persoca per genitori ed educa- naggi stravaganti. tori, anche quello sull’ali- Tutto ruota attorno ad un

vassoio contenente il prosciutto e le uova verdi; questi surreali alimenti sono contornati da strampalati macchinari, improbabili mezzi di trasporto, luoghi con architetture inverosimili. L’autore riesce a rappresentare le assurde situazioni del mondo dei grandi attraverso una specie di trasformazione e di deformazione temporanea delle cose e degli eventi. Ci sono due stralunati personaggi: un grosso cane col cappello, che sembra non stupirsi di niente e una buffa creatura che per tutta la storia cerca di far provare all’altro una vera specialità: prosciutto e uova verdi. Questo Nando, detto Ferdi, è così insistente e petulante che non si scoraggia mai di fronte ai decisi rifiuti del suo interlocutore.

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Come noi genitori che, quando i figli rifiutano di assaggiare, cerchiamo di inventare mille escamotage, anche Ferdi cerca di convincere l’amico proponendogli i luoghi e i compagni di pasto più diversi: su un alto ramo, in una galleria, su una barchetta, in una cassa … con il topino, con la capretta, con la volpe rosa e bassa … L’amico di Ferdi respinge tutte le proposte, prima un po’ sdegnato, poi irritato dall’insistenza, infine davvero infuriato. Però, all’ennesimo tentativo di Ferdi il cane esasperato accetta suo malgrado di assaggiare, a patto di essere lasciato in pace. E così scopre che prosciutto e uova verdi non sono un piatto orribile ma una deliziosa pietanza, al punto da volerli mangiare dappertutto. Ehi! Che delizia, detto Ferdi, il prosciutto e le uova verdi! Me li mangio sì, in

barchetta! Anche insieme alla capretta … E anche sotto l’acquazzone. E sul treno. E in galleria. E sull’auto. E sul ramo. Che delizia, mamma mia! Sia a scuola che a casa, nei tentativi di convincere un bambino a mangiare pietanze nuove e diversificate, è utile coinvolgerlo nella scoperta dei vari ingredienti che compongono una pietanza e quando è possibile, anche nella preparazione. Spesso i bambini sono molto curiosi e vogliono vedere bene dentro e fuori, toccare e annusare i nuovi cibi. Sicuramente è utile spiegare ai bambini il perché un cibo fa bene, ma si ottengono molti più assaggi facendo preparare le varie ricette prima di degustarle, toccando e mescolando gli ingredienti, vedendo come si trasformano quando vengono mescolati, come cambiano di consistenza e di colore.

In questo modo i bambini sono naturalmente invogliati ad assaggiare, quasi fossero orgogliosi di aver creato loro la pietanza, di aver inventato una sorta di magia. Come ci suggerisce il divertente libro del dottor Seuss, un’altra cosa che funziona bene è anche quella di giocare con i colori dei cibi.

A questo proposito, un libro dedicato a grandi e piccini che vogliono divertirsi impastando, trasformando, cucinando e poi servendo in tavola prelibati pranzetti è Cuochi col sale in zucca di Emanuela Bus-


solati e Federica Buglioni. Questo vero e proprio quaderno operativo dell’Editoriale Scienza illustra non solo gli ingredienti ma anche gli attrezzi e gli utensili da usare in cucina. L’autrice spinge i piccoli cuochi a utilizzare tutti i sensi come una guida: occhi per osservare; mani per impastare, tagliare, sbucciare; naso per riconoscere i profumi; bocca per assaggiare. Un libro ricco di ricette da provare, curiosità da scoprire, ingredienti da amalgamare. Come dei piccoli chimici o dei grandi maghi, i bambini possono sperimentare le trasformazioni più inconsuete: con la cottura una morbida crema diventa una soffice torta, con

il congelamento il liquido bianco diventa un gelato da leccare! In questo modo nessuno può resistere ad un assaggio.

BIBLIOGRAFIA Prosciutto e uova verdi. Dottor Seuss, Giunti Junior, 2002 Cuochi col sale in zucca. E. Bussolati, F. Buglioni, Editoriale Scienza, 2010 Il mio primo libro di cucina. A. Wilkes, S. Cartwright, Usborne, 2013 Cucino io ! Autori Vari, Gribaudo, 2007 Mamma oggi cucino io! T. Morris, Mon-

dadori Electa, 2012 40 Ricette senza fornelli. C. Albaut, Motta Junior, 2011 52 Cose da fare in cucina. G. Lomazzi, Salani, 2011 Imparo a cucinare. Wheatley Abigail, Usborne, 2011

muove in modo attento e concreto anche il valore affettivo, educativo, di condivisione, conoscenza e divertimento del cucinare insieme ai bambini. Tutte le loro proposte hanno l’obiettivo di stimolare un approccio all’educazione alimentare fondato sul piacere del fare e sul contatto con il mondo naturale, al fine di invitare grandi e piccoli a incontrarsi in cucina, per nutrirsi bene e condividere momenti sereni ed emozionanti. Mi è molto piaciuto il Manifesto dei diritti alimentaCi sono molti libri e anche ri dei bambini che l’associamolti siti con suggerimenti zione ha promosso insieme e idee pratiche sull’argo- alla Commissione Europea mento. Segnalo in partico- e a Milano per i bambini. lare il sito dell’associazione Bambini in Cucina che proSITI INTERESSANTI http://www.bambiniincucina.it http://www.manineinpasta.com http://www4.ti.ch/fileadmin/DSS/DSP/ UPVS/PDF/MG/Alim_guida.pdf

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trentagiorni

ANCHE LE LAVORATRICI A PROGETTO O AUTONOME CHE ADOTTANO UN BAMBINO AVRANNO DIRITTO A CINQUE MESI DI MATERNITÀ E NON PIÙ SOLO A TRE Con sentenza n. 257/2012 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 64, comma 2, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) come integrato dal richiamo al decreto ministeriale 4 aprile 2002 del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, nella parte in cui riconosce alle lavoratrici iscritte alla gestione separata, che abbiano adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore, un indennità di maternità per un periodo di tre mesi anziché di cinque mesi. Con il messaggio n. 371 dell’ 8 gennaio 2013 l’I.N.P.S ha recepito la decisione, riconoscendo la possibilità di richiedere l’estensione del

periodo di congedo a tutti i rapporti non esauriti, intendendosi come tali quelle situazioni giuridiche per le quali non sia intervenuta sentenza passata in giudicato o estinzione del diritto per prescrizione. La sentenza della Corte Costituzionale riconosce il preminente interesse del minore, tutelandone non più solo i bisogni più propriamente fisiologici, ma anche le esigenze di carattere relazionale ed affettivo, collegate allo sviluppo della personalità: esigenze particolarmente presenti nelle ipotesi di affidamento preadottivo e di adozione, nelle quali l’astensione dal lavoro non deve essere intesa come tutela della salute della madre, ma come sostegno ai genitori nella gestione della delicata fase dell’ingresso del minore nella sua nuova famiglia, a tutela del processo di formazione e crescita del bambino. Fonte: Commissione adozioni internazionali

USA: VERSO LA RIAPERTURA DELLE ADOZIONI INTERNAZIONALI DAL VIETNAM Le adozioni americane in Vietnam potrebbero ripartire entro breve. Cinque anni dopo il grave scandalo della tratta dei bambini che aveva chiuso le porte alle adozioni vietnamite, il Senato potrebbe acconsentire alle coppie americane di adottare. A spingere per la riapertura, secondo l’agenzia stampa Associated Press, sarebbe la Senatrice Mary Landrieu, essa stessa madre adottiva, con la promessa che la corruzione in Vietnam è stata eliminata e che l’autorità centrale del paese asiatico prenderà in mano tutte le adozioni. “Il governo vietnamita è pronto a ripartire”, ha detto la senatrice democratica della Luisiana, “stiamo solo mettendo a punto gli ultimi dettagli” . La promessa è stata accolta con entusiasmo dal mondo delle adozioni americane. Mentre riviste e televisioni americane continuano a parlare di una grave crisi delle adozioni internazionali dovuta


alla mancanza di paesi in grado di proporre alle coppie americane bimbi piccoli e sani e alla chiusura di sbocchi nell’Europa dell’Est, le adozioni vietnamite potrebbero aiutare le agenzie USA ad uscire dalla crisi. La Landrieu conosce bene il mondo delle adozioni: ha adottato lei stessa due figli ed è sposata con un marito adottato da un paese straniero. “Lo scandalo della tratta dei bambini in Vietnam era stata una cosa orrenda” ha dichiarato alla rete televisiva ABC, “Il panorama delle adozioni internazionali non è quasi mai perfetto. Però non possiamo nemmeno abbandonare quei bimbi in un orfanotrofio. Hanno disperatamente bisogno di una famiglia”. Il portavoce del Governo di Hanoi, Luong Thanh Nghi, ha ribadito che esistono adesso chiare procedure legali e che l’accordo tra i due paesi è molto vicino. Fonte: aibi.it IL FIGLIO RIFIUTATO VA RISARCITO

Padre naturale tenuto a risarcire il figlio rifiutato dei patimenti esistenziali anche in assenza di richieste di assistenza. Giro di vite della Cassazione sui danni endofamiliari. Il padre che si è sempre disinteressato del figlio naturale è tenuto a risarcirlo per i patimenti esistenziali provocati con il suo comportamento anche se, essendo consapevole della paternità, non ha ricevuto richieste specifiche dalla madre durante l’infanzia e l’adolescenza del minore. Sono questi, in sintesi, i principi affermati dalla Suprema corte di cassazione con la sentenza n. 5652 del 10 aprile 2012. Dunque, anche se la madre non chiede incessantemente negli anni la partecipazione all’assistenza morale e materiale del figlio, questo, una volta adulto, può chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale. «È stata, da tempo, enucleata la nozione di illecito endofamiliare, in virtù della quale la violazione dei relativi doveri non trova necessariamente sanzione solo

nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo a un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ ». In questo caso preciso, dice ancora la Corte, non può dubitarsi come il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un vulnus, dalle conseguenze di entità rimarchevole e anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione, trovano nella carta costituzionale (in part., artt. 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e di tutela. Fonte: ItaliaOggi Sette

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