Adozioni e dintorni - GSD Informa febbraio 2011

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - febbraio 2011 - n. 2

GSD informa

Da due… a tre ifficoltà

A scuola con d

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Io fuori io dentr

azione

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - febbraio 2011 - n. 2

febbraio 2011 | 002 GSD informa

Da due… a tre coltà A scuola con diffi e

ozion Preparare all’ad o

Io fuori io dentr

cipazione

Animazione e parte

GSD informa

di Anna Guerrieri

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editoriale

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polvere di jana

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La genitorialità di Michele Augurio

di Anna Ester Davini

le relazioni degli affetti

psicologia e adozione

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Da due a tre… quando i conti non tornano di Monica Arcadu pedagogia in azione

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A scuola con difficoltà di Franca Storace, Annapaola Capuano

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Preparare all’adozione di Rosalba Gravili

sociale e legale

giorno dopo giorno

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Giorni passati a sperare di Paola Piccinini leggendo

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Io fuori io dentro. Identità e diversità di Marina Zulian La salute del bambino e dell’adolescente di Roberto Marinello Mirella Scarazatti animando

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Animazione e partecipazione di Claudio Tedaldi suonando

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956 editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

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Vivaldi, aiutaci a fare… i compiti! di Valeria Pacifico

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trentagiorni

redazione Anna Guerrieri direttore, L’Aquila direttore@genitorisidiventa.org; Anna Ester Davini caporedattore e ricerca iconografica, Sassari; Simone Berti vicecapo-redattore, Firenze; Michele Augurio sociologo, Milano; Monica Arcadu psicologa, Reggio Emilia; Monica Nobile psicopedagogista, Venezia; Claudio Tedaldi Atelier del cartone animato, Forlì; Marina Zulian Associazione BarchettaBlu, Venezia; Roberto Gianfelice fotografo, L’Aquila; Ilaria Nasini, fotografa, Firenze; Antonio Fatigati, direttore responsabile; redazione@genitorisidiventa.org immagini Donatella Caione, Foggia; Diana Giallonardo, L’Aquila; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Valeriano Salve, L’Aquila progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia

correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro; Daniela Patroncini, Reggio Emilia impaginazione Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Pea Maccioni, Lecce abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org


editoriale

di Anna Guerrieri

Le nostre figlie Noi lo sappiamo da che terra vengono le madri delle nostre figlie e dei nostri figli. Noi lo sappiamo perché siamo donne come loro e sappiamo cosa sia la solitudine, perché la temiamo, la solitudine. Ci spaventa. Le madri dei nostri figli sono state donne, spesso giovani donne, a volte poco più che bambine, sole. Molto spesso non hanno avuto madri accanto, né sorelle né amiche che le difendessero dal mondo o da loro stesse, non una rete solidale in cui ritrovarsi. Noi lo sappiamo, in cuor nostro, quale debba essere la solitudine che genera l’abbandono. Perché siamo madri come loro. Da madri noi non possiamo che essere dalla parte dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, non possiamo che stare assieme a loro nel cammino che li porterà a darsi un senso, un significato, una chiave di lettura della propria storia. Da donne, però, non possiamo ignorare il pensiero delle loro madri che hanno vissuto il dolore, la confusione, lo sconforto, la paura. Si tratta di un pensiero che affrontiamo con particolare tenerezza quando guardiamo le nostre figlie e in loro scorgiamo la dolcezza di uno sguardo, la luce di un sorriso, la grazia di un movimento che ci rimandano a un altro sguardo, un altro sorriso, un’altra grazia. Le nostre figlie ci vengono da un mondo dove, spesso, le donne non godono di rispetto. Un luogo dove le bambine sono sole, le ragazze sono senza difese e dove sono poche le speranze e la tenerezza. È per questo che dobbiamo alle nostre bambine e alle nostre ragazze una cura e un’attenzione speciali. Dobbiamo loro il dono della forza e del rispetto di sé, la consapevolezza della propria beltà interiore e del proprio valore. Un valore che non è fatto di cose materiali, di oggetti che si possono comprare bensì della consapevolezza del poter divenire adulte come si sceglierà di esserlo, amate, apprezzate per come si è nella propria interezza. Camminando accanto alle nostre figlie e curandole, onorando la loro grazia e la loro sapienza doniamo loro la forza che permetterà loro di affrontare un mondo dove le loro stesse madri non hanno trovato una “casa”.


E abbiamo il dovere di farlo partendo da qui, dal nostro presente. Proprio qui, in Italia, troppo facilmente accettiamo l’idea, il pensiero che si possano usare i corpi delle bambine, delle ragazze, delle donne. Troppo spesso lasciamo che i media si riempiano di immagini femminili stereotipate e sessualizzate. Lasciamo che alle ragazze e alle giovani donne vengano proposti ruoli ben precisi e poi per tali ruoli le critichiamo impietosamente. Una donna che vende il suo corpo è marchiata senza ripensamenti, un uomo che ottiene favori e soldi per clientelismo o nepotismo viene condonato serenamente. Si abbassa la nostra soglia di indignazione e lasciamo che la donna diventi un oggetto, una cosa, un dettaglio corporeo. Facciamo fatica a reagire, a trovare modi per dire che “noi non siamo d’accordo”. Eppure questa forza dobbiamo trovarla per rendere onore al valore di tante donne (anche le più deboli), per rendere omaggio a noi stesse come madri, compagne, persone impegnate quotidianamente nella vita sociale e politica del paese. Il rispetto che ci tributiamo e che tributiamo a ogni altra donna sarà il rispetto che le nostre figlie si tributeranno. Insegniamo loro che chi vede nelle donne e nelle ragazze oggetti e cose da usare è qualcuno abitato da una profonda miseria. Non degno di sguardo, pensiero o parole. Tanti anni fa, avevo sedici anni, sono stata molestata dal preside della mia scuola. Ricordo il gelo mentre accadeva. Ricordo come oggi l’estremo disagio, il terrore, la fuga, l’impotenza. Ne parlai con i miei compagni di classe e assieme decidemmo che nessuna ragazza sarebbe mai andata più da sola davanti a quel miserabile. A ben pensarci non ci fidammo degli adulti (e questo è triste), ma è anche vero che trovammo come neutralizzare il male. E da quel momento lo sbeffeggiammo, lo ridicolizzammo. Passarono gli anni e misi in un angolo il mio ricordo. Non avevo parole per ricordare, per descrivere, per dire, per denunciare. Poi un giorno, in un altro paese mi trovai a un incontro dove venne dato un nome a quel che era successo, harassment (molestia), e scoprii anche che altre ragazze, donne, avevano avuto simili esperienze. Molte altre. E allora anche io raccontai. Non ero più sola. Avevo parole. Trovai la voce. Oggi, noi madri, dobbiamo trovare le parole. Ad alta voce possiamo dire che è ora di finirla. Che il corpo delle nostre figlie è un tesoro prezioso, di cui loro soltanto sono padrone. Lo dobbiamo a loro, ma anche alle donne che sono state le loro madri. Lo dobbiamo a noi stesse. Anche per questo mi impegno personalmente a dedicare, nel futuro, un intero numero di Adozione e dintorni a temi riguardanti le bambine e le ragazze.

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Š valeriano salve

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Sono andata da un assassino

polvere di jana


Sono andata da un assassino, quasi mi viene voglia di cantare la canzone di De André. Lui è un uomo giovane, è grosso ed alto, non è bello. È rinchiuso fra quattro mura che non gli stanno strette, meglio il carcere di fuori. Una vita randagia senza affetti, neanche quando per un attimo l’illusione di una famiglia l’ha avuta. Qualche anno di solitudine da aggiungere alle solitudini passate e a quelle future, senza niente in mezzo. Strappato da una terra che non l’aveva amato e ricevuto in una terra

che non l’ha mai accettato. È stato una delusione per chi era convinto di proseguire con lui un casato e forse ha anche immaginato di guadagnare una fetta di paradiso con una buona azione: l’adozione. Relegato sotto a una casa, una stanza in costruzione, vestito con panni da vecchio pescati nel fondo dei sacchi della croce rossa: camicia slabbrata e pantaloni a righe legati con la corda, scarpe sformate usate chissà da chi. Andare a scuola è stata l’anticamera dell’inferno. I compagni gli facevano il giro largo, non lo volevano,

Anna Ester Davini coporedattore

non faceva ridere, puzzava di solitudine e disagio, assente anche per gridare disperazione, incapace, inutile e fastidioso. Ha ucciso. Ha ucciso una ragazza, l’unica persona che non lo sfuggiva, che non l’offendeva e forse quel maledetto giorno non l’aveva visto, non l’aveva salutato. Era bella, era dolce, un raggio di sole spento. Nessuna pietà per lui, nessuno ha pietà di un assassino. Non c’è polvere d’oro, solo il pensiero disturbante di una serie d’errori che forse hanno stravolto il giro delle cose.

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le relazioni degli affetti 8

Michele Augurio sociologo

La genitorialità

Mi sono e ci siamo interrogati molto sul bisogno che spinge a diventare genitori e le risposte che ci siamo dati sono molteplici: “consolidare il nostro rapporto di coppia”, “realizzare una famiglia”, “dare il nostro amore a un bambino”, “trasmettere i nostri valori a nostro figlio”. Se le analizziamo singo-

tro, sul figlio, le nostre considerazioni e le nostre emotività. Come se fosse lui ad avere bisogno di noi, come se la genitorialità riguardasse più nostro figlio che non noi stessi. Ma è poi così vero? Può un figlio non ancora concepito avere bisogno di noi? Se riflettessimo su queste domande, ci accorge-

Diventare genitori è vivere oltre la morte larmente sono tutte risposte valide e condivisibili. Ma, come spesso accade, cerchiamo di portare all’esterno il nostro bisogno/desiderio di genitorialità. Se leggiamo le specificità delle risposte che diamo, circa la genitorialità, ci accorgiamo di come proiettiamo sull’al-

remmo di come il bisogno/ desiderio di genitorialità non è rivolto all’esterno del nostro vissuto di adulti, ma è interno al nostro mondo emotivo, allo sviluppo delle nostre emozioni, delle nostre motivazioni di vita. La genitorialità, prima di coinvolgere il futuro figlio,

è alla base del nostro bisogno primario di esserci, di amare, di confrontarci, di saper interagire con l’altro. Nel momento in cui ci formiamo come coppia diventiamo una famiglia, poiché nella coppia poniamo le basi per una condivisione futura, allarghiamo le nostre aspettative dall’“Io” al “Noi”, ci confrontiamo con una nuova affettività, non più legata alla famiglia di origine ma aperta al nuovo contesto familiare da noi formato. I ricordi emotivi dei nostri vissuti primari, del nostro essere stati figli, sono alla base del nuovo progetto famiglia; ci portano a immaginarci “nuovi genitori”, a sentirci “incompleti” senza la nascita di un figlio. Il bambino è ancora elemento “estraneo”, un divenire tutto da costruire e sperimentare.


Nel nostro bisogno/desiderio di genitorialità riportiamo i ricordi e i vissuti della nostra infanzia, del nostro essere stato figlio, ma soprattutto riportiamo l’immagine che noi abbiamo avuto dei nostri genitori, ipotizzando, per il nostro futuro di genitori, cambiamenti degli atteggiamenti che non abbiamo capito dei nostri genitori e riproponendo quelli che abbiamo condiviso. Noi veniamo da “un progetto famiglia” nel quale ci siamo realizzati e costruiti come figli, e ora aneliamo a un nuovo progetto famiglia dove ciò che abbiamo appreso da figli, e successivamente integrato e costruito con la nostra esperienza di adulti, diviene altro di fronte alla nostra famiglia di origine; vi è quindi la necessità di esportare, attraverso nostro figlio, il nuovo modello familiare da noi costruito. La genitorialità è un “IO” proiettato all’esterno, che attraverso “la coppia” si può realizzare e si realizza. Questa progettualità di “nuova famiglia”, racchiude in sé il desiderio del singolo individuo di vedersi proiettato nel futuro attraverso il proprio figlio. La realizzazione della famiglia, quale elemento base di un proget-

to di coppia, ci fa pensare alla continuazione di un nostro mondo interiore fatto di sentimenti, modelli educativi, ricordi e vissuti che devono essere trasmessi e che solo attraverso un figlio possono continuare ad esserci. La proiezione nel futuro, prima di diventare progetto famiglia, è bisogno del singolo individuo, poiché attraverso questa proie-

zione egli si sente riconosciuto. All’inizio dei percorsi di accompagnamento all’adozione, alle coppie pongo sempre questa domanda: «Cosa è per voi diventare genitori?». La risposta che io mi sento di dare è: «Vivere oltre la morte».

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© anna ester davini


psicologia e adozione

Da due a tre... Quando i conti non tornano

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Avrà i suoi occhi, forse il mio sorriso e magari i suoi morbidi riccioli. Quanti desideri, quante fantasie e, mi vergogno un po’, ma quante aspettative rivestono il tuo arrivo. Amo sognarti e immaginarti giocare con noi, correre insieme in un prato e leggerti le fiabe prima di dormire. Vedo la tua emozione nello scartare i regali la notte di Natale e sento il tuo entusiasmo nel fare ogni giorno una nuova scoperta. Il sogno aumenta nelle fantasie consce e inconsce e prende sempre più forma dentro il mio cuore, fino a quando questo desi-

derio coltivato e fatto crescere si scontra con la realtà: ancora una volta il test è negativo, non sono incinta e tu, piccolo mio, ancora non sei in cammino sulla strada del nostro incontro. Il mondo mi crolla addosso, sono arrabbiata, disperata, mi sento terribilmente in colpa per tutto quel periodo in cui ho volutamente controllato la mia fertilità. Ora che vogliamo lasciare sgorgare la vita, la vita si prende gioco di noi! Cosa possiamo fare? Di certo non vogliamo arrenderci, noi ti vogliamo intensamente e così cominciamo ad andare da un po-

«Ogni lutto è una ferita. Le ferite, si sa, si richiudono. Ma a una condizione: che prima si siano aperte»

sto all’altro alla ricerca di chi ci possa aiutare, di chi possa farci finalmente incontrare. Inizia così per molte coppie un periodo lungo e tormentato di indagini diagnostiche, prescrizioni e cure che mettono a dura prova. Le nuove tecniche mediche permettono di correre ai ripari tanto rapidamente da non consentire di vivere il senso di mancanza, condizione necessaria alla sua elaborazione. Il limite è intollerabile e l’unica cosa importante è ottenere lo scopo desiderato. L’infertilità provoca sofferenza e può attivare una crisi profonda personale, ma anche di coppia. Il rischio che si corre è che questo desiderio si esasperi e si trasformi in un’ossessione. Prima di incamminarsi in nuove strade ogni coppia deve fare i conti con


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Š roberto gianfelice


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«Ogni figlio è come un dono e come tale va atteso, anzi bisogna imparare ad attenderlo» i propri sentimenti di rabbia, disperazione, senso di colpa, solitudine e solo allora sarà possibile affrontare le difficoltà procreative con consapevolezza per poter rinunciare al figlio desiderato e accedere ad altre forme di procreazione o all’adozione. Accettare le difficoltà psicologiche e conoscerle è il primo modo per cominciare a superarle. Intraprendere il cammino della fecondazione assistita significa prima di tutto essere disposti a tollerare l’incertezza del risultato. Comincia così un ciclo di speranza e delusione che

stino ha scelto qualcosa di diverso per noi e dobbiamo solo imparare ad ascoltarlo, lasciandoci alle spalle il desiderio di qualcuno che non è arrivato per far germogliare un desiderio diverso, il desiderio per un bambino Sono stanca, ci stiamo iso- che arriva da lontano. lando sempre di più nel nostro dolore e sento la di- Quando ci si rende conto che stanza crescere. Ma chi sia- l’accanimento non porta da mo noi per decidere della nessuna parte se non alla vita? È giusto andare avan- deriva, comincia a far cati o è ora di fermarsi? Que- polino una strada alternaste domande non mi danno tiva, per qualcuno l’ultima pace ma mi permettono di spiaggia, per altri un vero guardarmi dentro, di ascol- e proprio nuovo cammino: tare il mio dolore, di viverlo l’adozione. Ma perché quee di accettarlo. Forse il de- sta sia una scelta autentica può ripetersi molte volte, che pone la necessità di fare delle scelte, di mettersi in discussione continuamente per decidere soprattutto quanto andare avanti e quando fermarsi.


© valeriano salve

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è necessaria l’elaborazione del lutto della sterilità, accettando le impossibilità che questa comporta, per poi disporsi ad accogliere un figlio nato da altri. È proprio dalle situazioni più difficili che nascono forze nuove, potenti e inaspettate.

«Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior» canticchio questa mattina e spero e credo e voglio che da questa situazione difficile, dal fango in cui ci siamo impantanati possano nascere nuove energie da investire in un progetto diverso, ma altrettanto emozionante e coinvolgen-

Monica Arcadu psicologa

te. Sarà faticoso, lo so, ma sarà entusiasmante. Sarà un rapporto speciale, tutto da costruire insieme, al di là delle diversità e riconoscendo la sua reciprocità: il nostro bisogno incontrerà il tuo, bambino che vieni da lontano, e dandoci la mano impareremo ad amarci e rispettarci.


pedagogia in azione

A scuola con difficoltà Quali metodologie e strategie?

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di un panorama vario e disparato, a volte sommerso e nascosto, che spesso sfugge alle categorizzazioni, ma di fronte al quale noi inseCome insegnanti ci con- gnanti non possiamo far finfrontiamo quotidianamente ta di niente. con il mondo delle difficol- Bambini e ragazzi splentà scolastiche e del disagio didi, vivaci, belli e intellidei nostri alunni. Si tratta genti, tutti uguali al pri-

Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. antoine de saint exupéry, Il piccolo principe

mo sguardo, ma ognuno con un proprio mondo che è possibile leggere prima con il cuore. Il gruppo classe non è un ambiente omogeneo di persone che hanno gli stessi comportamenti apprenditivi e relazionali, piuttosto è un mondo eterogeneo in cui ogni alunno è portatore di una sua peculiare individualità che va rispettata e valorizzata, ponendo attenzione alla persona nel senso olistico del termine. Ciascun alunno vede sancito, già nell’art. 3 della nostra Carta costituzionale, il proprio diritto all’istruzione che non può essere impedito dalla presenza di difficoltà nell’apprendimento scolastico, siano esse legate a situazioni di disturbi specifici o di svantaggio psico-socioculturale o di adattamento scolastico, sia sul versante relazionale che su quello


dell’apprendimento connesso anche all’adozione. La scuola, in primis, è chiamata a dare risposta ai bisogni formativi di ogni alunno con attività di programmazione mirata e personalizzata, impegnandosi per tutti, ma in particolare

to, tanto che si parla di quoziente emotivo oltre a quello intellettivo. Per poter apprendere è necessario avere dentro di sé uno spazio sereno e quieto dove immagazzinare e sviluppare le nuove conoscenze. L’ansia impedisce la

Da tali principi consolidati e condivisi nasce nel 2004 la nostra sinergia lavorativa che si sostanzia dal 2007 con un impegno nella nostra scuola come referenti per la dislessia e i disturbi specifici di apprendimento (dsa). Operiamo

Chi sbaglia non è sbagliato. L’errore ci è amico! per quelli in situazione di svantaggio, di cui vanno valorizzati i punti di forza e minimizzati quelli di debolezza, dando loro fiducia e rafforzando l’autostima che per queste categorie di alunni è particolarmente bassa. Sappiamo tutti che l’apprendimento affonda le sue radici in ambito emotivo; se non si è motivati dal punto di vista emozionale non c’è apprendimen-

concentrazione e la ritenzione. Ancor più spesso, l’insuccesso scolastico genera nei nostri alunni un’inquietudine diffusa che non permette loro di dedicarsi a esaminare, ascoltare, raccontare e, col passare del tempo, li porta ad abbandonare la scuola con ricadute negative anche dal punto di vista psicologico sulla vita futura.

sul territorio con uno sportello d’ascolto che svolge un ruolo di supporto rivolto ad alunni, insegnanti e genitori. Da aprile 2010, inoltre, gestiamo un blog didattico, Tutti a bordo - dislessia, destinato non soltanto a chi si occupa di dislessia e dsa, ma che offre supporti metodologici e didattici validi per tutti, visto che da anni utilizziamo le nuove

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tecnologie nella didattica. Il blog si è trasformato, di fatto, in una vera e propria rete per la condivisione dei saperi acquisiti nel tempo, di idee, progetti, esperienze, buone prassi e quant’altro per la valorizzazione dei diversi stili di apprendimento, che non vanno confusi con i diversi livelli di intelligenza e di abilità, e l’ottimizzazione degli interventi in ambito scolastico. Il nostro obiettivo è quello di offrire gli strumenti per

una «didattica personalizzata, inclusiva, coinvolgente e metacognitiva» che si avvalga dell’informatica come supporto e che promuova e stimoli in tutti gli alunni, e non solo in quelli in situazione di svantaggio, l’apprendimento significativo, cioè un apprendimento basato in primis sulla concettualizzazione e non più solo sulla memorizzazione. In quest’ottica, l’insegnante/facilitatore favorisce la creazione di un contesto di classe dove

gli alunni sono attori di una comunità di apprendimento, le cui attività sono collaborative e in cui la diversità è valorizzata come risorsa. La didattica orientata all’inclusione e alla personalizzazione comporta, innanzitutto, l’adozione di strategie e metodologie favorenti, quali la flessibilità didattica, il cooperative learning, il tutoring, l’apprendimento per scoperta, la riflessione metacognitiva, l’utilizzo di mediatori didattici, di attrezzature e ausili informatici, di software e sussidi specifici. Metodologie e strategie didattiche finalizzate al conseguimento di una competenza-chiave, cioè “imparare a imparare”, che significa riconoscere, e in seguito applicare consapevolmente a situazioni nuove, adeguati comportamenti, strategie, abitudini utili a un processo di apprendimento continuo che stimola una riflessione metacognitiva. Ma, soprattutto, personalizzare l’insegnamento significa conoscere i processi di apprendimento di ciascun alunno, individuare i punti di forza e di debolezza, prendersi cura degli aspetti emotivo-motivazionali e relazionali, proporre un insegnamento flessibile, utilizzare e inse-


gnare a creare e ad operare con mediatori didattici diversificati, favorire una didattica per competenze (L. Ventriglia). Non si tratta di una didattica pensata solo per gli alunni in situazione di svantaggio, ma di una didattica per la classe finalizzata a una «valutazione per l’apprendimento e non dell’apprendimento». Di conseguenza le metodologie didattiche devono essere volte a ridurre al minimo i modi tradizionali “di fare scuola”, favorendo attività nelle quali i ragazzi vengano messi in situazione di conflitto cognitivo con se stessi e con gli altri. Ben si presta per il raggiungimento di questo obiettivo una didattica di tipo laboratoriale che utilizza metodologie di apprendimento cooperativo basate sull’organizzazione di gruppi che siano equi, eterogenei e flessibili.

Gli obiettivi dell’apprendimento cooperativo si individuano in:  interdipendenza positiva: il contributo di ciascuno è complementare e necessario e gli studenti sono corresponsabili del loro apprendimento essendo la condizione nella quale si dipende da altri per raggiungere un obiettivo;  responsabilità individuale: impegno e motivazione nel lavoro;  interazione simultanea: gli studenti apprendono in modo più efficace quando sono elementi attivi del gruppo e condividono opinioni e idee, risolvendo insieme situazioni problematiche;  insegnamento delle abilità sociali: sono tutte le forme comunicative con le quali entriamo in relazione con gli altri. Si apprende se si lavora insieme per portare a termine compiti in modo

cooperativo, perché si realizza la costruzione condivisa, interattiva e sociale del sapere (Guida al Piano didattico personalizzato a cura del Comitato scuola dell’Associazione italiana dislessia). Tale impianto metodologico comporta un cambiamento del ruolo dello studente che diventa costruttore di conoscenze, esploratore, solutore di situazioni problematiche. Viene a mutare anche il ruolo dell’insegnante che diventa mediatore, facilitatore e organizzatore delle attività di apprendimento. In conclusione, «l’apprendimento personalizzato offre una via d’uscita per la questione dello svantaggio per porre ogni allievo nella condizione di realizzare tutto il suo potenziale» (D. Hopkins).

Franca Storace, Annapaola Capuano docenti di Lettere, referenti per Dislessia e disturbi specifici dell’apprendimento, socie Associazione italiana dislessia

tuttiabordo-dislessia.blogspot.com

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le relazioni sociale degli e legale affetti

Preparare all’adozione La pratica di una operatrice di Livorno

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La necessità di “preparare” la coppia all’adozione nasce dalla constatazione che non sempre l’adozione riesce. I fallimenti adottivi che arrivano ai tribunali, le crisi degli adolescenti adottati che giungono ai servizi, le difficoltà di apprendimento che si rilevano nella scuola sono aspetti che hanno permesso al mondo degli “esperti” di riflettere a fondo sulle tematiche adottive. La finalità a lungo termine dei corsi di preparazione è quella di prevenire i fallimenti e le crisi delle famiglie adottive e dei bambini o ragazzi adottati. A breve termine l’obiettivo è quello di dare alle coppie alcuni strumenti per scegliere consapevolmente se intraprendere questa strada o rinunciarvi. Vi è, infatti, una dispersione del 10-12% tra chi frequenta il corso e chi inoltra la disponibili-

tà all’adozione. Il compito ingrato che mi assumo nel corso è, innanzitutto, quello di “introdurre” le coppie alle problematiche meno scontate dell’adozione, le più dolorose. Qualcuno, anche tra gli operatori, obietta che si faccia del terrorismo psicologico e molte coppie escono dai corsi scoraggiate. Invece, come disse una collega assistente sociale, «non vi vogliamo scoraggiare, ma convincere profondamente!». Come figura sanitaria credo che la preparazione sia necessaria: come in medicina esprimere un consenso informato significa sapere cosa si rischia, così nel nostro caso occorre riflettere su cosa sia l’adozione, perché non ci può essere libera scelta se manca la consapevolezza di cosa comporti. Adozione è… Questo è il brainstorming che propon-

go al primo incontro, dopo la necessaria presentazione del gruppo e prima di spiegare lo spirito delle leggi, perché adottare non vuol dire solo “avere un figlio”. Nella presentazione chiedo ai partecipanti di raccontare le motivazioni che li spingono e che cosa si aspettano. La maggior parte delle coppie partecipa perché necessario, perché consigliato dal tribunale e/o dai servizi, perché occorre un attestato di frequenza da allegare alla domanda. Talvolta qualcuno chiede perché non facciamo corsi di preparazione per genitori biologici. Tranquilli, facciamo anche quelli! Nessuno vuole insegnare a diventare genitore, ma i corsi di preparazione offrono alle coppie gli strumenti per fare una scelta consapevole. Perché il bambino che ha subito un abbandono ha diritto a crescere in


una famiglia, ha bisogno di trovare accoglienza, stabilità emotiva. L’adozione è un diritto del bambino, non dell’adulto. La coppia è una risorsa per la società, ma non c’è un diritto a diventare genitori. I corsi in genere danno un grande contribu-

se vogliono possono scriverlo, possono farlo durante la settimana, può scriverlo ciascun coniuge individualmente e poi confrontarlo con l’altro. È importante conservarlo, perché il percorso dell’adozione è molto lungo e le aspettative po-

Senza consapevolezza non c’è libera scelta to a spostare l’ottica dalla coppia che non ha figli al diritto del bambino senza famiglia. Nel brainstorming emergono sempre aspetti positivi: l’adozione è un atto d’amore, è l’incontro di due bisogni, è dare una famiglia a un bambino che ne è privo… Il nostro invito è a riflettere su quello che l’adozione è per loro, in questo momento, sulle loro aspettative;

tranno variare nel tempo; riceveranno molte sollecitazioni – percorso di valutazione, incontro con i giudici, rapporto con l’ente – e il loro desiderio di adottare si modulerà nel tempo. Il gruppo richiede la coconduzione e l’apporto di un’altra figura professionale, l’assistente sociale, che è essenziale nell’orientare anche i miei interventi che, avendo comunque un

carattere molto interattivo, stimolano il contributo che viene dal gruppo stesso: le reazioni emotive, le domande, le riflessioni e le esperienze portate da ogni partecipante arricchiscono il lavoro dell’intero gruppo. Il secondo incontro verte sulla coppia. Introduco l’argomento offrendo al gruppo degli stimoli per ripensare se stessi nel percorso che hanno intrapreso, a come l’hanno vissuto, a cosa si portano dentro, a quali sono le loro motivazioni più profonde e in che misura queste motivazioni sono condivise nella coppia: sono le medesime o sono diverse? Sono state maturate insieme o in tempi diversi? L’analisi di questi aspetti con la singola coppia fa parte del percorso di valutazione. Nel percorso di preparazione non mi aspetto che il gruppo faccia una simile

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analisi, ma che provi ad affrontare questi temi lontano dai luoghi comuni. Generalmente una coppia che aspira all’adozione ha già una storia alle spalle. È una coppia che desidera un figlio e che spesso ha atteso invano una gravidanza. È importante sapere come la coppia ha trascorso questa fase di attesa. Oggi, grazie ai progressi della medicina, la maggior parte delle coppie approfondisce le ragioni dell’infertilità. Molte coppie scelgono di effettuare percorsi di procreazione medicalmente assistita (pma), altre decidono di non farlo. Cosa ha determinato la scelta? Con quale consapevolezza si è fatta? Occorre conoscere se stessi prima di pensare all’adozione. Nel caso la coppia abbia effettuato un percorso di pma è cominciata una seconda attesa di un figlio: per quanto tempo la coppia ha aspettato? Quanti tentativi ha fatto? Quali effetti hanno avuto sulla vita intima della coppia? Quando e che cosa ha fatto dire “basta”? Perché un “basta” deve esserci stato, infatti, la nostra indicazione è che per affrontare il percorso adottivo la coppia abbia chiuso con altri percorsi. L’adozione è impegnativa e richiede un tempo proprio e un’energia dedicata.

E quando la coppia arriva a dirsi: «Possiamo adottare un bambino!»? Che cosa suscita questo pensiero? Ci si rilassa o ci si sente più impegnati? Cosa fa scattare questa nuova prospettiva? Questo passaggio, che noi psicologi chiamiamo elaborazione del lutto, è molto delicato perché significa trasformare un lutto in un nuovo progetto. Il terzo incontro verte sul bambino. All’inizio di ogni nuovo incontro si lascia un piccolo spazio per riflessioni, commenti, domande, per elaborare i pensieri rimasti nella mente dalla volta precedente. Di solito emergono sempre molti spunti, perché le coppie sono impegnate in questa opera di trasformazione di quella che è una loro mancanza, carenza, ferita – ovvero l’impossibilità di generare – in una risorsa. Questa trasformazione è innescata dalle capacità riparative della coppia, quelle che permetteranno di tollerare tutto ciò che di un figlio non si sa: il suo passato, chi era la madre, chi era il padre, quali esperienze ha avuto nel periodo in cui aspettava una famiglia e come le ha affrontate, recepite. In genere le coppie che si affacciano all’adozione hanno la stessa fantasia: un bambino piccolo che non abbia

sofferto, che non abbia un passato doloroso, che non abbia subito trascuratezza. Ma anche il bambino piccolo ha subito l’abbandono, anche il bambino piccolo, cresciuto per nove mesi nel grembo della madre, alla nascita non si appoggia alla sua pancia, non sente più quella voce, quell’odore, e questo è già traumatico. L’abbandono che un bambino subisce è comunque una ferita che, per quanto possa essere riparata, lascia la sua cicatrice, diventa un punto sensibile nell’identità del minore adottato. Recenti ricerche sostengono che sia più difficile elaborare un passato di cui non si abbiano ricordi rispetto alla possibilità di partire dai propri ricordi per quanto frammentari. Il bambino adottato è certamente un bambino abbandonato e le ragioni di questo abbandono sono davvero qualcosa di imponderabile. La domanda alligna nella mente del bambino ed è una domanda che il genitore adottivo deve saper affrontare. Il bambino tende a pensare che sia colpa sua se non è stato voluto: sono brutto, sono cattivo, qualcosa in me non andava. È difficile sviluppare l’autostima quando si è stati abbandonati. «Chi sono?», «Da dove vengo?», «Chi mi ha generato?», «A chi as-


somiglio?», sono domande che esploderanno nell’adolescenza e il bisogno di sapere, di scoprire di cercare le proprie origini costituisce una tappa importante nella formazione dell’identità. Anche il genitore adottivo convive con queste domande, sono un leitmotiv, un pozzo da cui attingere ipotesi quando non comprende gesti o atteggiamenti. Per il genitore adottivo il pensiero del genitore di nascita è un pensiero importante, presente in tutto l’arco della vita. Per questo è necessario, accostandosi all’adozione, pensare ai ge© valeriano salve

nitori che non hanno potuto o voluto svolgere il proprio ruolo, perché è da lì che la genitorialità adottiva ha origine. Ci sarà un continuo confronto fatto di fantasie, di ipotesi, di timori, di invidia, di tenerezza verso il genitore di nascita. Un confronto che anche il bambino inevitabilmente farà nel suo cuore. Il figlio adottivo confronterà i genitori di nascita, se li ha conosciuti, e quelli adottivi, è inevitabile. Lo farà altrettanto se non avrà conosciuto i genitori e allora sarà un confronto ben più arduo. Saranno genitori di fantasia, sempre più

buoni dei genitori reali che hanno il compito di educare dettando regole e divieti. Spesso questi spunti sono prematuri per le coppie che si avviano all’adozione: l’impatto con il pensiero dei genitori di prima avviene in un secondo tempo o quantomeno le coppie ne parlano successivamente, ma come ne parlano? La madre, colei che origina la vita, spesso è solo una pancia, “mamma di pancia” e “mamma di cuore”, oppure è una signora: «La signora che ti ha fatto nascere ti ha portato all’istituto dove mamma e babbo sono venuti a

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prenderti». Talvolta non se ne parla proprio: «Sei così scura perché sei nata in Colombia». E la bambina era cresciuta pensando di essere stata messa al mondo dai genitori adottivi e di essere scura perché nata in Colombia. Immaginate il trauma della rivelazione! Un altro aspetto che affronto nel corso di preparazione è l’età del bambino. Pensando all’adozione come a 22

un bambino trovato da solo per strada e portato in istituto la data “di nascita” corrisponde al giorno del suo ingresso in istituto mentre l’anno è dettato dalla sua età apparente. È molto probabile che un bambino privo di affetto e di certezze, spesso denutrito, possa sembrare molto più piccolo della sua età reale. Spesso poi, per rendere i bambini più facilmente adottabili

Adottare non vuol dire solo “avere un figlio” un altro modo di avere un figlio è naturale pensare al bambino piccolo, ma poi al corso viene detto che l’età media dei bambini che arrivano in adozione è di circa sei anni. L’età è una variabile importante, non tanto perché pregiudichi la riuscita dell’adozione – gli studi non hanno rilevato alcuna relazione tra l’età dell’adottato e il fallimento adottivo – quanto perché costituisce un elemento importante per l’accoglienza, la conoscenza e la crescita del bambino. Noi abbiamo dell’età un concetto unico, uniforme, ma pensando al bambino che arriva in adozione l’età è qualcosa di davvero complesso. C’è l’età anagrafica, ma per

viene attribuita loro un’età inferiore. C’è poi un’età biologica, un’età legata al suo sviluppo. Il bambino che arriva nelle nostre famiglie cambia alimentazione e spesso assistiamo a crescite repentine. Le ragazze si avvicinano precocemente allo sviluppo puberale. C’è poi un’età sociale, quella del suo inserimento nella classe dei pari, che non sempre coincide con l’età anagrafica e con l’età biologica. Potremmo avere una bambina di nove anni che frequenta la seconda elementare ed è vicina allo sviluppo puberale. Che fare? Alcuni consigliano terapie ormonali per ritardare lo sviluppo, ma se l’età è giusta per lo sviluppo? Alcuni fanno esami

delle ossa per datare meglio l’età del bambino, ma non vi è mai la certezza. C’è infine un’età affettiva, l’età in cui il bambino entra in famiglia e scopre cosa significa avere degli adulti che si occupano di lui. È un’età in cui possono riaffiorare bisogni affettivi fino allora negati. Fino a che punto questo è regressivo? Il compito del genitore è di essere vicino al proprio figlio, coglierne i bisogni, cercare di armonizzarli in un’esperienza coerente, colmare le carenze, ma anche fare le scelte appropriate alla crescita del proprio bambino. Tra queste la scuola rappresenta molto spesso, per tante ragioni, una delle maggiori criticità per i bambini adottati. Se con l’adozione il bambino entra in famiglia, con la scuola avviene l’ingresso nella società, una società non ancora formata, come lo sono i genitori adottivi, ad accogliere bambini che, anche se vengono da lontano, non sono bambini stranieri. Anche se non parlano ancora italiano è l’italiano la lingua dei loro affetti e, solitamente, è l’unica che parlano. Se non sono mai stati a scuola per loro è difficile anche stare seduti quattro-cinque ore su una sedia. Un altro aspetto di complessità è legato all’etnia. Alla coppia aspirante all’adozio-


ne è richiesta la più ampia disponibilità anche perché il fenomeno della migrazione fa sì che bambini nati in Italia o nei paesi dell’Europa orientale possano essere figli di genitori provenienti da paesi dell’Africa o dell’Asia. Una recente sentenza della Cassazione esclude la possibilità di esprimere preferenze sull’etnia del bambino da adottare, mettendo freno ai cosiddetti decreti mirati emessi dai tribunali. Questo vuol dire che eventuali limiti e preclusioni delle coppie sul tema delle origini etniche dei bambini vanno approfonditi e analizzati durante il percorso © maria maddalena di sopra

verso l’idoneità. Le coppie non devono avere timori nel parlare con gli operatori delle proprie eventuali difficoltà e dei propri limiti, perché anche la fase della valutazione può essere un momento di crescita che aiuta la coppia ad andare a fondo, affrontare e comprendere quanto sia difficile accostarsi all’adozione internazionale. Si può cominciare con il chiedersi: a cosa rimanda la diversità visibile? Certamente rende esplicita l’adozione, manifesta che il figlio non è stato generato dalla coppia, non è un bimbo “a propria immagine e somiglianza”.

Spesso le coppie dicono: «Va bene di un’altra etnia, ma che non sia proprio nero!». O ancora: «Noi non siamo razzisti, ma abbiamo paura di come lo vedono gli altri». Occorre allora chiedersi perché si teme un figlio di colore? Se l’essere di colore rimanda a un “disvalore” o a un senso di estraneità, quanto questo è indotto dalla società in cui viviamo e quanto è insito in noi? Quanto noi stessi abbiamo introiettato gli stereotipi razziali di cui neppure ci rendiamo conto, ma che potrebbero condizionarci nell’interpretare comportamenti e atteggiamenti del figlio adottivo?

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Molti genitori avvertono con timore che il figlio possa essere confuso con un figlio di immigrati. Anche incontrare un extracomunitario che si rivolge al proprio bambino dicendogli: «Tu sei come me!» può suscitare imbarazzo nei genitori, imbarazzo che viene percepito dal figlio, che può sentirsi disconfermato in questa sua appartenenza. Ricordo che una ragazza di origine indios mi disse di non aver mai parlato con la madre della sua origine etnica: «Anche le amiche con cui sono cresciuta sembrano non percepire che i miei tratti sono diversi, fanno addirittura battute contro i negri in mia presenza e non vedono che io sono di colore! Ma quando sull’autobus il controllore maltratta un immigrato nero senza biglietto, mentre non dice niente a un italiano nella stessa situazione, io mi sento come lui, vorrei reagire, ma non ci riesco!». È indubbio che adottare un bambino di altra etnia richiede nel genitore una profonda accettazione della dignità delle origini del figlio, del suo fenotipo somatico, non solo una conoscenza, ma anche un amore per il suo paese e la sua gente, richiede un’accettazione profonda non solo del bambino, ma anche dell’adulto della sua etnia. Pensate al

genitore che adotta un figlio rom e manifesta insofferenza e fastidio, se non si lascia andare a veri e propri insulti, verso i rom che chiedono l’elemosina: come può un bambino non sentire un simile disprezzo rivolto verso se stesso? Anche il silenzio che può generarsi nella famiglia rispetto all’etnia, come nel caso della ragazza citata, è comunque un messaggio, ed è un messaggio che suscita sentimenti di inferiorità e di inadeguatezza, è una tacita conferma di appartenere a una categoria umana diversa, sentita “inferiore”. Il genitore che si predispone ad adottare non può non interrogarsi profondamente sul significato dell’appartenenza etnica. L’etnia non è caratterizzata solo dai tratti somatici, ma è legata alla cultura di un popolo, alla sua lingua, la sua religione, le sue credenze. Un bambino abbandonato fino a che punto ha assimilato la cultura delle origini, il linguaggio, la fede? È evidente che la sua storia, la sua età, l’esperienza che ha vissuto potranno fare molte differenze. E comunque, nel momento in cui viene adottato e diventa un bambino italiano, anche se i suoi tratti somatici lo caratterizzano diversamente, cosa apprende in Italia delle sue origini? Quale società lo ac-

coglie? Come vengono descritti il suo paese e il suo popolo dai media? Quale effetto possono avere sulla sua personalità in via di sviluppo i frequenti episodi di intolleranza e ostilità, di aperta disistima espressi dalle cronache? È evidente che un genitore non può banalizzare tutto questo paragonandolo a qualunque altra differenza somatica: chi è più basso, chi è più grasso, chi porta gli occhiali. Le differenze etniche richiamano le origini, hanno significati più profondi e costituiscono parte integrante dell’identità del bambino, della sua visione di sé e della sua autostima. Quindi è importante che il genitore accompagni il figlio con caratteri somatici diversi dai suoi a vivere serenamente questa differenza, e potrà farlo se anche lui saprà viverla serenamente, senza negarla, o nasconderla, o all’opposto enfatizzarla in modo eccessivo, cosa che sottolinea comunque la differenza. Occorre sapere che i figli si riconoscono non tanto in quello che i genitori pensano e dicono, ma in quello che sentono e che provano, sono gli aspetti emotivi che caratterizzano la relazione. E il figlio per crescere dovrà rispecchiarsi non solo nei genitori adottivi, ma anche nella famiglia allargata, nella scuola e


nel contesto sociale; tutto questo costituirà la sua esperienza specifica, quella che farà di lui un essere umano unico e irripetibile, integrando e armonizzando in sé gli aspetti propri delle due culture che lo compongono. Adottare un bambino di origine straniera vuol dire anche adottare e amare il suo paese. Per questo sono molto importanti il viaggio e la permanenza nel paese di origine. Noi siamo abituati a correre, a produrre, chi ha un’attività in proprio non può lasciare per molto tempo il lavoro e seleziona il paese di adozione in base ai tempi di permanenza previsti. Molti paesi africani richiedono una lunga permanenza nel paese, il Kenia addirittura sei mesi, perché vogliono che chi adotta acquisisca la cultura del luogo. È importante capire che il viaggio non significa soltanto “andare a prendere” un bambino, ma incontrarlo e conoscerlo, adattarsi al suo ambiente e alle sue abitudini per non dovergliele cambiare repentinamente, perché non sia solo il bambino a cambiare tutto, ma lo si faccia insieme. Fare esperienza della propria difficoltà a cambiare abitudini alimentari, ad adattarsi al clima, ai ritmi della giornata, all’equili-

brio sonno-veglia, aiuterà a rendersi conto dei cambiamenti richiesti al bambino e a identificarsi con le sue eventuali difficoltà. Perché non pensare al viaggio come una vacanza da condividere con il figlio? Un bambino abbandonato non conosce il suo paese, non ha mai fatto una vacanza. Un bambino peruviano non è mai stato a Machu Pichu, ci sono bambini negli istituti russi che non hanno mai visto il mare, anche se è poco distante! Allora il soggiorno sarà una prima esperienza condivisa, documentata con le foto e i filmini che costituiranno i primi ricordi comuni e aiuteranno a parlare del suo paese e a valorizzare le origini. © luigi bulotta

Il bambino che arriva in Italia con l’adozione internazionale è un bambino che cambia mondo, che lascia i suoi punti di riferimento e tutto ciò che è noto per entrare in un mondo nuovo a lui sconosciuto, dove tutti sono anche fisicamente così diversi. Una coppia mi raccontava le enormi difficoltà dei primi tempi, quando la bambina non voleva neppure scendere dalla macchina per andare al parco. Solo un anno dopo ha confidato alla madre che vedeva tutti così diversi da lei e ne aveva paura. L’esperienza di perdita è considerevole nel bambino e il genitore potrebbe sottovalutarla, per il suo entusiasmo di essere finalmente

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diventato genitore, se pensa all’adozione solo come “nuova nascita”. Per il bambino l’adozione difficilmente può significare di essere “nato di nuovo”, è più probabile che sperimenti la perdita. La certezza di aver perso i genitori di nascita potrebbe arrivare solo con l’adozione; ricordo una bambina che aveva la fantasia di essere stata tolta alla sua famiglia perché ri26

chiesta dalla coppia adottiva! Non è certo semplice per il genitore adottivo, se parte solo con l’idea di togliere il bambino dalla sofferenza, poter costruire un rapporto con lui essendo visto come causa della sua perdita. La separazione dai fratelli potrebbe essere un distacco incolmabile perché, mentre dei genitori ricordano le inevitabili mancanze, con i fratelli è più probabile

che abbiano avuto rapporti di aiuto e di condivisione, di accudimento reciproco. Nel distacco da un mondo economicamente povero, ma ricco di bambini, di relazioni in libertà, di autonomia precoce, e nel conseguente ingresso in un mondo economicamente ricco, ma povero di relazioni, un mondo molto strutturato che ha perso la dimensione del gioco libero, dove il bambino


diventa spesso figlio unico di genitori maturi, perdendo l’esperienza dei rapporti tra pari, l’esperienza della perdita coesiste con i processi di attaccamento alle nuove figure genitoriali. Vi è poi anche l’allontanamento dalle figure positive che lo hanno accudito fino a quel momento, e noi ci auguriamo che ne abbia avute, altrimenti i danni psicologici per la mancanza di figure

le capacità riparative che la coppia deve possedere per far fronte all’adozione. È doveroso per noi aggiungere che il bambino che arriva all’adozione è spesso un bambino pluritraumatizzato, perché ha vissuto una serie di esperienze sfavorevoli: abbandono, trascuratezza, maltrattamento psicologico, maltrattamento fisico, violenza assistita, talvolta molestie e/o abuso

La nuova famiglia nasce dal superamento dell’esperienza di perdita di attaccamento sarebbero peggiori. La nuova famiglia che si compone con l’adozione nasce proprio dal superamento dell’esperienza di perdita, della coppia – che ha accettato di non poter avere figli e di accogliere come figlio proprio un bambino nato da altri – e del bambino, allontanato dai genitori di nascita e da tutto il suo mondo di affetti conosciuti. Per questo noi psicologi diamo molta importanza al fatto che vi sia stata l’elaborazione del lutto per la perdita della capacità procreativa, che tale elaborazione sia stata resa possibile dal-

sessuale, istituzionalizzazione protratta. Spesso i bambini portano sul corpo i segni di quello che hanno vissuto, sono profonde cicatrici, tagli, segni di bruciature. Ricordo una ragazza molto bella che aveva fatto un corso per diventare modella, ma molte sfilate non poteva farle per le sue visibili cicatrici. Ancora più difficili da elaborare sono le ferite psicologiche, quelle che non si vedono, ma che costituiscono l’esperienza traumatica intorno a cui si organizza la vita psichica del bambino. I bambini adottabili sono bambini feriti, traumatiz-

zati nella loro breve esperienza di vita, e il trauma diventa parte integrante della loro struttura psichica. Per questo possono sviluppare comportamenti disadattivi e avere reazioni emotive non controllabili. I fattori di rischio che caratterizzano le loro storie li espongono alla possibile compromissione delle funzioni di sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale. Oggi le neuroscienze ci permettono di comprendere i meccanismi della mente anche dal punto di vista neurofisiologico. Sappiamo che l’esposizione prolungata allo stress induce a produrre in eccesso i mediatori cerebrali, cosiddetti ormoni dello stress, e questa iperproduzione danneggia i centri nervosi deputati allo sviluppo dell’intelligenza e delle capacità cognitive. I genitori che si dispongono all’adozione si aspettano un bambino sano, è davvero raro, comprensibilmente, che vi sia la disponibilità all’handicap. Ma l’handicap è un concetto che va posto in relazione alla cultura della società, quello che è handicap in un paese povero, che non garantisce l’assistenza sanitaria di base, potrebbe essere curabile nel nostro paese. Mentre i limiti intellettivi, che potrebbero non rilevarsi nel paese d’origi-

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© ilaria nasini

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ne, potrebbero costituire un handicap per noi. Il bambino pluritraumatizzato, che ha lasciato alle spalle tutto ciò che gli era noto, che entra in una famiglia che deve ancora conoscere, contemporaneamente entra in una società molto esigente, dove bisogna andare a scuola, stare fermi e ascoltare, riconoscere l’autorità degli insegnanti. Tutto ciò potrebbe diventare una cosa impossibile per questi bambini e i fallimenti scolastici potrebbero essere una conseguenza inevitabile. La capacità di apprendere non si forma a sei anni quando il bambino va a scuola, ma si costituisce fin dall’inizio della vita. Le esperienze di gioco infantile costituiscono i precursori dell’apprendimento. Ma quali giochi hanno fatto da piccoli i bambini adottati? Essi hanno altre risorse,

hanno la voglia di vivere e la capacità di sopravvivere, questa capacità oggi si chiama resilienza. La resilienza è la forza di resistere agli urti, questi bambini hanno resistito all’incuria degli adulti e hanno imparato a sopravvivere, sono dei sopravvissuti, in questo è anche la loro forza. A volte i genitori chiedono aiuto proprio dicendo. «Ha un carattere, sa? Non è facile fargli fare quello che gli si chiede!». Ma è proprio perché ha carattere che il bambino è sopravvissuto. La famiglia adottiva deve avere le capacità protettive, riparative e supportive per aiutare a rafforzare i fattori di resilienza del bambino, accettarne i limiti, accogliere le frustrazioni che possono derivare dai fallimenti, sostenere la sofferenza del bambino che può esprimersi in maniera aggressiva, impulsiva, distruttiva.

È per tutto questo che l’iter adottivo prevede anche un percorso di valutazione della coppia condotto da uno psicologo e un assistente sociale. Mentre nel corso di preparazione si parla tutti insieme in modo generale di queste problematiche, nel percorso di valutazione si ripercorre con ogni singola coppia la storia di ciascun coniuge, la storia della coppia, si analizza insieme da cosa nasce la motivazione all’adozione e si valuta insieme se ci sono nel contesto dell’individuo, della coppia e della famiglia allargata le risorse che occorrono per adottare: altruismo e apertura per accogliere il diverso, autostima e assertività per poter gestire una relazione difficile, empatia per entrare in contatto con il bambino e coglierne i bisogni certamente complessi e non paragonabili a quelli del bambino nato in fami-


glia, flessibilità e riflessività per comprenderli e farli propri, stabilità emotiva e tolleranza alla frustrazione per non entrare in crisi, e infine la capacità di costruire i legami affettivi e la capacità di superare il dolore. In questo senso il corso di preparazione offre gli strumenti per affrontare il percorso di valutazione, altrimenti chiamato studio della coppia. Senza mai suggerire cosa essi debbano dire o come si debbano comportare, l’invito è quello di guardare al loro mondo interno e riconoscere in se stesso, nel coniuge, nella propria fami-

glia allargata e nel contesto sociale queste risorse. Il quarto incontro è sicuramente più “leggero”. Quando è possibile ospito la testimonianza di una coppia che ha adottato, che racconta la propria esperienza. Ovviamente scelgo una coppia che conosco, che ho seguito, che possiede i requisiti attesi nell’adozione. Qui è la parte emotiva che esplode: la gioia di aver adottato, le forti emozioni collegate alla genitorialità. Le coppie rivolgono molte domande ai testimoni, che rivestono un ruolo da peer educator.

E io concludo che si possono vivere queste gioie profonde nella misura in cui si affronta tutto il percorso con la consapevolezza del dolore e dei rischi insiti nella storia propria e in quella del bambino. Segue alla fine un momento conviviale, le coppie si scambiano gli indirizzi, qualcuno chiede anche i nostri recapiti. Il gruppo diventa un luogo di relazioni che non si esauriscono nei quattro incontri, ma dove si trovano compagni di un lungo viaggio, appena cominciato.

Rosalba Gravili psicologa psicoterapeuta dirigente asl 6 Livorno Unità funzionale attività consultoriale

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le relazioni giorno dopo degligiorno affetti 30

Giorni passati a sperare

La data esatta in cui Roberto ha iniziato a parlare di adozione non la ricordo, probabilmente era l’estate del 2002. Dopo tre anni di matrimonio abbiamo iniziato a fare dei controlli, per capire perché dal nostro grande amore non nasceva nessun bambino, per me già tanto desiderato ancora prima di sposarmi, che l’idea di non averne, era qualcosa di inimmaginabile. Facevo persino fatica a formulare un simile pensiero, quasi una forma di superstizione, ché se non l’avessi neanche pensato non sarebbe capitato proprio a me, proprio a noi. E invece ci capitò! I controlli determinarono una ridotta motilità degli spermatozoi e quindi una scarsa probabilità di restare incinta, nonostante tutto il nostro grande amore. I medici ci proposero di

sottopormi a tecniche di fecondazione assistita, ma rifiutammo di comune accordo. Il rifiuto di questi metodi non è stato dettato solo da motivi religiosi o da un moto femminista, che in parte mi avevano suscitato l’atteggiamento dei medici e della medicina in generale, che si occupa di trovare soluzioni alla sterilità femminile (in certi casi lo definirei accanimento), ma non ricerca soluzioni per la sterilità maschile (tutt’al più si può fare ricorso a un donatore anonimo), ma soprattutto da un totale rispetto verso il mio corpo: mai avrei permesso una tortura tale, senza peraltro nessuna garanzia di successo. Ci siamo quindi orientati verso l’adozione, come unica alternativa alla mancata genitorialità biologica, con la sensazione che pro-

babilmente sarebbe stata una strada che avremmo comunque percorso, con altro spirito e in altra età, se anche avessimo avuto biologicamente dei figli. Devo riconoscere che è stato Roberto ad insistere per iniziare questo percorso, perché ci mettessimo in contatto con l’Asl, per cominciare ad informarci e trovare una soluzione al vuoto che sentivamo attorno a noi. Io, forse, in un primo momento, non ero ancora pronta. Non è stata una decisione facile, non è facile accettare di non poter avere ciò che desideri così tanto e pensare di “sostituire” questa assenza con il “figlio di qualcun altro”. Al pensiero di non avere figli biologici, mi sentivo esplodere il cuore nel petto; era straziante vedere altre donne incinte o che avevano già dei figli


© ilaria nasini

e che non li desideravano, anzi li consideravano un peso, una “disgrazia”, di cui portavano a malincuore le conseguenze. Che rabbia provavo verso quelle persone; era per me incomprensibile che non riuscissero a vedere la fortuna e la bellezza del fatto di aiutare un bambino a crescere, di insegnargli a vivere nel rispetto prima di tutto di se stesso e poi degli altri e dell’ambiente. Il percorso con gli assistenti sociali iniziava da qui: dal voler scoprire, prima ancora di presentare domanda al Tribunale per dare la nostra disponibilità ad adottare, se era veramente la nostra strada, se potevamo diventare una famiglia, accogliendo un bambino che non portava in lui il nostro patrimonio genetico, allargando i nostri orizzonti e le nostre aspettative per

far nascere dall’incontro di due eventi dolorosi un successo d’amore. Il 25 novembre 2003 abbiamo assistito al primo dei quattro incontri di gruppo, insieme ad altre cinque coppie che, come noi, si accostavano al percorso dell’adozione. Ricordo la presenza di una coppia che aveva già un figlio biologico e dopo uno o due aborti spontanei si indirizzava verso l’adozione per avere un secondo figlio. Che invidia! E che incapacità a comprendere la loro decisione: in fondo un figlio ce l’avevano già, perché venivano a “concorrere” con noi e magari a toglierci qualche possibilità di avere ciò che loro avevano già avuto per natura? Oggi sorrido pensando a questi sentimenti. Ricordo di essermi sentita in competizione con le altre coppie,

come se fossimo a un’asta e i beni posti all’asta fossero in numero inferiore a quello dei partecipanti. Ricordo la preoccupazione di altre coppie nel doversi sottoporre all’indagine psicosociale, descritta come una tortura psicologica in cui altre persone, totalmente sconosciute, valutavano la tua capacità di essere genitore. Devo ammettere che il pensiero mi sfiorò per un secondo, certa di non avere nulla da nascondere, ma nello stesso tempo dubbiosa sulla possibilità di essere fraintesa o non compresa completamente. Al termine del primo incontro di gruppo mi ero già data una risposta al come vivere questa indagine sulla nostra vita privata, scrivevo infatti: «L’indagine psicologica che viene svolta, va affrontata nel senso di un aiuto a crescere come

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persona, a capire i nostri sentimenti e ad affrontarli per superare quelli “negativi”. Quindi bisogna meditare su questi incontri per analizzare tutti gli aspetti di noi come coppia e per lasciare così lo spazio all’analisi degli aspetti del figlio che arriverà». Mi ponevo invece una domanda di carattere pratico: avrei voluto sapere con esattezza su quali elementi si fosse basata la valutazione della nostra idoneità, come se ci fossero delle richieste specifiche per partecipare a un concorso per titoli. Il punteggio risultante da questi titoli ci avrebbe permesso di esse© maria maddalena di sopra

di lutto, forse non si è mai trovata una parola più appropriata. Io credo di aver provato una disperazione più grande, almeno nel periodo in cui ho iniziato a realizzare che probabilmente dalla mia pancia non sarebbe mai nato nulla. Perché se una persona Nell’incontro successivo ci viene a mancare, ti puoi venne chiesto di meditare consolare nel ricordo del tempo passato insieme, ma sul “lutto”. Scrivevo: «Perché lutto? se questa persona non c’è Non è lutto per la perdita mai stata, a cosa ti aggrapdi una persona reale, ma pi? Mi sembrava un’ingiuperdita di un desiderio di stizia di proporzioni enorqualcuno immaginato, “in mi, un torto immeritato, qualche modo”, e mai arri- e mi sembrava di essere inconsolabile. Non so se vato». Non mi è proprio chiarissi- avrebbe comportato qualmo tutt’ora perché si parli che differenza se fossi stare inseriti in una graduatoria ed il primo classificato avrebbe ricevuto in premio il bambino “migliore”, ed io volevo che la nostra coppia risultasse prima. Per fortuna non fu e non è così, ma questa era la mia sensazione al primo incontro.


ta io ad avere degli impedimenti fisici al concepimento, in ogni caso ci sono stati momenti in cui speravo nel miracolo, nell’intervento divino, perché sembrava troppo grande il peso da portare. Ricordo, al riguardo, di essermi staccata da mia mamma, di essermi rifiutata di sfogare con lei il mio stato d’animo, certa che non avrebbe potuto capire. Da alcuni discorsi fatti con lei, ricordo un suo modo di minimizzare il peso che sentivo, perché ai giorni nostri ci sono soluzioni alternative accettate dalla società, un’adozione viene vista diversamente oggi, rispetto a quando lei era giovane e questo mi aveva ferito profondamente, mi aveva fatto capire che non avrebbe mai colto fino in fondo la disperazione del mio cuore nonostante sia la mia mamma biologica e che ci sia tra noi un rapporto tanto stretto e speciale. Ora è acqua passata e lo racconto serenamente, ma devo ammettere che mi fece male e incrinò per un po’ il mio rapporto con lei.

Tornando agli incontri di gruppo, si parlò di enti e di come scegliere quello cui dare mandato, una volta raggiunto l’obiettivo del decreto di idoneità. Non ricordo cosa si disse al riguardo. Sicuramente non fu detto nulla di determinante, come deve giustamente essere, in quanto le sei coppie presenti scelsero tutti enti diversi. Si chiedeva inoltre alle coppie di meditare sulle possibili richieste dell’adottato sulla sua famiglia biologica. Cosa dire delle notizie che si hanno sulla sua vita prima dell’adozione? Gli operatori portarono esempi molto generici, ma si soffermarono su un caso particolare: l’abbandono nel cassonetto dei rifiuti. Che pugno allo stomaco! Ugualmente, con le lacrime agli occhi, risposi che sì, glielo avrei detto. Sono così accanita sostenitrice della verità che non riesco a pensare di poter negare alle persone a me più care un valore così grande, a maggior ragione se parliamo di figli. Come potrei

non dire quanto so? Per me non dire è già mentire. L’aspetto determinante è il come e il quando. Sicuramente aspetti così evidentemente traumatizzanti si possono rivelare solo in una fase adulta, quando il figlio, diventato uomo, è in grado di valutare da solo e, se possibile, comprendere le povertà dell’animo umano. Non credo sia nemmeno utile dire tutto e subito, quasi a togliersi il pensiero: “quello che so te lo butto addosso e chiudo il discorso!”. Forse è giusto lasciare ai figli la fatica di chiedere e lasciare che percorrano una sorta di spirale nell’acquisire le informazioni sul loro passato, allargando ad ogni giro gli aspetti che li incuriosiscono e che, crescendo, possono essere meglio capiti e accolti. Terminati gli incontri di gruppo, mio marito ed io ci siamo presi una breve pausa di riflessione e il 27 febbraio 2004 siamo andati al tribunale di Milano a consegnare la nostra domanda di disponibilità.

Paola Piccinini mamma adottiva

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le relazioni degli leggendo affetti

Io fuori io dentro Identità e diversità

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Come per gli adulti, ancor più per i bambini è difficile trovare le parole giuste per rappresentare la propria identità e per esprimere ciò che c’è dentro di noi. Ci sono molti libri che aiutano a trovare il modo per rappresentare se stessi: storie per riconoscersi, figure per ritrovarsi, racconti per scoprire il proprio posto nel mondo. Bastano poche frasi per esplorare l’emotività dei bambini, bastano poche illustrazioni per rappresentare come i bambini siano esteriormente e come invece si sentano dentro. In queste cronache dalla Biblioteca della BarchettaBlu non potevo non scegliere per primo il libro Io fuori io dentro, di Cosetta Zanotti. Lapis edizioni presenta un libro che disegna le emozioni dei bambini fuori e dentro. Quando

lo abbiamo acquistato in biblioteca e presentato in una lettura animata, genitori e bambini sono rimasti a bocca aperta, genitori e bambini si sono riconosciuti. Questo albo illustrato invita a leggere le emozioni, a capirle, a raccontarle, sempre e comunque. Viene data dignità a ogni emozione: quando non ci piace e ci fa paura e quando ci fa stare bene e volare leggeri. Si tratta di un percorso poetico che si snoda fra la percezione esteriore e quella interiore, un libro che parla di eventi semplici e frequenti delle giornate di ogni bambino. Pagina dopo pagina si vivono emozioni sempre diverse, belle, spaventose, di sconforto o vittoriose. I giorni non sono tutti uguali. Ci sono momenti belli e momenti brutti. Anche le emozioni sono sempre diverse, ma

sono tutte importanti e preziose. Parole e immagini si fondono e accompagnano il lettore nella propria interiorità. Si scopre un dentro più intenso e ricco del fuori. Per ciascuno di noi le emozioni hanno una forma, un colore e un significato diverso. Cosa succede fuori e dentro di me dopo una forte emozione? si chiede ogni bambino senza riuscire a trovare facilmente una risposta. Il bambino del libro, a seconda di quello che gli succede, si guarda fuori ma si guarda anche dentro; scopre che esiste un fuori di sé e un dentro di sé e che queste due realtà sono tra loro legate e possono essere rappresentate attraverso immagini e colori. Poche parole, linee semplici e segni evocativi, un sapiente uso del colore danno vita a un piccolo albo da


guardare, leggere, riguardare, rileggere, magari anche ricopiare e ridisegnare; un invito a raccontare un po’ di sé. Quando la mamma mi dà un bacio, fuori sorrido e socchiudo gli occhi. Ma dentro... mi spuntano le ali e volo leggero, sempre più in alto. Quando mi arrabbio, fuori non parlo e metto il broncio. Ma dentro... sono un missile di fuoco che viaggia a tutta velocità nell’universo! Quando vinco una gara, dopo una sgridata, quando ho paura, quando faccio la pace. Il libro nasce proprio partendo da queste situazioni e dalle relative emozioni. Da una parte, quando accade qualcosa di spiacevole, un’incomprensione, un litigio o una sgridata dei genitori, ci si sente letteralmente a pezzi, tutto si fa buio e ci si rappresenta con colori scuri e cupi. Dall’altra parte i momenti spensierati e felici sono rappresentati con colori vivaci e allegri che ci trasmettono gioia e sensazione di libertà. Un altro affascinante libro, che parla in modo diretto del bisogno di trovare la propria identità, è Un colore tutto mio di Leo

Lionni, autore sorprendente perché riesce a trasmettere concetti complessi attraverso un uso semplice del colore, dell’immagine e della parola. Un camaleonte che non ne può più di cambiare colore ogni volta che si posa su una foglia, su un fiore o per terra, è a caccia di un colore tutto suo, dunque della propria identità. Dopo alcuni tentativi andati male e un po’ di delusione, confusione e disorientamento incontra un camaleonte più vecchio e più saggio che gli offre una soluzione. Grazie all’incontro con questo amico, riesce a guardare dentro se stesso e a scoprire la propria natura. Immagini e parole sono semplici ed essenziali, ma propongono un forte messaggio: tutti hanno bisogno di trovare se stessi, di percorrere la strada che porti a riconoscere i propri valori e i propri traguardi; non ci si sente soli quando ci si riconosce e ci si mette in gioco insieme agli altri, crescendo, condividendo, amando. Leggendo questa delicata storia, adulti e bambini si sentono compagni di viaggio alla ricerca dell’essere a partire da un incontro. Umorismo e delicatezza sono invece la formula che propone il Dr. Seuss nel suo libro Gli Snicci; rime

e filastrocche per bambini di tutte le età a partire dai cinque anni; una storia per accettarsi e per osservare la vita da ogni angolazione possibile. Una musicalità e un umorismo irresistibile, un ritmo scoppiettante e una modernità straordinaria. Nei libri del Dr. Seuss i testi sono immediati e a volte surreali, i personaggi e i luoghi, senza tempo e senza età, sono stravaganti e originali. Sono racconti divertenti per i più piccoli, ma adatti anche per gli adulti estimatori del nonsense. Tutti restano incantati dalla presa in giro delle azioni sciocche di alcuni personaggi; tutti rimangono affascinati dai macchinari strampalati, dagli improbabili mezzi di trasporto, dai luoghi surreali e dalle cose deformate con ironia. Ma

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non è solo ritmo e fantasia, c’è sempre un significato nascosto. Gli Snicci sono dei simpatici animaletti che si dividono in due categorie: quelli con una stellina verde sulla pancia e quelli senza stellina. I primi si sentono superiori, e disprezzano gli altri. Ma lo stratagemma dello scimmione Silvestro De Favis li porterà a capire il nonsenso di questa presunta superiorità. Questo strano scimmione è capace di mettere e togliere le stelle a piacere. Così gli Snicci sono alle prese con un grave problema: meglio avere una stellina sulla pancia o meglio farsela togliere dalla strana macchina Leva e MettiStelle? Quando lo scimmione se ne va pieno di soldi pensa che la lotta per l’identità degli Snicci sia infinita … … Ma De Favis sbagliava. E con gioia vi aggiorno che gli Snicci capirono finalmente un bel giorno, un giorno in cui fu deciso che gli Snicci son Snicci, e nessuno è migliore, non han senso i bisticci. Da quel giorno, di stelle più nessuno ha parlato e ogni Sniccio è felice che sia o meno stellato... Il mondo fantasioso, delicato, profondo e ricco di umorismo del Dr. Seuss diventa una divertente occasione per leggere insie-

me, giocare con le parole e i personaggi strampalati, ma anche per riflettere. Infine, per ragazzi dai dieci anni, La scimmia nella biglia, di Silvana Gandolfi, è l’avvincente storia di una bimba di nove anni alla ricerca della propria identità e alle prese con la sua voglia di essere diversa; la prolifica autrice racconta come una bambina goffa e introversa diventa improvvisamente agile e scatenata. Sara, che tutti chiamano La Morte in Vacanza e Stampellona, diventa improvvisamente sportiva e spericolata, riuscendo a fare tutto ciò che vuole. Trova una biglia magica di vetro azzurro e dentro la biglia c’è Aluk, una scimmietta parlante che le permette di fare ciò che normalmente non riesce a fare. La triste e pessimista Sara scambia il proprio corpo con quello della scimmia Aluk rinchiusa nella biglia: Aluk entra nel suo corpo e viceversa Sara entra nella biglia. Quando viene evocata, la scimmia prende il corpo di Sara e la bambina si ritrova dentro la biglia. Sara diventa la prima della classe, atletica e spigliata, si arrampica sugli alberi, scappa da scuola e compie ogni genere di azione. Questo scambio però è molto pericoloso perché la scimmia Aluk, una volta entra-


Marina Zulian esperta nella ideazione, progettazione e gestione di servizi per l’infanzia, per le famiglie, per le scuole. Responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu. Consulente in progetti di lettura e di psicomotricità. Mamma di Tommaso e Giuliano

ta nel corpo di Sara, non vuole più lasciarla libera e Sara rischia di restare prigioniera per sempre nella biglia azzurra. Si susseguono colpi di scena, divertenti e amari allo stesso tempo. Ogni avventura è coinvolgente ed emozionante. Ogni capitolo è ricco di situazioni strane e particolari, originali e inaspettate. Il desiderio di assumere un’altra identità, di entrare in un altro corpo per soddisfare o trasgredire le richieste familiari e sociali, permette al lettore di identificarsi con la voglia di perfezione e con la frequente incapacità di accettarsi per ciò che si è. Spesso l’adulto ignora i vulcanici movimenti all’interno di un bambino che cresce; istinti, pulsioni, desideri ed emozioni si mescolano continuamente in un intreccio esplosivo. In questi quattro libri, non c’è un’unica risposta alle grandi domande della vita sulla propria identità, su

Bibliografia C. Zanotti, A.G. Ferrari, Io fuori io dentro, Lapis Edizioni, 2009 L. Lionni, Un colore tutto mio, Babalibri, 2001 P. Coran, M. Sacré, Giotto il leprotto, Emme Edizioni, 2001 B. Cole, La principessa Birichina, Edizioni EL, 1993 Dr. Seuss, Gli Snicci, Giunti Junior, 2003 O. Brenifier, J. Despres, Il senso della vita, Isbn Edizioni, 2009 B.Tognolini, A. Abbatiello, Maremè, Fatatrac, 2008 S. Gandolfi, La scimmia nella biglia, Salani Gli Istrici, 1992 B. Friot, S. Bonanni, La mia famiglia e altri disastri, Il Castoro, 2009

chi siamo e su cosa vogliamo. Non c’è un solo modo di pensare. Sta a ognuno di noi scoprire, cercare, costruire il proprio modo di affrontare la vita. Immagini e parole, disegni e poesie ancora una volta ci aiutano a parlare con i bambini sul senso della vita e sulla indispensabile ricerca che ogni persona compie nel proprio cammino.

Appuntamento alla prossima cronaca dalla Biblioteca di BarchettaBlu sul tema “La relazione e i rapporti intersoggettivi”. Buone letture.

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le relazioni degli leggendo affetti 38

La salute del bambino e dell’adolescente Questo piccolo manuale è rivolto ai genitori di neonati, bambini e adolescenti, con l’obiettivo di aiutarli a conoscere e affrontare alcuni comuni problemi relativi alla crescita e alla salute globale dei loro figli. La guida non pretende di chiarire tutti i dubbi, né di formulare diagnosi o indicare terapie mediche, che sono di competenza del medico curante, ma di spiegare in modo semplice e schematico ai genitori come controllare la crescita dei figli, come intervenire di fronte ai primi sintomi di malattia, e come costruire con il pediatra di famiglia un rapporto di fiducia utile per l’assistenza al proprio bambino. Non dimentichiamo che, come verrà detto nel manuale, il genitore è «il primo medico del proprio figlio» e che tante volte il

suo primo intervento, fatto di amorevoli cure e di poche ma efficaci norme igienico-sanitarie, può risolvere semplici situazioni o consentire di tamponare la «crisi» fino al contatto col pediatra curante. Il nostro manuale non tratta solo della crescita e delle comuni malattie dell’infanzia, ma vuole affrontare anche alcune nuove problematiche che dipendono dagli stili di vita familiari e sociali (obesità, rischi da tv e internet, disturbi del comportamento e altri) o che riguardano bisogni di salute “speciali” (il bambino adottato, l’immigrato, l’adolescente). Su queste tematiche abbiamo cercato di spiegare ai genitori l’importanza di assumere comportamenti di vita corretti e salutari (alimentazione, attività fisica, comunicazione) che aiutino i bambini a cresce-


re in un ambiente non condizionato dalle mode o dai messaggi mediatici, ma che parta dal ruolo educativo della famiglia. Sarà poi il pediatra di famiglia, durante le visite e i bilanci di salute (che accompagneranno il bambino da 0 a 14 anni) a rinforzare questi concetti e a stringere una “alleanza terapeutica” con il bambino e i suoi genitori per cercare di garantire la miglior salute possibile al “cucciolo d’uomo”.

Roberto Marinello Mirella Scarazatti autori

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le relazioni degli animando affetti

Animazione e partecipazione

Il Progetto Giovani di Forlì e la nascita dell’Atelier del Cartone animato 40

Capita che chi torna a casa dopo una lunga permanenza all’estero abbia l’impressione di essere diventato una specie di marziano. In pochi mesi cambiano tante cose e chi non c’era non ha potuto viverne i passaggi logici, la trasformazione graduale. L’anno della mia permanenza in Bolivia, tra il 1979 e il 1980, fu fin troppo prodigo di cambiamenti. Da vertigine, in particolare, fu il passaggio dal movimentismo al “riflusso”. Non riuscivo ad afferrare i meccanismi che avevano potuto far sì che i miei coetanei, nel periodo della mia assenza, arrivassero al punto di rinnegare valori come partecipazione e solidarietà. Interessarsi di temi sociali (cosa quasi obbligata per un giovane fino a un attimo prima) era diventato assolutamente fuori moda. Questo fenomeno

aveva provocato forti disagi anche a molti giovani che erano rimasti in Italia, al punto che non pochi erano passati dalla politica alla droga. Per me, comunque, era il momento di progettare la mia vita. Non potevo farlo senza tener conto del percorso intrapreso nel corso della rocambolesca ma ricca esperienza che avevo appena concluso in Bolivia, ma non era semplice confrontarsi con altri su questo argomento: il più delle volte avevo la netta sensazione che i miei interlocutori mi vedessero come un povero sfigato uscito da un remoto passato che (orrore!) era andato lontano a impicciarsi dei fatti altrui. Trovai per fortuna amici che, oltre a condividere con me la passione per le arti grafiche, l’animazione e il lavoro d’équipe, non disdegnavano il sociale. Tiziano Giulianini e Franco Guer-

riero Cortini mi parlarono di Libertà obbligatoria, un film d’animazione iniziato da tempo in un centro sociale di Forlì da un gruppo di giovani forlivesi: in un palazzo grigio e triste, in un quartiere grigissimo, un uccellino colorato si accorge che la porta della sua gabbietta è stata lasciata inavvertitamente aperta… e si trova quindi a dover scegliere se affrontare i rischi sconosciuti della libertà o restare nella gabbia, al sicuro. Mi piaceva: sentivo mio il tema della scelta e dell’inizio di una nuova avventura… che, infatti, stava cominciando. Mentre discutevamo di questa e altre idee fummo coinvolti in un nuovo importante progetto. Io, Guerriero e Tiziano ci trovammo in una pizzeria a discuterne con i suoi ideatori, il neo-assessore al Decentramento del Comune


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di Forlì Flavio Montanari e il pedagogista Riccardo Conte, che riuscirono facilmente a trasmetterci il loro entusiasmo. Proprio a partire dalla particolare condizione giovanile che si era venuta a creare negli ultimi tempi (riflusso, delusione, rifiuto, pere...) e dalla necessità di creare alternative in una città che ai giovani fino ad allo-

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ra aveva dato ben poco, il Progetto Giovani intendeva offrire spazi e modi nuovi di stare insieme, costruendo e divertendo, partendo da se stessi per arrivare al gruppo e... alla città. In seguito all’individuazione di otto Circoscrizioni del decentramento amministrativo della città (nate dai quarantadue quartieri pre-esistenti), di lì a breve si sarebbero

creati dei Centri giovanili, utilizzando per questo scopo metà degli spazi delle Circoscrizioni. I Centri giovanili (o Centri sociali) dovevano essere monotematici e sarebbero stati i giovani a decidere il tema, anche partendo da situazioni già esistenti. Al momento in cui noi fummo coinvolti i temi non erano ancora definitivi, ma lo sarebbero sta-


ti a breve: musica, teatro, viaggi, scienza ed ecologia, cinema, immagine, espressività pittorica. Oltre a questi era previsto un centro polivalente di aggregazione adolescenziale. L’esperienza era supportata da tecnici competenti (come Guido Contessa) ed esperti della facoltà di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna (come il prof. Franco Frabboni). A Flavio e Riccardo piaceva l’idea di coinvolgere anche un gruppo dedicato al film d’animazione, mentre per noi avere una sede e strumenti in più per perseguire e condividere con altri i nostri obiettivi era un’occasione splendida. I gruppi che avevano interessi specifici, erano spinti ad offrire essi stessi occasioni di aggregazione. Il Comune offriva loro strumenti (ad esempio macchine fotografiche e camere oscure attrezzate ai gruppi di fotografia) e agevolazioni per l’organizzazione di corsi ed eventi tesi a coinvolgere altri giovani (dalla stampa di manifesti e materiali promozionali arrivando, in determinate condizioni, a una retribuzione per chi gestiva i corsi). Il Centro per l’immagine in cui si sarebbe potuto inserire il gruppo dei cartoni animati, poi, era proprio a pochi metri dal Centro sociale in cui si incontrava

già il gruppo (ospitato dagli anziani del quartiere). Rimasi impressionato dalle affinità del Progetto Giovani con il mio Taller de Cultura Popular (i cui membri, non potevo dimenticarlo, erano in quel momento braccati dall’esercito di Garcia Meza): diverse arti e il supporto a tanti gruppi autonomi ma con una sorta di coordinamento su alcuni punti comuni da perseguire. Se uno degli obiettivi primari era la partecipazione, un punto per me determinante era la gestione. I centri sarebbero stati cogestiti con le Circoscrizioni, ad ogni centro venivano attribuiti alcuni animatori e un po’ di risorse finanziarie. Il Progetto Giovani, per usare le parole di Flavio, «prefigurava una sorta di rappresentanza espressiva dei giovani, era cioè un patrimonio gestito dalle associazioni giovanili e dai giovani che si sentivano in grado di proporre una loro abilità espressiva (fuori cioè dalle logiche dei partitini che le forze politiche richiedevano). In altre parole si dava spazio a quei giovani che proponevano un’attività espressiva». Il principio fu molto contestato dalle forze politiche del Consiglio comunale, ma fu molto sostenuto dai giovani stessi. Dove più e dove meno, ma funziona-

va! Al Centro musicale si poteva suonare e ascoltare musica, al Centro teatrale si organizzavano stage e si realizzavano attività varie su questo argomento… e così via fino al Centro Lo specchio, che si occupava di immagine. Si formalizzò così, come seguito a un’attività già esistente, tra tante altre cose nuove, la nascita dell’Atelier del Cartone Animato come gruppo giovanile riconosciuto dal Comune di Forlì. Condividevamo l’uso dei locali con altri gruppi, tutti consapevoli che ci erano dati perché questo offrisse opportunità di usarli anche ad altri. Flavio e Riccardo erano riusciti a rendere i gruppi partecipi degli obiettivi principali del progetto. Grazie al mio entusiasmo mi trovai, di fatto, a essere il grafico del Progetto Giovani, realizzando manifesti e molto altro. Mi piaceva molto. La cogestione con i gruppi non era teorica, ma reale: i comitati di gestione, con un animatore e i rappresentanti dei gruppi, decidevano come utilizzare le risorse, discutevano dei fondi, proponevano, organizzavano, dialogavano con il Comune. La particolare motivazione e responsabilità dei gruppi aveva reso possibile al Centro Giovanile per l’Immagine, più che una cogestione, una vera auto-

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gestione. Tra i principali gruppi operanti allo Specchio con l’Atelier ricordiamo in particolare un robusto gruppo di fotografia, il Cinegram, ispirato alle attività fotografiche di Ando Gilardi, alle Movie Machines e ad attività per gli insegnanti e il laboratorio di incisione guidato dall’amico Franco Cortini, un giovane ed eclettico artista che ci ha lasciato prematuramente pochi anni dopo… ma che ha lasciato tracce così forti che è impossibile dimenticarlo. Fu grazie a lui che iniziammo e con lui in seguito condividemmo nuovi progetti di animazione e non solo, per diversi anni caratterizzati da una grande sintonia. Subito dopo il nostro arrivo, grazie al rumore che aveva fatto in città l’avvio del progetto, fummo visitati da molti ragazzi, bambini e adulti, spesso insegnanti, e cominciammo a farci un’idea delle attività che potevamo proporre, a cominciare dai corsi di animazione. La nostra attività era rivolta a diverse età, quindi cominciammo a diversificare le attività e a definire meglio i nostri obiettivi. Studiammo, ci confrontammo con altre esperienze che avevano analogie con l’Atelier, in Italia e all’estero e, soprattutto, imparammo sul


Claudio Tedaldi Atelier del Cartone Animato www.animato.it

campo. Iniziammo a dare un supporto anche operativo a giovani autori con una sorta di cantiere permanente dell’animazione aperto a tutti, organizzammo eventi pubblici come il convegno nazionale La pedagogia del cinema d’animazione (1984) con l’asifa e la Lanterna Magica di Torino, la mostra Styled animation con il prof. Carlo Mauro, stage con esperti come Nedo Zanotti, corsi al centro Lo Specchio, in altri Centri giovanili ma anche in scuole e in altri contesti. Il Progetto Giovani funzionò molto bene per una decina di anni, con alcuni aggiustamenti, creando una quantità di eventi, laboratori e attività e un clima di partecipazione inedito. Noi lasciammo Lo Specchio

alla fine del 1987, appena ci accorgemmo che la cogestione non funzionava più bene. D’altra parte in quel periodo cominciavamo ad approfondire il tema della computer animation e trovammo il modo di disporre di computer adeguati nella vicina San Pietro in Vincoli. L’Atelier era maturo per avviare una nuova avventura. Di lì a poco, con il cambio dell’assessorato, il Progetto Giovani fu lasciato cadere gradualmente. Suppongo che per gestire adeguatamente un progetto così bello e articolato occorressero competenze in diversi ambiti e una visione (al di là dell’area politica di appartenenza) che mancava ai successori di Flavio. In definitiva molti giovani si prepararono a entrare come professionisti veri e

propri nel mercato del lavoro con la loro creatività e inventiva. Ancora oggi, al di là dell’esperienza entusiasmante, il tema di fornire adeguati spazi alla creatività giovanile rimane attuale (piuttosto che prefigurare un’astratta ed illusoria rappresentanza giovanile), e la vicenda del Progetto Giovani di Forlì continua a essere emblematica di come le amministrazioni locali possano affrontare concretamente il tema delle politiche giovanili in mancanza di una legge nazionale. Flavio Montanari si occupa ancora di progettazione sociale. Il suo sito è www. flaviomontanari.it, mentre quello dell’Atelier è www. animato.it.


le relazioni degli suonando affetti

Vivaldi, aiutaci a fare... i compiti!

© valeriano salve

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Fermatevi per un attimo con gli occhi chiusi e riportate alla memoria quella splendida sensazione che proviamo nelle giornate invernali luminose, pervase dall’alta pressione, quando ci sentiamo leggeri, lucidi, attratti verso il cielo azzurro intenso. Non è una magnifica sensazione? Ritornando con i piedi per terra, questo è ciò che accade ascoltando le Stagioni di Antonio Vivaldi ed è uno dei motivi per cui rientrano tra le composizioni di musica classica più amate, nonostante il lontano periodo storico cui appartengono. La musica, arte evanescente per eccellenza, è la forma d’arte che riesce a entrare in comunicazione con il nostro essere più intimo in modo più rapido: questo è spesso sottovalutato o, peggio ancora, ignorato. L’ascolto delle Stagioni può avere effetti molto favorevoli in particolar modo nei


Antonio Vivaldi (Venezia 1678 - Vienna 1741), uno dei violinisti più virtuosi del suo tempo e uno dei più grandi compositori di musica barocca, contribuì allo sviluppo del concerto, della tecnica violinistica e della tecnica orchestrale. Tra le sue opere più conosciute ci sono Le quattro stagioni, quattro concerti per violino che rappresentano le scene della natura in musica; probabilmente l’idea di comporre questi concerti gli venne mentre stava nelle campagne attorno Mantova e furono una rivoluzione nella concezione musicale: in essi Vivaldi rappresenta lo scorrere dei ruscelli, il canto degli uccelli, il latrato dei cani, il ronzio delle zanzare, il pianto dei pastori, la tempesta, i danzatori ubriachi, le notti silenziose, le feste di caccia (sia dal punto di vista del cacciatore che della preda), il paesaggio ghiacciato, i bambini che slittano sul ghiaccio e il bruciare dei fuochi. Ogni concerto è associato a un sonetto scritto dallo stesso Vivaldi, che descrive la scena raffigurata in musica. Furono pubblicati come i primi quattro concerti di una raccolta di dodici: Il cimento dell’armonia e dell’invenzione op. 8.

bambini della scuola primaria: è stato provato scientificamente il potere positivo sulla memoria e sull’apprendimento infantile della musica di Mozart. Studi recenti hanno affiancato all’effetto Mozart l’effetto Vivaldi avvalorando la tesi che l’ascolto di questa musica abbia conseguenze positive sulle funzioni cerebrali. Ragioniamo ora in termini musicoterapici: pensando ai nostri bambini, spesso ci si domanda quanto, oggigiorno, ansia e stress facciano parte della loro esistenza. I genitori hanno, a volte, la responsabilità di non saper gestire i propri malesseri di fronte ai figli trasferendo loro disagio, ma in realtà, nella maggior parte dei casi è il mondo esterno alla famiglia, fatto di scuola, attività fortemente prestazionali, rapporti difficili con i coetanei, a creare ansia nei bambini. La musica di Vivaldi può venire in aiuto: la Primavera e l’Autunno in particolare alleviano l’ansia e il senso di pesantezza che il bambino percepisce in alcune situazioni. Verifiche, compiti

Valeria Pacifico insegnante di musica

in classe e a casa accompagnati e sostenuti da questi ascolti possono diventare piacevoli appuntamenti. Questa musica “solleva”, per riallacciarmi alla sensazione dell’alta pressione, e sollevando, appunto, distende e produce benessere. Associare una musica terapeutica a un impegno aiuta a superare i propri limiti. In Italia purtroppo c’è una scarsa educazione musicale di base e spesso i genitori non sanno cosa “fare o non fare” ascoltare ai propri figli. Al contrario, su giocattoli, abbigliamento e alimentazione, ma anche su altri aspetti educativi, madri e padri italiani si sentono preparati. Riflettiamo su questo dato e muoviamoci di conseguenza: dal mio canto, ho intenzione di proporvi ogni mese un ascolto terapeutico mirato, dal vostro cominciate ad ascoltare voi, in prima persona, quanto suggerisco, e ragionate sugli effetti positivi che la musica vi regala. Vi segnalo: Vivaldi, The Four Seasons, Janine Jansen, Decca

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trentagiorni

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Repubblica Ceca: la povertà non è una giustificazione sufficiente per disgregare una famiglia La Corte suprema della Repubblica Ceca ha emesso un nuovo parere unificante in cui afferma che la povertà di una famiglia e le condizioni abitative particolarmente indigenti non possono essere gli unici principi per decidere l’allontanamento dei bambini da una famiglia e di conseguenza la loro presa in cura da parte dello stato. I bambini possono essere allontanati e istituzionalizzati solo nei casi in cui altre misure, come l’assistenza fornita dalle autorità e dai comuni, non hanno portato a un miglioramento delle condizioni di vita dei minori, o nei casi in cui vi siano altri gravi motivi. È inoltre necessario intervistare questi bambini per determinare le loro opinioni. Il portavoce della Corte suprema Petr Knötig ha annunciato il parere a un’agenzia di stampa ceca «Le carenze materiali di una famiglia, le condizioni

abitative particolarmente povere, non possono di per sé costituire un motivo per ordinare la cura istituzionale di un bambino», recita il parere. Secondo i dati diffusi lo scorso maggio, sono circa 21.000 i bambini che vivono in istituti nella Repubblica Ceca. Gli esperti in diritto dei minori affermano che circa un terzo di questi bambini finiscono in istituto inutilmente, mentre un altro terzo rimane nelle istituzioni più del tempo necessario. La Repubblica Ceca è uno dei paesi dell’Unione europea con il più alto numero di bambini in istituto. L’anno scorso la Corte costituzionale ceca ha anche condannato la spaccatura inutile delle famiglie nei casi in cui non è assolutamente necessario. I giudici della Corte costituzionale hanno stabilito che è possibile allontanare i bambini dalle loro famiglie nei casi di una totale assenza di cura o nei casi in cui il bambino sia in pericolo immediato. Fonte: www.romea.cz

Pedofilia, la denuncia di Telefono Arcobaleno «In rete a rischio i bambini tra i sei e i nove anni» Sono decine di migliaia i siti pedopornografici in tutto il pianeta. Vittime milioni di bambini nel mondo. Un giro d’affari di milioni di euro che è difficile arginare e debellare, non solo per le oggettive difficoltà, ma anche per la debolezza di molti ordinamenti giudiziari. Un lavoro difficile per le associazioni che si occupano di combattere il fenomeno. In Italia prosegue senza sosta la quotidiana azione di contrasto alla pedofilia on line di Telefono Arcobaleno: nel mese di gennaio sono stati 5390 i siti a contenuto pedopornografico individuati e segnalati, la maggior parte dei quali ospitati da internet service provider europei. Nella classifica mensile per paese sono gli Stati uniti i primi per diffusione di pedopornografia, seguiti da Olanda, Germania e Russia. È quanto emerge dal rapporto mensile sulla pedofilia on line diffuso oggi dall’osservatorio internazionale


di Telefono Arcobaleno. I dati raccolti a gennaio, nel corso dell’attività di monitoraggio del web, evidenziano, inoltre, che la maggior parte delle vittime del mercato criminale della pedofilia on line sono bambine di età inferiore ai dieci anni; in particolare è la fascia di età compresa tra i sei e i nove anni a essere più frequentemente rappresentata. Nel 30% dei casi si trattava, invece, di minori con un’età stimata compresa tra i tre e i cinque anni. Sui casi esaminati è stato, inoltre, rilevato il dato relativo alla tipologia del contenuto delle immagini pedopornografiche, servendosi del sistema di classificazione standard per mettere in evidenza la gravità degli abusi che i bambini vittime della pedofilia on line sono costretti a subire. Emerge che le immagini diffuse attraverso i siti pedofili segnalati ritraevano principalmente minori nudi, costretti a rapporti sessuali con adulti e vittime di atti di crudeltà e violenza. In particolare, si registra un significativo

aumento, rispetto al mese di gennaio dello scorso anno, della frequenza di siti con immagini estreme. «La pedofilia on line non ha niente di “virtuale” – spiega Giovanni Arena, presidente di Telefono Arcobaleno –, i bambini ritratti nelle immagini pedopornografiche subiscono abusi reali e ripetuti e hanno bisogno, in primo luogo, di essere identificati, liberati e avviati a un percorso di recupero. Conoscere le caratteristiche dei minori a rischio è il primo passo per proteggere i bambini in maniera più efficace e per orientare meglio le attività di prevenzione e intervento». Fonte: www. repubblica.it Ungheria: nuovi criteri per le adozioni internazionali Il governo ungherese ha stabilito dei nuovi criteri da applicare in materia di adozioni internazionali che si applicheranno ai futuri genitori adottivi. Dal mese di gennaio 2011 l’Autorità centrale ungherese per le adozioni ha dichiarato che non saranno più accetta-

te le domande per l’adozione di bambini che hanno meno di sette anni e sono in buono stato di salute. I pochi dossier che esistono ancora in questa categoria saranno assegnati ai paesi che hanno collaborato con l’Ungheria per un certo numero di anni. Inoltre, l’Autorità centrale per le adozioni ungherese non accetterà le domande di adozione da parte dei single, a meno che queste richieste non riguardino bambini con più di dieci anni o gruppi di fratelli. Il numero di dossier in questa categoria non è soggetto ad alcun tipo di limitazione dall’attuale quadro della legislazione nazionale ungherese. L’Autorità centrale per le adozioni ha inoltre spiegato che queste misure sono necessarie, perché per i bambini piccoli che sono in buona salute si stanno trovando più facilmente soluzioni interne e quindi non è necessario intervenire tramite adozione internazionale. Fonte: www.aibi.it

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