Adozioni e dintorni - GSD Informa marzo 2011

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - marzo 2011 - n. 3

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marzo 2011 | 003 Adozione e dintorni GSD informa - mensile - marzo 2011 - n. 3

GSD informa

ssere

La ricetta del bene L’adulto positivo

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Una storia dal Vietna dopo Genitori giorno

giorno

GSD informa

di Anna Guerrieri

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editoriale

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polvere di jana

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L’adulto positivo di Michele Augurio

di Anna Ester Davini

le relazioni degli affetti

psicologia e adozione

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Da due a tre… la valigia dell’adozione di Monica Arcadu pedagogia in azione

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La ricetta del benessere di Monica Nobile

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Una storia vietnamita di Luigi Bulotta Intervista a Daniela Bacchetta, vicepresidente della Cai di Luigi Bulotta

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Battaglie fuori e dentro casa di Silvia Piaggi

sociale e legale

giorno dopo giorno

leggendo

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Se io fossi te di Marina Zulian animando

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The Sheriff di Claudio Tedaldi suonando

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956 editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

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Giocare in musica di Valeria Pacifico

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trentagiorni

redazione Anna Guerrieri direttore, L’Aquila direttore@genitorisidiventa.org; Anna Ester Davini caporedattore e ricerca iconografica, Sassari; Simone Berti vicecapo-redattore, Firenze; Michele Augurio sociologo, Milano; Monica Arcadu psicologa, Reggio Emilia; Monica Nobile psicopedagogista, Venezia; Claudio Tedaldi Atelier del cartone animato, Forlì; Marina Zulian Associazione BarchettaBlu, Venezia; Roberto Gianfelice fotografo, L’Aquila; Ilaria Nasini, fotografa, Firenze; Antonio Fatigati, direttore responsabile; redazione@ genitorisidiventa.org immagini Raffaella Ceci Monza; Anna Davini Olbia; Paola Di Prima, ??????; Diana Giallonardo, L’Aquila; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Pea Maccioni, Lecce; Ilaria Nasini, Firenze; Valeriano Salve, L’Aquila; Paola Verzura, Padova

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro; Daniela Patroncini, Reggio Emilia impaginazione Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Pea Maccioni, Lecce abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org


editoriale

di Anna Guerrieri

Silenzio Questo editoriale doveva parlare di etica e adozione. Era questo l’argomento che volevo provare ad affrontare. Arduo e difficile per chi, come me, è soltanto una madre e non qualcuno che lavora sul campo con le adozioni o con i minori o con le associazioni per i diritti umani. In tutta umiltà, quindi, avevo letto, nel tempo, articoli e lavori, avevo raccolto esperienze e riflessioni e volevo avviare un dialogo con voi lettori per confrontarci sul perché talvolta le adozioni internazionali finiscono per intersecare zone oscure che non garantiscono i bambini e le bambine coinvolti e che travolgono le loro famiglie di origine e adottive. Da sempre interessata alle azioni positive, perché una denuncia senza via d’uscita è spesso solo distruttiva, desideravo anche provare a descrivere quali strade concretamente e semplicemente venissero suggerite da chi certi contesti aveva investigato per tentare di minimizzare prassi opache e rischiose nell’ambito dell’adozione internazionale. Poi l’11 marzo, una catastrofe ha sconvolto un intero paese, molto lontano e molto differente dall’Italia. Un paese ricco di storia, di tradizioni, di passato, un paese segreto, da percepire poco a poco, da assaporare piuttosto che guardare, difficile da decrittare. Un paese dalle infrastrutture solide ed efficienti. Un paese che ci ha pervaso con la sua cultura e la sua anima senza che noi a volte ce ne rendessimo conto appieno, il Giappone. Da persona che sa cosa voglia dire trovarsi all’improvviso nell’incubo provocato da un terremoto e che può, in parte, comprendere l’ombra calata su persone travolte da un cataclisma così immenso, penso che sia più onesto per me lasciare questa pagina bianca. È il mio piccolo (forse poco utile) tributo a chi è nel dolore in questo istante.


Ora è importante il silenzio.


polvere di jana

© anna ester davini

Jana in Ucraina 6

Un vestito nero questa volta, per scivolare veloce nella notte fino ad arrivare ad uno dei tanti portali nascosti che servono alle fate. Devo dire che il vestito mi dona particolarmente, è leggero, formato da strati sottili di una stoffa tessuta dalle mie sorelle che hanno catturato per me il colore da una notte d’estate, è impregnato dalle note calde di un profumo che sa di fiori d’arancio e bacche di mirto. Il portale mi serve per viaggiare lontano senza ricorrere ad una magia personale che mi farebbe consumare troppa energia vitale. Dietro ad un cespuglio fitto e spinoso di ginestra, sotto l’entrata camuffata di una domus de Janas, c’è il passaggio segreto agli occhi degli uomini. Lo infilo, faccio qualche passo e sbuco dall’altra parte. Una folata di

vento gelato mi fa volare i capelli e mi appiccica il vestito alle gambe, comunque non ho freddo mentre cammino sulla neve un po’ sporca e ghiacciata. C’è un chiosco piccolo, dietro alla finestrella s’intravede una persona probabilmente addormentata. Non mi vede, comunque, per sicurezza, le getto sopra un incantesimo di protezione totale. C’è buio, ma davanti a me si vede benissimo: c’è un lungo palazzo di mattoncini rossi, ha delle grandi vetrate che danno sulla strada. A sinistra c’è un cancello un po’ arrugginito, passo attraverso senza sforzo e percorro un vialetto che dopo qualche metro svolta a destra, su un cortile con qualche albero infreddolito, in basso qualche gioco di ferro e plastica, la vernice scrostata e i colori lavati dal tempo.

Il ghiaccio crocchia quando lo calpesto e quasi mi diverto. Sulla facciata sul retro dell’edificio c’è una scala esterna, qualche gradino ed entro in un piccolo atrio con un lungo corridoio. Mi aggredisce un odore acre di cipolla, mischiato allo stantio di grasso cotto. Salgo al primo piano ed entro in uno stanzone foderato di finto legno. Ai lati ci sono mobiletti colmi di giochetti strausati, piccoli banchi e sediette allineate. Qualche libro sugli scaffali e sotto un vecchio televisore spento. L’odore diventa più forte, quasi scaldato dal tepore dei termosifoni. Arriccio il naso. Sto inconsciamente allungando la strada, pregustando “l’incontro” da un lato e quasi temendolo dall’altro, forse ho paura di rimanere impigliata nelle trame dei sogni dei


bambini che raggiungerò. Sento dalla camera vicina qualche lieve rumore: il respiro come se fosse unico, di venti o più bambini. C’è quasi un ritmo, una musica, qualche miagolio che mi invita. Impossibile sottrarsi ai miagolii. I lettini hanno le sbarre, s’intravedono mani e piedi che scivolano fuori. A questo punto dovrei fare l’incantesimo che mi riesce meglio: polvere d’oro fata-

che mi è concesso e voglio sfiorare e confortare. Voglio lasciare l’impronta del mio passaggio, quella che scalda il cuore a chi deve aspettare, a chi non sa che deve aspettare. Mi avvicino, quasi non respiro mentre entro nel sonno dei bambini. Stanislav, Olga, Ania, Serghej, Nikola, Dana, Sasha, Denis, Anastasiy, Anatoliy, Andrey, Marina, Pavel, Svetlana, Aalina, Irina,

Alina stringe al petto un paio di scarpette rosa ta gettata leggera e dolce sugli occhi e sui capelli dei bimbi, devo unire per sempre persone lontane. Voglio che tutti questi piccoli abbiano presto una mamma, un papà, qualche fratello, dei nonni. Anche famiglia allargata? Chissà! Infilo le dita nel sacchetto della polvere, la sento impalpabile, fresca, pronta all’uso. Invece m’incanto, come sempre, come ogni volta, mi perdo e mi confondo, quasi in adorazione del privilegio

Liliana, Tamara sono un gruppo. Più in là, in altre stanze, ci sono altri gruppi, sono divisi per età, li sento tutti. Serghej sogna di trovare un pezzo di carne morbida in fondo al suo piatto, apre la bocca e deglutisce. Andrey muove le gambe, sta pedalando seduto su una bici nuova, tutta rossa. I bambini lo guardano e lui ride. Tamara sogna di guardarsi allo specchio, quello piccolo, filato, che sta dietro la porta

Anna Ester Davini coporedattore

del bagno delle maestre. Ha il naso staccato dalle labbra che sono a cuore, bellissime adesso, senza quell’orribile taglio che la fa prendere in giro dalle amiche. Due mani gentili dividono i capelli di Ania, mentre una voce dolce canta: pettina-pettina capelli d’oro. Nikola non ha paura di far pipì nel letto. Aalina stringe al petto un paio di scarpette rosa. Muovo le dita e prendo un pizzico di polvere d’oro, lo poggio sul palmo della mano e soffio. La polvere vola e in un attimo invade lo spazio intorno a me. Si ferma su Stanislav, Olga, Ania, Serghej, Nikola, Dana, Sasha, Denis, Anastasiy, Anatoliy, Andrey, Marina, Pavel, Svetlana, Aalina, Irina, Liliana, Tamara. L’incantesimo è iniziato e posso andarmene sicura che presto i desideri saranno esauditi, questi bambini avranno dalla vita quello che ancora non sanno di volere. Mi avvolgo su una striscia del vestito, sento freddo come ogni volta che me ne vado.

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le relazioni degli affetti 8

Michele Augurio sociologo

L’adulto positivo

In una società così globalizzata, fatta di comunicazione mediatica, ove sempre più si sta polverizzando il mondo relazionale interno, la genitorialità, che ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel processo educativo relazionale, viene rivestita di maggiore responsabilità e di più pregnante funzione nella costruzione dei legami familiari. Fermarsi a riflettere sul senso che, oggi, questo ruolo “guida” viene ad assumere è importante, poiché è dalla centralità “dell’adulto positivo” che partono i segnali ed i contenuti che permetteranno poi ai figli di costruirsi nel futuro come “altro adulto positivo”. La rappresentazione di una funzione così delicata e complessa spiega come non sia possibile confinare la genitorialità solo

nell’evento biologico della nascita, ma come essa sia alla base di significativi cambiamenti individuali e relazionali, in qualsiasi contesto e con qualsiasi formula venga a comporsi il nucleo familiare. La funzione guida, che l’adulto rappresenta attraverso la genitorialità, incorpora in sé sia aspetti individuali, relativi alla nostra idea (in parte conscia e in parte inconscia) di come un genitore deve essere, che aspetti di coppia, ossia della modalità relazionale che i partner condividono nell’assolvere questo specifico compito. Non si realizza la genitorialità solo nell’evento della nascita; tale realizzazione perdura nel tempo e avviene attraverso la capacità dell’adulto di saper gestire i significativi cambiamenti emotivi, relazionali che saranno presenti

e in continua evoluzione lungo tutto il ciclo vitale. Non si è genitori sempre allo stesso modo, poiché sarà necessario assolvere impegni differenti ed utilizzare modalità educative ed interattive diverse a seconda dell’età dei propri figli. Tutto ciò implica, quindi, la capacità dinamica di “rivisitare” continuamente il proprio stile educativo, affrontando in modo funzionale i cambiamenti che la vita può portare. È facile comprendere come la transizione alla genitorialità costituisca una fase normativa nel ciclo vitale degli individui e come l’ingresso di un nuovo membro modifichi ampiamente le relazioni nell’ambito della famiglia nucleare e allargata, comportando, quindi, l’inizio di una nuova storia generazionale. La nascita o l’ingresso di un bambino segna la tran-


sizione da coppia di coniugi a triade familiare e sarà la riuscita o il fallimento di questo passaggio a condizionare fortemente (non necessariamente per sempre) l’evoluzione del ruolo di genitore. Diviene così importante avere presente alcuni compiti, quali: La creazione di uno spazio sia fisico che “psichico” per il bambino, attraverso la modificazione del sistema

senso affettivo che normativo. Stabilire solidi ma permeabili confini dentro e fuori la coppia, di modo che la relazione adulto/bambino, oppure l’invasione della famiglia allargata, non vada ad inficiare la relazione adulto/adulto, mettendo a rischio l’unione familiare. Capacità di modulare nella crescita del figlio concessioni ed impostazioni educative sulla base delle sue

deve essere espresso nella quotidianità delle nostre azioni e dei nostri atteggiamenti nei confronti del figlio. La nostra presenza di adulti, nei confronti di un bambino, non è solo presenza di attenzione, ma di protezione, di interscambio emozionale attraverso gli eventi che sono alla base dello sviluppo emotivo del figlio. La presenza richiede ca9

familiare e la creazione di rapporti relazionali ed affettivi, non solo basati sullo scambio tra due ma su una “triade” familiare. L’assunzione di responsabilità attraverso la presa in cura del bambino, sia in

necessità di separazione/ individuazione. Il bisogno di trasmettere affetto è insito nella natura umana; ciò che spesso si dimentica è che tale bisogno non si ferma ma perdura nel tempo e, quindi,

pacità di “ascolto” da parte dell’adulto; di un ascolto non superficiale, ma empatico e pieno di emotività. Solo attraverso uno scambio continuo di emozioni permetteremo ai figli di crescere in modo armonico.


psicologia e adozione

Monica Arcadu psicologa

Da due a tre... La valigia dell’adozione

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Prima di partire per un lungo viaggio ci sono tante cose a cui pensare. Ci accompagnano l’entusiasmo e l’energia, ma anche i timori e le preoccupazioni. Non è mai facile scegliere cosa mettere in valigia, pensare a quello che potrà servire e a quello che sarà superfluo. Quando non sai quanto il viaggio durerà, quali saranno le condizioni climatiche e dove questo viaggio ti porterà tutto diventa ancora più complicato. Per cominciare a riempire la valigia dell’adozione è necessario che il dolore che ha preceduto questa scelta abbia fatto il suo corso e sia stato elaborato, altrimenti come una tempesta emotiva potrebbe scoppiare in volo. L’adozione non può essere una scelta di ripiego, ma deve essere una scelta convinta di genitorialità.

Una volta presa la decisione di partire sembra inaccettabile che si possano incontrare degli ostacoli sul cammino, si vuole soltanto raggiungere la meta. Il primo passo da fare è trasformare quegli “ostacoli” in “occasioni”, opportunità e momenti in cui fermarsi a riflettere, approfondire ed interrogarsi. Assistenti sociali, psicologi, giudici, tribunali, enti autorizzati, ad ogni passo c’è una tappa in cui sostare e il miraggio dell’arrivo si fa sempre più distante. I dubbi aumentano, le certezze diminuiscono e ci si sente sempre più in balia delle decisioni di “altri”. Cosa bisogna sapere? Cosa bisogna rispondere? Tutti dicono la loro: una scelta coraggiosa, un’opera buona, un azzardo, un rischio, un’avventura. Ognuno ha una sua idea e una sua spiegazione della

macchina dell’adozione, ma come stanno veramente le cose? Sembra di essere in un mare infinito, dove si possono pescare informazioni rassicuranti, ma anche altre che disorientano e spaventano. Ci si sente persi all’inizio. La zattera naufraga da una parte all’altra, ma di terra ferma nessuna traccia. La prima fase ha una durata indeterminata e mette davanti a molti dubbi sulla volontà di continuare oppure no, sulle proprie capacità e sulle proprie risorse. Questa fase è la più importante perché allena una capacità fondamentale per l’incontro adottivo: la capacità di tollerare l’incertezza ed accettare la complessità, dal momento che il bambino le porterà inevitabilmente con sé e bisognerà saperci convivere. Le storie che si incontrano sono sconosciute, sono storie domina-


© diana giallonardo

te dall’indeterminatezza: quelle dei bambini per i genitori e quelle dei genitori per i bambini. Il viaggio adottivo non prevede un villaggio vacanze all inclusive con tutti gli optional a disposizione,

rarsi. Si legge qualche guida specialistica e si fa un po’ di allenamento. Non è detto che le cose debbano per forza andare storte, ma come dice il Piccolo Principe “non si sa mai” e quindi è meglio essere preparati.

L’adozione non può essere una scelta di ripiego, deve essere una scelta convinta di genitorialità ma è piuttosto un viaggio di scoperta, al di fuori dei circuiti turistici tradizionali. Non è un viaggio per “viaggiare”, è un viaggio da “vivere”, dove c’è da camminare, spesso anche in salita. Quando si sceglie un percorso di questo tipo, si sa, è necessario prepa-

Accogliere un figlio adottivo richiede doti genitoriali “speciali”. Il bambino richiederà cure e spiegazioni uniche e porrà domande diverse da quelle di qualsiasi altro bambino. Un figlio adottivo è stato concepito e partorito altrove, in un posto dove l’assenza di

risorse genitoriali ha permesso la possibilità di una nuova presenza: quella dei genitori adottivi. Perché questo terreno sia fertile è necessario superare una tappa importante del viaggio: la tappa dei pregiudizi. Tutti noi siamo condizionati dal nostro modo di vedere la realtà e spesso trasmettiamo i nostri pregiudizi a chi ci sta davanti, anche se crediamo di non averne o di riuscire a nasconderli. Accogliere un bambino vuol dire accogliere tutto quello che porta dentro di sé, compresi i suoi genitori naturali. Non si può cominciare questo viaggio se si parte dal presupposto che noi siamo i “buoni” e chi abbandona sono i “cattivi”. Chi non riesce a prendersi cura del proprio figlio è semplicemente una persona che, nella sua storia, non ha avuto la possibilità di sviluppare

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queste risorse e ha capacità diverse da quelle di un genitore. Questo passaggio è fondamentale perché permetterà di trasmettere al bambino il messaggio che i suoi genitori biologici non sono né vittime né eroi e nemmeno persone crudeli, ma semplicemente delle persone che non erano in grado di fare i genitori; questa comunicazione potrà inoltre rinforzare l’equilibrio relazionale fra

genitore e figlio adottivo. “Chi ben comincia è a metà dell’opera” dice il proverbio e incominciare bene il viaggio adottivo è sicuramente un fattore protettivo che accompagnerà i genitori per il resto del cammino. La valigia è aperta sul letto: togliamo i pregiudizi, le aspettative irrealistiche, le idealizzazioni e la rigidità. La riempiamo con l’apertura, la flessibilità, la disponibilità e la voglia di

mettersi in gioco. Non chiudiamola, meglio lasciarla aperta per prendere quello che ci serve all’occorrenza e per infilarci tutto quello che di prezioso arriverà lungo la strada. «Le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita». (Jack Kerouac)


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Non è un viaggio per “viaggiare”, è un viaggio da “vivere”, dove c’è da camminare, spesso anche in salita


pedagogia in azione

Monica Nobile psicopedagogista

La ricetta del benessere 14

Gianfranco Zavalloni, insegnante prima e poi dirigente scolastico, è l’autore del bel libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola len-

ta e non violenta. Spiega Zavalloni che l’idea di scrivere questo libro è nata dopo aver parlato con la madre di una ragazzina.

Raccontando dell’esperienza scolastica che stava vivendo la figlia, da pochi mesi in prima media, la signora riportò una sua riflessione: «Mamma, gli insegnanti ci dicono sempre che dobbiamo sbrigarci, che non possiamo perdere tempo perché dobbiamo andare avanti. Ma mamma, dove dobbiamo andare? Avanti dove?». Zavalloni spiega che da quel momento ha iniziato a porsi delle domande: «Dobbiamo davvero correre a scuola? Siamo sicuri che questa sia la strategia migliore? Dobbiamo per forza assecondare una società che c’impone la fretta a tutti i costi?». Il racconto di Zavalloni mi riporta alla memoria un’altra bimba, adottata in Etiopia, che chiese a sua madre: «Mamma ma perché in Italia siete sempre in ritardo?». Con la genuinità e la semplicità dell’infanzia queste


bambine ci ricordano il loro tempo che sempre più rischia di discostarsi dal tempo che il mondo adulto impone. Emblematica, in questo senso, è la definizione di allievi “anticipatari”, che vanno a scuola in anticipo, “per non far perdere loro un anno” si dice. Si tratta di una questione profonda, ben al di là delle strategie di apprendimento/insegnamento. La questione riguarda la scelta, in termini educativi, se sia o meno un buon investimento quello del perdere tempo a costruire relazioni significative e profonde, a coltivare la curiosità, a promuovere la creatività. C’è da chiedersi quanto tempo sia giusto investire per costruire benessere, per preparare un buon terreno su cui i bambini possano affondare le radici e crescere. Le responsabilità sono di tutti, inutile accusare la scuola, controproducente colpevolizzare i genitori; è la comunità educante che deve interrogarsi e rispondersi, in termini ideali e culturali, sul tempo da spendere senza pretesa di risultati concreti immediati. Il tempo è questione particolarmente scottante per i bambini adottati. Sono bambini che hanno vissuto un prima e un dopo, e che hanno vissuto tutti in termini traumatici il passaggio da una storia precedente ad una storia successiva. Sono

bambini che generalmente non sono stati cullati, non hanno sperimentato il ritmo, il tempo dell’allattamento, della cura, del bisogno e della risposta al bisogno. Non a caso i bambini adottati, in molti casi, faticano a destreggiarsi con gli orologi, i calendari, le agende; spesso cominciano a incontrare problemi scolastici in terza elementare, quando per studiare anche in termini astratti, la storia e la geografia, è necessario aver consolidato un’organizzazione spazio-temporale. Hanno, i bambini adottati, particolare bisogno e necessità, di sperimentare concretamente un ritmo che nella loro storia passata non hanno potuto interiorizzare. Perché possa avvenire una riparazione, un recupero del tempo che è stato loro negato, occorre che gli adulti in relazione con loro abbiano la pazienza, la calma, la disponibilità necessarie. La prestazione è schiacciante, per tutti i bambini. Compilare schede prestampate, rispondere ai quiz, gareggiare in tabelline, trascorrere i pomeriggi da un appuntamento all’altro nega il gusto dell’assaporare. Un’esperienza importante può essere quella di trascorrere del tempo con i bambini in cucina. Cucinare insegna che ci vuole un tempo per tutto; perché gli spaghetti non siano né duri

né collosi, perché la pasta lieviti e formi una bella palla gonfia, perché il gateau di patate formi una bella crosticina dorata. Ai bambini piace cucinare; è un’esperienza creativa che consente loro di imparare a maneggiare con proprietà gli attrezzi, perché possono vedere la trasformazione degli alimenti, da crudi a cotti, perché possono sperimentare in prima persona il processo attraverso cui si arriva alle pietanze che poi loro trovano in tavola. Cucinare insieme ai bambini è divertente. Loro possono sentirsi importanti, con l’aiuto dell’adulto possono imparare a maneggiare il coltello, ad accendere il fuoco, a stendere la sfoglia con il mattarello, a impastare acqua e farina, a svolgere con gradualità operazioni via via più complesse. L’adulto può provare il gusto e il piacere di accompagnarli alla scoperta di gusti, sapori, odori, trasformando un’operazione quotidiana spesso noiosa in un viaggio avvenuturoso. In cucina si vive il tempo con soddisfazione; chi fa con calma, chi ha pazienza, viene premiato: la ricetta riesce, il cibo è buono. I bambini imparano che la lentezza è un valore, non un difetto, gli adulti ricordano che le cose buone richiedono pazienza e rispetto dei tempi.

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le relazioni sociale degli e legale affetti 16

Una storia vietnamita

tenti e all’opinione pubblica quello che era accaduto ad alcune famiglie Ruc, una minoranza etnica che abitava nella provincia vietnamita di Quang Bình, una zona montuosa al confine con il Laos. Larsen, un antropologo danese che, a causa del suo lavoro, aveva frequentato per anni quell’area ed era in confidenza con la comunità Ruc, raccolse un giorno le confidenze di una di loro. Secondo il racconto di questa mamma, alcuni funzionari locali del centro di accoglienza per bambini di Dông Hòi (100 km. di distanza), il capoluogo della provincia, erano andati a trovarli insieme alle autorità comunali offrendo loro aiuto per i bambini. Dopo Con queste terribili parole alcune visite, diverse fainizia uno degli articoli con miglie si fecero convincere, cui Peter Bille Larsen nel nei primi mesi del 2006, 2008 iniziò una campagna a mandare i propri figli al d’informazione per denun- centro di Dông Hòi. Quelli ciare alle autorità compe- che però avrebbero dovuto «Immaginate, per un momento, di essere stati colpiti dalla povertà causata dalla crisi finanziaria in corso o dal mancato raccolto e accettiate un’offerta fatta da funzionari locali affinché vostro figlio sia accudito temporaneamente in un centro di assistenza per bambini fino a quando la vostra situazione economica non sarà migliorata. Ora immaginate di andare a trovare i vostri figli, solo per essere informati che sono stati inviati all’estero per adozione internazionale e il funzionario del centro vi spiega che la vostra casa era troppo lontana per avvisarvi e tanto meno per chiedere la vostra opinione».

essere brevi soggiorni, finalizzati esclusivamente a fornire a quelle famiglie bisognose un aiuto temporaneo a tirar su i propri figli, si trasformò in qualcosa di molto diverso. La mamma racconta che quando era andata in città a trovare i suoi figli – a metà circa del 2006 – le era stato detto che i suoi bambini non erano più lì e che non era stata informata che i bambini stavano per essere adottati a causa dell’eccessiva distanza tra il centro e il villaggio. Era tornata a casa con una foto raffigurante quella che sembrava una cerimonia in cui i suoi figli venivano consegnati a degli stranieri. A quel punto i genitori accusarono il centro di accoglienza di averli truffati, di aver carpito la loro buona fede per sottrarre loro i figli. Solo diverso tempo dopo, quando le accuse dei genitori hanno avuto risal-


© paola di prima

to sui media locali, il centro, ormai sotto pressione, ha mostrato i documenti relativi alle adozioni – avvenute in Italia – e ha esibito le lettera manoscritta e firmate dai genitori con cui essi autorizzavano il centro stesso a dare in adozione i propri figli. Queste lettere che esprimevano un consenso formulato in maniera standard, una singola frase in cui si diceva che gli autori acconsentivano che i figli potessero essere adottati da genitori stranieri durante il loro soggiorno al centro e che gli stessi non avrebbero sporto querela contro l’adozione, sollevarono, chiaramente, le perplessità di Larsen e di altri osservatori. Come si può pensare che dei genitori analfabeti, persone che a malapena sapevano scarabocchiare la propria firma, abbiano scritto di loro pugno delle lettere con cui consegnava-

ve un contributo dalle organizzazioni per le adozioni internazionali in funzione dell’aiuto fornito. Questo conflitto di interessi è ulteriormente acuito dal coinvolgimento diretto dei centri di accoglienza nella ricerca proattiva di bambini, assumendo decisioni sull’adozione e facilitando l’incontro tra famiglie adottive e dossier specifici. Così le agenzie di adozioni registrate nel 2004 hanno fornito qualcosa come «Ciò può davvero indi- 620.000 USD a 40 centri in care un possibile conflit- 30 province, cifra che semto di interessi tra l’es- bra essere salita a 930.000 sere il manager di un nel 2005». centro di accoglienza, il cui fine è di restituire un Larsen osserva che esiste bambino alla sua fami- una contraddizione tra i glia, e un manager di un due documenti che corredacentro che riceve un con- no ogni fascicolo adottivo: tributo governativo per da una parte la lettera maogni bambino presente noscritta con cui il singolo al centro (in questo caso genitore approvava l’even150.000 VND al mese), tuale adozione, che è datacosì come a volte rice- ta con il solo anno (2005), no, di fatto, la vita ed il futuro dei propri figli al direttore del centro di accoglienza? Come non pensare a un coinvolgimento diretto di quest’ultimo nella stesura delle lettere, tutte simili, ed in tutto quello che da esse ne conseguì? La posizione del centro e del suo direttore, e di conseguenza di tutto il sistema adottivo vietnamita, viene analizzata e criticata da Larsen:

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dall’altra il documento, datato gennaio 2006, con cui l’autorità provinciale confermava l’accettazione dei bambini presso il centro provinciale di accoglienza e in cui non veniva fatto alcun cenno ad un’ipotesi di adozione mentre si faceva espresso riferimento al ritorno a casa del minore al venir meno dello stato di necessità della famiglia. Un altro aspetto dell’intera vicenda che ha suscitato forti perplessità è che diversi dei bambini Ruc riportano nei documenti adottivi date di nascita più recenti di quelle reali, diminuendone l’età anche di cinque anni. Secondo quanto riportato da Simon Parry dell’agenzia Red Door News in un articolo pubblicato recentemente: «Le famiglie pensano che le età siano state modificate per rendere i bambini più attraenti agli occhi dei genitori adottivi e per eludere un obbligo legale del Vietnam per i bambini di età superiore a nove anni che li costringe a firmare dei documenti per acconsentire all’adozione all’estero», e aggiunge: «Queste modifiche sono questioni menzionate in un rapporto della polizia pubblicato alla fine dello scorso anno come “irregolarità” e “errori” nel processo di adozione. Il rap-

porto ha concluso, tuttavia, che non vi era stata corruzione, anche se l’agenzia italiana che ha organizzato le adozioni ha pagato quasi 50.000 dollari alla casa dei bambini prima di chiudere il suo ufficio di Dòng Hòi».

cosiddetti “aiuti umanitari”, che sono spesso indistinguibili all’interno dei costi adottivi e aggiungono quantomeno mancanza di trasparenza, se non fungere da volano all’abbandono. Secondo il rapporto:

In effetti, diverse fonti riportano la notizia dei contributi economici corrisposti da un ente italiano al centro di Dông Hòi (49.000 dollari in tre anni). Nessuno però menziona che questa non è stata un’iniziativa dell’ente, ma un’attività inserita in tutti gli accordi bilaterali in quanto prevista dalle leggi vietnamite in materia di adozioni. Di certo questo non sembra essere il miglior modo di fare cooperazione con i paesi con cui si fanno adozioni internazionali, perché queste modalità si prestano ad incentivare abusi, se non un vero e proprio sistema che, anziché intervenire sulle cause dell’abbandono per prevenirlo, paradossalmente lo alimenta. Il Vietnam, ricordiamolo, aveva nel 2006 un reddito medio pro capite di soli 726 dollari e in cui più di un quinto del paese viveva in povertà, con meno di 200 dollari all’anno. Un rapporto del 2009, commissionato dall’Unicef al Servizio Sociale Internazionale, punta il dito sugli aiuti diretti agli istituti, i

«Sembra che ci possano essere anche potenziali incentivi finanziari per abbandonare o rinunciare a un figlio. L’indagine degli Stati Uniti, per esempio, ha stabilito che il 75% dei genitori biologici che sono stati intervistati da un funzionario consolare [...] ha ricevuto somme dall’orfanotrofio. [...]. Molte di queste famiglie hanno riferito che questi pagamenti sono stati il motivo principale per cui hanno collocato i loro bambini in un orfanotrofio». Questo a dispetto di quanto previsto dalla legislazione sociale vietnamita che avrebbe dovuto privilegiare l’aiuto all’interno delle comunità di appartenenza e non, invece, favorire l’istituzionalizzazione indiscriminata dei bambini. Secondo quanto riportato da Larsen nel suo articolo: «L’adozione deve essere l’ultima risorsa. Inoltre l’attuale legge di solidarietà sociale non fa riferimento specifico all’invio di bambi-


ni bisognosi appartenenti a minoranze etniche in centri di accoglienza. La legge, nei suoi articoli 6 e 7, parla di orfani, malati di mente, persone anziane sole e persone con disabilità grave. È anche previsto, dall’articolo 8, che per gli altri bambini che sono inviati volontariamente a tali centri da parte dei genitori sarebbe richiesto alle famiglie di sostenerne tutti i costi. Altri possibili beneficiari possono essere accettati con un aiuto sociale una-tantum motivato da calamità naturali o cause di forza maggiore come morte, fame e feriti. Eppure, si tratta di misure eccezionali, non pratiche regolari come nel caso di questi bambini © paola di prima

genitori vietnamiti hanno potuto finalmente vedere le foto dei loro figli insieme Il caso dei bambini Ruc, alle loro famiglie italiane. grazie ad una petizione fat- Secondo quanto riportato ta dalle famiglie alle autori- nell’articolo di Simon Partà e fatta pervenire ad alcu- ry, che ha intervistato due ni giornali, ha guadagnato mamme Ruc, una di esse le attenzioni delle autorità in occasione dell’incontro di e della stampa vietnami- novembre è venuta in posta, che gli sta dedicando sesso di un elenco che riporfrequenti articoli. L’inchie- ta i nomi e i recapiti delle sta della polizia ha stabi- famiglie italiane: lito irregolarità, ma non ha accertato alcuna truffa «Lei e Thu non sanno cosa nei procedimenti adottivi. sia. Riconoscono i nomi dei Il nuovo direttore del centro loro figli nella lista ma, esdi Dông Hòi ha presentato le sendo analfabete, non comsue scuse alle famiglie Ruc prendono di più. L’elenco, e ha indetto una riunione dice Hong, le è stato dato che si è svolta presso il cen- da un giovane funzionario tro a novembre dello scorso dopo la riunione di novemanno. In quell’occasione i bre, insieme ad altri docuappartenenti a minoranze etniche».

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devono coinvolgere il nostro modo di fare adozioni nel mondo e lo sforzo di trovare modalità sempre più rispettose dei diritti dei minori coinvolti e sempre meno intrusive nei confronti dei paesi da cui essi provengono. Dobbiamo però cercare di abbassare il livello di attenzione che si sta rivolgendo ai soggetti coinvolti in questa storia – soprattutto ai bambini – i cui nomi stanno ultimamente circolando indisturbati su internet. Loro, che hanno subito l’abbandono – vero o presunto che sia stato – e lo strappo Sotto i riflettori di un’opinio- di chi, soprattutto non più ne pubblica ormai attenta, piccino, viene proiettato sul caso è stata aperta una dall’altra parte del mondo nuova inchiesta da parte a costruirsi una nuova vita, delle autorità vietnamite e hanno diritto alla tutela a tutti, da noi semplici os- della privacy e a tutto il noservatori alla nostra Cai, stro rispetto. non resta che attenderne i risultati prima di poter ag- I brani tratti dagli articoli giungere altro a questa sto- citati sono stati riportati ria di cui tanto si è discusso. con il consenso dei Ben vengano le sacrosante rispettivi autori. riflessioni che questo episodio solleva, che possono e menti. Nel momento in cui ne entra in possesso, il suo significato diventa immediatamente chiaro. Sulla carta vi sono i nomi e gli indirizzi delle coppie italiane che hanno adottato i bambini – tutte quante. Hong possiede i mezzi per ristabilire un contatto con i suoi figli, e ricollegare ogni altra famiglia coinvolta. Lei non ricorda chi le ha dato l’elenco o perché. Forse era un funzionario simpatico che ha deciso che era la cosa giusta da fare. Forse è stato consegnato per errore».

Luigi Bulotta padre adottivo

Will the Ruc children come home? Revisiting the words of a Ruc mother, legal loopholes and Vietnamese social policy. Peter Bille Larsen, anthropologist, 10.5.2008 Will my child come home? Shedding light on the grey-zones of international adoption. Peter Bille Larsen, anthropologist, 14.10.2008 Pictures of hope Simon Parry, 20.2.2011 Red Door News, Hong Kong Adoption from Viet Nam Findings and recommendations of an assessment. International Social Service, 2009


sociale e legale

Intervista a Daniela Bacchetta, vicepresidente della Cai Quando siete venuti a conoscenza delle presunte irregolarità nelle adozioni dei bambini di etnia Ruc? All’incirca nel 2008, quando l’antropologo Bille Larsen ci ha inviato una lettera con la quale ci rappresentava alcuni casi di cui era venuto a conoscenza e per i quali, secondo i racconti da lui raccolti, era mancato il consenso all’adozione da parte dei genitori biologici. Lui all’epoca faceva riferimento solo a cinque bambini. Che tipo di verifiche avete fatto successivamente e a quali risultati hanno portato? È bene dire che di questi cinque casi a noi ne risultavano solo quattro, il quinto non risulta mai essere stato adottato in Italia. Abbiamo esaminato i loro fascicoli e abbiamo trovato tutto in ordine, nulla che potesse for-

nire un riscontro alle segna- effettuate da un punto di vista formale. Noi non ci lazioni di Larsen. saremmo potuti mai acconChe seguito ha avuto la storia? tentare di semplici lettere Successivamente, a fine manoscritte, le dichiarazio2010, l’interpol vietnamita ni delle famiglie a cui si rici ha indirizzato una richie- ferisce ci sono state fornite sta di informativa su tredici dalle autorità vietnamite casi di bambini vietnamiti corredate dalle loro validache comprendevano i quat- zioni che certificano che le tro segnalati da Larsen. stesse sono state rese in loro Abbiamo verificato anche presenza. Questo vale anche questi nuovi fascicoli e non per il resto della documenè emerso nulla di anomalo, tazione: tutto ufficiale e coni loro fascicoli risultavano fermato ai vari livelli, comunale, provinciale e centrale. impeccabili. C’è un’inchiesta vietnamita L’accertamento dello stato di in corso che accerterà evenabbandono è il requisito im- tuali responsabilità, se ve ne prescindibile per qualsiasi sono state. Noi, al momento, adozione: come possono rite- non possiamo dubitare di nersi “impeccabili” dei fasci- quanto ci è stato certificato coli che contengono lettere di dalle autorità di quel paese. consenso scritte a mano, senza data e firmate da genitori Pensa che ci siano altre aziobiologici analfabeti? Le sem- ni che avreste potuto intraprendere? bra verosimile? Quando parlo di impeccabi- No. Noi abbiamo svolto le velità mi riferisco a verifiche rifiche che ci competevano,

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ma la titolarità di eventuali indagini spetta al Vietnam. Abbiamo grande rispetto per la sovranità nazionale del Vietnam che ha aperto una nuova inchiesta sul caso. Siamo stati invitati da più parti a svolgere indagini direttamente in quel paese e criticati perché non lo abbiamo fatto, ma io mi chiedo e vi chiedo: noi avremmo mai permesso ad altri paesi di comportarsi così in Italia? Avremmo consentito ad un paese straniero di svolgere indagini nel nostro paese per fatti avvenuti in Italia? Credo proprio di no. La Cai ha contestato agli enti coinvolti le modalità con cui hanno operato in questa circostanza? Il comportamento degli enti italiani non è in discussione: hanno seguito un comportamento corretto. Lo sa che © paola di prima

quella di cui stiamo parlando è l’unico caso di contestazione su centinaia e centinaia di adozioni che abbiamo portato a termine con il Vietnam? Abbiamo appreso dalla stampa estera che un ente italiano (uno dei due enti italiani coinvolti nella vicenda n.d.r.) avrebbe effettuato donazioni all’istituto di Dông Hòi, da cui provengono i bambini le cui adozioni sono oggetto di contestazione, per complessivi 50.000 dollari. È normale che un ente italiano possa aver effettuato donazioni così cospicue ad un istituto con cui effettuava adozioni? Questo comportamento deve assimilarsi alla cooperazione? Chiariamo subito che tutti gli altri enti italiani e stranieri che hanno operato in Vietnam hanno dovuto, per

come prescriveva la legge vietnamita, accreditarsi in una o più province del Vietnam e stabilire degli accordi di collaborazione diretta con un istituto, accordi che dovevano prevedere anche aiuti economici all’istituto.Quindi non si tratta di un comportamento anomalo di un ente, come si potrebbe far pensare se si riporta questa notizia senza la precisazione che ho appena fatto, ma di una modalità adottata da tutti gli enti internazionali perché richiesta dal Vietnam. Non crede che per assicurarsi questo flusso costante di denaro qualcuno possa pensare di commettere irregolarità? È una pratica ancora in vigore in Vietnam? La pratica degli aiuti diretti agli istituti da parte degli enti è da anni oggetto di perplessità in ambito internazionale, per gli abusi che può generare. Nello specifico del Vietnam, l’argomento è stato trattato a fondo nel rapporto commissionato da Unicef al Servizio sociale internazionale. Con l’avvento della nuova legge vietnamita in materia adottiva, necessaria per potere aderire alla Convenzione dell’Aia (che difatti il Vietnam ha firmato nel dicembre 2010), le modalità di cooperazione umanitaria degli enti cambiano radicalmente.


E sul fronte delle famiglie adottive dei bambini vietnamiti? Sono state avvisate di ciò che sta accadendo? Secondo quanto riportato in un recente articolo di Simon Parry, un giornalista britannico che ha visitato quell’area, una delle madri biologiche è in possesso dell’elenco dei genitori adottivi italiani e dei loro recapiti. Non pensa che sia il caso di preparare i genitori adottivi alla possibilità di ricevere lettere o telefonate dal Vietnam? Questa è un’attività molto delicata, che viene curata dagli enti, in accordo con la Commissione, in modo tale da unire all’informazione il necessario sostegno in un passaggio così inaspettato. Ne approfitto per sottolineare che, sul coinvolgimento delle famiglie italiane, e soprattutto dei bambini, è importante che ci sia la massima prudenza e rispetto per la loro privacy. Ho letto anch’io che i nomi dei bambini stanno circolando, anche su internet, e vorrei che si evitasse di accendere troppo i riflettori su di loro.

Abbiamo tutti il dovere di proteggerli e auspicherei ci fosse sufficiente responsabilità da evitare di far circolare nomi. In questo senso ho già sollecitato le autorità vietnamite e gli stessi giornalisti che stanno trattando il caso. I bambini di cui stiamo parlando vivono ormai da anni nel loro nuovo ambiente e presumiamo che abbiano stabilito relazioni importanti sia con i genitori adottivi che all’interno delle comunità che li hanno accolti. Se l’inchiesta vietnamita accerterà l’esistenza di irregolarità, secondo lei, quale potrebbe essere una soluzione accettabile per tutti, bambini e famiglie? Le indagini vietnamite svolte finora non hanno accertato alcun abuso. Se la nuova inchiesta dovesse portare alla luce fatti nuovi, come l’assenza del consenso informato dei genitori biologici, eventuali decisioni saranno prese di comune accordo con le autorità vietnamite. Le decisioni che si adotteranno

Luigi Bulotta padre adottivo

dovranno però avere, come finalità principale, la tutela delle famiglie e soprattutto dei bambini. Il loro benessere deve essere il nostro obbiettivo primario. Come si può lavorare per garantire la correttezza delle adozioni internazionali? Cosa si può fare di più per raggiungere la ragionevole certezza che vanno nell’esclusivo interesse dei minori coinvolti? In tutto il mondo sta aumentando il numero di paesi che aderiscono alla Convenzione dell’Aia, noi possiamo affermare di essere uno dei paesi che accoglie bambini con età media sempre più alta (si veda l’ultimo rapporto della Cai sulle adozioni 2010, n.d.r.) e questo significa qualcosa sulla capacità di accoglienza degli italiani. Io sono ottimista perché vedo in tutto il mondo la determinazione a fare adozioni in maniera sempre più etica, vedo tutto un movimento in questa direzione.

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le relazioni giorno dopo degligiorno affetti 24

Silvia Piaggi mamma adottiva

Battaglie fuori e dentro casa

Noi in trincea… «Ah... questo è suo!». La signora incontrata sul tram sembra rassicurata sentendo mio figlio chiamarmi mamma. Lui è chiaro di pelle, ha gli occhi azzurri, nessun segno di diversità. È stato adottato a un mese di vita con l’adozione nazionale, è figlio dell’est Europa. La mia compagna di viaggio si ostina invece a scrutare curiosa la mia piccola con gli occhi a mandorla nel passeggino. E mi interroga con lo sguardo: «Ma quella pupetta non è certo sua invece!?!». Cerco di farle una lezione lunga quanto il tratto di rotaie tra una fermata e un’altra. Vorrei spiegarle che tutti e due sono miei, autenticamente miei, ma come tutti i figli non sono il possesso di nessun genitore. Avrà mai letto la signora Il Profeta di Gibran? Purtroppo, o forse per fortuna,

devo scendere alla fermata successiva e la discesa dal tram con i due pargoli e il passeggino è impresa titanica. Le sorrido, concludo sbrigativamente che sono i miei due figli, che li ho adottati entrambi (glielo dovevo precisare o no?), che sono una mamma felice (il finalino potevo proprio risparmiarmelo...). Scene di quotidiana e urbana ordinarietà. Anche se Milano è ormai una città multietnica, e tante sono le famiglie adottive, certe osservazioni e certi sguardi tradiscono la provincialità di molti. Se mi sono sempre schernita alla classica esclamazione «Che bravi!», quante volte ho provato invece – più spesso con scarso successo, ma poco importa – a smentire le false opinioni che circolano, ad esempio, sugli istituti italiani stracolmi di bambini in attesa delle tan-

te coppie che invece, malgrado le buone intenzioni, sono costrette ad andare all’estero per coronare il desiderio di un figlio… Spesso le persone non sanno, si fermano alla superficie delle cose; non solo, manifestano pensieri ed emozioni, anche davanti a bimbi più grandicelli, senza filtri, non valutando l’inopportunità di certe affermazioni. E noi genitori adottivi ci sentiamo sempre un po’ in prima linea, forse a volte vagamente minacciati nel nostro ruolo. «Ma come si è italianizzata!!!», mi diceva una persona convinta di farmi un gran bel complimento, passato un anno dall’arrivo della nostra piccola vietnamita… Se la prima reazione è stata quella di toglierle il saluto, come perdere l’opportunità di farle notare (in questo ho chiamato con uno sguardo in soccorso mio marito più luci-


© pea maccioni

insieme al papà il giorno prima. Mio nipote (parenti serpenti…) improvvisamente lo interrompe: «Beh, tuo papà… Zio non è il tuo papà vero, sei stato adottato no?!?». E per fortuna i due cugini hanno un ottimo rapporto… Mia cognata vorrebbe sprofondare. Mio figlio non reagisce, ammutolendo. La zia gli corre in soccorso: cerca di spiegare, sgrida il figlio, rischia l’incidente in auto. Poi il mio bambino, con un’abile mossa, fa scivolare il discorso su altro e la lezione di nuoto annega tutti i brutti pensieri. Alla sera è lei a riferirmi l’episodio: è costernata, ma anche un po’ stupita del si… e loro in prima linea È un venerdì pomeriggio lenzio imbarazzato di mio fid’inverno. Mia cognata cari- glio. Io sono dispiaciuta più ca di corsa in auto i suoi due di lei. Aspetto il momento figli insieme al mio per an- adatto e opto per la terapia dare in piscina. Lui è allegro d’urto: «Amore, cos’è succese particolarmente – strano! so ieri con tuo cugino? Zia mi – ciarliero. Inizia a raccon- ha raccontato qualcosa». Lui tare qualcosa che ha fatto mi gira le spalle e mi raccondo e razionale) l’importanza dell’identità e delle radici per ciascuno di noi? Il tema adozione si aggancia nel quotidiano a mille altri temi, forse un po’ scomodi in una società che, malgrado le intenzioni dichiarate, tende nella prassi a omologare, ad assimilare tutto al già noto e conosciuto, a nutrire timore se non paura per il diverso. Io, con il tempo, mi sono corazzata, consapevole che anche le frasi più infelici possono darci l’occasione per rafforzarci come genitori, fornirci spunti per non lasciare mai cadere il discorso delle origini con i nostri figli.

ta l’accaduto. Io lo incalzo: «E perché tu non hai detto niente?». «Mamma – risponde – io lo so cos’è l’adozione, ma non la so spiegare!». La sua logica ti inchioda: è difficile per un adulto trovare le parole giuste, figuriamoci per un bambino di sette anni… Provo a proporre: «Al prossimo pranzo con i cugini rileggeremo la nostra storia, la tua o forse quella di tua sorella, così loro possono fare tutte le domande che vogliono, mamma e papà possono aiutarti a rispondere». Dentro di lui chissà cosa si sta muovendo, le emozioni si scontrano. Dice: «Va bene», ma non so quanto sia convinto. Il gioco di squadra per fortuna gli piace, insieme la battaglia si può vincere. E lui si abitua a lottare, perché in prima linea deve imparare a starci, con tutte le armi che, un passo alla volta, può sfoderare.

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le relazioni degli leggendo affetti

Marina Zulian BarchettaBlu

Se io fossi te

la relazione e i rapporti interpersonali 26

Ci sono molti libri che parlano di rapporti interpersonali poiché la relazione con l’altro è una dimensione costitutiva della vita umana; qualsiasi attività in cui bambini o adulti sono coinvolti con altri contiene anche un aspetto relazionale. Nella quotidianità, nella vita di tutti i giorni, ogni bambino è coinvolto in molteplici contesti relazionali: con i genitori, con i fratelli, con i familiari, con i compagni di scuola e di gioco. Ogni relazione umana sottintende una comunicazione nella quale ciascuno fa vedere qualcosa di sé; Le relazioni interpersonali significative che il bambino instaura con le figure che popolano il suo mondo, cioè gli adulti di riferimento e gli altri bambini, sono fondamentali nella strutturazione della fiducia in sé e nell’altro.

testimone d’eccezione: l’albero. L’albero accoglie prima il bambino, poi l’adulto e infine il vecchio in ogni momento della crescita e rappresenta l’amore incondizionato e la capacità di accettare l’altro in qualsiasi fase della vita. «C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni. Raccoglieva le foglie con le quali intrecciava corone per giocare al re della foresta. Si arrampicava sul tronco dell’albero e si dondolava attaccato ai rami. Ne manUn piccolo libro specia- giava i frutti e poi, insiele, parabola della vita dal me, albero e bambino giosuo inizio al suo sfiorire, cavano a nascondino. che prende in considera- Quando era stanco, il zione la bellezza e la com- bambino si addormentava plessità delle relazioni fra all’ombra dell’albero, mendue soggetti che crescono tre le fronde gli cantavano e cambiano, è L’albero di la ninna-nanna. Il bambino amava l’albero con S. Silverstein. La vita, l’amicizia, l’amo- tutto il suo piccolo cuore. re, la morte hanno tutti un E l’albero era felice. Nel bambino la fiducia in sé e nell’altro si sviluppa nei primissimi anni di vita attraverso le relazioni primarie che egli instaura con i genitori. In seguito, la fiducia si plasma grazie anche alle relazioni che instaura con altre figure adulte di riferimento, insegnanti ed educatori ad esempio, e con i pari. Per il bambino, e poi per l’adulto, avere fiducia significa sapere che le persone rispettano gli impegni e che sugli altri, oltre che su di sé, si può contare.


Ma il tempo passò e il bambino crebbe...». Questo è solo l’inizio, ma ci fa già capire come siano veramente felici e fortunate quelle persone che possono donare tutte se stesse per far felici gli altri. Persone che non chiedono mai nulla, ma donano sempre, gratuitamente e forse senza mai essere ringraziate. … come una mamma o un papà con il loro bambino. Nato come libro per bambini, L’albero è diventato un cult soprattutto tra gli adulti: la storia d’amore tra un essere umano che attraversa le stagioni della vita perdendo progressivamente la spontaneità e la capacità di amare disinteressatamente e un albero, radicato, immutabile, felice nel rendere felice l’altro. L’albero si innamora del bambino. Il bambino si innamora dell’albero. Il

bambino cresce, diventa sempre più esigente. L’albero invece è sempre lì, immutabile e disponibile. Felicità, tristezza, amore avrebbero potuto essere sentimenti vissuti allo stesso modo da un uomo e da un albero. Ma gli equilibri a volte sono difficili e l’amore incondizionato, la capacità di donare e di accettare l’altro in qualsiasi fase della vita sono prerogative di pochi. La prima volta che ho letto questo libro ho pensato immediatamente a mio papà: un papà forte e sincero, un papà paziente e disponibile, un papà che ha rappresentato sempre un faro, un punto di riferimento, un pozzo a cui attingere consigli e suggerimenti. Anche ora che il mio papà non c’è più, lo immagino trasformato in un albero, che gioca ancora con i suoi amati bambini.

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Bibliografia Kimura Yuuichi, In una notte di temporale, Salani, 1998. L. Dal Cin, Ranocchi nel fango, Fatatrac, 2008. P. Valdivia, Quelli di sopra e quelli di sotto, Kalandraka, 2009. E. Battut, Oh, che uovo!, Bohem, 2005.

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M. Letèn, Un uomo strano, Il castoro, 2005. R. Hamilton, B. Cole, Se io fossi te, Il castoro, 2009. L. Salemi, Fratelli per forza, Edizioni EL, 2001. Dr. Seuss, La battaglia del burro, Giunti Junior, 2002.

K. Cave, C. Riddell, Qualcos’Altro, Mondadori, 2002.

B. Friot, S. Bonanni, Il mio mondo a testa in giù, Il castoro, 2008.

In una notte di temporale, una piccola capretta bianca vaga nell’oscurità. Senza pensarci un attimo si rifugia in una capanna abbandonata sul pendio di una collina. Si accomoda in un angolo a riposare ascoltando il picchiettare della pioggia sul tetto. Ma ansimando qualcun’altro entra nella capanna. La capretta non capisce che il suo compagno di sventura è un lupo goloso di carne di capra, e il lupo non si accorge che la sua compagna è una succulenta capretta. Grazie a questo equivoco, il lupo e la capretta iniziano a parlare, scoprendo così di avere molte cose in comune:

l’amore per le colline verdeggianti, la passione per il buon cibo, ma soprattutto la stessa identica paura dei temporali! Fra lampi e tuoni si confidano ricordi, abitudini, desideri e scoprono di assomigliarsi e di avere le medesime reazioni. A causa dell’infuriare del temporale, dello scrosciare della pioggia e soprattutto dell’oscurità della capanna, nessuno dei due si rende bene conto della situazione. L’oscurità non permette loro di vedersi ed il raffreddore non consente loro di annusarsi reciprocamente. In una notte di temporale è un delicato e profondo racconto sulla diversità,

B. Pitzorno, L. Terranera, L’isola degli smemorati, Unicef, 2003. S. Silverstein, L’albero, Salani Editore, 2000. A. Cousseau, Io, Manola e l’iguana, Il castoro, 2009. B. Masini, R. Piumini, Ciao, tu, Rizzoli, 1998.

sull’amicizia e sui pregiudizi che spesso accompagnano i rapporti con gli altri. I due protagonisti pensavano di trascorrere una pessima serata ed invece scoprono che una brutta situazione può trasformarsi grazie alla condivisione con l’altro. Il breve racconto illustrato richiede ai lettori grandi e piccini di immedesimarsi nei due protagonisti, raccontati in modo non stereotipato e non legato al loro ruolo tradizionale. Mettendosi nei panni della capretta e del lupo si impara a guardare la realtà e gli altri dai diversi punti di vista.


Una buffa e sorprendente storia in rima per scoprire le gioie e le fatiche dell’essere piccoli e dell’essere grandi è Se io fossi te, di R. Hamilton. Un papà e una bambina giocano a scambiarsi i ruoli. La sera, al momento di andare a letto, Giulia è sveglissima, mentre il suo babbo sbadigliando dice: «Se io fossi te, mi rannicchierei tutto e mi addormenterei». E Giulia risponde: «Ma tu non sei me». Comincia così un simpatico gioco dove entrambi si divertono a mettersi nei panni dell’altro e immaginano che gusto ci sarebbe a portare in giro il papà in passeggino, a mettergli sempre il tutù, a dargli sempre la pappa e mai il gelato. In questa sorprendente storia gli esiti sono imprevedibili! Il racconto è pieno di ritmo e di sorprese surreali. Durante la lettura, ogni papà con il proprio figlioletto di 4-5 anni può far nascere un divertente gioco che scatena a poco a poco la fantasia e l’imma-

ginazione di entrambi, in uno spassoso scambio di ruoli familiari, alternando storia letta e momenti di vita quotidiana. Raffinato e originale è invece il libro Quelli di sopra e quelli di sotto, dell’editore Kalandraka, da poco entrato nel mercato editoriale italiano dopo i successi in Spagna. Storie che pescano dalla tradizione o che si distinguono per l’originalità: viene dal Cile l’autrice di questo bell’albo, capace di insegnare ai bambini a guardare il mondo con occhi diversi. Esistono due tipi di abitanti. Quelli di sopra e quelli di sotto. Quelli di sopra vivono come quelli di sotto. E quelli di sotto come quelli di sopra, però al contrario. Quest’albo spicca per la semplicità e l’originalità della sua proposta narrativa ed estetica. Propone la concezione del mondo alla rovescia, una sorte di riflesso della realtà in una dimensione parallela. Invece d’immaginare dei

modi di vita diversi oppure antagonisti, l’impostazione del racconto presenta due mondi con abitudini addirittura complementari. L’unica differenza fra di loro è che gli avvenimenti succedono in piani opposti. Se si potessero ribaltare questi due mondi sarebbero esattamente coordinati. Le illustrazioni ci presentano un originale vicinato, dei personaggi dalle forme basiche, delle scene simmetriche e dei colori morbidi e caldi. La linea dell’equatore divide il mondo in due metà: una sta sopra, l’altra sotto. È una linea immaginaria, una convenzione che gli uomini adottano per dividere la terra in due emisferi; quegli stessi uomini, però, dimenticano che di convenzione si tratta e ne fanno una linea di separazione netta tra loro. L’autrice prende questa linea conferendole la concretezza di un segno orizzontale rosso che divide ogni pagina del libro, mostrandone al contempo l’assoluta inconsistenza. Il lettore costretto a compiere un gesto concreto capovolgendo il libro più volte per poterne leggere immagini e parole, scopre che sopra e sotto il mondo è sempre fatto di stagioni, di donne, di uomini, di bambini. Uguali quanto basta e di-

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versi quanto basta. Alla fine della lettura si scopre come effettivamente tutto sia comunque possibile, con testi e illustrazioni che possono essere lette in due sensi. Gli abitanti dei due mondi non si conoscono, non comunicano, diffidano gli uni degli altri. Se gli abitanti di sopra e gli abitanti di sotto si guardassero davvero, avverrebbe una specie di miracolo: da sopra cadrebbe l’acqua che innaffia la terra e sotto nascerebbero gli alberi, come racconta una delle immagini più poetiche. Paloma Valdivia gioca con gli opposti e la simmetria, suggerendo situazioni di confronto e relativizzazione: «La primavera entra da una parte e spinge l’autunno dall’altra». Senza punti di riferimento, le categorie del sopra e del sotto perdono di senso: non resta altro

da fare se non accettare l’inconfutabile verità che, fondamentalmente, è tutta una questione di punti di vista. Proprio come questo libro, fatto di poche parole e di segni e colori che si ripetono, la conclusione non è difficile nella sua assoluta semplicità: «Ogni tanto puoi guardare al contrario». Richiamandosi al concetto che nei rapporti con gli altri tutto è relativo, tutto può essere capovolto e guardato da una angolazione diversa, c’è l’allegro e irriverente libro Il mio mondo a testa in giù, vincitore del Premio Andersen 2009, per ragazzi di novedieci anni. Sono una quarantina di brevi e brevissimi, surreali e irriverenti racconti in un mondo alla rovescia visto dalla parte dei bambini. Raccontano di maestri

che finiscono negli acquari, di scherzi telefonici, di rapporti con famiglia e amici, di piccole grandi avventure e disavventure quotidiane. È il mondo adattato ai bisogni dei ragazzi, alle loro paure, alle loro conquiste; sono racconti in grado di penetrare nelle emozioni, nelle paure e nelle fantasie dei bambini e di smascherare la realtà dei rapporti tra bambini e adulti al di là delle rappresentazioni convenzionali che spesso vengono fornite. Le storie di Bernard Friot sono condensate in racconti brevi, fulminanti, a volte di una sola pagina, che uniscono l’immediatezza, lo humour e la scorrevolezza del racconto a un immancabile tocco surreale e a volte ribelle. Le sue storie sono tanto brevi quanto avvincenti, tanto rapide quanto profonde.


L’ultima recensione la dedico ad un libro per adolescenti. Si intitola Ciao, tu, di Roberto Piumini e Beatrice Masini. Purtroppo, essendo del 1998 non è facile trovarlo in libreria ma sicuramente in biblioteca si riesce a rintracciare. Uno scambio di biglietti tra due quindicenni per indovinarsi, scoprirsi, sapersi. Viola e Michele s’innamorano; questo non è un amore come tanti altri ma una specie di continuo enigma. Viola conosce tutti i pregi e difetti di Michele, però Michele all’inizio non conosce Viola. La protagonista scrive dolci bigliettini al suo amato e Michele cerca di scoprire dagli indizi chi è la sua ammiratrice. Capiscono di amarsi in una maniera nuova. Non solo per l’aspetto fisico, ma anche per il carattere e il modo di pensare. Con il susseguirsi delle situazioni, i due ragazzi si conoscono meglio e si confidano paure e solitudini, momenti di difficoltà e di depressione. La storia del loro lento conoscersi e scoprirsi si scandisce con un lento avvicinamento, ricco di confidenze, pensieri, riflessioni, rivelazioni sui rapporti con i loro coetanei e con gli adulti. Un libro per viaggiare verso l’età adulta con l’unica certezza che niente è tutto bianco o tutto nero: nei

rapporti con gli altri ciò che conta sono le sfumature. Da tutti questi libri si comprende come per comunicare efficacemente con un bambino e instaurare con lui un rapporto positivo non basta leggergli un libro cambiando le intonazioni, usando la mimica facciale e gestuale. L’adulto che legge deve mettersi anche in una dimensione di ascolto: ascolto di ciò che prova il bambino, ascolto di ciò che chiede il bambino, ascolto di ciò che si domanda il bambino. La cosa più difficile per un genitore o un insegnante è, infatti, trovare un’empatia nella comunicazione e nella relazione. Ancora una volta, attraverso il libro, adulti e bambini possono migliorare la qualità delle relazioni: simpatia reciproca, condivisione e concezione che l’altro è colui che dà qualcosa, sono essenziali per il rafforzamento della personalità e assumono un’importanza centrale per lo sviluppo sociale e personale del bambino.

Appuntamento alla prossima cronaca dalla Biblioteca di BarchettaBlu. Buone letture.

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le relazioni degli animando affetti

The Sheriff

Un ragazzo “difficile” diventa presidente dell’Atelier del Cartone animato 32

Forlì, gennaio 1981. Il Progetto Giovani del Comune di Forlì ci aveva messo a disposizione una sede per le nostre attività. Ed era una sede proprio bella. Appena aperta era già meta di gruppetti in cerca di luoghi di incontro adatti ai giovani, di cui Forlì (come qualsiasi città in qualsiasi epoca) aveva un gran bisogno. D’altra parte eravamo anche noi molto giovani e apprezzavamo la preziosa opportunità di avere un posto dove incontrarci, confrontarci e lavorare insieme, oltre che di poter disporre di materiali e attrezzature per disegnare e riprendere i disegni in 16 millimetri, con armadietti dove raccogliere materiali e disegni. Apprezzavamo anche, ovviamente, la piccola remunerazione che veniva destinata dall’Assessorato al Decentramento per le ore impegnate

in attività corsuali mirate ad “animare” i giovani del quartiere e rafforzare gruppi di interesse. Il Progetto Giovani si proponeva (anche) in questo modo di coinvolgere e “animare” quanta più gente possibile. Così, partendo dalla nostra passione per l’animazione e poche esperienze di insegnamento (a cominciare da quelle vissute in Bolivia con il Taller de Cultura Popular), progettammo il nostro primo corso di animazione. La strategia era semplice: qualche incontro teorico con esempi di maestri dell’animazione e di diverse tecniche per mostrare come l’animazione vada ben oltre gli orizzonti comunemente conosciuti e, dopo aver fornito qualche strumento di base, fare pratica di laboratorio in modo che ognuno potesse creare il proprio piccolo “saggio d’animazione”.

Due conduttori (io e Tiziano) per due sere alla settimana per due mesi. Nel concepire il primo corso non pensammo neppure alla possibilità di lavori di gruppo, che temevamo di non riuscire a gestire con gruppi eterogenei, composti da gente che non si conosceva e non aveva alcuna conoscenza dell’animazione. Come vedremo, i lavori d’équipe nacquero invece spontaneamente grazie alla nostra disordinata ma elastica gestione, oltre a un pizzico di fortuna… I manifesti offerti dal Comune e un po’ di passaparola ci portarono una ventina di utenti: qualche insegnante, qualche bambino delle vicine case popolari e ragazzi dai 14 ai 18 anni. Impreparati a seguire un pubblico tanto eterogeneo, ci trovammo un po’ in affanno. C’era, in particolare,


un gruppo di quattordicenni che sembrava il classico “elemento di disturbo”. Non capivamo nemmeno bene cosa ci facessero con noi: scherzavano, si agitavano, avevano il classico atteggiamento strafottente. Sbeffeggiavano i nostri amati Norman McLaren e Alexandre Alexeieff; per loro c’era solo l’animazione giapponese che imperversava in TV e che per noi era quanto di più deleterio potesse esistere. Il più taciturno e sprezzante di loro, Lamberto, anche se molto attento a non scomporsi, era colpito dal modo insolito che avevamo di pro-

porre questi temi (da veri appassionati e già piuttosto esperti) e dalla nostra sincera attenzione verso le qualità dei suoi bozzetti. Considerata l’evidente difficoltà di comunicazione, considerammo che questo aspetto poteva essere un punto d’incontro importante per aprire una breccia e cambiare l’approccio del gruppetto al corso. D’altra parte era davvero interessante la storia di questo “ragazzo difficile”, dei suoi interessi semisegreti, della sua passione per l’animazione… così iniziammo a tempestarlo di domande. Iniziò una complicità che lo portò

ad aprirsi e a raccontarci di sé. Quando, dopo un paio di incontri, cominciammo ad approfondire il tema dello story-board, quindi del progetto di film che comincia a prendere corpo, il clima cambiò improvvisamente. Lamberto ci accennò ad alcune sue idee, così lo invitammo a portarci i suoi disegni preparatori. Li portò e ci illustrò la sua idea per un’animazione western. Iniziò il suo story-board. Gli altri amici gigioneggiavano scettici ancora un po’, ma vedendo l’impegno del loro leader cominciavano a considerare l’idea di metterci del loro. Cominciaro-

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no a mescolarsi anche con altri, anche di diverse età e nacquero amicizie che non sembravano possibili. Io e Tiziano, difettando di esperienza, cercavamo non senza affanno di seguire il percorso di ogni corsista. Era il sistema seguito anche al Magistero di Urbino, ma qui non funzionava: il gruppo era troppo eterogeneo, la quantità di incontri decisamente inferiore. Perdemmo presto qualche adulto, mentre il gruppo di Lamberto (lui escluso) ci sembrava stesse esaurendo le energie necessarie a seguirci. Per fortuna, finito rapidamente il suo

The sheriff (ancora oggi online nel sito www. animato. it, Lamberto si offrì come supporto tecnico per gli amici che dovevano finire i propri lavori. Gli amici del cuore avevano avuto grosse difficoltà nella progettazione, ma si rivelarono ben più svegli nell’improvvisazione. Molto più pazienti di quanto loro stessi potessero sospettare, allestirono un set per una partita di calcio di giocatori in plastilina e, dribblata abilmente la fase di progettazione della storia, iniziarono una partita dall’esito tutt’altro che scontato. Ogni azione di gioco diventava una gag,

quindi un microprogetto che includeva una fase di discussione, una di preparazione di ambiente e personaggi e una operativa di riprese a passo uno. La lavorazione andò avanti per diverse serate. Lamberto diede così un energico impulso ai primi lavori d’équipe dell’Atelier, affrontando notevoli difficoltà tecniche (non esistevano i computer moderni, lavoravamo con la pellicola). Fu un’esperienza bellissima per tutti, anche per noi che li osservavamo divertiti a bocca aperta mentre iniziavamo a capire quanto potevano essere importanti il lavo-


ro di gruppo e le sue dinamiche. Decidemmo subito che da lì in avanti i nostri percorsi formativi dovevano necessariamente prevedere sia lavoro singolo che lavoro collettivo. Quando, verso la conclusione del corso, finimmo di montare i lavori realizzati, ci rendemmo conto di avere realizzato una quantità notevole di materiale che era molto valido sia per i contenuti divertenti ed espressivi, anche se tecnicamente un po’ rozzi, sia per ciò che rappresentavano in termini di crescita personale e di gruppo. Eravamo entusiasti e coscienti di essere in grado di contagiare altri con il nostro entusiasmo. Dopo il corso perdemmo di vista Lamberto per un po’. Poco tempo dopo morì sua madre ed iniziarono i problemi con la scuola e con un’adolescenza complicata da affrontare. Ogni tanto, però, tornava a frequentarci. Con uno ZX Spectrum, con tanta pazienza, riuscì

a creare brevi animazioni. Con una piccola cinepresa 8 mm riprese alcune sequenze a scatto singolo dal televisore, a cui aveva collegato il piccolo precursore dei moderni personal computer. Una di queste sequenze sarebbe servita in seguito per il suo cortometraggio Frigor (1984). Era così motivato e capace di entrare in empatia con gli utenti più giovani che in breve divenne uno dei più attivi membri dell’Atelier del Cartone animato, tanto che ne divenne il principale responsabile nel 1985, quando io partii per un’esperienza di cooperazione in Africa con il Ministero degli Esteri e con Terra Nuova, l’ong con la quale ero già stato in Bolivia. In quel periodo, insieme (in particolare) a Ugo Maccari e Monica Ragazzini, il nostro “ragazzo difficile” organizzò eventi ordinari e non, come una importante mostra in collaborazione con il Prof. Carlo Mauro dell’Università

Claudio Tedaldi Atelier del Cartone Animato www.animato.it

di Bologna. Iniziò anche a sperimentare con i ragazzi i programmi di grafica con i primi computer dismessi dal Comune. Al mio ritorno dal Mali, nel 1987, mi convinse ad una (per me del tutto imprevista) svolta verso l’informatica. L’animazione diventò anche la sua professione, prima con me e poi con Officine Pixel, società nella quale entrammo insieme e nella quale lui opera ancora. Lì ha portato a compimento importanti progetti internazionali di animazione e multimedia, alcuni decisamente pionieristici. Oggi è uno dei più apprezzati esperti di progettazione multimediale e animazione 3D. Ama ancora i cartoni giapponesi (anche io e Tiziano siamo riusciti ad apprezzarne alcuni), ma il suo orizzonte è molto più vasto. Ed è ancora uno dei più convinti sostenitori dell’Atelier del Cartone animato.

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le relazioni degli suonando affetti 36

Valeria Pacifico insegnante di musica

Giocare in musica

Le nostre case, ahimè, sono spesso invase da infiniti giocattoli, spesso compagni di gioco dei nostri figli solamente per manciate di minuti. Evitiamo di eliminarli immediatamente perché sono oggetti costosi ed è difficile accettare il fatto che siano solo inutili. Resta il fatto di avere case piene di colorati rifiuti che accumulano polvere e disorientano i bambini. Le loro camerette, infatti, dovrebbero essere il più possibile sgombre e rilassanti per lasciare il

bambino libero di creare giochi di fantasia oppure di riposare dopo le interminabili ore di scuola. È vero che le nostre case oggi sono piccole ma è anche vero che le riempiamo di cose inutili, soprattutto quando arriva un bebè. Dopo aver fatto i conti con il terremoto in termini di paura, di dolore per la perdita di nostri amici e parenti, di sofferenza per la distruzione delle nostre case, abbiamo dovuto fare i conti con le nostre cose… quante cose… troppe cose,

e le riflessioni a riguardo sono state innumerevoli. Però torniamo ai giocattoli e veniamo al punto: quelli sonori vanno per la maggiore, soprattutto fino ai cinque anni, ma spesso la qualità dei suoni che producono è scarsa e fastidiosa. Gli strumenti giocattolo sono a volte improponibili: i genitori attenti verificano la loro compatibilità con l’età del bambino, ma raramente si domandano se i suoni che producono sono intonati. Sì, perché anche il


nostro orecchio deve essere trattato bene ed abituato alle giuste frequenze. Allora consiglio di acquistare gli strumentini Orff che, solitamente, si adoperano per le attività musicali a scuola ma, per la loro versatilità, possono essere un bellissimo gioco. Se il nonno dorme magari è meglio aspettare a proporlo, ma se il problema del silenzio non sussiste diamo il via alla creatività musicale dei nostri bambini. Dopo aver capito il funzionamento dello o degli strumentini, cominciamo ad immaginare dei personaggi o associamo un pupazzo a ciascun suono. Da qui possono scaturire

diversi modi di giocare secondo l’età del bambino. Di solito l’aiuto dell’adulto non è indispensabile se i bambini sono due o più, ma può essere utile avviare il gioco. Così vedranno la luce delle vere e proprie operine musicali e il gioco sarà creativo, coinvolgente ed educativo sia dal punto di vista motorio sia da quello musicale. Il metodo Orff (Orff - Schulwerk) è un sistema di insegnamento musicale chiamato col nome del suo ideatore Carl Orff, basato sulla ritmica e sull’utilizzo di musica elementare, a misura di bambino. Per questo lo strumentario Orff, per la

sua facilità, e praticità può essere usato anche come gioco e introdotto semplicemente dal genitore. La musica per bambini ­ – diceva Orff – nasce lavorando con i bambini e lo Schulwerk vuole essere stimolo per un proseguimento creativo autonomo, infatti esso non è definitivo, ma in continua evoluzione. Sperando che i vostri bambini possano conoscere in ambito scolastico le molteplici possibilità di questo metodo vi esorto a giocare in modo musicale con loro, anche con coperchi e cucchiai, il divertimento è assicurato!

I principali strumenti del metodo Orff sono: i legnetti, i tamburelli, la raganella, le maracas, le nacchere, le fruste, i bongo, i gusci di cocco. http://www.semplicementemusica.it/strumentario.html http://www.spevi-pianoforti.com/strumentindex.htm

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trentagiorni

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Adozioni internazionali: Haiti ha firmato la Convenzione dell’Aia La Conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato ha annunciato che il 2 marzo 2011, la Repubblica di Haiti ha firmato la Convenzione dell’Aia del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale. Con la firma della Convenzione la Repubblica di Haiti ha espresso il suo desiderio e la sua intenzione di riformare il sistema di protezione dell’infanzia

e il sistema di adozione internazionale, che è un passo preliminare essenziale per la ratifica della Convenzione. La Convenzione obbliga gli stati firmatari a stabilire delle disposizioni comuni al fine di garantire che le adozioni internazionali abbiano luogo secondo l’interesse superiore del minore ed il rispetto dei suoi diritti fondamentali in modo da prevenire qualsiasi tipo di sfruttamento. La Convenzione è stata firmata all’Aia da sua eccellenza il signor Raymond Magloire, ambasciatore della

Repubblica di Haiti e dal Ministero degli Affari esteri del Regno dei Paesi Bassi. Questa è la prima Convenzione firmata da parte della Repubblica di Haiti, che ha reso questo paese lo stato numero 138 ad aver aderito alla Conferenza dell’Aia. Fonte: www.aibi.it Libia: 1 milione di bambini a rischio Più di 1 milione di bambini nell’ovest della Libia sono in grave pericolo a seguito degli scontri fra le forze governative e gli oppositori, per il controllo


di città chiave, compresa la capitale Tripoli, denuncia Save the Children. L’ong ha raccolto le testimonianze di famiglie e bambini a Tripoli e in città vicine, che descrivono la loro paura di morire, di essere feriti e arrestati poiché le forze di sicurezza libiche continuano a reprimere le proteste degli oppositori. Si stima che più di 1 milione di bambini vivano in questa area teatro degli scontri. «Il pericolo posto ai bambini in Libia dalle violenze politiche e dalle loro conseguenze,

come la mancanza di beni di prima necessità e cibo, è enorme», dice Gareth Owen, direttore delle Emergenze di Save the Children. «La situazione nel paese potrebbe velocemente andare fuori controllo e tradursi in un disastro per centinaia di migliaia di bambini che potrebbero essere obbligati a lasciare le loro case, o peggio, rimanere coinvolti nelle violenze e negli scontri». Fonte: www.savethechildren.it Adozioni: boom bimbi cinesi e nepalesi Boom

di arrivi di bambini cinesi e nepalesi adottati in Italia nel 2010. A questi due paesi spetta il primato del maggior incremento di adozioni da parte di coppie italiane lo scorso anno. Emerge dalla relazione della Commissione adozioni internazionali (Cai) sul bilancio 2010, anno in cui sono stati adottati dall’estero 4130 bambini (+4,2% rispetto al 2009), cifra record per le adozioni in Italia. In dieci anni in totale sono stati 32.095 i bambini adottati da italiani. Fonte: www.ansa.it

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