Adozioni e dintorni - GSD Informa gennaio 2014

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - gennaio 2014 - n. 1

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GSD informa

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editoriale

di Anna Guerrieri

psicologia e adozione

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Con il senno del post di Joyce Manieri Lettere di Franco Carola giorno dopo giorno

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Per non dimenticare di Antonio Fatigati Nomen omen di nome e di fatto di Marta e Alberto Alcune riflessioni sulla ricerca delle origini di Antonella Avanzini leggendo

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Leggere, fare e raccontare di Marina Zulian sociale e legale

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Adozione e ricerche sulla piattaforma virtuale di Janice Peyrè La ricerca delle origini in Italia di Angelamaria Serpico La ricerca delle origini in Francia di Francoice Toletti trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Anna Guerrieri

Senza aggettivi

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In questi giorni le veloci reti virtuali di genitori adottivi si sono infiammate all’improvviso a causa di un frammento video in cui la frase “vera madre” veniva ripetuta sovente da una conduttrice di programmi TV a proposito di una storia di ricerca delle origini. Le storie di rintracciamento di percorsi di vita perduti sono particolarmente attuali anche alla luce del dibattito legale sul tema. Non è di queste leggi di cui tuttavia voglio ora parlare, leggi che necessitano un confronto preciso di tante parti e soprattutto attengono ai diritti delle persone adottate. Quello su cui desidero fermarmi è qualcosa che ha a che fare con noi genitori. Il concetto di “vera madre” intesa come madre di origine opposta al concetto di madre adottiva intesa come “secondaria” o “finta”, è un concetto su cui all’inizio non mi sono fermata tanto, forse perché è tanto lontano da me da non sentirmi chiamata in causa. Che io sia madre di figli che hanno anche una madre venuta prima di me, fa parte della mia storia e non mi preoccupa particolarmente ormai che qualcuno si riferisca alla madre di origine dei miei figli in un modo piuttosto che in un altro. Magari sbaglio ma è quel che sento. Poi ho visto apparire sulla rete centinaia di foto, foto vere, realistiche bellissime, in una sorta di moto di orgoglio della famiglia che adotta, spontaneo e gioioso. E mi sono trovata a guardarle con tenerezza una dopo l’altra e a goderne io stessa. Non leggevo i commenti, guardavo le immagini, davvero belle, e mi sono chiesta come mai, anche oggi fosse necessario ribadire che le famiglie che adottano sono famiglie per davvero, non prime né seconde, non di lato né di scorta, non a tempo e non in prova, ma famiglie e basta. Non voglio entrare nei motivi per cui tutto questo è nato né nei sentimenti di chi ha sentito la voglia di mettere la propria foto su una pagina facebook. E’ stato sicuramente un “Ci sono anche io, e io e io”. Vedendolo accadere mi sono chiesta una volta di più a che punto siamo nella nostra società sul concetto di famiglia formatasi per adozione ma


soprattutto mi sono chiesta cosa vogliamo e cosa possiamo dare, noi famiglie, in termini culturali, per noi e per i nostri figli e come ci poniamo rispetto alle nostre stesse storie, rispetto alle madri dei nostri figli, rispetto ai nostri contesti sociali. Penso, infatti, che solo da una profonda riflessione personale possa scaturire la forza di cambiare anche il mondo attorno a noi, perché sicuramente è vero che un contributo culturale possiamo darlo, e grande. La prima riflessione che mi è venuta alla mente è di come sia manicheo e moralistico voler sempre categorizzare le donne-madri. Parlando di madri vere, in fondo si giudica la donna che diventando madre si mette in gioco con la vita, al di là talvolta, delle proprie risorse e possibilità, sia che lo faccia partorendo, sia che lo faccia adottando. Nell’adozione, a volte la madre di prima è vista come di qualità “migliore” di quella che viene dopo. Lei ha concepito, ha dato la vita, lei è nel sangue mamma “per davvero”. A volte invece è quella che adotta ad essere definitivamente considerata “migliore” della prima, la prima in fondo ha lasciato, abbandonato, talvolta ha maltrattato o lasciato abusare, quella dopo viene vista come una salvatrice, quella che non fallirà e che riconsegnerà alla vita un bambino o una bambina danneggiati. Si fa quindi quasi una graduatoria di verità, di bontà, di importanza. La voglia di giudicare, di incasellare è così grande che così facendo si incastra, si intrappola la donna che diviene madre. Le madri che partoriscono i propri figli possono anche ucciderli, abbandonarli, lasciarli usare, ma possono anche essere impossibilitate a tenerli, sole, possono essere addirittura costrette a lasciarli. Possono ricercarli i figli tanti anni dopo. E le madri che adottano i figli possono volare oltre le montagne per donare ai figli tutte se stesse, possono davvero restituire alla vita, ma possono anche non sentirli propri mai per davvero e sino in fondo i figli che incontrano. E possono maltrattarli, lasciarli, rifiutarli, anche ucciderli. Perché dentro ognuno di noi alberga il bene e il male. Non

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c’è etichetta che tenga davanti alla verità del nostro essere, soprattutto davanti al grandissimo impegno dell’essere madre, senza aggettivi. Talvolta solo vivendo si scopre il proprio male come anche solo vivendo si scopre il proprio bene. Noi donne-madri abbiamo bisogno soprattutto di una mano nel tirar su i nostri figli, che siano venuti da noi stesse o venuti da lontano. Abbiamo bisogno dei nostri compagni, delle nostre famiglie, di una società strutturata sui bisogni delle nostre famiglie, di tempo, di un lavoro che questo tempo ce lo riconosca, di servizi. E se siamo madri per adozione abbiamo bisogno di una società che prima o poi l’adozione la riconosca per quello che è e la accetti: l’unica maniera perché alcuni bambini e alcune bambine abbiano una famiglia in carne ed ossa, né vera né finta, semplicemente in carne ed ossa. Una società che la smetta di stupirsi, di incuriosirsi in modo pruriginoso, che la smetta con “l’avevo detto io che non era per davvero” e anche con il “ma che cosa fantastica che state facendo”. Serve un “basta” coi commenti, servono più accoglienza e più servizi invece. Non solo per i nostri figli, ma per tutti i bambini e le bambine che hanno alle spalle storie difficili, adottati e non. Solo questo sguardo libero e autentico alle necessità delle persone permetterà di parlare di madri, padri e figli senza bisogno di aggettivarli, ma riconoscendo loro la differenza delle proprie storie di vita. Madri di origine, madri biologiche, madri naturali, madri adottive potranno diventare semplicemente madri, donne con la propria storia e la propria posizione nella vita dei propri figli. Forse sarà proprio una stagione con meno aggettivi che farà sentire meno in discussione i legami che si sono creati attraverso l’adozione, senza più la necessità di dover stabilire se contano di più i “legami si sangue” rispetto ai “legami adottivi”. Potrebbe essere una visione di questo tipo a liberare per davvero l’orizzonte. Essere genitori per adozione significa essere in contatto con i genitori dei nostri figli, non nella realtà (che è spesso poca cosa rispetto a quel che ci vive dentro), ma nella nostra mente e nel nostro cuore, nella funzione che noi esprimiamo. Noi siamo, per i nostri figli, i “genitori”, facciamo parte di quella categoria lì, saremo lì, dentro di loro, con le nostri voci, le nostre immagini, anche quando non ci saremo più. Noi saremo la “parola della madre e del padre” anche dopo la nostra morte. Così come lo sono anche i genitori che sono venuti prima di noi, anche quando la loro “parola” è solo un simbolo di nascita, di storia, di origine. Nell’adozione ci sono quattro genitori in gioco, quattro genitori per i nostri figli. Siamo in quattro, tutti veri, tutti reali ed anche tutti dentro i nostri figli, nel bene e nel male.


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psicologia e adozione

Di Joyce Manieri Psicologa e psicoterapeuta. Lavora da anni nelle adozioni ed è membro dell’Associazione di psicoterapia dell’adolescenza e dell’età giovanile ad indirizzo psicodinamico. www.genitoriefigli.roma.it

Con il senno del post

appunti per genitori adottivi sufficientemente buoni 8

Molti genitori si trovano in difficoltà con alcuni comportamenti dei bambini nella prima fase del loro ingresso e chiedono aiuto per individuare le modalità più adatte a rispondervi. Tuttavia, il compito più difficile non consiste nel far fronte ai comportamenti difficili tentando di eliminarli; ma nel cominciare a costruire, a partire da questi, nuove modalità di relazione con l’altro e con l’ambiente colorate di fiducia, di speranza e di piacere. Il mondo delle adozioni ha subito una rapida evoluzione. Sempre di più ci troviamo ad affrontare situazioni complesse rispetto al passato. Un’evoluzione fisiologica e prevedibile che trova radice nel progressivo miglioramento delle condizioni di vita

e nel rafforzamento delle politiche degli interventi sociali nei paesi d’origine, dove si è sempre più in grado di individuare soluzioni a tutela dell’infanzia all’interno dei propri confini (affidamenti, adozioni nazionali). Ad oggi, i bambini che fanno ingresso in Italia per adozione da altri paesi sono sempre più grandi, sono bambini che parlano già una propria lingua, bambini con alle spalle abbandoni reiterati, che hanno subito verosimilmente traumi, che hanno, probabilmente, avuto contatti, sia pure sporadici ma prolungati nel tempo, con qualche parente; che lasciano tutto ciò che del mondo hanno conosciuto. Bambini che, in alcuni casi, hanno vissuto con fratelli e sorelle prima o durante l’istituzionalizzazione; fratelli o

sorelle che hanno dovuto lasciare nel paese d’origine o di cui, nel caso si tratti di un‘adozione di due o più fratelli, continuano a prendersi cura anche dopo l’adozione, creando sconcerto e lontananza emotiva all’interno della nuova famiglia perché incapaci di cedere quel ruolo di caregiving, che fino allora ha garantito loro di mantenere un grado minimo di controllo sulla propria vita. Lo scenario dell’adozione internazionale si fa, dunque, sempre più complesso; dove con adozioni “più complesse” non si deve intendere “necessariamente problematiche”. L’attuale sistema che regola l’adozione in Italia, prevede necessari percorsi di formazione che la coppia aspirante all’adozione deve compiere nel suo percorso e negli anni mol-


to è aumentata l’offerta di seminari e corsi anche da parte degli enti autorizzati e delle associazioni familiari. Tuttavia, pur essendo prevista di default un certo quantum di formazione alle coppie aspiranti all’adozione, non esistono ad oggi dati qualitativi e di monitoraggio (effettuati di rado a livello organico) che ci aiutino a capire come effettivamente viene erogata questa formazione: si presenta solo come è cambiato il mondo delle adozioni (dato di realtà a cui in ogni caso ci si deve piegare perché o così o niente) o ci si assicura che la coppia abbia davvero compreso e si sia realmente interrogata sulle risorse da mettere in campo in determinate situazioni, poi non così rare? Dal canto loro, le coppie adottive, rispetto a questi corsi, spesso riferiscono

di un approccio eccessivamente psicologizzante, distante dai loro bisogni e di poco supporto al momento del primo inserimento del bambino in famiglia. Altri nodi e punti di svolta (primo fra tutti, l’adolescenza) potranno caratterizzare successivamente il percorso della nuova famiglia. Del resto l’esperienza maturata, con il senno del post, ci ha dimostrato che l’adozione non è un evento puntuale ma un life long process all’interno del quale la gestione di temi complessi (ad esempio l’abbandono e la doppia appartenenza per il ragazzo; la ferita della sterilità e la paura del fallimento per la coppia genitoriale) si propone e ripropone lungo tutto l’arco della vita. Divenire famiglia per adozione “costringe” i suoi componenti ad un conti-

nuo confronto con l’altro da Sé, ad una costante costruzione di quel senso di appartenenza familiare che chiederà di essere rinegoziato in diversi momenti del ciclo vitale di quella famiglia. Tuttavia, l’inserimento in famiglia rappresenta un momento di passaggio molto delicato: il bambino reale entra finalmente nella scena adottiva costringendoci a fare i conti con la sua storia i suoi vissuti. L’intera trama dei legami familiari ne risulta investita e le dinamiche relazionali della coppia e dell’intero sistema famiglia devono trovare nuove configurazioni. E’ da qui che si avvia quel processo che porterà degli sconosciuti a divenire famiglia attraverso un percorso non scontato e niente affatto lineare. In questo periodo i

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bambini, per i quali nella maggior parte dei casi il concetto stesso di famiglia o di rapporto con adulti significativi sono vuoti e privi di significato, possono vivere un vero e proprio smarrimento identitario. Nelle prime fasi dell’arrivo in famiglia è facile riscontrare caratteristiche di fondo comuni. I genitori possono essere affamati di riconoscimento e legittimazione emotiva, e contemporaneamente sentirsi poco preparati ad affrontare l’incontro con quel bambino reale che ha fatto ingresso in famiglia. I bambini che arrivano in adozione, dal canto loro, non di rado presentano ansia causata da separazione e/o perdita, mancanza di fiducia, bassa autostima, rabbia e la necessità di mantenere un controllo sugli altri e sull’ambiente. Vissuti che trovano in ognuno

espressioni comportamentali diverse e contrastanti: problemi di enuresi o di encopresi, disturbi del sonno, bambini che mangiano molto e bambini parsimoniosi nei confronti del cibo, piccoli soldatini che si sorreggono sulla punta delle loro impenetrabili autonomie, bambini con una forte introversione sociale ovvero con una indiscriminata necessità di vicinanza e di contatto, ecc... Vi è, cioè, una vasta gamma di comportamenti che i genitori possono trovarsi a dover gestire; ma particolarmente penosi sono i comportamenti aggressivi, oppositivi, provocatori e di sfida. Questi comportamenti cosiddetti di tipo esternalizzante, sono forse quelli che hanno maggiori probabilità di mettere a rischio la buona riuscita dell’adozione. L’incapacità di alcuni bam-

bini a rispettare le regole formali ed informali, gli scoppi di rabbia estrema che non riesce a trovare una soluzione ragionevole ma diventa sempre più incontrollabile, spingono i genitori adottivi a provare sentimenti di intensa delusione e rabbia. Per i genitori diventa difficile sintonizzarsi empaticamente con i bambini, soprattutto quando questi sorridono o addirittura, come riferiscono a volte con angoscia i genitori adottivi, ghignano con un certo disprezzo quando si comportano in modo minaccioso verso di loro. Il crescendo emotivo che dimostra il bambino con questi comportamenti, rischia, allora, di trovare eco nell’adulto. I sentimenti e le emozioni del bambino possono essere così forti da non trovare contenimento, andando ad invadere e sopraffare anche la


mente del genitore. Così è possibile che il genitore che viene offeso verbalmente ed aggredito fisicamente dal figlio, all’inizio può essere in grado di pensare “Questo bambino è pieno di rabbia”; ma con il passare del tempo, non essendo capace di tollerare i sentimenti negativi che il figlio gli suscita, può arrivare a dire “Odio questo bambino perché lui è pieno di rabbia e non è degno d’amore” andando ad instaurare un circolo vizioso di rinforzo ai reciproci comportamenti. Altre volte i bambini, pur senza mostrare atteggiamenti oppositori, possono avere comportamenti caotici e dissociativi che possono sconfinare in una vera e propria diagnosi di disturbo dai deficit di attenzione/iperattività. Spesso, in questi casi, anche il rapporto con l’esterno (scuola, vicinato, comu-

nità) risulta complesso da gestire. Capita spesso, che i genitori adottivi si sentano guardati, additati e giudicati con un conseguente aggravio dell’ansia da prestazione genitoriale. Bambini che si dimenano, urlano, hanno crisi di rabbia improvvise e li aggrediscono per strada rimandano dall’esterno un’immagine negativa di loro, immagine che rischia di combinarsi esplosivamente con l’angoscia interna, sempre in agguato, del fallimento della genitorialità adottiva. Altri bambini, una volta collocati in famiglia, faticano ad abbandonare quelle strategie di sopravvivenza basate sull’inganno (ad es. furto o menzogna) che avevano appreso in altri contesti di vita. Davanti a bambini che tornano a casa e raccontano cose che non sono mai successe o che si viene a scoprire che si sono

appropriati di oggetti che non sono loro, i genitori rischiano di sentirsi invasi dalla delusione e dalla rabbia. Davanti a questi comportamenti, vissuti come tradimento della fiducia alla base dell’appartenenza familiare, può capitare che i genitori si sentono esasperati. Comportamenti di questo genere, più di ogni altra cosa, rischiano, infatti, di riattivare il fantasma dell’originario; di ciò che fa parte del passato ed è indelebilmente inscritto nei bambini (segni psicologici e/o fisici), ma che non è noto e dal quale i genitori adottivi sono stati e restano esclusi. Perché mio figlio si comporta così? Dipende dalle sue esperienze pregresse? Perché è adottato? Saremo mai una famiglia come le altre? Perché si comporta così, quando noi gli diamo tutto? Noi genitori siamo

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abbastanza? Queste sono alcune delle domande che i genitori adottivi si pongono quando la gestione della quotidianità all’inizio della vita familiare risulta troppo complessa. Troppo spesso queste prime difficoltà vengono affrontate in un clima di solitudine a volte per paura di essere giudicati (con lo spettro che il bambino possa essere loro tolto), altre volte per Servizi territoriali oberati di lavoro che propongono interventi troppo diluiti nel tempo e lontani. Troppo spesso gli opportuni ed efficaci interventi di supporto arrivano quando ormai potrebbe essere troppo tardi per recuperare; con modalità ed esiti, a questo punto, drammatici. E’ importante che i genitori comprendano che i comportamenti dei loro figli sono spesso il frutto di

una battaglia interiore tra il bisogno di essere amati e l’ansia legata alla prossimità ed alla sua possibile nuova perdita. Così come è importante che essi comprendano che i loro vissuti (di delusione, rabbia, sconforto) non sono patologici, che la genitorialità adottiva chiede, a più riprese, un lavoro interiore sempre a contatto con le proprie vecchie ferite: una vaccinazione (la formazione, il sostegno, il confronto di esperienze) e più richiami! Questi bambini, più che mai hanno bisogno di genitori in grado di contenere e sostenere pensieri ed emozioni penose, senza esserne sopraffatti ed invasi. Bisogna evitare di entrare in quel cortocircuito emotivo che autoalimenta la crisi, cercando di cogliere le angosce sottostanti, i comportamenti messi in atto dai bambini; tenen-

dole sollevate e distinte da quelle che quegli stessi comportamenti sono in grado di elicitare in noi. Questo non vuol dire essere genitori perfetti, non perdere mai il controllo… vuol dire spostare l’attenzione dagli aspetti di mancanza del bambino alle risorse che possono essere presenti nella relazione di cura. Certo, non sempre è facile e, a volte, può risultare impossibile. Non esistono, infatti, ricette buone per tutti, né i pochi consigli che seguiranno possono essere sufficienti in quelle situazioni in cui persistano comportamenti di grave intensità. Tuttavia, un genitore sensibile e responsivo, capace di distinguere ciò che prova lui da ciò che sente il bambino e di considerare il problema non come venuto da lontano con il figlio, ma nato da un incontro… può


fare la differenza. Alcuni accenni teorici sul concetto di resilienza e la sua evoluzione dinamica Parlare di resilienza significa innanzitutto attuare un fondamentale cambiamento di prospettiva: non focalizzare l’attenzione sugli aspetti di vulnerabilità e sui motivi che hanno comportato un disagio, ma su quelle risorse individuali, sociali ed ambientali che consentono alla persona di andare avanti, integrando l’esperienza traumatica. La resilienza è, in sostanza, la capacità di affrontare eventi stressanti e di superarli con una conseguente riorganizzazione positiva della vita. La resilienza non è una qualità che si acquisisce una volta per tutte, ma risulta da un processo dinamico, evolutivo. Essa varia secondo le circostanze, la

natura dei traumi subiti, i contesti e i momenti della vita e risulta dall‘interazione di fattori di rischio e di protezione. Nel tempo, i diversi autori hanno riconosciuto il ruolo determinante, nello sviluppo psicologico dell‘ambiente e dei sistemi con i quali il bambino interagisce, arrivando ad attribuire una natura sistemica alla resilienza: in altre parole, la resilienza del singolo si sviluppa anche grazie alla capacità di sistemi sociali connessi (famiglia, scuola, società) di creare le condizioni protettive per supportare le difficoltà legate al trauma. Stefan Vanistendael (2000) propone l’uso dell‘immagine della “casita” per illustrare il processo attraverso il quale si costruisce la resilienza (vedi figura 1). La casita è costituita da diversi livelli: le fonda-

menta, che rappresentano i bisogni materiali di base; il pavimento, che raffigura la rete di contatti formali e informali del bambino, tra cui i legami del bambino con almeno un adulto che se ne prenda cura e abbia piena fiducia in lui (familiare, persona vicina, professionista); il piano terra è rappresentato dalla capacità di trovare un significato agli eventi della vita. La validità di questo modello, consta nella sua capacità di ritrarre concretamente ed efficacemente il modo in cui il processo si compone di una varietà di fattori, che facilitano la costruzione della resilienza: Il primo piano prevede varie stanze: autostima, abilità personali e sociali, senso dell‘umorismo; il sottotetto rappresenta l‘apertura al nuovo e la capacità di credere nel superamento della sofferenza e nella

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bellezza. Nella casita, ogni camera è un’area di intervento potenziale per la promozione della resilienza, che può aiutare i genitori a capire come si può contribuire efficacemente alla costruzione o al potenziamento della resilienza del proprio figlio. I cinque campi d‘azione su cui è possibile incidere, in un lavorio complesso e dinamico, per favorire il processo di resilienza nel bambino sono: – Reti sociali e accettazione dell‘individuo: l‘accettazione incondizionata del bambino, che gli dà la certezza di essere amato; – Capacità di trovare una logica e un senso alla propria vita: l‘ancoraggio alla realtà rappresenta lo zoccolo duro della ricerca di senso, preserva dall‘illusione e dalle manipolazioni. La scoperta del senso

può essere favorita in molti modi; – Ogni tipo di atteggiamento relazionale, artistico, tecnico, che una pedagogia appropriata può sviluppare positivamente; – Autostima: il tipo di sguardo che si poggia sul bambino, il significato che lui stesso attribuisce alla propria vita, lo sviluppo delle attitudini sono fattori determinanti dal punto di vista dell‘autostima; – Il senso dell‘umorismo: non un atteggiamento di fuga davanti alla realtà sgradevole ma un prendere le distanze da questa, che permette di renderla più sopportabile. E‘ composto di compassione verso l‘imperfezione, accettazione del fallimento, capovolgimento della prospettiva, paradosso e capacità di gioco. La sottolineatura degli aspetti dinamici ed evo-

lutivi, attribuisce alla resilienza contemporaneamente una duplice natura: da un lato è un tratto di personalità, ovvero una qualità presente in misura diversa in ognuno di noi, dall’altro è un processo, che può essere costruito e potenziato lungo tutto l’arco della vita. Ciò ha importanti ricadute in ambito psicoeducativo, in quanto innanzitutto vuol dire che la resilienza può essere acquisita in un processo di apprendimento. Questo apprendimento può essere, allora, sostenuto e promosso dai genitori? Costruire la resilienza dei bambini attraverso relazioni di attaccamento positive Nel processo costitutivo della resilienza i genitori, ovvero la comunità più prossima al bambino, svol-


ge un ruolo fondamentale. La qualità dell‘attaccamento madre figlio ha un ruolo essenziale nello sviluppo emozionale e cognitivo del bambino; un attaccamento sicuro costituisce una sicurezza psichica di base che permette di far fronte ai traumi cui il bambino si può trovare esposto, aumentando così le possibilità di superarli e di conseguire un adattamento positivo. Bowlby afferma che gli individui necessitano di una mappa del mondo per controllare e manipolare l’ambiente e ciò mediante due differenti modelli: uno ‘ambientale’, che informa sulle cose del mondo, ed uno ‘organismico’, che informa su se stessi in relazione al mondo. Le ripetute interazioni del bambino con il mondo esterno portano allo strutturarsi di modelli operativi interni

(MOI), ovvero modelli rappresentazionali utilizzati dal bambino per predire il mondo e mettersi in relazione con esso. L’evoluzione teorica proposta negli ultimi decenni da Fonagy (2001), ha introdotto i concetti di “mentalizzazione” e “funzione riflessiva”, ovvero l’esercizio di quelle capacità mentali che generano la mentalizzazione. Mentalizzazione e attaccamento si alimentano a vicenda. Infatti, a livello della mente, le relazioni di attaccamento, attraverso gli scambi emotivi con il caregiving, aiutano il cervello immaturo del bambino. Tali scambi, perché si crei un rapporto di attaccamento sicuro, devono essere caratterizzati dalla capacità dell’adulto di reagire in maniera pronta ed adeguata ai segnali trasmessi dal bambino, fornendo risposte che fa-

voriscano la produzione di stati emozionali positivi e che facilitino il controllo di quelli negativi. Difatti, nei primi mesi di vita il neonato sperimenta inevitabilmente uno stato del “Sé non psicologico” (fisico o “pre-riflessivo”) in cui rappresenta il mondo e sé stesso in termini prevalentemente somatici. Questo stato del Sé è probabilmente presente alla nascita in forma primitiva e matura completamente verso i sei mesi di vita. Per poter sviluppare un “Sé psicologico” (“Sé riflessivo”) il bambino necessita di una relazione con una persona che rifletta il suo stato mentale e pensi a lui considerandolo un essere pensante. Questa funzione si manifesta in due modalità complementari: chi si prende cura del bambino (caregiver) quando lo guarda tenta di rappresentarsi ciò che sta

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provando, i suoi bisogni, i suoi pensieri, le sue intenzioni cercando di interpretarli e di comprenderli; nello stesso tempo rende espliciti e accessibili i propri processi mentali traducendoli in espressioni del volto, in azioni fisiche e in un linguaggio comprensibile, permettendo al bambino di riconoscersi e proponendo un modello di funzionamento riflessivo nel quale identificarsi. In questo modo le attribuzioni relative agli stati mentali di sé e degli altri vengono incorporate all’interno dei Modelli Operativi Interni. Ciò che ne risulta è una maggiore capacità del bambino di far fronte ai traumi, sia fisici che psicologici. La ricerca ha dimostrato una certa stabilità dei modelli di attaccamento acquisiti nella prima infanzia lungo tutto l’arco della vita; tuttavia sarebbe proprio la continuità nello stile di accudimento che viene sperimentato a garantirne la stabilità. Ciò significa che l’interruzione in uno stile di accudimento, in senso migliorativo (maggiormente sensibile e responsivo) ad esempio con l’inserimento in famiglia per adozione, può portare per effetto delle nuove esperienze ad una revisio-

ne dei modelli di attaccamento. In tal senso, i genitori adottivi assumono un ruolo importante e possono diventare tutori di resilienza. La resilienza non si costruisce individualmente, ma attraverso legami di attaccamento costruiti per tutta la vita. Edith Grotberg (1995) focalizza l‘attenzione sui punti di forza che derivano da una positiva relazione di attaccamento nella costruzione della resilienza. Secondo l’autore, i tre elementi costitutivi della resilienza - cognitivi, emotivi e comportamentali - sono: I HAVE (Io ho - resilienza cognitiva), “Io ho intorno persone che mi amano e mi aiutano”, rappresenta l’area del sostegno e della fiducia in se stessi e negli altri; I AM (Io sono - resilienza emotiva), “Io sono una persona simpatica e rispettosa di me stesso e gli altri”, che rappresenta i punti di forza interiori che aiutano a sviluppare fiducia, autonomia e senso di responsabilità; I CAN (Io posso - resilienza comportamentale), “Io riesco a trovare il modo per risolvere i problemi e io posso controllare me stesso”, che permette di acquisire competenze relazionali e di problem sol-

ving. Questi tre elementi devono combinarsi insieme perché si possa sviluppare la capacità di affrontare le diverse difficoltà della vita. Questo vuol dire che un bambino può essere amato, ma se non ha la forza interiore o abilità interpersonali sociali, non ci può essere resilienza. Ugualmente, un bambino può avere una grande stima di sé, ma se non riesce a comunicare con gli altri o a risolvere i problemi e non ha nessuno che lo aiuti, e così via. E‘ in questa prospettiva educativa che i genitori possono giocare il ruolo di “tutori di resilienza”. Essi possono imparare a fornire ai loro figli che hanno avuto esperienze sfavorevoli infantili un senso di sicurezza, di dedizione e di cura ed aiutare, così, i loro ragazzi a sviluppare un senso di fiducia e di apertura verso un apprendimento positivo e verso nuove esperienze emotive. L’introduzione nel loro percorso esistenziale del calore, della cura, dell’empatia, della stabilità e di un senso di appartenenza, apre la strada all’apprendimento di nuove strategie di coping e fa emergere una nuova capacità, quella di integrare, risignificandole, le esperienze negati-

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ve passate in un’immagine comunque positiva di sé. Consigli per i genitori: non una risposta ma mille domande da porsi per dare senso Allora come comportarsi davanti a comportamenti bizzarri o difficili da gestire? Quale l’atteggiamento migliore da avere? Mi piacerebbe avere una risposta univoca che dia sollievo alle angosce dei genitori adottivi, ma purtroppo non è così. Non esiste un’unica modalità od un atteggiamento di sicuro successo; si possono solo proporre strategie di processo ed ipotesi alternative. Certamente una lettura del fenomeno che utilizza il quadro teorico di riferimento sopra descritto ha il vantaggio di tracciare un processo attraverso il quale cogliere e dare senso ai pensieri ed ai sentimenti dei bambini, comprendendo le strategie difensive che hanno adottato per far fronte alle loro ansie ed ai sentimenti negativi e difficili da sopportare. Non una semplice ricetta dunque, ma i principi di base per poter offrire il più possibile contesti di vita riparativi. Aiutate i figli a organizzare il loro modo di pensare e a regolare le loro emozioni e i loro comportamenti.

E’ importante che i genitori davanti ai comportamenti del figlio cerchino di stabilire con chiarezza cosa sta accadendo nella mente del bambino, quali sono le caratteristiche fondamentali del comportamento e del contesto in cui esso si scatena, in modo da ipotizzarne il senso. Altresì, è importante che i genitori si interroghino sui loro vissuti, su come quel determinato comportamento del figlio li fa sentire e perché. La capacità di distinguere tra i propri pensieri e sentimenti e i pensieri e sentimenti espressi dal bambino con un determinato comportamento, ci permette di padroneggiare i nostri sentimenti e, per effetto di ciò, il bambino può imparare ad esprimere e a regolare i propri affetti. Per fare questo i genitori dovranno: – Prestare molta attenzione al bambino, annotando i comportamenti insoliti o difficili; – Cercare di mettersi nei panni del bambino; – Prevedere ed evitare sulla base delle osservazioni ciò che può causare confusione al bambino; – Esprimere interesse per i pensieri e i sentimenti del bambino; – Organizzare attività condivise e piacevoli, come ad esempio la lettura di storie,

facendo commenti relativi ai sentimenti che provano come adulti e a quelli del bambino; – Verbalizzare e discutere le emozioni legate alle situazioni quotidiane; – Dare senso al mondo spiegando come funzionano le cose ed esplicitando i rapporti di causa ed effetto; – Utilizzare film o esempi reali per parlare del motivo per cui persone possono sentire cose diverse o esprimere i sentimenti in maniera diversa; – Incoraggiare il bambino a pensare prima di agire e aiutarlo a recuperare quando perde il contro elogiandolo se ci riesce. Comunicate loro un senso forte di disponibilità fisica ed emotiva, sia quando siete insieme sia quando ognuno è per conto proprio. E’ importante che i genitori abbiano fiducia nelle loro capacità di prendersi cura di quel bambino trovando le modalità più adeguate per continuare a dimostrargli la propria “discreta disponibilità” anche quando sembra che non vogliano comunicare o essere aiutati. Per fare questo può essere di aiuto: – Stabilire delle routine quotidiane il più possibile stabili; – Gestire le separazioni in


modo attento, comunicando apertamente il perché e per quanto tempo; – Condividere un calendario per aiutare il bambino a prevedere e anticipare gli eventi; – Consentire al bambino di portare con sé un piccolo oggetto o foto da casa quando si allontana. Fate sentire il bambino accettato in modo incondizionato per quello che è, con le sue difficoltà e i suoi punti di forza. Per fare questo è necessario innanzi tutto interrogarsi sulla propria capacità di accettarsi davvero con i propri limiti e le proprie difficoltà e mantenere come principio fondamentale dell’agire e del pensare, la speranza e la fiducia nelle proprie e nelle altrui potenzialità. Vanno scoperte e sostenute le attività e gli interessi che piacciono ai nostri figli

e nei quali possono riuscire, così come va posta particolare attenzione al contesto scolastico, alla sua sensibilità e capacità di valorizzare nei nostri figli un sentimento di efficacia. E’ importante, poi, avere una comunicazione aperta, non stereotipata e positiva della etnia e della cultura di appartenenza del proprio figlio, avendo cura che la stessa sia presente anche all’interno della famiglia allargata. Vanno elogiate le cose che hanno fatto e ci rendono orgogliosi, ma anche ciò che hanno provato a fare con i loro limiti. Costruite il senso di appartenenza I genitori dovranno costruire l’appartenenza dando importanza alla vita familiare alle sue regole e alle sue abitudini, ponendo sempre attenzione ai tempi e alle abitudini che il bambino porta con sé. Al con-

tempo bisogna dimostrare flessibilità dimostrando al bambino che si possono coniugare più appartenenze e che si possono tollerare sentimenti ambivalenti. I genitori possono: – Assegnare nella casa spazi dedicati; – Favorire attività condivise e organizzare un’accoglienza positiva nella famiglia allargata e tra gli amici di famiglia; – Organizzare l’accoglienza scolastica affrontando con gli insegnanti il tema del divenire famiglia per adozione e delle parole per parlare in classe di adozione; – Costruire una narrazione della storia personale del figlio che sfoci nella storia dell’incontro grazie alla quale si è divenuti famiglia e che contenga fatti, foto, disegni e racconti in grado di connettere il passato con il presente.

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psicologia e adozione 20

di Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process), è vicepresidente dell’A.P.R.E e vicedirettore dell’I.J.P.E.

Buongiorno, Siamo due genitori di un figlio di origine biologica di 5 anni. la nascita di nostro figlio ci dicono essere stata un miracolo per la nostra condizione di fertilità di coppia. Abbiamo sempre desiderato una famiglia numerosa e sempre sperato in un secondo miracolo, inizialmente per il desiderio di avere un altro bambino, poi per il desiderio di dare un fratello o una sorella a nostro figlio. Dopo 5 anni abbiamo accantonato la speranza di una seconda possibilità , ma di tanto in tanto ci chiediamo se adottare un fratellino potrebbe far parte di un nostro progetto di famiglia. Abbiamo però tante perplessità , e non riusciamo a capire se si tratta di un rifiuto della nostra sterilità di coppia o se si tratta di un reale desi-

derio di allargare la famiglia. Abbiamo chiaramente moltissimi altri dubbi e questioni, difficilmente esprimibili in una mail. Confidiamo nel consiglio di una persona esperta che sappia indicarci delle tematiche su cui riflettere per capire veramente quale sarà la strada giusta per la nostra famiglia. Ringrazio anticipatamente per la vostra disponibilità. Cordiali saluti Due Genitori Gentili Due Genitori, Il dubitare è parte integrante del viaggio di ognuno e il vostro pare essere un giusto e legittimo interrogarsi. Accogliere una nuova persona in casa, sia essa di origine biologica o di altra provenienza, è aprirsi alla possibilità di doversi interrogare quotidianamente sulla scelta compiuta,

sulle decisioni prese e da prendere. Credo che prima di ogni altro dubbio, in merito a quanto domandate, ci sarebbe da chiedersi se e quanto vi sentiate pronti a tuffarvi una volta di più nell’ignoto del crescere un figlio, un secondo figlio. Propongo una breve riflessione: almeno una volta vi sarà capitato di consultare le previsioni del tempo. Noi, affidandoci a studiosi, esperti, a metodi più o meno scientifici, possiamo provare a prevedere i cambiamenti climatici, ma essi ci colgono comunque all’improvviso e i loro effetti su di noi li possiamo verificare solo mentre li sperimentiamo. Sapendo che nevicherà, ad esempio, possiamo imbacuccarci per bene, preparare le stufe e le catene per l’automobile; che la neve ci piaccia o no, ci sentiremo più o meno predisposti ad affrontar-


AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate sul nostro giornale. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione. La redazione

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la. Ma la sensazione che ci darà il camminare su una distesa bianca, il silenzio che, quando nevica, si respira nell’aria, il senso di immobilità serena, il freddo pungente che solleticherà la pelle attraverso tutti i nostri “imbacuccamenti”, ci saranno noti solo mentre li sperimenteremo in

maniera diretta. La nevicata causerà sicuramente molti disagi, ma porterà con sé anche sensazioni uniche ed irripetibili. Voi vi sentireste pronti a tutto ciò, ad una nevicata che potrebbe essere una piccola bufera di neve? Una vota risposto a tale quesito, qualunque sia la vostra

risposta, sono certo che tutti gli altri, numerosissimi interrogativi andranno via, via sciogliendosi da loro stessi … come neve al sole! Sperando di aver risposto adeguatamente , cordialmente, vi saluto e attendo un vostro riscontro. Dr Franco Carola


giorno dopo giorno

di Antonio Fatigati

Per non dimenticare 22

Villaggio di Trang Bang, rà grazie allo stesso Nick, nei pressi di Saigon, gio- che dopo aver scattato le vedì 8 giugno 1972, poco fotografie si farà carico di dopo mezzogiorno. Il fotografo Nick Ut assiste, come inviato di guerra, all’intervento dell’aviazione americana a supporto dell’esercito sud vietnamita. Via radio i militari americani e sud vietnamiti sono stati avvisati dell’intervento e quindi si sono allontanati velocemente. Rimangono i civili che, quando arrivano le bombe al napalm, fuggono disperati dal villaggio. Nick li fotografa con sequenze in continuazione e in una di queste rimane impressa questa foto, forse la più famosa e drammatica della guerra del Vietnam. La piccola Kim Phuk, 9 anni, urlante di dolore per la pelle che brucia a causa del napalm (sopravvive-

portarla all’ospedale più vicino dove subirà il primo dei 17 interventi necessari


a restituirle una vita normale), corre disperata in cerca di aiuto. La foto occuperà le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e in pochi secondi la guerra oggetto di scontri di pensiero e di ideologie si mostra a tutti per quello che effettivamente è: un atto barbarico che devasta la vita di chiunque vi si trovi in mezzo, adulto o bambino che sia. Oggi come allora, nei troppi luoghi dove si combattono guerre spesso dimenticate, migliaia di Kim Phuk

corrono in cerca di aiuto. Ma a differenza di allora spesso non vi è un Nick Ut pronto a scattare un’immagine che ci prenda come un pugno nello stomaco, che ci butti in faccia senza pietà una realtà che non riusciamo neppure a immaginare. Un pugno che ci costringa a dire, una volta per tutte, che non esiste giustificazione ideologica, economica o politica per cui un solo bambino debba morire o soffrire. Che non deve esserci pace nelle nostre vite

finché in un solo punto del mondo sia negato a chi viene al mondo il diritto di essere accudito, amato, curato. Oggi Kim Phuk vive in Canada ed è ambasciatrice di pace per l’UNESCO. Pare che una delle sue frasi preferite sia: “Perdono, certo, ma non dimentico per impedire che la stessa cosa avvenga ancora oggi”. Come non essere d’accordo con lei?

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giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

Nomen omen, di nome e di fatto 24

“Mamma, nessuno alla scuola materna si chiama come me!”. Gioco sicura in attacco, snocciolando a raffica un sacco di ottime ragioni per affermare quanto sia bello il suo nome, breve, ma intenso, come la sua storia che in quel nome è racchiusa tutta. E non mi fermo: ho molte cose da declamare sul valore della diversità, sull’originalità di un nome che ha un significato bellissimo. Ancora… non è vero che è l’unica a chiamarsi così: c’è un’altra bimba, un po’ più grande di lei, che vive a Genova e ha il suo stesso nome. “Te la ricordi? L’abbiamo conosciuta all’ultimo incontro nazionale delle famiglie adottive…” Eppure, più le parole mi escono di bocca, più mi accorgo che le mie sagge argomentazioni non l’agganciano affatto: mi guarda

sempre più perplessa. Mia figlia è una bimbetta di cinque anni che vorrebbe, semplicemente, essere uguale alle sue coetanee, chiamarsi Giulia o Marta o Arianna, a volte piuttosto Flora, come una delle Winx, per avere i capelli biondi e lunghi, possibilmente ricci. L’esatto contrario dei suoi: neri e lisci, a incorniciare un visetto dagli evidenti (solo noi familiari e amici stretti non ce ne accorgiamo più…) tratti asiatici. Per potersi confondere tra gli altri bambini, non essere sempre oggetto di sguardi, per assomigliare a me, che sono la sua mamma, a suo fratello, che invece nasconde la sua adozione nei tratti somatici simili ai nostri. Il nome… quante riflessioni sul nome che portano i nostri figli!

Nei primi tempi dell’adozione ho rischiato di essere ideologica, un vero caterpillar: chi cambia il nome al figlio, sentenziavo, non accetta completamente la sua storia, il suo pezzetto piccolo o grande di passato prima di noi. Un passato che non è solo segnato da mancanze, vuoti, non senso. E’ fatto di eventi, di presenze a volte anche buone, nulla va cancellato. Tanto meno il nome, la radice che ti identifica. Oggi in fondo non ho cambiato idea, ma sono meno drastica: dietro ciascuna scelta possono esserci molte ragioni, alcune valide. L’importante è capire bene quali siano le nostre motivazioni di adulti che ispirano alcune decisioni. Anche perché saranno i nostri figli a chiedercelo. “Ma davvero mi avresti chiamato così?” Questa vol-


ta è mio figlio di 10 anni a farmi la domanda. Rispondo tranquilla: “Il tuo nome mi è sempre piaciuto molto e poi ha un significato bellissimo: vuol dire dono. Più

azzeccato di così?”. Sembra in pace con se stesso, almeno al momento. Poi una sera tra le tante, anche la mia bimba esclama: “Se tu mi cambiavi il

nome, io poi non ero più io!!!” La piccola filosofa in erba – forse lo fa per compiacermi? – mi regala una forte emozione.

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giorno dopo giorno

di Antonella Avanzini

Alcune riflessioni sulla ricerca delle origini

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Prendo spunto da una trasmissione televisiva, in cui casualmente mi sono imbattuta: un programma di quelli che non amo, della classica tv del dolore, della lacrima facile che porta i fatti personali “in piazza”. E’ un programma che cerca persone e le mette in contatto su richiesta. Per ogni puntata ci sono più storie. Mi soffermo perché sento la parola adozione: si racconta una storia la cui protagonista è una ragazza adottata. Sei tra fratelli e sorelle della famiglia di origine, cercano l’ultima sorella nata, più di trent’anni prima, che la madre biologica a seguito di vicende personali dolorose, non ha avuto la forza di mantenere all’interno della famiglia e ha deciso di affidare ad altri genitori, di farla adottare da una

nuova famiglia. Oops, penso irritata: ecco ci siamo, la ricerca delle origini! Giusto? Sbagliato? Con che diritto si può, si deve cercare, si deve sapere? Da entrambe le parti. Continuo a guardare il programma; per questa storia di “ricerca adottiva” tutto finisce bene, ma me lo aspettavo considerata l’impostazione del programma. Inizia subito un’altra storia: la trasmissione è composta da più servizi che riguardano diverse storie, diversi racconti personali. La storia successiva racconta di una ragazza che ha vissuto con mamma e papà poi separatisi, in affido per un periodo della sua vita, che scopre ormai ventiquattrenne che suo padre non è il suo padre bio-

logico. Fa quindi ricerche disperate per individuare e conoscere il padre naturale mai visto. Lo trova tramite la trasmissione, e trova anche un nuovo fratello. Altra storia: un uomo ultraottantenne desidera incontrare il fratello maggiore emigrato in Australia, che non vede ormai da trentacinque anni. Si rincontreranno. Insieme a queste storie si aggiunge nella mia mente una vicenda raccontatami di recente, che riguarda persone ormai amiche, insegnanti dell’attività doposcuola settimanale di mio figlio; la storia di due fratelli e una sorella, tutti ormai oltre i quarant’anni, il cui padre molti anni prima quando erano bambini, aveva lasciato la famiglia e si era trasferito a miglia-


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ia di chilometri di distanza; un padre che non vedevano da più di trent’anni. Saputo, recentemente, che il padre è morto, si recano comunque alla veglia, al funerale. E se in uno dei fratelli questo evento placa la rabbia, negli altri esalta definitivamente quel dolore mai sopito, dovuto all’abbandono. E anche qui nulla ha a che vedere l’adozione. Alla fine del programma la sensazione è strana: perché il racconto della storia in cui è protagonista la ragazza adottata non si distacca dalle altre storie? Per tutte queste storie c’è una domanda comune. Negli occhi, nella testa di queste persone, c’è la stessa espressione, la stessa sete, lo stesso vuoto frenetico. Perché accanirsi? Perché cercare? Perché a tutti

i costi mettersi alla prova? Tutte queste storie messe in fila, pur così diverse, che riguardano ricerche così differenti, originate da motivazioni differenti, mi hanno fatto capire meglio. Mi hanno fatto capire che la ricerca non è per trovare qualcun altro, ma per trovare se stessi. E’ una ricerca per trovare qualcosa dentro, non fuori. Non è una ricerca per trovare un’altra persona, ma per cercare quello che si è. Non è importante l’altro nel momento in cui viene trovato, visto, ma è importante quanto questa scoperta o questo nuovo incontro, è capace di creare dentro noi stessi. Conoscendo l’altro, possiamo meglio e più profondamente conoscere noi stessi. E conoscere meglio se stessi, è, a mio avviso, sempre

positivo. Se, da genitori adottivi, saremo capaci di comprendere che è questa la vera dinamica della ricerca, non potremo che essere soddisfatti del percorso di conoscenza che i nostri figli potranno fare. Perché sarà principalmente una ricerca dentro loro stessi, e non la ricerca di qualcuno che ci possa oscurare nei loro affetti. Da genitori noi dovremo essere comunque presenti, dovremo far capire da “genitori per tutta la vita”, qualunque età abbiano i nostri figli nel momento che vorranno cercare - che riguardi la ricerca di un luogo, di un nome o di una persona in carne ed ossa che siamo loro vicini. Perché quello che troveranno dentro e fuori di sé con questa ricerca, produr-


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rà delle conseguenze; e noi dovremo essere comunque lì, sia per goderne insieme se gli effetti saranno positivi, sia per aiutare a recuperare, se gli effetti saranno negativi. Non solo, ma conoscere meglio se stessi, ovvero le vicende che ci riguardano e che hanno fatto sì che noi diventassimo quello che ora siamo, è il solo strumento che abbiamo per completare la sequenza dei fatti oggettivi e soprattutto dei tasselli emotivi che hanno determinato la nostra vita e provare a costruire con essi una convivenza serena. Queste riflessioni sulla conoscenza della realtà della propria storia, così importante per un bambino e un futuro adulto adottato, mi hanno aiutato a comprendere in parte quello che io consideravo il “mistero” dei miei figli. Vedendo come un abbandono anche parziale - diciamo così - per esempio una separazione dei genitori o l’allontanamento anche di uno solo dei genitori, siano capaci di scatenare grandi rabbie e risentimento nei figli, restava per me un mistero la tranquillità nei confronti di queste tematiche, che soprattutto mia figlia dimostrava, mese dopo mese, mentre viveva e vive la sua nuova vita fa-

migliare insieme a noi. Sebbene mia figlia abbia sempre raccontato episodi della sua vita precedente al nostro incontro, mai lo ha fatto con disappunto, con recriminazioni, benché il loro abbandono da parte della famiglia di origine dei miei figli sia stato preciso: “La mamma ci ha accompagnato in un posto e ci ha detto che dovevamo stare un po’ lì, poi è venuta a trovarci qualche volta e poi non è più venuta”. Solo una volta con un piccolissimo accenno di dispiacimento mia figlia ha detto: “Il papà invece non è mai venuto”. A fronte di questi racconti io e mio marito abbiamo provato a chiedere qualcosa in più: “Ma tu ti sei chiesta perché non sono più venuti a prendervi?”. La laconica risposta di mia figlia è stata: “Perché avevano altro da fare”. Al momento ci sembrò una risposta da bambina, un po’ ingenua; ma con il passare dei mesi, ormai degli anni, la trovo una risposta assolutamente pertinente. Dico questo perché mia figlia ha avuto ed ha la possibilità di ricordare: di ricordare come erano i suoi genitori d’origine, della vita che facevano, di tutto quanto è accaduto loro. E se nel momento dell’abbandono e nei successivi anni di vita in istituto al-

cune cose potevano avere un significato non completo, a mano a mano che cresce, riesce a dare a quegli eventi, a quei ricordi la loro giusta dimensione, la loro giusta collocazione. Nella sua verità e nel suo intuito di bambina, mia figlia ha trovato le risposte, sa da cosa la sua vita è stata determinata e sa perché la sua storia è la sua storia. I suoi genitori di origine l’hanno lasciata perché avevano altro da fare. Un “altro da fare” per tutti loro improrogabile. Mia figlia ha avuto una grande fortuna, ha avuto la possibilità di conoscere, di sapere, e credo che questo sia il motivo della sua serenità rispetto a questo tema. Ma chi questa possibilità non l’ha avuta? Chi non sa chi, o cosa è quell’”altro da fare”, che ha determinato la sua storia? Come può vivere pienamente e serenamente la sua vita? Tutti noi abbiamo diritto a conoscere quanto ci riguarda. E chi è stato adottato ne ha diritto non in quanto adottato, ma perché, come tutte le altre persone, ha diritto a sapere tutto ciò che lo riguarda.


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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Leggere, fare e raccontare

Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di Barchetta Blu 30

12. Questo mese: Lo stupore e la meraviglia Oggi è stata davvero una brutta giornata, sono anche arrivati pioggia e freddo. Anche ieri è stata una brutta giornata e mio figlio ha avuto una crisi profonda, di insicurezza scaturita da un compito per casa che non riusciva a fare, ma dovuta a un suo momento difficile di crescita. A dire il vero tutta la settimana è stata pessima: al lavoro si sono succedute una dopo l’altra mille grane da risolvere e tanti problemi che mi sono sembrati insuperabili. E’ sera, mi viene da piangere, mi sento stanca, confusa, inadeguata come professionista e incapace come mamma. Mi siedo in poltrona e sto per iniziare a leggere il mio bel libro quando, tanto per cambiare, una voce mi chiama:

“Mamma! Mamma!” Mi chiedo se far finta di niente. Decido di far finta di non sentire e mi crogiolo nella mia stanchezza. Mi rendo conto che in confronto ai drammi dell’umanità io non dovrei lamentarmi; mi viene un forte senso di colpa e ciò non mi aiuta a sentirmi sollevata ma ancora più sfinita. Comunque la mia vita è anche questa fatta di piccole cose e di momenti difficili; la mia routine quotidiana a volte è impegnativa tra figli, famiglia, lavoro. Mi ricordo che devo anche fare la spesa e cucinare … vorrei avere una bacchetta magica. Mi viene in mente un libro in cui la protagonista riesce a stravolgere la realtà con pennello, colori e curiosità. Anch’io lo vorrei fare, anch’io vorrei colorare un po’ la mia nera giornata. All’inizio del libro c’è scritto

Se hai paura del bosco … non entrare. Questa frase sembra fatta apposta per ricordarmi che la vita va vissuta senza troppo lamentarsi, senza troppe paure, ma con curiosità e stupore. Nel libro Il bosco, la protagonista è Iaia, una impavida pittrice che entra nel bosco alla ricerca di una nuova realtà da vivere. Il bosco rappresenta un luogo dove perdersi e dove ritrovarsi magari un po’ diversi, un po’ cambiati. Il viaggio di formazione e trasformazione è in uno strano luogo che sembra lontanissimo dal nostro mondo ma anche vicino. Il viaggio di attraversamento del bosco rappre-


senta simbolicamente la partenza ma anche il ritorno. Non è importante sapere se Iaia esce dal bosco; importante è sapere che la bambina che è entrata non c’è più e che al suo posto c’è un’altra bambina più coraggiosa e più curiosa. Allora penso di nuovo alla mia vita e a quella dei miei bambini. Penso a tutti quelli che fino a prima mi erano sembrati dettagli minori e che invece sono particolari molto importanti. Penso al bacio di mio figlio prima di entrare a scuola, penso al sorriso della mia collega che ho aiutato in un lavoro difficile, penso all’abbraccio di un bambino felice di aver trovato un libro in biblioteca; penso che la mia vita non è poi tutta da buttare. E penso al libro Gli Uccelli di Germano Zullo e Albertine.

si e di aprire il portellone posteriore; sorprendentemente escono tanti uccelli colorati che volano via nel cielo. In fondo al camioncino trova qualcosa di inaspettato, è una cosa piccola come potrebbero essere tante cose; un dettaglio che si potrebbe anche far finta Certi giorni sono diversi. di non vedere. Ma l’uomo Potrebbero sembrare giordecide di dargli attenzione ni qualunque. e in questo modo decide di Ma hanno qualcosa in più. dare un senso alla giornaNon molto. ta: è un uccellino piccolo Solo un dettaglio. e nero e non sa volare. Il Minuscolo. camionista lo aiuta, non Di solito, non ci si fa caso. fa finta di non vederlo diPerché un dettaglio non è sinteressandosi della sua fatto per essere notato. difficoltà; l’attenzione a Ma per essere scoperto. questo piccolo dettaglio gli Si tratta proprio della stocambierà inaspettatamenria di un dettaglio: un site anche la vita. gnore con la tuta blu guida Il simpatico camionista un camion rosso su una vede andar via tutti gli ucstrada deserta. Sembra un celli e rimane insieme al giorno come tutti gli altri, suo minuscolo nuovo amiun camion come tutti gli co; condivide con lui il suo altri, un signore qualsiasi pranzo e lo spinge a volain un luogo come tanti. Ad re via. I disegni raffinati, un tratto decide di fermar-

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i colori scelti con cura, la figura ripetuta quasi come con uno zoom, catapultano il lettore dentro questa storia ironica, divertente e piena di simbolismo. Il piccolo uccellino alla fine vola via e il camionista lo guarda sognante e forse anche un po’ malinconico; l’uccellino raggiunge lo stormo ma invece di proseguire convince tutti i suoi amici uccelli a ritornare indietro. Raggiunto il camionista gli uccelli decidono di mettere in atto il loro fantastico progetto: sostenuto dalle zampe degli uccelli, l’omino, prima un po’ traballante ma poi deciso a braccia ben distese vola libero nel cielo. Il valore che aveva dato a quel piccolo e apparentemente insignificante dettaglio gli ha permesso di innalzarsi in un cielo meraviglioso. Le pochissime parole e le poetiche

illustrazioni colpiscono chi legge nel profondo. Si racconta in modo tenero e a volte buffo, l’importanza dei dettagli nella vita di ognuno di noi, l’importanza di stabilire relazioni empatiche e l’imprevedibilità della vita. Spesso i bambini si interrogano proprio su dettagli della loro giornata che a noi sembrano poco importanti; in questo modo però i bambini sanno trasformare le cose più normali in spazi di avventura. La storia ci trasmette senza retorica il senso della straordinarietà dell’esistenza contro la monotonia delle cose; in poche pagine ci suggerisce anche l’imprevedibilità delle situazioni, l’intelligenza di fare del bene e l’importanza della responsabilità personale. Il camion dai pneumatici rosa trasporta un sogno, ma questo lo

si capisce solo all’ultima pagina. L’importanza dei dettagli va tenuta presente anche nella vita di tutti i giorni, tenendo gli occhi sempre ben aperti per poi compiere piccoli gesti che aiutano gli altri e anche noi stessi a vivere meglio.

Anche Lo stupore di un pellicano racconta di come sia importante andare oltre allo strato superficiale. La realtà non è sufficiente all’essere umano, un mon-


do non gli basta. Perciò lui stesso deve fabbricarne altri, sempre nuovi. Uno dei protagonisti di questo racconto è Emil, un ragazzo di dieci anni che si trasferisce in città insieme alla mamma, dopo la separazione dal marito che rimane in campagna. Il ragazzo si sente solo e spaesato in una città nuova e sconosciuta. Ed ecco il dettaglio che cambierà la sua vita e la sua visione della cose. C’è uno strano signore che legge il giornale seduto ad un tavolo vicino al suo. L’elegante e pallido signore nasconde un particolare segreto. Dietro le sembianze di un uomo qualunque si nasconde un pellicano. Un vero e proprio uccello che si è stancato di vivere come un volatile e ha deciso di imparare a vivere come gli umani. Gli altri uomini che si fanno ingan-

nare dalle apparenze, non si soffermano sul suo becco o sulle sue piume, ma guardano solo i bei vestiti del signor Lipponen. Insieme i due protagonisti guardano il mondo che li circonda con occhi diversi, un mondo nuovo per entrambi e pieno di miserie e sorprese. Entrambi condividono la solitudine e la nostalgia che li tiene legati al passato, ma insieme crescono e diventano amici. La storia alterna tinte rosa e tinte più scure e si sofferma sul cuore degli uomini a volte buono e altre crudele. Emil insegna al pellicano a leggere ma il signor Lipponen gli spiega una cosa molto più importante: la capacità di stupirsi e di meravigliarsi di fronte all’imprevedibilità della vita. Il ragazzo non si meraviglia più degli occhi tondi e gialli o della

camminata traballante e ridicola del pellicano. Emil guarda al pellicano nei suoi dettagli più profondi, come si guarda un amico vero, andando oltre l’apparenza del becco e delle zampe esili, affezionandosi anche a quei piccoli dettagli. BIBLIOGRAFIA Il bosco. A. Morrone, Artebambini, 2013 Gli uccelli. G. Zullo, Albetine, Topipittori, 2010 Lo stupore del pellicano. L. Krohn, Salani Editore, 2011 Il pesce magico. M. Gagliardi, S. Zavrel, Bohem Press Italia, 2010 Sulla mia testa. E. Jadoul, Babalibri, 2012 Leo. R. Kraus, Babalibri, 2009 Un regalo diverso. M. Azcona, Kalandraka, 2008 Non è una scatola. A. Portis, 2011 I vestiti dell’imperatore. H.C. Handersen, Nord-Sud Edizioni, 2006 La quaglia e il sasso. A. Papini, Principi & Princìpi, 2012 Tutto il tempo del mondo. A. Molesini, Mondadori, 2005 Una storia gigante. C. Gourlay, Rizzoli, 2012

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sociale e legale

Janice Peyré Presidente onorario di Enfance et Familles d’Adoption Membro del Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali (CNAOP) Traduzione di Maud Barret

Adozione e ricerche sulla piattaforma virtuale L’erosione della riservatezza? 34

Secondo uno studio pubblicato nel 2011, 6 Francesi su 10 (di cui due terzi con meno di 35 anni) intraprendono ricerche sul proprio nome, la storia della propria famiglia o un antenato (France Culture, 19 settembre 2011). Con Internet, la tentazione di “gettare la bottiglia in mare” non è che maggiore, alla portata d’uno schermo o di un tablet laddove, in passato, c’era bisogno di spostarsi, di andare ad esplorare gli archivi di comuni, chiese, province e perciò di pianificare, anticipare, riflettere. Oggigiorno, questa facilità fa sì che il gesto possa essere impulsivo e impedisce ogni riflessione sulle conseguenze possibili. La Rete, con le sue risorse quasi inesauribili e in espansione costante, abolisce le distanze: possiamo oggi cercare un membro della propria famiglia in

Tunisia, in Colombia o in Vietnam, così come a Marsiglia o a Lille. Non è sorprendente quindi, in questo contesto, che quelli che sono direttamente toccati dall’adozione siano tentati di lanciarsi nell’avventura delle ricerche su Internet: le persone adottate per risalire lungo il filo della storia pre-adottiva, ritrovare i genitori di nascita, mentre i genitori adottivi sono tentati di ritrovare le tracce della famiglia di nascita, pensando di aiutare un giorno il figlio o la figlia. Le ricerche non hanno aspettato Internet. È negli anni Ottanta che avevano visto la luce associazioni di persone nate da genitori ignoti, ex bambini istituzionalizzati o bambini accolti da agenzie autorizzate per l’adozione, adottati o meno. Queste associazioni stabiliscono liste di genitori di nascita alla ricerca di

figli e di persone alla ricerca delle proprie origini. Le richieste vengono trattate per corrispondenza o per telefono. È così che, ad esempio, una figlia e una madre in contatto con la stessa associazione, si sono ritrovate. Altri, di gran lunga più numerosi, sperimentano la delusione: nei diversi reparti di maternità nasce ogni giorno più di un bambino; un genitore di nascita non si manifesta necessariamente, né una persona adottata.... Considerando che la Commissione nazionale dell’informatica e delle libertà (Commission Nationale de l’Informatique et des Libertés, ndt) vieta ogni raccolta di dati personali senza un contesto di rifertimento, è lecito chiedersi cosa diventino queste liste quando le associazioni cessano la propria attività. Successivamente Internet ha fatto irruzione nelle


case, sconvolgendo i modi di comunicazione, di scambio e di ricerca che si sono moltiplicati grazie allo sviluppo di potenti motori di ricerca e con l’avvento dei social network. Alcune associazioni hanno creato siti, ed altre sono nate. Un’associazione invita le persone a mettersi in contatto per telefono o email per essere iscritti su un registro che non è reso pubblico; un’altra pubblica online la lista delle persone (spesso indicate da un nome, a volte da uno pseudonimo) alle quale si accede a seguito di iscrizione; un’altra ancora è aperta a tutti i venti, con ricerche possibili per luogo o anno di nascita. La vista di questi nomi, luoghi e dati che scorrono sullo schermo non manca di suscitare un misto di emozione e disagio. Gli elementi richiesti sono principalmente i seguen-

ti: cognome, nome, sesso, data e luogo di nascita. In aggiunta, a volte, la data dell’affido in vista dell’adozione, il cognome o nome dei presunti genitori di nascita quando sono conosciuti, il nome dell’organismo attraverso il quale la persona è stata affidata o adottata. Un’associazione ha anche aggiunto alcune foto delle persone. Questi siti riguardano principalmente persone nate in Francia, in maggior parte con parto segreto. Queste procedure sostituiscono, o sono a volte condotte in parallelo, la consultazione del dossier o il ricorso al Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali (Conseil National d’Accès aux Origines Personnelles, ndt). Lo sviluppo dell’adozione internazionale e quello di Internet hanno visto la comparsa di altri ambi-

Enfance et Familles d’Adoption (EFA) è una federazione di 92 associazioni dipartimentali, che comprende circa 9.000 famiglie adottive, attiva da quasi sessanta anni. EFA è stata riconosciuta di pubblica utilità dal 1984, affiliata alla Unione Nazionale delle Associazioni Familiari (UNAF). interlocutore del governo, della politica e delle diverse organizzazioni che operano nel campo dell’adozione , EFA partecipa alla evoluzione delle idee e della legislazione, preparazione dei futuri adottanti, sostegno alle famiglie. Rappresenta le famiglie adottive in seno al Consiglio Superiore per l’adozione (CSA collocato all’interno del Ministero per la Famiglia), all’interno del Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali (CNAOP collocato all’interno del Ministero della Famiglia), nel comitato di sorveglianza dell’Agenzia adozione francese. EFA si impegna a sensibilizzare e rispettare i diritti dei bambini, in particolare il loro diritto ad avere una famiglia, riconosciuta dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, partecipare allo sviluppo e al miglioramento delle adozione dei bambini nati in Francia come di quelli nati all’estero, difendere gli interessi morali e materiali degli adottati e dei genitori adottivi, aiutare le famiglie adottive in tutto ciò che riguarda l’adozione e le sue implicazioni, sia legali che morali e psicologiche, informare i candidati all’adozione e tutti gli interessati su tutte le questioni relative all’adozione.

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ti di ricerca, ad esempio i forum, «misti» (adozione nazionale e internazionale) o specifici delle adozioni internazionali, per area del mondo di provenienza o globali. Basta inserire gli elementi e indicare il motivo della propria ricerca. Altre persone leggono questi messaggi e rispondono direttamente se pensano di riconoscersi o riconoscere qualcuno nel proprio ambiente. Gli adottati che hanno appreso dal loro dossier di avere un fratello o una sorella adottato/a da un’altra famiglia, in un altro paese forse, comunicano informazioni su di sé e indicano il proprio nome d’origine, che compaiono nel loro dossier. Recarsi su questi forum è una ricerca volontaria: il risultato dipende dal caso che farà sì che colui o colei che si cerca, o una persona a loro vicina, vi si recherà e si riconoscerà negli elementi messi in rete. Si può pensare che la ricerca, in questo caso, sia reciproca, anche se le aspettative non lo sono necessariamente. La disillusione della realtà può essere grande. Questi percorsi implicano spesso una certa solitudine, una mancanza di preparazione sulle implicazioni di tale ricerca e possono rivelarsi dolorose, tanto nell’attesa d’una risposta

che nel disappunto o nelle delusioni che seguono a volte e nell’assenza di sostegno per attraversare tutto ciò. Nessuno padroneggia il tempo nelle ricerche della propria origine, e questo tempo è ancor più fuori controllo nel caso d’una ricerca su liste : possono passare anni prima che due domande si incrocino. Inversamente, basta che il file faccia apparire un incrocio possibile di identità perché la procedura sia iniziata – anche se, in quel momento, non si desidera più continuarla. Ciò che appariva inizialmente un gioco può volgersi in incubo. Una volta ingranato il ricongiungimento on line, seguono scambi a valanga dove ci si espone a volte in modo molto intimo. Ma nel corso dello scambio, può apparire un dubbio : come posso essere sicuro/a che questa persona che non ho mai visto, alla quale mi offro così, sia realmente mia madre/mio figlio ? L’inganno dell’email e di Internet è di mescolare le due dimensioni opposte : l’anonimato (chi c’è realmente dietro lo pseudonimo, l’indirizzo email?) e la dimensione intima tradizionalmente associata alla scrittura di una lettera. Lo scambio via email sui social networks elimina la messa a distanza del

tempo che era, al minimo, quella del viaggio della lettera, poi della risposta. Le motivazioni degli uni e degli altri possono rivelarsi incompatibili. L’ adottato sogna di ritrovare un viso simile al suo, di colmare dei vuoti nella sua storia, di trovare risposte alle sue domande, senza veramente pensare al dopo. Ma il fratello, rimasto al paese d’origine, ritrovato grazie ai social networks, richiede con insistenza aiuto per richiedere un visto ; o la madre di nascita vorrebbe che il figlio diventasse padrino di un altro suo figlio, o del denaro per curarne uno che è malato. Come disimpegnarsi da ciò che può diventare invadente, pesante, colpevolizzante e angosciante ? Laddove associazioni registrate in Francia sono identificabili o possono offrire accompagnamento o sostegno, certo di natura impari, le ricerche su forum incitano intermediari più o meno seri ad offrire i propri servizi : Mi chiamo Marc, sono francese, vivo da dieci anni in Vietnam, posso aiutarvi nelle vostre ricerche del tutto gratuitamente. Un servizio che può a prima vista sembrare « gentile » e gratuito può nascondere molte trappole. Alcuni siti utilizzano questo procedimento


per in seguito monetizzare i loro servizi. Questi siti hanno motori di ricerca che « aspirano » e processano tutti i dati su internet e sui social networks, in tutte le lingue (e tutti gli alfabeti e ideogrammi). Così, il nome di un adottato postato su un sito francese, i dettagli che ha potuto lasciare a giro qua e là su di sé, ma anche gli elementi che i suo genitori hanno pubblicato sul loro blog (origine etnica, luogo di nascita, data di arrivo, nome dell’orfanotrofio o dell’avvocato, etc...), potranno essere incrociati con nomi pescati in vari blog, social networks, forum, agenzie di stampa e siti diversi, in Russia, in Cina o nelle Filippine. Alcuni siti vanno fino a proporre di costruire veri alberi genealogici delle famiglie d’origine, mediante pagamento e senza

garanzia, ovviamente, che tutti gli elementi associati siano affidabili, senza preoccuparsi dell’impatto che ciò può avere su quelli che si trovano appesi ai rami. Se i dati non offrono al giorno d’oggi alcun problema per essere recuperati, sarà presto lo stesso con le fotografie, che si potranno consultare, paragonare e « seguire » attraverso il tempo, con l’inclusione di metadati e di tecniche già sperimentate come « l’invecchiamento », per tenere in conto il tempo che passa... Infine, non dimentichiamo che gli scambi con gli sconosciuti su Internet e i segni indelebili della storia e dell’identità di una persona adottata seminati nel cyber spazio lo espongono ancor più ai rischi crescenti d’usurpazione dell’identità numerica e di furto

d’identità (n°1 dei cyber crimini). Al momento in cui appare più importante che mai l’accompagnare questi percorsi, specialmente per i più giovani, la riflessione e i mezzi appaiono superati dal fenomeno Internet - anche se alcuni paesi, come il Regno Unito, organizzano corsi di formazione per genitori, assistenti familiari e educatori per tentare d’aiutare le famiglie a trovare i modi di contenerne gli effetti. La riservatezza nell’adozione non esisterà presto più (come nota il Donaldson Institute, osservatorio indipendente dell’adozione) – se esiste ancora, oltre che in teoria. La responsabilità delle famiglie e delle loro associazioni invita a confrontarsi urgentemente con questa realtà. Il genitore può già esplorare da solo, anche

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per scambiare con altri, un certo numero di dritte suscettibili di aiutarlo ad interrogarsi sulle proprie pratiche, di sviluppare risorse proprie e di rinforzare il proprio ruolo per i bambini : – di misurare senza trucco il proprio rapporto ad Internet e ai social networks, il modo in cui divulgano informazioni riguardanti i propri figli, o ricercano in segreto informazioni sulle famiglie di nascita (mentre il bambino, da parte sua, ugualmente in segreto, fa forse lo stesso), e i motivi che lo spingono a farlo; – di interrogarsi sulla pro-

pria posizione rispetto alla storia pre-adottiva del figlio, il posto che gli viene fatto, quello che viene fatta alla sua storia e alla storia trans-generazionale della famiglia (adottiva) intera; – di ri-introdurre e mantenere in circolo la parola e la fiducia sull’abbandono e sulla storia pre-adottiva ; – di proporre eventualmente incontri con altri giovani o giovani adulti che condividono preoccupazioni analoghe, ad esempio nel quadro di un’associazione di adottati; – di integrare questa dimensione nel proprio ruolo genitoriale verso i figli;

– di districarsi tra tutto ciò, cercando si sensibilizzare i figli al rispetto dovuto a quelli che ricercano ma anche ai rischi inerenti ad ogni scambio online con degli sconosciuti. Senza negare la realtà delle evoluzioni tecnologiche che fanno parte dell’ambiente di ogni bambino, lo scopo è di tentare di proteggerlo e attrezzarlo al meglio, per preservargli così una spazio di vita privata. Anche se questo spazio, nell’era digitale, sembra rimpicciolirsi ad una velocità allarmante.


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sociale e legale

di Angelamaria Serpico Avvocato specializzato in diritto di famiglia e diritto minorile

La ricerca delle origini in Italia 40

La L. 28 marzo 2001 n. 149, in parziale riforma della L. 184/1983, ha introdotto nel nostro ordinamento il concetto di conoscibilità del proprio status di figlio adottivo così innovando l’art. 28 della legge sulle adozioni. All’adottato è altresì consentito sapere chi siano i propri genitori naturali. L’articolo 28 dispone, quindi, che i genitori adottivi debbano informare il minore adottato con le modalità e i termini che ritengono più opportuni: ad essi, dunque, è demandata ogni valutazione e scelta della tempistica, anche se sembra ragionevole che essi non debbano attendere il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, dal momento che il legislatore, nella norma in esame, si riferisce comunque a “minori”. Al raggiungimento del venti-

cinquesimo anno, inoltre, è possibile accedere ad informazioni concernenti l’identità dei genitori naturali e, qualora ciò sia utile per gravi motivi attinenti alla salute, l’accesso a queste informazioni è consentito anche prima, cioè al raggiungimento della maggiore età (art. 28, 5 comma). A tale scopo, occorre presentare istanza al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. Il Tribunale esperisce un’istruttoria sentendo tutte le persone ritenute utili e, valutato che la conoscenza delle notizie non siano pregiudizievoli all’equilibrio psico-fisico del richiedente, autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste. E’ tuttavia da sottolineare che il comma 7 del predetto articolo (così come modificato dall’art. 177 D. Lgs. 196/2003 sopra menzionato) non consente l’accesso

alle informazioni relative alla madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata nella dichiarazione di nascita resa ai sensi dell’art. 30, comma 1 del D.P.R. 3/11/2000 n. 396 e che serve ai fini della redazione dell’atto di nascita da inserire nei registri dello stato civile. I minori non riconosciuti, quindi, non hanno la possibilità di accedere alle loro origini biologiche, come ha anche precisato la giurisprudenza: Si deve tuttavia tener conto che, anche nel caso della donna che voglia partorire nell’anonimato, per effetto del D.M. 16/7/2001 n. 349 “deve essere comunque assicurato un raccordo tra il certificato di assistenza al parto privo dei dati idonei a identificare la donna che non consente di essere nominata con la cartella clinica custodita presso il


luogo dove è avvenuto il parto”. Ciò rende, quindi, tecnicamente sempre possibile risalire alle generalità della partoriente tramite l’accesso ai documenti sanitari (anche se, vale la pena di sottolineare come l’accesso al testo integrale sia normalmente consentito decorsi cento anni dalla formazione del documento, mentre prima della scadenza di questo periodo, dall’atto verranno sempre eliminati i dati sensibili riguardanti la partoriente). Molteplici sono stati quindi, tra gli operatori del diritto, gli orientamenti volti a consentire anche in questo caso l’accesso alle informazioni, in quanto si tende a tutelare il principio che la conoscenza delle proprie radici costituisca il presupposto indefettibile per l’identità personale dell’adottato, che assurge a vero e proprio diritto sog-

gettivo con la conseguenza che la negazione di questo diritto, per il solo fatto che la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, costituirebbe una vera e propria violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all’identità personale dell’adottato. Alcuni giudici di merito hanno offerto una possibile soluzione alla contrapposizione tra gli interessi della madre biologica e quelli del figlio adottivo, stabilendo la necessità di verificare se la volontà della madre all’anonimato persista o meno; è quindi stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 in esame, laddove non condiziona, appunto, il divieto per l’adottato di accedere alle informazioni sulle proprie origini alla previa verifica, da parte del giudice, all’at-

tuale persistenza di quella volontà (cfr. Trib. Firenze, ordinanza 21 luglio 2004, in G.U. n. 3, prima serie speciale, anno 2005). La Corte Costituzionale, investita della questione, si è espressa nel senso che debba prevalere l’interesse della gestante che, in situazioni particolarmente difficili sotto il profilo personale, economico e sociale, abbia deciso – non abortendo - di non tenere con sé il bambino; la decisione che ne è conseguita ribadisce, quindi, la necessità di garantirne l’anonimato. Nel conflitto tra il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e il diritto della madre a non essere nominata, viene quindi nuovamente confermata la prevalenza del diritto di quest’ultima. Occorre tuttavia precisare che l’orientamento dei Tribunali per i minorenni

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è molto prudente nel consentire l’accesso alle origini anche negli altri casi, pur consentiti dalla legge vigente. Permane, infatti, una rigorosa valutazione del caso specifico sia per l’adottato diciottenne.

Anche la dottrina si mostra divisa tra chi è favorevole al diritto all’accesso alle informazioni e chi lo nega. In particolare, tra le opinioni più restrittive, si evidenziano le perplessità di chi teme che le nuove norme possano nella pratica portare a creare ulteriori dubbi e insicurezze nella famiglia adottiva considerata nella sua interezza, non potendosi peraltro trascurare gli effetti negativi che alcune notizie potrebbero avere sulla personalità dell’adottato messo al corrente di informazioni drammatiche, quali ad esempio il concepimento a seguito di violenza sessuale o incesto, la malattia mentale di uno o entrambi i genitori biologici, etc.

Sebbene la norma in esame sembri disporre che l’adottato ultraventicinquenne non abbia bisogno dell’autorizzazione del TdM per accedere alle informazioni che lo riguardano, il decreto 24/2/2004 n. 91 “Regolamento recante modalità di attuazione e organizzazione della banca di dati relativa ai minori dichiarati adottabili, istituita dall’art. 40 L. 28/3/2001 n. 149” ha precisato che l’accesso alla banca dati è consentito solo per il tramite del Tribunale per i mino- La giurisprudenza ha offerto ulteriori precisaziorenni. ni sull’interpretazione

dell’articolo 28. In particolare ha chiarito che le informazioni sulle origini possono riguardare non solo i genitori naturali ma anche, ad esempio, i fratelli o le sorelle. Non è ammesso, però, il caso contrario, nel senso che non si ritiene ammissibile ottenere dati e notizie sui propri fratelli germani, ormai maggiorenni e a suo tempo adottati, tanto più quando questi ultimi non hanno mai fatto richiesta di conoscere i propri parenti di sangue (cfr. Tribunale minorenni L’Aquila, 17 gennaio 2008). Il motivo della pronuncia appena citata risiede nella circostanza che, secondo la giurisprudenza, solo il diretto interessato possa avere accesso alle informazioni, e non altri soggetti. Occorre segnalare che la


sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, depositata il 25 settembre 2012 ha dichiarato che il divieto di conoscere le proprie origini per tutelare il diritto della madre biologica di rimanere anonima è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questo almeno nei casi in cui la legge interna impedisce una valutazione degli altri interessi in gioco, primo tra tutti il diritto di un bambino abbandonato di avere notizie sulla propria identità. Ad avviso della Corte di Strasburgo, infatti, pur essendo vero che in questo settore esiste un ampio margine di discrezionalità attribuito agli Stati, occorre tuttavia che le autorità nazionali tengano conto dei diversi interessi in gioco e siano in grado di bilanciare le diverse esi-

guardanti le origini dei minori rimangono conservate sia presso il Tribunale per i minorenni che la medesima CAI. All’ultimo comma stabilisce che “per quanto concerne l’accesso alle altre informazioni valgono le disposizioni vigenti in materia di adozione di minori italiani”. Perciò, nel caso in cui – come peraltro avviene solitamente – i genitori adottivi abbiano già l’atto di nascita originario del minore – con l’indicazione, Per quanto riguarda l’ado- quindi, dei genitori biolozione internazionale, l’art. gici - ed altri documenti a 37 L. 184/1983 dispone lui relativi (es.: anamnesi che, successivamente all’a- sanitaria, biografia, etc.), dozione, la CAI può comu- sembra che essi possano nicare ai genitori adottivi, senz’altro comunicare tali anche tramite il Tribunale notizie al proprio figlio così per i minorenni, solo le in- come previsto e reso obbliformazioni che hanno rile- gatorio dalla legge. vanza per lo stato di salute del minore. Dispone, inoltre, che le informazioni rigenze al fine di garantire a tutti il pieno rispetto del diritto alla vita privata e familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione europea. A seguito di tale pronuncia è stata nuovamente posta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 comma 7 L. 183/1984 relativo al cosiddetto “parto anonimo”, come prima precisato, da parte del Tribunale di Catanzaro lo scorso settembre.

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sociale e legale

Françoise Toletti Responsable de l’accompagnement à la parentalité Enfance & Familles d’Adoption

La ricerca delle origini in Francia

Il Consiglio Nazionale per l’Accesso alle Origini Personali (CNAOP) 44

Creato per legge nel 2002, il ruolo del CNAOP è di agevolare la ricerca delle origini personali per le persone nate da un parto anonimo. La legge ha in effetti aumentato per le madri le possibilità di lasciare informazioni destinate al bambino: rimozione del segreto in qualsiasi momento successivo al parto (già dalla legge precedente), identità depositata in una busta chiusa o raccolta di informazioni non identificanti al momento del parto. Il CNAOP interviene dunque in quattro diversi momenti: quando una donna ammessa in maternità chiede o progetta di chiedere l’anonimato del parto. Viene ascoltata e informata sulla procedura; dopo la nascita, per l’ammissione del bambino sotto la tutela provvisoria dello Stato, se la donna chiede

effettivamente il segreto della sua identità; quando un adottato adulto (o un minore in età di discernimento con l’accordo dei rappresentanti legali) ricerca la sua storia e chiede di conoscere le sue origini personali; quando una madre che aveva chiesto l’anonimato del parto desidera rimuovere il segreto, dichiarando la sua identità. Per svolgere queste missioni, il CNAOP si avvale di un servizio centrale a Parigi (17 persone) e di circa 250 corrispondenti distribuiti tra le varie provincie (almeno 2 corrispondenti per provincia). Solo il servizio centrale del CNAOP ha l’autorità di : ricercare la madre di nascita raccogliere la sua volontà di rimuovere o no il segreto organizzare un’eventuale incontro

In dieci anni di attività, il CNAOP ha ricevuto 6000 domande di ricerca di origini personali. 5500 dossier sono stati chiusi, di cui il 32% dopo comunicazione dell’identità della madre. Nel 43% dei casi, non è stato possibile identificare o ritrovare la madre. Per una parte dei bambini nati in Francia (il 40% nel 2011), il CNAOP permette dunque di trovare una risposta nella ricerca delle origini, con un certo livello di accompagnamento. Per gli altri (abbandonati, rinuncia, perdita potestà genitoriale), il loro dossier è conservato dai servizi sociali territoriali, la loro ricerca accompagnata o no. Per quanto riguarda i bambini adottati all’estero, i dossier sono sparsi tra i genitori adottivi, gli enti, l’autorità centrale... un vero «percorso di guerra» per l’adottato.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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trentagiorni

IL CALO DELLE ADOZIONI CONTINUA: -9,1% La CAI pubblica una sintesi del rapporto statistico del 2013: gli italiani hanno adottato 2.825 bambini, il 9,1% in meno dell’anno prima. Ma la flessione rallenta rispetto al -22,8% del 2012 Il 2013 ha visto un nuovo calo delle adozioni internazionali: -9,1%. Una flessione decisamente più contenuta di quel -22,8% che era stato registrato nel corso del 2012. Il dato è contenuto nella prima sintesi del Rapporto statistico delle adozioni pubblicato dalla CAI sul proprio sito: sono i primi dati ufficiali disponibili dal gennaio dell’anno scorso, visto che la CAI quest’anno non ha reso noto il consueto report semestrale. Nel corso del 2013 la Commissione ha rilasciato l’autorizzazione all’ingresso in Italia per 2.825 bambini, provenienti da 56 Paesi. Questi bambini sono stati adottati da 2.291 famiglie residenti in Italia (-7,2% rispetto al 2012). Federazione Russa, Etiopia, Polonia, Brasile, Colombia,

sono i 5 Paesi di origine da cui arrivano complessivamente il 56,4% dei bambini adottati da coppie italiane. La Polonia è una new entry nella top5 dei Paesi, che l’anno scorso vedevano un ordine diverso e l’Ucraina nei primi cinque. La Federazione Russa resta il primo Paese di provenienza, con 730 minori entrati in Italia nel 2013, pari al 25,8 % del totale, ma in calo (-19 bambini). In calo anche Brasile (-45 bambini), Colombia (-83) e Ucraina (-79). Crescono invece Etiopia (+60 bambini), Polonia (+57), Repubblica democratica del Congo (+21) e Vietnam (+38). L’Etiopia, con 293 minori (10,4 %) è il secondo Paese di provenienza, seguito dalla Polonia con 202 minori (7,2%), dal Brasile con 187 (6,6%) e dalla Colombia con 179 (6,3%). Fonte: Vita.it ABBANDONO SCOLASTICO, ITALIA TRA I 5 PAESI PEGGIORI D’EUROPA I dati della Commissione Ue: nel 2012 il tasso di rinuncia

all’istruzione è rimasto alto (17,6%), in controtendenza rispetto alla media continentale del 12,7%. Numeri allarmanti nel Mezzogiorno L’Italia è tra i paesi peggiori d’Europa per abbandono delle aule: lascia i banchi troppo presto il 17,6% degli alunni, con punte del 25% nel Mezzogiorno. A renderlo noto è l’Anief (l’associazione che riunisce gli insegnanti italiani), che sottolinea come ci stiamo allontanando troppo dalla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa quest’anno al 12,7%, e all’obiettivo comunitario del raggiungimento del 10% entro il 2020. Sono ancora cinque le nazioni ancora molto lontane da questa meta; tra loro anche l’Italia, che per numero di 18-24enni che hanno lasciato gli studi prima del tempo è riuscita a fare peggio anche della Romania, che è al 17,4%. “Non può consolarci sapere - continua l’Anief - sempre dalla Commissione europea, che in Spagna lasciano la scuola prima del tempo,


acquisendo al massimo il titolo di licenza media, il 24,9% dei ragazzi. E che anche Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%) sono degli esempi da evitare”. Nel quadro europeo, invece, sono sicuramente da prendere a modello quei 12 Paesi dell’Unione che hanno già raggiunto e superato l’obiettivo del 10% di dispersione, con largo anticipo. Ma anche nazioni più grandi, come Germania, Francia e Regno Unito dove, nonostante la popolazione numerosa, si è prossimi al raggiungimento della soglia. Tornando all’Italia, la situazione risulta particolarmente critica in Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%. Mentre la fascia di età in cui c’è il picco degli abbandoni rimane quello dei 15 anni, quando i ragazzi frequentano il biennio delle superiori. Ma le associazioni di categoria, oltre a constatare la drammaticità dei dati,

lanciano anche una polemica nei confronti delle nostre istituzioni: “L’allontanamento dall’Europa in merito alla dispersione scolastica - ha detto Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - non è un dato casuale. Ma è legato a doppio filo ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni”. In particolare, secondo l’Anief, negli ultimi sei anni sono stati cancellati complessivamente 200mila posti, sottratti 8 miliardi di euro e dissolti 4mila istituti a seguito del cosiddetto dimensionamento (poi ritenuto illegittimo dalla Consulta). “Ora -sottolinea Pacifico siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, questi dati non sorprendono: più si taglia e più la dispersione aumenta”. Dall’associazione fanno sapere anche che s’inizia a registrare un calo dell’interesse alla formazione anche in ambito universitario, con le immatricolazioni che

sono scese al 30% dei neo diplomati. Anche in questo caso, polemizza l’Anief, punta il dito sulla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla perdita dei ricercatori, sempre più orientati verso l’estero. Con il risultato che il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue. Come se non bastasse, poi, in Italia la spesa in istruzione è sempre più misera: tanto che (dati Ocse alla mano) il nostro Paese si piazza per investimenti nella scuola al 31esimo posto tra i 32 considerati. Solo il Giappone fa peggio di noi. Per non parlare degli stipendi degli insegnanti, tra i più bassi: con 32.658 dollari l’anno nel 2010 nella scuola primaria (contro i 37.600 della media Ocse), 35.600 dollari nella scuola media (39.400 Ocse) e 36.600 nella secondaria superiore contro 41.182 dell’area Ocse. Fonte: Repubblica.it

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