Adozioni e dintorni - GSD Informa febbraio 2012

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - febbraio 2012 - anno II, n. 10

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - febbraio 2012 - anno II, n. 10

febbraio 2012 | II, 2 GSD informa

Come vorrei che

fosse…

Quando imparare è difficile I bambini si raccontano

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GSD informa

editoriale

di Simone Berti

psicologia e adozione

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Il mio corpo mi tradisce di Aubeline Vinay Origini biologiche di Franco Carola scuola e adozione

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Quando imparare è difficile… di Adriana Molin e Cesare Cornoldi

giorno dopo giorno

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Come vorrei che fosse… di Anastasia Ma lui lo sa? di Marta e Alberto leggendo

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Uh! Che paura! di Marina Zulian

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I bambini si raccontano: i gruppi di parola per figli di genitori separati di Cesarina Colombini I bambini di Makeni di E.J. Graff Gli enti autorizzati di Angelamaria Serpico

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trentagiorni

sociale e legale

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redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@ genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pea Maccioni, Lecce

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma; Diana Giallonardo, L’Aquila; Raffaella Ceci, Monza.

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editoriale

di Simone Berti

Il minore Aprendo un qualunque giornale o rivista in questo mese avrete notato la notizia del calo dei decreti di idoneità rilasciati dai Tribunali per i minorenni alle coppie che vogliono adottare bambini stranieri. Accanto avrete potuto leggere accurate analisi del fenomeno e convincenti interpretazioni sulle cause che l’hanno determinato. Spesso le affermazioni che accompagnano l’articolo sono allarmistiche o di denuncia, altre volte il tono si fa più distaccato per domandarsi se questo comporterà la graduale scomparsa delle adozioni internazionali. Noi genitori adottivi leggiamo con interesse queste valutazioni, spesso ne condividiamo le riflessioni, ma non dobbiamo stancarci di riportare l’attenzione su qualcosa che resta quasi sempre relegato sullo sfondo, per lo più accennato, un aspetto che Adozione e dintorni cerca dalla sua nascita di far emergere da elemento di cornice dove spesso viene relegato. Parlo della necessità e l’urgenza di portare in primo piano la carenza, il prevalente misconoscimento, se non la totale assenza, di un discorso culturale che sostenga ciò che non ha dalla sua la forza delle cifre, i grandi numeri e i conti in regola. Non ci può essere una politica attenta ma neanche una vera cultura dell’adozione se non allarghiamo il nostro sostegno a tutto ciò che porta in sé il sapore della differenza, della minoranza, se non dell’emarginazione. Una cultura che valorizzi e accompagni il minore. Il minore nel senso più letterale del termine cioè il più piccolo, il meno grande e come recita il dizionario in tutte le sue accezioni, riguardo quantità, numero, durata e soprattutto importanza. Minore nel senso che è relegato a far parte di una minoranza, di chi ha una voce più dimessa e meno vivace di altri che sono e agiscono come maggioranza, voce unanime e altisonante. Minore perché ritenuto avere meno valore o insolito, eccentrico, fuori dal comune come si dice della produzio-



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ne “minore” di un artista. Infine minore perché è più giovane, nato dopo, minorenne. Ecco: una cultura della differenza. Di questa mancanza e omissione spesso finiamo tutti per essere complici, inavvertitamente, per lo più convinti di poterci ritenere aperti, accoglienti e di larghe vedute. Ci spaventa la nostra diversità. Vorremmo, qualora non sia possibile negarla del tutto, annullarla prima possibile. Noi genitori adottivi conosciamo bene l’urgenza dell’integrazione e la paura della solitudine. La sofferenza a volte acuta con cui accompagniamo quel bisogno di tempi altri, di percorsi tortuosi, a volte imprevedibili, discontinui, che i nostri figli compiono in territori laterali, per lo più secondari, in tempi imprevedibili, spesso inopportuni, per raggiungere un punto che a noi, corredati da tutte le nostre certezze, appare lì davanti, così a portata di mano. Conosciamo i ripetuti tentativi di imboccare scorciatoie negando tutta una parte del tragitto necessaria e realmente intessuta di una storia che è diventata anche nostra. Essere famiglia adottiva è qualcosa che ci portiamo dentro, è una condizione esistenziale che ci accompagna e determina la nostra vita e quella dei nostri figli continuando a far capolino in tutte le sue fasi. Differentemente, appunto, e arricchita di diversità. Dobbiamo anche imparare a prenderci un certo gusto ad adottare la prospettiva di chi è più piccolo. Tutti noi lo siamo stati e occorre non temere di riconoscerlo ed esserlo di nuovo. In più il minore ha dalla sua il gioco, gli dovrebbe essere consentito smarrire il senso e ritrovarlo altrove, in modo inaspettato, connotato anche di non senso. E poi troppo spesso releghiamo sullo sfondo o a far da contorno, ad essere minoranza, coloro che invece sono i reali protagonisti di quello di cui ci stiamo occupando. Quante volte continuiamo a parlare dei nostri figli tra noi adulti, discutendo, se non bi-


sticciando, su cosa sia meglio per loro, sugli sbagli fatti, in genere dall’altro, e su quello che dovrebbe essere fatto, anche questo in genere dall’altro; e ne parliamo pur essendo loro lì presenti, non interpellati, relegati sullo sfondo spesso del un sedile posteriore di un’auto o nell’angolo di una stanza, apparentemente occupati in altro. I bambini imparano fin da subito a loro spese che non è il loro punto di vista che verrà adottato. Fin dalla nascita, quando la posizione in cui questa avverrà non è quella più confortevole per la propria madre né la più sicura per la loro salute, ma semplicemente la più comoda per il medico che se ne dovrebbe prendere cura e così via, passo dopo passo, fino alla scuola in cui si troveranno a compiere il loro percorso di studi su libri che risultano non i più coinvolgenti o i più vicini alla loro sensibilità, mai interpellati nella scelta, ma i più comodi per gli insegnanti e i più conformi alle logiche delle case editrici. Adozione e dintorni continuerà a fare la sua parte nel dare voce a tutto ciò che è minore. Perché una piccola flebile voce ha bisogno di più cura, di più tempo, di più pazienza perché non sia semplicemente sentita ma davvero ascoltata. E spesso non basta ascoltare con l’orecchio, ma occorre impegnarsi con tutti sensi. Guardare con ostinazione, sentirne l’odore, gustarne il sapore, toccare, accarezzare, chinarsi e di nuovo, fatti più piccoli, rivolgergli lo sguardo, parlargli all’altezza del cuore. Averne cura davvero. Questo mese tra l’altro parleremo di gruppi di parola, dell’importanza di ascolto per chi subisce le conseguenze delle azioni di noi adulti anche in contesti diversi da quelli dell’adozione, impareremo percorsi che possono consentirci di giocare con le nostre paure e ci interrogheremo su come aiutare i bambini che incontrano difficoltà nell’apprendimento. E poi troverete lo scritto di una ragazza, minore, non interpellata, che ha voluto farci conoscere il suo punto di vista intorno all’adozione. Buona lettura

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psicologia e adozione

Il mio corpo mi tradisce Quando l’adozione si vede

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Vi sono casi in cui l’origine etnica è chiaramente visibile, altri in cui tale origine è anche diversa da quella dei genitori. Allora come si elabora l’immagine di sé, sapendo che è la storia intima e personale che verrà riscoperta ogni volta che genitore(i) e figlio(i) saranno in presenza l’uno dell’altro? Le funzioni del corpo Il corpo è un percetto (sentimento, impressione) soggettivo che proviamo e sentiamo, che ci permette di rappresentarci e andare incontro all’altro e a noi stessi. Senza mai sapere realmente chi siamo davvero, proviamo attraverso tentativi esperienziali a capire e a mostrare chi siamo – o chi pensiamo di essereutilizzando il nostro corpo

come un intermediario, un mediatore, un’interfaccia tra la coscienza di noi stessi e le aspettative sociali esterne. Ma se il corpo fa di noi ciò che siamo, continua anche a rimandarci ai nostri propri limiti e debolezze. Si tratta quindi di ri-porsi le domande essenziali su chi siamo, su cosa costituisce il nostro sentimento d’identità personale, su quale ostacolo costituisca il nostro corpo per il nostro sviluppo psichico o, invece, in cosa questo corpo possa diventare il nostro alleato per procedere nel senso dell’esistenza. La pelle racchiude il corpo, i propri limiti; stabilisce il confine tra il dentro e il fuori in maniera viva, porosa, perché è anche apertura al mondo, memoria vivida. La pelle è il barometro del

gusto di vivere del soggetto. Essa avvolge e incarna la persona, distinguendola dagli altri. È uno schermo dove si proietta un’identità sognata. O, al contrario, la pelle rinchiude in un’identità insopportabile della quale si ci si vorrebbe spogliare. Stare “male nella propria pelle” implica a volte il rimaneggiare la superficie di sé per farsi una nuova pelle, e trovarvisi meglio. Lo sviluppo sociale e l’apprendimento della differenza È, tra l’altro, attraverso le relazioni sociali con altri bambini che il bambino adottato prende coscienza della singolarità del suo percorso di vita. Si confronta con gli altri bambini e comincia a notare delle


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Š francesca visintin


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differenze: «Papà, mamma, perché voi siete bianchi e io sono nero?». «Ho un amico che è nero come me ma il suo papà e la sua mamma sono anche loro neri». Le discussioni tra bambini sono quindi piene di interrogativi a volte molto interessanti se sono ripresi da un adulto, un insegnante o anche un genitore (esempio: il libro scritto dai bambini dell’ultimo anno di materna sulla differenza e il fatto di essere unici: è perché siamo tutti diversi che ognuno di noi è unico ed è questo che rende la vita così interessante). Ma la questione della dif© francesca visintin

ferenza di colore non è specifica dei bambini adottati, talvolta figli di coppie dette miste si confrontano con le stesse domande. Come la bambina di sei anni, la cui mamma è di

to l’importanza del corpo nell’instaurazione del sentimento di filiazione dei figli come dei genitori. La questione del diverso colore della pelle, delle differenze fisiche tra i genitori e il figlio adottato ritorna frequentemente tra i temi preoccupanti. Da diversi risultati di ricerche emerge che questa differenza non impedisce in alcun modo il processo di identificazione ai genitori. Il processo di filiazione Anche nelle famiglie adotadottiva tive si possono osservare La sfida principale della comportamenti di mimetifamiglia adottiva è il pro- smo, i cosiddetti epigenecesso di filiazione. La fi- tismi, degli elementi che liazione adottiva consiste stabiliscono un legame, che creano l’attaccamento e la similitudine filiale: in famiglia siamo tutti dello stesso segno zodiacale; in famiglia abbiamo tutti lo stesso modo di ridere o di sorridere; io sono una testa calda come mia madre e mio fratello è disordinato come mio padre. Alcuni autori hanno spiegato i sentimenti relativi al corpo dei bambini adottati attraverso complessi chiamati “della banana” e “del Bounty”. Attraverso aneddoti relativi al colore nell’accettare la realtà così della pelle, Gaston Kelman com’è, con le sue differen- dimostra nei suoi scritti ze, sia da parte del bambi- come si possa essere stati no sia da parte dei genitori. dei neonati neri e si possa Partendo da numerosi stu- diventare uomini e francedi condotti presso famiglie si. Se per alcuni il percorso adottive, abbiamo osserva- sembra doloroso a causa origine magrebina e dalla pelle abbastanza chiara e il papà di origine ugandese molto nero di pelle, che si guarda nello specchio e si tira le guance dicendo: «Perché sono nera come papà e non bianca come la mamma?». E la mamma si stupisce: «E io che cerco di abbronzarmi per essere scura come papà e non ci riesco mai!».


dello sguardo altrui, per i bambini adottati lo sforzo di appropriazione e il sentimento di appartenenza possono essere altrettanto complessi e destabilizzanti. Così come lo descrive Kelman, si tratta del complesso del “Bounty”, dove si è neri all’esterno ma completamente bianchi all’interno. Hervé Peyre, in quanto “anziano adottato” di origine asiatica, evoca il “complesso della banana”, che consiste nell’essere gialli all’esterno ma sentirsi bianchi dentro. Il sentimento di filiazione si elabora particolarmente attraverso il fatto di assomigliare ai propri genitori, a livello fisico, intellettuale, morale. Spesso queste somiglianze sono attribuite al fatto genetico ereditario. Vuol dire che i corpi dei membri della famiglia adottiva non possono assomigliarsi? Eppure, gli adottati testimoniano: «In famiglia abbiamo tutti una fossetta sulla guancia destra, ci riconosciamo così»… Per Geneviève Delaisi e Pierre Verdier, la filiazione adottiva è un miscuglio di realtà, di finzione e di volontà. “Sentirsi figlio di” appare soprattutto al momento dell’adolescenza,

con le sue modifiche corporee dovute alla pubertà, come una tappa delicata durante la quale è spesso presente il sentimento d’estraneità. Ma questi complessi sono tanto più importanti in quanto sono generalmente risvegliati dallo sguardo esterno alla famiglia. Le questioni relative alla diversità fisica emergono nel 30% dei casi dei giovani adottati, specialmente quando frequentano la scuola media. Certi preferiscono dire che sono immigrati piuttosto che adottati oppure preferiscono crearsi una rete di amici anch’essi marcati dalla differenza corporea. La visibilità dell’adozione porta la famiglia a gestire la differenza e a sostenere gli sguardi, fino alle domande o ai commenti assurdi. Questo può essere a volte un ostacolo nell’elaborazione del sentimento di sé, desiderato nella discrezione e nella non affermazione esibita di quello che si è, ma può anche costituire una formidabile fonte di coesione familiare facendo la sua forza e la sua ricchezza.

Bibliografia G. Kelman, Je suis noir et je n’aime pas le manioc, Paris, Max Milo, 2003. H. Peyre, Témoignage d’un ancien adopté, comunicazione orale. Atelier 3 : «Après une adoption, quels liens avec le pays et la famille d’origine ?». Congrès Régional d’Enfance & Familles d’Adoption «L’adoption de l’apparentement à l’intégration » (Nîmes, 21 novembre 2004). Livre des résumés, 12-13. A. Vinay, Place et rôle du corps dans les familles adoptives, in P. Cuynet - A. Mariage. Corps en famille. Du corps individuel au corps familial, Paris, In Press, 2010, pp. 53-63.

traduzione di Maud Barret

per gentile concessione di «Accueil», rivista di EFA Enfance e Familles d’Adoption

Aubeline Vinay Professore associato di psicologia clinica e psicopatologia all’Université de Bourgogne

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psicologia e adozione

Origini biologiche

Tra mistero da svelare e vuoto da contenere 12

Quale origine? “Origine”, dalla radice “orior = nasco”, è una parola che rimanda a un principio, all’inizio di una storia evolutiva. Ma quando possiamo fissare il vero momento di origine di una vita? Se ripensiamo a noi stessi, siamo stati originati nel momento della nascita o possiamo volgere lo sguardo un po’ più indietro? Forse potremmo iniziare col chiederci se e quanto siamo stati cercati, voluti, quando è nato nei nostri genitori il desiderio di procreare. Quante e quali idee, paure, speranze sono state investite nella nostra nascita? O forse domandarci, in caso di gravidanza inattesa, come sia stata accolta la notizia, quali emozioni o problematiche il nostro arrivo abbia creato. Ogni concepimento è ricco di ac-

cadimenti, di dettagli che rendono unico l’inizio della storia di ogni individuo. Il passo successivo potrebbe essere chiedersi come sia andata la gravidanza: se e quali problematiche ci siano state, di tipo sia medico (gravidanza a rischio, eventuali esami invasivi, amniocentesi) sia emotivo (tensioni, lutti, difficoltà vissute dai genitori in attesa). Provate a farlo! Anche ora, mentre leggete. Prendete carta e penna e provate a scrivere nero su bianco queste notizie che riguardano voi stessi. Ci riuscite? Avete queste informazioni? E se non le avete, che idea vi siete fatti nel tempo, come immaginate sia stato il vostro ingresso su questa terra? Provate a scriverlo come fosse l’introduzione del vostro personale romanzo di vita; vi risulta facile, istantaneo,

scorrevole? O forse non è così immediato fare mente locale sull’inizio della propria storia? Eppure stiamo parlando di noi stessi, di chi, da un punto di vista storico, dovremmo sapere più in assoluto. Ricerca delle origini come ricerca dell’identità La ricerca dell’identità è uno dei temi centrali della vita e uno dei desideri dell’essere umano che consapevolmente si muove nelle spire evolutive della propria esistenza è quello di dare coerenza e significato al proprio esistere. La ricerca del “vero Sé”, così come il domandarsi “chi sono?”, non sono propri solo degli adolescenti e delle loro crisi d’identità, ma iniziano con la nascita e sono interrogativi che continuano attraverso l’età avanzata, con molte salite


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Š simone berti


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e discese lungo la via della risoluzione. In psicologia, per identità personale s’intende il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto come entità da tutte le altre; immediata conseguenza è che la stima di sé è strettamente legata alla costruzione di un’identità stabile, coerente, integrata, coesa nella quale sia possibile riconoscere una linea di continuità tra passato, presente e futuro. Già la ricerca filosofica ha più volte contribuito a sostenere questa posizione: Locke e Hume hanno messo in evidenza come l’identità non sia uno sterile dato ma una costruzione della memoria. L’accesso alle informazioni è sempre più riconosciuto come un bisogno psichico elementare per l’elaborazione della propria identità prima che come diritto della persona; “sapere di Sé” è quindi fondamentale per la costruzione di un’immagine di Sé “positiva”. Strumento psichico chiave perché le informazioni diventino funzionali alla costruzione dell’identità è la “narratività”, ovvero la capacità di raccontare se stessi e la propria storia. Nel caso dell’abbandono, potersi “narrare” diviene indispensabile. Il dolore della perdita primaria può

assumere un senso più ampio laddove inscritto in una storia, in un romanzo famigliare, che contempli significativamente un dettagliato capitolo introduttivo sulle informazioni e le fantasie circa quanto vissuto dall’adottato prima dell’arrivo nella famiglia adottante. Se la costruzione della capacità narrativa del bambino sarà un compito congiunto tra il bimbo stesso e i suoi genitori, tutto il nucleo famigliare è tenuto a uno sforzo congiunto per integrare ed elaborare la storia pregressa, spesso ignota, all’incontro e formazione del nucleo stesso, in un racconto comunitario confluente nella storia attuale. Compito fondamentale dei genitori adottivi è quello di riuscire a rivedere insieme la storia dell’abbandono verso un discorso dinamico di co-costruzione e rielaborazione. L’elaborazione del trauma dell’abbandono, infatti, passa attraverso l’incontro con persone significative che permettano al bambino di rileggere l’immagine di sé, “danneggiata” e “svilita” dalle esperienze traumatiche vissute, attraverso la costruzione di nuovi significati condivisi. Perché la costruzione della nuova famiglia avvenga

con successo, è importante che i nuovi genitori e il bambino siano in grado di affrontare il suo passato, che spesso si ripresenta in forme mascherate con vaghi ricordi o sensazioni oppure attraverso “agiti”, comportamenti devianti apparentemente incomprensibili a chi li osserva dall’esterno. La ricerca di informazioni circa il passato dei propri figli può essere diretta (domande agli enti, ai servizi, alle figure accudenti al momento dell’adozione ecc.) o indiretta (osservazione critica del proprio figlio, inferenze e deduzioni, fantasie su “voci” e “sentito dire”, illazioni basate sulla provenienza geografica del bambino ecc.). Da un punto di vista formale e oggettivo, la legge dispone che: «i genitori adottivi, su autorizzazione del Tribunale per i minorenni, possono accedere alle informazioni riguardanti i genitori biologici dell’adottato solo qualora esistano gravi e comprovati motivi. Tali informazioni, in caso di urgenza e di grave pericolo per la salute del minore, possono essere fornite anche ai responsabili delle strutture ospedaliere e sanitarie»; inoltre: «una volta compiuti i venticinque anni l’adottato può accedere alle notizie

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Bibliografia A.A.V.V., “Dizionario Etimologico”, Rusconi Libri, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2005. Fonzi D., Carola F., “Il tema delle origini: strumenti operativi”, Seminario Asl RmB, Roma, 2011. Scabini E., Cigoli V., “Il famigliare. Legami, simboli, transizioni”, Raffaello Cortina Ed., Milano, 2000.

gini biologiche dei propri figli portano con loro una serie di questioni, dubbi, curiosità più o meno indagate dai genitori adottivi. È bene essere onesti con noi stessi e “dirsi”, fin dal momento in cui si comincia a pensare all’adozione come progetto genitoriale, tutte le fantasie circa le origini del bambino. Ma perché queste “fantasie” hanno importanza? Esse ricoprono un ruolo determinante nella costruzione Cosa dire? di un’idea che noi abbiaIl tema delle origini biologi- mo del bambino e che più che dei propri figli sembra o meno consapevolmente invadere perentoriamente rischiamo di trasmetteri pensieri dei genitori adot- gli. Non sapere nulla di ogtivi fin dai primi passaggi gettivo circa le origini del nella transizione alla ge- proprio figlio non esclude nitorialità. È un tema en- la possibilità che ci si crei tro il quale si muovono più delle idee basate su picquestioni, che solo appa- cole informazioni o dedurentemente paiono avere a zioni più o meno corrette che fare esclusivamente col ricavate da episodi, chiacbambino. In realtà le ori- chierate con gli operatoriguardanti i genitori biologici presentando istanza al Tribunale per i minorenni. Può farlo anche raggiunta la maggiore età se sussistono gravi motivi. L’accesso alle notizie è autorizzato con decreto». Nel caso la madre biologica abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, l’adottato non può avere accesso alle informazioni.


Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Docente in training presso la SGAI (Società gruppoanalitica italiana), è Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process)

ri della casa famiglia, con gli enti ecc. Se un genitore con onestà prendesse nota di tutte le fantasie che ha fatto e fa a proposito della famiglia d’origine del proprio bambino scoprirebbe di detenere una valanga di costruzioni mentali circa la propria prole che forse si basano su mere illazioni o, piuttosto, su giuste intuizioni. In quest’ultimo caso, tali intuizioni diverrebbero importante materiale eventualmente condivisibile con il proprio figlio. Quando un figlio ti guarda e chiede: «Ma dove sono i miei genitori veri? Li hai conosciuti?», o altre domande particolarmente spinose per le quali non si ha una risposta oggettiva e reale, la cosa migliore è l’onestà. Un bel: «Non lo so!», addizionato con un: «Tu cosa ti immagini?», permette al

genitore di aprire un dialogo onesto e reale col proprio figlio e, al tempo stesso, di indagarne le fantasie, i primi tentativi che il bambino attua nel costruire il capitolo introduttivo del proprio romanzo famigliare e identitario. Abbandonarsi alla tentazione di saturare la curiosità del bambino con qualcosa di cui sappiamo poco o nulla risulterebbe controproducente: alimenterebbe un comune campo fantastico e fantasioso, spesso lontano da una realtà oggettiva. Se però proviamo ad aprire un dialogo “vero” col piccolo, rivolgendo a egli stesso gli stessi quesiti che lui ci pone, ci e gli daremo la possibilità di esplorare un terreno interno incognito di cui magari nemmeno immaginavamo l’esistenza. Chiediamogli cosa lui

immagini, cosa “senta”, e potremmo scoprire di aver fatto le stesse fantasie, di avere le stesse paure o di nutrire le stesse perplessità; potremmo realizzare che per quanto giovane, il figlio immagina o sa già tante cose di se stesso. Aprire un dialogo attivo “non-saturante” ci permette di iniziare un vero lavoro di co-costruzione del romanzo famigliare, utile al bambino nel proprio percorso di realizzazione identitaria e necessario al genitore per monitorare se e come il figlio stia processando ed elaborando il proprio strappo originario. Si ringrazia la dottoressa Daniela Fonzi per il prezioso materiale bibliografico.


scuola e adozione

Adriana Molin, Cesare Cornoldi Università di Padova

Quando imparare è difficile… 18

La fatica di apprendere Tania è una ragazzina di dieci anni, alta e bionda, che frequenta la classe quinta di una scuola primaria del Veneto. È ben inserita nel gruppo dei coetanei, fa nuoto una volta alla settimana, frequenta un gruppo scout. È arrivata alla valutazione di un servizio sui disturbi/difficoltà di apprendimento su richiesta dei genitori. È stata adottata all’età di otto mesi e mezzo da un paese dall’Est Europa, dove viveva in un orfanotrofio definito di buon livello dagli operatori che seguirono l’adozione. L’inserimento familiare è stato molto soddisfacente per tutti: la bambina fin dal primo momento aveva sviluppato un forte legame con i genitori, in particolare con la madre adottiva. I genitori ricordano uno svi-

luppo motorio e linguistico nella norma, la frequenza alla scuola dell’infanzia regolare, tranquilla e serena, ma fin dall’inizio della classe prima primaria difficoltà scolastiche diffuse, tanto che da allora fino a poco tempo fa, su consiglio degli operatori dell’associazione che aveva seguito l’adozione, Tania è sempre stata seguita nei compiti scolastici a casa da un insegnante. I genitori adottivi, di elevato livello culturale, liberi professionisti, si stanno chiedendo quali siano le strategie migliori per aiutare la bambina a superare il periodo difficile che sta passando: è in piena fase adolescenziale, a scuola è in difficoltà e, poiché non ne riceve alcuna soddisfazione, sta volgendo la sua attenzione altrove, verso compagne e compagni più anziani di lei, con cui chat-

ta, scrive sms ed esce… I genitori sono preoccupati per la sua scarsa riuscita scolastica e, soprattutto per il suo atteggiamento verso la scuola e l’istruzione, contrario a ciò che dovrebbe essere. Secondo i genitori, infatti, la ragazzina finge di ignorare che la scuola rappresenta il luogo della formazione e dell’istruzione dei giovani, evita di impegnarsi e di riconoscere che è necessario studiare. Per esempio Tania non fa mai i compiti da sola – cosa fuori dal suo orizzonte - e inizia solo dopo lunghe e snervanti contrattazioni; ha sfinito anche l’insegnante che la segue da anni che vuole rinunciare all’incarico. Gli insegnanti di classe riconoscono che le iniziali difficoltà della bambina nell’apprendimento della lettura strumentale e della scrittura (lentezza ed


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errori) si sono attenuate nel tempo, che si è osservato un lento progresso, tuttavia segnalano che continuano a persistere difficoltà diffuse nei compiti complessi, in particolare matematica, e nello studio. Lentezza, passività nell’esecuzione dei compiti e impulsività, irrequietezza comportamentale che si accentuano sempre di più sono i due poli estremi di un continuum di demotivazione e difficoltà che i docenti non si spiegano. Gli insegnanti vorrebbero capire quali sono le difficoltà “vere” di Tania per poterla aiutare in modo concreto e opportuno. Vorrebbero, in altre parole, sostenerla nel percorso scolastico che prevedono faticoso e poco soddisfacente. Scuola e difficoltà scolastiche Prima di addentrarci nel vivo della discussione sui possibili interventi didattico-educativi e di riabilitazione volti a modificare l’atteggiamento di Tania verso la scuola e a sviluppare strategie di apprendimento funzionali, rifletteremo su alcuni elementi di fragilità che percorrono molte storie di bambini adottati e stranieri a scuola e che aumentano le probabilità di incorrere in

difficoltà di ordine psicologico, scolastico e sociale. La fragilità evolutiva che può caratterizzare alcuni bambini adottati trova la sua origine nei fattori genetico-biologici ed esperienziali precedenti all’adozione, fragilità talvolta sostenuta anche da condizioni adottive non del tutto funzionali al bambino. L’età cronologica di adozione è il primo fattore di rischio nel senso che l’età di adozione risulta essere un buon predittore di difficoltà relazionali e scolastiche. È intuitivo comprendere - e la ricerca lo dimostra - che l’età di adozione incide notevolmente sugli esiti del processo adottivo nel suo complesso: le adozioni più tardive pongono maggiori problemi di adattamento familiare, sociale e scolastico, problemi superabili ma più costosi in termini di fatica e sofferenza per tutto il nucleo familiare. Anche le condizioni di vita deprivate e/o l’istituzionalizzazione precoce prima dell’adozione possono essere un ulteriore rischio di difficoltà evolutive poiché sarebbero compromesse le basi dello sviluppo cognitivo-affettivo. La probabilità di incorrere in difficoltà, naturalmente, diventa maggiore quanto più a lungo il bambino ha vissuto in

ambienti poco stimolanti e poco accoglienti, anche se, ragionevolmente, si può supporre che questo particolare tipo di svantaggio possa attenuarsi nel tempo se le condizioni di vita post adattive/adottive del bambino favoriscono lo sviluppo di una buona immagine di sé, fiducia nella propria capacità di imparare e promuovono un atteggiamento attivo verso la conoscenza e il pensiero. L’essere stranieri è un ulteriore fattore di rischio. In effetti la ricerca sui bambini stranieri emigrati scolarizzati evidenzia insuccessi e drop-out maggiori dei bambini nativi. Difficoltà e abbandono della scuola sono conseguenze non solo di un apprendimento veicolato da una lingua profondamente diversa da quella nativa, ma anche di un differente atteggiamento verso la scuola, derivato da difficoltà di interpretare il comportamento degli insegnanti e di comprendere i modi con cui si svolgono i rapporti tra insegnanti e allievi nella scuola italiana, e da problemi di tipo emotivo-motivazionali, conseguenti a condizioni di disagio per un apprendimento difficile e per un’integrazione scolastica e sociale faticosa a realizzarsi. Avere conosciuto un’altra lingua può essere in ge-


nerale vantaggioso, ma rischioso per i bambini adottati a causa del loro rapporto conflittuale con la lingua d’origine, a volte “dimenticata” e/o non più parlata. Parlare due lingue con fluenza, in generale, è qualcosa di positivo che si traduce in un aumento delle competenze cognitive a lungo termine e nella capacità di prendere decisioni in modo più rapido anche se potrebbe essere rallentata la rapidità di accesso lessicale. Questi benefit sembrano non aiutare i bambini adottati, anche se, grazie alla ricerca e alle esperienze maturate, lingua nativa e cultura di appartenenza sono già entrate a pieno titolo nel nucleo fondante delle adozioni internazionali. Se questi sono alcuni fattori di rischio, non può stupirci una frequenza maggiore di problematicità nella popolazione scolastica dei bambini adottati e stranieri. In tab. 1 appaiono le percentuali di difficoltà scolastiche che i genitori adottivi percepiscono nei confronti dei figli contrapposte a quelle percepite dai genitori di figli biologici (i due campioni appartengono allo stesso bacino di utenza). I dati sono i risultati di una nostra ricerca che evidenziano come le difficoltà nei

bambini adottati siano rilevate fin dalla prima classe primaria e riguardano - in particolare - la capacità di svolgere attività senza distrarsi. I risultati di maggiori difficoltà diffuse sono confermati, da una ricerca successiva, anche nella fascia d’età della scuola secondaria superiore di primo grado. È inoltre emerso che i bambini adottati, secondo i genitori, non mostrano differenze nelle variabili “l’andare mal volentieri a scuola” e “legare con i compagni” come a dire che l’ambiente scolastico è percepito positivamente, soprattutto da un punto di vista sociale. Le nostre indagini hanno verificato quanto era già emerso dalla ricerca internazionale, sebbene in modo non univoco, e cioè che vi è una maggiore incidenza delle difficoltà di apprendimento, e che queste sovente assumono particolari configurazioni, proprio per la particolare storia vissuta dai bambini adottati. La tendenza di molti bambini adottati da paesi stranieri a mostrare - difficoltà diffuse nell’apprendimento del calcolo e della lettura strumentale, cadendo più nella lettura di parole che necessitano dell’aiuto di conoscenze linguistiche piuttosto che solo di una

memoria fonologica efficiente; - cadute nello studio di testi di tipo informativodisciplinare, che sono complessi a tutti i livelli (lessico, sintassi e contenuto) e implicano l’uso di strategie di elaborazione dell’informazione diversificate e flessibili, volte alla comprensione e non alla memorizzazione evidenzia che alcune componenti cognitive e l’autoregolazione del funzionamento mentale faticano a svilupparsi, a trovare un equilibrio soddisfacente. Che fare per aiutare i bambini in difficoltà? Premesso che ogni caso di difficoltà è particolare e richiede un approccio ad hoc, Tania, nonostante le buone premesse di un’adozione in età precoce che abbassa il rischio di sviluppo di problematiche educative, il buon inserimento, lo sviluppo linguistico che si può supporre nella norma, mostra difficoltà di apprendimento analoghe a quelle di altri bambini adottati: difficoltà fin dall’inizio della scuola primaria a cui si è risposto con un aiuto costante e continuativo nei compiti a casa, aiuto dato da un insegnante privato ma che il più delle volte viene assunto dalla madre.

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La storia di Tania, purtroppo, mostra anche il limite di un approccio alle difficoltà scolastiche basato su un sostegno che assume un punto di vista che oseremmo definire ingenuo. Tale approccio, a nostro avviso, sostiene l’ipotesi che è sufficiente esercitarsi di più per apprendere in modo proficuo e riuscire bene a scuola. Semplificando il problema, si può suppor22

re che l’insegnante ripetitore a casa accompagni nell’esecuzione dei compiti assegnati dagli insegnanti che esercitano e intensificano quelli svolti a scuola, declinati sul curricolo scolastico e quindi non mirati alle necessità evolutive e apprenditive specifiche di un bambino con difficoltà scolastiche. Inoltre, nel caso di Tania, godere di un aiuto esterno in modo

costante e continuato, un aiuto che ha organizzato il lavoro a casa, si è preoccupato che tutto fosse pronto per il giorno dopo, che le ha detto quello che doveva imparare, sicuramente non l’ha aiutata a sviluppare quelle componenti autoregolative che sono alla base della motivazione ad apprendere, dello sviluppo dell’autonomia personale e della responsabilità indivi-


duale. Un approccio basato sull’arricchimento disciplinare è utile e necessario quando le abilità di base (leggere, comprendere, calcolare, scrivere, parlare una lingua straniera) e le modalità metacognitive di approccio allo studio sono ben sviluppate e sono in grado di sostenere gli apprendimenti più complessi, quelli disciplinari, non quando devono essere ac-

quisite e automatizzate. Alla luce degli esiti della valutazione di Tania, è stato programmato un intervento coordinato tra esperto, scuola, genitori e insegnante ripetitore. L’intervento svolto dall’esperto ha l’obiettivo di incrementare l’autonomia personale nello studio e nell’organizzazione del proprio lavoro a casa, stimolando la riflessione metacognitiva per

implementare strategie per apprendimenti complessi e, contemporaneamente, di stimolare il dialogo rispetto a temi di natura adolescenziale. Con la scuola, dopo un incontro con il consiglio di classe per chiarire le difficoltà della bambina, sono state concordate alcune facilitazioni (es. uso di sussidi durante le verifiche), tempi più distesi e modalità personalizzate per l’assegna-

© simone berti

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Tabella 1: Percentuali di bambini che secondo i genitori presentano o non presentano difficoltà nelle diverse attività scolastiche. (campione 60 genitori adottivi e 80 genitori naturali, residenti nel Veneto nelle province di Vicenza e Treviso) Figli adottivi %

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Figli naturali %

Presenta difficoltà

Non presenta difficoltà

Presenta difficoltà

Non presenta difficoltà

Difficoltà scolastiche già in prima elementare

45,8

54,2

4,8

95,2

Presenta problemi nella scrittura

27,1

72,9

2,4

97,6

Presenta problemi nella lettura

27,1

72,9

3,6

96,4

Presenta problemi nell’area matematica

18,6

81,4

6

94

Ha difficoltà ad esprimersi in modo articolato ed efficace

25,4

74,6

7,2

92,8

Incontra problemi nello studiare i testi

30,5

69,5

2,4

97,6

Ha difficoltà nell’eseguire un’attività senza distrarsi

55,9

44,1

19,3

80,7

Appare scarsamente interessato alle attività scolastiche

15,3

84,7

1,2

98,8

Va malvolentieri a scuola

6,8

93,2

6

94

Incontra difficoltà a legare coi suoi compagni

8,5

91,5

3,6

96,4

TOTALE

39

61

1,2

98,8


zione dei compiti a casa, da svolgere con aiuto e senza. I genitori, che avevano demandato all’insegnante ripetitore tutto quanto riguardava la scuola, hanno deciso di cambiare atteggiamento interessandosi di più della vita scolastica della figlia e concordando con lei i momenti di svago e di impegno. L’aiuto dell’insegnante ripetitore a casa è stato ridotto a due volte

alla settimana, modificandone lo stile e prevedendo modalità più coinvolgenti e attive rispetto allo studio. Per esempio Tania disegna in modo splendido, le sue riproduzioni di foglie e fiori sono perfette: si tratta di insegnarle a sfruttare questa sua capacità in modo funzionale allo studio. La complessità dell’intervento messo in atto richiede un’attività di supervisione

e di coordinamento tra gli attori coinvolti che sarà svolta dall’esperto, che si è riservato anche di fare un primo bilancio a tre mesi dall’inizio dell’intervento. In breve, la vera sfida per Tania e per le persone che si occupano di lei è favorire gli aspetti autoregolativi e potenziare le abilità di base, favorendo una buona percezione di Sé e dei possibili Sé. 25

Riferimenti bibliografici M. Chistolini, Scuola e adozione. Linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, FrancoAngeli, Milano 2006. C. Edelstein, Adozioni internazionali. Identità mista e famiglie multiculturali, in F. Vadilonga (a cura di), Curare l’adozione. Modelli di sostegno e presa in carico della crisi adottiva, Raffaello Cortina, Milano 2010. F. Emiliani, Deprivazione da istituzionalizzazione precoce e attaccamento: non è “roba vecchia”, «Psicologia clinica dello sviluppo, 8, 2, 2004, pp. 189-197. F. Emiliani, La realtà delle piccole cose. Psicologia del

quotidiano, il Mulino, Bologna 2008. L’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati, Istituto degli Innocenti, Firenze 2003. H. Jacobson, Culture Keeping. White mothers, international adoption, and the negotiation of family difference, Vanderbilt University Press, Nashville 2008. A. Manfredi, Bilingui, più rapidi ed efficienti nel prendere decisioni critiche, Repubblica.it, 13 novembre 2011. MIUR. Servizio statistico. Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano. a.s. 2008-2009, Roma 2009. A. Molin, C. Cazzola, C. Cornoldi, Le difficoltà di apprendimento

di bambini stranieri adottati, «Psicologia clinica dello sviluppo», XIII, 3, 2009, pp. 563-578. F. Monti, F. Agostini, C. Ferracuti, L’istituzionalizzazione precoce in Russia e Romania e gli effetti sullo sviluppo infantile, «Psicologia clinica dello sviluppo», XIV, 3, 2010, pp. 423-447. L. Tirella, W. Chan, L.C. Miller, Educational outcomes of children adopted from Eastern Europe, now ages 8-12, «Journal of Research in Childhood Education», 20, 4, 2006, pp. 245-254. F. Vadilonga (a cura di), Curare l’adozione. Modelli di sostegno e presa in carico della crisi adottiva, Raffaello Cortina, Milano 2010.


giorno dopo giorno

Come vorrei che fosse 26

Carissimi lettori, mi chiamo Anastasia e sono una ragazza adottata, di sedici anni, che sta affrontando la fase dell’adolescenza. Frequento il terzo anno della scuola magistrale e studio quella che secondo me è la materia più bella al mondo: la psicologia e le sue aggregate! Essendo una ragazza che ha molti amici, ho sempre molta voglia di stare in loro compagnia. Ho vari hobby tra cui il canto e lo sport che pratico con molta passione. Amo il canto perché con la voce esprimo tutta me stessa: se sono felice, malinconica o adirata, io canto!! Ho iniziato la carriera canora quando sono arrivata in Italia, nel giugno del 2002, a sette anni, e da quel momento non ho più

smesso (a volte vorrei che tutta la mia vita fosse un eterno canto!!!). Mi piace praticare sport perché amo giocare, ma soprattutto perché stare chiusa in casa senza svolgere alcuna attività mi rende triste (anche se alla fine, per un motivo o per un altro, sia io che mia sorella stiamo sempre fuori). Ah! Non vi ho parlato della mia più grande passione: mia sorella è la mia vita perché, anche se la cameretta di entrambe la pulisco sempre io, o litighiamo ogni volta per motivi futili, so che la mia vita non avrebbe senso se lei venisse a mancarmi. Con lei condivido tutto, cose materiali e cose sentimentali, ma soprattutto il mio cuore… niente di speciale, però questo ci lega per l’eternità.

Dato che sono una donna adottata, vorrei che l’adozione, ma soprattutto la relazione tra bambini e adulti fosse diversa, e desidererei che noi ragazzi e ragazze adottati fossimo trattati come gli altri nostri coetanei. Ognuno di noi ha delle storie diverse da raccontare, ognuno di noi ha storie che ci straziano l’anima e ci marchiano per tutto l’avvenire. Molto spesso i bambini vengono adottati perché i loro genitori sono deceduti o perché sono stati abbandonati. Mi aspetterei, dunque, dalla società, ma soprattutto dalle persone comuni, che i bambini, pur con i loro diversi caratteri e le loro particolarità, fossero considerati tutti tali dai diversi occhi che li guardano.


© ilaria nasini

A volte a scuola ragazzi che sono stati adottati ricevono un differente modo di insegnamento dal resto della classe, e per questo vengono derisi dai compagni, già appena entrano in aula e devono cosi affrontare un nuovo giorno anche con il peso dell’umiliazione. Io amo la mia diversità e credo che sarebbe più opportuno che la scuola, o qualsiasi altro ambiente educativo, conservasse il proprio ruolo formale e istituzionale e che non si specializzassero in nuove discipline che consistono nel mettere a disagio i ragazzi adottati. Un altro dei miei desideri sarebbe quello di istituire una giornata dell’adozione dove noi tutti, giovani e anziani, bianchi o di colore, di una cultura o di un’altra,

potessimo incontrarci e condividere le nostre esperienze e sentirci così meno diversi l’uno dall’altro. Volete sapere perché scrivo a questo giornalino?? Per esprimere la mia amarezza per aver sperimentato l’incompetenza delle agenzie di adozione, che agiscono solo a scopo di lucro e come tutto il mondo si muovono solo per interessi economici: è vero che senza denaro non si mangia, ma la vita di una creatura vivente che ha nome Nastia, V., Y. … non ha prezzo!! Scusatemi… io prima vi ho parlato di mia sorella V., ricordate? Beh, oltre a lei ho un caro fratello che si chiama Y., che sta per divenire maggiorenne. Lui non vive con me perché è stato adottato da un’altra famiglia. Ogni

tanto ci rincontriamo nella mia città, in occasione delle riunioni GSD. La storia è che, al momento dell’adozione, l’agenzia che avevano scelto entrambe le due famiglie, ha nascosto l’esistenza di noi due sorelle alla famiglia di Y. e di Y. alla nostra famiglia adottiva. Per questo motivo io e mia sorella siamo dovute rimanere lontano da nostro fratello mentre lui era in Ucraina e noi in Italia. Ecco cosa succede pensando troppo al “dio” denaro. Spero che questo articolo vi abbia aperto la mente riguardo ai ragazzi adottati e a come facilmente ci si possa relazionare con loro… parola di una di loro!!! A cura di Anastasia

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giorno dopo giorno

Ma lui lo sa? 28

Siamo a tavola con famiglie conosciute da poco che fanno domande sulla nostra piccola vietnamita, che pensano ignara della sua condizione di figlia adottiva. Ma quando scoprono che anche il primogenito di otto anni, comodamente seduto di fianco alla sorella, è adottato, scorre un brivido lungo la tovaglia… «Ma lui lo sa?». Un papà temerario pronuncia la domanda a bassa voce. «Per fortuna lo sa! Venirne a conoscenza da un estraneo sarebbe veramente grottesco…», mi verrebbe da rispondergli d’impulso, ma mi trattengo. Prendo il respiro e paziente cerco di spiegare, senza fare troppo il saccente,

mentre mio figlio finge di fare tutt’altro: «Un bambino adottivo è bene che cresca nella verità e nella consapevolezza della sua storia fin dalla primissima infanzia. Gradualmente va informato. La storia si arricchisce con l’età, nel percorso che si fa insieme. Non esiste una rivelazione da fare a un certo punto, a un’età giusta che non arriverebbe mai…». Il papà commensale non è solo curioso, ma sembra sinceramente interessato al tema. E quando mio figlio si alza da tavola per andare a giocare con gli amici, torna alla carica, ma con tatto: «… Anche se è stato adottato piccolissimo? È proprio necessario dirglielo? Per-

ché anche gli psicologi vi suggeriscono di farlo?». Sono convinto della mia risposta: «Perché non si può crescere un figlio raccontandogli una menzogna sulle sue origini, o tacendo semplicemente. Ne va della relazione tra genitori e figli. I segreti in famiglia non giovano a nessuno, minano lo sviluppo armonico di ogni relazione. Non ti pare?». Mi fermo e spero in cuor mio che non mi dica: «Che bravi che siete stati…!». Non lo dice. Sorride, e non è un sorriso di circostanza. Io penso a una poesia sui segreti del mitico Bruno Tognolini, cha parla diretta al cuore dei bambini, ma anche degli adulti…


Ho nascosto quella cosa in fondo a me. Perché se non la vedo, lei non c’è Non ne parlo per non essere più triste Perché se non la dico, non esiste Ma laggiù in fondo a me, nel buio denso Anche se non la vedo io ci penso

E lei beve quel buio come inchiostro E cresce sempre più, diventa un mostro Ma io so cosa ai mostri fa paura Il sole, che taglia in due la notte scura Apro la mia finestra a questo sole Ed apro la mia bocca alle parole

Ne parlo con la mamma, con l’amico Tu mi spaventi, mostro?... E io ti dico! E tu ti sciogli in un po’ di porcheria Mi dai un ultimo morso, e fuggi via Mi rimane una bella cicatrice Dov’è scritto: mostro morde, uomo dice.

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© roberto gianfelice

Marta e Alberto


leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Uh! Che paura!

Strategie per riconoscerla e affrontarla 30

Una delle prime emozioni che i bambini manifestano fino da piccolissimi è la paura; anche se questa emozione può essere dolorosa, è importante che il bambino impari a riconoscerla e ad affrontarla, rafforzando così la propria capacità di superamento delle difficoltà. Le paure rappresentano dei meccanismi di autodifesa e permettono all’essere umano di fermarsi in tempo in presenza di un rischio; solo condividendo le paure con genitori e adulti, i bambini imparano a comprenderle, e possono fare in modo che non si manifestino in modo eccessivo, impedendo loro di avere una vita normale. Le storie che parlano delle paure, grazie anche alle immagini sapientemente realizzate con colori e tratti particolari, danno lo

rittura il risultato opposto a quello previsto. Quando un bambino manifesta paura, l’adulto viene condizionato impaurendosi a sua volta; genitori e insegnanti tendono a sminuire Non esistono ricette pre- con frasi quali «Devi cercaconfezionate per insegna- re di calmarti» o «Non c’è re ai bambini a supera- niente di cui aver paura, re, ad esempio, la paura calmati e rilassati». Come dell’abbandono, la paura sempre, e prima di tutdell’estraneo o la paura to, bisogna riconoscere al del buio. Ogni giorno con bambino il diritto di aver pazienza e costanza si può paura, altrimenti lo si laalmeno rendere la paura scia ancora più solo e non meno sconosciuta e si pos- si riesce a trasmettergli il sono stabilire delle modali- sostegno dovuto. Queste tà per affrontarla nella vita modalità di aiuto possono di tutti i giorni. Spesso le ritorcersi contro e provocastorie attingono a situazio- re nei bambini una chiuni del vivere quotidiano e sura e quindi una sempre quindi ricalcano difficoltà minore condivisione delle che realmente accadono. sue emozioni. A volte, e inconsapevolmente, gli adulti ricorrono Per essere utili e restituia modalità di aiuto con- re un minimo di serenità troproducenti e utilizzano possiamo iniziare dicendo frasi che ottengono addi- «capisco la tua paura di...» spunto ai bambini di parlare delle loro paure e ai genitori di contenere emotivamente i bambini, rassicurandoli e insegnando loro alcune strategie.


© francesca visintin

altri animaletti si nascondano disagi più grandi. In certi casi è assolutamente insufficiente usare un linguaggio quotidiano semplificato e quindi i bambini continuano ugualmente a mettere in atto comportamenti oppositivi e aggressivi, senza un’apparente motivazione. Qualche tempo fa sono andata al parco con mio figlio di sette anni. Generalmente lui è allegro, attivo, entusiasta di correre e giocare liberamente con Chissà quante paure i suoi amici. La sua allehanno loro quando noi giochiamo in soffitta! gria è contagiosa e spesso gli altri bambini lo seguono Stridono, squittiscono e sbuffano per cacciarci nelle sue idee: salire sugli alberi, nascondersi tra i via. cespugli, scoprire zone ineD’altra parte, è molto dif- splorate del parco... sembra ficile parlare con i bambini non aver paura di nulla! A delle loro paure poiché a un tratto l’ho sentito urlaNel poetico e tenero Uh! volte sono anche le nostre. re a squarciagola «AiutooChe Paura due bambine Spesso succede che dietro oo! Aiutoooo!». Sono corsa molto simili di aspetto vivo- alle paure di ragni, topi o pensando a un infortunio, «Anch’io ho avuto paura quella volta, ma poi sono riuscita a...». Bambini e adulti, nelle loro vite, sperimentano momenti sereni e altri angoscianti. Quando vorremmo aiutare qualcuno negli attimi di paura ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare le parole e i modi giusti per essere davvero utili. Proprio per questo possiamo fare una sorta di allenamento e prepararci con delle frasi di vero aiuto e sostegno. Anche provare a vedere le cose da diversi punti di vista, mettendo in evidenza che a volte le paure sono frutto della nostra elaborazione, può aiutare i bambini a sdrammatizzare e vivere le paure in modo diverso.

no alcune delle più comuni paure dei bambini in modo opposto: la prima ha paura del pipistrello, della civetta, del ragno e del topolino; la seconda invece ride col buffo animaletto a testa in giù, si fa cullare dal verso della civetta e gioca con le fantastiche tele sferruzzate del ragno. Questo breve racconto fa riflettere sulle piccole paure e si conclude con un pensiero che rovescia la situazione:

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ma invece era fermo immobile, paralizzato alla vista di un piccolo ragnetto. Una vecchietta che ha assistito alla scena lo ha subito rimproverato dicendo «Basta strillare, non è niente, fai spaventare inutilmente tua mamma e gli altri!». Mio figlio continuava a strillare in preda a una crisi e non ne voleva sapere di muoversi. Tutti ci guardavano e anch’io, poiché il mio tono suadente e le mie parole rassicuranti non sortivano alcun effetto, stavo per disperarmi. Per fortuna il suo amico Marco, generalmente timido e riservato, senza proferire parola ha preso il ragnetto e lo ha portato via. Per tutto il pomeriggio non ne abbiamo più parlato, ma la sera, in un momento di tranquillità avrei voluto riprendere il discorso. Purtroppo non riuscivo a trovare il momento e le parole giuste. Ma che sorpresa quando, prima di addormentarci, ho letto il libro Benno, non ha mai paura. Mi chiamo Benno. Benno cuor-di leone. Benno senza-paura. Nessuno, a parte me, ha il coraggio di scendere dallo scivolo a testa in giù! Max è un fifone. Ha persino paura di salire in piedi sull’altalena.

Benno adora i film dell’orrore, mentre Max si copre gli occhi. Benno ama arrampicarsi, mentre Max preferisce giocare con la palla. Improvvisamente Benno si accorge di avere un ragno sulla mano e inizia a urlare come un matto. Max corre in suo aiuto, prende il ragno e lo porta via. Max ha paura di tante cose, ma non dei ragni. La notte Benno non riesce a dormire pensando ai mostri sotto al letto e a Max che, se racconta a tutti ciò che è successo al parco, lo farebbe diventare lo zimbello della scuola. Benno decide di confidarsi con il papà. «Avere paura è normale» mi spiega lui. «Anche tu alla mia età avevi paura?», chiedo stupito. «Sì, avevo paura dei mostri sotto al mio letto» mi risponde «E che cosa facevi per superare le tue paure?» gli chiedo ancora. «Chiamavo il mio papà, insieme cercavamo i mostri... ma non li trovavamo mai!» mi dice con un sorriso. A scuola Max non ha detto niente. Io non lo prendo più in giro. E anche Max è cambiato. L’altro giorno è sceso dallo scivolo a

testa in giù. Mi chiamo Benno. Benno cuor-di leone. Benno senza-paura. Al LunaPark sono coraggiosissimo... mi diverto allo stand delle paperelle senza timore di essere preso in giro! La prima cosa da fare con i bambini spaventati è quella di verbalizzare la loro paura. Benno è riuscito a fidarsi del proprio papà e gli ha raccontato il suo disagio. Purtroppo la maggior parte dei bambini non parlano dei propri sentimenti di paura. Generalmente scelgono di vivere affrontando da soli ciò che li spaventa. La cosa più grave è che molti bambini non hanno neanche idea del fatto che potrebbero essere aiutati ad affrontare ciò che li spaventa e stare meglio; quindi non hanno mai chiesto aiuto e mai viene loro in mente di farlo. Addirittura molti bambini spaventati pensano che sentirsi spaventati faccia parte della vita e non hanno proprio idea di cosa potrebbe voler dire vivere senza la paura. I bambini spaventati credono che l’unica strada sia resistere. Di certo rimproveri, divieti e minacce non servono, ma a volte neanche pazienti discorsi sporadici sono suf-


ficienti a far sentire i bambini compresi e protetti. Con i bambini che si chiudono nel silenzio e nell’isolamento è inutile cercare di scoprire le cause del disagio chiedendo cosa c’è che non va? o tempestandoli di domande come in un interrogatorio. Siamo noi adulti che dovremmo aver bene chiare le cose utili da dire e i messaggi importanti da

dare ai bambini. Si può per esempio iniziare dicendo che è molto coraggioso raccontare a un adulto che c’è qualcosa che spaventa. Purtroppo a volte il problema è che proprio gli adulti spaventano con certi loro atteggiamenti e quindi è necessario anche sottolineare che i bambini hanno dei loro diritti, primo fra tutti quello di essere rispettati e trattati bene. Un

adulto che spaventa i bambini spesso lo fa perché quando era piccolo qualche adulto lo ha spaventato. Quindi è importante aiutare i bambini a trovare il modo migliore per affrontare un adulto che spaventa; per esempio si può insegnare loro delle frasi da usare «Mi stai facendo paura, non riesco ad ascoltare quello che mi dici. Per favore parlami con più cal33

© francesca visintin


Bibliografia

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Uh! Che paura! A. Rouvière, E. Battut, Edizioni Arka, 2009 Benno non ha mai paura. P. Goossens, T. Robberecht, Clavis, 2009 Che strizza. P. Balducci, Panini Editore, 2001 Filastrocche per giocare alla paura. C. Albaut, Motta Junior, 2008 Mostro, non mangiarmi. C. Norac, Adelphi, 2006 Mamme e mostri. G. Quarenghi, C. Carrer, Giunti Kids, 2004 La Maschera. G. Solotareff, Babalibri, 2006. Mi sembra di vedere un dinosauro. E. Dodd, Lapis Edizioni, 2009. A spasso col mostro. J. Donaldson, A. Scheffler, Edizioni EL, 2006 Ciripò, Lilli, Rataplan e altri animali paurosi. Favole per aiutare i bambini a vincere le ansie più comuni. G. Maiolo, G. Franchini, Erickson, 2003 Il diavolo al mulino. R. Piumini, Emme Edizioni, 2001 Kirikù e la strega Karabà. M. Ocelot, Ape Junior, 2007 Le sette paure di Ciripò. G. Franchini, G.Maiolo, Edizioni Erikson, 2005 Anche gli orchi hanno paura. Una storia per insegnare ai bambini ad affrontare le proprie paure. C. Scataglini, Erickson, 2008 Aiutare i bambini… che hanno paura. Attività psicoeducative con il supporto di una favola. M. Sunderland, Erickson, 2004

Link http://digilander.libero.it/icsorgiano/Alonte/bimbi2003/fluido/paura/copertina2.html http://gold.indire.it/nuovo/gen/show-s.php?ObjectID=BDP-GOLD00000000001B1500 http://gold.indire.it/nuovo/gen/show.php?ObjectID=BDP-GOLD000000000029C7AD


ma», oppure «La mia maestra mi fa paura, puoi fare qualcosa per aiutarmi?». Nel libro di Benno, il protagonista ha condiviso con il papà la sua paura, ha scoperto che anche il papà ne ha e si è sentito subito rassicurato. Anche in Che strizza! si sottolinea come chi ha paura di tutto e di tutti, non ha certo una vita facile poiché si spaventa in continuazione. Strizza è molto sospettosa e si guarda sempre intorno nel timore che compaia qualche pericolo. Un giorno Strizza si è presa una paura grandissima per un grande temporale; era terrorizzata. Ma a Strizza è successa una cosa strana. Quando tutto è finito lei si è accorta che non era morta. Così ha pensato che forse si era spaventata più del necessario. «In fondo se sono sopravvissuta a una paura del genere, forse potrei anche sopportare di vedere un ragno senza scappare dalla stanza». Dopo quell’avventura Strizza è diventata più coraggiosa e ora riesce a fare un sacco di cose di cui prima aveva paura: può persino andare in cantina da sola, un po’ di tremarella ce l’ha ancora, ma con l’aiuto di una pila arriva all’ultimo scalino! E a chi le chiede come fa, lei risponde che è tutta una questione

di allenamento. Gli albi illustrati sono efficaci se contengono situazioni simili a quelle vissute dal bambino, nelle quali potersi identificare facilmente con il protagonista. Questo può accadere se autori e illustratori conoscono in profondità le emozioni e i sentimenti che i bambini provano di fronte a fatti simili. La descrizione deve essere puntuale ed efficace e all’interno della storia ci devono essere dei messaggi che il bambino può utilizzare per superare il problema e ritrovare fiducia circa le proprie possibilità di miglioramento. Utili possono essere le frasi tipo «C’è qualcuno che ti ascolta e che può aiutarti», «Ora hai paura, ma le cose possono cambiare»; queste frasi non creano false illusioni ma affermano come stanno veramente le cose e come le situazioni possano evolvere. Soprattutto quando si parla di paure che creano angoscia nei bambini, è necessario che la storia si componga di tre fasi, come ci insegna la psicoterapeuta Margot Sunderland: 1. fase dell’empatia, in cui si descrivono accuratamente la situazione iniziale e i comportamenti del personaggio principale in risposta a tale situazione, che devono essere simili a quelli attuati dal bambino.

2. fase della crisi, in cui la risposta comportamentale del personaggio non basta più a fronteggiare la situazione ed egli si rende conto che deve affrontarla diversamente. 3. fase dell’empowerment, in cui, più che un semplice lieto fine, vengono illustrate delle strategie per superare il problema, delle soluzioni alternative che siano alla portata del bambino. Anche nel raccontare le nostre paure di adulti e di quando eravamo bambini, possiamo utilizzare questo schema. Così facendo, la storia viene ascoltata con attenzione dai bambini; essi sono stimolati a capire gli stati d’animo dei personaggi fino nei più piccoli particolari. In alcuni casi il bambino non riesce subito a identificarsi, ma sente che qualcosa a lui conosciuto sta avvenendo. L’adulto che legge o racconta non deve aver fretta di arrivare alla situazione finale, ma piuttosto deve rallentare, soffermarsi sui sentimenti che riguardano lo stato d’animo del bambino e aiutarlo a rielaborarli fino in fondo. Inoltre l’adulto non deve cadere nella facile tentazione di evidenziare l’identificazione con il protagonista, magari attribuendogli lo stesso nome del bambino o facendo dei paragoni più

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o meno espliciti tra la situazione narrata e quella vissuta realmente. Tutto il lavoro sarebbe vanificato. Può incoraggiare la riflessione del bambino magari domandando «come si sente il protagonista quando gli è successa quella disavventura?». Naturalmente una storia non basta per superare una paura, ma può essere lo spunto da cui partire almeno per riconoscerla. Ancora una volta raccontare una storia può essere il modo più utile per offrire il nostro aiuto e placare anche il nostro senso di inadeguatezza. Inoltre, anche quando noi adulti siamo abbastanza sicuri di conoscere la causa scatenante di una paura, non possiamo pretendere che il bambino sia in grado di parlarne apertamente. Il bambino ha bisogno di poter parlare indirettamente

di sé e delle proprie paure, utilizzando la metafora e l’identificazione nei personaggi e nelle situazioni di fantasia che richiamano la situazione reale. Anche in psicoterapia si utilizza il meccanismo della proiezione: si tratta di una strategia di difesa per la quale, invece di descrivere le proprie paure, le si proietta su altre persone reali o immaginarie per tenere a debita distanza la parte di sé che si ritiene pericolosa. I protagonisti delle avventure si trovano a dover affrontare le paure che quotidianamente vivono i bambini: la paura di crescere, la paura dell’abbandono, la paura che i genitori si separino, la paura della scuola, la paura di fare brutti sogni, la paura del distacco, del diverso e di non essere accettati. Le storie rispondono in modo semplice e immediato agli

interrogativi che i bambini si pongono, mostrando loro in modo fantastico la strada che stanno percorrendo, gli ostacoli e le difficoltà che possono incontrare. Si può anche tentare di sdrammatizzare le paure, ma non si può sminuire il sentire dei bambini. Attraverso filastrocche divertenti e rime fantasiose si può giocare con le parole raccontando di mostri, lupi, streghe e temporali. Dato che la rima e la poesia costituiscono un ottimo approccio comunicativo con i bambini, è spesso più semplice affrontare tematiche difficili come quella della paura. I bambini sono affascinati dalle ripetizioni, dalle combinazioni di parole, dagli speciali effetti ritmici e musicali. Anche nelle filastrocche le tematiche tengono conto delle paure che i bambini


possono incontrare nel loro sviluppo. Purtroppo molti bambini pieni di paure si sentono assaliti dall’ansia, si sentono soli e decidono di rifugiarsi in se stessi piuttosto che confessare il loro disagio; questi bambini pensano che gli adulti non siano in grado di capirli. La paura di non essere all’altezza, di non essere adeguati, di rimanere soli sono solo alcuni dei temi di molti libri per bambini; queste storie sono utili per far comprendere che le preoccupazioni si possono superare se si ha fiducia negli altri e nella possibilità di una soluzione. La paura, oltre che con la chiusura e l’isolamento, si può manifestare in molti modi e a volte si manifesta con una esagerata iperattività. Naturalmente anche le cause sono varie e comprendono quelle immaginarie dei

bambini con poca stima di sé e quelle reali dei bambini che hanno subito violenze e abusi. In questo ultimo caso i bambini percepiscono il mondo esterno come insicuro e minaccioso. Le ansie possono arrivare a diventare paure paralizzanti e se vi è un disordine emotivo interiore, non permettono di affrontare le difficoltà della vita quotidiana. Se i bisogni affettivi vengono repressi, si possono generare addirittura comportamenti ossessivi. Tutti gli adulti hanno quindi il compito di dare la possibilità ai bambini di esprimersi in libertà e di sentirsi rassicurati da una presenza stabile e stimolante; ciò può avvenire se le risposte degli adulti sono adeguate alla capacità di comprensione dei bambini e al loro mondo fantastico e irrazionale.

La senti che arriva ti assale piano piano è come un gigante o come un brutto nano Fa correre i brividi su e giù per la schiena a volte è più forte di una grossa balena Non sai che nome darle ti fa sudar le mani, è come l’abbaiare di più di cento cani. Si insinua minacciosa e sibilante striscia è più schifosa e viscida di una velenosa biscia. Se cerchi di prenderla oppure di imbrogliarla ti sfugge dappertutto, fai fatica a fermarla. Ma allora sai chi è questa strana figura? Io so che nome darle, acccidenti è la paura!

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sociale e legale

I bambini si raccontano I gruppi di parola per figli di genitori separati 38

Un papà e il suo bambino camminavano sotto i portici di una via cittadina su cui si affacciavano negozi e grandi magazzini. Il papà portava una borsa di plastica piena di pacchetti e sbuffò, rivolto al bambino. «Ti ho preso la tuta rossa, ti ho preso il robot trasformabile ti ho preso la bustina dei calciatori... Che cosa devo ancora prenderti?». «Prendimi la mano» rispose il bambino. i Pensieri dei bambini, in www.gruppidiparola.it

«Certe volte i bambini sono più grandi dei loro genitori, che pensano che i bambini, siccome sono piccoli, non capiscono, ma non è cosi!». Sono le parole di Alessandro ricordando, a distanza di anni, la separazione dei suoi genitori. Uno dei tanti figli della separazione, di quelle separazioni lunghe, dai confini indefiniti e con una litigiosità che sembra non volere mai finire, sempre pronta a riaccendersi, nonostante il tempo passato; separazioni fatte da una parte di tante, troppe parole, a colorare il conflitto tra gli adulti, dall’altra di pesanti silenzi tra gli adulti e i bambini, nell’illusione che “non dire” possa tutelarli e proteggerli o che basti litigare mentre i figli sono in un’altra stanza per non coinvolgerli… dimenticandosi che i figli “coinvolti”

lo sono sempre. Una separazione è qualcosa che riguarda l’intero sistema familiare e l’intero sistema delle relazioni; non riguarda un “io” e un “tu”, ma un “noi” allargato che investe ogni singolo componente e lo stesso significato di famiglia, che inevitabilmente assumerà un’altra geografia. Ciascun bambino ha un proprio modo di reagire, diverso a seconda dell’età e della sua storia con i genitori, ma sicuramente per nessuno è facile comprendere cosa sta succedendo, cosa succede ora e cosa succederà domani, cosa vogliono dire, concretamente, frasi come «Anche se mamma e papà non stanno più insieme, continueranno a volerti bene». In ogni fase della separazione, è fondamentale la capacità degli adulti di aiutare i figli dare un sen-


© ilaria nasini

so a ciò che sta avvenendo e a ricomporre i tanti sentimenti che affollano la loro mente e il loro cuore: confusione, rabbia, ansia, tristezza, sensi di colpa. È esperienza comune che la parola, “mentalizzando” la sofferenza, consente di affrontare l’inquietudine e di rendere più affrontabile le difficoltà. Lo stesso principio vale anche per i bambini: ecco allora che diventa importante ascoltarli, offrire loro uno spazio in cui i genitori continuano ad essere genitori e dove il carico emotivo che deriva dalla separazione può essere accolto, senza aggiungere ulteriori elementi di tensione e preoccupazione e senza “patologizzare”, ma nemmeno banalizzare, le separazioni e i divorzi. Da queste riflessioni sono nate le esperienze dei gruppi di parola per i figli di genitori separati, una nuova

modalità di intervento che consente a bambini tra i 6 e i 12 anni e ad adolescenti tra i 13 e i 16 anni, di avere un tempo e un luogo in cui narrare i propri vissuti rispetto alla separazione e trovare, nella dimensione del gruppo, un aiuto per individuare possibili strategie che consentano di affrontare gli eventi e i cambiamenti della vita familiare; un tempo e un luogo in cui i vissuti del gruppo dei bambini sono trasformati in parole condivise che, alla fine, possono dialogare con il gruppo degli adulti. Un intervento innovativo, che apre sentieri inediti per i bambini e per le loro famiglie. I gruppi di parola hanno fatto il loro ingresso in Italia nel 2005, successivamente a esperienze già realizzate in Canada e in Francia con il nome di Groupes confidences dalle mediatrici

familiari Lorain Fillion e Marie Simon1. Nel nostro paese sono stati introdotti dal Servizio di psicologia clinica per la coppia e la famiglia dell’Università Cattolica di Milano, dalla professoressa Costanza Marzotto e dal professor Cigoli e loro collaboratori2. Come scrive Marie Simon nella presentazione degli incontri «il percorso che si vuole intraprendere è nominare gli eventi e le difficoltà rendendoli comprensibili e accessibili al bambino. Attraverso il dono della parola e la circolarità all’interno del gruppo, si permette la ricostruzione della storia di ciascuno, creando così uno spazio votato alla cura e Dottore di ricerca in Psicologia clinica psicopatologica, svolge attività di ricerca e formazione in clinica dell’infanzia e della famiglia a Lione e in Francia ed è esperta in conduzione dei gruppi di parola. 2 Per un quadro esaustivo sui gruppi di parola si rinvia al testo I gruppi di parola per i figli di genitori separati, a cura di Costanza Marzotto, Vita e pensiero, Milano 2010. 1

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alla salvaguardia del legame familiare». I gruppi non hanno dunque una finalità terapeutica, ma consentono ai bambini di “mettere parole sul dolore” e di intraprendere, nell’ambito di una forma sociale di prossimità, un lavoro di ricerca di senso rispetto a quanto sta accadendo e ai futuri scenari di vita. Vediamo concretamente di cosa si tratta. 40

I gruppi, normalmente composti da otto-dieci partecipanti, prevedono quattro incontri a cadenza settimanale, sempre lo stesso giorno, di due ore ciascuno. Il quarto incontro è diviso in due momenti: la prima ora con i bambini e la seconda anche con i papà e le mamme per uno scambio tra genitori e figli. Al Gruppo di parola i bambini possono partecipare solo se sono iscritti da entrambi i genitori: un’iniziativa congiunta come atto di responsabilità condiviso verso i propri figli, che consente loro di uscire, anche se solo momentaneamente, dal conflitto interiore e da quel doloroso “patto di lealtà” che si scatena quando sentono di doversi schierare con l’uno o con l’altro, perché sanno che la loro partecipazione è sostenuta da tutti e due. Nel corso dei quattro in-

contri i bambini hanno a disposizione uno spazio creativo che offre loro la possibilità di legare, attraverso i due conduttori, gli eventi passati e presenti e le fantasie sul futuro, scambiandosi esperienze e pensieri. La composizione del gruppo permette ai bambini, attraverso le loro storie, di confrontarsi fra loro sulle diverse fasi del percorso di separazione dei genitori: un genitore se ne è appena andato di casa, il giudice ha emesso la sentenza, un genitore ha una nuova relazione, è nato un altro figlio... Negli incontri il disagio, i sentimenti, le emozioni, i desideri e le speranze trovano voce attraverso i giochi, i disegni, i collage, i cartelloni, i burattini, le rappresentazioni teatrali, i libri illustrati, la scrittura e, appunto, la parola, come risorsa principale. Si utilizzano le emoticon – immagini di cagnolini che esprimono, nelle loro espressioni, sentimenti facilmente riconoscibili – per individuare e dare un nome alle emozioni; si costruisce il cartellone delle due case, come strumento che aiuta a rendere visibili le diverse situazioni: chi vive solo con la mamma, mentre il papà vive con una nuova compagna; chi ha fratelli, chi vive con una sorellina nata dalla nuova unione della

mamma… Le “tante case diverse” aiutano a mettere in scena tutti gli attori, a ricostruire il passato e a prefigurare il futuro. La scrittura di una lettera del gruppo dei bambini, indirizzata al gruppo dei genitori, è una delle attività centrali dell’intero Gruppo di parola e rappresenta l’obiettivo del terzo e del quarto incontro, in vista della presenza dei papà e delle mamme al termine del percorso del gruppo. La redazione di una lettera per i genitori accompagna tutti gli incontri: annunciata nel corso del primo incontro, nominata nuovamente nel secondo, proposta come lavoro centrale nel terzo. È attraverso la lettera che le parole dei bambini, emerse e raccolte nel lavoro di gruppo, diventano un unico messaggio per il gruppo dei genitori nell’incontro conclusivo. Le lettere vengono scritte su un cartellone, su invito dei conduttori, che chiedono ai bambini di scrivere, come gruppo, un messaggio rivolto ai genitori per informarli di come loro vivono la separazione, in modo da poter essere capiti e compresi meglio. Per il gruppo dei bambini, scrivere la lettera è un invito per riflettere su quello che sta succedendo nella propria realtà, non tanto per cambiarla, ma per poter


convivere in un modo più realistico e meno doloroso. Ai genitori, la lettera parla di come i figli percepiscono i cambiamenti dovuti alla separazione e delle percezioni che hanno dei propri genitori. La lettera è composta dalle frasi dei singoli e rappresenta il lavoro del gruppo. Ciascuno contribuisce alla lettera in modo diverso, perché diverse sono le possibilità di tradurre in parola i pensieri, ma lavorare tutti insieme è già di per sé un aspetto significativo, che dà forza alla possibilità di esprime i propri pensieri. Per salvaguardare l’anonimato, i conduttori propongono a ciascuno, a turno, di dire una frase che poi un altro partecipante scriverà sul cartellone. C’è anche la “scatola dei segreti”, che consente ai bambini di esprimere sentimenti, dubbi, preoccupazioni, alle quali non riescono a dare parola. Che cosa dicono i bambini nelle loro lettere? Parlano dell’affetto e del voler bene (noi vi vogliamo bene e voi?), del disagio emotivo per la separazione (genitori non litigate più perché i vostri figli stanno male! ), del bisogno di informazione (quando succedono le cose, bisogna avvisarci!), ma anche del conflitto (perché gli adulti devono sempre litigare?), dei nuovi compagni

dei genitori (mamma, ti piace cosi tanto il tuo nuovo compagno?), delle fantasie di riconciliazione (un giorno tornerete insieme?), fino agli aspetti positivi della separazione (né io né voi dovete vivere tra le urlate del vostro matrimonio!) e alle strategie per la vita quotidiana (quando sento nostalgia di papà prendo in mano la foto di me con lui e mi sembra di averlo vicino). Il filo comune è la possibilità di esprimere ai genitori, con libertà e spontaneità, i pensieri che occupano la loro mente. I bambini partecipano al Gruppo di parola perché i genitori li iscrivono, li accompagnano, li vanno a riprendere, sono invitati all’ultimo incontro: il gruppo dei bambini è dunque tale perché esiste un altro gruppo, quello dei genitori. Quando arrivano i genitori, per prima cosa vengono invitati ad ascoltare le parole che i figli hanno scritto nella lettera. La lettura è sempre un momento delicato: alcune frasi mettono a dura prova i genitori, che spesso non pensano di quanta consapevolezza e di quanta profondità di sentimenti siano capaci i bambini. Ma c’è un tempo per dire, un tempo per ascoltare, un tempo per tacere e per riflettere, un tempo per comunicare. In un secondo momento, in-

fatti, viene chiesto loro di scrivere un messaggio per i bambini, un pensiero su ciò che desiderano dire loro, ricordando che così come la lettera è del gruppo, anche i messaggi devono essere rivolti al gruppo. Messaggi che vengono letti dai conduttori e che spesso hanno al centro il tema dell’affetto, della rassicurazione della continuità genitoriale, unitamente al fatto che la separazione è un evento immutabile. Dopo il Gruppo di parola, per quanto si tratti di incontri di breve durata, nulla è più come prima nelle dinamiche familiari. Partecipare al gruppo non consente di modificare magicamente la situazione, ma offre un’occasione per entrare in contatto con i propri sentimenti, nominare le difficoltà e dotarsi di una “cassetta degli attrezzi” per trovare soluzioni e riaprire la comunicazione tra genitori e figli, attraverso un’esperienza che, in una società frammentata, fa sentire meno soli, ridando senso alla parola “comunità”.

Cesarina Colombini si occupa di programmi e interventi per i giovani ed è giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano

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sociale e legale

Luigi Bulotta

I bambini di Makeni 42

di E.J. Graff * trad. di Luigi Bulotta Quando Judith Mosley e suo marito adottarono dalla Sierra Leone Sulaiman Suma di quattro anni nel 1998, nel bel mezzo della brutale guerra civile di quel paese, erano sicuri che gli stavano salvando la vita. «Il suo orfanotrofio era stato incendiato; lui era uno dei dodici bambini in una famiglia, soffriva di PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder – disturbo post-traumatico da stress, n.d.r.); vide gli arti delle persone mozzati –, è stata dura fargli superare i nostri primi anni», mi dissero i Mosley. Il bambino, che ribattezzarono Samuel Mosley, era un «bambino minuscolo» con una pancia gonfia, i capelli rossi di malnutrizione, e «gli occhi come radar, che scrutavano dappertutto, in conti-

nuazione», ha scritto agli amici all’epoca. «Le prime tre notti a casa, si è rifiutato di togliersi i vestiti e le scarpe e ci dormiva dentro, con tutte le sue macchinine». Per settimane non ha mangiato altro che carne e uova, fino a quattordici al giorno. Avrebbe potuto facilmente consumare due polli interi, con tutte le ossa. Una volta, quando Judi cercò di togliere le ossa, lui la morse. I Mosley dicono che la loro agenzia di adozione, Maine Adoption Placement Services (MAPS), disse loro che nei mesi successivi la nascita di Samuel i suoi genitori biologici firmarono per l’abbandono, ma prima dell’adozione di Samuel i custodi del suo orfanotrofio avevano preso i bambini ed erano fuggiti verso le colline, dove avevano mangiato erba, bevuto da ruscelli, e schivato i bam-

bini-soldato drogati armati di pistole e machete. Il gruppo era infine arrivato in Ghana, dove si mise in contatto con i Mosley e le altre famiglie americane alle quali MAPS aveva precedentemente abbinato i bambini. Più tardi, quell’estate, Tony Mosley e gli altri genitori adottivi arrivarono ad Accra, capitale del Ghana, e volarono con i bambini verso le loro nuove case. I Mosley sono una famiglia insolita. Judi è una cittadina britannica bianca che ha incontrato Tony, un afroamericano, in Bahrain mentre lei stava lavorando per Qantas Airways e lui era in Marina. Fin da quando si sono sposati nel 1988, hanno avuto casa prevalentemente sul Pacifico, ora a Guam, dove Tony lavora nel campo delle telecomunicazioni. Hanno due figli biologici: una ra-


gazza nata nel 1989, e un ragazzo nato nel 1991. Ma invece di avere un terzo figlio biologicamente, sono stati persuasi da un amico a trovare un bambino che avesse bisogno di una famiglia. Nel 1997, hanno adottato dal Vietnam una bambina di quattro mesi attraverso MAPS. Non avevano intenzione di adottare ancora, non fino a quando Judi notò una piccola foto di Sulaiman sul retro della rivista trimestrale di MAPS. Come ha recentemente ricordato, «i suoi occhi mi seguivano per la stanza». Ha convinto Tony che, come famiglia di etnia mista, avevano la responsabilità di accoglierlo. I bambini neri della sua età sono stati gli ultimi scelti per l’adozione, l’avevano sentito dire entrambi, anche quelli che non erano traumatizzati superstiti di guerra bisognosi di ampia attenzione medica e psichiatrica, come Sulaiman. Una volta che Tony portò Samuel a casa, i Mosley riversarono su di lui più cura che potevano. Hanno poi adottato altri tre figli, tutte ragazze: una dalla Cambogia nel 1999, una seconda dal Vietnam nel 2001, e la sorella nel 2005. In tutto, ora hanno sette figli, cinque dei quali adottati. Anche prima di portare a

casa la loro ultima figlia, comunque, Judi aveva cominciato a chiedersi se l’adozione internazionale fosse sempre umanitaria. Nel 2004 il Dipartimento di Giustizia americano accusò Lauryn Galindo, che aveva curato l’adozione della figlia cambogiana dei Mosley, Camryn, insieme a quelle di quasi 800 altri bambini cambogiani, di associazione a delinquere per falsificazione dei visti e per riciclaggio di denaro. Secondo l’ICE (U.S. Immigration and Customs Enforcement agency), che ha partecipato all’indagine governativa, Galindo utilizzava diversi metodi per ottenere i bambini, raccontando ad alcune famiglie di origine che sarebbero state in grado di riavere i loro bambini in qualsiasi momento e offrendo ad altre piccoli pagamenti in cibo o denaro. Ha poi utilizzato documenti di identità falsi per spogliare i bambini delle loro storie reali. Tutto nei documenti di Camryn si rivelò essere falso, secondo Judi. I documenti attestavano che Camryn avesse sei anni al momento dell’adozione, che non avesse famiglia e che avesse vissuto in un orfanotrofio per quattro anni. Ma, come Camryn spiegò appena fu in grado di parlare inglese, aveva

in realtà almeno dieci anni (circostanza confermata da un esame medico). Aveva solo da poco perso la madre, disse, e aveva vissuto con la famiglia della sorella sposata fino a quando uno dei reclutatori della Galindo l’adescò per strada. Camryn offrì una straziante testimonianza nell’udienza del processo alla Galindo nel 2004. Nel 2005, con il supporto di Judi, ABC 20/20 (uno show televisivo americano n.d.r.) fece tornare Camryn in Cambogia per una riunione con la sua famiglia d’origine. Nel frattempo, più o meno nello stesso periodo, Judi aveva incrociato un altro facilitatore di adozione immorale, questa volta in Vietnam. Dopo aver portato a casa la sua seconda figlia vietnamita nel 2001, Judi scoprì che un facilitatore di adozioni di nome MaiLy LaTrace – una donna di cui non aveva mai sentito parlare – stava usando la foto e il profilo della sua nuova figlia per attirare potenziali genitori americani. Nel 2002, il Vietnam estradò LaTrace, che è una cittadina americana e che il governo vietnamita ha descritto come una «trafficante di bambini per denaro». Ma quando i Mosley e altri la accusarono di frode, di scambio di bambini

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Š ilaria nasini


e di altre forme di manipolazione, LaTrace li citò in giudizio per calunnia e diffamazione. (Non ero in grado di raggiungere LaTrace per un commento. Tuttavia in una deposizione del 16 settembre 2005 ha negato queste accuse: «Non sono mai stato espulsa dal Vietnam... Non sono una persona fraudolenta, e le molte, molte accuse che sono state fatte contro di me non sono vere».) Infine, nel 2007, un giudice ha respinto il caso, notando che l’estradizione di LaTrace era una faccenda di dominio pubblico e trovando che le altre affermazioni non erano utilizzabili. Alcuni nella comunità online di famiglie adottive si congratularono con Judi per la schiettezza dimostrata in queste situazioni adottive losche. Ma altri la attaccarono, sostenendo che non avrebbe dovuto esporre sua figlia Camryn al giudizio pubblico, o che lei stava screditando l’adozione internazionale e di conseguenza danneggiando i bambini che avevano realmente bisogno di nuove case. Judi alla fine abbandonò le sue liste di discussione e le sue bacheche sull’adozione internazionale, prendendosi felicemente cura della sua grande famiglia e ottenendo uno speciale conforto

da quella che considerava la sua adozione veramente buona, quella che aveva salvato Samuele dalla guerra in Sierra Leone. E poi, una mattina del giugno scorso, mentre stava scorrendo Facebook bevendo il suo caffè del mattino, si imbatté in un articolo di Associated Press sulle adozioni di bambini della Sierra Leone. Lo lesse per caso, fino a quando fu colpita da queste righe: «Sono passati quasi quindici anni da quando ho visto Sulaiman Suma l’ultima volta... quattro anni e mezzo... Mabinty e 3 anni e mezzo... Sulaiman. Entrambi sono ora giovani adulti che supponiamo vivano negli Stati Uniti. “Vogliamo i nostri bambini che sono stati venduti a queste persone bianche”, ha detto Suma. “Vogliamo sapere se sono vivi o morti”». Tutto è accaduto in silenzio, Judi mi raccontò, come se fosse stata trascinata sott’acqua. Ha letto le frasi più e più volte, cercando di comprenderle. Il ragazzo Sulaiman Suma, che era stato cercato per tutti questi anni, era suo figlio sedicenne, Samuele.

Pubblichiamo il presente articolo con il consenso dell’autore

* E.J. Graff è Associate Director e Senior Researcher presso lo Schuster Instititute for investigative journalism, Direttore del Gender & Justice Project, Resident Scholar presso il Women’s studies and research Centre della Brandeis University, autrice di The lie we love, The baby business, Anatomy of an adoption crisis.

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sociale e legale

Angelamaria Serpico Avvocato specializzato in diritto di famiglia e diritto minorile

Gli enti autorizzati 46

La legge 476/1998 ha reso esecutiva, in Italia, la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1998, con efficacia dal 31 ottobre 2000. Tra le varie disposizioni della Convenzione vi è quella che le adozioni internazionali possono perfezionarsi solo attraverso le autorità centrali e gli organismi debitamente abilitati. È stata quindi costituita la Commissione per le adozioni internazionali (CAI), che ha sede a Roma presso il Consiglio dei ministri ed è presieduta dal ministro per le Famiglie in carica. Vice presidente è, solitamente, un magistrato particolarmente esperto in diritto di famiglia. La Commissione ha quindi autorizzato un certo numero di Enti (oggi ne sono in funzione circa 65) allo svolgimento di pratiche di adozione internazionale ex art. 39, comma 1 lette-

ra c) della legge 184/1983 poiché, a seguito dell’accertamento di procedure poco chiare, si era constatato che la maggior parte di abusi e illeciti, in questo settore, erano imputabili a organismi intermediari assolutamente privi di deontologia professionale. Con l’introduzione di questi organismi si è cercato, quindi, di prevedere una disciplina assai dettagliata e rigorosa che individuasse tutti i requisiti necessari affinché tali enti potessero essere iscritti nell’apposito albo. Tra i requisiti minimi indicati dall’art. 11 della Convenzione vi è quello dell’assenza di scopo di lucro degli enti e la presenza di persone qualificate all’interno di essi. Gli enti presentano, solitamente, una (o più ) strutture sul territorio italiano, secondo la loro competenza territoriale (che può essere

regionale, di macro area (nord, centro, sud) o estesa a tutta Italia) e sono dotati di “rappresentanze” anche nei paesi in cui operano, sia sotto il profilo delle risorse “strumentali” che sotto quello delle risorse umane. Occorre qui precisare che ogni ente, per operare in un determinato paese estero, deve presentare alla CAI un dossier dettagliato, al vaglio del quale la Commissione potrà autorizzare o meno l’ente per quel paese. Ogni anno viene quindi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale l’elenco degli enti autorizzati. Oltre che autorizzati, tuttavia, gli enti devono essere accreditati dal paese straniero, nel senso che deve essere riconosciuta in loco la funzione di intermediazione nelle procedure di adozione internazionale e devono essere operativi,


cioè essere in grado di portare a compimento le procedure di adozione. Si sottolinea, inoltre, che nei paesi gli enti sono rappresentati da soggetti qualificati, preferibilmente esperti del mondo dell’infanzia e della famiglia, il cui valore pure viene verificato dalla Commissione, che ne richiede il curriculum vitae e ne accerta i requisiti. Molto rilevanti sono, inoltre, i progetti che l’ente attua nei paesi poiché l’attività adozionale deve in ogni caso avere carattere sussidiario rispetto alle azioni di promozione dei diritti dell’infanzia, attraverso azioni di cooperazione allo sviluppo e di assistenza in loco. L’art. 31 stabilisce, quindi, che la coppia che ha ottenuto il decreto d’idoneità deve, entro un anno dall’emissione dello stesso,

conferire incarico a curare la procedura di adozione a uno degli enti autorizzati di cui prima, avendo riguardo in prima battuta, alla loro competenza territoriale. È tuttavia possibile anche conferire incarico a un ente che non opera nella propria regione di residenza, previa specifica autorizzazione da parte della Commissione per le adozioni internazionali. Spesso si crede che gli enti siano una sorta di agenzia privata, un po’ sulla falsariga delle agenzie esistenti negli Stati Uniti, ma così non è. Per adottare un minore straniero è necessario conferire mandato a un ente. Esiste una deroga a tale obbligo solo nel caso in cui si intenda adottare in paesi nei quali non operino enti, ma ciò soltanto se si possono documentare motivi validi (esempio: uno dei due coniugi è cittadino

di quel paese o vi ha vissuto o vi ha lavorato per un certo periodo di tempo). In questo caso sarà seguito dal Servizio sociale internazionale - Sezione italiana previa, in ogni caso, autorizzazione della Commissione per le adozioni internazionali. Occorre precisare che, analogamente, è possibile per gli enti operare in un paese non aderente alla Convenzione dell’Aja purché le procedure di adozione in atto ne rispettino i principi fondamentali. È importante tenere ben presente che gli enti svolgono una funzione per così dire pubblica, se non addirittura istituzionale. Molto discusso è il rapporto tra coppie ed enti, sia sotto il profilo del vincolo giuridico che si determina tra essi, sia sotto il profilo degli ambiti di competenza, ma anche avendo

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riguardo alla relazione di fiducia che inevitabilmente viene a instaurarsi. Preliminarmente occorre precisare che il rapporto tra enti e coppie ha natura contrattuale e costituisce un contratto atipico, che si avvicina al mandato (art. 1703 e ss. c.c.) e particolarmente a un mandato sui generis, con caratteristiche peculiari, da cui sorgerebbero diritti e doveri

conducibili al rapporto con l’ente si ricordano: la presunzione di onerosità (art. 1709 c.c.), nel senso che all’ente è dovuto un compenso per l’attività svolta; la diligenza del mandatario (art. 1710 c.c.): ossia l’ente è tenuto a eseguire il mandato con la massima cura (la legge espressamente parla di «diligenza del buon padre di famiglia») e a rendere note al

mandante il conto del suo operato e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. Tra le cause di estinzione (art. 1722 c.c.) si annoverano: scadenza del termine o compimento dell’incarico; revoca da parte del mandante; rinuncia da parte del mandatario. Occorre sottolineare, infine, che l’ente ha compiti certificativi circa l’inseri-

mandante (cioè la coppia) le circostanze sopravvenute che possono determinare la revoca o la modificazione del mandato; è altresì obbligato al rendiconto (art. 1713 c.c.), nel senso che l’ente deve rendere al

mento del minore in famiglia, i periodi di congedo di maternità e l’ammontare delle spese ai fini fiscali. Si tratta, come si è detto, dello svolgimento di vere e proprie pubbliche funzioni da parte dall’ente privato.

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dell’utente e dell’ente. La violazione dei diritti nascenti dal rapporto darebbe luogo necessariamente a forme di responsabilità contrattuale tra le parti. Tra le caratteristiche del contratto di mandato ri-


Vi è un certo dibattito in diritto circa l’obbligatorietà o meno per l’ente di accettare gli incarichi e non manca chi, in dottrina, afferma che stante l’obbligo legale di rivolgersi agli organi autorizzati, non possa essere demandata esclusivamente a questo la scelta di contrarre. D’altro canto occorre pure osservare che gli enti, pur essendo di regola associazioni private, svolgono un’attività di interesse pubblico e ciò giustificherebbe, dunque, una (seppur limitata) coercibilità della loro attività. Taluni ritengono che dall’obbligo per gli aspiranti genitori adottivi a rivolgersi a un ente autorizzato dovrebbe sorgere correlativamente un obbligo dell’ente a prestare i suoi servizi, salvo che esso sia in grado di giustificare il diniego (ad esempio, nel caso che la propria organizzazione non possa farsi carico di altre procedure). Un rifiuto immotivato, dunque, non sarebbe ammissibile così come neppure, secondo una parte della dottrina, una differente valutazione rispetto al decreto di idoneità. D’altronde è pur vero che una prestazione obbligata potrebbe nuocere al rapporto tra le parti, che dovrebbe essere ispirato, anche per la delicatezza dei compiti da

svolgersi, alla più profonda fiducia reciproca. Inoltre si consideri che gli enti, pur non avendo scopo di lucro, saranno comunque interessati ad accogliere, piuttosto che a respingere, le richieste degli aspiranti genitori. Dunque, anche in tal caso, la coercibilità di cui si parlava prima dovrebbe essere soltanto una misura eccezionale, non un caso di opponibilità ordinaria. La CAI si è espressa sul punto ritenendo che, poiché con il sistema introdotto dalla legge 476/1998 gli enti autorizzati svolgono funzioni di natura pubblica, non possono senza motivo rifiutare l’incarico. A norma dell’art. 31 lettera a), devono quindi informare con chiarezza gli aspiranti all’adozione sulle procedure e sulle concrete prospettive di adozione, svolgendo una funzione di consiglio e di orientamento. Se ritengono che esistano cause sopravvenute che incidono in modo rilevante sul giudizio d’idoneità a suo tempo emesso dall’autorità giudiziaria, è opportuno che informino il Tribunale per i minorenni che ha emesso il decreto, o quanto meno che segnalino il caso alla Commissione. Una volta conferito mandato è possibile che sopraggiungano situazioni

tali per cui la coppia non si senta più rappresentata dall’ente prescelto e desideri cambiare. Solitamente le cause sono da imputarsi al venir meno del rapporto di fiducia instaurato tra le parti; spesso a un’attesa ritenuta ingiustificata; talvolta per una insuperabile incomunicabilità o per una sensazione di abbandono da parte dell’ente. È possibile, in questi casi, revocare l’incarico conferendo mandato ad altro ente senza alcuna autorizzazione da parte della CAI e senza limiti di tempo. Questione spesso dibattuta è se, interrotto il rapporto con l’Ente, quest’ultimo sia tenuto alla restituzione delle somme eventualmente versate dalla coppia. In generale può dirsi che l’ente dovrà restituire le somme rimaste inutilizzate per l’esperimento dell’incarico. Le norme cui fare riferimento sono quelle che disciplinano il mandato (art. 1703 ss. c.c.). In particolare l’art. 1720 dispone che il mandante debba rimborsare al mandatario (l’ente) le anticipazioni con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte e deve pagargli il compenso che gli spetta.

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Dallo sportello

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deve disporre, nell’area geografica in cui opera, delle strutture organizzative e operative che “garantiscano l’esecuzione degli adempimenti e delle prestazioni necessari per l’informazione, la preparazione e l’assistenza alle coppie nella procedura di adozione e l’assistenza nel post-adozione” (cfr. artt. 8 e 9 della delibera della CAI n. 13 del 28/10/2008). Ogni ente è pertanto autorizzato a operare in una o più regioni, ovvero in una o più macroaree. Le macroaree sono cinque e comprendono le seguenti regioni:

In casi particolari, la Commissione può autorizzare la coppia a incaricare un ente che non opera nella regione ove la coppia risiede. In tali casi, l’ente indicato deve predisporre uno specifico progetto che garantisca, eventualmente con la collaborazione dei servizi territoriali, l’assistenza e l’accompagnamento della coppia durante tutte le fasi del percorso adottivo e nel post adozione. L’Albo degli enti autorizzati consente di verificare l’area di attività di ogni ente in Italia e all’estero».

Risposta Gentile signora, le riporto le indicazioni che Macroarea A: Valle d’Aola stessa Commmissione sta, Piemonte, Liguria, per le adozioni internazio- Sardegna, Lombardia; nali fornisce nel suo sito: Macroarea B: Lombardia, «Nello scegliere l’ente cui Veneto, Trentino Alto Adiaffidarsi, i coniugi devono ge, Friuli-Venezia Giulia;

Pertanto, potrete conferire incarico a un ente che non opera nella vostra regione richiedendo alla CAI una specifica autorizzazione basata su casi particolari. Le segnalo che la medesima CAI ha precisato, sotto tale profilo, che hanno maggiore possibilità di acquisire incarichi gli enti religiosi che abbiano nella regione dei richiedenti anche solo una sede periferica; e ciò per la loro particolare organizzazione.

Domanda Buongiorno, a causa di una relazione non proprio brillante, ben ventiquattro enti che hanno autorizzazione a operare sul Lazio hanno respinto la nostra richiesta di conferire il mandato. Volevo sapere se, a questo punto, è possibile conferire mandato a un ente che non solo non ha sede nel Lazio, ma non ha neppure l’autorizzazione CAI a operare nell’area geografica comprendete il Lazio (macroarea D). In attesa di riscontro, invio cordiali saluti.

innanzitutto tener presente che ogni ente può accettare l’incarico solo da parte delle coppie che risiedono nella regione o nella macroarea in cui l’ente medesimo è stato autorizzato a operare. Questa regola intende assicurare la necessaria vicinanza tra le coppie e l’ente autorizzato, il quale

Macroarea C: Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Sardegna; Macroarea D: Lazio, Sardegna, Abruzzo, Molise, Campania; Macroarea E: Campania, Puglia, Calabria, Basilicata, Sicilia.


Domanda Salve. La nostra domanda può sembrare un esercizio teorico, ma non lo è. Dopo l’idoneità abbiamo già contattato una trentina di enti: da una ventina di loro (gli altri dieci non ci hanno nemmeno voluto vedere perché «strapieni»), abbiamo ottenuto praticamente la stessa risposta: possiamo parlarne, ma molto difficilmente possiamo accettare mandati, a meno che non siate disponibili per bimbi grandi (dai dieci anni in su) o per gruppi di tre fratelli. Questo di fatto significa per noi non poter adottare: la nostra relazione parla di bimbi in età scolare (max. 7-8 anni) ed esclude fratelli. La domanda: se di fatto nessun ente accetta il nostro mandato, non viene leso il nostro diritto ad adottare sancito da un decreto del tribunale? Non è possibile “obbligare” un ente ad accettare un mandato, che, pur restando un fatto privatisti-

co, è la via obbligata per realizzare una decisione del tribunale? E ancora: se nessuno può accettare il nostro mandato, è possible opporsi a che lo stesso scada dopo un anno per quella che di fatto è una specie di “forza maggiore”? Grazie. Domanda Buongiorno, in attesa del colloquio con il giudice, a giugno, abbiamo visitato una decina di enti (quelli che hanno accettato di fare il colloquio informativo senza il decreto). Ci siamo resi conto che stanno tutti chiudento le accettazioni di incarichi salvo disponibilità per più di 3 fratelli, bimbi con gravi handicap o con età sopra 10/12 anni. Ci domandiamo, gli enti sono obbligati a riaprire e quanto? All’inizio dell’anno oppure? Se avremo il decreto per luglio o settembre e la situazione non è cambiata cosa si deve fare? Il decreto ha validità dal momento del ritiro? Se sì si può aspettare a ritirarlo? Grazie per l’attenzione.

Risposta In caso di oggettive difficoltà a conferire mandato a un ente entro l’anno dalla notifica dello stesso, consiglio di prospettare il caso alla Commissione per le adozioni internazionali, con sede in Roma, Largo Chigi 1. Mi sento tuttavia di precisare sin d’ora che non esiste un diritto ad adottare, neanche sancito dal decreto del Tribunale per i minorenni. Esiste solo il diritto del minore ad avere una famiglia, che è questione ben diversa.

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trentagiorni

Istat, clamoroso: in Italia aumentano del 40% i minori accolti nelle strutture residenziali Sta diventando quasi un esercito il numero dei minori nelle comunità educative e nelle strutture d’accoglienza. Siamo passati in soli tre anni da 16.414 (dato del 2006) a 22.584 minori ospitati nei centri, secondo rilevamenti effettuati fino al 31 dicembre 2009. Lo certifica l’Istat nel Report Statistico diffuso nei giorni scorsi. Gli ospiti sotto i diciott’anni sono per un terzo di origine straniera. Il numero è in aumento: dal 2006 il numero di minori ospitati è cresciuto del 37,5%. Vediamo alcuni dati più nel dettaglio. Più di 22mila sono bambini e ragazzi sotto i diciott’anni. La loro distribuzione è abbastanza equilibrata sul territorio nazionale, con una leggera prevalenza nel Nordovest (come anche per le altre fasce d’età): il tasso è di 2 ogni mille residenti, con punte di 4 per mille in Sicilia. Sono per lo più maschi (il 58%, cioè 13mila) e gli stranieri sono 6778, il 66% dei quali è di sesso maschile. Per gli stranieri il tasso è 7,3 ogni mille stranieri residenti: ancora un volta

il tasso più elevato si riscontra in Sicilia col 18,3, ma tassi superiori al 10 per 1000 si riscontrano anche in Campania, Calabria e provincia di Trento (rispettivamente18,1, 13,8 e 12 per 1000). La ragione più frequente per l’ingresso nelle strutture assistenziali è quella dei problemi familiari: il 47% dei minori viene ospitato per problemi economici, incapacità educativa o problemi psicofisici dei genitori, per il 12% l’ingresso è congiunto a quello di un genitore, il 9% sono stranieri privi di assistenza o di un adulto di riferimento, il 7% è vittima di abuso o maltrattamento (rimangono il 16%, accolto per altre ragioni, e un 18% per cui è ignota la ragione). Per quello che riguarda i problemi dei minori accolti, circa la metà degli ospiti con meno di 18 anni (11 mila minori) non ha alcun problema di disabilità o dipendenza da alcool o droga; oltre 6000 ragazzi presentano problemi di tossicodipendenza, alcolismo o altri tipi di disagio e poco più di 3700 minori risultano avere problemi di salute mentale o disabilità. Solo il 7,5% (circa 1700) risulta in condizione di adottabilità, il 46% non è

adottabile, mentre per la quota rimanente non è nota la situazione. La destinazione degli ospiti dimessi dalle strutture residenziali nel corso dell’anno 2009 permette di delineare il percorso di reinserimento. Hanno lasciato le strutture in 12.663: il 37% è rientrato nelle famiglie d’origine, il 12% è stato dato in affido o adottato, solo il 5% è stato reso autonomo. Infine, per quello che riguarda le strutture, i minori sono accolti prevalentemente in “unità di servizio” con carattere comunitario, mentre soltanto il 28% dei ragazzi alloggia in residenze di piccole dimensioni con organizzazione di tipo familiare. Fonte: www.aibi.it usa. Il crollo delle adozioni Meno 60% in sette anni Nel 2004, gli americani hanno adottato 22.991 minori da altri paesi. Nel 2011 i minori adottati sono stati solamente 9319, secondo i dati del Dipartimento di Stato. Il crollo è del 60%. Il «Christian Post» lo scorso 18 febbraio ha dedicato un lungo servizio al tema, parlando con alcuni esperti di adozione internazionale per capire il perché di questo declino


(«Christian Post», Napp Nazworth, 18 febbraio 2012). «È il crollo enorme di un servizio veramente valido per i bambini. E non è successo a caso», dice Tom DiFilipo, presidente e CEO di Consiglio congiunto del Servizio internazionale per l’infanzia. Per il «Christian Post» tutto ruota attorno alla domanda «qual è la priorità: dare a un bambino una famiglia amorevole o la razza di un bambino e la sua etnia?». Jedd Medefind, presidente della Christian Alliance for Orphans sostiene che «per coloro che ripongono la massima priorità a mantenere un bambino nel suo paese d’origine, l’adozione internazionale è una priorità bassa». La tendenza attuale è incline a concedere priorità ai principi di etnia e razza. «Quasi tutti sono teoricamente a supporto dell’adozione internazionale – sottolinea Medefind – ma alcuni la collocano semplicemente come un’ultima risorsa che però effettivamente non dovrebbe accadere». È sempre Medefind a sottolineare come gli stessi programmi di aiuto dell’Onu e dell’Unicef tendano a dare priorità al principio etnico

piuttosto che alla famiglia. Un altro elemento è che il Dipartimento di Stato americano sembra avere messo in atto una svolta, sostenendo che tutte le adozioni internazionali dovrebbero essere fatte attraverso la Convenzione dell’Aja, anche se il «Christian Post» cita una fonte in US Citizenship and Immigration Services (USCIS) che ha confermato che le adozioni fraudolente sono molto rare. Uno dei problemi con la Convenzione dell’Aja è che molti paesi in via di sviluppo non hanno le risorse per attuarlo, si dice. «Quello che stiamo vedendo è una posizione chiara da parte del governo degli Stati Uniti», ha detto DiFilipo. «Ma se un paese in via di sviluppo è incoraggiato a firmare la Convenzione dell’Aia, dovrebbe esserci risorse per aiutare quella nazione ad attuare la convenzione in modo che non vi sia un calo improvviso nelle adozioni. Non solo incoraggiamento se firma e non solo critiche se non firma. Ci deve essere collaborazione e l’assistenza finanziaria». Fonte: www.vita.it

Banca dati minori adottabili, l’Aibi ricorre contro il ministero Roma - Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha fissato per il 4 luglio 2012 l’udienza pubblica durante la quale verrà discussa la causa che AibiAssociazione amici dei bambini ha proposto contro il Ministero della Giustizia. Si tratta di un ricorso che Aibi ha notificato al Ministero il 23 dicembre 2011, ai sensi del decreto legislativo 198/2009. Il motivo? Per Aibi il Ministero «è inadempiente. Non ha ancora istituito la banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione». Nel ricorso, in difesa dell’interesse dei minori adottabili, Aibi ha chiesto al Tar di obbligare l’amministrazione del Ministero a creare la banca dati entro un termine fissato dai giudici. «Tutti i soggetti, sia associazioni che privati, che sono stati danneggiati dalla mancata creazione della banca dati – avverte l’Aibi –, possono aderire alla causa mediante la procedura della ‘Class Action’ e potranno intervenire nel giudizio per chiedere insieme la condanna del Ministero della Giustizia». Fonte: www. redattoresociale.it


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