Adozioni e dintorni - GSD Informa gennaio-febbraio 2016

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Adozione e dintorni GSD informa - bimestrale - gennaio/febbraio 2016 - n. 1

GSD informa

rto, ci Ti tocco, ti avve are Il diritto di marin e Un bambino ch Faz eu dormir!

sono

la scuola

arriva



gennaio-febbraio 2016 | 001

GSD informa

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editoriale

di Luigi Bulotta

psicologia-pedagogia e adozione

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Ti tocco, ti avverto, ci sono di Massimo Maini, Daria Vettori

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Il diritto di marinare la scuola di Monica Nobile

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Un bambino che arriva è una famiglia che nasce di Francesca Sivo Fauz eu dormir! di Giulia Patanè

giorno dopo giorno

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leggendo

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Io nonso ballare il samba di Fabio Selini Parole fuori di Marina Zulian sociale e legale

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Fondo Adozioni Avv. Francesco Rella

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trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro direttore@genitorisidiventa.org; Simone Berti, Firenze

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila;

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Luigi Bulotta

Le ragioni dei grandi

editoriale

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E’ un dato di fatto, siamo una società adultocentrica. Una società di adulti che, quanto più può, antepone i propri diritti, ma molto più spesso le proprie ideologie, convinzioni ed egoismi, ai legittimi diritti dei minori. Un episodio tra tanti? E’ di questi ultimi giorni il caso del bonus bebè, una misura di sostegno alla genitorialità, dalla quale la regione Lombardia ha ritenuto di escludere i figli adottivi. La decisione di limitare il bonus alle nascite avvenute all’interno delle famiglie biologiche ha un sapore un po’ retrò, il segnale di una crescente tendenza a suddividere e classificare le persone in categorie, anziché individuare e andare incontro ai bisogni comuni. Chi ha pensato e difeso questa scelta, ha però sicuramente dimenticato che sono oramai anni che l’ingresso in famiglia di un minore per adozione è equiparata dal nostro diritto alla nascita biologica, a cominciare dai congedi di maternità-paternità che hanno inizio proprio dalla data di adozione o, nel caso di adozione internazionale, da quella di ingresso in Italia del minore, facendola diventare, di fatto, la sua seconda data di nascita. Solo la decisa presa di posizione delle associazioni familiari aderenti al CARE, la conseguente petizione che in pochi giorni ha sfiorato le 4.000 firme, e l’incontro con l’Assessore al Reddito di Autonomia, Inclusione Sociale e Pari Opportunità della Regione Lombardia, ha ottenuto l’impegno a varare prossimamente misure di sostegno dedicate alle famiglie adottive. Certo è che se si mettesse al centro il minore, le sue esigenze e quelle delle famiglie, anziché rispolverare l’antico concetto del premio di natalità, sarebbe un bel cambio di prospettiva.


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Vigileremo che le promesse si trasformino in azioni concrete. Dopo oltre dieci anni di onorato servizio, Adozione e dintorni cesserà dopo l’estate di essere pubblicato come lo conoscete. Meglio dovremmo dire che si trasformerà, tornando ad essere qualcosa di più simile alle sue origini: uno spazio di riflessione liberamente fruibile per tutti. E’ stata una bella avventura, una scommessa che speriamo abbia avuto il vostro gradimento. Attraverso la pubblicazione di un notiziario cartaceo e in formato pdf siamo cresciuti tanto. C’è sempre un po’ di tristezza quando finisce qualcosa, specialmente se ci ha accompagnato per molti anni e ha assorbito molto del nostro impegno, ma abbiamo deciso che fosse il momento di concludere questa esperienza. Non sarà tuttavia un vero addio, cambieremo infatti solo mezzo di comunicazione, pubblicando i nostri articoli e contributi sul nuovo portale di Genitori si diventa che vedrà la luce tra pochi mesi. Continuate a seguirci perché abbiamo ancora tante cose da dirvi e le costruiremo sempre di più assieme.


psicologia-pedagogia e adozione 6

Dott. Massimo Maini psicopedagogista e filosofo Dott.ssa Daria Vettori psicoloca e psicoterapeuta

Ti tocco, ti avverto, ci sono: i sensi delle relazioni

Toccare ed essere toccati sono comportamenti naturali e innati che ci consentono, in modo immediato, di sintonizzarci con le altre persone attraverso il corpo. Ciascuno di noi vive la propria vita proprio a partire dal con-tatto e la qualità e l’assenza di esso influisce inevitabilmente sulla nostra esistenza e su ciò che siamo a tal punto che è impossibile una vita senza tatto. Entrare in con-tatto con un altro individuo significa vivere un’esperienza di confine, una speciale prossimità tra il mio corpo e quello dell’altro, che include la possibilità di vivere esperienze che non divengono totalmente consapevoli. Ogni individuo possiede un suo tatto e con esso definisce la propria modalità, il proprio stile nel rapportarsi al mondo e

agli altri individui. Pensiamo al valore e al significato che il tatto riveste nei gesti di rassicurazione e conforto, nei quali il bambino, ma anche l’adulto, ancora prima delle parole, sente di essere accolto e ascoltato. Così, nel gesto di con-tatto di un genitore che teneramente e delicatamente si avvicina e tocca il proprio figlio, è iscritta una promessa di cura, un’esperienza di sicurezza che rende possibile ogni esperienza di esplorazione e condivisione. … noi ci siamo avvicinati e abbiamo abbracciato nostro figlio per la prima volta…senza che lui muovesse un muscolo, era rigido … in quel momento non mi sono reso conto di quello che stava succedendo…oggi rivedendo le foto di quel giorno, vedo chiaramente quel-

lo che allora ho sentito: io lo abbracciavo, lui no…lui era come un manichino!” (papà adottivo) Siamo tutti consapevoli, di come le esperienze tattili siano importanti nelle nostre relazioni affettive. La pelle rappresenta quella particolare soglia dove esterno ed interno si “toccano”, uno spazio “organico” e nello stesso tempo immaginario, un sistema di protezione della nostra individualità ed insieme uno strumento e luogo di scambio con gli altri. Il contatto è una forma universale e originaria di comunicazione. Il tatto è il nostro primo senso ed è già presente nel grembo materno (Montagu, 1978). Quando lo sviluppo del bambino arriva alla trentaduesima settimana di gestazione, prati-


camente ogni parte del suo corpo è sensibile al contatto. Se dunque pensiamo alle nostre prime esperienze di con-tatto, queste iniziano nel corso della gestazione, per poi assumere un valore fondamentale fin dai primi istanti dopo la nascita. Il contatto e le cure genitoriali primarie forniscono un contenimento che genera quella sensazione di confine, di limite corporeo, che permettono la costruzione della sensazione di sé come individuo unico. Le nostre esperienze tattili, anche molto precoci fanno dunque parte di un bagaglio molto importante, anche se non cosciente, che chiamiamo “memoria implicita”. Una memoria iscritta nei nostri corpi, di cui non abbiamo coscienza, una memoria attiva ma si-

lenziosa. La storia di ciascuno, l’esperienza di con-tatto precoce, rimane impressa in questa memoria, per sempre. Senza volerla necessariamente definire come “buona” o “negativa”, essa rimane e probabilmente segna il modo che ciascuno di noi ha di vivere le relazioni, corporee e immaginative, con l’altro. Come si è stati toccati, accarezzati, abbracciati, evidentemente condiziona non solo la nostra “storia”, ma ciò che noi siamo, la nostra percezione del mondo e le nostre relazioni. Se pensiamo a un bambino adottato, egli ha, scritto dentro di sé, ciò che è stato: la sua esperienza nella pancia, la nascita, i primi contatti e incontri. La presenza dell’altro, ma anche l’assenza.

“I tuoi genitori biologici sono i primi che ti hanno tenuto in braccio…sì… ma come? Io so che nel mio istituto c’era una suora che si era molto affezionata a me, ho le foto in cui mi tiene in braccio e mi guarda, mi voleva bene…” (dialogo in gruppo) Le esperienze, sebbene in molti casi dimenticate, rimangono quindi dentro di loro. I genitori biologici prima, le educatrici o le suore degli istituti poi, gli altri bambini, i fratelli, le sorelle, gli amici: che cosa hanno lasciato queste esperienze nei loro corpi? Come influenzano inconsapevolmente il loro modo di vivere le relazioni oggi? Che fine hanno fatto i gesti, gli abbracci, le carezze che hanno contraddistinto l’infanzia? Non possiamo infatti nega-

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re che il primo incontro del corpo è stato con i genitori biologici, la pancia, la nascita e poi un tempo trascorso insieme, più o meno lungo. Poi altre braccia, a volte tante, tutte differenti. Tutti che toccano in un modo diverso, forse, a volte, affettuoso, caldo, o solo per dare cibo, far sopravvivere, a volte anche per fare del male. Tutta questa esperienza del corpo non scompare magicamente al momento dell’adozione, rimane dentro, una memoria corporea che segna il modo in cui i figli adottivi accolgono il con-tatto con i loro genitori adottivi. Un incontro che in un istante, trasforma ciò che prima era famigliare nella mente, tante volte sognato, in qualcosa di concreto, intenso, ma totalmente sconosciuto. Da una parte

ci sono dei “nuovi” genitori che desiderano far sentire il calore del proprio corpo, che hanno fretta di abbracciare, toccare. Dall’altro un bambino che può sentire questi stessi gesti come un’intrusione, o addirittura una violenza, o che tiene le distanze per paura di lasciarsi andare a qualcosa di tanto desiderato quanto sconosciuto. Un incontro che si concretizza in un momento, ma che poi diviene un percorso lungo, a volte faticoso e non lineare. Inizialmente, infatti, è un contatto che non parla di un legame, un contatto fatto solo di sensi e sensazioni, bisogno non desiderio. Il primo incontro è un contatto di storie, di esperienze che si coagulano in un istante, nel gesto che la mano o l’abbraccio consente o impedisce, inibisce.

I bambini impongono tempi e modi della relazione, hanno paura dei grandi che prendono l’iniziativa di toccare, carezzare, abbracciare. Trovare un equilibrio, un ritmo, non è facile. E’ una nuova lingua del corpo sconosciuta sia ai piccoli sia agli adulti. I genitori provano sentimenti difficili da gestire: ti desidero, ma, contemporaneamente ti sento estraneo. A volte, la paura di ciò che è sconosciuto diventa tale, da non consentire più al bambino di parlare la propria lingua, costringendolo inconsapevolmente a imparare presto presto quella di chi lo accoglie, vivendo come minaccia uno sguardo triste o una fatica nell’abbraccio. Unica possibilità è quella, invece, di lasciarsi andare alla relazione con questo figlio/sconosciuto, come


un’esperienza di ricerca ed esplorazione, un viaggio nel quale, ciascuno, porta la propria storia corporea, nella ricerca di una possibile nuova consonanza. Occorre prendersi il tempo per sentire, per costruire un “codice corporeo condiviso” dove lo strumento principale è l’ascolto come forma di apprendimento. Toccarsi è allora un mettersi in ascolto, un parlarsi con i gesti, un invitare a un dialogo che è fatto di attese, attenzione, delicatezza e impegno. Toccare è sentire, percepire le modificazioni del proprio corpo che incontra un altro corpo, significa sentire di essere esposti all’altro, ma concretizza l’incontro fra due storie di con-tatto, vissute altrove prima di incontrarsi. Tracce che influenzano, che raccontano, che vengono tradotte in attese, comportamenti,

paure. Storie di contatti intensi, accudenti oppure di contatti irruenti, violenti o addirittura assenti, ma desiderati e attesi. Queste diversi modi di toccare ed essere toccati, raccontano le storie di cui noi siamo fatti, nell’incertezza di poter comprendere fino in fondo a chi appartengono, se al figlio adottivo o ai genitori stessi. Questo non-sapere, però, non è un difetto, un limite ma, al contrario rappresenta l’essenza stessa dell’incontro reale, in “carne e ossa”. Un incontro che si trasforma in una ricerca, fatta di ascolto e gesti corporei nei quali e’ possibile rintracciare i primi abbozzi di una storia che da immaginata e sognata, diventa “reale” e unica.

so inconsapevole, quando arriva l’adolescenza arrivano le domande, sollecitate anche dai vissuti del qui ed ora: Come è stato possibile costruire un legame di corpo con i genitori adottivi, pur non avendo vissuto un “primo contatto”? Io delle volte mi chiedo “Come hanno fatto ad amarmi come fosse suo figlio? Così dal niente…” (ragazza adottata) Domande che trovano una loro specularità nei pensieri degli adulti. “Ora che è un ragazzino e lo guardo, tanto diverso da me, mi chiedo come ha fatto a riconoscermi come sua madre…”

I ragazzi si chiedono come Se fino ad un certo punto hanno fatto ad amarsi. questa ricerca l’uno dell’al- Erano estranei, stranieri, tro rimane corporea, spes- certamente differenti da

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quello che ciascuno aveva immaginato. Il corpo che cambia, che sente in un modo diverso, sollecita domande, tante domande: sulla coppia, la nascita, la genitorialità e con esse sull’abbandono. Sul gesto del “dare via”, dell’“affidare”, il gesto che interrompe forse per sempre ogni contatto, lasciando un’assenza. L’idea che i propri genitori biologici possano averli concepiti “per sbaglio”, o, ancora più difficile da accogliere, all’interno di una non-relazione, forse anche di “non con-tatto”, provoca in loro sentimenti ambivalenti. “I figli non dovrebbero capitare. Se uno vuole sa come evitarlo…e comunque basta che non faccia sesso”. Una durezza che, non solo è rivolta verso le proprie

madri e padri biologici, ma che, in qualche modo ricade su se stessi, rendendo difficile accogliere una parte di sé. In questo movimento tra l’identificazione e la negazione, i ragazzi si confrontano arrivando a cogliere aspetti anche molto profondi. Che cosa significa essere stati fatti da genitori di cui non si conoscono i sentimenti: si amavano? Non si amavano?

provare a narrare storie, ma diviene un modo per avere meno paura di parti così lontane e nel contempo così vicine al loro sentire. Essi possono in questo modo permettersi di parlare di tematiche che, se negate, rischiano di essere in qualche modo agite nell’esperienza.

La sessualità, rimanda poi ai geni, alle forme dei loro corpi che nel con-tatto si confrontano. In effetti l’aspetto esteriore poco dice Genitori che divengono di come sono andate veratutto corpo e sensi, che è mente le cose, parla di sodifficile immaginare con miglianze possibili, di stopensieri e sentimenti. Ge- rie possibili ma non certe. nitori che non sono più solo madri, ma anche padri, Le domande sull’amore o coppie, maschio e femmi- sul perché sono nati non ha nessuna certezza. Anna. che i documenti dicono La possibilità di fantasti- troppo poco, allora l’unica care, una storia possibile fonte sono i loro sentimenè importante non solo per- ti, quelli che provano oggi. ché consente ai ragazzi di Il loro desiderio di trova-


re l’amore, e la fatica nel fare le scelte giuste. Amori grandi finiti, passioni vissute e poi esaurite. I loro stessi corpi, non solo come caratteristiche genetiche, ma come sensazioni divengono un modo per comprendere e costruire storie presenti e passate. Fondamentale, in questa fase, dare ai ragazzi la possibilità di pensare e avere uno spazio di confronto. Se, infatti, in adolescenza la ricerca del sé passa attraverso il corpo, il rischio è quello di rimanere sul piano delle sensazioni. Il ragazzo si guarda da fuori ed esiste nel sentire, nelle sensazioni che prova sulla superficie della pelle. Egli ha bisogno di mettere insieme il corpo e la mente, il genitore adottivo e quello biologico, un sé antico, presente e futuro. I genitori adottivi che non sono solo

mente, e quelli biologici che non sono solo corpo. Integrazione necessaria per ritrovare se stessi. Dunque la mamma e il papà adottivi possono divenire una coppia non solo genitoriale, ma anche “sessuale”, che fa l’amore. Coppie che si toccano, che hanno una loro intimità non necessariamente condivisa con i figli, ma presente e pensabile. Quell’intimità che consente di riconoscere una dimensione corporea nell’esperienza genitoriale adottiva, e a recuperare il con-tatto.

Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo, svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell’identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psicopedagogico. Svolge attualmente l’attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna. Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta. Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Insegna Pedagogia dell’Affido e dell’Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Parma.

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psicologia-pedagogia e adozione 12

di Monica Nobile pedagogista - counsellor

Il diritto di marinare la scuola

Non lo scrivo solo per polemica. I ragazzi hanno il diritto (forse anche il dovere) di marinare, almeno una volta nella vita, la scuola. Ed assumersene poi le conseguenze, esercitarsi in una firma falsa che quasi mai riesce bene, confessare l’accaduto ai genitori, vivere la paura di essere scoperti. Anche così si diventa grandi, misurandosi con la trasgressione, imparare che ad ogni azione corrisponde una reazione e una conseguenza, assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Dove voglio andare a parare? E’ sul registro elettronico che voglio riflettere. Mi confronto continuamente con genitori che consultano il registro dei propri figli quotidianamente, più volte al giorno. Lo trovo ossessivo ed anche oppressivo nei confronti dei ragazzi.

Lo trovo pericoloso, perché sembra che possa essere sostituito ad un sano colloquio, di persona, in carne ossa, magari con tensione, magari con difficoltà, ma pur sempre con umanità. Un sano colloquio con gli insegnanti ed un sano dialogo con i figli. Credo ancora, più che mai, che la corresponsabilità educativa sia l’unica possibile via per un efficace accompagnamento dei figli a scuola, una collaborazione tra scuola e famiglia che si impegnano genuinamente e con buona volontà per il raggiungimento di un obiettivo comune: la crescita dei ragazzi. Poter verificare on line ciò che accade a scuola è sicuramente una comodità, evita di prendersi ferie per star dietro ai colloqui con gli insegnanti, evita anche la fatica di trovare una mediazione e un accordo

tra parti non sempre semplice. Ma non può bastare. La scuola non è voti e note. Non è compiti per casa e verifiche. La scuola è una parte significativa dei nostri figli, occorre parlarne, con pazienza, valutarne le tante sfaccettature, il rapporto con i compagni, il benessere o malessere, i progressi, la paura, la timidezza, i sentimenti, le emozioni. Tutte cose non pubblicabili on line. Di scuola si parla in casa, è vero, a volte con tensione. Ma si cerca - credo che ogni famiglia faccia questo sforzo - di far crescere un rapporto, un patto di fiducia. Un genitore deve poter azzardare la fiducia verso il figlio. Il figlio deve sentirsene investito e deve provare tutte le emozioni del caso, tradendola. Il registro elettronico deresponsabilizza i ragazzi,


sanno che i genitori sanno, saranno puniti se i genitori scoprono qualcosa che non va, ma eviteranno la fatica di tornare a casa e confessare il brutto voto o la nota. Credo che questo rappresenti la mancata occasione di aprire un dialogo, credo che sia un rischio che il ragazzo lasci che il genitore scopra da solo ciò che c’è da scoprire. Genitori e figli devono fare lo sforzo di fidarsi gli uni degli altri, di crescere insieme in quel rapporto di crescente fiducia che accompagna verso la vita adulta. Adoro le tecnologie, trovo che la rete sia una risorsa fantastica. Credo che la possibilità di eseguire molte operazioni on line ci semplifichi la vita e non ho alcuna intenzione di lasciarmi andare a demonizzazioni. Ma ricordo come ieri la mia prima “manca” da scuola, la paura, l’ebrezza da trasgressione, la complicità con i compagni. La ricordo

come un passaggio verso la mia vita adulta. L’aver avuto la vita in mano, decidendo io, senza il consenso dei miei genitori, senza contrattazione. La ricordo come una mia decisione. Come ricordo di essere stata scoperta e punita: tre giorni senza poter uscire al pomeriggio. Ricordo di non essermi affatto pentita, mi ha dato soddisfazione trasgredire e forse quella soddisfazione mi è bastata e non ho avuto bisogno di compierne altre, magari più gravi. Perché un adolescente deve trasgredire, lo deve fare perché è il suo modo di distanziarsi dai genitori, sperimentandosi e così crescendo. Se viene tallonato, il rischio e che la posta si alzi, che comunque ricerchi il modo e lo spazio d fare qualcosa fuori dal controllo di quei due individui che in quella sua fase della vita rappresentano spesso degli antagonisti. Invito tutti ad usare il re-

gistro elettronico con parsimonia, fate sapere ai figli che lo guarderete non più di una volta al mese chiedendo che siano loro ad informarvi su come va. Continuate a chiedere ai vostri figli (di solito si fa a tavola) come è andata a scuola e sopportate i loro sbuffi (di solito rispondono come al solito). Sono sicura che sia comunque utile. Andate a parlare regolarmente con gli insegnanti, anche con quelli antipatici, il dialogo non deve interrompersi, perché è punto fondamentale di un percorso, squisitamente umano, fatto di dubbi, sforzi, conquiste, qualche volta fatto anche di piacevoli sorprese. Sono certa che la conquista delle Linee Guida del MIUR sul diritto allo studio degli alunni adottati sia passata attraverso un minuzioso, faticoso, ricco dialogo, di persona, non solo per mail.

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giorno dopo giorno 14

di Francesca Sivo mamma adottiva

Un bambino che arriva è una famiglia che nasce

Fresca di questi giorni è la notizia che la Lombardia, regione ricca e all’avanguardia anche per l’erogazione dei servizi finanziari, ha stabilito di non concedere il bonus bebè ai figli adottivi appena arrivati a casa, poiché l’assegno – ha chiarito il Governatore – «è una misura per la natalità, non a sostegno della famiglia: viene dato al bambino che nasce, non al bambino che viene adottato». Parole che fanno male – anche a chi come me ha da tempo concluso la procedura di adozione (in un’altra regione per giunta) – a sostegno di un provvedimento iniquo e discriminatorio, che ha immediatamente spinto le Associazioni Familiari adottive e affidatarie del Coordinamento CARE a lanciare una petizione sulla piattaforma change.org, raggiungendo in un baleno l’obiettivo delle 1500

adesioni. Io ho firmato. E adesso voglio spiegare meglio perché, in particolare a chi poco o nulla sa dell’universo adottivo. Mio marito ed io non abbiamo avuto, purtroppo, la possibilità di guardare attraverso un monitor ad alta tecnologia il corpo dei nostri bambini formarsi e crescere cellula dopo cellula, mese dopo mese. Le due foto che ci mostrò la referente russa al momento dell’abbinamento (avvenuto dopo giorni di grande dolore), però, sono state per noi una prima, vera ecografia: la prova reale e tangibile che due cuori battevano in una cittadina russa ai confini con l’Estonia e che la nostra ‘gravidanza a due’ era davvero iniziata. Parlo di ‘gravidanza a due’ perché – cosa incredibile a dirsi! – le mamme e i papà adottivi concepiscono, portano

avanti la gestazione e partoriscono insieme, alla fine di un iter annoso e travagliato. Non è facile da immaginare, mi rendo conto, eppure è così. Non ci sono di mezzo pance che lievitano, ma una comunione di intenti, motivazioni forti e infinite prove da superare; innumerevoli e approfonditi esami clinici e reiterati e sfibranti colloqui con sconosciuti a cui dover svelare la propria intimità, di singolo e di coppia; pile di documenti e ore ed ore di attesa, visite domiciliari e spese ingenti, lunghi viaggi ed interminabili udienze. Tutti test difficili da sopportare e superare, che il più delle volte rafforzano l’unione delle coppie, ma talora rischiano di dividerle, perché ne saggiano la solidità e la forza in modo pressante e indefesso, e non per nove mesi, ma per molti anni. Tutti


test che tuttavia, a differenza di una gravidanza biologica, hanno un merito indiscusso, ma poco noto ai più: pongono l’uomo e la donna sullo stesso piano, coinvolgendoli entrambi allo stesso modo in ogni singola tappa del percorso e rendendo indispensabili il contributo, la costanza e l’impegno dell’uno e dell’altra, per giungere alla meta. Ne fanno, insomma, i co-protagonisti di uno dei più sensazionali miracoli della vita: la creazione di una nuova famiglia. Anzi, ad onor del vero, debbo dire che nel nostro caso il ‘parto’ è avvenuto grazie ad una prodigiosa quanto inaspettata inversione di ruoli: è stato proprio mio marito, infatti, ad affrontare, sicuro spavaldo perfino ironico (e in piedi per oltre due ore e mezza su quattro), il travaglio dell’udienza in un tribunale straniero, a rispondere alle incalzanti domande della giudice russa, lasciando a me (che per un attimo ho pure vacillato) la parte più semplice dell’interrogatorio. Ma non è solo questo a dimostrare che ogni adozione è una nascita. E non soltanto la nascita di una famiglia, ma anche la nascita di una mamma e di un papà e soprattutto la nascita (o meglio: la ri-nascita) di un

bambino. Molti non sanno, ad esempio, che i neo-genitori adottivi non si limitano a preparare la cameretta e ad acquistare tutto il necessario (quindi spesso anche pannolini e passeggini) per accogliere il loro bambino come qualsiasi genitore naturalmente fa, ma quando si recano in istituto a prendere i propri figli per portarli a casa per sempre, recano con sé una borsa piena di vestiti nuovi (dalla biancheria intima alle scarpe, dal giubbotto ai guanti) che altro non è che l’equivalente della borsa che le partorienti portano con sé in ospedale al momento del ricovero. I bambini adottivi, infatti, vengono affidati ai loro genitori nudi, come la madre biologica li ha donati al mondo. Una seconda nascita in piena regola, dunque. Oltre che un momento molto intenso e commovente: il primo incontro intimo tra padri, madri e figli. Il momento in cui anche i genitori adottivi possono provare finalmente l’emozione più forte che ogni madre biologica generalmente (e fortunatamente) prova: quella di stringere per la prima volta tra le braccia, nudo e indifeso, il proprio bambino, come fosse appena venuto fuori dal proprio grembo.

E anche in questo caso, posso dirlo, mio marito ed io siamo stati fortunati, poiché abbiamo potuto vivere entrambi, nello stesso istante, questa grande emozione, ‘distribuendola’ equamente tra noi: mentre io mi occupavo della femminuccia, a lui è toccato vestire il maschietto. Ma non basta. Il giorno in cui siamo atterrati tutti e quattro all’aeroporto, ad aspettarci trepidanti ed euforici, dietro la porta a vetri, c’erano i nonni, gli zii e molti nostri amici, che non vedevano l’ora di abbracciarci e festeggiarci come nuova famiglia. Per questo motivo, quando abbiamo attraversato quella porta, per loro è stato come assistere ad una nuova nascita, proprio come se quella porta a vetri fosse la stessa di una sala parto. E tutti hanno pianto di gioia. Arrivati a casa, sulla porta abbiamo trovato due bei fiocchi, uno rosa ed uno azzurro, che i nonni avevano appeso per noi il giorno prima, come vuole la tradizione quando nasce un bambino. Due fiocchi che conservo ancora gelosamente, che annunciavano al mondo che finalmente due nuove creature erano giunte ad abitare e ad arricchire la nostra casa e che, insieme ai palloncini e

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La cura tenace di Francesca Quatraro, selezionata per la mostra Woman Innovation

ai festoni di benvenuto con cui la zia aveva decorato la cameretta, si facevano latori di un grande messaggio di gioia per il presente e di speranza per il futuro. Un futuro che sarebbe stato negato, se la nostra strada non avesse incrociato la loro. Un futuro che rappresenta un investimento e al contempo un guadagno non solo per noi come nucleo familiare, ma anche per la società. Per chi poi veniva a tro-

varci per conoscere i bambini e dare loro un regalino (come si usa fare anche con i neonati) avevamo preparato un ricordino: dei confetti multicolori a forma di farfalla, simbolo (e auspicio) di cambiamento e libertà. Nei primi mesi della nuova vita a quattro inoltre, anche noi abbiamo fatto fatica a comunicare con i nostri figli: conoscevamo poche parole di russo, abbiamo dovuto arrangiar-

ci con tutti i mezzi che avevamo a disposizione per capirli e farci capire. Ma soprattutto anche noi, come i nostri amici che sono genitori biologici e all’inizio si sono trovati alle prese con i pianti talvolta incomprensibili e inconsolabili dei loro bambini appena nati, abbiamo fatto ricorso (da allora in poi) all’uso dell’unica lingua universalmente nota: quella dell’amore.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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giorno dopo giorno

di Giulia Patanè mamma adottiva

Faz eu dormir! (Fammi addormentare) 18

“Ecco, signora, ne abbiamo due. Uno è bello bello, di cinque cellule, l’altro è un po’ più bruttino, di tre. Glieli impiantiamo entrambi. Respiri… tranquilla… ecco fatto”. Chiudo le gambe, assieme agli occhi. La voce del camice bianco si allontana un po’, supera una tenda al mio fianco e, da dietro, ricomincia: “Ecco, signora, sono tre, bellissimi...”. Parla con un’altra con le gambe aperte. Dev’essere quella ragazza pallida che ho visto arrivare con una piccola valigia. Aveva l’aria persa, come la mia. I suoi embrioni però sono bellissimi, e oltretutto il medico con lei è gentile mentre con me è stato freddino, chissà perché. Scaccio il pensiero competitivo, a che serve? Allora faccio l’unica cosa che mi viene in mente: parlo con il mio piccolo embrio-

ne di cinque cellule, gli dico che è tutto ok, perché lui è bello bello e il mio amore per lui intimamente profondo. Cerco di stare immobile, ho il terrore di non essere abbastanza mamma da trattenerlo. Mi portano via, poi mi ritrovo in macchina con Paolo, poi a casa, sempre stesa. Leggo accuratamente i bugiardini delle medicine che mi hanno dato, non posso sbagliare ad assumerle, rischio di abortire, ma il panico mi impedisce di memorizzare dosi e orari. Più leggo le istruzioni più non capisco niente per il terrore paralizzante di perdere il figlio, mentre, come dissociata, un’altra me stessa annota tutto e mette le sveglie. La parte di me che vuole preoccuparsi solo di accogliere l’embrione può finalmente rilassarsi. Respiro lentamente e parlo piano, quasi sussurro per

un numero indefinito di giorni… e poi fu sera e poi mattina, come nella Bibbia. Ma all’amore, nei giorni successivi si unisce anche la sofferenza, e il percorso duro cui mi sono sottoposta mi segna e mi stravolge, mi esalta e mi affonda, mi abbraccia e mi molla. Sono diventata grassissima, la pancia gonfia mi duole, le ovaie scoppiano. Dopo il prelievo, gli ovociti sono stati fecondati in vitro, ora sono nel mio utero e devo aspettare. Sono snervata e preoccupata, il tempo sembra non passare mai. Non ho mai provato un dolore e una solitudine del genere, e nel mio profondo sento che forse non è questa la strada per diventare madre, che tutto questo desiderio di vita è per me assurdo, che mio figlio o i miei figli forse esistono già e anche loro soffrono come


e più di me. Eccomi quindi all’ospedale, ancora; mi fanno il prelievo e... nulla. Non ricordo come me l’abbiano comunicato, gesti, parole, sguardi. Come polli in batteria, una entrava, una usciva; una piangeva per la vita e l’altra... sono io. Quando arriva il sangue piango davanti alle mutande rosse e penso che le cinque cellule morte del mio bimbo forse sono lì. Tre anni dopo sto partendo per il Brasile. Paolo e io, mai più soli, ma non ce ne rendiamo conto, abbiamo paura. In mano due foto, i bambini sono grandi, lei 9 e lui 8, fratelli. La signora dell’associazione ha detto che ci hanno scelto da una foto. Scopriremo dopo molto tempo che sono già stati adottati e riportati in istituto più volte. Siamo la loro ultima spiaggia prima della strada, anche se a modo loro di strada, sconnessa e accidentata, ne hanno già percorsa troppa. Quando li incontriamo non riusciamo quasi a parlare, lei ha un vestitino delizioso, una treccia nera che la rende ancora più dolce. Qualcuno l’ha vestita e pettinata preparandola al nostro incontro. Mi prende la mano e mi accompagna in bagno. Ha capito che mi scappa la pipì e che ho più

paura di lei. Lui non ci degna troppo. Ha lo sguardo da bulletto e occhi solo per la macchinina elettrica che gli abbiamo regalato. E’ più difficile interpretare i suoi sentimenti. Sembra nascondere l’emozione chiudendosi nel gioco assieme ai fratelli più piccoli, anche loro qui con noi e con i loro futuri genitori. Entriamo nella saletta che il tribunale ci ha messo a disposizione, firmiamo i documenti di affido temporaneo. Ora è questione di tempo, due mesi durante i quali gli assistenti sociali potranno arrivare anche a sorpresa per osservare, porre domande, stilare relazioni. Tutto come da copione, ma adesso siamo soli. Saliamo in auto, si addormentano per la tensione. So che li amo, ma non so chi sono. So che non ci lasceremo mai più, so che si fidano, ma non ho idea del perché. Non sono i miei figli, eppure lo sono. Siamo frastornati. A casa, in Brasile, impazziscono, il posto è stupendo. Dicono di averci dato una villa con piscina per metterci a nostro agio, ma noi sappiamo che ci stanno derubando in modo legale. Dobbiamo fingere, abbiamo paura che qualcosa non vada. Scelgono quale came-

ra sarà la loro, poi mangiamo qualcosa tentando di conversare, ma fatichiamo a capirci. Sono sovraeccitati e per lo più urlano termini incomprensibili. Prima di andare a dormire tentiamo una partita a “Uno”. Vogliono spiegarci tutto e fingiamo di non aver mai giocato. Le loro regole sono “un tantino” aggiustate e variano di mano in mano. Sono due furbi e sarà dura. Infatti perdiamo. Arriva l’ora di andare a letto, e ci chiamano. “Tia, faz eu dormir!” (tia vuol dire zia. Ce ne vorrà prima che capiscano). Non comprendo la richiesta, chiedo a lui: “come si fa?” Mi guarda silenzioso, un po’ interdetto, quasi volesse farmi un rimprovero sottintendendo “ma non sei tu la mamma?” Avverto la mia inadeguatezza, dovrò imparare da loro, e mi sembra di non aver nulla da dare. Ho paura di questo piccoletto marroncino che sbatte le gambe sul letto e non riesce a fermarle. Gliele blocco, gli faccio una carezza e inizio a cantare: “Quando è l’ora di fare la nanna, sai cosa fanno i bravi bambini?” Lei è a fianco a lui, le prendo la mano. Ecco fatto... la musica, ho trovato una chiave per il loro cuore.

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leggendo di Fabio Selini

Io non so ballare il samba

Pubblicato l’ultimo libro della collana “Genitori si diventa” 20

PREFAZIONE La storia di un incontro è sempre una storia fatta di misteri e di scoperte. All’inizio non ci si conosce, ci si vede una prima volta e poi una seconda, poi la terza, magari, si sente che sì, ci si vuole conoscere di più. Oppure a volte ci si guarda e si resta incatenati all’improvviso e senza misericordia. Quando si tratta del primo incontro con tuo figlio, con chi entrerà nella tua vita per sempre, così in un attimo, come per incanto bizzarro, allora tutto è ancora più complesso e incredibile. Vedere gli occhi di tuo figlio per la prima volta adottando, significa incontrare una persona che non conosci affatto e sapere che quella piccola persona sconosciuta deve entrare a far parte di te, di tutta la tua vita presente e futura, del tuo corpo, della tua mente,

della tua storia. Il mistero che provi, l’emozione, diventa intrisa di responsabilità, di ansia ed anche, a volte, di paura. Nelle storie di chi adotta c’è chi racconta di sentimenti istantanei, di colpi di fulmine. Spesso però emerge (anche nelle situazioni più istintive ed immediate) che c’è quell’attimo complesso e difficile da raccontare in cui si incontra un figlio (piccolissimo, più grande, bellissimo, diversissimo da come si aspettava …) e si sente che “è così diverso da me”. Ed è così diverso, per forza. Non è un figlio concepito, non è un figlio tenuto dentro per nove mesi, non è partorito, non assomiglia né alla zia né al nonno (neanche per finta), non è semplicemente figlio tuo, ancora. Quando ci si incontra per adozione, è solo un inizio. Anzi è solo l’inizio di un

inizio. E’ il primo sguardo, è il primo sfiorarsi, è il primo fiume di emozioni. E sono emozioni calde e fredde, sono forti, potenti, urgenti, improvvise. Alcune piacciono, altre fanno paura. E’ l’inizio di una famiglia, di una nuova vita, di una nuova storia, fatta intrecciando storie altre, ricordi altri, sapori altri. Fabio, in questo libro ci dona una parte di sé, una parte intima di se stesso che sta diventando padre per la seconda volta in Brasile, padre di un figlio maschio, un figlio con cui “fare” delle cose da maschi, un figlio che gli insegnerà tante cose (forse non a ballare il samba). Questo libro è dedicato a lui, a questo figlio nuovo, alla sua bellezza, alla sua ostinazione, alla caparbia urgenza con cui sa buttarsi tra le braccia di questi sconosciutissimi nuovi ge-


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nitori, alla gioia ed immediatezza con cui entra nella vita della sua nuovissima (e studiosissima) sorella. Lui danza, lui corre, lui piange, lui si oppone, lui abbraccia, lui dorme. Questo libro è tutto suo, dei suoi riccioli, dei suoi occhi, delle sue mani e delle sue gambe in movimento. Leggendo, la sensazione forte che ho ricevuto è stata quella della sincerità. Fabio ci dice cosa prova immergendosi nel paese del suo bambino, non ci nasconde le difficoltà anche semplicemente logistiche di ambientamento in questo contesto estraneo. Ci parla del suo nuovo bimbo, di come sia un primo incontro non facile, di come sia difficile abbandonarsi reciprocamente nell’amore. I primi momenti sanno di forzatura: ad un bambino viene “imposta” una nuova famiglia, ma lui, il bambino, ha forse potuto mai decidere qualcosa? La generosità di chi si racconta con schiettezza

è qualcosa a cui rendere tributo, perché è attraverso racconti delicati come questo, intrisi di pioggia e sole, di fatica e sorriso, di momenti passati a bagnarsi con la pompa dell’acqua e a non capirsi, che ci si riesce ad avvicinare, con rispetto, alla tenerezza dell’adozione. L’adozione dona ai bambini una famiglia in carne ed ossa, non perfetta, non meravigliosa, con tanti limiti e fragilità ma una famiglia, dove si può trovare un posto nella vita e dove si può crescere, “una dimora, una speranza, un nido per non smarrirmi” come direbbe Pessoa. Noi adulti siamo fragili come i figli che accogliamo (a volte di più). Ci rendiamo disponibili, attraversiamo percorsi a volte lunghi e intricati (a volte troppo, a volte dolorosi), leggiamo libri, ascoltiamo psicologi e assistenti sociali, entriamo in Tribunali, ma nulla, nulla può prepararci per davvero alla realtà, a quando una porta si

apre e, sulla soglia, appaiono tuo figlio o tua figlia. Nulla che si studi su un libro ti prepara mai alla vita. In questo libro ci sono altri protagonisti che desidero salutare: la moglie di Fabio e la sua prima figlia. Con grazia appaiono sulle pagine questa mamma e questa sorellona maggiore e a loro mando un grande abbraccio. Alla fine di questa Introduzione, sento il forte dovere di ricordare che Fabio di adozioni ne ha affrontate tre: una per la prima figlia, una per il secondo figlio ed una per un figlio “mai avuto” per davvero, in Kirghizistan. Mentre i pappagallini verdi riempivano di canto gli alberi in Brasile, nelle prime ore del mattino delle sue notti un po’ brevi, sono certa che il suo pensiero di padre fosse anche per il suo altro bambino, quello incontrato per due settimane e amato per sempre.


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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Parole fuori

Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi Barchetta Blu di Venezia 24

9. Questo mese: Fili Dappertutto ci sono fili. I fili sono diversi, come sono diverse le persone. Possono essere sottili e forti, leggeri e robusti. Certi fili si chiamano legami. Sono invisibili ma molto tenaci. Le strade sono fili che uniscono le persone. Ci sono fili che è bello seguire per scoprire che cosa c’è in fondo …

Questo brano è tratto dall’albo illustrato Fili di Beatrice Masini. Questa autrice pluripremiata è ormai una garanzia: i suoi libri per bambini o per ragazzi prestano sempre una particolare attenzione ai sentimenti, alle paure, alle emozioni e ai desideri. L’autrice riesce con dolcezza e a volte con forza a raccontare scorci di vita quotidiana in modo leggero ma allo stesso tempo profondo. C’era un aquilone che volava leggero sopra il parco. Il bambino lo teneva stretto e lo faceva salire, ma il vento soffiò forte; l’aquilone volò alto nel cielo e il bambino rimase deluso. Nel prato una bambina tirava con un filo il suo trenino di legno e quando vide l’uomo dei palloncini lasciò la mano con cui trascinava il suo gioco e chiese invano alla mamma di comprargli un palloncino.

L’uomo dei palloncini però era un po’ triste perché nessuno glieli comprava. Così l’uomo stacco i fili ad uno ad uno e lasciò andare i diciannove palloncini che diventarono piccoli puntini nel cielo. Anche la nonna che, seduta sulla panchina, lavorava a maglia, fece cadere un gomitolo che rotolò fino allo stagno. Vide passare i palloncini e pensò che il suo cuore era leggero come loro e lei era felice per l’arrivo di una nuova nipotina. Altri personaggi come l’uomo che faceva braccialetti con le perline, le marionette pronte per lo spettacolo, il giostraio con la coda della marmotta appesa con un filo alla giostra e il bambino con il suo yo-yo erano connessi con fili. Erano attraversati da strane emozioni: qualcuno se ne voleva andare via, qualcun’altro sospirava,


chi era nervoso e chi senza pazienza. Però il bambino senza pazienza inciampò in un trenino di legno e andò felice verso casa. L’uomo dei braccialetti vide sul vialetto uno yoyo; dopo aver sbrogliato il filo con pazienza lo fece riandare su e giù e ritrovò il buon umore. Il venditore di palloncini rifece volare l’aquilone che aveva trovato in mezzo ad un cespuglio e si sentì di nuovo importante. I fili sono davvero dappertutto; sono legami invisibili tra persone che si vogliono bene e persone che nemmeno si conoscono. I fili invisibili ci accompagnano nella vita di tutti i giorni. Alcuni li perdiamo ma altri ne troviamo Poetico e struggente, questo libro ha come protagonisti i legami, a volte se-

greti, delle vite delle persone. I legami sono appunto come fili nascosti che alla fine sanno dare gioia e speranza. La cosa più difficile per bambini e adulti è proprio la capacità di percepire questi legami. Questa capacità può essere chiamata empatia. In psicologia l’empatia è la capacità di mettersi in un contatto immediato con lo stato d’animo di un’altra persona, sia che si tratti di gioia che di dolore. Comprendere immediatamente quanto sta provando l’altro significa porsi al suo fianco e sentire ciò che sta vibrando dentro. Spesso questa capacità viene confusa con la compassione, ma invece ne è molto differente. Infatti l’empatia fa percepire i legami fra le persone mentre la compassione

rompe i legami e porta alla disconnessione. Per riuscire ad entrare veramente in empatia con l’altro ci si deve allenare a mettersi nei panni dell’altro e a riconoscere che quel punto di vista che esprime è la sua incontrovertibile verità. Nel connettersi con i sentimenti dell’altro, bambino o adulto che sia, è importante riuscire a riconoscere le emozioni; inoltre è fondamentale comunicarglielo, facendogli capire che, cosa davvero molto difficile, non c’è un giudizio. Connettersi con le altre persone che sono in difficoltà è come entrare in una sorta di buco nero dal quale loro chiedono soccorso; a volte riescono a urlarci la loro richiesta di aiuto, ma a volte lo fanno in silenzio ed è quindi davvero molto difficile capire quando e come intervenire.

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Chi è in grande difficoltà è come se fosse bloccato, in uno spazio buio dove si sente sopraffatto. Spesso chi gli sta vicino, non avendo la bacchetta magica, non ha una soluzione pronta o una ricetta preconfezionata che riesca a risolvere la situazione e riportare la luce. Come prima cosa però, chi vuole dare sostegno, può mettersi al suo fianco, fargli capire che è con lui. Può ad esempio dire: Capisco cosa stai provando. So cosa succede nel buco. Non sei solo, io sono qui con te! Non dobbiamo farci guidare da quella cosa che abbiamo chiamato compassione, con la quale è come se si cercasse di abbellire la situazione. Provando a sostituire e cancellare i pensieri negativi non aiu-

tiamo al superamento del problema. Negli approcci compassionevoli si tende a dire qualcosa di altro rispetto alla criticità; qualcosa che riteniamo positivo, ma che in realtà è fuori luogo. Se qualcuno condivide con noi qualcosa di estremamente doloroso, noi dobbiamo prima di tutto accettare che sia veramente così; non dobbiamo cercare di trasformarlo in qualcosa di diverso, magari meno penoso o di metterlo sotto un’altra luce. Ad esempio se un bambino ci confida: Odio andare a scuola! non possiamo rispondere: Non ti preoccupare, la giornata è fatta di ventiquattro ore e poi nel pomeriggio potrai andare in palestra! Se un genitore ci dice: Mio figlio Carlo rischia di essere bocciato a scuola

non dobbiamo ribattere: Beh … almeno l’altra tua figlia è una studentessa modello! A volte quando ci troviamo di fronte qualcuno che ci pone delle questioni a cui non sappiamo rispondere o ci racconta situazioni molto difficili, abbiamo la tendenza a cercare, con le nostre parole, di migliorare la prospettiva. Ma e vogliamo invece condividere veramente qualcosa con l’altro, anche qualcosa di molto duro, dobbiamo prima di tutto stargli vicino e dire ad esempio: Non so bene cosa dire in questo momento, ma sono felice che tu me ne abbia parlato. Non sempre riesco a trovare le parole giuste. Ma insieme possiamo provare a capire cosa sta succedendo. L’empatia è una scelta vul-


nerabile, imprecisa, a volte dolorosa. Perché per entrare in contatto con l’altro e con la sua difficoltà, è indispensabile essere in contatto con qualcosa dentro noi stessi, quel qualcosa che ha conosciuto bene quei sentimenti e quelle emozioni dolorose. Dobbiamo essere consapevoli che raramente una affermazione può migliorare immediatamente le cose. Però è indubbio che quello che migliora le cose è una connessione, un legame, un filo di collegamento che con le nostre parole, e magari con un abbraccio, riusciamo a creare con il nostro interlocutore. (https://m.facebook.com/story.php?story_fb id=786015428104078& id=160791677293126)

portano a incontri e gioie, sogni e delusioni. Anche questo libro ci racconta di come tutti noi siamo legati da fili meravigliosi che non ci tolgono la libertà e non ci impediscono i movimenti, ma, al contrario, ci arricchiscono e ci completano. Bibliografia Fili. B. Masini, M. Cerri, Edizioni Arka, 2004 Il filo, F. De Poli, A. Rauch La

Il filo è un altro bel libro Biblioteca junior, 2008 illustrato che ha come protagonista un filo che, quasi come un bambino, pensa, si muove, agisce creando legami e connessioni. Il filo trattiene un aquilone, si attorciglia con altri pezzi di filo, vola via portato dal vento. Attraverso immagini create con la tecnica del collage, viene raccontata la storia di un pezzettino di filo e delle sue peripezie, che

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sociale e legale

di Avv. Francesco Rella

Fondo Adozioni 28

Per meglio comprendere la situazione attinente ai rimborsi per le adozioni è necessaria una breve premessa di carattere normativo: Con Decreto della Presidenza del Consiglio del 4/8/2011, registrato dalla Corte dei Conti il successivo 5/1/2012, veniva prevista la possibilità di ottenere il rimborso del 50% delle spese sostenute per l’adozione per tutte le famiglie per le quali era stato autorizzato l’ingresso e la residenza permanente in Italia del o dei minori nei periodi compresi tra il 1° gennaio ed il 31 dicembre 2010 e tra il 1° gennaio ed il 31 dicembre 2011. La possibilità di accedere a tali rimborsi era preclusa solo alle famiglie con un reddito annuo complessivo superiore ai settantamila euro. La richiesta

risultano evase esaustivamente solo le domande avanzate dalle famiglie che avevano concluso l’adozione nel 2010. Difatti, pur non essendoci stata da parte della Commissione Adozioni Internazionali (CAI) una diffusione ufficiale dei dati attinenti ai rimborsi per le adozioni, si può affermare con certezza che alla stragrande maggioranza delle famiglie che avevano adottato nel 2011 non è stato erogato alcun rimborso. Nel corso del 2014, a seguito di un’incisiva attività di pressione portata avanti da alcune famiglie adottive (anche con petizioni che avevano ottenuto una larga adesione e finanche la presentazione da parte di Nonostante che l’esistenza alcuni parlamentari di una della copertura finanziaria mozione con cui si richieper procedere ai rimborsi deva di procedere ai rimfosse stata certificata dal- borsi anche per le famiglie la Corte dei Conti, ad oggi che avevano adottato negli di rimborso (correlata da una dettagliata serie di documenti indicata nella apposita modulistica presente anche sul sito della CAI) per coloro che avevano concluso l’adozione nel corso del 2011 doveva essere inviata alla Commissione entro il successivo 31/12/12. Per inciso tale decreto faceva seguito ad altri che erano stati emanati negli anni precedenti in favore delle coppie che avevano concluso l’adozione tra il 2004 ed il 2009. Al decreto del 4/8/11 non ha fatto seguito alcun altro provvedimento in favore delle famiglie che hanno concluso l’adozione negli anni successivi.


anni successivi al 2011) il Governo sbloccava una parte dei rimborsi. Tuttavia, nonostante l’impegno verbalmente assunto dalla amministrazione, dopo pochi mesi i rimborsi si bloccavano nuovamente ed a tutt’oggi la maggioranza delle famiglie che hanno adottato nel 2011 sono ancora in attesa di ricevere il concreto riconoscimento del loro diritto. Per di più la CAI non fornisce alcuna informazione effettiva in merito allo stato delle varie domande presentate. Nel giugno del 2015 il sottoscritto, raccogliendo un appello lanciato sui social da alcuni genitori adottivi, si rendeva disponibile a fornire assistenza legale alle famiglie ancora in attesa dei rimborsi. Tra il giugno ed il settembre del 2015 sono state inviate alla Presidenza del Consiglio ed alla CAI diverse diffide stragiudiziali (per conto, complessivamente, di una quarantina di famiglie) con le quali il sottoscritto ha richiesto: 1. Di rendere nota la posizione e lo stato delle specifiche pratiche di rimborso; 2. Di liquidare gli importi dovuti come

disposto dal D.P.C.M. del 4.8.2011. Nonostante la ricezione di tali diffide (peraltro tutte preavvisate via Pec) non vi è stato il benché minimo riscontro né da parte della P.C.M. né, tantomeno, da parte della CAI. Verosimile ritenere che l’atteggiamento di totale “mutismo” della Pubblica Amministrazione sia dovuto alla mancanza (almeno per ora) di fondi da destinare al rimborso delle numerose domande ancora inevase. Allo stato attuale, di conseguenza, l’unica strada percorribile è quella di un’azione giudiziaria finalizzata a richiedere al Tribunale Civile: a) di accertare il diritto dei richiedenti ad accedere ai rimborsi previsti dal decreto ministeriale del 2011; b) di condannare la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero delle Finanze alla loro erogazione. Una volta ottenuta una statuizione giudiziale favorevole, qualora la PA persistesse nella sua inadempienza, sarebbe possibile avviare nei suoi confronti anche delle azioni esecutive che consentirebbero l’effettivo recupero

dei rimborsi spettanti. La situazione per chi ha concluso l’adozione negli anni successi al 2011, invece, si presenta assai più problematica anche da un punto di vista giuridico in quanto, non essendo stati emanati specifici decreti ministeriali, non è sorto un diritto tutelabile. Sicuramente in tal modo si è venuta a creare una situazione di ingiustificata disparità rispetto alle famiglie che hanno concluso l’adozione negli anni 2004/2011, tuttavia, in forza del principio normativa della “discrezionalità” della Pubblica Amministrazione, risulterebbe assai difficile ottenere un riconoscimento in sede giudiziaria analogo a quello a cui possono aspirare le coppie che hanno richiesto i rimborsi per il 2011. L’unica soluzione per le famiglie che hanno concluso l’adozione dal 2012 in poi, dunque, sarebbe quella di riprendere le recenti azioni di pressione, proponendo, nel contempo, soluzioni che non prevedano esborsi economici direttamente a carico della Pubblica amministrazione.

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trentagiorni

LA LOMBARDIA NEGA IL BONUS AGLI ADOTTATI. La Lombardia esclude le famiglie con figli adottati dal bonus bebè. L’assegno, introdotto lo scorso autunno dal governatore leghista Roberto Maroni, prevede per le famiglie lombarde con un Isee sotto i 30mila giuro l’erogazione di 800 euro se hanno avuto, entro il 31 dicembre, il secondo figlio. E di mille euro per il terzo. Al Pirellone sono arrivate circa 2mila domande, di cui la metà già approvata: tra queste, però, nessuna è a favore di genitori adottivi. A denunciare il caso è uno dei partiti della stessa maggioranza di Maroni, il Nuovo centrodestra: «È un errore da correggere - dice il capogruppo lombardo di Ncd, Angelo Capelli -. Le famiglie che adottano si fanno carico di un percorso talvolta insormontabile, con costi che per i soli adempimenti in Italia si attestano, secondo una

ricerca della Bocconi, in oltre 4mila euro. Per tutto l’iter, la cifra arriva a 20mila: vanno sostenute». I primi a scoprire la beffa sono stati Susanna e Maurizio Larghi, una coppia di quarantenni della provincia di Bergamo. Genitori di tre bimbi, tutti adottati: la sentenza che ha permesso alla famiglia di accogliere il loro terzo bimbo è dello scorso dicembre. Entro i termini, quindi, previsti dal bando della Regione per il bonus bebè. La coppia, però, è stata esclusa: dopo avere inviato al Pirellone una richiesta sui moduli da compilare, gli uffici regionali hanno inviato una mail alla famiglia, spiegando che «l’adozione non è prevista nei criteri della delibera». E che quindi per loro «non è possibile accedere al contributo». Una risposta che ha fatto ribellare la coppia: «Non siamo genitori di serie B, ma una famiglia come tutte le altre. Accediamo già ad altri contributi, come l’assegno di natalità dell’Inps: solo la

Regione ci esclude, anche se abbiamo gli stessi doveri e diritti di qualsiasi altro genitore». Fonte: repubblica.it ISTAT: IN 2015 NASCITE A MINIMO STORICO DA UNITÀ ITALIA Nell’anno 488 mila, otto ogni mille residenti Nel 2015 le nascite sono state 488 mila (8 per mille residenti), quindicimila in meno rispetto al 2014. Si tocca così un nuovo record di minimo storico dall’Unità d’Italia, dopo quello del 2014 (503 mila). Lo rileva l’Istat nel Report sugli Indicatori demografici, diffuso oggi. Sempre nello scorso anno i morti sono stati 653 mila, 54 mila in più dell’anno precedente (+9,1%). Il tasso di mortalità, pari al 10,7 per mille, è il più alto tra quelli misurati dal secondo dopoguerra in poi. L’aumento di mortalità risulta concentrato nelle classi di età molto anziane (75-95 anni). Dal punto di vista demografico, il picco di


31 mortalità del 2015 è in parte dovuto a effetti strutturali connessi all’invecchiamento e in parte al posticipo delle morti non avvenute nel biennio 2013-2014, più favorevole per la sopravvivenza. Nel 2015 la popolazione residente in Italia si riduce di 139 mila unità (-2,3 per mille). Al primo gennaio 2016, la popolazione totale è di 60 milioni 656 mila residenti. Alla stessa data gli stranieri residenti sono 5 milioni 54 mila (8,3% della popolazione totale), rispetto a un anno prima si riscontra un incremento di 39 mila unità. La popolazione di cittadinanza italiana scende a 55,6 milioni, conseguendo una perdita di 179 mila residenti. Nel 2015 centomila cittadini italiani si sono cancellati dall’anagrafe per trasferirsi all’estero. Un dato in aumento (+12,4%) rispetto al 2014. E’ la stima che fa l’Istat nel Report sugli indicatori demografici. L’anno scorso, le iscrizioni

anagrafiche dall’estero di stranieri sono state 245 mila; 28 mila, invece, i rientri in patria degli italiani. Le cancellazioni per l’estero hanno riguardato 45 mila stranieri (-4,8% sul 2014) e centomila italiani. Fonte: ansa.it PICCOLI GENI, OVVERO PLUSDOTATI: NELLE SCUOLE SONO BAMBINI INVISIBILI Un bimbo con un quoziente d’intelligenza molto al di sopra della media, con una velocità di apprendimento che non gli consente di accettare le regole, la ripetitività di certi esercizi, e consegne tipiche della sua età anagrafica, è un bimbo “oltre”. Risultato: il piccolo genio, anziché venire valorizzato, aiutato a sviluppare il suo talento nella scuola viene mortificato e redarguito. Un bimbo che si sente invisibile, nulla “parla” ai suoi interessi, né la maestra né i suoi compagni. Comincia a manifestare una discrepanza tra le sue capacità e il rendimento scolastico (è

intelligente, ma non si applica) che porta ad un disinteresse nei confronti della scuola, fino ad un disagio vero e proprio. E di piccoli geni, secondo alcuni studi, ce n’è uno su 5 della popolazione scolastica, vale a dire un bimbo per classe: bimbi invisibili, le cui esigenze vengono trascurate: gli insegnanti non hanno strumenti per riconoscerli. Insegnanti da formare e una didattica specifica da scrivere. Al momento, se non fosse per gli sforzi del Lab Talento di Pavia, saremmo all’anno zero. Il LabTalento è il primo laboratorio universitario d’Italia del Department of Brain and Behavioral Sciences degli Studi di Pavia, che si propone di aiutare, sia i bambini e i ragazzi dotati di elevato potenziale cognitivo sia quelli in possesso di un talento o di un’abilità specifica in un campo, a sviluppare appieno le loro risorse. Fonte: cittadeibimbi.it


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