Adozioni e dintorni - GSD Informa ottobre 2014

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - ottobre 2014 - anno IV, n. 8

GSD informa

Basta una firma Quello che ono i ragazzi non dic

Domande



ottobre 2014 | IV, 8

GSD informa

di Anna Guerrieri

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editoriale

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Ti racconto una storia Valentina Scherma

psicologia e adozione

salute e adozione

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Approccio ragionato all’eosinofilia nei bambini migranti Lia Marrone scuola e adozione

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Quello che i razazzi non dicono Monica Nobile giorno dopo giorno

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Un viaggio di nozze alle origini Greta Bellando La principessa dell’Altay. Parte quarta Antonello Ferzi leggendo

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Domande Marina Zulian

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trentagiorni

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redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro

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editoriale

di Anna Guerrieri

Un altro mese ancora È passato un mese e ancora attendiamo di veder pubblicare le LINEE DI INDIRIZZO PER FAVORIRE IL DIRITTO ALLO STUDIO DEGLI ALUNNI ADOTTATI scritte assieme al MIUR (Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione) e ai tecnici convocati appositamente. Recentemente, tuttavia, alcune famiglie che, impensierite per i tempi lunghi, hanno scritto al ministro Giannini hanno ricevuto una cortesissima e attenta risposta che ci informa che il documento è oggetto di una fase di condivisione con la Commissione per le Adozioni Internazionali. Terminata questa fase, il Ministro valuterà la sottoscrizione. Ringraziamo queste famiglie di averci informato perché ora sappiamo esattamente in che fase si stia. Noi aspettiamo. I bambini che devono iscriversi a scuola tra gennaio e febbraio aspettano. Gli insegnanti aspettano, come sempre, interventi chiari e volti a semplificare il complesso lavoro che svolgono ogni giorno in classe. Attendiamo con fiducia perché conosciamo il valore concreto e reale del documento e sappiamo che a partire proprio da questo può iniziare per davvero, senza se e senza ma, in maniera uniforme tutta una fase informativa e formativa sul tema scuola e adozione nel nostro paese, mettendo finalmente in luce l’importanza del tema, dando delle chiare linee d’azione per le famiglie e per gli insegnanti nelle situazioni quotidiane, evidenziando una volta di più di quale ricchezza portino le storie differenti nella realtà delle nostre classi. Aspettiamo, aspettiamo un segnale concreto di attenzione per le famiglie che adottano. In questi anni si è parlato sovente, troppo sovente, di adozione, nei fatti tuttavia abbiamo assistito ad un progressivo crescere delle difficoltà. I paesi dell’adozione internazionale sono spesso attraversati da fasi di grande crisi, blocchi, chiusure, rallentamenti. I fondi a sostegno


dell’adozione internazionale risultano difficilmente reperibili e finora si sta procedendo con i rimborsi per chi ha adottato nel 2011. Compaiono proposte di legge e mozioni che poi all’improvviso scompaiono o si arenano in deludenti nulla di fatto. Una progressiva crisi di tutto il sistema di welfare colpisce ormai duramente tutte le famiglie italiane e naturalmente colpisce chi si apre all’adozione e all’affido. Ci ritroviamo, infine, famiglie sempre più sole con figli spesso bisognosi di attenzioni e cure che portano noi genitori a rivolgerci al privato (scuole private, operatori privati, centri privati) facendoci carico una volta di più di ingenti oneri e costi. E quindi, chi davvero resta sempre più solo sono i bambini e le bambine in stato di abbandono, bambini per cui l’adozione è davvero l’unica risorsa e l’unico mezzo per crescere in una famiglia, bambini all’estero e in Italia che non trovano la possibilità di accoglienza di cui hanno bisogno. Ecco in questo panorama così complesso e confuso, in questa “epoca delle passioni tristi”, vedere realizzare una “cosa bella” a favore dei bambini e delle bambine, delle famiglie e degli insegnanti avrebbe il significato di alimentare finalmente una fiammella di positiva speranza. Il documento è pronto, basta una firma.


psicologia e adozione 6

Ti racconto una storia

Durante la formazione in terapia sistemicorelazione al Centro Siciliano di Terapia della Famiglia, ricordo che mi colpì la pratica che ogni sera una mamma adottiva metteva in atto: raccontava al proprio figlio, Andrey, la storia della sua vita precedente all’adozione, connotandola sempre in positivo. La mamma concordava con Andrey ogni sera degli aspetti di questa storia e, nella costruzione della storia, il bambino aveva quasi sempre due mamme. Durante il racconto mamma e figlio si scambiavano non solo informazioni ma soprattutto carezze e baci, in un’attività rituale di contenimento gratificante per madre e figlio. Andrey e la sua famiglia avevano richiesto

una consulenza per un momento di crisi familiare, ma era evidente che questa famiglia, come tutte le famiglie, aveva delle risorse che avevano bisogno di essere sottolineate e risvegliate. Attraverso questo rituale, ad esempio, saltava immediatamente agli occhi la capacità della mamma adottiva di contenere e accettare le informazioni e gli spunti del figlio e la disponibilità di Andrey a condividere ricordi, fantasie e speranze che si inserivano nella cocostruzione di un quadro comune. Questo incontro assumeva tutte le caratteristiche di un rituale famigliare. Con il termine “rituale” ci riferiamo a un insieme di atti che vengono eseguiti secondo delle abitudini per gran parte

uguali a se stesse. I rituali, infatti, sono degli atti simbolici che vengono compiuti in un certo modo e in un certo ordine, con una grande partecipazione emotiva. All’interno di tutte le famiglie sono presenti dei rituali, come il pranzo della domenica tutti intorno a un tavolo, la colazione al mattino, il festeggiamento dei compleanni, etc. Si tratta di solito di minimi riti di continuità, che hanno la funzione di rinsaldare la coesione della famiglia, la sua continuità: i rituali perpetuano il sistema di credenze e di significati della famiglia. Il rituale spesso sincronizza i membri familiari e ordina nel tempo le loro interazioni, ha una forte pregnanza emotiva perché consente di scambiare atti,


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informazioni, percezioni, sensazioni all’interno di una cornice di tempo definita. All’interno delle famiglie adottive, rituali come

sformativa dell’adozione, secondo ad esempio Vadilonga (2010), consisterebbe nel far sperimentare al bambino nuove esperienze di accudimento che si pongano come differenze significative rispetto alle esperienze del passato. Se queste nuove esperienze di accudimento si presenteranno con adeguata formodo di interpretare e rea- za e ripetitività, il bambino gire agli eventi, del proprio sarà costretto a costruire modo di fare previsioni e nuovi copioni, nuove mocrearsi aspettative sugli dalità di interpretazione accadimenti della propria degli eventi, un nuovo legame di attaccamento. vita relazionale. Il modo in cui i genitori si La pratica di raccontare e rappresentano gli eventi co-costruire la storia della e le relazioni avranno un famiglia, prima e dopo l’eruolo importante nel dare vento adozione, s’inserisce significato al comporta- in una di quelle pratiche mento del figlio e nel dare che, se contemplano anche risposte capaci di far evol- uno scambio affettivo, può vere i modelli mentali di contribuire alla modifica attaccamento del bambino e costruzione del legame verso modelli di attacca- di attaccamento genitorimento sicuri. La forza tra- figli. taccamento tra genitori e figli può esser vista come un reciproco influenzamento del proprio modo di rappresentarsi gli eventi e le esperienze, del proprio

“i rituali perpetuano il sistema di credenze e di significati della famiglia” quello praticato nella famiglia di Andrey, possono favorire il legame di attaccamento padre-madrefiglio e agevolare, allo stesso tempo, la costruzione di una continuità emotiva tra la storia precedente l’adozione e quella seguente. Sappiamo che all’interno delle famiglie adottive la costruzione del legame di attaccamento genitori-figli è un processo graduale che può avere tempi differenti in ogni famiglia. La costruzione della relazione di at-

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“Ed è così che le vite di ciascuno si intrecciano alle narrazioni… a quelle che sognano o immaginano o vorrebbero narrare” 10

La famiglia adottiva mentre costruisce la propria storia intesse anche una narrazione relativa agli anni precedenti l’adozione. La storia dei bambini racconta, a volte, di esperienze traumatiche (maltrattamenti, abusi, imprevedibilità delle cure), che possono spingere i figli a comportarsi in maniera aggressiva, a ribellarsi o, al contrario, ad adattarsi a qualsiasi cambiamento in maniera passiva e accondiscendente. Questi comportamenti possono mettere in crisi i genitori, che non sanno come rispondere alle richieste ambivalenti dei figli, e possono rendere più difficoltosa la costruzione del legame. I genitori, dal canto loro, sono portatori di una storia personale e di una storia di coppia (desiderio di generatività, constatazio-

ne della sterilità, possibile difficoltà ad avere figli, fallimento del progetto genitoriale biologico, desiderio di adottare, etc.) il cui vissuto può diventare una risorsa nella relazione con i figli adottivi o altre volte contribuisce a complessificare la situazione. L’incontro delle due storie e, spesso contemporaneamente, l’esplorazione della storia adottiva, attraverso le lenti che i genitori si sono costruiti a partire dalle loro esperienze di vita, è un processo lungo e faticoso, che non è scandito da un tempo oggettivo ma soggettivo ed emotivo. La conoscenza della propria storia, allo stesso tempo, aiuta a orientarsi nel futuro, nelle scelte di vita, in modo da incrementare il grado di benessere e diminuire quello di malessere. Gli autori che si occupano


di famiglie adottive (come Vadilonga, Chistolini, Baldascini, etc.) suggeriscono una narrazione emotiva, così da permettere al bambino di esprimere i sentimenti di dolore e rabbia che accompagnano inevitabilmente un percorso elaborativo. Proprio attraverso il contatto con le emozioni, con le proprie e con quelle dei figli, è possibile costruire un racconto autentico e accogliente. Come pezzi di un puzzle, dove ogni singolo elemento forma un’immagine globale più ampia, così i singoli ricordi, i singoli racconti o episodi assumono significati molto diversi a seconda dei contesti temporali e relazionali in cui vengono correlati. Uno dei compiti fondamentali dei genitori adottivi è proprio quello di trasformare, attraverso la narra-

zione, la storia che porta il bambino in informazioni che si pongano come base per una buona immagine di se stesso e un’adeguata crescita psicologica. Così, in un contesto in cui è lecito parlare del passato, i figli si sentono di poterlo evocare e addirittura inventare insieme ai genitori, così come è successo nella famiglia di Andrey. La storia diventa liberatoria non solo per loro, ma anche per i genitori che possono dare una cornice entro cui far danzare mondi e figure del passato del proprio figlio. Raggiunto l’obiettivo di trovare un senso e di creare narrazioni, questo diventa un modo con cui i figli possono trovare pace interna e attribuire nuovi significati al loro passato. In un processo circolare, ma anche ricorsivo, la

narrazione contribuisce a cocostruire il legame genitori-figli e i rituali, come quello messo in atto con Andrey, saldano ancora di più questo legame. Ed è così che le vite dei membri familiari si intrecciano alle narrazioni, alle storie che decidono di raccontare o che vengono raccontate, a quelle che sognano o immaginano o vorrebbero narrare.

Valentina Scherma Psicologa clinica e di comunità Psicoterapeuta sistemicorelazionale

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salute e adozione

Approccio ragionato all’eosinofilia nei bambini migranti 12

Con il termine eosinofilia si intende un aumento degli eosinofili nel sangue periferico. Gli eosinofili sono un tipo di globuli bianchi con funzione di difesa dell’organismo. In base al valore numerico degli eosinofili, le eosinofilie si distinguono

in lievi, moderate e severe. Il numero degli eosinofili può aumentare per diverse motivazioni di natura non infettiva ed infettiva. Tra le cause non infettive di eosinofilia ricordiamo: allergie, malattie neoplastiche ed autoimmuni, disordini ematologici prima-

ri, atopie, reazioni a farmaci; mentre tra le cause di origine infettiva: toxoplasmosi, lebbra,tubercolosi, HIV, elmintiasi. Nei paesi industrializzati, il riscontro di eosinofilia viene associato prevalentemente a cause non infettive, nei paesi poveri le cause infettive sono considerate in prima ipotesi ed in particolar modo le elmintiasi. Infatti, l’eosinofilia è di frequente riscontro in migranti e viaggiatori di ritorno da zone tropicali e subtropicali ed è in genere espressione di una sottostante infezione elmintica, ossia infezione da vermi. Spesso possono essere presenti coinfezioni, ossia infezioni da diversi tipi di elminti e tale condizione è, il più delle volte, associata a valori più elevati di eosinofilia. Le modalità di acquisizione delle elmintiasi è diver-


sa in base al tipo di elminta considerato: trasmissione oro fecale, per ingestione di acqua o cibi contaminati; tramite vettore, iI parassita è trasmesso all’ospite durante il pasto ematico dell’insetto vettore; per penetrazione diretta attraverso la cute. Le elmintiasi che causano eosinofilia sono in genere autolimitantisi e benigne e possono manifestarsi clinicamente con dolori addominali, diarrea, alvo alternante, prurito cutaneo, scarso accrescimento, anoressia, anemia, febbre, irritabilità.. In alcuni casi, tuttavia, possono causare problemi di salute seri ed anche dopo lungo tempo: ad esempio, l’ infezione da Schistosoma haematobium può determinare, dopo diversi anni, tumore della vescica. Sebbene la terapia delle

elmintiasi sia in genere di facile gestione, economica e pressoché priva di effetti collaterali tuttavia la diagnosi risulta complessa, spesso richiede tempi lunghi ed è costosa poiché necessita di test microscopici e sierologici specifici disponibili solo in laboratori altamente specializzati. Il riscontro di eosinofilia può essere associato alla presenza di sintomi o segni clinici oppure presentarsi in assenza di questi. Mentre nel primo caso si dovrebbe cercare di pervenire sempre ad una diagnosi poiché determinati quadri clinici sono patognomonici di alcune elmintiasi ed indirizzano a specifici esami, in caso di eosinofilia asintomatica sono state suggerite varie strategie per pervenire ad una corretta diagnosi ma al momento nessuna è stata definita in

maniera sistematica. Nell’iter diagnostico delle eosinofilie asintomatiche è ritenuto valido il criterio geografico che consiste nel considerare l’’area di provenienza del migrante o del viaggiatore tenendo in considerazione la prevalenza degli elminti in tali zone. Alcuni elminti come ad esempio i geoelminti (cosi chiamati poichè le loro uova necessitano di un periodo di maturazione nel terreno): Ascaris lumbricoides, Trichuris Trichuria, Hookworm, Strongyloides sono ubiquitari; altri elminti, in particolari quelli che hanno un ciclo vitale più complesso e che coinvolge ospiti intermedi (esempio molluschi di acqua dolce in caso dello Schistosoma) o vettori (esempio un moscerino per Onchocerca volvulus), o

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ancora gli elminti associati a determinati alimenti (esempio il crescione per Fascicola hepatica) hanno una distribuzione geografica limitata. Le cause più comuni di eosinofilia asintomatica sono le geoelmintiasi, la Schistosomiasi e le filariasi. Quindi, in tutti i bambini con eosinofilia asintomatica indipendentemente dall’ area di provenienza, occorre effettuare l’ esame parassitologico delle feci e la sierologia per Strongyloides dal momento che l’ esame parassitologico delle feci permette l’ identificazione dei principali geoleminti ma ha una bassa sensibilità nella diagnosi dello Strongyloides. Tutti i bambini provenienti dall’ Africa devono essere testati per la schistosomiasi mentre per la prevalenza di Onchocerca volvulus, Loa loa, Wuchereria bancrofti in Africa Occidentale, ai minori provenienti da tale area devono essere ricercate le filarie. Quindi riassumendo gli esami da effettuare in base al paese di provenienza possono essere schematizzati nel modo seguente: Africa escluso Africa occidentale: esame parassitologico feci; sierologia Strongyloides stercoralis; ricerca uova Schistosoma haematobium nelle urine

e Schistosoma mansoni nelle feci + sierologia Schistosoma; considerare la ricerca di Wuchereria bancrofti (presente ma rara) Africa occidentale: esame parassitologico feci; sierologia Strongyloides stercoralis; ricerca uova Schistosoma haematobium nelle urine e Schistosoma mansoni nelle feci + sierologia Schistosoma; ricerca microfilarie notturne e diurne. Il resto del mondo: esame parassitologico feci; sierologia Strongyloides stercoralis. In caso in cui non si pervenga a nessuna diagnosi può essere indicato il trattamento empirico con antielmintico quale l’albendazolo (400 mg 2 2 per 3-6 giorni). Nella gestione delle eosinofilie può risultare importante la consulenza dell’ infettivologo pediatra dal momento che l’ eosinofilia può essere transitoria e che non sempre l’ esame parassitologico delle feci è positivo in presenza di eosinofilia senza che questo escluda la diagnosi di elmintiasi intestinale. Inoltre,a conferma della necessità di rivolgersi al parere di esperti in campo infettivologico-tropicale per l’ interpretazione dei risultati, deve essere consi-

derato che gli esami sierologici si positivizzano solo dopo 4-12 settimane dall’ infezione, per cui possono essere negativi in caso di eosinofilia e che molti test sierologici interagiscono tra di loro (ad esempio la sierologia per la filaria può essere positiva in corso di strongiloidiasi). Da quanto detto fin ora,emerge anche l’ importanza della raccolta di dati anamnestici da parte del medico in merito alle condizioni di vita del bambino prima di arrivare in Italia, all’ accesso all’ acqua potabile o alle latrine, al consumo di determinati alimenti,al tipo ed alla durata del viaggio migratorio, all’ assunzione di terapia antiparassitaria precedente magari in seguito a specifiche campagne, all’ abitudine a camminare scalzi o fare bagno in laghi o fiumi. In conclusione: l’eosinofilia è di frequente riscontro in bambini di rientro da viaggi da zone tropicali e subtropicali, in bambini migranti ,e quindi, in bambini adottati ed è, in genere, espressione di elmintiasi. L’esame parassitologico delle feci e la sierologia per Strongyloides stercoralis dovrebbereo essere effettuate in tutti i bambini indipendentemente dall’area


Bibliografia essenziale Journal of Infection 2003.Investigation of Tropical Eosinophilia; Assessing a Strategy Based on Geographical Area. J. Whetham, J. N. Day, M. Armstrong, P. L. Chiodini, and C. J. M. Whitty J Infect. 2010. Eosinophilia in returning travellers and migrants from the tropics: UK recommendations for investigation and initial management.Checkley AM, Chiodini PL, Dockrell DH, Bates I, Thwaites GE, Booth HL, Brown M, Wright SG, Grant AD, Mabey DC, Whitty CJ, Sanderson F Advances in experimental medicine and biology 2011. A practical approach to eosinophilia in a child arriving or returning from the tropics. Bryant P, Curtis N. Infect Dis Clin N Am 2012.Eosinophilia in returning traveler. Ustianowski A., Zumia A.

geografica di esposizione. Ulteriori indagini diagnostiche sono indicate in caso di segni e sintomi specifici o in base alle aree di provenienza. In mancanza di una specifica diagnosi occorre considerare l’opportunità di somministrare trattamento con farmaci antielmintici quali l’albendazolo. In caso di eosinofilia persistente, è necessario prendere in considerazione cause non infettive.

Clin Infect Dis 2002. Diagnostic significance of blood eosinophilia in returning travelers. Schulte C, Krebs B, Jelinek T Am J Trop Med Hyg 2008. Eosinophilia among returning travelers: a practical approach. Meltzer E., Percik R.,Shatzkes j., Sidi Y.,Schwartz E.

Lia Marrone Dirigente Medico Malattie Infettive e Tropicali presso l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà

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scuola e adozione

Monica Nobile Pedagogista Counsellor

Quello che i ragazzi non dicono 16

Lo chiamerò Marco. E’ arrivato in Italia in adozione internazionale nove anni fa. Oggi ha quattordici anni e frequenta la terza media. I suoi genitori mi hanno chiesto di incontrarlo perché improvvisamente, quest’anno, il suo andamento scolastico è precipitato; ha preso voti negativi in tutte le materie, anche in quelle dove lo scorso anno eccelleva, una sfilza di quattro e addirittura dei tre… Hanno provato a parlare con il figlio tante volte, hanno provato con le buone e con le cattive ad avere delle spiegazioni, ma non c’è stato nulla da fare, Marco è diventato ombroso e taciturno, ha calato un muro impenetrabile. È arrivato da me con il muso lungo, il giubbotto allacciato fino al mento, le braccia incrociate, gli occhi bassi.

Gli spiego chi sono e qual è il mio ruolo. Lo rassicuro sul fatto che sarà lui a decidere se dire e quanto dire del nostro colloquio ai suoi genitori, che potrà confidarsi con me e che io rispetterò il suo volere e la sua privacy. Ce ne stiamo in silenzio per un po’. Poi azzardo: “Dev’essere difficile avere dei problemi e non poterne parlare con nessuno…”. Mi guarda ed accenna ad un sì con il capo. “Posso fare qualcosa per te?” azzardo. “Tipo?” mi chiede per metà timido e per metà aggressivo. “Tipo che mi racconti cosa sta succedendo e capiamo insieme cosa fare”. Finalmente fa calare la cerniera del giubbotto, quasi a prendere aria per parlare, doveva averne un grande bisogno! “A scuola mi chiamano fac-

cia di merda, mi dicono che non merito di vivere in Italia” Tace e io ci provo: “Secondo te perché?” “Sono degli immaturi” sentenzia. “Anche un po’ stronzi” sbotto io. A quel punto mi sorride, si illumina e sospira “Eh sì”. Inizia un dialogare fitto, vuota il sacco Marco: la scuola, la ragazzina che gli fa battere il cuore, la vita in paese, lo sport preferito, i troppi compiti per casa. Gli chiedo perché non racconta ai suoi genitori degli insulti. Mi spiega che non vuole dare loro un dispiacere. Mi confida anche il suo imbarazzo verso quei genitori protettivi, dice che andrebbero a far casino a scuola e che poi per lui sarebbe ancora peggio. Mi racconta che la prof di italiano ha tenuto una lezione di tre ore sul bullismo e che


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si è resa ridicola, che quelli ridacchiavano e che l’hanno presa in giro per tutto il tempo. “Non c’è via d’uscita, non c’è niente da fare, quindi meglio stare zitti” afferma sconsolato. Decido di cambiare per un attimo argomento. Gli chiedo dove voglia andare alle superiori. Mi spiega che avrebbe voluto fare scienze applicate, ma che invece prenderà l’indirizzo classico perché il latino è una materia molto importante nella vita. Suona stonata quella frase in bocca a un ragazzino! Penso a quanto sia difficile fare il figlio. Ma anche a quanto sia difficile fare il genitore. Non puoi essere troppo protettivo: rischi di essere ingombrante, rischi l’imbarazzo di tuo figlio. Non puoi essere disattento, bastano le stupide af-

fermazioni dei compagni perché tuo figlio prenda ad odiare la scuola. È un attimo e tutto il tuo prenderti cura sembra andare all’aria. Devi aiutare tuo figlio a scegliere il suo percorso futuro, la strada da intraprendere, ed è una scelta delicata, importante. Devi consigliarlo senza schiacciarlo con le tue aspettative. È lui che deve decidere, anche quando è troppo presto per una scelta consapevole, anche quando è troppo confuso e non sa che direzione prendere. Tu genitore devi pesare le parole, ciò che dici lo influenza, lo condiziona, devi saper distinguere ciò che è bene per lui mettendo da parte ciò che vorresti tu. E se vieni a sapere che lo chiamano faccia di merda devi controllare il tuo dolore e la tua rabbia perché lui possa trovare in te la pacatezza e la serenità ne-

cessarie ad affrontare la situazione. Che impresa! Guardo Marco, si è tolto il giubbotto e si è finalmente lasciato andare sulla poltrona. Aspetta che io gli dica qualcosa, possibilmente qualcosa di saggio o quantomeno divertente, come quello stronzi di prima che lo ha convinto a fidarsi almeno un po’ di me. La fiducia di un ragazzino è un’enorme responsabilità, un onore e insieme un carico. Penso che quando un ragazzo si affaccia all’adolescenza cerca di emanciparsi, si sente troppo grande per correre dalla mamma quando c’è un problema e troppo piccolo per avere un confronto alla pari con i propri genitori. Penso a quanto sia importante, soprattutto a quell’età, avere qualcuno con cui parlare, qualcuno


che non sia un genitore, ma abbastanza adulto per essere d’aiuto. Qualcuno, che può essere allenatore sportivo, capo scout, amico di famiglia, qualcuno con cui confidarsi e da cui ricevere un consiglio. Penso a quanto Marco avesse voglia e bisogno di raccontarsi, è bastato un appiglio, uno spazio altro dalla famiglia, sicuro ma non chiuso come possono apparire a quell’età le mura domestiche. Gli propongo di riassumere le cose che ci siamo detti, mettendo davanti i fatti positivi. Decidiamo che al primo punto c’è la ragazzina. Poi il girovagare in bicicletta con l’amico del cuore, quello che sa ascoltarlo e capirlo. Poi andare a judo che lo fa sentire forte, meno indifeso, almeno un po’ padrone delle sue emozioni. Dunque stabiliamo che occorre una strategia per fare

i compiti. Bene e soprattutto presto, che poi c’è un mondo fuori che aspetta. In camera sua no, studiare in camera lo fa sentire in prigione. Vuole studiare in salotto. E ha bisogno di una mano in italiano. Con le altre materie vuole fare da solo. Per gli insulti vuole aspettare, vuole vedere se ignorandoli smettono. Concordiamo che se succederà ancora sarà meglio chiedere aiuto, lui propone di parlarne eventualmente con la prof di inglese che ci sa fare. Infine dobbiamo decidere cosa raccontare a sua madre che aspetta fuori. Mi autorizza a riferirle degli insulti, ma mi chiede di non essere presente per non vedere la sua faccia dispiaciuta. Di raccomandarle di non intervenire senza averlo concordato prima con lui. Di spiegarle che preferisce studiare in salotto – chissà

perché per Marco questa rivelazione risulta tanto difficile da esprimere –, che studierà non più di due ore al giorno e che potranno fare insieme italiano la sera. Della ragazzina no, meglio non far parola, altrimenti poi lo riempie di domande. Gli propongo di vederci tra un mese per valutare come è andata e di scambiarci il numero di cellulare per restare in contatto. Mi guarda, è un bel ragazzo, ha il volto intelligente e un’aria buona, mi sorride con gli occhi e mormora che è molto impegnato ma che sì, gli farà piacere se ci scambiamo qualche sms. Ci congediamo con una specie di abbraccio, un po’ goffo sospira: “Mi ha fatto piacere, grazie”. Anche a me Marco, sei davvero simpatico, faccio il tifo per te…

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giorno dopo giorno

Greta Bellando

Un viaggio di nozze alle origini 20

Carissimi lettori, eccoci di nuovo assieme per ripercorrere i sentieri delle emozioni che hanno condotto ogni giovane adottato alla propria meta. Vi avevo lasciato tra i colori della terra africana, l’Etiopia, in cui abbiamo sostato qualche mese; adesso torniamo nuovamente in oriente, alla volta dell’India assieme alla sua protagonista. Ricordo con molto piacere questa intervista, poiché fu la prima che feci e dentro di me conservavo molta curiosità nei confronti di questo “viaggio intorno al mondo” che da lì in poi avrei intrapreso. V. si è resa sin da subito disponibile a “mettersi in gioco” per raccontare il suo viaggio, che non era solo rivolto alle sue origini, ma aveva in sé anche un significato profondo poiché era anche il suo viaggio di noz-

ze; quando mi disse questa cosa rimasi molto sorpresa. Seppur il mio ruolo sia sempre stato quello di ascoltatrice non giudicante, in quel momento ho pensato: “Chissà che unione grande c’è tra questa donna e suo marito!”. Il viaggio di ritorno alle origini non è un itinerario come un altro, non è il classico viaggio programmato in agenzia, messo in lista nozze da farsi regalare da amici e parenti… qui c’erano in gioco emozioni, sentimenti, solidità di coppia tanto da vedere il compagno della vita come colui in grado di contenere ogni emozione; la scelta di partire con il proprio marito V. l’ha definita dicendomi: “Secondo me mio marito è stata proprio la persona giusta, era proprio lui a spingermi verso questo viaggio, nel senso che io lo avevo in mente ma lui es-

sendo più programmatore aveva pensato di farlo in quel momento, perché ancora non avevamo costruito una famiglia. Lui ci teneva un po’ come se fosse anche il ‘suo viaggio’ e non solo il mio”. La voglia di tornare alle proprie origini è maturata a seguito degli incontri con altri ragazzi adottivi, alcuni di loro avevano già sperimentato questa esperienza e tra la narrazione dei loro racconti si celava una voglia sempre più crescente di sperimentarsi e di voler scavare un po’ attorno alla terra delle proprie radici: “Il desiderio è nato più o meno quando ho iniziato a frequentare il gruppo dei figli adottivi adulti CIAI, e poi è ‘sbocciato’ parallelamente quando ho conosciuto mio marito, nel senso che lui è stata un po’ la prima persona con cui ho iniziato a


condividere il mio vissuto. Prima con le persone che conoscevo non parlavo mai di adozione, anche se sapevano che ero stata adottata, sapevano alcune cose della mia storia ma non sapevano l’aspetto emotivo, e anch’io non ci pensavo tanto. Poi conoscendo lui e frequentando il gruppo del CIAI ho iniziato a ripensare a tutto, ovvero, questo mi ha portata a passare nottate intere a parlarne, a sviscerare tutti gli aspetti”. Il viaggio di ritorno è stato spezzato in due parti, poiché la prima volta, a causa di motivi familiari, i giovani coniugi non sono riusciti a stare in India abbastanza da poter andare sino in fondo alla propria storia. Durante il corso del primo viaggio – viaggio di nozze – avvennero grossi disastri ambientali causati dai monsoni e quindi non ci fu modo di inoltrarsi oltre

Bombay, se non un giorno durante uno spostamento a Poona (città a circa 3 ore da Bombay) dov’è presente il secondo istituto in cui V. ha mosso i suoi ‘primi passi nella vita’: “La prima volta che ho visto l’istituto è stata piuttosto sconvolgente, poiché io mi ricordo proprio l’ingresso in questo giardino e alla porta dell’istituto mi ha aperto una suora ed io sono subito scoppiata a piangere perché aprendo la porta ho subito visto dei lettini con delle sbarre di ferro e quindi essendo la prima volta è stato piuttosto forte come impatto. Se invece, non so, per la prima volta mi fossi trovata un ambiente un po’ più neutro, l’impatto sarebbe stato un po’ più graduale. In quel momento è stato come aprire direttamente la porta al passato. In realtà, poi, le suore mi

hanno spiegato che quei lettini di quella stanza erano destinati ai bambini che venivano lasciati lì dalle madri per qualche ora al giorno, era un po’ come una sorta di asilo, non aveva la funzione di orfanotrofio, per cui era anche cambiato”. Il secondo viaggio ha tirato fuori le emozioni più profonde e ha prodotto tante riflessioni un po’ nostalgiche e malinconiche; V. racconta del suo secondo viaggio: “Il secondo viaggio, non è stato drammatico, ma comunque lo definirei forte; io sono andata subito nel villaggio in cui sono nata e lì non ho avuto un impatto ‘duro’ perché comunque era già il secondo viaggio. Lì ho visto subito un convento per cui non ho avuto il contatto diretto con i bambini; ma essendo stato l’istituto in cui io ho passato i primi momenti della

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mia vita mi ha portato a non dormire di notte. Lì ho passato quattro notti e in quelle notti mi sono sempre confidata con mio marito e lì le riflessioni sono state forti. Poi mi hanno fatto visitare anche una stanza in cui probabilmente stavo io, in cui tenevano tutti e cento i bambini e oggi ci sono molti meno letti e lì dormono le ragazze che oggi vanno a fare corsi di sartoria, per cui è anche un istituto abbastanza moderno”. Ad un certo punto questo viaggio ha proiettato V. nel passato poiché è stata coinvolta assieme al marito in un avvenimento piuttosto forte e difficile da gestire a livello emotivo: “Le suore ci hanno chiesto se volevamo accompagnarle a prendere una bambina che era appena stata abbandonata sulla ferrovia. Quindi noi siamo andati, ho agito senza riflettere, un po’ come un automa e siamo partiti con una Jeep e poi praticamente sul sedile posteriore della macchina c’erano proprio i documenti di questa bambina con cui i genitori rinunciavano alla piccola e la davano in adozione, per cui anche questo è stato piuttosto forte. Poi però la bambina non l’abbiamo potuta portare in un istituto poiché nel frattempo era stata trasportata in ospe-

dale perché aveva bisogno di cure e non era in grado di andare in istituto”. Fuori dalle mura dell’istituto si trovava l’India… quella “vera”, quella in cui si notano le discrepanze, la ricchezza contrapposta alla povertà, là era tutto “davvero tanto” e, nonostante la somiglianza somatica, le differenze si facevano sentire, eccome: “Forse mi sento più vicina stando qui, nel senso che, se sento parlare di India o vedo persone simili a me, sento che c’è un legame, non provo senso di estraneità, mentre quando ero là sentivo molto la differenza, anche solo nel modo di vestire; una cosa particolarissima erano le scarpe, io e mio marito eravamo gli unici ad averle perché tutti, sia con pioggia sia col sole, camminavano o scalzi o in ciabatte. Solo dall’aspetto fisico non mi sentivo parte di quelle persone. Ho comprato dei vestiti indiani e li ho indossati quando ero là, ma l’ho fatto quasi per divertimento, non perché sentissi la necessità di avvicinarmi”. Ad un certo punto dell’intervista, è sorta in me la volontà di chiederle se ad oggi si sentisse più italiana o più indiana; apparentemente questa potrebbe apparire una domanda

banale, sciocca, come se si potesse “misurare” la propria appartenenza; in realtà questa domanda poi ha sempre “catturato” forti emozioni, legate al proprio Essere, mostrando come non si debba necessariamente sentirsi solo appartenenti ad un Paese. V. mi rispose: “Io mi sento un po’ tutte e due; nel senso che mi sento sicuramente italiana, qui non mi sento una straniera anche se capita che gli altri ti fanno sentire diverso come ad esempio il cameriere che mi porta il curry senza chiedermelo, oppure l’autista del bus che mi dà del tu: sono i piccoli episodi a ricordarmi da dove vengo. Io però mi sento italiana, sia per cultura che per mentalità, sarebbe assurdo dire mi sento indiana, ma allo stesso tempo l’India non mi è indifferente e anche quando si sentono episodi che accadono là, anche terribili, li vedo inimmaginabili e sento che mi dispiace che accadano proprio in quel Paese. Sento che è anche un po’ il mio Paese, sento un coinvolgimento, è come se scattasse un meccanismo di amore e odio. Alle volte mi chiedo perché certe atrocità debbano accadere proprio là, come ad esempio nel caso delle bambine sfruttate. È come


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se mi vergognassi di quello che viene fatto”. Alla fine di questi due viaggi, tra la voglia di tornare e la nostalgia, V. ha sperimentato un cambiamento dentro di sé, una crescita, una nuova positività. Lei ha preferito compierlo prima di avere dei bambini poiché temeva che il divenire mamma l’avrebbe messa in crisi... così poi non è stato. In questo viaggio, seppur non siano stati “fisicamente presenti”, i genitori adottivi di V. le hanno concesso di viversi ogni emozione nella massima libertà con il proprio compagno di vita, poiché sapevano che in fondo lui non l’avrebbe mai giudicata, bensì avrebbe accolto ogni frammento della sua ‘lei più vera’. Dopo questa con-

divisione così importante il loro rapporto si è consolidato: “Il fatto di condividere una cosa così ci ha fatti sentire molto vicini, è una cosa che non dimenticherò mai, anche il fatto che sia stato lui ad accompagnarmi e che abbia in quel momento rischiato per venire con me di non rivedere più suo papà. Questa è stata una grande dimostrazione di empatia, ha rafforzato il nostro legame. È tutt’ora molto disponibile, poiché nonostante il fatto che abbiamo bambini piccoli, mio marito mi invoglia a tornare anche da sola, di prendermi del tempo. Lui sarebbe disponibile ad ogni evenienza perché sa che è importante”. Oggi V. è figlia, moglie e mamma di due bambini; è riuscita a rispondere a

molte delle sue domande, ma in lei è presente la consapevolezza che nella vita non si giunga mai alla “fine”. L’esistenza è una continua crescita, è un continuo viaggio, tanto che la sua esperienza di ritorno l’ha associata ad una valigia: “Io anche nella mia vita pratica ho spesso viaggiato e ho vissuto in posti diversi. Non ho avuto molti luoghi fissi, solo ora mi sono stabilizzata, e lo preferisco anche per i bambini, ma non sono una che pensa che bisogna nascere e morire nello stesso posto. Ci saranno sempre spunti di riflessione ad ogni evento, non bisognerebbe mai pensare di essere arrivati ad un punto”.


giorno dopo giorno 24

La principessa dell’Altay Storia di un’adozione. Parte quarta

NUOVAMENTE SIBERIA Il giorno 12 alle 10,00 il nostro aereo decolla nuovamente da Fiumicino. Questa volta non ho preso tranquillanti, la paura la voglio tenere tutta per me. Considerando i fusi orari e lo spostamento per l’altro aeroporto di Mosca atterreremo a Barnaul nelle prime ore del giorno 13. I due i voli si svolgono tranquillamente, inizio a pensare che qualcuno si stia impegnando seriamente per proteggerci, tutto fila via con la massima serenità. Confondendosi nei riflessi chiari della neve, una stupenda alba siberiana ci dà il benvenuto, sale alta l’emozione per un ritorno voluto, sperato, finalmente realizzato. Appena usciti dall’aeroporto Barnaul-Michailovka inizia a nevicare, il freddo è pungente. Vladimir e Ga-

lia ci accolgono con grande calore. Mila è impegnata, la rivedremo soltanto tra un paio di giorni. Proseguiamo in macchina dritti per Biysk, senza far sosta a Barnaul, oggi è il compleanno di Dimitri, il bimbo di Stefano e Ilaria. L’autostrada per Bijsk sta diventando familiare, la campagna è ancora macchiata di neve, la temperatura esterna segna un discreto meno 15. Stefano si diverte a riprendere ogni cosa, con una moglie attrice gli viene naturale. Due ore e siamo nuovamente a Bijsk. Quanto ci è mancata questa citta! E pensare che fino a pochi mesi or sono non ne conoscevamo nemmeno l’esistenza. Passiamo in hotel a sistemare le nostre cose, ne approfittiamo anche per effettuare delle piccole spese nel su-

permercato situato al piano interrato della struttura del nostro albergo. Con grande stupore tra gli scaffali troviamo anche confezioni di Nutella! Incredibile come questo prodotto non conosca confini. Sono le 15,00 quando la macchina del signor Ghinnadi ci lascia davanti all’istituto. Ad accoglierci c’è la direttrice, la signora Ludmila. Con uno sforzo apprezzabile, considerata l’assenza di Mila, prova a spiegarci delle cose. Soprattutto ci fa capire che Agnese, a gennaio, è stata ricoverata in ospedale per una fastidiosa bronchite, povero amore, lei soffriva in una corsia d’ospedale e noi non eravamo a conoscenza di nulla. Ma forse è stato meglio cosi, altrimenti sai che sofferenza! Abbiamo portato alcune cose per i bambini e per


il personale dell’istituto, cose da mangiare, da vestire, striminzite purtroppo, viaggiando in aereo non si riesce a portare poi molto. Ci fanno accomodare in una sala dove solitamente giocano i bambini più piccoli. È li che incontriamo nuovamente Agnese, tra pochi giorni festeggeremo insieme il suo primo compleanno. Arriva una signora con la bimba in braccio, l’emozione è struggente, Patrizia l’avvolge nelle sue braccia, la riempie di baci, ci abbracciamo a lungo, ma questa volta siamo in tre, siamo una famiglia, una famiglia completa. «Piccola della mamma, come stai? Nessuna cosa terrena potrà più dividerci sai amore?». Il suo sguardo infinito ed il suo dolce sorriso ci fanno sperare che abbia già capito.

Giochiamo con Agnese un paio d’ore, ci colpisce la morbosa curiosità per ogni cosa e la reattività dei suoi sguardi ad ogni movimento intorno a lei. Torniamo in albergo con il cuore gonfio di sentimenti, inutile nasconderlo: siamo e saremo delle persone diverse. I quattro giorni che ci separano dalla sentenza sono un’alternanza di stati d’animo tra la gioia di stare con Agnese e l’ansia per quel dannato documento che ancora non viene prodotto dall’Autorità centrale di Mosca. In camera di Stefano e Ilaria, la notte tra il 15 ed il 16 marzo, siamo riusciti a parlare di questa cosa ininterrottamente fino alle quattro del mattino. Quella notte sarà ricordata come la più estenuante seduta psicoterapeutica della Siberia centrale, caratterizzata da un susseguirsi di crisi iste-

riche simili a quelle che possono prendere a una cordata di alpinisti che affronta una montagna di 8000 metri senza ossigeno! La mattina del 16, senza aver praticamente dormito, partiamo per Barnaul. Non siamo certi che l’udienza si terrà, ma Mila ci ha convocato ugualmente per preparare comunque tutto nei minimi particolari. Arriviamo in città verso le 12,00. Mila ci regala una golosa sorpresa, ci fa conoscere un ristorante italiano, Il Gran Mulino, così abbiamo modo di riassaporare, dopo diversi giorni di astinenza, pasta, pizza, dolci, caffè. Dopo mangiato l’umore non è molto alto e non abbiamo voglia di passeggiare, torniamo tutti in albergo a continuare la tortura mentale e a pregare che la sorte si ricordi di noi. L’appuntamento con Mila

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è da noi in hotel, dobbiamo concordare le frasi da dire e i comportamenti da assumere durante l’udienza, nel caso si possa effettuare. «Allora ragazzi, ascoltate bene: durante l’udienza voi sarete chiamati, istante uomo o istante donna. Si alzerà in piedi per rispondere alla domanda soltanto la persona che sarà interpellata, mi raccomando, dovrete rispondere con calma dando a me la possibilità di effettuare la traduzione. Le donne non devono mai accavallare le gambe e, nei limiti del possibile, mostratevi sicuri nelle risposte…». Mila ci spiega in maniera dettagliata tutti i passaggi dell’udienza e li ripete molte volte. Alle 3.00 del mattino, esausti, andiamo a dormire, covando la speranza che quel famoso documento arrivi per tempo, ma, a questo punto, ci vorrebbe veramente un miracolo. Quasi rassegnati a dover ritornare chissà quando, ci salutiamo con gli occhi umidi. Incredibilmente la speranza diventa certezza. Il giorno 17 alle 7.00 del mattino squilla il telefono. Saltiamo dal letto in un istante, la voce raggiante di Mila ci da il più bel buongiorno di tutta la nostra vita.

«Ragazzi, notizia sensazionale: quel benedetto documento è finalmente arrivato, l’udienza si terrà!» Iniziamo a saltare sui letti e a tirare in aria ogni cosa. «Mila tutto questo è bellissimo, che Dio sia con te!». «Il miracolo siè concretizzato grazie all’incessante interessamento della responsabile del Centro Adozioni, la signora Nadieska, senza di lei non ce l’avrei fatta». «Vedi che esistono gli angeli custodi!». «Io ne ero già convinta».

«Io tua madre non l’ho conosciuta, ma tante persone me l’hanno descritta come una donna eccezionale». «Sai, ero convinto, anche prima che arrivasse Agnese, che avremmo avuto un cammino eternamente condiviso, però – devo essere sincero e onesto con me

NASCE LA NOSTRA FAMIGLIA L’udienza è fissata per le 9.00. Saremo i primi, ci prepariamo scrupolosamente senza lasciare nulla al caso. «Patrizia, ci pensi che tra poche ore diventerai mamma? Avremo una figlia tutta nostra». «Anto, credo senza il minimo dubbio che tu sarai il papà più buono del mondo». «Sai Pà, stanotte ho pensato molto a mia madre, credo che avrebbe amato molto Agnese. Anche lei non ha avuto un’infanzia facile, ha sofferto molto, credo che avrebbe mostrato grande sensibilità verso il nostro gesto».

stesso – se non fosse stato per la tua caparbietà e la tua voglia di esser mamma ora non saremmo qui».


Alle 8.35, in una giornata luminosa come non mai, Mila passa a prenderci in hotel, abbiamo i minuti contati, non possiamo far tardi per nessun motivo, in Federazione Russa una cosa del genere non sarebbe ammessa. Si tratterebbe di una mancanza di ri-

spetto verso la corte, ma, incredibilmente Patrizia a causa della forte emozione, deve correre in bagno.

Mila si arrabbia e inizia a urlare che dobbiamo fare in fretta, ci mancava anche questo per aumentare il nostro stato di ansia e preoccupazione. Pochi minuti di attesa, scanditi dai rimbrotti improponibili di Mila e finalmente saltiamo in macchina, è tardissimo, imploro mia madre e tutte le anime buone di darci conforto. Vladimir corre come un pazzo, sale sui marciapiedi, attraversa incroci senza dare precedenze, arriviamo in tribunale, saliamo di corsa le scale fino al secondo piano, sono le 8.55! Grazie a Dio siamo arrivati in tempo. L’aula del Tribunale si presenta triste e austera. Attendiamo solo pochi attimi ed entra il giudice. È una donna, una bella donna, anche le sue collaboratrici sono donne. L’aspetto è severo e formale, mi volto e mi accorgo che sono presenti tutte le persone che ci hanno accompagnato in questa fantastica avventura iniziando, ovviamente, dalla bravissima Mila – ufficialmente interprete, ma in pratica perno centrale dell’associazione in Siberia, tutto ruota intorno alla sua persona, con grande maestria e, se necessario, anche con modi un po’ bruschi, ga-

rantisce la perfetta riuscita di ogni particolare – la direttrice dell’Istituto, la signora Ludmila, donna di alto spessore umano e sociale, la responsabile del Centro Adozioni la signora Nadieska, divoratrice di libri e nostalgica del regime Sovietico. Un’autorità istituzionale, da lei dipendono le sorti di tutte le coppie che passano per questa Regione. Infine l’assistente sociale la signora Elena, che ha seguito la vicenda di Agnese: le appartiene una dolcezza infinita. Insomma ci sono proprio tutti e sono lì per incorniciare il nostro futuro. «Istante si presenti…, istante si alzi…, istante conferma?». Una raffica di domande, di racconti, di conferme, di sensazioni, di paura di sbagliare. Per fortuna Mila, per tutto il periodo dell’udienza, mette in campo la sua serenità, la sua grande professionalità. Anche Patrizia riesce a mantenere una calma serafica, addirittura riesce a convincere il giudice a proposito di una incongruenza su alcuni documenti relativi alla casa di abitazione. E pensare che nei giorni precedenti proprio lei aveva fatto preoccupare Mila: credeva, infatti, che fosse l’unica a non aver

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capito le procedure dell’udienza. Invece, alla fine, risulterà la più reattiva di tutte le coppie, cuore di mamma che coraggio! Finalmente, dopo due ore di martellamento, il giudice ritiene che possa bastare, ci fanno accomodare fuori, Mila sembra soddisfatta, annuisce, fa capire che è andato tutto abbastanza bene. L’attesa è breve, ma a noi sembra un’eternità. Ci viene a chiamare una signora, ci fa segno di rientrare, attendiamo ansiosi. Ecco nuovamente il giudice, ci alziamo in piedi, inizia a leggere la sentenza, Mila traduce «In nome del popolo russo… la richiesta di adozione della coppia… viene accolta». Non capiamo piu nulla, sorrisi e baci per tutti, vorremmo abbracciare il giudice e chiunque ci capiti a tiro, Agnese è nostra figlia, ora e per sempre, dopo tante sofferenze, tante giornate amare che conosciamo soltanto io e Patrizia, ci godiamo finalmente questo momento di grande gioia, di immensa felicità,

ci abbracciamo a lungo con Mila, siamo sinceramente convinti che se la vita non ci avesse dato l’opportunità di conoscere questa donna straordinaria, forse non saremmo diventati mai genitori. Sarà una sensazione sì, ma è una forte sensazione, il suo ricordo lo porteremo nel nostro cuore per il resto della nostra vita. Avremmo voglia di tornare di corsa in Istituto e trasferire con un tenero abbraccio la bella notizia a nostra figlia, ma dobbiamo restare a Barnaul, domani sarà il grande giorno di Stefano e Ilaria. Il 18 marzo anche la loro vicenda si conclude positivamente, il piccolo Dimitri ha finalmente una bellissima famiglia. Adesso dovranno passare almeno 10-15 giorni prima di poter fare i documenti per il rientro in Italia con i bambini. Stefano e Ilaria decidono allora di tornare a Roma, hanno impegni di lavoro, noi resteremo a Bijsk, saremo per tutto il periodo a fianco della nostra piccolina.

Diversamente dal primo periodo, in Istituto ci consentono di far visita ad Agnese soltanto una volta al giorno. Abbiamo quindi molto tempo libero e ne approfittiamo per conoscere meglio la città di Bijsk. Nel frattempo dall’Italia ci giungono notizie dell’aggravarsi delle condizioni di salute di sua Santità Giovanni Paolo II. La cosa ci mette ansia e preoccupazione, tutte le sere restiamo incollati alle tv russe che durante i telegiornali trasmettono notizie dallo Stato Vaticano. La mattina del 3 aprile veniamo raggiunti dalla notizia della sua morte, con Patrizia preghiamo e ci abbracciamo, consapevoli che adesso dall’alto del Paradiso il Santo Padre potrà guidare meglio i giovani, i suoi giovani, continuando così quel dolce cammino intrapreso durante la permanenza terrena.

Antonello Ferzi

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leggendo Marina Zulian

Parole Fuori. Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi BarchettaBlu di Venezia Questo mese: Domande 30

C’è un villaggio senza nome e dove non ci sono neanche gli animali: non un gatto sui tetti, non una mosca che ronza, non un grillo che canta nei prati intorno. Un paese grigio con intorno solo montagne, boschi, nuvole e vento. Il villaggio è oppresso da uno strano e totale silenzio. Non un ruggito, un raglio, non un cinguettio, mai uno stormo di anatre selvatiche nel cielo; e anche la gente parla assi poco, lo stretto necessario. Di notte il silenzio è ancora più denso e non c’è cane pronto a ululare alla luna né strilli di uccelli notturni. Molti anni prima infatti tutti gli animali erano spariti dal paese e dai suoi dintorni. Mati e Maya avrebbero voluto sapere, avrebbero voluto domandare, ma gli adulti preferivano tacere, negare, far finta di non sapere o di avere dimentica-

to. I due bambini avevano sentito in classe la maestra Emanuela spiegare come è fatto un orso, come respirano i pesci e che versi fa la iena di notte. Quasi tutti i bambini prendevano in giro la maestra perché non avevano mai visto un solo animale. Ma Mati e Maya non riuscivano a non chiedersi come stessero veramente le cose. Un giorno, era quasi sera, Mati chiese coraggiosamente a suo padre come mai le creature fossero sparite dal loro villaggio. Il padre non rispose subito, camminò avanti e indietro per un po’ e poi disse: Facciamo un patto noi due. Non ci siamo detti niente, non ne abbiamo mai parlato… Nel racconto D’un tratto nel folto del bosco (Amos Oz, Feltrinelli, 2011), sono i bambini a fare le domande e sono gli adulti a non

rispondere, a negare o insabbiare. Gli adulti non vogliono parlare mai, soprattutto in presenza dei bambini. Quante volte noi adulti ci siamo chiesti se dobbiamo essere sinceri e trasparenti nei confronti dei bambini o nascondere loro alcuni fatti che riteniamo meglio non dire. Quando decidiamo di non far conoscere ai bambini un certo accadimento è quasi sempre perché riteniamo che non siano in grado di capire la situazione o ancora peggio perché riteniamo che possano restare emotivamente traumatizzati. Se poi i fatti in questione sono avvenuti quando il bambino era ancora molto piccolo, si dà quasi per scontato che non sia necessario dire la verità o meglio sia preferibile non dire niente. Anche nel caso di bambini adottati ci sono alcuni genitori


convinti che non dicendo tutta la verità al bambino, possano proteggerlo dalla sofferenza. I bambini invece, a mio parere, hanno diritto a tutta la verità, a sapere tutto ciò che li riguarda, naturalmente detto e narrato nei modi e nei tempi adeguati. Ad ogni modo spesso i genitori non si rendono conto che anche se non usano le parole per comunicare certi momenti dolorosi, non significa che non manifestino quelle sofferenze attraverso il più profondo e incontrollato linguaggio non verbale. Con la mimica facciale, il tono di voce, l’atteggiamento corporeo il bambino percepisce molto bene le difficoltà emotive; in questi casi il bambino, non sapendo con certezza come stiano le cose, si preoccuperà ancora di più, immaginandosi problemi irrisolvibili e insuperabili. Se un

adulto non spiega bene le cose, il bambino tende comunque a darsi una risposta e quasi sempre tende a darsi la colpa di quanto sta succedendo. La paura degli abitanti di quel villaggio senza nome li aveva fatti convincere che era meglio non farsi domande e tantomeno dare risposte a quelle dei bambini. Di notte poi tutto era ancora più sconvolgente e misterioso e le domande erano del tutto bandite. Ma una notte, tra tutti i bambini del paese pieni di curiosità e voglia di sapere, proprio Mati e Maya, attirati da tutti quegli avvertimenti, dai silenzi e dalle paure degli adulti del paese, decisero di avventurarsi nel folto del bosco. Che strani erano i meandri della memoria, in quel paese: cose che gli abitanti cercavano in tutti i modi di ricordare, ogni tanto

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svanivano via e si nascondevano in fondo in fondo sotto la coperta dell’oblio. Mentre magari proprio quello che avevano deciso valesse la pena di dimenticare, proprio quello riaffiorava e sembrava quasi farlo apposta. A volte ricordavano fatti fin nei minimi dettagli, cose che forse non erano mai accadute. O si ricordavano cose che un tempo c’erano e poi non c’erano state più, le ricordavano con dolore e nostalgia, ma per la vergogna o la tristezza decidevano a tutti i costi che era solo un sogno. E dicevano ai loro bambini che non era altro che una leggenda. Ma come dice Amos Oz, l’autore del libro, la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero. Essere sinceri con i bambini è una sfida alla quale i grandi non devono rinunciare poiché gli adulti sono dei punti di riferimento per aiutare i bambini a capire il mondo concreto ed emotivo che li circonda.

Ai bambini non va celato che ci sono rabbia e dolore; non si potrebbe comunque impedire loro di sentire queste emozioni che, come tutti, proveranno nel corso della vita. Allora se i bambini saranno in grado di riconoscere la sofferenza, l’abbandono, la tristezza e il senso di solitudine potranno anche essere in grado di gestirle, elaborarle e non reprimerle. Solo così potranno superarle e trasformare la loro fortissima energia per proseguire nel cammino. Ed è proprio così che hanno fatto i due piccoli protagonisti del libro che hanno attraversato il paese, sono andati alla ricerca del mistero, hanno affrontato la

Anche nell’albo La grande domanda di Wolf Erlbruch (Edizioni e/o, 2004) si stimolano i lettori a porsi delle domande. In realtà il libro dà tante risposte sottolineando come alla grande domanda ognuno può dare una risposta diversa. Molti personaggi si avvicendano di pagina in pagina rispondendo alla domanda posta da un ipotetico protagonista, forse da un bambino: la sorella e il fratello, la mamma, il padre e la nonna; il cane e l’anatra, l’uccello e il coniglio, il panettiere e il pugile, il pilota e il marinaio; persino il soldato e l’uomo enorme, il cieco, il tre, la pietra e la morte.

“la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che… si svela ogni tanto, solo per un momento… a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero” paura e nel folto del bosco hanno scoperto la verità. Una favola che affronta le cose più semplici del mondo: crudeltà e compassione, menzogna e verità, paura e speranza.

Il pilota: sei qui per baciare le nuvole. La nonna: perché io possa coccolarti, ovviamente. La morte: sei qui per amare la vita. Il cieco: per avere fiducia.


La pietra: sei qui per restare qui. L’anatra: non ne ho la più pallida idea. La risposta che ciascuno di noi può dare si trova con il passare del tempo, forse. Si trova crescendo e si cambia affrontando la vita. Se gli adulti non cercano di riconoscere e non provano a gestire le proprie emozioni, se non tollerano la verità con silenzi o peggio menzogne, insegnano ai bambini a comportarsi così anche quando saranno cresciuti. Spesso anche per gli adulti è difficile affrontare le situazioni dolorose; ma piuttosto che negare le risposte alle domande dei bambini, o trovare spiegazioni poco verosimili, sarebbe meglio prendersi un po’ di tempo per guardarsi dentro e per trovare le parole giuste. Risposte come ad esempio Tutto bene, non c’è problema o Sei troppo piccolo per capire! possono essere sostituite da Ora non riesco a spiegarti con le parole, ma cercherò di farlo appena posso o Non mi sento bene in questo momento ma presto ci possiamo parlare. In questo modo non si fa sentire il bambino inadeguato, ma si mette l’attenzione su una incapacità

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momentanea dell’adulto. Ancora una volta si può mettere sul piatto la verità spiegando ai bambini che anche gli adulti provano delle difficoltà e possono essere tristi. I bambini così si sentono accolti nelle loro curiosità e non si sentono in colpa per quella situazione. L’intento che a volte hanno i genitori di proteggere il proprio figlio non dicendo la verità ha una conseguenza negativa rendendo il bambino meno sicuro e diminuendo in lui l’autostima. Se il papà è arrabbiato è colpa mia perché sono stato cattivo! Se la mamma piange è colpa mia perché non sono stato bravo!

Quindi ben vengano tutte le domande; magari le risposte non arrivano subito, ma riuscendo a tradurre le difficoltà con le parole, adulti e bambini possono intraprendere un percorso fatto di dialogo e di accettazione che li può portare all’elaborazione e al superamento delle sofferenze. I bambini sono generalmente addirittura più bravi degli adulti a riconoscere e a condividere le emozioni con gli altri. Naturalmente possono continuare a farlo solo se vicino hanno adulti capaci di aprire le orecchie e il cuore e in grado di stare ad ascoltarli e di amarli.


trentagiorni

Nozze gay, la Finlandia dice “sì” a matrimoni e adozioni omosessuali Con 105 voti contro 92, i rappresentanti scandinavi hanno deciso che il matrimonio non avrà differenze di genere e le coppie omosessuali potranno anche candidarsi per adottare figli. Soddisfazione del premier Stubb e dell’arcivescovo a capo della Chiesa luterana, Makinen Il Parlamento finlandese ha detto “sì” ai matrimoni e alle adozioni gay. Con 105 voti contro 92, i rappresentanti scandinavi hanno deciso che il matrimonio non avrà differenze di genere e le coppie omosessuali potranno anche candidarsi per adottare figli.

Una riforma storica per il Paese nordeuropeo, che nel 2002 aveva già riconosciuto le unioni civili tra persone dello stesso sesso, e che entrerà in vigore nel marzo 2017. La decisione del Parlamento risponde alla petizione presentata circa un anno fa, che raccoglieva circa 167mila firme in favore della riforma sulle unioni omosessuali. Il voto del Parlamento è stato accolto positivamente dal premier della Finlandia, Alexander Stubb, e dall’arcivescovo a capo della Chiesa evangelico luterana, Kari Makinen. “È un segno di attivismo della cittadinanza – ha dichiarato il primo Ministro alla tvYle – e dimostra che la

legge finlandese è in linea con quella di altri paesi nordici e occidentali su questa questione delicata e difficile”. La benedizione di Makinen, invece, è arrivata tramite un post su Facebook, in cui si legge: “So quanto questa giornata significhi per la comunità arcobaleno, per i loro cari e per molti altri. Gioisco con tutto il mio cuore per loro e con loro”. La giornata del voto è stata accompagnata dalle manifestazioni degli attivisti in favore dei diritti omosessuali fuori dal Parlamento. Secondo quanto riporta il Daily Mail, centinaia di attivisti hanno sfilato per le strade di Helsinki esultando per lo storico risultato. Fonte: ilfattoquotidiano.it


Un bambino italiano su tre è in condizione di povertà Nei Paesi sviluppati oltre 76 milioni di bambini vivono in povertà. Un dato allarmante, visto che sono 2,6 milioni in più rispetto al 2008. In Italia vive in povertà un bimbo su tre, con un aumento di oltre 600 mila negli ultimi sei anni. È il quadro che emerge dal nuovo rapporto Unicef «Innocenti report card 12 Figli della recessione», che riguarda dati e analisi di 41 Paesi dell’Ocse e dell’Ue. «Dal 2008 al 2012 - afferma il presidente di Unicef Italia, Giacomo Guerra - l’Italia registra una riduzione del reddito dei nuclei familiari, perdendo 8 anni di potenziali progressi economici. Il 16% dei bambini italiani è in

condizioni di grave deprivazione materiale». Dall’analisi il nostro Paese si colloca al 33esimo posto per quanto riguarda la povertà infantile. L’Italia, inoltre, con il 22,2%, ha il tasso più alto d’Europa di ragazzi che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione, i cosiddetti Neet. Fonte: La Stampa Scuola, bullismo ko con il metodo finlandese Affrontare il fenomeno del bullismo scolastico adottando un modello di prevenzione e contrasto accreditato a livello internazionale. È la sfida intrapresa dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia dell’Università di Firenze, che nell’anno 2013-14

ha organizzato in dodici scuole toscane (primarie e secondarie inferiori) di Firenze, Lucca e Siena una sperimentazione del programma antibullismo KiVa, progetto finlandese già testato in Olanda, Galles, Usa, Lussemburgo, Estonia e Giappone. Gli esiti dell’esperienza – che ha coinvolto 1.600 studenti e 100 insegnanti e che consiste in dieci lezioni annuali oltre ad interventi mirati nei casi più gravi – sono positivi: dalle rilevazioni della fine dell’anno scolastico il fenomeno del bullismo, nelle sue varie implicazioni e percezioni, risulta praticamente dimezzato nelle classi che hanno sperimentato il Modello. Fonte: Il Messaggero


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