Adozioni e dintorni - GSD Informa marzo-aprile 2015

Page 1

Adozione e dintorni GSD informa - mensile - marzo/aprile 2015 - n. 2

L’affido Sine-Die ini

Ritorno alle orig

arrivato è e d n ra g o li g Mio fi razia

c Adozione e buro

a casa



Adozione e dintorni GSD informa - mensile - marzo/aprile 2015 - n. 2

marzo/aprile 2015 | 002

L’affido Sine-Die i

Ritorno alle origin

e è arrivato a casa

Mio figlio grand

razia

Adozione e buroc

GSD informa

4

editoriale

di Luigi Bulotta

psicologia e adozione

6

Mio figlio grande è arrivato a casa di Andrea Redaelli scuola e adozione

14

La raccolta punti di Monica Nobile

18

Ritorno alle origini di Greta Bellando Diario di un’adozione - parte seconda di Valentina Cafiero Adozione e burocrazia

giorno dopo giorno

22 30

leggendo

37

Parole fuori di Marina Zulian sociale e legale

38

L’affido Sine-Die di Monica Neri

42

trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro direttore@genitorisidiventa.org; Simone Berti, Firenze

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pier Paolo Puxeddu+Francesca Vitale studio associato, Roma progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Luigi Bulotta

Quel meraviglioso effetto collaterale

editoriale

4

Una delle frasi tipiche che le famiglie adottive spesso si sentono rivolgere è: “Che bella cosa che avete fatto…” , una frase che in genere infastidisce, perché chi adotta non ha, in genere, in animo di fare una buona azione, vuole solo creare una famiglia e l’adozione è stato solo uno dei modi per costruirla. È innegabile, però, che diventare famiglia per adozione, oltre alla dimensione strettamente privata, comune a tutte le famiglie, riveste una dimensione pubblica ed ha una ricaduta sociale perché realizza il diritto fondamentale di ogni minore di crescere in una famiglia. Quindi in fondo è vero: le famiglie adottive compiono realmente una buona azione, una funzione sociale, e riparano a dei torti sociali, quelli subiti dai loro futuri figli, nonostante questa non sia stata generalmente la molla che li ha spinti, ma rappresenta solo un effetto collaterale. Un meraviglioso effetto collaterale, diciamolo pure. Quello che sarebbe logico aspettarsi, alla luce di tutto ciò, è che le famiglie che si rendono disponibili all’adozione siano supportate nella realizzazione di questa loro volontà, ma questo purtroppo non è quello che avviene. Quello a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni è invece una crisi complessiva del sistema adozioni, con un crollo nelle adozioni internazionali e un calo consistente del numero di richieste di decreti di idoneità. Quali sono le difficoltà che incontrano le famiglie nel loro percorso? Quali sono i loro bisogni? Per una coppia che si avvicina all’adozione i costi sono il primo forte deterrente, quello che può fare la differenza e spingere a desistere dall’intraprendere questa strada.


E invece, sul fronte dei costi, poco è stato fatto per cercare di andare incontro alle famiglie e gli aiuti disponibili – deducibilità fiscale e rimborso parziale – arrivano ad adozione conclusa. Quest’ultima è una misura molto aleatoria dal momento che attinge ad un fondo che viene rifinanziato con mille difficoltà e ad oggi gli ultimi rimborsi si riferiscono alle adozioni concluse nel 2011. Oltretutto, quando si parla di costi, quasi mai si tiene conto di quelli occulti e non evidenti ai più, quelli che le famiglie affrontano ad adozione conclusa, quando, sempre più di frequente, si manifesta la necessità di terapie, di percorsi di recupero per i bambini o di sostegno per l’intera famiglia. Aiuterebbe di certo una semplificazione burocratica, una revisione delle prassi e delle procedure condivise tra tutti i Tribunali, quando oggi ognuno di essi è una repubblica a sé con proprie regole e propri “modus operandi” ( v. le osservazioni di una mamma in attesa sui TdM in questo stesso numero). Servirebbero servizi sociali, non sottodimensionati dai continui tagli che sul sociale si sono abbattuti, che possano garantire un iter sereno e in tempi ragionevoli per l’ottenimento dell’idoneità e, soprattutto, la possibilità di essere supportati, al rientro, qualora se ne verificasse la necessità. Servirebbe un profondo ripensamento del “sistema” degli enti autorizzati, magari ridurne il numero fin troppo abbondante, ad oggi 62, e provvedere ad una razionalizzazione delle regole che pongano al centro le famiglie e la trasparenza di prassi che debbono essere condivise tra tutti gli enti, mentre oggi ognuno di essi propone alle famiglie regole di conferimento incarico diverse uno dall’altro. L’autorità centrale dovrebbe svolgere un più forte ruolo nella guida di questo complesso sistema, esercitando una forte propulsione nei confronti dei paesi, di affiancamento e controllo degli enti, di tutela e garanzia delle famiglie. In questo momento di forte difficoltà per l’universo adottivo, servirebbe che tutti gli attori di questo complesso sistema, governo e politica in primis, si riappropriassero del loro ruolo e lo svolgessero al meglio. Le famiglie già lo fanno. Ci aspettiamo molto anche dagli altri.

5


psicologia e adozione 6

di Andrea Redaelli psicologo, psicoterapeuta sistemico-familiare e formatore freelance

Mio figlio grande è arrivato a casa

“Io lo sapevo che mio figlio sarebbe stato grande, avrebbe avuto 10 anni. Noi avevamo detto di si quando l’Ente ce lo aveva chiesto. Ma ora è casa con noi e mi sembra tanto grande”. La scelta di adottare un bambino grande, o meglio in età scolare, a volte può essere frutto di un percorso della coppia, di una proposta dell’Ente o di una scelta che nasce dal desiderio di non vedere allungarsi a dismisura il tempo dell’Attesa. E sottolineo allungarsi a dismisura, perché a parte alcune scelte che potremo definire forti, passare da un ‘età di 6 ad una età 8, seppur nelle differenze tra i paesi, non rende l’iter adottivo più veloce. Diversamente potrebbe esserlo se passano da un’età di 4 anni ad una di 8 anni.

A parte questi dettagli tecnici, che sempre meglio che ognuno discuta apertamente con il proprio Ente, l’arrivo di un figlio grande comporta talvolta alcune difficoltà di adattamento/ inserimento. Suscita preoccupazioni e ansie. Come sempre la motivazione che ci ha spinto a fare questa scelta, seppur dentro le stesse fatiche, ci permette di affrontare queste difficoltà con maggiore consapevolezza e serenità. Questa è fondamentale per trovare la strada della soluzione più rapidamente. Siamo anche più propensi a consultare esperti (coppie od operatori dell’adozione) in quanto ci sentiamo meno messi in discussione come genitori e meno ci critichiamo per la scelta fatta. Siamo più consapevoli che le difficol-

tà ci sono e che solo sono quelle che stanno creando tanta fatica. Tralasciando ovviamente il caso in cui questa scelta sia stata fatta senza una reale consapevolezza o sia frutto di altre problematiche, adottare un bambino già grande comporta indubbiamente alcune peculiarità. Non che un bambino grande sia maggiormente segnato dalla ferita dell’abbandono (quella è sempre una ferita che solo soggettivamente può essere accolta e vissuta), ma perché nostro figlio ha già una sua storia. Queste storie sono spesso cariche di bassa autostima, di sfiducia nell’adulto e talvolta anche di nuovi abbandoni a seguito di tentativi di affido e/o adozione falliti.


In questi casi il già difficile percorso verso un “attaccamento” sano e positivo non è stato solo interrotto, ma può essere stato ulteriormente messo in discussione da esperienze dolorose, o anche solo da una impossibilità da parte di questi bambini di darsi una spiegazione positiva, reale, di quanto a loro accaduto. Comunque, in generale i “bambini grandi” si sentono in colpa, non trovano nell’adulto una persona di cui potersi fidare nuovamente o non lo riconoscono come una persona pronta ad accoglierli e ascoltarli individualmente, anche perché spesso chi vive a lungo in un istituto ha vissuto un’infanzia “collettivizzata”. Tutte esperienze che nostro figlio ha bisogno di

ti, di lasciare che il proprio amore venga affidato a qualcuno di incapace e impreparato ad accoglierlo è veramente tanta. Per lui in questi casi è meglio mettere da subito in chiaro quanto potrebbe accadere. Forzando eventuali tappe. Quindi meglio fin da subito, piangere, gridare, picchiare, minacciare, cercare di scappare, lanciare, mordere, etc. Meglio mettere sotto sforzo da subito i miei genitori per comprendere quale sia la loro resistenza e il loro limite. Per vedere se ne vale veramente la pena. Un po’ come all’Ikea dove, per invogliarti a comprare La possibilità che i nostri un cassetto, dei braccetti figli dopo l’abbandono ab- automatici ti mostrano che biano vissuto anche espe- può resistere a migliaia di rienze di attaccamento aperture e chiusure. Per positive non è da esclude- rassicurarti nella scelta. re, ma la paura di essere Esattamente di questo ha nuovamente abbandona- bisogno nostro figlio: di espoter raccontare, di poter comprendere nuovamente, ma che spesso mettono in luce, primariamente, una difficoltà ad affezionarsi. Quasi una paura. A volte inscenata attraverso un percorso di “messa alla prova” della tenuta dei genitori attraverso un campionario di atteggiamenti, di eventi e comportamenti che potrebbero spaventare o angosciare chiunque. Sono le grida di aiuto. Sono comportamenti che oggi potremmo definire devianti o problematici. Sono la manifestazione corporale di quanto verbalmente non può essere espresso.

7


8

sere rassicurato, di essere accolto, di potersi fidare. Non ha bisogno che non gli sia detto di no o che non gli si dica che sta sbagliando. Ma ha bisogno di sapere che non è cattivo, che non è stato abbandonato perché è cattivo. Ha bisogno di riuscire a nominare quel gran groviglio che sta dentro di lui, dove pensieri ed emozioni si mescolano rendendo entrambe inservibili. Come noi buttiamo il filo da pesca quando si ingarbuglia, lui preferisce buttarsi via piuttosto che stare li meticolosamente a districare la matassa. Ha fretta. Ha fretta di sapere cosa accade. Ha fretta di poter tornare a sognare e a sognare senza che ogni suo sogno venga infranto dagli adulti. Ha bisogno che qualcuno lo fermi. Lo rimproveri, ma non lo sgridi. Gli sap-

pia indicare il confine tra il bene e il male. Qualcuno che sappia capirlo. Ha bisogno di sapere che può sbagliare. E che non sarà per questo che qualcuno lo rifiuterà. “Ma mio figlio è già grande e deve andare a scuola, altrimenti rimane indietro”. Anche questo è vero ma solo parzialmente. Andava a scuola nel suo paese ed è normale che vada a scuola anche qui che è a casa. Ma questo può essere rischioso se fatto con troppa fretta e poca cautela. Andare a scuola richiede delle competenze che nostro figlio deve acquisire nuovamente. Richiede un senso di quotidianità e di continuità tra i momenti in cui è a casa e i tempi in cui è scuola. Una capacità di assumere un ruolo di

alunno e di saper entrare in relazione con il gruppo dei pari e con l’istituzione scolastica. Al suo arrivo non è pronto ad affrontare tutto questo. La socializzazione non è un bisogno primario, ma secondario. Quello che il bambino deve recuperare è il bisogno di protezione, di accudimento, di sicurezza. Solo il poter stare con i propri genitori, recuperando quel rapporto simbiotico che il neonato vive, lo accompagna verso la fase del distacco e riavvicinamento che tutti i bambini vivono nel corso del loro sviluppo. Appare naturale che nostro figlio voglia stare in casa. Sia incuriosito dall’esterno, ma che spesso sia desideroso di tornare a casa e che solo lì, da solo con la sua famiglia, si senta sereno e protetto. La fase dell’angoscia del


distacco, a qualunque età arrivi nostro figlio, dovrà sempre riviverla e superarla. E di norma accade intorno all’ottavo mese. Per superarla dovrà sviluppare prima un forma di attaccamento sano che gli permetta di separarsi senza angoscia e con la sicurezza che potrà tornare a casa. Anche se quando era in Istituto era autonomo, stava sempre in mezzo agli altri e non cercava nessuno. Quei tipi di comportamento sono spesso il sintomo di una socializzazione forzata. Un “modus operandi” dettato dalla sopravvivenza piuttosto che uno pattern comportamentale interiorizzato. Più una incapacità di differenziare le relazioni piuttosto che un sintomo di un bambino sicuro di sé, sereno. Una forma di adattamento ad un contesto che

lo ha costretto a saltare alcune fasi naturali dello sviluppo. Le sue autonomie tanto sbandierate e le sua capacità di saper gestire sé e i proprio spazi vengono a mancare in breve tempo. Da una parte c’è un disimparare abitudini forzate, dall’altra, di nuovo, un mettere alla prova. Ma soprattutto vive quella naturale regressione della sua fase evolutiva che gli permetterà di recuperare quanto nel suo percorso di crescita non ha potuto interiorizzare apprendere o manifestare in quanto nessuno poteva accoglierlo o in quanto la sua situazione non glielo permetteva. Per cui, magari se era molto bravo in matematica, oggi ha bisogno di riscoprire come si fa ad abbracciare ed essere abbracciati, giusto per semplificare con una im-

magine. E la matematica oggi potrebbe essere la sua odiata materia. Quella in cui ha maggiori difficoltà, perché ormai non rappresenta più l’unico strumento per essere apprezzato. L’unico mezzo per sentire un po’ di affetto. Quindi prima di rientrare nel circuito della normalità della scuola appare necessario recuperare una normalità dell’esistere, emotiva e psicologica, e una normalità dell’essere figlio. “Mi avevano detto che mio figlio aveva 9 anni. Nelle carte c’è scritto così. Invece appare più grande” Talvolta le carte che accompagnano nostro figlio sono imprecise. O apparentemente non corrispondono alla realtà osservabile. La cosa più normale che

9


10

possiamo sicuramente vivere è il disorientamento. Talvolta accompagnato da un senso di sfiducia nei confronti del Paese d’Origine e talvolta anche dell’Ente Autorizzato. Tutto questo è normale. Anche perché a quell’età la differenza di uno o due anni appare evidente. Abbiamo paura che possa avere difficoltà ad inserirsi nel gruppo dei pari. O che, se decisamente più grande, stia vivendo delle fasi dello sviluppo corporeo totalmente dissimili da quelle dei suoi apparenti coetanei. L’adozione va sempre incontro ad un certo grado di incertezza legato al Paese. Non necessariamente la responsabilità è dell’ente Autorizzato o del Paese d’origine. Talvolta può anche essere solo legato a singoli funzionari. Il fatto che l’età ufficiale non corrisponda alla sua età anagrafica non è sempre causa di un dolo per-

petrato contro noi poveri ingenui novelli genitori. Alcune discrepanze possono essere legate all’incertezza dell’origine a seguito di un ritrovamento di nostro figlio senza alcun documento e una datazione sommaria iniziale, etc. Questo sicuramente porrebbe ulteriori ombre nella conoscenza della sua storia. Molto probabilmente non conosceremo nulla dei suoi primi anni e forse le notizie recuperate avranno omissioni che riguardano diversi mesi o anni della sua vita. E che forse mai riusciremo a recuperare. Ma chi in realtà avrebbe bisogno di recuperarle? Noi genitori o i nostri figli? Forse sarebbe più importante per i nostri figli. Forse non è un caso che da grandi ci chiedano “ma io com’ero quando ero piccolo? Com’ero quando sono arrivato?” Sono domande che gli rassicurano che gli permettono di recuperare una immagine di se che

non ricordano. Gli aiuta a darsi una coerenza con l’immagine che loro hanno di loro stessi ora. Ma se alla domanda sul loro arrivo sapremo dare una risposta ci saranno quelle relative alla sua origine a cui potremo dare solo una risposta parziale, fatta delle carte che ci sono state date dall’Istituto o dalla famiglia affidataria: frammentarie informazioni. Talvolta saranno loro stessi, in uno slancio inaspettato di fiducia e condivisone, a raccontarci qualcosa di loro. Questo, a volte, invece che riempirci il cuore ci potrà imbarazzare perché non sappiamo cosa dire, cosa rispondere, come accoglierlo. La non conoscenza della propria storia, in chi ha vissuto l’esperienza dell’abbandono, diviene una ulteriore ferita che non permette la ricostruzione di una linearità del proprio percorso, dei propri perché, con una conse-


guente maggiore fragilità nella costruzione del proprio sé. Ed è proprio lì che noi dobbiamo accompagnare nostro figlio. Nel portare insieme a lui il peso del vuoto e il desiderio della conoscenza inappagabile. Quando andrà a scuola certamente i suoi compagni appariranno più piccoli di lui. Questo potrà sottolineare una differenza tra lui e gli altri. Un’altra differenza che si aggiunge a quella della lingua, della cultura, dei giochi, dei metodi di apprendimento, della storia personale, del vissuto, della la sua situazione familiare, etc. Tutte cose che, indipendentemente dal fattore età dovrà comunque affrontare. Anche questa, come le altre, potrà vivere a nostro figlio un senso di confusione e spaesamento che necessità una ulteriore cura e accoglienza. Tutto parte da li, da quanto potrà sentirsi al sicuro

con noi. Solo quello gli potrà permettere di affrontare le sue nuove esperienze, il suo essere differente. Il suo essere unico. Certo che se il divario di età è tra gli 8 o i 10 anni sono tante le differenze da dover affrontare. Ma se la differenza è tra 11 e 13 queste sono maggiori. Soprattutto se nostro figlio è nostra figlia e mentre affronta i nuovi giochi con le bambole deve anche affrontare lo sviluppo fisico che la proietta già nel suo essere donna e nel nostro immaginario più autonomo nel suo essere figlia. Ma questo è solo il nostro immaginario. Lo sviluppo fisico è sicuramente una fase di transizione un cambiamento ormonale che ci costringe ad affrontare argomenti difficili. Oltre ad esigenze, attenzioni e talvolta pulsioni differenti. Per quanto possa essere complessa la situazione, per quanto non ci aspet-

tassimo di vivere tutto questo, per quanto possa essere un elemento di ulteriore difficoltà per nostra figlia, e di conseguenza per noi, questo è soprattutto un ulteriore elemento di vulnerabilità che abbiamo il compito di proteggere. Siamo noi che abbiamo la possibilità di vivere al suo fianco questa esperienza. In questi casi viene richiamata ancor più la nostra responsabilità nel rassicurare nostro figlio, nel riuscire a rendere a lui comprensibile ed accettabile quanto gli sta accadendo, La storia dei nostri figli e il superamento delle loro difficoltà passa sempre attraverso la loro comprensione e il relativo vissuto dei genitori. Non da quanto queste possano essere difficili o inaspettate. L’essere genitori significa essere il punto di riferimento, essere il luogo dove sentirsi di nuovo sicuro, protetti e “spiegati”. Siamo la possibilità affin-

11


12

ché lui possa ricostruirsi una sua cognizione e una sua narrazione di quanto accaduto. Un modo di rivedere la sua storia che possa avere una connotazione emotiva e psicologica positiva, resiliente. Possiamo essere quell’abbraccio che possa sentire realizzato il suo desiderio, il suo bisogno e diritto di essere figlio. Che rimane uguale a 8 anni come a 10 o 13 anni. “Mio figlio cresce in fretta. Non è più quello che ho conosciuto quando è arrivato.” Il bambino ideale, il bambino sognato, sarà sempre diverso da quello reale. E il bambino incontrato la prima volta sarà sempre diverso da quello che sarà a casa con noi dopo alcuni mesi e di quello che ho letto la prima volta sulla scheda. A qualsiasi età esso arrivi i suoi cambiamenti saranno repentini e inaspettati. Non faremo in

tempo ad abituarci ad una trasformazione che già un’altra sta facendo il suo corso. Nel fisico, nel comportamento, nel carattere. Sicuramente però l’arrivo di un bimbo già grande ci porta ad affrontare lo sviluppo e i cambiamenti fisici tipici dell’adolescenza e della preadolescenza non molto tempo dopo l’arrivo di nostro figlio. La consapevolezza di tutto questo non ci può togliere lo sgomento. Questo è legittimo e per alcuni versi sano e doveroso. Sarebbe piuttosto innaturale che non rilevassimo questo passaggio importante. Sarebbe invece poco proficuo rimanere fermi a questo dato. Un immobilismo che ci porta ad essere soffocati in un processo di autoanalisi del nostro essere genitori e del suo essere figlio.

e figli e, come conseguenza, tra figli e genitori. Solo la costruzione di quel legame speciale potrà permetterci di essere genitori e a lui di essere figlio. Di poterci riconoscersi attraverso il riconoscere l’altro. Di poter vivere insieme i cambiamenti.

A qualunque età arrivi, qualunque siano i cambiamenti a cui assisteremo, più o meno repentini, solo la capacità di ricostruire una storia comune a partire dalle nostre singole storie di coppia e di bambino, per quanto dolorose siano state, ci permette di riconoscerci genitori e a lui di riconoscersi figlio. Di riconoscersi appartenente alla storia della sua famiglia pur avendo avuto una storia solo sua precedentemente. Di riconoscersi in due culture. In due lingue. Il superamento e l’affron- A volte in differenti tratti tare questa difficoltà par- somatici. Sentirsi di “apte, ancora una volta, da partenere”, perché accolquell’esclusivo rapporto ti, abbracciati, ascoltati. che si instaura tra genitori Compresi. Desiderati.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

E R

ww w. c

oo

rd

in

am

en

to

ca

re

.o

rg

A C

Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

15


scuola e adozione

di Monica Nobile pedagogista, counsellor

La raccolta punti 14

I genitori di Stefano mi chiedono di incontrare le sue insegnanti. Stefano è stato adottato tre anni fa in Etiopia. Al suo arrivo ha frequentato per due anni la scuola d’infanzia ed ora, in prima elementare, sembra non essersi adeguato alle regole della scuola. Non riesce a stare fermo, gira spesso per la classe, disturba i compagni. Quando arriva a scuola tergiversa, va su e giù, temporeggia in corridoio, ci mette un bel po’ per raggiungere il suo banco e organizzare il suo materiale per la lezione. Interrompe la maestra, cerca di avere costantemente la sua attenzione, con le buone o con le cattive. All’inizio dell’anno aveva forti difficoltà nell’esecuzione dei compiti, pasticciava il quaderno, faticava a rispettare le linee. Non stava nei

limiti, insomma, né sul quaderno, né in classe. Incontro le maestre. Mi dicono che ora va un po’ meglio, che Stefano è più ordinato, che sì devono continuamente richiamarlo ma accetta un po’ di più di rientrare nei ranghi. Tuttavia, mi spiegano, richiede sempre un impegno superiore alle loro forze. Anche perché, mi dicono praticamente in coro, non hanno solo lui, hanno tutta una classe a cui badare, tanti allievi, ciascuno con i suoi problemi. Le ascolto con attenzione, le osservo, mi appaiono stremate. Provo a spiegare il vulcano interiore che spesso portano dentro i bambini adottati. Parto dall’inizio, l’abbandono, i traumi, la fatica di ambientarsi in un nuovo paese, il percorso di riconoscimento delle nuo-

ve figure genitoriali, la pelle scura in un mondo di bianchi, la paura di lasciare tutto ciò che si ha salendo su un aereo che porta chissà dove. Spiego che tre anni sono pochi, ancora pochi, per poter superare tanti ostacoli, per alleggerire un bagaglio tanto pesante. Azzardo qualche ipotesi; potremmo pensare insieme ad alcune strategie utili per contenere l’irruenza di Stefano. Mi interrompono subito. L’insegnante di italiano mi spiega che hanno già messo in atto la loro strategia. Mi mostrano un tabellone affisso in classe, che riporta i nomi di tutti gli allievi. A fianco del nome ci sono delle puntine colorate. Capisco che si tratta della Token Economy. È un sistema comportamentista di rinforzo che utilizza dei


15

gettoni; la teoria vuole che il gettone sia dato al momento del comportamento positivo, per fare subito da rinforzo, al raggiungimento di un numero concordato di gettoni, si riceve un premio. Variazioni di Token Economy si vedono in tutte le scuole: c’è chi utilizza stelline, chi faccine sorridenti, chi puntine colorate…, c’è chi da in premio una medaglia di carta, chi un attestato di lode, ecc. La Token Economy è fina-

lizzata ad aiutare i bambini ad assimilare le regole. Può essere usata anche in area didattica, per premiare l’impegno nel lavoro o nei compiti a casa. Guardo la casella di Stefano desolatamente vuota e chiedo alle maestre se Stefano prenda mai un punto. Sorridono e mi dicono che effettivamente fatica a riceverne. Osservo, allora, che forse questa tecnica rischia di rinforzare ulteriormente i comportamenti fuori dalle righe di

Stefano. A questo punto l’insegnante di italiano si fa rossa in volto. Mi dice che non sopporta più che arrivi l’esperto di turno a criticare, che loro devono badare a una classe difficile, che oltre a Stefano ci sono almeno altri tre bambini incontenibili. Che loro stanno sudando sette camicie e che a quella tecnica hanno dedicato molto impegno, fatica e attenzione e che adesso non posso arrivare io a dire che non funziona…


16

Mi fermo un istante. Prendo la mia borsa ed estraggo il mio taccuino. È un piccolo quadernetto a forma di cioccolata morsicata. Lo tiro fuori quando devo ricordarmi che sono capace di mantenere la calma, il senso dell’umorismo e soprattutto la creatività che probabilmente mi ha portata a fare la professione che faccio. Mi funziona da rituale zen. Mi rivolgo all’insegnante infuocata e le dico che mi dispiace, che la vedo esasperata, che non intendevo in alcun modo criticare il suo lavoro, che volevo solo riflettere insieme a lei e alle colleghe come quella strategia, basata per altro su presupposti teorici seri e consolidati, potesse funzionare con Stefano. L’insegnante si rende conto, forse le ha fatto anche simpatia il mio quadernetto, mi chiede scusa. Le propongo di lasciar perdere le scuse e di ricominciare daccapo.

Interviene l’insegnante di matematica e mi spiega che nemmeno loro, quando lo psicologo l’aveva proposta, erano d’accordo con questa tecnica. Mi spiegano che si sono rese conto da subito che poteva diventare un boomerang, che da subito Stefano e non solo lui, aveva avuto degli attacchi d’ira scoprendosi non meritevole di punti. Che avevano quindi optato per dare i punti al miglioramento, in qualche modo alle buone intenzioni, così che anche i più turbolenti potessero conquistare qualche punto. Mi spiegano anche che per valorizzare Stefano talvolta gli assegnano punti anche se non se li merita. Evito di esprimere a voce alta la mia preoccupazione per la confusione che può insorgere in Stefano, che talvolta riceve punti immeritati. Mi chiedo, ma solo tra me e me, quali conseguenze trarrà… Penso che nella teoria la

Token Economy deve essere utilizzata nell’immediato del comportamento positivo e senza dare troppo peso ai comportamenti negativi; è finalizzata infatti a dare rinforzo puntuale di comportamenti positivi, per arrivare ad estinguere quelli negativi. Si tratta di un lavoro lungo e complesso che va fatto in maniera continuativa se si vogliono ottenere risultati. Vista la complessità della tecnica, la Token Economy, se svolta nei confronti di tutta la classe, richiede impegno, un impegno che spesso gli insegnanti in continua emergenza non possono garantire. Penso soprattutto alla bassa autostima dei bambini adottati e ancora mi chiedo se possa essere questa una via giusta. Troppo spesso mi è capitato di ascoltare genitori, preoccupati o arrabbiati, perché il loro figlio adottivo diventava aggressivo, o chiuso, o triste o tutte e tre le cose


insieme, in alcuni casi che non volesse più andare a scuola, per non aver mai preso un premio in classe. Non posso fare a meno di trattare questa questione, preferisco affrontare un altro attacco d’ira ma devo dirlo. Spiego che a causa del loro trascorso e di tutto ciò che avevo descritto prima, i bambini adottati hanno nella grande maggioranza una bassa autostima. Spiego la mia preoccupazione per Stefano. Dico loro che hanno fatto un buon lavoro, che Stefano, nonostante tutto va a scuola volentieri. Che ha bisogno di essere molto valorizzato e rinforzato per potersi consolidare, per poter tenere a bada tutte le emozioni che lo fanno essere tanto indisciplinato a scuola. Dico che per il nostro lavoro, soprattutto in questi tempi difficili, abbiamo bisogno di tutta la nostra creatività. Che le teorie ci possono orientare ma che è nella situazione

concreta e reale di tutti i giorni che non dobbiamo mai smettere di inventare soluzioni e che una volta trovate non lo saranno per sempre poiché per fortuna l’essere umano è unico e irripetibile. Mi sembra che accettino, questa volta. L’insegnante di matematica mi dice che lei ha conquistato la classe proponendo l’aritmetica con i mandala. Continuiamo a lungo, anche l’insegnante di italiano ci sta. Parliamo di libri e di letture. Di albi illustrati che aiutano a trattare in classe il tema delle emozioni. Delle linee guida del MIUR per il diritto allo studio dei minori adottati. Non ne sapevano l’esistenza, prometto di spedirgliele e aggiungo che prevedono l’attivazione di percorsi formativi per insegnanti. Ce l’abbiamo fatta, almeno spero. La raccolta punti resterà al suo posto, ma la maestra di italiano aspetta una mia bibliografia per

proporre letture in classe sulle emozioni e iniziare con i bambini un percorso creativo su questo tema. Mi chiede addirittura se può chiamarmi per confrontarsi sulle idee che ha per questa attività di gruppo. L’insegnante di matematica si offre di parlare con la dirigente per chiedere di promuovere un incontro formativo sull’accompagnamento scolastico dei bambini adottati. Salutandoci ancora l’insegnante mi chiede scusa, mi abbraccia (!) e mi dice che ultimamente fare scuola è davvero dura, che si sente depauperata e sola, che sente messa a dura prova la passione per la sua professione. Fuori diluvia, sotto l’ombrello la mamma di Stefano esclama: “avevano bisogno di sfogarsi…” Non sono sicura sia una sintesi, certamente ho sentito la fatica e la difficoltà. Meno male che avevo il mio quadernetto.

17


le relazioni giorno dopo degligiorno affetti

di Greta Bellando

Ritorno alle origini

il racconto di S. del suo viaggo in Brasile 18

Carissimi lettori, riprendiamo il nostro viaggio, dalla Russia voliamo in un nuovo Paese, che non abbiamo ancora ‘esplorato’: il Brasile. Saremo accompagnati da S. e dalla sua famiglia, che l’ha accolta neonata a soli due mesi di vita: “Non c’è mai stato un momento di ‘rivelazione’, diciamo che l’adozione si è sempre ‘respirata nell’aria’, l’ho sempre saputo, senza che me l’abbiano detto, anche perché eravamo ‘palesemente’ diversi”. “Ricordo un episodio”, aggiunge, “Una volta ho chiesto a mia mamma chi mi avesse fatta, insomma, mi ero resa conto di essere diversa da loro, quindi con un po’ di tenera ingenuità mi sono fatta avanti e ricordo che mia mamma non rimase impreparata, bensì colse la mia richiesta e cercò di spiegarmi il mio

vissuto attraverso la storia di una micia che non potendo accudire i suoi cuccioli li dava ad altre gatte e, così aveva fatto anche mia mamma… quella di nascita. Rimasi così soddisfatta della sua risposta che non chiesi più nulla”. Gli anni della crescita, della ‘famigerata’ adolescenza sono trascorsi serenamente, si condividevano le informazioni sul ‘prima’ e si costruiva pezzo dopo pezzo il futuro. “I miei genitori, ma soprattutto mio padre” racconta “è sempre stato innamorato del Brasile, poiché gli aveva donato una figlia e i miei tutti gli anni mi proponevano di tornare, ma a me non importava. Noi facevamo un viaggio ogni anno ma io non sono mai voluta tornare là, buttavano l’amo ma io non ho mai abboccato”. S. oggi è insegnante di so-

stegno, la sua tesi di laurea l’ha dedicata alla tematica adottiva e lo stesso percorso di studi l’ha aiutata a riprendere il filo dalla matassa della sua vita: “La tesi sull’adozione mi ha aperto un mondo” riprende fiato, poi aggiunge: “Dopo questo lavoro, l’unico pezzo che potesse mancarmi era il viaggio di ritorno. Una volta discussa la tesi ho capito che era il momento giusto, sono partita assieme ai miei genitori, e lì si è chiuso il cerchio, perché ho capito tutto, perché vedendo in prima persona il Brasile e quello che era, ho capito che quella dei miei genitori di nascita è stata davvero una scelta d’amore, perché le mie zone erano e sono tutt’oggi davvero poverissime e arretrate”. Ci interrompiamo qualche istante, le chiedo di raccontarmi le sue emo-


19

zioni in quei luoghi, quelle che compaiono maggiormente nella sua memoria: “Sai, dopo aver visto il ‘vero Brasile’ ho capito che quella scelta, compiuta ormai 30 anni fa, sia stata dettata dalla condizione di estrema povertà della mia Terra d’origine. Oggi, dopo aver visto il tutto con i miei occhi, sono convinta che quella decisione sia stata la migliore per la mia vita”. Oggi S. è anche mamma di un bimbo di quasi 2 anni: “Ora parlando da mamma e non solo da figlia ritengo che il gesto dei miei genitori di origine non sia stato per niente semplice; il pensiero di lasciare un bambino per dargli una vita migliore è un atto di amore grandissimo che va oltre il fatto di mettere al mondo un figlio.

Io non ho mai condannato i miei genitori biologici ma dopo esser stata in Brasile ho avuto ancora più chiaro il loro gesto”. Le chiedo se quello che ha visto era quello che si aspettava di trovare, ci pensa un istante, e poi con tono sicuro aggiunge: “No, pensavo fosse un luogo povero, ma non così povero…la condizione di quella gente mi ha toccata nel profondo”. Percorriamo passo dopo passo le tappe di questo viaggio sia interiore che fisico, mi racconta di esser tornata a vedere l’ospedale in cui è nata ed in cui i suoi genitori adottivi l’hanno conosciuta a soli due mesi: “Siamo tornati a vedere questo posto, era un grattacielo, mio papà mi ha fatto vedere la finestra da cui

si affacciava di notte quando io non lo facevo dormire… è stato molto emozionante!”. Rispetto alla cultura brasiliana: “Mi sono sentita un po’ estranea, quei colori e quelli odori non li sentivo miei. C’è da dire che io sono cresciuta in una città del nord Italia e la cultura italiana mi ha inevitabilmente influenzata in tutto e per tutto, anche se riconosco di aver captato là una bellissima solarità, una gioia, una voglia di vivere fantastica, insomma mi ritrovo moltissimo nel toda gioia, toda beleza!” Poi continua: “Ho sperimentato l’ambivalenza nell’essere simile a loro somaticamente ma è capitato che si rivolgessero a me in portoghese ed io non sapessi rispondere. Loro davano per scontato


20

che fossi una brasiliana, io rimanevo basita e loro più basiti di me”. Poi mi ricorda un episodio, uno tra i tanti “particolari” della sua vita, come dice lei; proprio prima di rientrare a casa: “In aeroporto non volevano più farmi tornare indietro, poiché non capivano dai documenti perché io, essendo nata in Brasile, avessi la cittadinanza italiana e quindi alla mia partenza ho dovuto spiegare la mia storia e quando alla fine si è risolta la vicenda mi sono sentita sollevata di dovere andare via”. “Come hai vissuto quel momento?” – le chiedo – “Questa cosa mi ha fatta arrabbiare, sentire tutte queste cose nel posto in cui sono nata mi ha fatta rimanere male per il loro atteggiamento nei miei confronti. Il dover dare delle spiegazioni sul-

la mia origine, nel mio Paese di origine, mi dava un po’ fastidio, era pure un po’ contradditorio”. Questo viaggio le ha dato la spinta giusta, una “folata di vento” per voltare pagina e scrivere nuovi capitoli della sua vita: dal matrimonio alla nascita del suo bimbo. Aggiungiamo un nuovo tassello di questa esperienza: “Com’è stato vivere questo viaggio assieme ai tuoi genitori?” Sorridendo mi dice: “Ci ha uniti ancora di più, finalmente abbiamo toccato con mano, assieme, quella realtà di cui parlavamo spesso”. E continuo con un’ultima domanda, le chiedo di paragonare il viaggio ad un oggetto: “Dunque, direi una bussola che segna il Nord perché lì la mia vita è riiniziata e la bussola è stata di nuovo puntata da

dove è stata lasciata, avevamo lasciato una cosa in sospeso e tornando lì l’abbiamo rimessa a posto”. Oggi S. è mamma di M.: “Mi somiglia molto, anche se è difficile dirlo poiché lui è bianco latte come il suo papà, ma i lineamenti sono i miei! Un giorno, quando sarà un po’ più grande, gli parlerò della mia storia.. ne parlerò ai miei figli, a tutti quelli che arriveranno. L’adozione nella mia vita è un continuum, credo che mi regalerà ancora delle belle sorprese come quelle già ricevute. Oggi quando passeggio con il mio bambino vedo molti sguardi curiosi, qualche temerario è arrivato a chiedermi se è stato adottato… ed ecco lì che il mio passato torna, la mia storia si riavvolge e risuona tra la mente e il cuore nella nostra semplice quotidianità”.


post

GSD attiva sul territorio gruppi di auto aiuto dedicati al Post adozione e all'Attesa, organizza incontri di sensibilizzazione e informazione, copre le spese vive contribuisce a coprire i costi

Una vostra firma si trasforma in GSD in attivitĂ concreta per le famiglie

e per tutti coloro che si avvicinano al mondo dell'adozione.

attes

ubbli p i r t n

di 5 per 1000.

in c o

Ora è di nuovo tempo

ci

Il nostro CF è: 94578620158

io n -aiuto o u az

che partecipano.

a

mu t

a favore delle famiglie

rm

dell'assemblea nazionale

i nfo

di sezioni territoriali,

informaz ion

ozione d a -

Con il 5 per 1000,

25


le relazioni giorno dopo degligiorno affetti 22

di Valentina Cafiero

Diario di un’adozione - parte seconda

27 maggio 2014 Stasera il mio diario per prima volta non viene scritto al buio mentre tutti dormono e io mi concedo la mia mezz’ora di silenzio. Mentre gli uomini di casa vedono la tele, io mi anticipo il diario perché sono davvero stanca e penso che crollerò prima di stasera. Ieri gita a Salento, paesino di montagna-coloniale vicino e molto turistico. Bellissima atmosfera, ottimo pasto a base di zuppa, trota sempre accompagnata da riso, banana fritta, verdurine varie e boñuelos e varie annaffiato da un ottimo succo. I nostri bimbi sono un portento in fatto di adattabilità. Non soffrono l’auto, sudano e non si ammalano, mangiano tutto, camminano a piedi e non si lamentano, si addormentano in auto e si svegliano senza stranirsi e

in questo non ci possiamo proprio lamentare. Si sposano perfettamente con il nostro stile di vita. Antonio ha spinto tutto il tempo il passeggino di José Enrique correndo spesso troppo avanti senza aspettarci e senza mai lasciare spazio al fratello. Nel ristorante, non lasciava salire Juan David sull’amaca accanto a lui e mamma Valentina osservava e non diceva nulla o interveniva con cautela per evitare incidenti diplomatici, che in compagnia non sono mai carini, e perché forse pensava che magari li stavamo stressando un po’ troppo. Poi Toñino si fa amare da tutti con la sua disponibilità. Il il padrone del ristorante a un certo punto mi ha fermato e mi ha chiesto se ero io la mamma di Toñino, io ho risposto di sì e lui mi ha detto che è un

bimbo meraviglioso. I due parlavano mentre Antonio era disteso sull’amaca come se avesse 50 anni e chissà cosa gli raccontava. Spesso poi parliamo del viaggio in Italia, dell’aereo grande che prenderemo e Antonio mi fa mamma però quando andiamo in Italia devi mettere di nuovo il pannolino a Juan e io gli dico: e perché? Già lo abbiamo tolto e non ne ha più bisogno. Lui mi fa però in Italia forse servirà. Io gli faccio ma perché adesso non se la fa più e a casa di mamma Helena sì? e lui risponde perché adesso lui è felice…. E io gli chiedo e tu sei felice? Sì tanto mamma. Oggi intanto la giornata è stata piuttosto brutta. Eravamo tutti felici di tornare in piscina, ma purtroppo scopriamo che era


chiusa per manutenzione e i bimbi ci restano male; li portiamo alle giostrine per compensare e poi, tornando a casa, decido di fermarmi all’agenzia di viaggi per valutare di fare una settimana al mare ma i bimbi dicono che non vogliono salire a casa con il papy e ma vogliono rimanere con me. Io dico va bene però mi raccomando là dentro super buoni. Entriamo, io faccio cadere l’acqua che mi offrono sulla scrivania, Antonio fa piangere il fratello e poi, invece di rimanere seduto sul divano, si siede a terra e si mette a giocare con l’ingranaggio della sedia. Intanto mentre io parlo con il tipo, il mio sguardo diventa viola, guardo insistentemente Antonio e lui mi evita. Usciti, lo rimprovero e gli spiego anche il perché e lui si mette con

le braccia incrociate, muso lungo e tira così fino a casa. Insomma, gli dico, non solo ti comporti male, adesso fai pure l’offeso. Saliamo in casa e Antonio mi evita e io mi arrabbio di nuovo e lui fa sempre peggio, fino a quando dopo aver alzato la voce Antonio scoppia di nuovo a piangere. Io mi sento una schifezza, ma si sarebbe francamente meritato una bella sberla. La mia frustrazione cresce perché mi sembra che facciamo un passo avanti e due indietro e decido di chiamare Nury. Lei mi dice vai tranquilla, fai bene così, adesso facciamo venire di nuovo lo psicologo. Quando arriva Jorge, è già passato tutto. Facciamo una lunga chiacchierata io e lo psicologo e i due poi vanno a colloquio insieme. Jorge mi dice che lo ha trovato molto regredito, parla

come un bimbo di 4 anni, non riesce a stare fermo un minuto sulla sedia e ride in modo non spontaneo forse per mascherare che è a disagio. Mi dice che forse è geloso del fratello a livello inconscio, non perché noi facciamo preferenze, ma perché cerca in maniera prepotente di farsi spazio dentro di me. Secondo Jorge poi tutto questo avviene con me perché io riesco a capirli bene quando parlo, ma è importante che il papà deve sempre intervenire. Insomma una fatica immane. Poi Jorge mi dice che forse anche nella famiglia affidataria Antonio faceva così e che per le prossime volte bisognerà chiamarlo una sola volta e poi lasciarlo perdere e rimanere fermi nella punizione. Quello che mi preoccupa non è tanto l’episodio in sé,

23


24

ma a volte questa mancanza di collaborazione e questo muro che mette. La parola d’ordine intanto è pazienza perché ci vorrà tempo per smussare questi aspetti e abituarlo a gestire le frustrazioni. Abbiamo inoltre parlato della loro iperattività degli ultimi giorni. Non riescono più a stare fermi o a non chiedere qualcosa. Se siamo a casa, spesso iniziano un’attività che prima li interessava molto, adesso la lasciano e piombano sul divano o fanno cose che non dovrebbero fare. Se siamo per strada, il nostro ritmo è scandito da: paseo, mama tengo sed, mamà tengo hambre, mamà chichì e, nei casi peggiori, pupù. E io che faccio, manita a mamita, manita a papy, e un poquito a Antonio, un poquito a Juan e compartimos. Jorge pensa

che sia dovuto all’iperstimolazione. Mi rassicura sul fatto però che non dobbiamo avere ansie da prestazioni sul proporre giochi e cose da fare. Devono imparare anche ad accontentarsi di ciò che hanno e imparare a proporre anche loro qualcosa. Insomma oggi la frustrazione è tanta, non tanto perché penso che siano comportamenti anomali, ma perché sento che sia loro che io abbiamo bisogno di un orologio regolatore che ci porti su un piano di normalità non solo affettiva, ma anche di ritmo di vita, che adesso manca e ci fa sentire tutti un po’ scombussolati. Oggi infatti mi sono imposta la corsetta mattutina proprio per cercare di uscire da questo meraviglioso circolo affettivo che però potrebbe a volte diventare insano.

28 maggio La data di oggi, 28 maggio, mi fa ricordare che manca ancora un mese alla data di partenza prevista. Potrei già iniziare il conto alla rovescia, anche se i giorni sono ancora tanti, ma mi sento confusa perché è stata un’altra giornata pesante e non riesco ancora ad immaginare, al nostro ritorno a casa, alle loro e alle nostre reazioni. Dopo la giornata di ieri, in cui sembrava di aver fatto un passo avanti e che l’aiuto dello psicologo avesse fatto bene a tutti, oggi siamo tornati a due passi indietro. Ieri infatti, come suggerito dallo psicologo, ci siamo svegliati e abbiamo comunicato il programma della giornata, ma prima di ogni altra cosa avrebbero dovuto fare i compiti separati. I bambini hanno rispettato i


patti e poi siamo usciti. Oggi invece la giornata è andata avanti con una punizione dopo l’altra. Nonostante il programma della giornata prevedesse la piscina, il massimo per loro, Antonio si è categoricamente rifiutato di studiare e quindi è scattata la punizione del NO PISCINA. A quel punto papà Gino è sceso con Juan per portarlo alle giostre e fare la spesa e Antonio è rimasto a casa con me, all’inizio completamente indifferente alla punizione, a fare le sue cose. La negoziazione aveva inizio solo per la richiesta di qualcosa da mangiare. Al ritorno del papà, in prospettiva della cena e altro, ha deciso di fare i compiti, ma a modo suo: ci rideva praticamente in faccia e si muoveva continuamente sulla sedia. Poi si mangia

ma presto si interrompe, si alza da tavola senza permesso e scatta la seconda punizione: NO AL PROSCIUTTO, visto che dopo il primo era fuggito, e NIENTE CARTONI. Antonio è di nuovo indifferente: né un pianto, né una richiesta in modo più gentile. Il papà nel pomeriggio ha messo fine alla punizione generale perché non se ne poteva più, ma Antonio ormai ci ha fatto l’abitudine: ti dà il bacio ti dice te quiero e cerca di sopravvivere per quelle cose che gli servono. Io, seguendo il consiglio dello psicologo, per tutto il tempo gli ho fatto capire che ero arrabbiata con lui e che non avevo voglia di parlargli ma sinceramente non credo abbia avuto grossi effetti. Tanto per finire, oggi pomeriggio siamo usciti con

Mauro e al ritorno ha voluto fare la strada con lui e ha detto “me ne vado a casa sua”, nonostante popcorn e gelato forniti dal papà. Quando io sono andata a riprenderlo, Antonio mi ha detto “mamma io comunque volevo solo giocare un poco, ma aspettavo mi venissi a prendere”. Comunque in generale non se ne può più. Io tutta la giornata con la faccia arrabbiata, dico no ogni tre parole e mi sembra di parlare al vento. Papà Gino è visibilmente provato e stanco e, a tratti, si sente un po’ incapace. Inoltre sono molto irrequieti, non riescono a stare fermi, sono diventati disordinati e pasticcioni, hanno iniziato a farsi i dispetti tra di loro e litigare. Ma dove sono più i bimbi di 15 giorni fa? A parte gli scherzi, vanno bene i litigi, vanno bene

25


26

e sensazioni in ognuno di noi e le relazioni mutano e si trasformano rapidissimamente. È come guardare la stessa foto e ritrovare sempre più dettagli. Pensare e ripensare fa bene e aiuta a mettersi in discussione e migliorare e sia io che Ginetto proviamo a farlo ogni giorno, sia come singoli genitori che come coppia. Partiamo dalle cose divertenti che altrimenti mi dimentico di dire. Riguardando la foto del primo giorno, quella in cui si vede chiaramente che io piango, Juan David mi dice guardati mamma, qui stavi piangendo. E io e perché piangevo Juan, ero triste? E lui no mamma perché eri felice che eravamo arrivati noi. 29 maggio Da un giorno a un altro Poi, dopo un ennesimo te cambiano tante cose e si quiero, oggi io dico Jesus scoprono nuove possibilità Antonio scusa ma perché la vivacità e lo sfogo fisico, ma vorrei capire perché Antonio non riesce a gestire le frustrazioni e rispettare le regole. Sarà sempre stato così? Lo sta diventando adesso? Questa cosa è positiva o negativa? Insomma abbiamo tanti interrogativi che appunto ci fanno vedere in modo opaco e incerto il ritorno alla nuova vita. Riuscirà veramente a sostenere questo passaggio così tosto? E, soprattutto, noi sapremo stargli dietro? Intanto il progetto vacanza al mare è sfumato perché troppo esoso e, come stanno le cose, ci restano altre 2 settimane a Pereira, quindi non mi resta che chiedervi di sostenere Pereira. Baci

mi vuoi così tanto bene? E lui pensa un attimo e risponde perché sei una brava cuoca, mi dai la carne, il pollo e l’acqua tutti i giorni. E io: e basta? Pensa un altro poco e dice ah sì, perché siamo andati anche alle giostre. È un pagnottista e non ha vergogna a dirlo! Quando rientro in Italia, propongo di organizzare un corso di cucina tra i programmi di preparazione all’adozione e di eliminare gli altri, si va sul sicuro! Oggi la giornata è andata molto meglio con Antonio, che continua a rifiutarsi di fare i compiti: a questo punto siamo noi a mollare. Noi cercavamo solo di fargli ripetere quel poco che ha fatto e di esercitarsi a scrivere il suo nome, ma non vorrei che ‘sto bambino mi venisse traumatizzato e a settembre mantenesse


lo stesso atteggiamento. Si stufa solo? È spirito di contraddizione? Oppure si sente messo alla prova? Accettiamo consigli e soluzioni alternative. Per il resto, oggi ho capito che Antonio vuole essere trattato da grande, reso partecipe delle decisioni, vuole spiegazioni e quando gliele dai agisce con maturità e disubbidisce meno. Insomma è una specie di controllore che mi segue ovunque ma devo dare una spiegazione per qualsiasi cosa, in modo che lui si convinca e protenda per la soluzione corretta senza forzature. La prima tirata di orecchie invece l’ha avuta oggi Juan David che si è messo a piangere prima nel negozio quando compravamo le scarpe al fratello (lui le aveva già avute) e poi nel centro commerciale: Juan

David aveva deciso di dover girare da solo e far morire due volte di paura il padre. Io sono andata a prenderlo per le orecchie e gli ho anche paventavo l’idea dei ladri di bambini per farlo un po’ spaventare: oramai la loro vivacità e senso di libertà è veramente esplosivo e in alcuni momenti per me e il papà è incontenibile. Sarà vero che questo è segno che loro stanno bene, ma a noi così ci uccidono! Non vi dico poi radio Juan David che, preso dall’esuberanza, è capace di parlare anche per mezz’ora di seguito già dalle 6.30 di mattina senza sputare, con un porque? ogni 3 parole. Inoltre ho dimenticato di dirvi che nonostante tutto questo mi sono concessa una bella ceretta dall’estetista e due corsette mattutine, anche se i bambini

già hanno iniziato a dirmi “perché non ci aspetti” e “veniamo anche noi”. Antonio non ci può passare che si faccia una cosa senza comunicarglielo. Io, per il momento, non avverto stanchezza fisica, solo qualche magone serale all’imbrunire legato al fatto che voi già dormite tutti; non perché se rimanete svegli cambia qualcosa, ma perché mi fa sentire sospesa. Quello che invece spesso mi angoscia un po’ è l’idea di ripresa di una vita normale. Non avendo più spazio neanche per una doccia senza osservatori, non riesco a immaginare come riuscirò mai a riprendere a lavorare e a vivere con meno fiato sul collo. E soprattutto ho paura che Antonio al momento della scuola mi dirà no quiero mama, solo quiero ver

27


28

muñecos. Lo so che è prematuro, lo so che avrò gli aiuti necessari, ma io sono fatta così, guardo oltre e la mancanza di certezze future mi angoscia, quindi sopportatemi e subitevi anche qualche sfogo di paura. Intanto nonostante il wifi ballerino vi sentiamo tutti vicini e non vediamo l’ora di riabbracciarvi. 31 maggio Anche un’altra giornata è passata per fortuna. A volte abbiamo la sensazione di essere sospesi in una dimensione spazio temporale indefinita. Non fa più differenza che ora è, che giorno è e cosa succede nel mondo pare non ci riguardi più. Viviamo in uno spazio tutto nostro, anzi tutto loro, le cui uniche finestre sul mondo sono skype, il supermercato e al massimo le gite fuori porta. Abbiamo aspettato tanto e ancora continuiamo ad aspettare anche se in modo diverso adesso.

Oggi abbiamo toccato un altro argomento importante: le sorelline. Al ristorante, dopo mangiato, Antonio mi mette la mano sulla pancia e dice mamma “hai un bimbo o una bimba? E io “nessuno dei due. Poi cerco un po’ di buttarla là e dico ma tu hai già Juan David come fratellino. E lui io ne voglio uno piccolo e anche una sorellina e quindi io faccio perché tu non hai anche delle sorelline? E lui sì. Ah, dico io, veramente? E Juan sì, come no sono proprio loro e hanno così, e fa il segno con la mano della loro età. Poi chiedo loro se le vogliono bene e dicono sì sì tanto. A quel punto dico ad Antonio che presto anche loro andranno in Italia e lui mi chiede Ah sì e dove e come si chiamano i loro genitori? E io rispondo che una volta in Italia potremo sentirle al telefono e andarle a fare visita ogni tanto. Lui mi è sembrato contento e a detta di Nury questa cosa

sarà importante per incentivarlo ad integrarsi in Italia e ad accettare l’adozione. Speriamo bene…. Adesso parliamo di come si sente un genitore adottivo da solo in un paese straniero una volta che ha tra le mani quello per cui ha sempre lottato e ha aspettato tanto. Direi che si sente con la testa nel frullatore, vengono dei momenti che è veramente pesante, due bimbi tipo martello pneumatico che ti parlano e se giri anche solo la faccia dicono mamà ogni due parole anche per due ore di seguito. Vi garantisco che per due persone che dopo 10 anni di vita matrimoniale silenziosa e per una come me, che durante la giornata è abituata a sentire solo il tic della tastiera, è veramente devastante, hai la sensazione che il cervello ti salti. Te li senti addosso e non è solo un discorso di privacy, è proprio un fatto di attaccamento cerebrale.


Abbiamo cominciato ad adottare la tattica che non si può monitorare tutto; anche se iniziano a giocare in modo pericoloso, noi li avvertiamo ma poi se non si fermano non si insiste più. Infatti oggi Juan si è chiuso di nuovo il dito nella porta per giocare con il fratello e una volta che è venuto da me piangendo è scattato il primo te lo avevo detto, ma non mi stai mai a sentire!. A volte mi sento in colpa perché vorrei riuscire ad apprezzare meglio quello che ho avuto, ma sentendomi in un calderone è come se guardassi la cosa con distacco per il momento. Se ripenso al primo incontro non mi emoziono ancora, perché? Sono una cattiva madre? Chi lo sa, ma il genitore adottivo pensa sempre che se lo è cercato, che lo ha desiderato e a volte percepisce la sua incapacità di resistere come inadeguato alle sue scelte. Ieri sono passati Paola e

Cristiano con Carlos di ritorno dalla settimana al mare a Santa Marta. Lei era devastata per un’influenza, ma io ho letto nei loro occhi i miei stessi pensieri. Non sembravano due persone tornate da una vacanza, avevano addosso anche loro lo shock di questa nuova presenza, il grande sforzo personale di entrare in sintonia con il figlio, nonché le difficoltà linguistiche. Il loro piccolo figlio pare dica anche alla mamma perché Valentina parla bene spagnolo e tu no?, per la serie: ti sfiderò fino alla morte e quello che fai non basterà mai. Ma soprattutto nei loro occhi e in quelli degli altri neogenitori vedo questo stato di attesa, che non è che quella che ha contraddistinto il nostro cammino fino ad oggi, ma piuttosto l’attesa che le cose cambino, che si torni a casa, che le cattive abitudini dei bimbi passino e che si riuscirà a sopportarle e so-

prattutto che questi bimbi riescano presto ad amarci. Come ha detto giustamente Antonio qualche giorno fa, io per il momento ti voglio bene solo perché mi dai da mangiare. Noi per il momento siamo solo questo, hanno perfettamente ragione, anche se hanno una necessità enorme di protezione e non ne sono coscienti. Del resto, per loro noi rappresentiamo la loro terza famiglia e di fatto hanno alle spalle già due abbandoni. Quindi, come mi ha suggerito qualche amica, per il momento bisogna lavorare sull’attaccamento e ogni giorno dobbiamo riuscire a ritagliarci uno spazio dentro di loro e colmare i loro bisogni e questo spazio dobbiamo conquistarlo a duro prezzo, lontano dagli occhi di tutti e sfidando le loro paure e i loro problemi. La strada è molto lunga. Buonanotte.

29


le relazioni giorno dopo degligiorno affetti 30

Adozione e burocrazia

Spesso, una volta ottenuto il decreto di idoneità da parte del Tribunale dei Minori, le coppie pensano di essere “arrivate”. Dopo mesi di colloqui con assistenti sociali e psicologi, di indagini, di visite domiciliari e quant’altro si è portati a pensare: “ormai il grosso è fatto!”. In realtà, questo è solo l’inizio! Tralascio in questa sede tutto ciò che riguarda l’adozione Internazionale, dalla scelta dell’ente al conferimento di incarico, alla scelta del Paese, per concentrare l’attenzione sulla sola adozione nazionale. Come è noto, la disponibilità all’adozione nazionale ha una durata di tre anni dalla data di presentazione della domanda e, una volta espletate tutte le formalità presso il Tribunale dei Minori competente secondo la residenza dei coniu-

gi, è possibile estendere la disponibilità anche ad altri Tribunali, che in Italia sono 29. Una volta terminato l’iter, si chiede copia del fascicolo completo al Tribunale competente per territorio, e si invia, unitamente ad una domanda in carta libera, agli altri Tribunali. Fin qui molto semplice! Si, se non fossimo in Italia. In realtà è proprio adesso che iniziano i problemi! Infatti, ciascun tribunale ha una propria modulistica, un proprio elenco di documenti da allegare alla domanda, o di esami e visite cui sottoporsi ed un proprio modus operandi. Quasi tutti i tribunali non accettano le autocertificazioni, e diversi di loro non accettano domande presentate via PEC. Mio marito ed io, avendo una certa dimestichezza

con l’informatica, abbiamo pensato di inviare tutto l’incartamento via PEC. Quindi abbiamo prima verificato l’indirizzo di posta elettronica certificata dei vari Tribunali, abbiamo effettuato la scansione completa del fascicolo, compilato la domanda e spedito tutto, pensando che fosse molto più economico rispetto ad una spedizione tradizionale, che fosse più immediato ed efficace. Ma ecco che, da subito ci siamo scontrati con l’assurdità della burocrazia italiana. Infatti, già dopo poche ore dall’invio siamo stati contattati da alcuni dei destinatari che ci hanno comunicato che l’invio a mezzo PEC non era accettato e che avremmo dovuto mandare il tutto per raccomandata con ricevuta di ritorno. Dopo aver riattaccato ci


siamo posti diverse domande: ma tutti i discorsi fatti (da Brunetta in poi) sulla digitalizzazione della PA dove sono andati a finire? Ma allora non è vero che la posta elettronica certificata ha valore legale di una raccomandata con ricevuta di ritorno? In un’ottica di spending-review non è forse il metodo più economico anche per le pubbliche amministrazioni? A quanto pare non è così. Eppure, lavorando in una pubblica amministrazione, mi era stato detto il contrario! Potrei raccontare per ore aneddoti, a volte anche divertenti e surreali, ma non è questo lo scopo per il quale sto scrivendo. Ne citerò solo uno, che trovo davvero significativo di come la logica e la semplificazione siano due concetti ancora molto lontani dall’essere

praticati in certi Uffici. Uno dei tanti Tribunali, che ovviamente non citerò, una volta ricevuta tutta la documentazione sulla propria casella di posta elettronica (documentazione composta dalla domanda di disponibilità e da ben 43 pagine di relazioni, verbali, certificati, ecc.) ha pensato bene di stampare tutto, di imbustarlo e di rispedircelo per posta, unitamente ad una breve missiva, nella quale ci chiedeva cortesemente di inviare la domanda secondo le loro specifiche modalità e di rispedire il fascicolo completo a loro, per posta raccomandata. Sembra dunque che le leggi in Italia, valgano dappertutto tranne che nei Tribunali. Già, perché non è solo una questione di logica e di buon senso, ma di legge. Andiamo per gradi! La maggior parte dei Tribu-

nali dichiara (verbalmente, ma in alcuni casi anche ufficialmente sul proprio sito) che non può accettare autocertificazioni. Diamo un’occhiata alla normativa. Il sistema delle autocertificazioni, in Italia, è regolato dal Dpr 445/2000. Tale decreto è stato recentemente modificato dall’art. 15 della legge 12 novembre 2011 n. 183, la quale ha modificato gli art. 40, 43 e 72 del predetto decreto. Le modifiche riguardano in particolare il fatto che dal 1° gennaio 2012, le amministrazioni e i gestori di pubblici servizi non possono più accettare certificati, né richiederli. Le amministrazioni che chiedono o accettano certificati dai cittadini violano i doveri d’ufficio. La circolare 5/2012 della Funzione Pubblica ha poi specificato

31


32

che l’autorità giudiziaria può richiedere ai cittadini le certificazioni nell’ambito dei procedimenti giurisdizionali. A parte il fatto che può, non significa deve (si tratta dunque di una facoltà, non di un obbligo), in ogni caso la richiesta di certificati può essere fatta nell’ambito di procedimenti giurisdizionali. Senza andare ad approfondire troppo la questione, la domanda di disponibilità all’adozione nazionale non può considerarsi un procedimento giurisdizionale, non essendo prevista né una sentenza, né un decreto che dichiari idonei gli aspiranti genitori adottivi. Non sarebbe molto più veloce ed economico, anche per i Tribunali accettare le autocertificazioni? Altra questione riguarda il fatto che ciascun tribunale,

ha una propria modulistica (domanda di disponibilità, questionari vari ecc.) e una propria documentazione da allegare (alcuni richiedono determinati certificati, altri foto singole e/o di coppia, ecc.). Mi chiedo, non sarebbe tutto molto più semplice se la modulistica fosse uniformata a livello nazionale e così anche la documentazione da allegare? D’altronde, se vado all’Inps di Bolzano o mi reco all’Inps di Canicattì, la domanda e la procedura per ottenere la pensione sono identiche! Perché non deve essere lo stesso per i Tribunali? Ancora: molti Tribunali non accettano domande presentate via PEC, ma pretendono l’invio per posta in quanto sostengono che la stessa non abbia valore legale. Cerchiamo di capire cosa è esattamente la posta elettronica certificata.

La Posta Elettronica Certificata (PEC) è il sistema che consente di inviare e-mail con valore legale equiparato ad una raccomandata con ricevuta di ritorno, come stabilito dalla vigente normativa (DPR 11 Febbraio 2005 n.68). Benché il servizio PEC presenti forti similitudini con la tradizionale Posta Elettronica, esso possiede delle caratteristiche aggiuntive, tali da fornire agli utenti la certezza, a valore legale, dell’invio e della consegna (o della mancata consegna) delle e-mail al destinatario. Dunque la Posta Elettronica Certificata ha il medesimo valore legale della raccomandata con ricevuta di ritorno con attestazione dell’orario esatto di spedizione. Inoltre, il sistema di Posta Certificata, grazie ai protocolli di sicurezza utilizzati, è in grado


di garantire la certezza del contenuto non rendendo possibili modifiche al messaggio, sia per quanto riguarda i contenuti che eventuali allegati. La Posta Elettronica Certificata garantisce, in caso di contenzioso, l’opponibilità a terzi del messaggio. Il termine “Certificata” si riferisce al fatto che il gestore del servizio rilascia al mittente una ricevuta che costituisce prova legale dell’avvenuta spedizione del messaggio ed eventuali allegati. Allo stesso modo, il gestore della casella PEC del destinatario invia al mittente la ricevuta di avvenuta consegna. Tra l’altro, al momento del rilascio della casella di po-

sta elettronica, il cittadino viene identificato tramite documento di identità e codice fiscale per cui chi invia il messaggio di posta elettronica è il reale mittente dello stesso. Dunque, se la PEC ha valore legale di raccomandata con ricevuta di ritorno, non può essere modificata ed il suo mittente è certo ed identificato, perché mai non devono accettarla? Ultimo punto, non in ordine di importanza, è il fatto che ciascun Tribunale pretende dalla coppia la copia del fascicolo depositato presso il Tribunale di competenza. Credo che sia noto a tutti, che nel nostro Paese vige il divieto, sancito dall’ art. 18, l. n. 241 del 1990, di chiedere ai privati atti e documenti acquisibili direttamente d’ufficio presso altre amministrazioni pubbliche cd. procedenti. A

maggior ragione, tale divieto vige per organi del medesimo ente. Non sarebbe tutto molto più semplice se esistesse un portale unico al quale le coppie possono accedere per inoltrare la disponbilità ai vari tribunali, magari allegando (una sola volta ed in formato digitale) tutti i documenti richiesti? La procedura è già farraginosa e lunga di per sè. Perché rendere tutto ancora più complicato? Già chi decide di intraprendere anche il percorso dell’adozione internazionale affronta dei costi notevoli: perché fare spendere inutilmente altro tempo e denaro per raccomandate, documenti, viaggi per colloqui conoscitivi che a volte lasciano il tempo che trovano? Una mamma in attesa

33


le relazioni degli leggendo affetti

Marina Zulian responsabile della Biblioteca Ragazzi di BarchettaBlu

Parole fuori

Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi BarchettaBlu di Venezia 34

5. Questo mese: Origini di Marina Zulian “E alla fine penso che forse padre non è chi ti ha fatto nascere no. Forse padre è chi ti veste, ti dà da mangiare, ti insegna a fare le cose, ti sta accanto. Sempre e comunque.” Per la prima volta parlerò di un libro che racconta la storia di un bambino adottato. Questo compito mi sembra molto difficile e il non essere scontata o banale ancora di più; come fare, mi chiedo, per non usare parole indelicate o offensive? Decido di

rischiare e parlare di Leon, un ragazzo rumeno di tredici anni; decido di raccontare la sua storia scritta con grande delicatezza da Antonio Ferrara e Guido Sgardoli nel libro Nemmeno un giorno, Edizioni Il Castoro, 2014. Ho letto altri racconti sull’argomento ma spesso mi sono sembrati preconfezionati e stereotipati. Non questo. Per la prima volta due autori, peraltro tra i miei preferiti, sono riusciti a descrivere il punto di vista di un adolescente alle prese con la ricerca della propria identità e del senso della vita ma anche il difficile compito di due genitori adottivi. Per i genitori i sentimenti e le emozioni dei ragazzi sembrano a volte così contorti da non poter essere compresi; in questi casi a

noi adulti non resta che provare ad ascoltarli, ad accoglierli e a rispettarli. Leon, il protagonista, ha visto morire la madre e il padre Jan è un alcolizzato che non può prendersi cura di lui. Leon viene affidato ad una famiglia italiana affettuosa e comprensiva ma che lo porta a vivere in un contesto completamente diverso; Anna e Sergio sono due genitori attenti e gentili ma purtroppo il ragazzo non riesce ad accettare il fatto che debba stare lontano dalla sorella Ewa, suo unico punto di riferimento familiare. Il legame tra fratelli, in mancanza della presenza dei genitori biologici, diventa per i bambini e i ragazzi una delle poche certezze. A volte però questo legame viene spezzato poiché non sempre è possibile l’adozione di entrambe i fratelli.


Nei casi in cui viene adottato un solo bambino, come ad esempio Leon, questo continua ad avere nella propria mente uno spazio per la sua storia preadottiva, per la sua cultura di origine, per la sua rete familiare, per la sua vita prima dell’adozione. Questa è una questione difficile da affrontare e a volte i genitori adottivi tendono a rimandare e a procrastinare. Però quando nell’adolescenza si fa forte il bisogno di riimmaginare la propria identità, questi pensieri si fanno sempre più presenti ed è ancora più difficile trovare il modo di affrontarli sia per i figli che per i genitori. I genitori affidatari cercano di non far mancare nulla al ragazzo, ma dentro di lui cresce inesorabile il senso di solitudine e di inadeguatezza.

Una nuova lingua, una nuova scuola, nuovi compagni e amici sembrano cambiamenti davvero troppo difficili da affrontare e anche se Leon è in Italia già da parecchio tempo, scatenano in lui una forte rabbia. Il protagonista sembra spietato quando, nel suo monologo, dice di dover scappare da una famiglia che non è davvero la sua. Ma mi sembra altrettanto spietato quando sento dire da educatori e insegnanti: “Sono già tanti anni che è in Italia e quindi non può più usare la scusa di essere adottato per giustificare i suoi comportamenti!” Ogni volta che sento frasi del genere penso che vi sia ancora la necessità di spiegare agli adulti che i drammi che hanno vissuto i bambini prima di essere adottati, non si possono

cancellare. I bambini possono forse imparare a convivere con quel dolore così forte, ma i lutti, le violenze, i distacchi, le ingiustizie subite rimarranno sempre a far parte del loro essere più profondo. In tutti i figli adottivi emerge prima o poi con una forza dirompente la questione della ricerca delle proprie radici. Per i genitori adottivi è un momento molto delicato e impegnativo. Leon ci racconta a modo suo che per i bambini adottivi c’è il rischio di restare impigliati nel mito della famiglia di origine perdendo di vista la vita attuale. Naturalmente tutti hanno il diritto di cercare e conoscere le proprie origini e noi adulti dobbiamo accompagnare e assecondare con attenzione questa esigenza. Infatti Leon, ad un tratto della sua vita, vuole torna-

35


36

re nel mondo da cui proviene, vuole vivere a modo suo e la fuga gli sembra essere l’unica via d’uscita. Leon ascolta quel suo cuore distrutto e decide di scappare e rischiare tutto quello che ha in cambio di un futuro incerto; Leon sa che deve provare ad andare da sua sorella perché solo così può sentirsi veramente vivo. Il suo perenne senso di sospensione gli fa pensare che l’unico modo per sopravvivere è ricongiungersi con la sorella Ewa. In un attimo Leon prende dal garage la potente auto del papà Sergio e inizia la fuga verso la sua meta. Il ragazzo è già in grado di guidare l’automobile poiché Sergio lo porta spesso a guidare i go-kart. Naturalmente una automobile di grossa cilindrata è un po’ più complessa da guidare, ma per un ragazzo sveglio e attento come lui basta un po’ di pratica

per riuscire a manovrarla quasi perfettamente. In un attimo Leon si trova nel pieno di una fuga pericolosa e rischiosa ma anche rocambolesca e fortunata. Ad accompagnarlo nel suo viaggio sono le musiche di un cd del padre e un cane randagio che sale furtivamente in automobile, gli fa compagnia e lo ascolta mentre guida. Il cane sembra comprendere le parole del ragazzo e il ragazzo si apre e racconta le sue emozioni e i suoi sentimenti più profondi. Le canzoni che si susseguono nella raccolta musicale, sembrano stimolare i pensieri di Leon; a seconda della melodia e del ritmo anche i pensieri sono dolci e malinconici o aggressivi ed energici. Il lungo viaggio notturno tra strade più trafficate e stradine solitarie, è un perfetto scenario per la

sua quasi inconsapevole ricerca e il tempo trascorso in automobile, permette al protagonista di ripercorrere ricordi del passato e paure del presente. Tutto accade in meno di ventiquattrore, in “nemmeno un giorno”. Dalle quattro del pomeriggio alle otto della mattina seguente le ore scorrono fra musiche e incontri, riflessioni e incertezze. Gli autori, all’inizio di ogni capitolo, suggeriscono una musica che è proprio quella che il protagonista ascolta dallo stereo dell’automobile. Leon si chiede cosa starà succedendo dal momento in cui i suoi genitori avranno scoperto la sua fuga; con trepidazione ipotizza varie situazioni e non sa quale preferirebbe. Pensa a come avranno reagito, pensa se sia giusto dare questo grande dolore ai suoi genitori adottivi. Tra


dubbi e certezze è meraviglioso come leggendo quelle pagine l’affetto per Anna e Sergio sia palpabile. Un piccolo e meritato elogio a tutti i genitori adottivi! Chilometro dopo chilometro, con l’avanzare del buio della notte, cadono le certezze che il ragazzo aveva quando era partito alla luce del sole. Si rende conto che è fuggito da una casa e da una famiglia che comunque sono anche sue. Combattuto fra il legame con il padre biologico e l’affetto con il padre adottivo, il disorientamento dello stare al mondo e la voglia di affermare se stesso, Leon non vuole cedere all’amore e all’affetto dei suoi genitori adottivi quasi per non tradire quello per i genitori biologici, quasi i due sentimenti fossero in competizione. Leon si chiede quale sia fra Jan e Sergio il padre a cui poter veramente fare rife-

rimento. Leon si interroga quale sia fra la sorella Ewa e i genitori Anna e Sergio la famiglia con cui vivere. Solo allontanandosi da ciò che ha in quel momento, riesce a capire che forse è proprio quello che vuole e di cui ha bisogno. Come le emozioni di Leon anche la descrizione della sua nuova vita in Italia è spesso contraddittoria. In particolare le parole per descrivere il papà Sergio sono spietate e dure ma anche calde e avvolgenti. Leon vuole andare avanti, arrivare fino in fondo, ma contemporaneamente vorrebbe essere rintracciato. Vorrebbe cedere all’amore dei genitori adottivi ma allo stesso tempo ha paura di dover affrontare un’altra delusione. Il libro si legge tutto d’un fiato, non ci si può staccare fino alle ultime pagine. Alla fine non c’è una vera e propria conclusione e a

me piace molto il fatto che si lasci la storia aperta a qualsiasi possibilità. Non si può sapere come sarà la vita di Leon e il finale, che non svelo, di questo episodio della sua vita sarà solo una delle tante tappe del suo cammino. Un viaggio che aiuterà il protagonista e anche il lettore a guardare con occhi diversi il mondo e ciò che lo circonda e a capire ciò che è veramente importante. Un racconto davvero emozionante che indaga gli stati d’animo senza pregiudizi e senza la presunzione di voler svelare a tutti i costi la complessità di un giovane animo irrisolto ma coraggioso. “E alla fine penso che forse padre non è chi ti ha fatto nascere no. Forse padre è chi ti veste, ti dà da mangiare, ti insegna a fare le cose, ti sta accanto. Sempre e comunque.”

37


le relazioni sociale degli e legale affetti 38

di Monica Neri Presidente dell’Associazione Kairòs

L’affido Sine-Die

La scelta di diventare genitori affidatari: è arrivato il momento opportuno.

Se siete una coppia sposata o no, con o senza figli, o se anche sei un “single” con l’attitudine alla solidarietà e con il desiderio di essere genitore, puoi prendere la strada dell’affido familiare. Essere genitore affidatario significa sicuramente dedicare il proprio tempo a qualcosa di speciale e il compito della famiglia affidataria non è un facile compito. Non è facile sopportare lo stress emotivo che l’impatto con queste situazioni esistenziali e drammatiche, del minore allontanato, provoca. Pertanto la disponibilità e la solidarietà all’affido può riservare sorprese, in quanto sempre di più i bambini affidati sono portatori delle conseguenze dei traumi subiti e spesso si presentano depressi, capricciosi, bizzarri, ribelli, oppositivi o diffidenti.

Inoltre è richiesta la capacità di integrazione con i servizi sociali e gli attori che girano intorno all’affido, ma non solo, occorre anche un grande intuito psicologico per aiutare il minore a trovare uno spazio di ascolto dove si senta protetto ed accudito e che gli permetta di vivere una buona esperienza affettiva senza negare la sua famiglia biologica con le sue radici e la sua storia. Di queste difficoltà ne devono essere consapevoli tutti: sia chi lo propone sia chi si rende disponibile alla proposta di affido e tutti gli attori ad essa legati. Pertanto la famiglia che si avvicina all’affido diventa una famiglia bisognosa di sostegno, perché certamente emergeranno problemi, dubbi e incertezze sul comportamento da te-

nere, nelle situazioni che via via si presenteranno. L’affido Sine-Die Ci sono aspetti probabilmente poco conosciuti della realtà dell’affido familiare nel nostro Paese: se da una parte la legge parla di temporaneità la realtà come risulta dalle ultime ricerche del ministero, dice un’altra cosa. Almeno il 60% degli affidi si protraggono con continui rinnovi che ne posticipano la durata fino al raggiungimento della maggiore età del minore. Nell’interpretazione più comune il Sine-Die viene percepito come una serie di continui rinnovi, proprio come precedentemente descritto. Ma nella realtà il Sine-Die è ciò che si protrae oltre il raggiungimento della maggiore età del minore in affido familiare.


Purtroppo le stesse ricerche Ministeriali non riportano i dati relativi al numero dei minori in affidamento familiare che permangono nella famiglia affidataria oltre la maggiore età. (Vedi “I Quaderni della ricerca sociale 26” 31.12.2011– Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali http://www. lavoro.gov.it/Strumenti/ StudiStatistiche/sociale/ Documents/qrs26_affido. pdf.) Oggi l’affido Sine-Die è divenuto un tema tabù, non solo non vi è conoscenza, ma addirittura non se ne parla all’interno delle Istituzioni. Il termine SineDie infatti non lo ritroviamo all’interno della nostra giurisdizione e nemmeno all’interno delle linee guida nazionali sull’affido e gli stessi Servizi Sociali

continuano a parlare di affido temporaneo e raramente utilizzano il termine Sine-Die, perché preferiscono chiamarlo affido a lungo termine. Anche la legge riporta in tutte le sue parti il termine “temporaneo” come di fatto l’affido dovrebbe essere: un intervento temporaneo dove il minore viene collocato in una famiglia affidataria, nell’attesa che, con un aiuto e con un supporto la famiglia biologia recuperi le capacità genitoriali. (Vedi Legge 184/83 e ss.mm. “Diritto del minore ad avere una famiglia” http:// www.camera.it/parlam/ leggi/01149l.htm) Il collocamento in comunità Inoltre ogni anno c’è un numero impressionante di bambini e ragazzi allontanati dalla famiglia biologi-

ca e collocati nelle comunità residenziali, circa 15 mila. Le intenzioni della legge del 4 maggio 1983, n. 184 erano infatti di ridurre al minimo la permanenza del minore fuori dalla famiglia di origine, ma nei fatti ciò non è avvenuto e non avviene, rendendo incerta la bontà di soluzioni che assumono la caratteristica della temporaneità. Poiché è evidente dall’ultima ricerca del Ministero delle Politiche Sociali del 31 Dicembre 2012 che queste esperienze si svolgono prevalentemente nelle comunità educative anziché in famiglie affidatarie, è necessario intervenire a favore dei 15 mila minori collocati in queste strutture e per i quali non è più previsto il rientro in famiglia biologica, attraverso il collocamento degli stes-

39


40

si in una famiglia affidataria. (Vedi “I Quaderni della ricerca sociale 31” 31.12.2012 – Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali http://www. lavoro.gov.it/Strumenti/ StudiStatistiche/sociale/Documents/Quaderni%20_Ricerca%20 _Sociale%20_31%20Report%20 MFFO%202.pdf) Prendendo in considerazione quanto detto fino ad ora, una collocazione in affido Sine-Die non garantisce affatto la tutela del minore dal punto di vista giuridico, poiché si dovrebbe procedere con l’adozione legittimante o, con le nuove forme di applicazione ex art. 44 denominate “adozione mite”. (Vedi http:// www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_5_4.wp) Ciò nonostante è necessario per tutti i minori collocati nelle strutture residenziali, intervenire ugualmente, nell’interes-

se supremo del minore con una soluzione “definitiva” (affido Sine-Die) volta a riparare il percorso spesso frammentato delle precedenti esperienze di accudimento. Non esiste un aiuto più intensivo della disponibilità di un ambiente familiare sensibile e responsivo che offra un accudimento 24 ore al giorno. Tutti gli interventi che la famiglia metterà in atto, insieme alla propria sensibilità, pazienza e affetto, saranno l’inizio del percorso riparativo che nessuna comunità di accoglienza per quanto specializzata e attrezzata sia in grado di realizzare. La stessa Dott.ssa Malacrea, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta della famiglia specializzata in maltrattamento e abuso, definisce questi interventi nel contesto familiare integratori e potenziatori ideali della psicoterapia “ finalizzati in primo luogo ad agire sul si-

stema dei significati, cambiando le lenti con cui viene letta l’esperienza, ”cioè “’esperienza emozionale correttiva che deve aver riscontro nella vita quotidiana”.(Malacrea2004) Per ridurre il rischio di fallimento dell’affido È urgente pertanto pensare ad un percorso strutturato per tutti quei minori collocati nelle comunità e per il quali non è più previsto il rientro in famiglia, ma che continuano ad avere contatti significativi con i propri genitori naturali sprovveduti sì, ma non inesistenti. È necessario che la famiglia affidataria venga rivalutata, come risorsa primaria della società, in grado se formata e supportata di diventare riparatrice del trauma che il minore porta con se. È doveroso pertanto promuovere atteggiamenti di accoglienza e solidarietà, per costruire una rete at-


tiva e competente attorno alle persone coinvolte nell’esperienza dell’affido. Grande attenzione deve essere data alla preparazione del minore e alla modalità di avvio dell’affidamento che deve prevedere una conoscenza progressiva per consentire al minore di “scegliere” la coppia e di sentirsi “scelto”. Tuttavia non è sufficiente l’affetto, la comprensione, la pazienza, l’empatia per riparare i danni emotivi e cognitivi subiti dai minori allontanati. Non è sufficiente distanziare la vittima dal contesto familiare, ma è indispensabile che essa sia accolta in un contesto che assicuri una quotidianità rassicurante e serena e insieme un percorso formativo formalizzato. Detto questo per ridurre il rischio di fallimento dell’affido vi è la necessità di individuare un percorso specifico pensato, strutturato e monitorato per gli affidi Sine-Die, indirizzato

ai minori collocati attualmente in comunità e destinati a rimanervi fino alla maggiore età. Solo una formazione e preparazione attenta e strutturata della famiglia candidata all’affido, congiunta ad un supporto e tutoraggio dell’intero percorso fornirà alla famiglia stessa tutti gli strumenti necessari per diventare un genitore affidatario efficace, per scongiurare così il rischio di fallimento dell’affido che oggi pesa quasi il 40%.(Vedi intervento del Garante Infanzia Adolescenza Luigi Fadiga al Convegno «Appropriatezza degli allontanamenti» del 12 Maggio 2014) È fondamentale un’azione che vada a colmare il grande vuoto istituzionale, che non contemplando giuridicamente questa realtà, non ha incluso alcuna raccomandazione per gli affidi Sine-Die nelle ultime linee guida nazionali sull’affido familiare.

(Vedi http://www.minori.it/minori/linee-guidaper-laffido) In conclusione, l’auspicio è che chi di dovere intervenga per colmare queste criticità, in modo da regolamentare adeguatamente quello che ancora oggi è lasciato all’azione ed interpretazione dei singoli soggetti. L’Affido familiare Sine-Die dà al minore la possibilità di sviluppare relazioni significative in grado di creare quella base sicura che lo accompagnerà tutta la vita.

41


trentagiorni

SAVE THE CHILDREN «In due mesi 521 minori arrivati da soli Il governo approvi la legge per tutelarli» La vicenda di Ismail, tra centinaia di altre: «Dopo un lungo viaggio con i trafficanti attraverso Etiopia e Sudan sono arrivato in Libia dove sono stato fermato e rinchiuso, mi hanno detto “benvenuto all’inferno!”, ci picchiavano ogni giorno. Mia madre dalla Somalia ha dovuto pagare un riscatto, poi ho pagato di nuovo per salire su un barcone». Appena adolescente, Ismail è sbarcato a Lampedusa, da solo, senza un parente, un adulto al quale sostenersi. Tra il primo gennaio e il 28 febbraio 2015, dei 7.882

migranti approdati in Italia, 521 sono «minori non accompagnati». Bambini tra i 9 e i 16 anni, in maggioranza maschi, molti del Gambia, della Somalia o dell’Eritrea. Esposti per mesi agli abusi e alla fatica. L’organizzazione «Save the Children» chiede al governo d’intervenire. «Ci sono più di 700 minori non accompagnati bloccati in condizioni non adeguate nelle strutture di prima accoglienza denuncia Indispensabile un sistema di protezione strutturato come prevede la proposta di legge già votata in Commissione Affari costituzionali della Camera e bloccata da due mesi». FONTE: CORRIERE.IT

VERSO LA SOSPENSIONE DEL BLOCCO Adozione internazionale. Repubblica Democratica del Congo: telefonata di Obama a Kabila La questione delle adozioni sospese in Congo al centro della telefonata tra il Presidente degli Usa, Barack Obama e il presidente della RDC Joseph Kabila. Nella conversazione, avvenuta il 31 marzo, Obama ha sollecitato una risoluzione tempestiva del blocco vigente dal 2013 nella Rdc, che tiene con il fiato sospeso centinaia di famiglie americane ed europee. Questa telefonata è l’ultimo passaggio in ordine di tempo di un costante lavoro che


43

Obama sta pubblicamente affrontando per risolvere la situazione. L’auspicio è che questo intervento sia determinante per la definitiva soluzione del blocco delle adozioni internazionali nel Paese africano che dura ormai da 18 mesi. È un segnale di un imminente sblocco, magari già entro Pasqua? È dal 25 settembre 2013 che Kinshasa ha sospeso il rilascio di autorizzazioni di uscita per i bambini congolesi adottati. Nel corso della telefonata Obama e Kabila hanno affrontato anche altre questioni. Il presidente Usa ha

sottolineato l’importanza di elezioni tempestive, credibili e pacifiche che rispettino la costituzione della RDC e proteggano i diritti di tutti i cittadini del Congo. L’inquilino della Casa Bianca ha preso atto di quanto fatto dal Presidente Kabila che come leader ha portato il proprio Paese fuori dalla guerra e lo ha avviato a un percorso di continuo progresso democratico che verrebbe consolidato da elezioni libere e regolari nel 2016. Obama ha assicurato che gli Stati Uniti continueranno l’ impegno nella RDC durante il

processo elettorale, anche attraverso la nomina di un nuovo inviato speciale degli USA per la regione dei Grandi Laghi africani e per la RDC. I due leader hanno riaffermato il loro impegno comune per porre fine alla minaccia dei gruppi armati, in particolare le Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (FDLR). Il Presidente ha incoraggiato la cooperazione tra le forze armate della RDC e la Missione di stabilizzazione dell’ONU in Congo in operazioni contro le FDLR. FONTE: AIBI.IT



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.