Adozioni e dintorni - GSD Informa maggio-giugno 2015

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Adozione e dintorni GSD informa - bimestrale - maggio/giugno 2015 - n. 3

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maggio-giugno 2015 | 003

GSD informa

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editoriale

di Luigi Bulotta

psicologia-pedagogia e adozione

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Vedrai che passerà di Monica Nobile

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Musicoterapia e adozione di Flavia Romano e Antonella Zenga

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Un tesoro tra le origini di Greta Bellando Diario di un’adozione - terza parte di Valentina Cafiero Il sogno si avvera di Berta Martin Beltran Ulisse dei giorni nostri di Marta e Alberto

giorno dopo giorno

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leggendo

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sociale e legale

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trentagiorni

Parole fuori di Marina Zulian Panorama legislativo di Cristina Bilardo

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro direttore@genitorisidiventa.org; Simone Berti, Firenze

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila;

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Luigi Bulotta

Viaggi nel passato

editoriale

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Pochi giorni fa, girovagando sul web, sono capitato per caso su un sito collegato all’immigrazione negli Stati Uniti. Un paio di minuti per registrarmi e inserire il mio cognome ed eccomi davanti ad una lista di miei omonimi sbarcati nei primi decenni del secolo all’ombra della statua della Libertà, in cerca di fortuna e di una speranza di vita che in Italia gli era negata. Un altro click sull’elenco e sono sulla scheda di mio nonno, morto prima che io nascessi, con tanto di immagini del registro d’immigrazione e del piroscafo che lo aveva portato fin là. Pochi minuti per trovarmi proiettato ad oltre un secolo fa, in un mondo in “bianco e nero” che non esiste più, a leggere dettagli di quel viaggio per mare che non conoscevo, o forse non ricordavo, a ricostruire ricordi e ripassare i racconti della mia infanzia. Lo so, non c’è niente di eccezionale in tutto ciò, la tecnologia ci ha ormai abituati a questi miracoli e ci ha trasmesso questo senso di onnipotenza che ci fa ritenere, a torto, tutto così facile e realizzabile, a portata di un solo click. Per la maggior parte di noi è così immediato e scontato inserire dei dati per cercare una traccia delle proprie origini, che non è facile immaginare il contrario, quando questa ricerca è complessa se non impossibile. Difficile come cercare di immaginare di essere sordi o ciechi quando la nostra vita è sempre stata piena di suoni e di immagini. Eppure per parecchi dei nostri figli è così, spesso la loro storia è iniziata con noi e difficilmente, anche se sentissero l’esigenza di voltarsi indietro alla ricerca di altro, gli sarà concesso il privilegio di avere una visione del passato e della loro storia come noi abbiamo avuto la possibilità di avere. Sono le stesse storie dei nostri figli, quelle che hanno portato


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a cercare per loro un riparo nell’adozione che li ha condotti fino a noi, ad aver creato il vuoto alle loro spalle, tagliato in due le loro esistenze tra un prima e un poi, rendendo spesso difficile ricucire i lembi delle loro vite. E’ una realtà con la quale devono imparare a fare i conti e il nostro ruolo è aiutarli a far pace con i torti che la vita gli ha riservato, ma anche stare al loro fianco se decidono di affrontare gli ostacoli che la ricerca delle origini presenta. Con l’umiltà di chi non l’ha vissuto sulla sua pelle e la consapevolezza che per loro non sarà semplice come un click.


psicologia-pedagogia e adozione 6

di Monica Nobile pedagogista - counsellor

Vedrai che passerà

Un questionario sull’adolescenza per trovare tutti insieme una strada

Con questo articolo Adozione e dintorni – GSD Informa desidera sperimentare un modo di fattivo e concreto di fare rete che dia voce a tutte le progettualità intese a favorire una migliore comprensione delle criticità delle famiglie adottive. Abbiamo infatti deciso di provare a informarvi il più diffusamente possibile su progetti organizzati da Università, Servizi Pubblici e privati, Enti Autorizzati finalizzati alla comprensione di fenomeni troppo spesso finora poco mappati. Iniziamo con la descrizione di un questionario realizzato dalla dott. ssa Monica Nobile per l’Ente Cifa Ong dedicato alle difficoltà delle famiglie con figli adolescenti. L’intento è quello di informare più famiglie possibile di ogni potenziale risorsa e studio sul campo su tematiche urgenti come quella qui descritta.

Come pedagogista collaboro con l’Ente Cifa Ong e conduco gruppi di genitori che si avvicinano alla scuola, li ritrovo poi quando si trovano alle prese con una scuola talvolta fonte di problemi e difficoltà per i figli e per la loro famiglia. Incontro ragazze e ragazzi adottati nel tentativo di dare loro un’accoglienza ed un accompagnamento nella loro difficile fase di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. La mia esperienza con adolescenti è di lunga data, nel mio percorso professionale ho avuto spesso a che fare con loro, nel lavoro di strada, nei progetti giovani, nella scuola. Da anni mi interrogo su cosa si possa concretamente fare per le tante famiglie che nel corso degli anni ho incontrato in una relazione di aiuto. Famiglie che spesso mi hanno

chiesto esplicitamente: ma quando finisce? Parto dunque da un mio sapere teorico, ma cerco poi, un tentativo che continua nel tempo, che muta e si articola e problematizza mano a mano che l’incontro con gli altri mi arricchisce di riflessioni, dubbi e, nei casi fortunati, di suggerimenti creativi su possibili strade da percorrere. Quello che ho capito, che mi sembra di aver capito, è che la cura di un figlio riguarda tutti, genitori, insegnanti, operatori, ma anche altri attori sociali quali gli allenatori sportivi, i capi scout, gli animatori. Per affrontare la crescita di un ragazzo occorre far gruppo, credo che da soli non ce la si possa fare… A partire da questa premessa con l’Ente Cifa abbiamo pensato di elaborare un questionario, ci


abbiamo lavorato in modo che potesse fornire risposte sul quotidiano, sui fatti concreti che segnano la vita familiare di un figlio e di una famiglia adottiva. Il nostro intento è di partire da una indagine, da una riflessione comune, per poter creare, per quanto sta in noi, una comunità accogliente dove famiglie e ragazzi possano trovare riferimenti e risposte per affrontare criticità e difficoltà spesso pesanti. Partirò dunque da alcune considerazioni sull’adolescenza, in generale, per poter poi proporre alcune riflessioni su quella adottiva. Nella speranza che chi legge ci si possa ritrovare, possa prendere le mie parole come spunto e stimolo per trovare la voglia e l’energia di cimentarsi nel difficile compito di genitore adottivo.

Considerato - nei luoghi comuni o in letteratura - “bell’età”, “età incerta”, “età a rischio”, periodo di riattualizzazione di problematiche e conflitti irrisolti nella prima infanzia, il tempo dell’adolescenza, che sembra oggi non voler finire mai, presenta compiti complessi ed ineludibili legati alla crescita fisica e psicologica dell’individuo. Allentati i legami con la famiglia ed i rapporti di dipendenza dai genitori, l’adolescente trova nel gruppo dei pari - seppure con modalità diverse secondo l’appartenenza di genere e la fascia d’età - uno spazio di relazioni e affetti, un laboratorio di ricerca di nuovi interessi e valori, un’esplorazione di sé e della realtà sociale che assumono importanza fondamentale nel processo di costruzione dell’identità.

L’adolescenza è caratterizzata da una molteplicità di cambiamenti su svariati fronti, che coinvolgono il giovane e spesso sconvolgono la sua famiglia. Solitamente l’adolescente è costretto a lasciare dietro di sé è l’immagine costruita durante i primi anni di vita che rappresentava qualcosa di rassicurante e di “certo” e che lascia ora il posto ad ambiguità e identificazioni parziali. L’adolescente abbandona lentamente il concetto di sé costruito sull’opinione dei genitori per sostituirlo ad una considerazione di sé derivata dai giudizi dei coetanei con un conseguente aumento di ansia, frustrazione o con l’atteggiarsi in modo compensativo, nel tentativo di primeggiare in ambiti in cui si è considerati poco abili. L’acquisizione di una propria iden-

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tità comporta un processo di continua sperimentazione che consente di provare a recitare una molteplicità di parti, immedesimarsi in differenti ruoli. Per questo è molto frequente che un ragazzo o una ragazza si comportino in modo completamente diverso a seconda dell’ambiente e delle persone con cui si trovano (a casa, a scuola, con gli amici…). Sul piano sessuale l’adolescente sperimenta l’abbandono del corpo infantile per acquisirne uno adulto. Per alcuni ragazzi tutto ciò può essere sconvolgente perché si sentono impreparati e impotenti di fronte all’esplosione del loro corpo. Alcuni possono reagire cercando di nascondere la nascente sessualità per prolungare il più possibile la propria infanzia, mentre altri possono esasperarla assumendo precocemente comportamenti e abbigliamento “da grandi”, per sentirsi più adulti. Il possedere un corpo sessuato fa sì che l’adolescente dia al proprio corpo anche un significato erotico; si modificano così i rapporti con i familiari e con i coetanei dell’altro sesso. In adolescenza si assiste ad uno “spostamento” dell’adolescente verso il mondo esterno: nuovi amici, nuovi interessi sociali e affettivi, nuove attivi-

tà sportive e culturali. In questo periodo della vita diventano fondamentali gli amici, che non sono più dei compagni di giochi ma dei confidenti e delle persone con cui confrontarsi. La figura dell’amico del cuore acquisisce grande importanza, ci si sente più sicuri quando si è con lui, lo si vede spesso come una figura da imitare, da cui trarre spunto per formarsi una propria identità. Il rapporto con gli amici in questo periodo è molto importante perché facilita il distacco dalla famiglia. Le relazioni amicali si sviluppano su due piani: uno più ristretto e intimo (l’amico del cuore), l’altro più allargato e diversificato (la compagnia). All’interno della “compagnia” l’adolescente mette alla prova le proprie capacità di stare con gli altri e sperimenta nuovi modi di essere. Cambiano, dunque, i modi di comunicare e di relazionarsi rispetto a quelli usualmente utilizzati in famiglia. La comunicazione in casa e in generale con gli adulti può diventare difficoltosa, a volte aggressiva e gergale. I cambiamenti che interessano l’adolescente si ripercuotono all’interno del contesto familiare. Il ragazzo in questo periodo ha due esigenze tra loro contrastanti: da un lato sente il

bisogno di essere protetto dalla famiglia e vorrebbe restare bambino, dall’altro vuole differenziarsi e acquisire autonomia. La famiglia deve affrontare l’arduo compito di trovare un nuovo equilibrio, di rinegoziare le distanze interpersonali per venire incontro alle esigenze, si sente a disagio, si domanda quale sia la cosa giusta da fare. In particolare, i genitori possono comprendere le esigenze sociali del figlio e il suo bisogno di maggiore autonomia, ma spesso temono che egli non sia sufficientemente in grado di discriminare e selezionare gli stimoli provenienti dal mondo esterno lasciandosi condizionare negativamente. Famiglia e amici sono due realtà che devono integrarsi ed equilibrarsi. Numerose ricerche mostrano che il gruppo dei pari ha una maggiore influenza laddove è carente o conflittuale la relazione con la famiglia. Nell’adolescenza la persona comincia ad avere piena consapevolezza del proprio pensiero e a perfezionare la propria capacità di ragionare in astratto. Il raggiungere la capacità di riflettere sul proprio pensiero e su quello degli altri permette al giovane di prendere in considerazione idee differenti dalle proprie e la qualità delle


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relazioni muta, venendo meno il carattere egocentrico dell’epoca infantile. Eventuali successi in ambito cognitivo, quali buoni risultati scolastici, aiutano l’adolescente a rafforzare la propria autostima. La possibilità di pensare in astratto permette al giovane di fare i primi progetti per il futuro, immaginarsi “da grande” e prendere le prime decisioni importanti, quali la scelta della scuola o del lavoro. L’affinarsi delle abilità cognitive ha un’importante ricaduta sulle abilità sociali: l’adolescente è via via più capace di esprimere le proprie opi-

nioni, di usare il linguaggio verbale e non verbale modulandolo a seconda delle situazioni, di riconoscere i problemi e studiare le strategie di soluzione, di prendere posizione nelle discussioni. Dall’altra parte, tuttavia, l’adolescenza è caratterizzata da una focalizzazione sul presente: i ragazzi sembrano dare importanza al “qui e ora”, fanno fatica ad ascoltare ciò che è successo in passato e soprattutto fanno fatica a valutare le conseguenze delle proprie azioni considerandone in anticipo la ricaduta. A grandi linee, questo è ciò che si dice

degli adolescenti: ragazze e ragazzi in cerca di se stessi, spesso disarmonici, in conflitto, nell’eterna domanda del chi sono e cosa ci faccio qui. E l’adolescente adottato? C’è differenza, c’è maggiore problematicità, rispetto al suo coetaneo figlio biologico? Io penso di si. Penso che nella ricerca identitaria tipica del ragazzo che cresce, il ragazzo adottato debba fare altri conti. Da dove vengo? Dove colloco la mia famiglia biologica e dove la mia famiglia adottiva? Come me la cavo con questo corpo e con questo cuore che già nell’infanzia


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mi hanno provocato tanto subbuglio? Essere adolescenti adottati implica una condizione esistenziale complessa. Ed essere genitori adottivi di un adolescente, spesso pone la famiglia di fronte a prove dure, difficili, dolorose. Lo affermo per l’esperienza di tanti anni ad ascoltare madri sfinite, padri delusi, genitori che si interrogano sul cosa fare, sul come venirne fuori. La bassa autostima, la voce in fondo al cuore che ancora, da sempre, sussurra ad un individuo che è stato abbandonato “è colpa tua, c’è qualcosa in te che non va”, quella voce agisce e fa agire, spesso malamente. Forse nell’adolescente

adot- tato esplode un dolore che è lì da tanto tempo… Conosco tanti ragazzi adottati che hanno infilato, uno dopo l’altro, insuccessi. Sentimentali, scolastici, esistenziali… Quasi una coazione a ripetere, quasi a voler dare conferma che sì, è proprio così, adottato significa un po’ storto, un po’ così così, un po’ destinato a rivivere l’insuccesso. Conosco tanti genitori sfiancati dalla fatica, talvolta arrabbiati, talvolta talmente esasperati da chiedersi se davvero sia possibile venirne fuori con un figlio adottato che cerca di crescere, o che, piuttosto, sembra crescere con il corpo ma spesso permane in una immaturità emotiva e affettiva.

Da tempo mi chiedo cosa sia possibile fare per aiutare le famiglie adottive con figli adolescenti. Per tutte quelle famiglie che vagano da uno psicoterapeuta a un terapista familiare, da un centro giovani a un consultorio, che provano e riprovano a venirne a capo, con lo psicologo, con la dolcezza, con i metodi forti, e ancora e ancora. Ho conosciuto Greta Bellando qualche tempo fa. E’ una giovane pedagogista che sta concludendo un master all’Università Cattolica di Milano. Da tempo è vicina, con passione, al mondo dell’adozione. Sono la sua tutor, in un lavoro che sta portando avanti con l’Ente Cifa Ong, per


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il quale da tanti anni collaboro. Insieme abbiamo pensato di elaborare un questionario. Lo so, lo sappiamo, siamo spesso assillati dai questionari, forse non se ne può più ma abbiamo voluto insieme provare a rilevare i bisogni, concreti, tangibili, delle famiglie adottive con figli adolescenti. Vogliamo provare a immaginare una risposta a quanti mi chiedono, spesso, ma è normale? Così abbiamo elaborato un questionario da proporre a un campione significativo di famiglie adottive e un equivalente campione di famiglie cosiddette biologiche. Per capire fin dove arrivi lo scotto da pagare con un figlio adolescente e

da dove l’adozione invece problematizzi e renda molto più ampio il compito. Non è un’indagine per l’indagine, né ha ambizioni quantitative imponenti: è un punto di inizio. Per questo invito tutti a collaborare e ad aderire all’indagine. Per riflettere insieme sul da farsi. Per poter provare a ideare risposte a situazioni che talvolta portano con sé sofferenze e fatiche difficili da spiegare. Proviamo, tutti insieme, a rispondere, e poi ritroviamoci insieme, questo autunno (anche su queste pagine) per progettare, per mettere in piedi attività, situazioni educative, concrete proposte di accoglienza, risposte a bi-

sogni. Il tentativo è quello di smettere di vagare in cerca di risposte e provare a costruire una sfera accogliente, un centro, fisico e metaforico, dove ritrovare una possibilità. E’ avvincente no? Vale la pena di provare… Il questionario uscirà a fin giugno, si rivolge a genitori con figli tra i 14 e i 20 anni. Poi questo autunno ci tireremo su le maniche, tutti insieme.


psicologia-pedagogia e adozione 12

D.ssa Flavia Romano psicologa e psicoterapeuta Prof.ssa Antonella Zenga musicista e professionista in musicoterapia

Musicoterapia e adozione

Un intervento nell’ambito della comunicazione non verbale (musica, suono e movimento) a sostegno della costruzione di legami affettivi nelle famiglie adottive. La musicoterapia è una metodologia terapeutica a base sonora che promuove la costruzione di una relazione stabile tra il professionista in musicoterapia e l’utente/gruppo, attraverso lo sviluppo della comunicazione nonverbale e l’uso del canale corporo-sonoro–musicale. Gli strumenti musicali, la voce, il movimento e la produzione sonora che si realizza durante la seduta, costituiscono il contesto non verbale e sono gli elementi fondamentali che il musicoterapista ha a disposizione per costruire la relazione. Infatti, il principale obiettivo di un’attività musicoterapica non è

l’apprendimento della musica, né la realizzazione di un prodotto esteticamente valido, ma il miglioramento delle relazioni che il linguaggio sonoro-musicale può contribuire a realizzare, facilitando l’espressione e la comunicazione delle emozioni e del proprio mondo interno. La metodologia del Prof. R.O. Benenzon (BMT, Benenzon Music Therapy) è fra i modelli di musicoterapia attiva universalmente riconosciuti. Alla base della teoria. benenzoniana vi è il concetto di ISO (Identità sonora), che può essere definito come l’insieme infinito delle energie sonore, acustiche e di movimento che appartengono ad ogni individuo e lo caratterizzano. E’ un concetto totalmente dinamico ed è composto dagli archetipi sonori comuni al genere umano, dalle esperienze sonore,

vibrazionali e di movimento avute durante la vita intrauterina, il parto e il resto della vita. L’ISO di ciascun individuo, infatti, è il risultato dell’integrazione di ISO specifici: l’ISO Universale, che caratterizza e identifica tutti gli esseri umani, a prescindere dai contesti sociali, culturali, storici e psicofisiologici e si esplicita attraverso quegli elementi sonori primordiali che accompagnano la vita intrauterina di ogni essere umano, come il ritmo binario del battito cardiaco e della respirazione, i suoni dell’inspirazione e dell’espirazione, del movimento dell’acqua (assimilabile al liquido amniotico), la voce materna, il silenzio ed altri, più strettamente musicali, come la scala pentafonica, l’accordo perfetto, il canone e l’ostinato; l’ISO gestaltico, costituito


dalle energie sonore uniche per ciascun essere umano, che si producono a partire dal suo concepimento sino al momento attuale (rumori delle contrazioni muscolari della madre, vibrazioni trasmesse dal liquido amniotico, la voce della madre e del padre e tutti i suoni percepiti durante la vita intrauterina e successivamente); l’ISO culturale formato dai flussi di energie sonoro-musicali costituitesi a partire dalla nascita e dal momento in cui l’individuo riceve gli stimoli sonori dall’ambiente che lo circonda. E’ l’identità sonora propria di una comunità con omogeneità culturale e musicale. Ogni individuo nato e cresciuto in una specifica comunità porterà per sempre con sé tale ISO culturale, anche nel caso di un cambiamento totale di ambiente di vita. Dun-

que, la produzione sonora di un individuo è l’espressione dell’ISO, che è risultanza di tutti gli ISO sopra enunciati; l’ISO gruppale (due o più persone), ovvero la produzione corporo-sonoramusicale effettuata da un gruppo di individui, che è il frutto di un lavoro musicoterapico continuato nel tempo, grazie al quale gli ISO di ciascuno si adattano reciprocamente, costituendo così l’identità sonora del gruppo. Questa lunga premessa sulla teoria dell’ISO definita da Benenzon, ci è parsa necessaria per introdurre la nostra esperienza di musicoterapia con bambini adottati. Riferirsi a questo principio, significa partire dal presupposto che il bambino/a che abbiamo davanti è portatore di una propria identità sonora cui dare voce, con-

sentirle di emergere, vuol dire accompagnarlo in un percorso di rivisitazione e di rielaborazione della propria storia. Attraverso la comunicazione non verbale, il bambino/a ha la possibilità di vivere e recuperare all’interno di un contesto protetto, appunto quello del setting musicoterapico, dei passaggi evolutivi importanti, quegli anelli probabilmente saltati durante la crescita e ricontattati durante questa esperienza di suono, corpo e movimento. Parallelamente il setting di musicoterapia si pone come spazio ideale per esprimere il disagio dello adattarsi a nuovi modelli educativi e culturali, un disagio che spesso si traduce in modalità comunicative particolari, molto dinamiche e forti, che possono essere canalizzate, sotto forma di energia corporo-sonora,

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sugli strumenti musicali, convenzionali e non, che il musicoterapista sceglie e mette a completa disposizione del bambino. Infine, ma non ultimo per importanza, vi è un altro elemento sostanziale: il modello benenzoniano, oltre che a connotarsi per l’uso del non verbale, si fonda sulla non direttività, sull’attesa e sull’ascolto empatico dell’altro. Ciò implica che il bambino durante la seduta si trova, forse per la prima volta, padrone del suo tempo e del suo spazio, libero di scegliere e di comunicare, con tutto il corpo e gli strumenti messi a sua disposizione, ciò che sente di esprimere. All’inizio esplorerà questo nuovo contesto quasi con diffidenza, sperimenterà gli strumenti, a volte con prudenza, a volte provocando, per comprendere i limiti di questa en-

nesima, nuova situazione. Poi, col tempo, scoprirà di essere capace. Capace di creare con i suoni, di dialogare o litigare attraverso gli strumenti, di inventare giochi e raccontare storie o di interpretarle sui suoni dell’altro. Comincerà ad avere fiducia, prima di tutto in se stesso e poi verso chi lo accompagna in questo suo raccontarsi. La nostra esperienza tuttavia non ha tenuto conto del solo bambino. All’interno di un lavoro d’equipe si è sviluppata un’idea che mira a costruire una vera e propria rete intorno al bambino adottivo e alla sua famiglia. Una rete che supporti la costruzione dei legami affettivi, e permetta la crescita e l’individuazione del Sé attraverso la cura e l’accudimento di un noi, apprendendo in modo continuativo e consapevole dall’esperienza. In tutte le

famiglie l’arrivo di un figlio rappresenta un’importante tappa evolutiva che implica una trasformazione dei modelli di vita precedenti e notevoli cambiamenti personali, coniugali e sociali. Tale processo è ancora più complesso per i genitori adottivi ed è caratterizzato da alti livelli di incertezza: essi, infatti, si trovano a dover fronteggiare tensioni e conflitti di più ampia portata. Una delle poche certezze, a volte l’unica, è data dal fatto che il bambino adottato ha delle proprie radici, spesso molto lontane, non solo dal punto di vista territoriale, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale, da quelle della famiglia adottiva. Il nostro percorso fino ad oggi ha coinvolto all’interno del setting di musicoterapia i soli bambini, in incontri individuali. Questa scelta


è stata fatta con l’obiettivo di dare a ciascun bambino l’esperienza di una relazione unica e speciale, dove, attraverso la dimensione ludica e simbolica, è possibile dare l’avvio a quei processi d’integrazione del Sé che promuovono la costruzione dell’identità di ciascun essere umano. In una seconda fase, grazie alla collaborazione con il Conservatorio “A. Casella” di L’Aquila, è stata presente anche una tirocinante del biennio di specializzazione in musicoterapia. Ciò ci ha consentito di ampliare e diversificare le possibilità di relazione. All’interno del nostro lavoro, la nuova identità genitoriale è supportata da un percorso psicologico dove si ha la possibilità di ri-esplorare tutte le aspettative e le fantasie che la coppia aveva prima dell’arrivo del figlio. Osservare quel PRIMA alla

luce di quanto esiste nel QUI ed ORA, permette ad ogni coppia genitoriale di creare delle connessioni tra un prima e un dopo, lavorando quindi sul processo di accoglienza dell’ALTRO e sulla costruzione di un’esperienza che possa dare, forse, uno stile di attaccamento meno disorganizzato e meno evitante. La nostra esperienza col bambino, ci suggerisce di promuovere il medesimo lavoro anche con l’intero nucleo familiare, al fine di consolidare i processi di conoscenza di ciascun componente. Riteniamo prezioso per i genitori adottivi ricercare il proprio ISO e divenirne consapevoli, per poter così aprire nuovi canali di comunicazione in ambito non verbale, ovvero quella comunicazione che il genitore, anche non adottivo, utilizza nei primi momenti col proprio figlio

in una relazione appena nata. Inoltre, poiché come abbiamo visto ciascun bambino adottato ha le medesime potenzialità, la sua ISO richiede di essere scoperta e rielaborata, perché i genitori adottivi possano instaurare con lui/lei una migliore relazione e uno stile di attaccamento maggiormente efficace. All’interno di un percorso di musicoterapia i genitori avranno quindi l’occasione di recuperare il proprio mondo espressivo e di riconoscere le modalità di interazione reciproca su cui si costruirà la nuova dimensione del NOI.

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giorno dopo giorno

di Greta Bellando

Un tesoro tra le origini viaggio di ritorno in Vietnam 16

Ci siamo incontrate per la prima volta a Milano, di lei non sapevo molto, ci eravamo scritte qualche giorno prima del nostro appuntamento, in cui le avevo accennato il motivo della mia visita. Lei è stata l’unica persona con cui ho avuto piacere di parlare vis à vis, senza utilizzare uno schermo come intermediario. Ricordo che la nostra conoscenza avvenuta con un abbraccio in stazione centrale, è stata un crescendo durante tutta la giornata trascorsa assieme; abbiamo “rotto il ghiaccio” parlando delle nostre viteessendo coetanee- della nostra routine, dei nostri progetti fino a giungere ad una panchina del castello sforzesco. Tanti erano i rumori: c’erano le scolaresche, gli operai che rasavano il prato, ma nonostante tutto siamo riuscite ad iso-

larci per entrare in un’altra dimensione: la sua, quella più interiore, quella delle sue origini vietnamite. Erano trascorsi pochi mesi dal suo ultimo viaggio in Vietnam, le emozioni erano molto vive, sgorgavano incessantemente, poiché in quell’occasione oltre ad assaporare la cultura delle sue origini, ha potuto riabbracciare fisicamente tutti i suoi parenti ed i ricordi da essi trasmessi. N. era già tornata svariate volte in Vietnam ma sempre a far visita al Paese, senza mai giungere al villaggio nel quale sapeva di avere ancora sparsi i tanti tasselli della sua vita: “Direi di conoscere abbastanza bene il mio Paese di origine, sono stata due volte in vacanza con mia madre e mio padre”. Poi continua: “L’ultimo viaggio a dicembre, è stato fatto con lo sco-

po di andare ad incontrare la mia famiglia di origine”. E’ vissuta, assieme alla nonna materna, in quel villaggio sino ai 3 anni, i ricordi sono sbiaditi, mentre, tra i meandri della memoria vi sono ancora immagini relative all’istituto nel quale è stata per due anni, sino alla sua adozione. Iniziamo a percorrere ogni singolo viaggio ed ogni singola tappa: “Le prime volte c’era molta voglia di conoscere il mio Paese; ero piccola e non avevo il coraggio di conoscere la mia famiglia a causa delle motivazioni che li avevano spinti a mettermi in istituto. Io ero piuttosto arrabbiata con loro, il coraggio di conoscerli l’ho avuto solo all’età di 24 anni; prima, più parlavo di loro e più non li volevo vedere”. Le chiedo il perché della sua rabbia nei loro confronti e lei, con


tono sicuro mi ha detto: “Il motivo per cui sono stata adottata risale alla morte di mia madre, avvenuta a causa della tubercolosi, quando io avevo 3 anni. Mia nonna, dato che vivevo con lei, non potendomi mantenere ha preferito darmi in adozione. Io sapevo di avere delle zie, che avrebbero potuto tenermi poiché anche loro avevano dei figli, e quindi ero arrabbiata con loro perché non avevano deciso di tenermi ed avevano preferito lasciarmi in istituto”. Scivoliamo sulla linea del tempo tra le emozioni di tutti e tre i viaggi: “Dei primi due cosa ricordi?” – le domando- “Sono stati un mix tra meraviglia e curiosità; quel Paese mi era lontano ma, allo stesso tempo, lo sentivo vicino; io credo che anche se si viene adottati, del proprio Paese si ricorderà sempre degli odori, dei colori, del cibo... A me è rimasto molto impresso il cibo, infatti, io mangio vietnamita e lo sento molto mio. C’è un piatto molto particolare, che è una zuppa con gli spaghetti, che lì

viene considerata il piatto tipico, ed io quando sono arrivata, me la ricordavo benissimo”. Prendendo fiato, troviamo entrambe la forza di proseguire, di andare avanti a quell’ultimo viaggio, delle vacanze natalizie; c’è stato un grande gioco di sguardi tra noi, percepivo la sua commozione, volevo trasmetterle sicurezza, fiducia, ma temevo di ferirla con le mie domande, era la prima giovane che incontravo di persona e che era tornata da così poco tempo. Prendendo fiato, inizia a raccontarmi del suo terzo viaggio assieme a mamma, papà e fidanzato: “Nel terzo viaggio ero tesa perché pensavo che non sarebbe cambiato niente nella mia vita. Io partivo dal presupposto che avrei continuato ad odiare queste persone e che non le avrei perdonate. All’inizio del viaggio ero andata per rivedere solo mia nonna, pensando fosse ancora viva e poi volevo sapere il più possibile di mia madre e della mia storia. Non ero partita con l’interesse di rivedere i miei zii ma….”. “In realtà

cos’è accaduto?” E lei: “Nonostante prima di partire avessi comunicato che non volevo incontrarli.. al mio arrivo erano tutti là!”. “Cos’hai trovato?” –le domando- “c’era tutta la famiglia!” e poi sorridendo continua dicendomi: “Devo dire però che è stato piacevole, più di quello che mi aspettassi. Io nutrivo un forte rancore verso queste persone e attraverso questo viaggio sono giunta a trovare la pace”. E’ serena, la voce si è distesa e così continua a ricordare: “C’è voluto un traduttore poiché loro parlano solo il vietnamita; abbiamo noleggiato un’auto con l’autista e siamo arrivati a quello che io credevo essere un villaggio povero, ma che in realtà non era più così. L’influenza della Cina ha contribuito negli anni ad un maggior benessere”. Arrivare al villaggio non è stato facile, mi ha raccontato che non ci sono i numeri civici come da noi, è tutto molto più confuso; dopo vari tentativi sono giunti finalmente a destinazione, in fondo ad

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una strada con quattro case circondate da campi da coltivare, là….c’erano le sue origini!…e là tutti erano presenti, tutti si ricordavano di lei! “Cos’hai provato?” “Ero confusa, un po’ spaesata perché non sapevo se quelle erano le persone giuste o se erano altre persone a cui chiedere indicazioni. Arrivata là, loro hanno iniziato a venire tutti ad abbracciarmi ed io sono rimasta paralizzata; loro mi parlavano in vietnamita ma io non li capivo. Io mi aspettavo da loro un’altra reazione, poiché credevo che a loro non facesse piacere rivedermi. Quando ho visto la loro allegria e la loro commozione sono rimasta basita”. Da lì è iniziata “un’apparente” normalità, tutta la famiglia di N. ha accolto i suoi genitori ed il suo fidanzato ed assieme hanno potuto degustare i piatti tipici, poi è stata accompagnata a fare il tour del villaggio: “Tutti in quel luogo si ricordavano di me, di quando ero una piccola peste e correvo assieme agli altri bambini”. “Dopo il rito dello spuntino” continua: “Dato che avevo portato dei fiori per la tomba di mia nonna, mi hanno portato in cima alla collina dove c’era la tomba di famiglia con mia madre, mia nonna, mio nonno e

mio zio. Dato che loro sono buddisti, noi abbiamo pregato e abbiamo lasciato dei doni”. I ricordi rimandano a tante emozioni e ad una profonda sensazione di accoglienza, erano tanti i banchetti, le pietanze in tavola, le parole degli anni trascorsi e quelli da costruire, magari nuovamente assieme: “Durante quel giorno avevamo avuto occasione di parlare molto e ci hanno raccontato di me quand’ero piccola, che correvo da ogni parte, che mi arrampicavo sugli alberi. Loro mi hanno detto di esser stati dispiaciuti della scelta di mandarmi via e che erano molto contenti di vedermi. Hanno accettato il mio fidanzato come mio marito, erano felici; poi mi hanno mostrato le mie foto da bambina e mi hanno mostrato la foto di mia madre, che era l’unica foto che avevano, e me l’hanno lasciata”. Questo viaggio è stato per N. una svolta importante, da quell’incontro ha potuto colmare il puzzle riassestando i tasselli delle sue origini: “Le mie zie mi hanno raccontato che, il giorno in cui sono stata adottata, erano presenti a quella specie di festa che era stata organizzata. Loro hanno detto che io piangevo ed erano preoccupate per me

e sarebbero volute venire lì a consolarmi, questa era una cosa che non mi aspettavo. E’ stato un po’ un ‘passaggio di testimone’ ed è stato come se loro si volessero rassicurare per le mie sorti”; volgendo uno sguardo al futuro con nuovi occhi: “Quella sera mi hanno dato un anello in oro che sarebbe stata la mia dote, che dovevano darmi quando io ero piccola. Con questo gesto loro mi hanno riconosciuta come loro nipote, mi hanno detto di esser felicissimi di avermi incontrata. Mi hanno anche detto di tornare dopo il mio matrimonio, così avrò la possibilità di rifesteggiare con loro questo evento della mia vita, secondo anche la tradizione vietnamita. Se non andrò ci rimarranno male. Oggi ho contatti con alcuni dei miei cugini”. Prima di salutarci, finiamo la nostra chiacchierata e le chiedo: “Oggi che donna sei?” e lei sorridendo mi ha risposto: “Sono serena, questo viaggio ha sciolto le mie tante paure e forse se l’avessi vissuto prima, la mia adolescenza sarebbe stata meno turbolenta. Quel viaggio per me è stato come aver trovato un tesoro, difficile da scovare, ma alla fine quando lo conquisti non resta che esclamare… che bello!!!”.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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giorno dopo giorno

di Valentina Cafiero

Diario di un’adozione - parte terza 20

A José Enrique e Juan Camilo. Ed è a loro che mamma V. dedica questo diario di viaggio e di vita. Un tributo ai miei piccoli e desideratissimi uomini che meritano una parola scritta almeno per ogni loro giorno della nostra nuova vita insieme per fare memoria del loro passato, per custodirlo, accoglierlo e amarlo sempre perché è tutto questo che li rende speciali e soprattutto li rende figli nostri. 1 giugno Oggi è sicuramente una giornata da ricordare nel bene e nel male. È partita la prima sberla. Molti mi giudicheranno male, ma io penso che la cosa abbia avuto un risvolto positivo e non me ne pento. Scendiamo di casa per andare al parco e José Enrique si era già stranito perché il padre gli aveva fatto cambiare le scarpe. Come sempre,

decide di mettere il muso e tirare diritto, si allontana da solo avanti e prima io e poi il padre e anche il fratello lo imprechiamo che ci sono i ladri di bambini in giro, lo chiamiamo e poi ci avviciniamo e lui niente. All’ultimo richiamo penso che sia arrivato il momento adatto per farlo…. Ci nascondiamo dietro a un muretto fino a quando lui arriva molto avanti si gira e non ci trova. Faccetta impauritissima, prende e inizia a correre, noi usciamo dal nascondiglio e lui ci guarda e si arrabbia ancora di più. Io gli dico che non lo deve fare mai più altrimenti le prossime volte rischia di non ritrovarci e lui ancora con la faccia offesa. Poi gli dico come vedi non noi ti lasciamo mai, sei tu che te ne vai. Mi avvicino e dico, ma tu hai capito che non lo devi fare mai più? E lui NO. Hai capito? No. La

sberla lieve è stata più una punizione morale alla sua arroganza per costringerlo a fargli dire sì, ho sbaglio e non lo devo rifare. Arrivati al parco gli ho detto adesso gioca e non ti permettere di piangere e lui nel giro di 5 minuti mi è venuto a chiedere scusa e tutto è tornato felice e sereno come prima. Che dite arriveranno gli assistenti sociali? Non mi importa, lui deve capire e provare sulla sua pelle che cosa significa perdersi e soprattutto ricordarsi che è un bambino e non fare il super uomo. Per il resto non lo voglio dire, ma pare che sono due giorni che l’ipereccitazione si sia leggermente calmata. Riescono un pochino a giocare da soli, a intraprendere delle attività di loro iniziativa e a volte a stare anche fermi. Non è che vi sto dicendo che siamo nella pace, ma Raffaele


il pomeriggio si chiude in camera e riesce a riposare un pochino mentre io riesco a gestirmeli tra un racconto, un lavoretto e una coccola. Tre giorni fa sembrava una cosa impossibile. Chiaramente poi basta pochissimo per riaccendere la loro miccia. La nostra domenica a Pereira ha seguito un ritmo lento e propriamente domenicale con tanto di acquisto di dolce per il dopo pranzo. Nel pomeriggio uscita al centro commerciale. Abbiamo promesso loro di portarli ai giochi se prima si comportavano bene e ci facevano fare le nostre cose. Promessa egregiamente mantenuta e patto rispettato. Nel parco giochi sono voluti rimanere nel baby parking sorvegliato mezz’ora e io e il papà nel frattempo abbiamo giocato al canestro e deposto un po’ le armi, ma

poi siamo subito tornati a guardarli. So che sono di parte, ma guardandoli in mezzo agli altri mi sembrano ancora più belli di quello che sono. E vi assicuro che i bimbi colombiani sono davvero tutti belli, ma loro sono di più, sono un’altra cosa, i loro occhi e i loro colori mi fanno impazzire. Siamo davvero fortunati ad avere due gioiellini così e poi sono davvero i nostri, sono loro e nulla più. Se ripenso a quando li cercavo stupidamente nelle corsie di ospedale e invece loro erano già lì e il filo del destino li legava già a noi. Adesso chiudo e non rileggo, come sempre ogni sera. Scrivo tutto di getto e non torno mai indietro, altrimenti mi faccio prendere dal pudore, ci ripenso e poi cancello. Voglio che tutte queste cose le possano rileggere loro senza masche-

re e scorrere veloci, vere e leggere come un fiume in piena. 2 giugno Anche in Colombia oggi è un giorno di festa e nonostante la pioggia ce la stiamo goduta tutta. Abbiamo fatto un lungo viaggio in “autobuseta” per raggiungere la bellissima finca Recuca nell’entroterra di Armenia e ce la siamo veramente spassata. Fattoria del caffè in stile coloniale, raccolta dei semi, processo di lavorazione del caffè, travestimento con abiti tipici dei campesinos e balletto. Devo dire che i bimbi si sono veramente divertiti e anche noi. Con questi mezzi di trasporto ci sentiamo liberi e sicuri. Hanno un sistema che farebbe invidia a un paese scandinavo e ti portano veramente ovunque. Queste giornate alleggeriscono molto la te-

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sta e sono dei continui test per tutti. Emotivi, comportamentali e di adattamento. Sull’adattamento siamo tutti promossi. Nessuno si lamenta, in autobus tutti si addormentano, mangiamo tutto e siamo veramente felici e contenti. L’unico problema rimane sempre lo sfrenamento finale al quale pare non sempre riusciamo a mettere fine. È come se ci fosse un crescendo e da un momento a un altro la situazione ci sfugge di mano. José Enrique inizia a fare il prepotente e non sentirci più e purtroppo manca ancora quella cosa che mia madre faceva con me da bambina, cioè il “basta che ti guardo e tu devi capire che è il momento di finirla”. So benissimo che è veramente troppo presto per poterci riuscire, significherebbe che saremmo tutti i primi della classe, quindi

appena vediamo la mala avviata, si alzano i tacchi e si va perché è inutile dire smetti di disturbare, fai giocare un po’ tuo fratello, lavati le mani, alzati da terra che è sporco. Non c’è niente da fare, li devi prendere e andare via per mettere fine a tutto questo prima dell’apocalisse finale o che qualcuno si faccia male o si metta a capriccio serio o peggio ancora che io inizi a gridare. C’è anche da dire che spesso i grandi sono più bambini dei bambini stessi. Negli ultimi 2 giorni gli uomini di casa per giocare alla lotta sul letto hanno rimediato i seguenti danni: capocciata a terra di Juan Camilo con annesso pianto lamentoso di 30 minuti e visita all’improvviso del referente italiano che ci ha trovato con ghiaccio in mano e succhiotto sulla faccia di José Antonio che pare sia stato

pestato per mesi e che se lo vedessero gli assistenti sociali e lui raccontasse della sberla dell’altro giorno se lo riprenderebbero subito. Dopo un po’ di giorni vi voglio solo dire comunque che i pupi fanno a lotta per stare sempre con me… non so se è che una cosa bella o brutta e vi lascio con un pensiero tenero che vi piacerà sicuramente. Juan Camilo ogni sera prima di addormentarsi mi tocca la collanina con i due bimbi che Raffaele mi ha regalato e dice questi siamo io e mio fratello mamma e li stringe forte prima di addormentarsi. 3 giugno Dopo la giornata di festa di ieri abbiamo ripreso la dimensione casalinga e cercato di tenere bassa la loro sovraeccitazione che in alcuni momenti non si controlla proprio: si accendono e spengono le luci


continuamente, si apre il frigorifero e si gioca con l’acqua per non parlare di docce e lavandini, lenzuola, coperte e tutto quello che trovano davanti. A volte ci vorrebbe una corda per attaccarli. In mattinata tutto è filato liscio, risveglio soft, disegno, passeggiata, pranzo con pasta e fagioli e sottofondo di tamburriata nera con loro che apprezzavano tantissimo. A volte sembrano veramente impeccabili. José Enrique sta avendo una metamorfosi, non lo voglio dire, ma lentamente si sta piegando e ubbidisce più volentieri e non perché costretto. Mi dice mamma questo non si fa, mi dice il taxi si prende solo di sera e se abbiamo borse della spesa, insomma ripete tutto quello che io gli ho spiegato e sembra felice. Oggi mi ha anche detto che non vede l’ora

di andare in Italia e parla sempre di zio Andrea e zia Giuseppina, soprattutto di quest’ultima. Quando gli canto le canzoni sudamericane lui mi dice questa te l’ha insegnata tuo fratello vero? Credo che lo dica perché durante un collegamento skype mise una canzone simile e lui nota tutto anche se non lo dà a vedere e mi chiede quando andrà a scuola e se lui andrà con i bimbi più grandi di Juan Camilo. Poi quando canto deve sapere perché conosco questa canzone e da quanto tempo e chi me l’ha insegnata, un vero pignolo. Insomma lo vedo molto più disposto e molto meno imbronciato dopo l’episodio dell’altro giorno, mi sa che la lezione gli è proprio servita. Ma non cantiamo troppo presto vittoria…. Oggi però vorrei parlare un po’ del papà che sembra che sia in background,

ma vi assicuro che fa un lavoraccio, a volte anche più sporco del mio (pulisce cacche), cerca di mediare e mi placa quando esagero e dà anima e corpo sia affettivamente che praticamente. Chi lo conosce bene oggi non crederebbe che va in giro senza più camicia e solo con magliette non stirate, non si chiude più in bagno, è più tollerante per forza di cose al disordine e vi garantisco che per lui tutto questo è veramente un grande sforzo. Oltre al fatto che deve adeguarsi a una famiglia hispano hablante e a volte sentirsi un po’ in disparte. Oggi però non ha retto perché l’ho lasciato di nuovo con le pesti per concedermi un pedicure colombiano. Avevamo appuntamento al parco di fronte al centro estetico, ma visto che la señorita era molto precisa e scrupolosa e ritardava, me li

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sono visti tutti arrivare là dentro ed era evidente che erano belli agguerriti di sfrenamento. Uscita dal centro per raggiungerli arriva sms che dice siamo a casa. Da quello capisco che qualcosa non ha funzionato. Lo ritrovo avvilito a casa perché di nuovo non lo ascoltavano per strada e si mettevano a correre, lui giustamente ha preso e ha fatto retromarcia e per dispetto il piccolo ha rotto la copertina del letto. Arrivata io, dopo il resoconto inizio la mia sgridata urlando, prima con il piccolo al quale cerco di dirgli più o meno, se provi a rompere di nuovo qualcosa ti rompo io la testa e a tutti e due che devono stare incollati a noi altrimenti la prossima volta rimangono a casa da soli e usciamo solo noi e a minacciarli che non li portiamo a mare se continuano così. Juan Camilo inizia a piangere e gli dico di smettere che non ha motivo di piangere e che invece deve chiedere scusa al papà. Sto facendo il gioco delle 3 parole preferite di mamà: gracias, por favor y disculpa che secondo me loro non hanno mai pronunciato prima. Dopo la sfuriata della mamà cattiva che sgrida in spagnolo si riesce tutti insieme, ma anche se loro tentano di stare più tranquilli, il loro

pepe glielo impedisce, a volte è una battaglia persa e in due sembrano veramente incontrollabili. Tuttavia ribadisco che José Enrique gestisce meglio il tutto e non è più ostile alle regole e alle nostre decisioni e questo mi lascia ben sperare. Notte a tutti. 4 giugno I giorni scorrono, forse chissà, tra 24 giorni potremmo anche essere a casa, ma sembra tutto così astratto e surreale e poi ancora non ci sono notizie precise sulla data della sentenza. Intanto per ovviare al lento passare dei giorni e un po’ alla noia della quotidianità abbiamo deciso di regalarci una vacanza ai Caraibi colombiani: San Andrés, l’isola del tesoro ci aspetta. Ne abbiamo tutti bisogno e cambiare aria pare possa dare ulteriore giovamento ai singoli e alla vita familiare. Si tratta di un’isola paradisiaca che con il nostro arrivo si trasformerà sicuramente in un inferno. Scherzi a parte, sono contenta di partire, di vedere i pupi alle prese con il mare, perché non lo hanno mai visto e poi perché devono fare training per la nostra estate. Il problema è che a volte mi assale la stanchezza mentale e penso chi mi darà la forza di corrergli dietro e pensare ai tanti pericoli o anche far

salire ancora di più la loro ipereccitazione? Vi farò sapere a breve. Il pc rimane a casa perché non avremo wi-fi, quindi niente diario per una settimana, mando in vacanza anche i miei lettori. Per quanto riguarda la giornata di oggi, vi confermo che José Enrique risulta meglio disposto in generale, se gli dico no reagisce serenamente e adesso ripete tutte le cose che gli ho detto dimostrando apertura e accettazione delle regole. Io lo riempio di baci e carezze e cerco di gratificarlo più che posso quando mette in evidenza il suo senso di responsabilità e la sua saggezza. Anche oggi però non sono mancati i problemi. Stamattina mentre ero in bagno ho trovato tutte le confezioni di biscotti aperte che tra l’altro loro non amano nemmeno, ma li aprono per prendere le figurine. Ne hanno aperte ben 4 e io mi sono arrabbiata e gli ho detto adesso vi mangiate questi e niente cereali. Loro hanno incassato e si sono adeguati e tutto è passato. La seconda è arrivata in tarda mattina mentre io cercavo di inviare delle email a un cliente ritagliandomi giusto 10 minuti di pc in cui hanno iniziato a giocare con i succhi di frutta. Hanno una


fissazione per l’acqua e i liquidi: aprono, mischiano, passano di bicchiere in bicchiere. Un poco bevono, un poco a me, un poco a te, girando con il bicchiere per tutte le camere, un po’ lo conservo, un poco me lo ribevo e un po’ lo lascio dove capita. E nonostante io gli dicessi per favore seduti che così cade, il succo è chiaramente finito a terra. Altra strillata, infatti mi fa male la gola e loro che mi hanno risposto come all’inizio della convivenza. Sì, señora. E io a quel punto ho detto ma quale signora e signora, io sono mammà che vi piaccia o no. Intanto un altro affronto oggi lo ha avuto Raffaele, perché siamo andati al supermercato con i genitori di Christian (mai più, mi devono cecare gli occhi se lo rifaccio) e José Enrique ha di nuovo ripreso

a correre davanti e io altra sgolata dall’alto mentre lui correva e sgridata (e siamo a 3) però lui si è fermato ed è ritornato in sé. Dopo il tormentone zia Giusy di oggi, me encanta di qua, me encanta di là, yo solo quiero quedarme con ella, compriamo un regalo a zia Giusy, portami a casa sua, voglio stare con lei, si è attaccato a Paolo il papà di Christian e non ha voluto dare la mano a Raffaele, il quale ci rimane male. Io francamente non so se lo fa per metterci alla prova, o solamente per socializzare, ma è come se ti dimostrasse tu per me non conti niente e per Raffaele non è stato facile da digerire. Noi a tavola glielo abbiamo fatto notare, ma lui ha risposto solo mi piaceva stare con lui. Ci avevano avvertito di queste reazioni, ma quando le vivi è

sempre diverso. Per il resto vi garantisco che vi aggiornerò presto e intanto pregate per noi a San Andrés soprattutto perché partiamo con la Panama Airlines. Baci e a presto. 12 giugno Eccoci di nuovo a Pereira dopo la vacanza e sempre più famiglia settimana dopo settimana. Vi sembrerà strano, ma adesso anche questa casa ci sembra una reggia. Finalmente un po’ di comfort. La vacanza è stata molto positiva e adesso ne parleremo, ma gli standard di pulizia, comfort e alimentari lasciavano molto a desiderare, quindi tornare a casa ha veramente un sapore speciale. Ma partiamo con ordine…. L’aereo – Esperienza superata con successo. Tanto entusiasmo come sempre,

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eccitazione non ve lo dico proprio. José Enrique un po’ di paura, Juan Camilo spavaldo. Lo spostamento non gli faceva paura, ma facevano tante domande tipo mamma ma hai portato i cuscini? Hai portato gli spazzolini? Partecipavano attivamente alla preparazione delle valigie con forte senso di attaccamento alle loro cose. In aeroporto poi, dove mettono adesso le valigie? Perché se le prendono? E poi una volta arrivati sul posto, mamma ma adesso casina nostra piange perché noi non ci siamo. Il mare – Vi dico solo che abbiamo fatto un orario spiaggia 9 – 17 senza mai fermarci. Anche perché nonostante la tele non si prendevano i cartoni e questo rendeva praticamente impossibile la sosta in casa. Fortunatamente con la loro pelle di ciuccio

il sole non era un problema, mentre io ho passato 3 giorni accucciata sotto l’ombrellone per paura di scottarmi. Loro hanno continuato a chiamarlo piscina per 3 giorni, ma facevano tutto con naturalezza. Dall’acqua ai castelli di sabbia. Entrambi non sanno nuotare trattandosi della prima volta che hanno visto il mare, ma hanno grossa attitudine. José Enrique molto più sciolto e subito con la testa sott’acqua, Juan Camilo all’inizio attaccato come un polipetto al mio collo, poi alla fine della settimana anche lui con la testa sotto. Non sono mai stati spericolati, erano consapevoli dei loro limiti e io mi sono consolata a guardarli. E poi soprattutto all’inizio non ci sembrava vero che non ci fosse il martellamento continuo di mamà e papà per ogni cosa. Erano auto-

nomi, giocavano da soli e noi abbiamo ripreso fiato e rasserenato un po’ la mente, ma giusto quella perché fisicamente non se ne parla proprio. Come dicevo siamo sempre un po’ più famiglia e alcune cose anche se con grande sforzo iniziano a funzionare. Appena tornati, papà è andato al supermercato con Juan Camilo e José Enrique è rimasto a casa con mamma a disfare le valigie e fare le lavatrici in modo più tranquillo. Oramai queste sono le coppie fisse e si cambia molto di rado. Non so se questa è una cosa positiva o meno. Voi più esperti diteci la vostra al riguardo. A San Andrés abbiamo mangiato sempre fuori e questo a un certo punto ha stancato anche loro che dicevano questa casa non ci piace non c’è comida, andavano a controllare se compariva


qualcosa nel frigo e nei mobili. Abbiamo quindi dovuto metterli in riga sul comportamento a tavola. Devo dire la verità dopo i primi giorni in cui si è continuato a giocare con le posate e a vedere bicchieri d’acqua e di succo cadere a terra con il premio del gelato serale anche loro si sono sforzati a fare i bravi (sto seguendo i vostri consigli). Un’altra cosa odiosa che fanno sempre è che quando camminano per strada praticamente una mano la usano per strusciare vetrine, pali o qualsiasi cosa senza un motivo preciso con conseguenti mani nere. Io mi sono messa e li ho imitati facendogli vedere come erano ridicoli dall’esterno, loro si sono messi a ridere e pare che abbiano capito un’altra cosa. Adesso parliamo un po’ dei singoli. José Enrique – Dieci giorni fa non avrei creduto mai

in un cambio così radicale. Chiaramente ha sempre il suo bel caratterino forte e deciso, ma oramai è perfettamente entrato nella parte del bravo figlio. Fa di tutto per compiacermi. Non ha fatto più capricci, non ha lasciato mai più la mano né si è allontanato. Il primo giorno si è svegliato alle 6 per l’ansia di andare a mare e per fare presto ha rifatto i letti a tutti e ha ripetuto la cosa ogni giorno per aiutarmi e per guadagnarsi il suo gelato. Quando gli spiego che una cosa non si fa, mi chiede perché e alla prossima occasione mi dice vedi mamma non l’ho fatto come hai detto tu. Non lo voglio dire, ma non ha praticamente messo più il muso e riesco sempre a farlo ragionare quando gli dico no. Penso che l’amore, le coccole e il bisogno di accudimento forte che ha lo abbiano completamente

rapito e anche il suo carattere ha un po’ ceduto. Anche sul cibo si è moderato abbastanza. Vuole sempre condividere. Qualche volta che ha esagerato e io l’ho lasciato fare si è reso conto da solo che non può mangiare così tanto e stesso lui ha detto mamma domani devo mangiare di meno altrimenti faccio troppa cacca. Non sono mancati però i comportamenti strani e a volte un po’ imbarazzanti. Essendo un bimbo molto socievole ha fatto molte amicizie sulla spiaggia. Ma la sua socialità a volte mi inquieta. È timidissimo su alcune cose, tipo non gli piace ballare, cantare o mostrarsi in pubblico e non ne parliamo di fare video e farsi vedere su skype ma attacca facilmente bottone, senza capire il limite dell’estraneità. Giocava con le persone grandi o i bambini come se le cono-

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scesse da sempre, ma non chiedeva il nome e se questi si giravano e se ne andavano se ne dimenticava subito. A volte ho dovuto dirgli che non poteva stare sempre appicciato al papà di una bimba perché lui voleva giocare con sua figlia non con lui o magari voleva mettersi nelle foto che le altre famiglie si facevano in spiaggia. Lui mi ubbidiva pure, ma mi rendo conto che gli risultava difficile capire il limite. Altro fatto divertente è che poi queste persone gli chiedevano di dove sei e lui diceva sono di calle 14 che sarebbe il nostro indirizzo a Pereira. Più di una persona mi chiedeva ma come mai il bimbo non sa di dove è? E rimanevano sconcertati. Quando poi io dicevo Pereira loro ah sì, siete di Pereira, io ho mia zia che vive là. Quindi toccava dire no, noi siamo italiani ecc ecc. Insomma tutto questo significa che lui non ha radici, non

sa nulla del mondo, della Colombia, dell’Italia e che attualmente la sua casita è la sua unica certezza. Questo mi fa venire voglia di prendere subito l’aereo e tornare a casa per iniziare la nostra vita e dargli delle basi e mettere fine a questa transitorietà. Su Juan Camilo c’è meno da dire perché con lui è tutto molto più lineare. Nonostante i suoi 4 anni si adatta a tutto, mangia in piedi, seduto e di tutto di più. Sta bene sia con me che con il padre, è un te quiero continuo. È giocherellone e socievole e lui a differenza del fratello sembra conoscere il limite dell’estraneità. Essendo più piccolo però ha fatto tante monellerie e non si può perdere di vista. Quando si stanca o si annoia è sempre un continuo tra chiudere e aprire porte, accendere e spegnere luci e in certi momenti ti manda al manicomio. Oltre al fatto che è un goloso

tremendo e per un gelato potrebbe anche uccidere. A differenza del fratello è spesso crollato dal sonno in spiaggia e io e il papà ci guardavamo soddisfatti per la serie ce l’abbiamo fatta a sfinirlo. Quando si faceva il bagno con me e si aggrappava al mio collo mi faceva sentire la mamma più felice del mondo. Volete qualche episodio divertente? Eccoveli… Secondo giorno a San Andrés al ritorno dal mare, troviamo il frigo sbrinato e il pavimento pieno d’acqua perché era andata via la luce. Io chiamo la proprietaria spiegandole che non possiamo stare così perché ci sono due bimbi e loro tipo telenovela iniziano una forma di sceneggiata. Vanno a controllare nell’armadio se le cose si sono bagnate e mi dicono mamma richiama, dille che non si può vivere così, qui non funziona nulla. Non abbiamo frigo, tele, aria condizionata, ci


sono due bambini con te ripetendo ed enfatizzando. Al secondo episodio senza luce me li sono trovati nel bagno con le pilette a illuminarmi mentre facevo la doccia, mamma così vedi, ti facciamo noi luce. Sempre per riprendere il discorso della privacy e che non devono perdersi niente di niente. Secondo giorno sempre torniamo a casa dopo cena e José Enrique decide di fare l’atto grande. Va a scaricare e niente, ritorna tutto su. A quel punto interviene il papà idraulico che cerca in qualche modo di sistemare la situazione mentre le due pesti per non perdersi lo spettacolo si mettono in prima linea a vedere tutta la pupù galleggiante fino a quando il papà non li caccia dal bagno. Per quanto riguarda il capitolo amicizie. Conoscenza alle giostre con una bimba di Medellín che mi molla il suo peluche per

giocare con loro e mi chiede di parlarle un po’ italiano. A un certo punto la vedo piangere e mi avvicino pensando che le pesti le avessero fatto qualcosa e lei mi dice no, piango perché ho da poco perso mia zia a cui volevo tanto bene. I curiosoni arrivano subito e vogliono che io spieghi e mentre io cerco di consolare la bimba, loro dicono mamma ma perché se lo è ricordato proprio adesso e perché piange e chi era questa zia e che faceva. Marò statevi 5 minuti zitti. Altro episodio divertente stamattina in spiaggia. Un bimbo viene punto da una medusa e piange. Io mi avvicino per capire e come saggezza popolare dice qui serve una pipì da mettere sopra. Vado dai bimbi con il secchiello e dico fate presto, fate pipì, mentre mio marito impreca la tua testa non è buona. José Enrique subito si presta, mi avvicino con il secchiel-

lo e la pipì spiegando che non è mia, ma di un’anima innocente con loro che ovviamente mi seguono e la mamma dice dai mettiamo la pipì e lui nooooooooo mi fa male, e dai mettiamo e interviene il papà che fa ma che glielo chiedi a fare metti a basta!!! Insomma ogni mondo è paese E loro dopo per circa un’ora a fare domande sulla possibile bestia che lo ha punto e dei mille perché. Adesso vi saluto e spero di darvi al più presto notizie su sentenza e ritorno in Italia. Voglio il mio cuscino!!! Voglio tornare a casa!!!

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giorno dopo giorno

di Berta Martin Beltran

Il sogno si avvera 30

Dopo una lunga, estenuante e difficile lotta per terminare l’adozione di nostro figlio, a causa di un blocco delle stesse imposto dal suo paese di origine, il Mali, finalmente il 6 gennaio 2015, proprio nella giornata dell’Epifania, abbiamo potuto abbracciare il nostro piccolo cioccolatino. Il sogno si è compiuto, anche se in alcuni terribili momenti sembrava fosse diventato impossibile realizzarlo. Nel novembre del 2012, il paese era immerso in una islamizzazione profonda e questo aveva portato alla chiusura delle adozioni dei bimbi maliani da parte di cittadini stranieri e quindi, anche le famiglie che come noi avevano il dossier già approvato dall’autorità centrale maliana, si sono viste coinvolte in un insopportabile incubo, durato più di due anni. Due anni di bat-

taglie, due anni di ansia, vissuti nel timore di non poter abbracciare un bimbo che era già a noi destinato e che sarebbe dovuto arrivare proprio quando il blocco è stato imposto dal nuovo direttore dell’autorità centrale maliana per le adozioni. Personalmente ho condotto una “guerra” insieme a qualche altra famiglia francese e spagnola, in rappresentanza di tutte le famiglie europee nella stessa situazione, per poter arrivare alla conclusione positiva dei dossier di adozione che erano rimasti bloccati senza ragione. Tempo prima avevamo avuto l’accettazione della stessa autorità maliana per il proseguimento della procedura di adozione nel loro paese, ciò implica l’abbinamento con uno dei minori abbandonati ospiti nelle diverse strutture del Mali. Il nostro piccolo era

lì, era stato già proposto in abbinamento per noi, ma quell’abbinamento non è stato firmato per un soffio a causa del blocco, e lui, peggio di noi, ha dovuto attendere più di due anni per trovare una famiglia che lo accogliesse e amasse. Sono stati i peggiori due anni della mia vita; ho vissuto sempre, ogni ora di ogni giorno, pensando a lui, pensando a come fare per poter sollecitare questo agognato sblocco, privando il mondo di un’ennesima ingiustizia; due anni di sogni e speranze che però si spegnevano con il trascorrere di giorni, mesi, anni. Anni di lotta e lacrime, lacrime di sofferenza, di agonia, di paura per non poter mai abbracciare quello che nel mio cuore era già mio figlio. Ma proprio la sua esistenza, proprio lui, mi ha dato la forza per poter combattere


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ogni giorno, per trovare il modo di portarlo finalmente a casa, per poterlo amare non solo a distanza. La forza e la voglia di andare avanti, anche quando tutto sembrava contro di noi, sono state sostenute proprio grazie a quegli occhi spenti e tristi, quel bimbo che non sorrideva e del quale era sufficiente il solo sguardo per comprendere il grande bisogno di amore che solo una mamma e un papà possono dare. Finalmente però, proprio il

6 gennaio, il giorno dell’Epifania abbiamo visto compiuto quel sogno. E’ stata una notte magica, dopo un lungo viaggio dall’Italia al Mali, una notte di speranza e felicità attendendo il gran momento. Come ci avrebbe accolto il nostro piccolo? Sarebbe stato spaventato come sempre quando conosceva qualcuno? Si sarebbe fatto avvicinare? Avrebbe pianto? Povero bimbo, gli avevano raccontato poche settimane prima che arrivassimo,

che sarebbero venuti la sua mamma e il suo papà, gli avevano mostrato le nostre foto perché l’incontro con noi non fosse così impattante e i nostri volti gli fossero più familiari. I dieci minuti in taxi fino all’orfanotrofio sembrarono eterni ma quando arrivammo all’ingresso, di fronte a quella porta che tante volte avevo visto nelle foto, l’emozione salì e gli occhi si riempirono di lacrime… ora ci separava solo quella porta da lui! Non mi sem-


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Frutto del rapporto di amore per quella terra e per quella gente, il progetto MALIDENÙ (che Berta gestisce insieme alla ONG Bambini nel Deserto) è nato durante il lungo tempo dell’attesa per dare sostegno a tutti i bimbi orfani del Mali. Il progetto può essere sostenuto sia con donazioni sul conto intestato ad ONG Bambini nel Deserto Onlus – IBAN: IT24G0103012900000001500048 – Causale: «Erogazione liberale – Sostegno Malidenù», che con l’acquisto del libro “Aspettandoti. A 3883km”. Scritto dalla stessa Berta, racconta le sensazioni e i sentimenti vissuti durante questi anni, rivolgendo uno sguardo attento e critico alla situazione socio-politica del Mali che ha portato il paese non solo al blocco delle adozioni, ma anche a una guerra contro le forze estremiste islamiche che volevano prendere il potere in un paese in cui fino ad allora avevano convissuto popolazioni di religioni diverse, grazie alla grande tolleranza e rispetto che caratterizza il popolo maliano. Il libro è acquistabile su Amazon.

brava vero. Entrai e vidi due occhi meravigliosi che mi osservavano profondamente, era il nostro bimbo e lui aveva già capito che eravamo la sua mamma e il suo papà. Salimmo nella camera del primo piano e attendemmo che lui arrivasse, furono minuti di grande commozione e quando vedemmo quel piccolo cioccolatino camminare verso di noi dalla mano del direttore dell’orfanotrofio non potevamo credere che davvero fosse arrivato quel momento così tanto desiderato. Lui non pianse, si avvicinò molto

cauto, spaventato e sembrava tristissimo e rassegnato a stare con noi. Ma si fece abbracciare, prendere in braccio, osservava tutto quasi impassibile e ogni tanto il suo dolce viso si bagnava di grandi lacrime che scorrevano in silenzio. Dopo due giorni insieme in orfanotrofio, finalmente lo portammo con noi a casa, la casa del nostro caro amico Karl che ci ospitò tutto il mese che trascorremmo in Mali insieme a nostro figlio. Pian piano, giorno dopo giorno la relazione tra noi e lui diventò sempre più intensa,

imparò ad affidarsi a noi e il suo sguardo e il suo volto cambiarono completamente, finalmente vedevamo dei bei sorrisi e uno sguardo sereno e felice. Così il giorno della partenza in aereo fino a casa, fu tutto più facile. Il 1 febbraio arrivammo a casa e d’allora la storia con nostro figlio è ogni giorno più bella! Il sogno si ha avverato e sentir dire da lui stesso che ormai è felice con mamma e papà è il regalo più grande possibile e immaginabile. Ormai siamo una famiglia!


post

GSD attiva sul territorio gruppi di auto aiuto dedicati al Post adozione e all'Attesa, organizza incontri di sensibilizzazione e informazione, copre le spese vive contribuisce a coprire i costi

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giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

Ulisse dei giorni nostri 34

E’ iniziato il carosello vorticoso di recite, saggi, lezioni aperte, gare sportive, feste che ogni fine d’anno scolastico obbliga i genitori a contorsioni azzardate delle agende, con sensi di colpa alternati di mamma o papà per essere mancati ad appuntamenti irrinunciabili, malumori per pizzate, brunch e pic-nic di cui volentieri avremmo fatto a meno. Quest’anno sono meno tollerante del solito: ho diversi grattacapi che occupano la mia mente e arrivo già in affanno alle fatidiche tre settimane tra fine maggio e inizio giugno. Oggi tocca a me partecipare allo spettacolo teatrale di mio figlio di prima media previsto alle 10.30 (!) del mattino. Sono sull’autobus e rimugino tra me e me pensieri bellicosi contro un modello sociale che

impedisce un equilibrio tra tempi della famiglia, della scuola e del lavoro e contro un’organizzazione iperstrutturata del tempo libero. Al fondo sono tormentata anche da una domanda amletica: ho fatto bene a prendermi l’ennesimo permesso in ufficio per una recita in cui mio figlio mi ha detto che interverrà con un’unica battuta e a cui non tiene (almeno a parole) che io assista? Non so nulla del laboratorio teatrale che lo ha tenuto impegnato negli ultimi due mesi: mio figlio era già un tipo di poche parole da bambino e ora che è entrato nella preadolescenza, i suoi racconti sulla vita scolastica sono veramente sempre più rarefatti e lacunosi. Fatico a trovare l’ingresso dello scalcinato teatro di periferia in cui si tiene la

rappresentazione e, appena lo individuo, mi trovo in compagnia di un recalcitrante gruppo di genitori già un po’ innervositi dal ritardo della compagnia teatrale. I posti in platea più ambiti sono quelli vicino alle uscite: ci sono diverse classi che devono salire sul palcoscenico e appena gli amati pargoli si saranno esibiti, le mamme e i papà sperano di schizzare via, compiaciuti di aver fatto il loro dovere. Prendo posto in prima fila, proprio mentre entrano i ragazzi in teatro. Sono tanti, allegramente chiassosi, colorati. L’atmosfera in un attimo cambia e il mio malumore inizia magicamente a dissolversi. Individuo mio figlio, con il braccio sulla spalla di un ragazzetto con lo stesso ciuffo pettinato, ma la pelle visibilmente scura. E’


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il suo vituperato (almeno fino a Natale) compagno di banco egiziano, con cui sembrano ora avere un’intesa perfetta. Lui mi lancia un sorriso, contento di trovarmi in platea. Il regista prende in mano il microfono, che immancabilmente fischia: lo spettacolo non prevede scenografie né costumi. I ragazzi delle prime presenteranno semplicemente una loro versione del tutto personale dell’Odissea. Ancora prima di affrontare la lettura di alcune pagine, il professore d’italiano e il regista hanno presentato i versi inziali di episodi famosi, lasciando però ai ragazzi la possibilità di immaginare evoluzioni diverse della storia e provando a sollecitarli nella discussione, in vista di un’attualizzazione del poema di Omero. Quanti Ulisse, Telemaco,

Penelope esistono anche ai nostri giorni e popolano le nostre città? Quante famiglie divise dalle guerre, dalla povertà sono tra noi? Il primo a comparire in scena è Ulisse, un bellissimo ragazzino senegalese con i tipici capelli rasta ed occhi scuri molto espressivi. E’ il compagno più simpatico della classe di mio figlio che ha un nome che sembra quello di un musicista jazz, ma ora sembra un eroe tragico del nostro tempo, naufrago di un mare cattivo, salpato da una terra dilaniata dalla guerra. Sfilano poi la maga Circe, la dea Atena, Nausicaa… Tutti sono molto compresi nel ruolo: non è tanto importante la riuscita della loro recitazione, quanto il lavoro fatto insieme, il discorso che a partire dall’Odissea è andato a toccare

temi scomodi e attualissimi come quello dell’immigrazione, dei viaggi di scoperta, di avventura, ma anche dei viaggi obbligati, viaggi non voluti, di navi piene di dolore, salpate da patrie abbandonate e mai dimenticate. Nessun personaggio è un vero protagonista, tutti partecipano, muovendosi con leggerezza – incredibile per dei preadolescenti - sul palco, poche battute a testa. Mio figlio fa parte del coro composto dai marinai, compagni di Ulisse che declamano con grande partecipazione:


vanno per mare, incontrano sventure, ma non smettono di cercare una nuova terra su cui approdare, una nuova vita da vivere, la vecchia casa a cui tornare, una famiglia lasciata chissà dove. Guardate quel tale, Odisseo che nel mondo chiamano Ulisse Il più astuto tra gli uomini eppure anche lui vaga per mare nel mistero di una sorte che non conosce vaga in cerca della sua terra, della sua vecchia casa. Guardate suo figlio Telemaco in cerca di un padre di cui non conosce il destino. Guardate sua moglie Penelope che lo attende, nel silenzio e nella speranza mai sopita. Tutti costoro ignorano il finale, tutti costoro ignorano la sorte loro e di chi vanno cercando tutti costoro sono a loro modo naufraghi nel vasto mare che inghiotte i suoi figli”. Non so se e quanto questo gruppo di piccoli adolescenti attori abbia davvero compreso il senso di ciò che hanno messo in scena, ma la platea applaude anche un po’ commossa.

“Uomini, mortali, viaggiatori, naufraghi

Non riesco ad alzarmi subito dalla poltrona scomoda per correre al lavoro. Rimango lì qualche istante, immersa in molti pensieri, diversi da quelli con cui sono entrata.

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Parole fuori

Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi Barchetta Blu di Venezia 38

6. Questo mese: Speranza prendere e lasciare senza una regola precisa; ognuno di Marina Zulian può seguire la storia o sfogliare le pagine facendosi trasportare dalle suggestioni delle immagini. E’ un grande libro con immagini a volte sfumate e a volte più decise. Nelle prime pagine i toni sono scuri e cupi ma poi si fanno più vivaci e chiari. Si può è il libro di Beatrice I protagonisti sono tre e il Masini e dell’illustratrice racconto inizia dalla fine Arianna Papini che parla del mondo in cui vivevano. di quando si perde qualco- I tre personaggi lo sapesa di importante e di quan- vano che il disastro stava do si può comunque conti- per arrivare, ma avevano nuare a vivere fiduciosi; è sperato fino alla fine che pensato per tutti i bambini non sarebbe successo, che che, anche se con fatica, qualcosa sarebbe accaduriescono a condividere con to. Invece ora si trovavano gli adulti situazioni e argo- in mezzo a delle rovine e menti delicati. Per grandi tutte le cose che avevano e piccoli parlare e ascoltar- erano andate perdute. E si significa darsi forza reci- così erano partiti per un viaggio lungo e faticoso. procamente. Questo albo illustrato è da A volte avevano voglia leggere insieme o da soli; di raccontare le cose belsi può leggere, rileggere, le così come erano state;

a volte erano arrabbiati e tristi e avevano solo voglia di dimenticarle, di cancellarle, come se una volta cancellate avrebbero potuto smettere di pensarle. Ma non era così. A volte i ricordi facevano male, pungenti come spine, altre volte invece erano belli. Anche occuparsi delle cose necessarie e quotidiane come cercare la strada migliore, la direzione giusta, non serviva a lungo. Tenersi occupati in quel modo li aiutava a non pensare, ma non durava tanto. Durante il viaggio si sentivano stanchi e non avevano voglia di giocare, cantare, ridere; non avevano neanche voglia di mangiare e bere, ma cercavano di sforzarsi. Purtroppo, anche nella nuova terra si sentivano soli. Insieme, ma soli. Arrivarono fino ad un gran-


de buco profondo e nero. Poteva sembrare pauroso all’inizio, ma loro decisero di fermarsi proprio lì e di riempirlo con tutte le cose più care e con tutti i ricordi che avevano portato nelle valigie che li avevano accompagnati per tutto il viaggio. Il più grande iniziò mettendo nel buco la calda coperta che era come l’abbraccio delle persone a cui aveva voluto bene. E fu così che insieme ricostruirono la loro nuova casa e fu lì che cominciarono la loro nuova vita. Il buco non era un vuoto, ma uno spazio da riempire, con oggetti e con significati. Attraverso la metafora del viaggio, della perdita di una casa e della sua ricostruzione in un altro posto, il libro racconta di come ci si sente quando viene a mancare qualcosa nella propria famiglia: la perdita apre una voragine nel nostro cuore, ma poi si può anche ricreare un nuovo mondo pieno di senso. “La casa alla fine ebbe un tetto. Era piccola ma era nuova. E quei Tre dentro ci stavano proprio bene.

E’ strano, se ci si pensa, che si possa costruire una casa sopra un buco. Ci vuole impegno e forza, e fatica, ci vogliono parole e silenzi, e memoria. Ma si può” Dopo l’ultima parola del libro, ci si chiede naturalmente che cosa succederà dopo e sembra che la storia non si chiuda ma continui a muoversi dentro di noi. Il libro fa parte della collana Ho bisogno di una storia che raccoglie storie capaci di parlare di argomenti importanti e difficili con leggerezza e parole lievi.

Anche Il posto giusto, della stessa autrice, racconta il viaggio di Scoiattolo che è in cerca della sua casa, di una nuova casa perché ha capito che esiste un posto giusto per ognuno e che ognuno deve cercarlo. Così Scoiattolo decide di mettersi in cammino e di

chiedere aiuto in giro. Per il Picchio il posto giusto è un buco, per la Tartaruga il posto giusto è sotto, per la Cincia è un nido, per la Talpa è dentro … All’inizio Scoiattolo non capisce e si addormenta, ma quando sogna un posto speciale che sia sopra e anche sotto, che abbia buchi e gallerie, tutto gli diventa chiaro. Al risveglio scoiattolo decide di inventare e costruire il posto che aveva immaginato. Nessuno dei consigli che il protagonista aveva ricevuto lo avevano soddisfatto del tutto se presi singolarmente; ma mettendo insieme desideri, idee e capacità di tutti, l’intrepido animaletto avrebbe potuto creare un posto giusto per sé e per gli altri. Il posto giusto è pieno di voci ma anche di silenzi; il posto giusto è dove si sta insieme e non ci si sente più soli. Questa storia di amicizia e di rispetto dei desideri propri e altrui ci aiuta a capire che la cosa più importante e cercare di realizzare i propri bisogni. Prima di tutto trovare un posto sicuro dove si conta

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qualcosa per qualcuno; un posto da dove si può partire per la nostra ricerca ma si può sempre tornare a riposarsi quando se ne sente il bisogno. Da pochi giorni è morta la mia mamma e ha lasciato un dolorosissimo vuoto. Lei e il mio papà avevano costruito una casa grande e bella dove io e i miei fratelli prima e io e i miei figli poi abbiamo passato meravigliosi anni da bambini e da ragazzi. Ho lasciato quella casa quando ero ancora una ragazza, per poter frequentare l’università e poi per motivi di lavoro, ma sono sempre tornata con piacere. Ogni volta che tornavo in quella casa, che si trova in una città diversa da quella dove abito ora, potevo quasi sentire i muri e gli alberi, i mobili e gli oggetti parlarmi con affetto, abbracciarmi con calore. Il mio papà e la mia mamma l’hanno riempita di oggetti ma anche di persone, di risate, di amore. Hanno vissuto una vita piena e intensa e loro e quella casa sono sempre stati un punto di riferimento. Loro erano sempre là, per un saluto veloce o un pranzetto, per un fine settimana con i figli o un pomeriggio di chiacchiere per condividere preoccupazioni o delusioni. Ora che loro non ci sono più la casa mi sembra

comunque ancora viva. Girando per le stanze vuote sento freddo, mi sento molto sola, so che non potrò viverci con i miei figli. Penso però che tutte le belle giornate passate insieme a familiari e ad amici resteranno per sempre dentro il mio cuore e che mi aiuteranno a trovare il mio posto giusto, così come hanno saputo fare i miei genitori. Nei miei pensieri loro continuano a ricordarmi che il posto giusto non è solo fatto di mattoni e di cose materiali ma che dipende soprattutto dai sentimenti e dalle persone che ci stanno vicine. Ora mio figlio si dispera pensando che quella bella casa dei nonni non sarà più la stessa. Leggendo con lui il libro Il posto giusto sono riuscita trovare le parole adatte per condividere un momento molto difficile delle nostre vite e per immaginare un futuro dove anche per noi, come per i miei genitori, avremmo realizzato il nostro posto giusto!

e leggerezza, è E poi … è primavera. Le tante immagini a doppia pagina e le delicate illustrazioni completano le poche parole, come in una sorta di poesia. Il paesaggio è essenziale ma ricco al tempo stesso. All’inizio c’è solo il marrone, ma poi semi, pioggia e impegno fanno sperare per qualcosa di diverso. Basta aspettare. Aspettare ma anche mettercela tutta per vedere e immaginare cose che ancora non ci sono. Ancora marrone, ma un marrone pieno di possibilità. Settimana dopo settimana, raggio di sole dopo raggio di sole, dopo tutto quel marrone, arriva anche il verde, verde dappertutto. Il marrone ha lasciato il posto al verde e l’inverno ha lasciato il porto alla primavera. Il bambino e il cane, protagonisti di questa storia, mentre aspettano speranzosi, piantano i semi, costruiscono una altalena con un pneumatico di una macchina, realizzano una casetta per gli uccellini con una scatola del latte e piantano cartelli per salvaguardare il tesoro che sta per arrivare: Per favore non calpestare: ci sono dei semi che ce la stanno Un altro poetico albo illu- mettendo tutta. strato, pieno di speranza Pazienza, speranza e de-


terminazione fanno dei due protagonisti dei veri Questo albo illustrato intiesempi da copiare e imita- tolato proprio L’albero azzurro, è una potente metare! fora sulla speranza e sulla libertà. I disegni scuri sulle tonalità del marrone mettono ancor più in risalto il colore azzurro dell’inarrestabile albero. Le poche parole sono al servizio delle già molto esaustive illustrazioni. L’essenzialità del racconto e la potenza delle immagini ci spingono C’era una volta un gigan- a riflettere che esiste qualtesco albero azzurro al cosa che non si può abbatcentro di una città. Era tere. La libertà e la spebellissimo, altissimo e più ranza non si lasciano sostiforte di qualsiasi altro. I tuire tanto facilmente. suoi rami attraversavano In quel posto non ben dele case. Era così grande che finito, in quell’epoca non era testimone della vita precisata, l’albero è testidelle persone; tutti viveva- mone della vita degli abitanti del paese. Ogni anno no con lui e lo amavano. Tutti eccetto il re, che ne il geloso re ordina ai suoi era invidioso e che capiva uomini di alzare le mura che la fama e la bellezza di cinta e di tagliare tutti dell’albero erano maggiori i rami che si avvicinano di quelle del palazzo rea- troppo al palazzo, ma ogni le. Un giorno il re furioso volta ce n’è sempre qualcuordinò ai suoi soldati di no che riesce a valicare le abbatterlo. La gente cercò mura. invano di fermarli. Ma i L’invidia porta spesso le rami tagliati rimasti nelle persone ad essere più catcase crebbero e ciascuno di tive di quanto si immagini, loro divenne a sua volta un ma con il suo comportamento il re non immagialbero azzurro.

na neppure lontanamente quali potranno essere le conseguenze. E infatti il millenario albero, anche se viene temporaneamente sostituito dalla statua del re, rinasce in molti alberi che prendono vita dai rami tagliati rimasti nelle abitazioni. Oggi l‘intera città è una bellissima foresta. E gli abitanti di quello strano paese hanno imparato a non perdere mai la speranza: Sottolineo infine come le simpatiche editrici di Kite Edizioni, scrivano, a mio parere giustamente, che il libro sia consigliato dai 6 ai 100 anni.

Bibliografia delle Novità dalla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna 2015 Speranza Si può. B. Masini, A. Papini, Carthusia, 2014 Il posto giusto. B. Masini, S. Mulazzani, Carthusia, 2014 E poi … è primavera. J. Fogliano, E.E. Stead, 2014 L’albero azzurro. A. H. Sharif, Kite Edizioni, 2015

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sociale e legale

di Cristina Bilardo

Panorama legislativo: Il Job Act’s non aiuta i genitori adottivi 42

L’attuale normativa Dalla lettura del testo dei Decreti attuativi del Job’s Act non emergono notizie confortanti per quanto riguarda i permessi previsti per i genitori in caso di malattia del figlio adottivo e affidatario; sarebbe stata un’ottima occasione per il Governo per mettere finalmente mano alla disparità legislativa presente in materia tra filiazione naturale e filiazione adottiva, ma purtroppo abbiamo perso anche questo treno per vedere riconosciuta una maggiore tutela nei confronti dei lavoratori e, soprattutto, delle lavoratrici/ padri e madri adottivi. Se infatti da un lato si è provveduto ad estendere sino a 12 anni dall’ingresso in famiglia la possibilità di fruire dei sei mesi di congedo parentale (che sono rimasti sei) o del suo prolungamento (tre anni

complessivi previsti solo per i casi di handicap grave del minore), nulla di nuovo è stato disposto in merito ai permessi non retribuiti per la malattia del figlio che sia stato adottato o affidato, dal compimento del suo 6 anno di età in poi. Infatti, le uniche novità introdotte dal decreto attuativo del Job’s Act che interessano le famiglie adottive o affidatarie sono quelle contenute nell’art. 10 (Modifiche all’articolo 36 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 in materia di congedo parentale nei casi di adozione e affidamento) che testualmente stabilisce: 1. All’articolo 36 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, sono apportate le seguenti modifiche: a) al comma 2 le parole ”entro otto anni dall’ingresso del minore in famiglia” sono sostituite dalle se-

guenti: “entro dodici anni dall’ingresso del minore in famiglia” b) il comma 3 è sostituito dal seguente: “L’indennità di cui all’articolo 34, comma 1, è dovuta, per il periodo massimo complessivo ivi previsto, entro i sei anni dall’ingresso del minore in famiglia.”. Ma facciamo un passo indietro sul panorama legislativo che regola la materia: Il d.l. 151 del 2001 all’art. 47 prevede che “entrambi i genitori alternativamente abbiano diritto ad astenersi dal lavoro per malattie del figlio di età non superiore a tre anni” per tutti i periodi certificati come malattia dallo specialista pediatra appartenente a struttura pubblica. L’articolo 50 del medesimo decreto estende il congedo per malattia del bambino anche alle adozioni e


agli affidamenti, elevando al sesto anno di età del bambino, il limite per cui i genitori possano astenersi dal lavoro alternativamente, senza limiti temporali e senza retribuzione, mentre dai 6 agli 8 anni d’età del bambino, in caso di malattia dello stesso, entrambi i genitori hanno diritto alternativamente a soli 5 giorni di congedo l’anno, sempre non retribuiti e coperti da contributi figurativi. E’ lo stesso articolo 50 al comma 3, infine, a precisare che, qualora all’atto dell’adozione o dell’affidamento, il minore abbia un’età compresa fra i 6 e i 12 anni, il congedo per malattia del bambino è fruibile nei primi tre anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, nel limite di cinque giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore.

Ribadiamo che tale assenza non è mai retribuita ed è coperta da contributi “figurativi” ovvero, in termini banali, calcolati in base a particolari parametri retributivi che generalmente li rendono più bassi di quelli che si maturerebbero prestando effettivamente attività lavorativa. E’ evidente quindi che - nel caso di bambini adottati di circa sei anni di età - il beneficio che nell’art. 47 è previsto per i genitori naturali, senza limiti temporali, sino al terzo anno di età del bambino, per quelli adottivi possa essere fruito solo in minima parte (5 giorni l’anno!) La realtà del mondo delle adozioni e degli affidamenti che tutti noi abbiamo sperimentato, invece, dimostra che i bambini che vengono adottati già

grandini (in prossimità se non addirittura oltre il sesto anno di vita) sono più frequentemente affetti da patologie più o meno gravi o croniche o dagli esiti di quest’ultime, per le quali la presenza del genitore è indispensabile per poter effettuare terapie, accertamenti, riabilitazioni, ricoveri in day-hospital per controlli, quando non addirittura interventi chirurgici e convalescenze più o meno lunghe, ecc.. Infatti, tanto più a lungo i bambini siano rimasti in istituti dove non si è provveduto a cure adeguate alle loro patologie, tanto più a lungo si sposta il limite temporale entro il quale hanno necessità di assistenza da parte di uno dei genitori (anche a costo della temporanea perdita della retribuzione da parte di questi ultimi). Inoltre è probabile che di tali patologie – non co-

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nosciute né dai genitori né dall’Ente incaricato al momento dell’adozione, e quindi non indicate nella cartella sanitaria da cui questi piccoli sono accompagnati (non sempre) al momento dell’adozione o affidamento ai loro genitori - ci si renda conto dopo un notevole lasso di tempo dall’arrivo in Italia. (Cito per tutti l’esempio di un bimbo proveniente dal Madagascar che dopo parecchio tempo dall’ingresso in Italia ha cominciato a presentare crisi convulsive che, solo a seguito di lunghissimi accertamenti, si scoprirono essere dovute ad un parassita endemico in Africa che era a suo tempo penetrato nel suo organismo sino a raggiungere le meningi che ora reagivano, nel tentativo di espellerlo, con crisi epilettiche). E, come questo, quanti al-

tri casi abbiamo sentito nel corso dei nostri incontri, raccontare da qualcuno? Quante volte abbiamo sentito una mamma adottiva dire “adesso mio figlio/a sta meglio, certo al lavoro non sono più potuta tornare”? Infatti, la necessaria presenza del genitore, specialmente della madre, quando il piccolo presenza difficoltà sanitarie particolarmente delicate e complesse – ma non riconoscibili “handicap grave” tale quindi da dar luogo ad una maggiore tutela legislativa – spinge molto spesso le mamme ad avvalersi sin quando possibile di tutti i mezzi messi a disposizione dal diritto del lavoro per dare assistenza al proprio bambino, esauriti i quali non rimane che la rinuncia al posto di lavoro volontaria o anche conse-

quenziale, in questo momento di particolare crisi economica, ad operazioni di risanamento aziendale che determinano l’esubero e la messa in mobilità dei lavoratori meno produttivi! D’altra parte alcuni di noi sanno quanto sia difficile che il Sistema Sanitario riconosca al bambino adottato o affidato il cosiddetto Handicap grave (art. 3 comma 3 della L. 104/92), i cui parametri sono particolarmente stringenti: uno stato invalidante, tale da determinare “impedimento nella vita di relazione” “impossibilità di svolgere le normali attività quotidiane e di cura alla propria persona in maniera autonoma” e via dicendo. E’ noto anche che il riconoscimento di questa maggior tutela legislativa venga concesso dalle com-


petenti istituzioni (ASL e più recentemente INPS) solo per brevi periodi di tempo e venga poi sottoposto a revisione per la verifica della permanenza dei parametri sanitari prescritti come invalidanti. Dunque, laddove non sia stato riconosciuto o riconfermato l’Handicap grave (e quindi la possibilità di avvalersi del congedo straordinario fino a due anni previsto dall’articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, o del prolungamento del congedo parentale regolato dall’art.33 e seguenti del d.lgs. 151/2001), per chi abbia adottato un bambino con problemi di salute che abbia più di 6 anni di età, la legislazione del lavoro in Italia ha messo a disposizione esclusivamente i due anni di permesso nell’intera vita

lavorativa, non retribuito e senza contributi previsto dalla L. 53/2000 per generici “problemi personali” e concesso solo a discrezione del datore di lavoro. E’ evidente che trattandosi di un permesso non retribuito e senza contributi le conseguenze economiche negative che ne derivano al genitore/lavoratore sono enormi. Il fatto inoltre di essere legato alla discrezionalità del datore di lavoro, lo rende una tutela del tutto aleatoria. Sembra a questo punto estremamente opportuno e maggiormente equo che si attuasse una tempestiva revisione dell’art. 50 nel senso di spostare il limite temporale entro il quale poter fruire dei periodi non retribuiti in caso di malattia del bambino, sino ai dodici anni dall’ingresso in Italia dello

stesso (e comunque entro la maggiore età), in modo analogo a quanto ha recentemente previsto il Job’s Act per istituti giuridici simili (i citati sei mesi di Congedo parentale ordinario ex art. 36 secondo comma d.lgs.151/2001, ed il Prolungamento del congedo parentale ex artt. 33 e seguenti d.lgs. 151/2001, fruibile quest’ultimo come sopra dicevamo, solo nei casi e per lo stretto periodo di tempo in cui l’handicap del bambino venga riconosciuto “grave” dalla ASL). Abbiamo appreso tutti con rammarico dalle statistiche del drastico calo delle domande di adozione in Italia; non vorremmo davvero che la amara realtà di una sensazione di abbandono e di sostanziale indifferenza da parte delle Istituzioni e degli Enti preposti che viene percepita dalle coppie

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che hanno adottato bambini, specie grandini e con difficoltà, scoraggiasse chi abbia in mente di attuare atti coraggiosi ed umanitari come l’adozione. Il fatto che non sia stata presa in considerazione nei lavori legislativi che hanno preceduto la promulgazione del Job’s Act, l’ipotesi di adozione o affidamento di bambini oltre i 6 anni, (oltretutto la più frequente) denota purtroppo una scarsa conoscenza da parte del legislatore del mondo delle adozioni sia sotto il profilo dello stato di salute in cui versano questi bambini, sia sotto il profilo della tempistica particolarmente lunga che richiede in Italia la procedura adottiva e che determina che l’età del bambino non sia sempre quella della prima infanzia.

La nostra proposta legi- di tutela del lavoro di più semplice, rapido e certo slativa accesso (il permesso non Dall’analisi delle norme retribuito per i periodi di recentemente emanate malattia del figlio) che dal emerge che permane, anzi compimento del sesto anno diremmo che si accentua, di vita continua ad essere la sperequazione tra la drasticamente limitato a 5 filiazione naturale e la fi- giorni l’anno! liazione adottiva nel caso di adozione o affidamento Ma cosa c’è dietro questa nazionale ed internaziona- “disattenzione” normatile di bambini grandicelli e va? Si tratta di una semnon in buone condizioni di plice “svista legislativa”, si confonde forse il congedo salute. Infatti , mentre i genitori parentale (sei mesi con stinaturali, grazie al recen- pendio ridotto al 30%) con te Decreto sul lavoro, si il permesso (non retribuito trovano spostato in avan- e concesso solo a fronte di ti sino a 12 anni di età il idonea certificazione medilimite entro cui fruire del ca pubblica) per i giorni di congedo parentale ordina- malattia dei figli? rio, invece i genitori adot- Si ritiene che oltre il setivi di bambini oltre i sei sto anno di età il bambino anni non potranno recu- adottato o affidato quando perare mai la possibilità si ammala possa essere di fare ricorso, anche per lasciato solo a casa in atlunghi periodi di malat- tesa della guarigione o sia tia, al un istituto giuridico in grado di recarsi autono-


ri adottivi o affidatari di bambini oltre i sei anni malati o una rettifica del citato articolo 50, al fine di spostare il limite temporale entro il quale i genitori Questa disattenzione è doadottivi o affidatari possovuta piuttosto alla carenno fruire del periodo di perza di fondi a copertura del messi non retribuiti in caso versamento dei contributi di malattia del bambino, “figurativi” (che garantidai tre anni, attualmente scono quindi al lavoratore previsti, agli otto (adesso il mantenimento del diritdodici) anni dall’ingresso to alla pensione anche per in famiglia del bambino i periodi in cui fruisce di e comunque non oltre la tali permessi)? maggiore età dello stesso, Ma guardiamo concretain modo tale da sostenere mente i numeri! Sarebbecon una azione concreta e ro poi così tanti in Italia i positiva famiglie che adotlavoratori/genitori adottivi tano o accolgono in affidadi bambini malati oltre i mento bambini grandini sei anni di età, che abbiache presentano patologie. no già esaurito i sei mesi di Nello stesso senso si sono congedo parentale ordinamosse l’Associazione ANrio, che non possono avvalersi di figure familiari che In tal senso ricordiamo che FAA ed il Coordinamento li sostituiscano, quindi in l’Onorevole Milena San- CARE con la nota indirizcondizioni di difficoltà tali terini di Scelta Civica ha zata al Presidente del Conda scegliere di rinunciare provveduto, tramite il col- siglio dei Ministri ed altre per quei periodi di malat- lega Dellai Lorenzo a pre- Istituzioni del Governo in tia alla propria retribuzio- sentare alla Camera dei data 11 marzo 2015, conteDeputati la Risoluzione nente la stessa istanza di ne? Non sarebbe alla fine un in commissione n 7-00594 tutela sociale dei lavoratoridotto numero di casi di in data 11 febbraio 2015 ri padri e madri adottivi. persone seriamente in dif- volta ad ottenere appunto Entrambe le iniziative maggiori periodi di conge- sono rimaste a tutt’oggi ficoltà? do parentale per i genito- senza esito. mamente a svolgere le terapie di cui necessita che abbiano durata maggiore di 5 giorni all’anno?

Se è questo il problema, una soluzione normativa concreta ed equa potrebbe essere quella di limitare il periodo in cui si possa fruire, in presenza di malattia del minore certificata da pediatra di struttura pubblica, di permessi non retribuiti ad esempio ad un massimo di 60 giorni all’anno. Oppure ampliare per i genitori adottivi in dette condizioni il periodo di congedo parentale ordinario ad esempio sino a 18 mesi anziché 6 (meno conveniente però per il datore di lavoro perché dovrebbero comunque corrispondere al lavoratore uno stipendio al 30%).

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Matteo Renzi

Presidente del Consiglio dei Ministri presidente@pec.governo.it matteo@governo.it

Giovanna Martelli

Consigliera per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, MARTELLI_G@CAMERA.IT segreteria.pariop@governo.it

Vincenzo Spadafora

Garante per l’Infanzia e l’adolescenza segreteria@garanteinfanzia.org

Teresa Bellanova

Sottosegretario al Ministero del Lavoro segreteriasottosegretariobellanova@lavoro.gov.it

Franca Biondelli

Sottosegretario al Ministero del Lavoro segreteriasottosegretariobiondelli@lavoro.gov.it

Cesare Damiano

Presidente Commissione Lavoro Camera dei Deputati DAMIANO_C@CAMERA.IT

Francesco Boccia

Presidente Commissione Bilancio Camera dei Deputati BOCCIA_F@CAMERA.IT

Maurizio Sacconi

Presidente Commissione Lavoro Senato della Repubblica sacconi_m@posta.senato.it

OGGETTO: MALATTIA DEL FIGLIO ADOTTIVO. Richiesta di rettifica della normativa attuale Con la presente, le scriventi Associazioni di famiglie adottive e affidatarie, operanti su tutto il territorio nazionale, intendono sottoporre alle SS.VV. una questione di grande rilievo sollevata da tanti nostri associati e riguardante la sperequazione oggi esistente, in materia di congedi di malattia, a svantaggio di chi abbia adottato o accolto in affidamento bambini di 6 anni e oltre. Chiediamo in particolare che il comma 2 dell’art. 50 D.L. 151/2001: “Il limite di età, di cui all'articolo 47, comma 1, è elevato a sei anni. Fino al compimento dell'ottavo anno di età si applica la disposizione di cui al comma 2 del medesimo articolo” venga riscritto come segue: “Il limite di età, di cui all'articolo 47, comma 1, è elevato a dodici anni dall’ingresso in famiglia e comunque non oltre la maggiore età”. A sostegno di questo, facciamo riferimento alla Risoluzione in commissione 7-00594 (Commissione assegnataria XI Lavoro Pubblico e Privato) recentemente presentata dall’Onorevole Lorenzo Dellai mercoledì 11 Febbraio 2015, seduta n. 375, e alle disposizioni assunte dal legislatore nei Decreti Attuativi del Job’s Act, con riguardo ad istituti giuridici simili quali il Congedo parentale ordinario od il suo Prolungamento (artt. 7 ss.).


L’attuale normativa in materia di congedi di malattia, penalizza infatti chi accoglie in adozione o in affido bambini di 6 anni e oltre, poiché il comma 2 dell’art. 50 del d.lgs. 151 del 2001 prevede che entrambi i genitori (adottivi o affidatari) abbiano diritto di astenersi dal lavoro per tutti i periodi corrispondenti alle malattie del figlio fino a che il figlio non abbia compiuto i 6 anni di età. Dai 6 agli 8 anni, invece, ciascun genitore, alternativamente, ha diritto di astenersi dal lavoro, nel limite di cinque giorni lavorativi all'anno. Al comma 3 precisa ulteriormente che, qualora all’atto dell’adozione o dell’affidamento, il minore abbia un’età compresa tra sei e dodici anni, il congedo per malattia del bambino è fruibile entro i primi tre anni dall’ingresso del minore in famiglia nel limite dei cinque (5) giorni lavorativi all’anno (ovviamente tale assenza è sempre non retribuita). E' dunque evidente che chi adotta o accoglie in affidamento bambini di 6 anni circa ed oltre, si trova da subito a non poter usufruire della piena forza del decreto e ad aver diritto ad astenersi dal lavoro solo per 5 giorni lavorativi l'anno in caso di malattia del proprio figlio. A compensare questa situazione di svantaggio non è sufficiente quanto previsto dalla L. 53/2000 art. 4 co.2 (due anni di permesso non retribuito e senza contributi concesso, nell’intera vita lavorativa, per generici “motivi familiari” a discrezione del datore di lavoro) né il prolungamento del congedo parentale (artt. 33 e seguenti d.lgs. 151/2001) o il congedo straordinario ex art. 42 co. 5 d. lgs. 151/2001 (previsti nel solo caso, e per lo stretto periodo di tempo, in cui l’handicap è riconosciuto da parte della competente Commissione sanitaria come grave) poiché permane comunque una opportunità normativa di più facile accesso e di più immediata fruibilità – il permesso per malattia figlio – che resta preclusa a chi abbia adottato o accolto in affidamento un bimbo maggiore di 6 anni. La realtà delle adozioni nazionali ed internazionali e dell’affidamento e l’elevato numero di casi che presentano difficoltà dimostrano che sempre di più sono i bambini che vengono accolti non piccolissimi (in prossimità od oltre il sesto anno di vita) e che gli stessi sono più frequentemente affetti - anche a causa delle deprivazioni affettive subite da varie patologie croniche, non sempre ascrivibili a handicap “grave” (e ciò accade soprattutto nelle adozioni internazionali), o dagli esiti di queste ultime. In questi casi la presenza del genitore è indispensabile per accompagnare il bambino ad effettuare le necessarie terapie, ad eseguire accertamenti clinici continuativi, cicli di riabilitazione, ecc.: accompagnamento che sovente può essere assicurato nel lungo periodo e con la necessaria continuità, solo a costo della rinuncia al posto di lavoro da parte di uno dei genitori (principalmente da parte della madre), con conseguenze negative anche sul piano economico. Non è raro poi che, per i minori adottati provenienti da altri Paesi, alcune patologie – spesso non conosciute né dai genitori né dall’Ente incaricato al momento dell’adozione – vengano diagnosticate dopo un notevole lasso di tempo dall’arrivo del minore I da riguardan l'Adozione Internazionale supportano in maniera chiara l'urgenza di quanto vi chiediamo, infa l’età media, riscontrata nel 2013 dei bambini adoa internazionalmente in Italia è stata di 5,5 anni. Negli anni preceden era ancora maggiore. Più esaamente, nel 2013, il 43,8% dei minori adoa internazionalmente ha un'età fra 5 e 9 anni e l’8,8% un’età pari o superiore a 10 anni. Nello stesso 2013, poi, il 21% del totale dei minori adottati è stato segnalato come portatore di bisogni speciali e/o particolari ed è da notare quanto indicato, al riguardo, nel Rapporto 2013 della Commissione Adozioni Internazionali stessa quando scrive: “... il dato complessivo si deve considerare sottostimato rispetto al numero effettivo di bambini con bisogni particolari e speciali.” Quanto sopra si sottopone all’attenzione di chi legge formulando un sentito appello a sostenere le famiglie che intraprendono il cammino adottivo e affidatario, percorsi così evidentemente complessi e così necessitanti di attenzione e cura soprattutto per i bambini che arrivano in famiglia dai 6 anni in su. L'adozione e l'affido sono strumenti legislativi fondamentali a favore dei bambini e delle bambine in Italia e nel mondo, e un modo che il legislatore ha per incentivare e promuovere l'attuazione di affidi e adozioni è esattamente quello di sostenere le famiglie che si rendono disponibili. Le scriventi Associazioni sono a disposizione per qualsiasi chiarimento, incontro e colloquio esplicativo si ritenesse utile. In attesa di un riscontro, inviamo i nostri più distinti saluti Torino, 11 Marzo 2015 Donata Nova Micucci Presidente ANFAA Monya Ferritti Presidente Coordinamento CARE


trentagiorni

MALTRATTAMENTO DI MINORI, UNA FOTOGRAFIA NAZIONALE Presentata alla Camera l’indagine di Terre des Hommes Italia e Cismai che racconta di oltre 91mila minori in carico ai servizi Sono oltre 91mila i minorenni maltrattati seguiti dai Servizi Sociali nel nostro Paese. E’ quanto emerge dalla prima Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia condotta da Terre des Hommes e Cismai per l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e presentata venerdì 15 maggio a Roma presso la Camera dei deputati. La ricerca riguarda un campione di 231 Comuni italiani statisticamente rappresentativo di tutto il territorio nazionale ed è stata realizzata attraverso la compilazione di una scheda che ha permesso la raccolta di dati quali-quantitativi sui minorenni in carico ai Servizi Sociali di ciascun Comune al 31/12/2013. La popolazione intercettata è pari a 2,4 milioni di popolazione minorile. Dallo studio emerge che rispetto al totale dei bambini e

adolescenti in carico ai Servizi, i minorenni seguiti per maltrattamento sono più numerosi al Sud e al Centro, rispettivamente 273,7 e 259,9 ogni mille, contro i 155,7 casi al Nord. Particolarmente esposte sono le femmine e gli stranieri. Tra le tipologie di maltrattamento più frequenti troviamo la trascuratezza materiale e/o affettiva (55% dei casi seguiti), la violenza assistita, cioè i genitori che litigano ferocemente in presenza dei figli (19%) e il maltrattamento psicologico (14%). Mediamente ogni bambino maltrattato riceve almeno due tipologie di servizio di protezione e tutela, come l’assistenza economica alla famiglia (nel 27,9% dei casi), l’inserimento in comunità (19,3%), l’assistenza domiciliare (17,9%), l’affidamento familiare (14,4%), l’assistenza in un centro diurno (10,2%). I Servizi Sociali al Nord hanno una migliore performance, garantendo un servizio a un maggior numero di minori, riuscendo quindi a svolgere una funzione anche di prevenzione, mentre al Sud e al Centro ai Servizi arrivano

soprattutto i casi più gravi. Secondo i dati raccolti, nella Penisola, su 1.000 bambine seguite dai Servizi Sociali, 212,6 sono in carico per maltrattamento, rispetto a 193,5 maschi seguiti per la stessa causa. Il maltrattamento è quindi una tipologia d’abuso a cui le femmine sono particolarmente esposte. L’indagine mostra anche come i bambini stranieri siano più vulnerabili: 20 bambini ogni 1.000 contro gli 8,3 su 1.000 degli italiani. Non sempre, però, il maltrattamento è la causa primaria dell’avvio dell’assistenza al minore da parte dei Servizi Sociali. Ciò accade nelle forme più evidenti d’abuso, come l’abuso sessuale o le violenze fisiche, mentre nei casi di abusi psicologici, trascuratezza materiale e/o affettiva e la violenza assistita, spesso il bambino arriva ai Servizi per motivi differenti e solo in un secondo momento viene registrato anche il maltrattamento tra i motivi della presa in carico. Fonte: Istitutodeglinnocenti.it


GIORNATA DEI BAMBINI SCOMPARSI: OLTRE 15 MILA MINORI SCOMPARSI IN ITALIA Otto milioni nel mondo i minori di cui non si sa più nulla Sono 15.117 i minori scomparsi in Italia e mai rintracciati dal 1974 al 2014. 13.489 sono stranieri, 1.628 italiani. In generale, tra tutte le persone di cui si è registrata la sparizione il 51,7% ha meno di 18 anni. Sono i dati diffusi dal Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse del Ministero dell’Interno, Vittorio Piscitelli, in occasione della Giornata internazionale dei bambini scomparsi. “I minori stranieri non accompagnati sono il problema dei problemi”, ha affermato Piscitelli, durante un incontro promosso da Telefono azzurro. In generale, la causa della scomparsa “è sempre il disagio, la povertà o la guerra” e nel “64-65% dei casi il ritrovamento avviene nelle prime ore dopo la scomparsa, soprattutto nel caso dei minori, i quali non hanno risorse e che quindi sono spinti a chiedere aiuto”. Allarme Telefono Azzurro: linea minori scomparsi rischia chiusura - “Il 116.000, numero

unico europeo per i bambini scomparsi, gestito in Italia da Telefono azzurro, rischia di chiudere a causa dei tagli della Commissione Europea”. E’ l’allarme lanciato dal presidente di Telefono azzurro, Ernesto Caffo, in occasione della Giornata internazionale dei bambini scomparsi. “Ogni anno nel mondo spariscono 8 milioni di bambini; in Europa 270 mila, cioè uno ogni due minuti - ha ricordato Caffo - in Italia dal maggio 2009 ad aprile 2015 il numero 116.000 ha gestito 610 casi di bambini spariti. Nel 38% dei casi si trattava di fughe da casa, nel 31% di fughe da istituti, nel 10% di sottrazioni internazionali, nel 6% di minori stranieri non accompagnati”. Nel 2014 in Europa la linea 116.000 ha gestito 6.119 casi di bambini scomparsi. Telefono Azzurro, in collaborazione con la federazione Missing Children Europe, ha lanciato oggi la campagna “#Salvail116.000, salva un bambino”, “per poter continuare a garantire un servizio essenziale”. Cosa è la Giornata per i bambini scomparsi? Il 25 maggio è la Giornata Internazionale per i Bambini Scomparsi: cade ogni anno in

questa data dal 1983, quando nacque per ricordare la scomparsa del piccolo Ethan Patz, rapito a New York il 25 maggio 1979, e per sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno un messaggio di solidarietà e speranza ai genitori che non hanno più notizie dei loro bambini. Nel mondo esiste una rete Globale per i Bambini Scomparsi, un programma del Centro Internazionale per i Bambini Scomparsi e Sfruttati (ICMEC). Le cifre sono agghiaccianti: almeno 8 milioni di bambini scompaiono ogni anno, ossia 22 mila bambini al giorno. Per celebrare la Giornata Internazionale dei Bambini Scomparsi le forze dell’ordine e le organizzazioni non governative di diversi paesi, tra le quali in Italia Telefono Azzurro, organizzano ogni anno eventi e convegni per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’esigenza di sviluppare più efficaci forme di tutela dei bambini ed evitare scomparse e rapimenti e anche non condannare le vittime all’oblio. Fonte: Ansa.it

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