Adozioni e dintorni - GSD Informa marzo 2012

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - marzo 2012 - anno II, n. 13

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marzo 2012 | II, 13 Adozione e dintorni GSD informa - mensile - marzo 2012 - anno II, n. 3

GSD informa

il bambino Accompagnare al confronto con la propria storia

GSD informa

di Anna Guerrieri

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editoriale

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Scrivere l’adozione di Duccio Demetrio

filosofia e adozione

storia e adozione

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Accompagnare il bambino al confronto con la propria storia di Marco Chistolini

psicologia e adozione

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La narrazione delle origini di Pietrina Guglietti leggendo

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Raccontiamoci di Marina Zulian

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@ genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pea Maccioni, Lecce

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma; Diana Giallonardo, L’Aquila; Raffaella Ceci, Monza.

abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


editoriale

di Anna Guerrieri

raccontare Raccontando le storie della famiglia, i genitori intrecciano legami, creano la trama su cui i figli tessono le proprie storie impigliando qua e là ricordi e invenzioni, fantasie e percezioni della realtà passata, frammenti di un tempo trascorso: una tazza appesa troppo in alto, un pianto, il terrore di una tempesta, una solitudine, il caos di un dolore troppo grande per avere un senso, l’assurdità di una tragedia repentina, il sole in un giardino, il sapore di un frutto e l’odore di una zuppa, di un fiore, del legno, della sabbia, del letto. Ho sempre sentito che il mio compito di mamma fosse quello di contenere i miei figli, tenerli prima con me, dentro di me per poter poi portarli alla luce e accompagnarli per mano nel mondo. Sapevo che ad un certo punto avrei lasciato la presa consegnandoli alla vita, alle sue scelte e responsabilità. Li avrei consegnanti al sole lucente sottraendoli io stessa alla mia notte avvolgente. Sapevo che non sarebbe stato facile con figli non nati da me, perché non avrei avuto il mio corpo e la mia carne ad aiutarmi o ad aiutarli. Allora, nei racconti reciproci, nell’inseguire i ricordi (veri o falsi che fossero) nel dirsi emozioni passate o desideri per il futuro, nel raccontarsi qualcosa ogni giorno e nel fermarsi ogni giorno ad ascoltarsi, ho trovato la mia maniera per costruire la “casa della nostra famiglia”, la base da cui partire prima di andarsene “in giro per le strade del mondo”. Raccontarsi gli uni agli altri è diventato un modo per dire a noi stessi:


© simone sbaraglia

«Questa è la nostra stoffa, la nostra tela colorata, l’intreccio dei nostri suoni. Queste sono voci che cantano assieme, queste sono mani che tessono assieme. Questa è la nostra famiglia, nostra e solo nostra e unica. La fine non la sappiamo, l’inizio l’abbiamo messo noi, incontrandoci. Ognuno ci ha messo del suo, sua stoffa, suoi colori, suoi intrecci e nodi, sue trame venute da lontano. E la stoffa che abbiamo tessuto è nostra e ci protegge». Mi auguro che quando usciranno da questa casa i miei figli porteranno con sé un pezzettino di questa tela brillante di colori, un piccolo scampolo che li aiuti sempre a ritrovare la strada, il bandolo dei propri ricordi e sogni. Che li aiuti a ripercorrere le loro storie e i loro giorni passati, quelli trascorsi assieme e quelli più lontani ancora, quelli tinti del verde di un giardino e di un gioco, quelli bui delle notti più oscure, quelli sfiorati da un primo bacio. Vorrei che la stoffa tessuta assieme fosse fonte di sicurezza, perché io so che quel che ci siamo raccontati in questi anni sarà con loro per sempre. Questo è quello che per davvero lascio a loro, che li accompagni nel loro futuro e nel loro destino, i nostri racconti, le mie parole, le loro parole, la nostra casa, per sempre. Dedico quanto ho scritto a mia nonna, raccontatrice di fiabe. Era lei a raccontarmi giorno dopo giorno la mia fiaba preferita, che parlava di una bambina cui piacevano tanto le pere, e siccome le piacevano le andò a rubare nel giardino del re e per questo se ne dovette andare per il mondo a sconfiggere streghe, fiumi vorticosi e montagne inespugnabili per conquistare uno scrigno fatato colmo di pulcini d’oro.


psicologia filosofiaeeadozione adozione

Scrivere l’adozione Resilienza e transizioni esistenziali

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Transizioni esistenziali e sguardo filosofico In adozione, sia per chi è adottato sia per chi accoglie, è quasi superfluo che si evochi la nozione di “transizione”. Da tempo ormai, nelle scienze umane, questo è un tema oggetto di molteplici ricerche, relative ai passaggi iniziatici dell’esistenza e ai rituali di carattere sociale ad esse connessi. Ma, soprattutto, l’esperienza adottiva, prima e durante il suo adempiersi, non può non essere compresa qualora si presti scarsa attenzione alle modalità di elaborazione psicologica, le più private e intime, che l’evento e i cambiamenti concomitanti inevitabilmente ingenerano nelle storie dei diversi protagonisti. Risvegliando aspetti profondi, spes-

so inattesi, tanto in chi dà ospitalità quanto negli “ospiti” tanto attesi e desiderati. Forse più in chi riceve, dal momento che è risaputo che sono gli adulti a essere meno permeabili ai cambiamenti seppur perseguiti scientemente. In questo scritto, la declinazione con la quale parleremo di adozione sfiorerà soltanto, per incompetenza dell’autore, tali aspetti di carattere psicodinamico. Il nostro sguardo sarà infatti filosofico, intendendo quel punto di vista che indaga la condizione umana e che, proprio per questa ragione, non può certo essere insensibile ai perché e ai come gli individui riflettano su quanto accade loro di sperimentare in prima persona. La filosofia, oggi, dopo essersi a lungo occupata – certo non sempre anche in

passato – di svelare verità ultime e assolute, di disegnare sistemi concettuali e spiegazioni circa la natura delle cose o delle virtù per raggiungere qualche verità, si è data finalmente obiettivi meno ambiziosi. Vuole riavvicinarsi alle vite umane, nella loro inesauribile differenza e molteplicità, al fine di riscoprire in ciascuna come le persone interpretano la loro esistenza e vi attribuiscono un senso biografico. I filosofi odierni, pertanto, non indagano più soltanto “a tavolino”; non traggono dalle opere di chi li ha preceduti le loro teorie. Piuttosto, come i loro più antichi maestri, interpellano le donne e gli uomini, li sollecitano a porsi domande e a darsi risposte sensate, a mettere in dubbio alcune certezze, a © simone berti


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intraprendere quel viaggio senza mai approdi definitivi che è la conoscenza di se stessi: in quanto individui e in quanto cittadini del mondo. Li invitano a cercare nella loro coscienza quali condotte razionali e morali siano più in grado di condurli verso un maggior benessere interiore e a quella “inquieta serenità” necessaria e sufficiente ad affrontare i temi vitali che ogni esistenza si trova ad affrontare. Dando a essi una spiegazione, pur sempre provvisoria, che ci richieda risposte consapevoli e responsabili: per diventare più profondamente umani dinanzi all’amore, alla legittima e universale ricerca della giustizia, della felicità, del bene comune; dinanzi alla sofferenza nostra e altrui, alla inevitabilità della morte, a come ci rapportiamo al tempo, alla memoria, al presente o al futuro. Sono queste dunque, e innumerevoli altre, questioni tangibili, affatto astratte, che la filosofia contemporanea definisce “esistenziali”. Esse sono ineludibili e tali da costituire per ognuno di noi altrettanti appuntamenti per imparare a vivere meglio e più pensosamente. Perché è questo l’obiettivo principale che la filosofia non manca di sottolinea-

re, in funzione educativa: per una più profonda conoscenza di che cosa significhi esistere come soggetti e non secondo principi di ordine generale. Non possiamo poi ignorare che l’analisi filosofica si sofferma su altri aspetti del processo adottivo, della catena – non proprio sequenziale e preordinabile

© diana giallonardo

– di episodi che fanno di tale scelta un gesto epifanico (un inizio); un gesto di speranza (una rinascita possibile); un gesto di rescissione col passato (una crisi); e naturalmente un gesto etico (riconducibile a un comportamento morale virtuoso e di solidarietà).


L’adozione come transizione autobiografica Se, pertanto, da un lato il nostro sguardo si soffermerà sull’analisi di simili questioni, che l’esperienza adottiva solleva – e che ci svelano parti di noi che non sapevamo di abitare –, dall’altro esso si occuperà

di evidenziare come la rappresentazione dell’evento adottivo possa meglio definirsi grazie ad attenzioni di carattere narrativo o meglio narratologico. Dal momento che l’adozione, e non solo, è una vicenda generatrice di storie di vita da incontrare, ridiscutere, riorganizzare, dimenticare anche.

Il non saper/voler raccontare la propria storia o il non saper sollecitare adeguatamente i racconti ad essa inerenti, avvalendosi di quello che è un metodo di interazione naturale e spontaneo in assenza di problemi, traumi, disagi connessi ai passaggi vissuti dagli uni e dagli altri, dagli adulti quanto dai mi-

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nori, ostacola l’enucleazione dei temi esistenziali cui si è accennato. L’approccio filosofico e le pratiche innovative che lo corroborano a che altro possono attingere se non alle storie narrate dai loro protagonisti in prima persona? La dimensione soggettiva che ogni narrazione dell’io enfatizza ed esalta, imponendosi all’attenzione degli ascoltatori, diventa perciò essa stessa una questione filosofica: quando ci chiediamo quali siano le circostanze, i condizionamenti, i vincoli che impediscono a un individuo di dire di sé, di accedere a una migliore consapevolezza di quanto significhi per lui o per lei. Non solo introspettiva, quanto semmai relazionale: l’esercizio di autocoscienza vale quanto più si dimostri generatore di considerazioni e cure da parte degli altri. Tanto più quando il racconto esiga, per rendersi più esaustivo o per facilitare incontri nuovi e l’avvio di una convivenza, una peculiare modalità discorsiva che denominiamo autobiografica. Presente laddove i narratori non si limitino a parlare di sé, ma utilizzino il medium della scrittura per raccontarsi le reciproche storie precedenti l’adozione o da questa originate. Per condividerle, man mano che le scritture prendono forma,

o, viceversa, per serbarle gelosamente rinviando discrezionalmente ad altri momenti il loro contenuto. Come non essere d’accordo, dunque, con Gabriel García Márquez che la vita vale la pena viverla (anche) «per raccontarla» e scriverla? Appunto non soltanto ricorrendo all’oralità – piuttosto attraverso un’attività letteraria, anche la più modesta e senza pretese –, che può trasformare l’apparentemente banale in esemplare; il quotidiano in resoconto avvincente o introspettivo; gli istanti descritti in una lettera, in un diario, in una biografia, in occasioni di poesia. L’adozione, certo come molti altri avvenimenti, è generatrice di racconti autobiografici plurimi, riconducibili agli episodi “transizionali” vissuti: la cui irreversibilità, come avviene nella filiazione naturale, cambia il corso delle storie, le segna e ne prefigura il disegno. Al contempo, l’adozione si presenta per tutti i suoi protagonisti come uno spazio intersoggettivo, di natura concreta (innumerevoli sono gli aspetti pratici che implica) e affettiva (innumerevoli sono le implicazioni emotive, desideriali, fantasmatiche che mette in gioco), dove si adempiono momenti in successione

e in simultanea connotati dalla reversibilità di abitudini, di atteggiamenti, di scelte, di orientamenti ideali, di pregiudizi ecc. Le storie di vita in versione scritta, che assumono così la più corretta denominazione di auto-bio-grafie (lett.: le scritture della propria vita redatte da sé medesimi), possono essere le più elementari, essenziali, o le più complesse e complicate quando danno origine a veri e propri romanzi ad intrigo. Per parafrasare Italo Calvino, quando assumano per chi se ne occupi, o soltanto possa accedere alla loro lettura, una funzione di natura esistenziale. Ciò che si consegna alla pagina è l’esito di un maggior filtro cognitivo, sia essa stata ponderata o redatta di getto. C’è sempre qualcosa di più in uno scritto, si trattasse soltanto di poche righe, della persona che si sia affidata alla penna. Qualcosa che, in primo luogo, dovrebbe essere l’autore a considerare come una preziosa opportunità per ritrovarsi in quanto ha voluto narrare, tra consapevolezza e impliciti dettati dall’inconscio. In secondo luogo, chi ha responsabilità di guida – educative, neogenitoriali, terapeutiche – è in questi documenti, oltre che nei consueti


protocolli narrativi orali (colloqui, sedute cliniche, conversazioni…) che può individuare ulteriori indizi utili a diagnosticare lo stato di benessere o di malessere del narratore o della narratrice. Ben oltre i contenuti testuali esplicitati. È quasi ovvio, del resto, richiamarsi al ruolo proiettivo della scrittura, al di là delle dichiarazioni, delle affermazioni, dei racconti “nero su bianco”. È lo studio delle motivazioni o viceversa delle fughe dalla scrittura che ci consente di comprendere – possedendo questa un valore simbolico esemplare – quali siano, ad esempio, i livelli di autostima o viceversa i modi dispregiativi del narratore verso se stesso e il proprio passato. Chi accetta di buon grado di scrivere di sé possiede una opinione sufficientemente positiva della propria persona (e della propria vicenda); infatti, accade di notare che vi si dedichi con disponibilità e passione pur potendo giovarsi di strumenti linguistici assai modesti. Viceversa, il rifiuto di scrivere – spesso connesso al fastidio per la lettura, fatte salve le ragioni che inducono ad autoproteggersi quando non sussistano condizioni rassicuranti, favorevoli all’uso di tale esercizio – testimonia il di-

sprezzo verso quanto possa indurre immagini e rappresentazioni di sé ritenute sgradite o intollerabili. La storia umana che riesca a diventare scrittura, a trovare il proprio sosia, ad accettarlo con benevolenza, a farne il proprio “compagno segreto” è un’altra versione della propria esistenza che aggiunge valore, informazioni, congetture al racconto. In tal modo, anche poche righe, quando vengano sollecitate da chi professionalmente o come genitore adottivo si occupi di storie di adozione, hanno il vantaggio, rispetto alla oralità, di alimentare il desiderio di continuare a farlo. Dove non importa tanto la veridicità del racconto, quanto che quel racconto si sia disposti a scriverlo: in quanto messaggio di benvenuto, di accettazione, di accoglienza. Il fatto stesso che lo scrivere chieda a chiunque almeno un poco di concentrazione, di solitudine, di raccoglimento ci consente di comprendere quali rapporti lo scrivente riesca a intrattenere con la importanza psicologica di tollerare momenti, pur brevi, in cui accade di stare soli con se stessi e con una penna che è in grado di riempire il vuoto. Con un’attività non passiva, non dipendente, bensì quanto mai genera-

tiva e capace, come altre, di placare l’ansia che vivono sia il bambino e l’adulto che non sanno comprendere quanto la solitudine sia una risorsa.

Il biografo interno e lo stratagemma della scrittura Le autobiografie dell’adozione (ancora una volta di chi compie il passaggio e di chi accoglie il “passatore”), nella loro gamma, possono dirci, ancora in un’attenzione filosofica, come si dispiegano i grandi temi esistenziali e topici che ritroviamo da millenni nelle storie individuali o collettive della transizione. La letteratura mondiale ha isolato alcune figure dotate di epicità ed esemplarità mitica. È solo il caso di accennarle, poiché sono note. Ogni individuo le reinterpreta a modo suo con le sue storie di passaggio, ritrovando in esse il personaggio che non sa di essere: laddove si racconti di distacchi, di attese, di destino, di coincidenze, di spaesamenti, di esilio, di radici perdute, di incontro col mondo nuovo prima ostile. La sensibilità filosofica – e letteraria insieme, quando sia attenta anche alle culture psicoanalitiche di merito – senza troppa

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difficoltà riesce a stabilire un nesso tra questi motivi archetipici e le singole storie. Oltre a questi aspetti, tutti evocatori di memorie vissute che si proiettano verso il futuro con i loro “pesi”, che ostacolano il nascere di “sanità” quali l’esercizio dell’oblio, la riconciliazione, il perdono, occorre sottolineare che:  non si dà narrazione vera, senza memoria;  non si dà memoria narrata senza attività consapevole, senza un ritorno, oltre che emotivo, riflessivo rispetto a quanto ritrovato;  non si dà attività di coscienza durevole senza una scrittura di se stessi che possa, in sede clinica o autoanalitica, accendere possibilità di riconciliazione con il dolore patito o subito, in un’apertura a nuovi passaggi esistenziali. Lo scrittore e studioso di autobiografie Philippe Forest ha affermato che «non si possono risolvere molti enigmi della vita» – così presenti nelle relazioni affidatarie –, «si possono soltanto raccontare le prove cui essi ci obbligano»1. Ogni storia narrata oralmente può dirci molto di come un individuo la stia rivivendo attraverso il corpo, le pause, le emo© simone berti

zioni, ma se essa riesce a trovare la via della scrittura e qualcuno che invogli a scriverla, tale mezzo potrà dirci molto di più sul piano di come il narratore l’organizza, sceglie le parole, la commenta ecc. Ci occuperemo ora di approfondire quali possono essere i vantaggi della scrittura come momento dialogico tra i protagonisti dell’incontro adottivo. Nel senso che, fatta salva tutta la esplicita e palese importanza della dimensione conversazionale, delle attenzioni di ascolto, del dare sempre la parola, di sollecitarla, il ricorso a momenti il più possibile naturalistici – per intenderci non simil-scolastici – di scrittura di sé può dar luogo ad avvicinamenti anamnestici di grande importanza. Purché, questo va senz’altro ribadito, si comprenda che di per sé il ruolo della scrittura è già un’esperienza esistenziale rilevante. A patto che la nuova famiglia si attrezzi a farla percepire come tale ai nuovi venuti, come quotidiana e necessaria a capirsi di più, come tramite spesso indispensabile ad avviare la stessa verbalizzazione. La cultura scritta genera forme di ospitalità aggiuntive: accogliere bene significa comunicare che nel contesto familiare di approdo

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1 Ph. Forest, Per una poetica della testimonianza, «Paideutika», 10, 2009, p. 35.


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le premure della cura non riguardano soltanto gli aspetti materiali della convivenza e dell’educazione2. Se i genitori adottivi sono frequentatori abituali della scrittura, in senso passivo – buoni lettori che raccontano piacevolmente quanto leggono – e attivo – sono cioè avvezzi ad avvalersi di taccuini, di diari, di messaggi scritti usati anche per dirimere a volte incomprensioni, per lasciare segnali di incoraggiamento o di affetto –, costoro si dimostreranno doppiamente accoglienti e vicini ai nuovi figli. La scrittura è un’opportunità per inaugurare i nuovi legami, per rinsaldarli, per indurre la ricerca di quella solitudine “felice”, in quanto spazio personale per pensare e ripensarsi. Per ricordare e non espellere i ricordi, per vagliare quali tra essi possono essere salvati. La scrittura come presenza costante (mai assillante), come risorsa sempre a disposizione di tutti, della quale avvalersi è una sorta di genitore adottivo supplementare: dal momento che in considerazione dei luoghi promiscui, a forte concentrazione comunitaria e collettiva, dove il privato non è coltivato, manca una consuetudine a immaginarsi da soli e non sofferenti. La scrittura introduce il

senso di appartenersi di più come persone singole, autorizza alla separazione dal gruppo, a elaborare il distacco e la distanza, a contenere la paura da perdita di dipendenza. Rappresenta un antidoto alla sindrome della resilienza, di cui ora ci occuperemo, che, al di là degli aspetti clinici ormai ampiamente studiati, si colloca in quanto esperienza resistenziale alle ferite della vita pur sempre all’interno di una categorizzazione filosofica e letteraria. Infatti lo scrivere di noi dà vita, come si è detto, a una figura d’appoggio interna, con la quale dialogare in condizioni di solitudine: l’io debole cerca nel proprio tu un interlocutore, amato o odiato, ma comunque somigliante a se stessi. La desolazione devastante si vive quando questo alter ego taccia, non riesca a essere partorito. Non tanto per dare risposte ragionevoli, consolatorie, incoraggianti al nostro vuoto emotivo capace di anestetizzare anche il dolore. Quanto piuttosto a una sorta di biografo interno che ci racconta la nostra esistenza, che crea uno spazio transizionale non affidato a figure esterne sostitutive, ma a una sorta di istinto di sopravvivenza capace di creare questo doppio facilitante.

Il biografo interno è la finzione necessaria che ritroviamo descritta in numerose figure della letteratura mondiale classica e moderna. Non avendo nessuno al quale rivolgere la parola o da ascoltare, la psiche ha la esigenza primordiale, arcaica, di crearsi un compagno. La nostra specie è una specie sociale, non solitaria. Tuttavia la solitudine, quando iniziò a separare gli individui gli uni dagli altri per necessità di sopravvivenza, scoperta, ricerca del nuovo, produsse nella nostra mente l’insorgere del bisogno di entità invisibili o visibili, sacre o profane, con le quali poter intrattenersi per sopportare l’angoscia dell’abbandono, dello sconforto, della perdita di punti di riferimento, di certezze, di ospitalità. Eroi o antieroi celebri (Gilgamesh, Edipo, Giobbe, Odisseo…) furono i capostipiti di vicende di transizione e peregrinazione – di separazione dal sogno di immortalità, dalle radici genealogiche, da Dio, dalla terra patria – dei quali se altri narrarono le avventure, allo stesso tempo costoro vengono descritti come personaggi maschili3 dotati di grande vitalità introspettiva. Equivalente a una capacità di sdoppiamento cognitivo ed emotivo, in grado


di produrre un corpo immaginario non solo utile ad assecondare l’esigenza di comunicare con qualcuno. Ma dotato come di una prerogativa speculare, capace di riflettere le vicissitudini dell’uomo reale e di mutarle in una rappresentazione letteraria ante litteram. La tesi è questa: ben prima dell’invenzione della scrittura come genere narrativo funzionale alla enfatizzazione della propria soggettività, la mente del solitario, accettando questa condizione, poté produrre da sé il proprio conforto in attesa di narrarlo finalmente ad altri. La storia della narrazione umana ci spiega assai bene come tali eventi ebbero modo di generarsi. Ma fu la scrittura personale ad accrescere, a corroborare, a consolidare questo stratagemma. Poiché generò due effetti:  la possibilità di sopravvivenza psichica anche in assenza totale di interlocutori, durante o alla fine del viaggio solitario;  la materializzazione del sosia in un oggetto separato, quale il rotolo di pergamena, il papiro, il manoscritto cartaceo nelle forme del canto poetico, della cronaca, del memoriale ecc. La scrittura come supporto alle fenomenologie della

resilienza, e prima ancora il dialogo interiore senza esternalizzazione vocale, costituiscono di conseguenza un antichissimo antidoto a chiunque si trovi a vivere una condizione di passaggio e di separazione.

Resilienza e scrittura: possibilità di riconciliazione Il termine resilienza può essere compreso alla luce di due diverse interpretazioni: la prima fisica, la seconda più di ordine metaforico. È innanzitutto, questo, un fenomeno studiato da gran tempo in fisica dei materiali (dal latino resilio, resilire) e sta a indicare il ritorno indietro – il noto fenomeno del rimbalzo – di un corpo scagliato contro una superficie che lo respinge senza deformarlo4. Su un piano simbolico è però resiliente (se ne attribuiamo l’appartenenza ad ex-silio) anche ciò che riesce o sa superare, sopportandolo, il momento traumatico generato da uno stato di quiete a uno stato dinamico, che potrebbe rivelarsi dannoso per l’oggetto (o per la persona, se si tratta di un essere umano: a livello corporeo e psichico) sradicato dalla posizione originaria5. Il trauma si

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Cfr. D. Demetrio, L’educazione non è finita. Idee per difenderla, Milano, Raffaello Cortina, 2009.

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Id., L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, Milano, Raffaello Cortina, 2010.

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Per i riferimenti alle fragilità e alla resilienza dei minori in condizioni di transizione, un libro di grande importanza sia filosofico esistenziale che clinica è senz’altro di Boris Cyrulnik, Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare le esperienze traumatiche (2008), trad. it. Milano, Raffaello Cortina, 2009. E anche di M. Chistolini e M. Raymondi, Figli adottivi crescono. Adolescenza ed età adulta: esperienze e proposte per operatori, genitori e figli, Milano, FrancoAngeli, 2010.

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Si veda l’interessante ricerca di P. Milano - M. Ius, Sotto un cielo di stelle. Educazione, bambini e resilienza, Milano, Raffaello Cortina, 2010.

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sottrae in tal modo a una sorta di teoria fatalistica della predestinazione (un bambino che ha subito violenza o che è stato in balia di eventi, non necessariamente sarà perciò un adulto abusante a sua volta o compromesso), purché ovviamente – per risorse interne e aiuti adeguati – i colpi ricevuti non siano del tutto devastanti. L’esilio, nella gamma delle sue immagini, può anzi rivelarsi anche un’esperienza fertile rispetto alla capacità acquisita di reazione di chi non abbia mai subito alcuna ferita. Il quale sarà più debole ed esposto ai rischi. Se ritorniamo ora a quanto detto a proposito di narrazione e scrittura, tali tesi ci confortano rispetto all’importanza di facilitare con ogni mezzo il racconto da parte di chi venga da situazioni in cui l’“istinto resiliente” abbia permesso loro di resistere. Nella consapevolezza clinica che l’assorbimento di un trauma, degli ematomi simbolici visibili, lascia comunque tracce, seppure all’apparenza non evidenti. La rescissione di conseguenza dei vecchi legami affettivi precedenti il passaggio adottivo chiede ai protagonisti che dovranno occuparsene di tessere nuovi legami protettivi fatti di parole. Nonché un’atten© eliana gentile

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zione tutta speciale, affinché l’adottato sia messo in grado di ricucire il racconto della propria storia (deformata dall’impatto con la superficie) con i frammenti di una nuova storia possibile e in fieri. Storia che utilizzerà le storie dei genitori adottivi, in primo luogo, per ricomporsi e reintegrarsi. Ma ciò si può compiere non negando, rimuovendo, facendo finta che il passato non esista più e non sia mai esistito. La storia va riscritta insieme alle figure di accoglienza al fine di favorire, potenziare, sostenere lo sviluppo dell’evento resiliente grazie al sostegno narrativo. Il quale ha lo scopo di presidiare alla capacità di attivare una riorganizzazione positiva della rappresentazione della propria storia “lesa”. A tal proposito Serge Tisserot ha scritto che «la capacità di resistere a situazioni traumatiche è la capacità di trasformare un trauma per farsene una possibilità di ripresa». Il nodo cruciale6 è il restauro di una nuova immagine di sé, dove lo scoprire di saperla narrare man mano che la nuova storia va emergendo e, ancor più il saperne scrivere, costituiscono il focus del trattamento terapeutico, se indispensabile, o educa-

tivo neogenitoriale. In queste circostanze favorevoli, inoltre, si accentuano le capacità oltre che di adattamento e di integrazione del nuovo, di riattivazione delle proprie risorse. Fra queste, c’è sempre qualcosa che appartiene alla storia che l’individuo ha vissuto e che continua a raccontare al proprio sosia interno. Un’entità emotivo-cognitiva che attende, secondo le nostre ipotesi, la possibilità di palesarsi, diventando racconto scritto o inizialmente una rappresentazione grafico-pittorica: in ogni caso una manifestazione di esternalizzazione del vissuto. Ancora Boris Cyrulnik ci rammenta che l’adozione prima ancora che un trauma di passaggio è un incontro che permette un’evoluzione della resilienza, a patto che non si pretenda, o creda, di cancellare la sofferenza facendo di tutto affinché chi ha sofferto espella da sé i fattori perturbanti. Questi vanno riutilizzati offrendo occasioni che permettano all’offeso di avere una visione complessiva e non frammentaria della propria vicenda. Grazie, affermiamo nuovamente, anche alla nascita di quel biografo interno che si rivela indispensabile alla sanità psichica; che ci permette di andare e ve-

nire dall’io al tu senza la presenza di qualcun altro; che contribuisce a ispessire un io-pelle ancora sottile ed esposto a lacerazioni ulteriori, se non riesce a diventare lo “scrivano” al servizio del suo autore, se non riesce a mostrargli che è lui il personaggio importante della vicenda. È evidente, a questo punto, che tale processo è raro possa adempiersi senza una sapiente attività di cura e di consulenza narratologica e autobiografica7. La narrazione e la scrittura, introdotte come in precedenza abbiamo caldeggiato, si rivelano tanto più fattori di protezione poiché prevedono che ci sia qualcuno accanto a presidiare e che narrazioni e scritture possano essere valorizzate in quanto esito del lavorio del biografo interno riconosciuto da un biografo (la figura d’aiuto) reale ed esterno. Se è cruciale che ci si possa aprire con qualcuno di cui si ha finalmente fiducia, garante di conferme e affetto, è pure indispensabile che, da soli, ci si avveda di possedere abilità capaci di produrre qualcosa leggibile, udibile, apprezzabile da altri. In gioco – in un gioco umano, educativo e curativo quale è quello giocato dai diversi protagonisti


dell’esperienza adottiva – vi sono in conclusione (ecco un altro motivo filosofico ed esistenziale cui già si è accennato, e per molti versi religioso) alcune attitudini indispensabili di riconciliazione, da mettere in azione e a tema. Si tratta di attitudini che in merito alle questioni trattate possono essere spontanee, elettive, addirittura talenti innati, ma, più spesso, devono essere stimolate, favorite e accompagnate. Tra queste, dobbiamo mettere l’accento sull’importanza di favorire una riconciliazione con le proprie verità, anche scomode e dolorose; con gli enigmi insolubili, con i fatti di cui non si riesca a sapere antefatti e esiti; con le origini misteriose diverse di una storia di vita. In tutto questo, diventa determinante il ruolo del facilitatore di narrazione (i genitori in primo luogo, che abitano la quotidianità dell’adottato): con l’avvertenza che l’ausilio del racconto di sé e della scrittura venga usato rispetto al presente affinché in nuovi vissuti diventino una storia migliore degna di essere narrata. Non è necessario, con i non adulti, anzi può essere controproducente e ostacolare i processi positivi di resilienza, insistere con la esplicita, affanno-

sa, ricerca degli indizi del passato. Il tempo trascorso deve emergere quando sarà giunto il momento giusto. E nessuno può saperlo in anticipo. La memoria è un animale silente, sceglie lei quando emergere dall’oblio apparente o veridico. Un presente “accogliente e invogliante a vivere” è il miglior garante, tanto più se ricco di stimoli emotivi e cognitivi, di quella riconciliazione con se stessi che è condizione necessaria (tuttavia non sufficiente) ad affrontare una vita altra, pur sempre di figli e figlie.

S. Tisserot, La résilience, Paris, PUF, 2007, p. 34.

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7 Per una teoria e una prassi della consulenza in questo ambito si veda D. Demetrio, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Milano, Raffaello Cortina, 2008.

Duccio Demetrio insegna Filosofia dell’educazione all’Università La Bicocca di Milano

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storia e adozione

Accompagnare il bambino al confronto con la propria storia 20

Conoscere la propria storia, essere informati sugli eventi significativi che l’hanno caratterizzata costituisce un ingrediente assai importante per garantire un’adeguata crescita psicologica della persona. La conoscenza degli avvenimenti che hanno fatto di noi ciò che siamo rappresenta, infatti, un fattore molto importante perché si possa avere con gli stessi una “relazione” caratterizzata da equilibrio e consapevolezza (FonagyTarget 2011; Wallin 2009). Quando una persona ha vissuto esperienze che “non conosce” consapevolmente perché era troppo piccola per ricordarle o perché sono stare rimosse dalla coscienza, avrà pensieri ed emozioni di cui non gli sarà possibile individuare l’origine, e tali pensieri ed emozioni gli risulteranno estranei o, addirittura, minacciosi. Se questo è vero per tutti

gli esseri umani, lo è ancor di più per coloro che hanno avuto un’esistenza travagliata, caratterizzata da eventi drammatici e insoliti, da rotture e separazioni che rendono assai più complesse la comprensione e l’attribuzione di senso a questi stessi eventi. I figli adottivi appartengono sicuramente a questa classe di persone, avendo dovuto, in modi assai diversi in quantità e qualità, confrontarsi con l’esperienza della separazione dai genitori biologici e, spesso, con altre vicende dolorose e difficili da significare. Da quanto fin qui affermato consegue chiaramente che conoscere la propria storia è molto importante e richiede l’integrazione di due diversi livelli:  quello della conoscenza degli avvenimenti salienti della propria vita;  quello dell’attribuzione di un senso agli stessi.

L’abbandono Tra gli avvenimenti importanti che colpiscono i bambini adottati, vi è senz’altro quello dell’abbandono. Si tratta di un termine comunemente utilizzato nel campo dell’adozione, sul cui significato conviene fare qualche riflessione. Alla voce abbandonare il dizionario Devoto-Oli (2007) riporta: «lasciare con l’animo di non tornare più alla cosa o alla persona che si lascia». Ebbene, sappiamo che in un numero importante di casi, i bambini dichiarati adottati non sono stati abbandonati, ma piuttosto sottratti ai loro genitori per le gravi condizioni di pregiudizio in cui si trovavano. Così come è noto il fatto che le circostanze che precedono e accompagnano l’abbandono sono solitamente molto diverse tra loro. È quindi evidente che utilizziamo, tutto


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sommato impropriamente, lo stesso termine abbandono per indicare situazioni tra loro molto differenti. Eppure questa generalizzazione ha una sua motivazione: quale sia il modo in cui la separazione dai genitori biologici si realizza (e non vi è dubbio che si tratta di differenze importanti), essa, la separazione, segnala un grave deficit nelle capacità di cura dei genitori. Ritengo, infatti, che sia le condotte che nuocciono alla crescita di un bambino (abuso, maltrattamento, trascuratezza ecc.), sia la decisione di rinunciare a lui, costituiscano (salvo casi, particolari e minoritari, di assoluta impossibilità oggettiva), degli indicatori di una seria difficoltà dei genitori a investire affettivamente (o a farlo in modo corretto) nei confronti del figlio. Rinunciare a crescere il proprio piccolo, infatti, quand’anche lo si faccia in modo da garantirne la massima tutela possibile, come nel caso di coloro che decidono di non riconoscerlo dopo il parto in ospedale, lo priva, di fatto, di quelle cure che sappiamo essere un nutrimento relazionale fondamentale per la sua crescita psichica (Bowlby 1989; Attili 2007).

Sapere e capire Ci troviamo, quindi, con un bambino che ha vissuto una vicenda difficile e dolorosa che solleva interrogativi («perché sono stato lasciato?») e attiva sentimenti di dolore, rabbia, inadeguatezza, colpa. Che fare? Come è possibile aiutarlo? Molto è stato detto e scritto a questo proposito a partire dal concetto di «verità narrabile» proposto da Donatella Guidi (1997). Spesso, però, il dibattito sul tema non ha saputo distinguere con sufficiente attenzione le due dimensioni fondamentali che lo caratterizzano: quella del sapere e quella del capire. Entrambe fondamentali per aiutare il minore a sperimentare un percorso di una pacificazione interiore che gli consenta, al termine di un cammino spesso lungo e doloroso, di accettare serenamente la propria storia. La dimensione del sapere Cominciamo, allora, a porci la domanda su cosa è opportuno che un figlio adottivo sappia della sua storia personale. Vi è una pluralità di opinioni rispetto a quali informazioni, tra quelle disponibili sul suo passato, è giusto fornire a un bimbo adottivo. Sappiamo che i singoli casi divergono si-

gnificativamente in merito a questo aspetto, con situazioni in cui i genitori adottivi non conoscono nulla e altri che hanno una messe rilevante di notizie. Ebbene, da quanto scritto all’inizio di questo articolo, non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di informare il bambino relativamente a tutto ciò che è conosciuto della sua storia personale raccontandogli quanto è accaduto a lui e alla sua famiglia di origine. Infatti, se consideriamo che dire bugie, nascondere o distorcere gli eventi importanti che lo riguardano è fonte di pregiudizio per la sua crescita, ne consegue che si debba sempre dirgli la verità. Questo in termini generali e di principio. Quando, però, ci si misura con la concretezza delle situazioni le cose appaiono immediatamente più complesse. Ci sono, infatti, storie molto tristi e cruente ed è, quindi, ragionevole chiedersi se, quando e in che modo sia giusto parlarne al figlio adottivo. Si tratta di capire quali informazioni trasmettere e come farlo, utilizzando dei criteri che possono esserci di aiuto nell’individuare quali fatti vadano portati alla conoscenza del minore. Per valutare quali informazioni debbano essere condivi-


se propongo alcuni criteri (Chistolini 2008):  Il criterio di attinenza o coinvolgimento. Si riferisce a tutti quegli avvenimenti che riguardano direttamente il minore nel senso che sono stati da lui stati vissuti o sono a lui riferibili.  Il criterio di rilevanza. Attiene a una valutazione dell’importanza dei fatti accaduti secondo dei principi condivisi di carattere generale.  Il criterio di impatto. Indica l’effetto, diretto e indiretto, che gli avvenimenti in questione hanno avuto sul soggetto o che potrebbe derivare dalla loro conoscenza.  Il criterio di congruenza. Chiama in causa il fatto che, molto spesso, sui fatti accaduti, giungono al bambino altre comunicazioni che rivelano l’esistenza di un segreto e/o contraddicono le spiegazioni “ufficiali” fornitegli. Tali comunicazioni contrastanti possono essere di tipo verbale o non verbale. Sovente il bambino ha avuto diretta esperienza degli avvenimenti che gli adulti vogliono celargli, oppure ha altre informazioni che contrastano la spiegazione ufficiale. Si verifica, dunque, una situazione di incongruenza tra diverse

fonti di informazione che di significato coerenti con genera una dannosa conla natura dei fatti racfusione nel minore. contati in base all’esperienza comune e a valori  Il criterio di sostenibilità. generalmente condivisi; Se si omette di raccontare un fatto o si dice qualco-  consente successivi apsa di diverso dalla verità, profondimenti e precisabisogna domandarsi fino zioni da calibrarsi sulla a che punto e per quanprogressiva metabolizzato tempo la versione prezione delle informazioni scelta sia sostenibile. Ovdate, sulla crescita del vero se non è possibile, o bambino e sul suo sogprobabile, che giungano gettivo bisogno di saperal minore altre informane di più. zioni che smentiscano la versione fornitagli. La dimensione del capire Quanto più questi le informazioni in esame soddisferanno questi criteri, tanto più sarà opportuno trasmetterle al bambino. Una volta individuate le informazioni da comunicare, ci si deve porre il problema di come farlo, soprattutto quando i bambini sono molto piccoli. In questo senso può essere utilizzato il concetto di verità sostanziale (Chistolini 2008, 2010), intendendo con questo una modalità comunicativa che:  riferisce i fatti salienti chiamando le cose con il loro nome o con termini comprensibili e realistici;  omette, anche in base all’età del bambino, i dettagli più crudi e dolorosi che nulla tolgono e nulla aggiungono alla comprensione dei fatti medesimi;  fornisce delle attribuzioni

Veniamo ora all’altra dimensione fondamentale che caratterizza il confronto con le origini: quella del capire. Abbiamo detto che il bambino adottato non può non porsi delle domande relativamente all’esperienza di abbandono subita; egli ha bisogno di comprendere perché gli è capitato un fatto del genere e cosa, l’essere stato lasciato dai suoi genitori, dice di lui, del suo valore e del mondo in cui vive. Si tratta di aiutarlo a trovare una spiegazione che dia un senso a questo evento, facendo attenzione a concentrarsi non tanto sui fatti specifici che hanno riguardato la sua storia, quanto sulla necessità di fornirgli una chiave interpretativa capace di dare un significato coerente all’evento centrale della sua esistenza: non essere rimasto con i suoi ge-

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nitori naturali. Dobbiamo allora chiederci: è possibile trovare una motivazione generale capace di dare conto delle diverse situazioni in cui la rottura del legame tra il minore e i genitori biologici si verifica? Una interpretazione dell’incapacità genitoriale

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Se è vero che abbandonare un figlio o accudirlo in modo così scorretto da provocarne la sottrazione per l’intervento dell’autorità giudiziaria costituiscono degli indicatori di una grave incapacità genitoriale, intesa come radicata difficoltà a riconoscere e rispondere in maniera adeguata ai bisogni di accudimento e di relazione del bambino e a stabilire con lui una legame di attaccamento che lo faccia sentire amato e protetto, dobbiamo domandarci quali cause sono alla base di questa incapacità. Ebbene sono numerosi gli studi (Barudy 1998; Attili 2007) che indicano con chiarezza che le competenze affettivo-relazionali necessarie per svolgere efficacemente il ruolo paterno e materno si apprendono principalmente nella relazione con i propri genitori, o altri adulti, sui quali si è potuto contare. Non a caso si parla di trasmissione generazionale dell’attaccamento a partire


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dalla constatazione che la maniera in cui siamo stati accuditi influisce significativamente sul modo in cui ci prenderemo cura dei nostri figli. È evidente che questo fattore non è l’unico a influire in modo significativo sulle competenze parentali di un individuo. Altre variabili che giocano un ruolo importante sono: i fattori biologici, la relazione di coppia, le motivazioni a diventare genitori, le relazioni con le famiglie estese, il contesto sociale e l’adattamento in esso, gli eventi casuali, il bambino e le sue caratteristiche. Tutti questi fattori concorrono nel determinare la capacità di cura e accudimento di un adulto, ma quello della storia personale resta il più importante. Ovviamente, questo assunto non deve essere inteso in termini deterministici, nel senso che ciascun individuo riproporrà meccanicamente ai propri figli quello che ha ricevuto dai suoi genitori. Non è così! È noto che anche persone che hanno avuto storie difficili possono diventare ottimi genitori se hanno la fortuna di sperimentare relazioni compensative ed effettuare un percorso di sufficiente rielaborazione delle esperienze negative.

Quale immagine dare dei genitori biologici È molto diffusa, tra i giudici minorili e gli operatori psico-sociali, l’idea che sia importante per il bambino adottato avere una buona immagine dei suoi genitori naturali in quanto essi rappresentano le sue radici e permettergli di pensare che essi gli hanno voluto bene lo aiuterebbe a rasserenarsi e a meglio accettare la loro decisione di lasciarlo. Questa convinzione porta, non di rado, a fornire ai bambini delle spiegazioni dell’abbandono nelle quali i genitori vengono presentati come persone che non hanno potuto tenerli, pur desiderandolo ardentemente, a causa di problemi economici o comunque estranei alla loro volontà, fino a sostenere che la scelta di lasciarli è stata fatta nel loro interesse (dei figli), in un atto di estremo amore per dare loro la possibilità di una vita migliore. Credo che questi messaggi siano scorretti e in contraddizione con l’esperienza fatta dal bambino. Ritengo che sia possibile e utile aiutarlo a comprendere che i suoi genitori naturali hanno sbagliato a lasciarlo o, a maggior ragione, a fargli violenza (i bambini non si lasciano, non si picchiamo, non si abusano….), ma lo hanno fatto non perché fos-

sero cattivi e volessero fargli del male, ma in quanto non erano capaci di fare diversamente. In quest’accezione trova un particolare rilievo la distinzione dei comportamenti dalle persone che li mettono in atto: abbandonare e/o maltrattare un bambino sono cose sbagliate, riprovevoli e da condannare (potremmo dire “cattive”); chi agisce questi comportamenti sbaglia, ma lo fa per incapacità non per la volontà di fare del male. In tale prospettiva l’immagine che verrà fornita al bambino dei suoi genitori di nascita è, pertanto, quella di due persone fragili, in difficoltà, che non sono riuscite a svolgere il loro compito genitoriale, che magari ci hanno provato, ma senza riuscirci. Due persone che, in base alla conoscenza dei fatti, possono avergli voluto bene, ma un bene che non era sufficiente a farlo crescere correttamente oppure che non erano proprio capaci di amarlo, sempre per le vicende da loro vissute in precedenza. Un’immagine che riconosce il danno inferto, ma favorisce un processo di perdono e riappacificazione. Relativamente all’appellativo da utilizzare per nominarli ritengo che sia opportuno usare i termini di mamma e papà accompagnati da una specifica che


Bibliografia G. Attili, Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. Normalità, patologia, terapia, Milano, Raffaello Cortina, 2007. J. Barudy, El dolor invisible de la infancia. Una lectura ecosistémica del maltrato infantil, Barcelona, Paidòs, 1998. J. Bowlby J., Una base

ne relativizzi il ruolo (la mamma di prima, il papà dell’India, la mamma che ti ha fatto nascere, la mamma Luisa, se si conosce il nome). Non mi sembra, infatti, che appellativi quali: la signora che ti ha fatto nascere o la donna che ti ha partorito, fino all’improbabile “procreatori”, diano conto della significatività del rapporto che il minore adottivo ha avuto e avrà, nel bene e nel male, con i suoi genitori biologici.

Quando le informazioni non ci sono Innanzitutto va detto che non esiste alcun caso in cui della vita precedente all’adozione non si sappia nulla. Infatti, sempre è nota l’informazione più importante: questo bambino non è potuto rimanere con chi lo ha messo al mondo. In questi casi si dovrà accom-

sicura, Milano, Raffaello Cortina, 1989. M. Chistolini, La conoscenza della propria storia nei bambini, un diritto tutelato in ambito europeo?, «Minorigiustizia», 2, 2008. M. Chistolini, La famiglia adottiva. Come accompagnarla e sostenerla, Milano, FrancoAngeli, 2010.

pagnare i genitori adottivi a costruire un racconto ipotetico che, a partire da alcuni dati di realtà (l’età del figlio al momento dell’abbandono, il luogo in cui questo è avvenuto, il contesto socioculturale ecc.) dia conto di come potrebbero essersi svolti i fatti, applicando il criterio della ipotizzazione verosimile. È chiaro che i genitori dovranno esplicitare che si tratta di una loro ricostruzione che si basa sulla loro esperienza e le loro conoscenze, allo scopo di mettere a disposizione del figlio una storia verosimile coinvolgendolo attivamente in questa costruzione fantasiosa ma sensata. Desidero sottolineare con forza la rilevanza del ruolo dei genitori quali dispensatori di significati che, credo, sia una delle funzioni che caratterizza il ruolo genitoriale in generale e non solo nell’adozione, ogni qualvolta si è chiamati a rispon-

P. Fonagy - M. Target, Attaccamento e funzione riflessiva, Milano, Raffaello Cortina, 2001. D. Guidi - M.N. Tosi, La verità narrabile al figlio adottivo, «Minorigiustizia», 2, 1997, FrancoAngeli. J.D. Wallin “Psicoterapia e teoria dell’attaccamento”, Bologna, il Mulino, 2009.

dere ai perché dei figli che vogliono capire quale significato ha un certo fenomeno, banale o fondamentale che sia. Ai genitori adottivi spetta il compito di accompagnare i loro figli in questo difficile cammino, di stare al loro fianco, sostenendoli con pazienza e affetto, mettendo a disposizione la loro esperienza di uomini e donne che sono stati figli e poi, divenuti grandi, madri e padri. Ciò che i figli hanno bisogno di ricevere dai loro genitori, anche se non lo chiedono esplicitamente, è una chiave di lettura con cui interpretare la vita e quindi anche l’evento abbandono.

Marco Chistolini psicologo e psicoterapeuta familiare, lavora da molti anni come formatore, consulente e supervisore sui temi dell’adozione

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La narrazione delle origini

Nelle trame delle storie adottive ci troviamo inevitabilmente di fronte a un fallimento originario, rappresentato dall’impossibilità per il bambino di crescere nella famiglia che lo ha generato. Alcune storie sono più fortunate di altre, poiché hanno giovato, anche se per un tempo limitato, di legami importanti, costruiti con persone amorevoli e accudenti; la maggior parte delle storie invece narrano di vite più complicate, difficili persino da pensare, caratterizzate da legami spezzati e traumi di varia natura. I genitori adottivi hanno il compito fondamentale di condividere il peso di tali esperienze e di accogliere la pressante richiesta, più o meno esplicita, che il bambino pone loro, cioè di raccontargli la sua storia, aprendosi così alla possibilità di vivere, insieme

al figlio, un’esperienza di nuova nascita, che inizia nel momento dell’incontro e prosegue attraverso la strutturazione di un legame solido e irreversibile. L’opera di ricostruzione della propria storia, per un bambino adottato non è affatto lineare, è anzi tortuosa e complessa, ma necessaria. Quando il bambino viene adottato un po’ più grande conserva delle proprie memorie di luoghi, persone, odori, suoni, mentre un’altra porzione dell’esperienza è segnata sulla pelle, non è visibile né accessibile al ricordo cosciente, ma viene comunque registrata; questa parte merita un ascolto particolare, va ricercata e le va dato un nome, perché di fatto esiste e lavora internamente al bambino. Queste esperienze richiedono un faticoso lavoro del

pensiero, la ricerca della conoscenza di sé e della propria nascita; tale processo deve prevedere una elaborazione psicologica condivisa fra figli e genitori, soprattutto per poter attribuire un significato a eventi difficili da comprendere. La ricerca delle origini ha un significato psichico importante, che non porta lontano dalla famiglia adottiva, ma la include e la coinvolge profondamente. La domanda che sottende la richiesta del bambino è «Io chi sono? Da dove vengo? A quale contesto appartengo?». È chiaro che ci troviamo di fronte alla ricerca, o meglio alla definizione, della propria identità, che appare in modo più deciso nell’età adolescenziale, quando dovrà sostenere il non facile compito di integrare le rappresentazioni di sé che si sono succedute


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nel tempo, quindi riconoscersi come se stesso nonostante i cambiamenti che si verificano con il passare degli anni. Il ragazzo adottato ha naturalmente più difficoltà a portare a compimento questo processo, poiché ha vissuto una forte discontinuità relazionale, caratterizzata probabilmente da carenze affettive o deprivazione nella prima parte della vita, seguite, dopo l’adozione, da esperienze di un forte investimento affettivo, e ciò non

può che creare confusione e smarrimento. Se è vero che l’origine è una costruzione dinamica della mente e che il bambino ne ricerca la funzione di appartenenza, il legame con la famiglia adottiva può consentire l’avvio del processo di integrazione identitaria e di storicizzazione del trauma. Noi siamo la nostra storia, e mi riferisco non solo alla storia vissuta direttamente da noi, ma anche a quella delle generazioni prece-

denti, che rappresentano le nostre radici, i nostri valori di riferimento, le conoscenze, che hanno creato le fondamenta sulle quali costruire il nuovo, cioè la nostra storia personale. Nelle famiglie i ricordi vengono condivisi, ripetuti e narrati al fine di strutturare un’idea coesa e armoniosa della vita. Potersi confrontare con il proprio passato e poter accedere alle informazioni è fondamentale per crescere in modo sereno. Tutti i bam-


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bini, adottati e non, devono poter accedere alla propria storia, poter esprimere curiosità e confrontarsi costantemente con l’adulto che conserva le memorie familiari e che conferma quelle del bambino stesso. Il bambino è alla ricerca di un ordine, di una logica che organizzi gli eventi che si sono succeduti nella sua vita, i fatti che li hanno coinvolti, e amano sentire storie del periodo anteriore alla propria nascita. A maggior ragione ciò è vero per quei bambini che hanno subito separazioni, forti cambiamenti, che faticano a tenere insieme nella loro mente e a dare un senso a quanto è accaduto loro. Affrontare le origini del figlio venuto da lontano sembra essere più forte per i genitori di quanto lo sia per il bambino, almeno per i primi periodi del rapporto. Ciò a cui mi riferisco è sempre un lontano psichico più che fisico, poiché ciò che crea la distanza e la sensazione di non-accessibilità è la percezione dell’estraneità in quanto ci si sente diversi. Il mondo originario del bambino è un fantasma che aleggia e che spaventa. Per il bambino, invece, sentire la legittimazione ad accedere alle informazioni che riguardano la sua storia è di fondamentale

importanza, poiché solo in questo modo può riappropriarsi del proprio passato e costruire una storia coerente. Il bambino deve anche fronteggiare un conflitto, quello di voler conoscere delle cose di se stesso, e allo stesso tempo ha paura di avvicinare dei vissuti che sente essere troppo pesanti. Ci sono delle cose che si aspetta di incontrare e altre che può solo immaginare; si crea dunque uno spazio psichico ricco di fantasie che strutturano l’idea che ha di sé e che parzialmente lo proteggono. Non è facile per un bambino, in seguito all’esperienza di esclusione e di inferiorità legata all’abbandono, poter riconoscersi il diritto di accedere alle proprie origini. Inoltre deve gestire il senso di colpa nei confronti dei genitori che lo hanno accolto, come se non provasse abbastanza amore per loro, tanto da voler ricercare quei genitori lontani, dai quali sente di provenire. Solo la sensibilità e la disposizione interna del genitore può facilitare tale operazione, dando al bambino il “permesso” di potersi pensare altrove, di provare curiosità e interesse verso una vita ormai lontana nel tempo e nello spazio, ma così viva e bruciante dentro di sé. Ciò di cui sono alla ricerca

non è quasi mai un nome e un cognome, o un volto, ma la possibilità di scoprire la propria storia e sentire il diritto di riappropriarsene. Solitamente è difficile essere a conoscenza dei fatti realmente accaduti, della verità che ha segnato la vita del bambino; molto spesso invece ci si trova di fronte alla necessità di creare uno spazio anche per racconti difficili da dire, che potrebbero ferire o danneggiare il bambino. Personalmente tendo a riconoscere alla vita psichica un forte peso e una grande rilevanza sulla percezione di sé e del mondo, senza per questo negare l’incidenza del reale. La fantasia ha un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità e una influenza determinante nelle scelte della vita. Nell’esperienza con ragazzi adottati mi è parso molto chiaro quanto, nello sviluppo del loro cammino di vita, abbiano inciso le fantasie sulle proprie origini e quanto queste abbiano determinato il valore che attribuivano a se stessi. Ed è proprio a questo livello che i genitori adottivi, veri terapeuti dei propri figli, possono generare un cambiamento sostanziale nella loro vita, offrendo loro un’altra visione della storia, ridando dignità e valore alla loro esistenza.


La possibilità di vivere degli atti creativi insieme, immaginare e inventare delle storie possibili, anche lontane dalla realtà, costituisce quel tessuto importante della propria identità, che prende forma insieme a un adulto che lo accompagna e ne rispetta il passo; la storia realmente importante, che apre la via a un destino libero da vincoli fallimentari interni, non è quella certa ma quella possibile, che nasce all’interno di un legame autentico e che ne consolida il valore. Attraverso l’esperienza attuale, quella con i genitori adottivi, il bambino può risignificare l’abbandono e attribuire un valore diverso agli eventi della propria storia. L’obiezione potrebbe concernere la sensazione di introdurre nel rapporto, basato su fiducia e rispetto, una non-verità, o proprio una falsità, che macchierebbe la relazione. Mi sembra invece importante spostare l’attenzione, ancora una volta, sulla realtà interna e quanto spesso questa è più forte e vincente di quella esterna. Finché il bambino ha bisogno di nutrire dentro di sé un mondo rassicurante e non spaventoso, è giusto che questo avvenga; solo quando sarà al sicuro dai propri fantasmi interni e garanti-

in grado di garantire un confronto e una capacità di metabolizzazione di tali angosce. Solo quando sente di aver acquisito uno spazio affettivo all’interno della nuova famiglia, ovvero dopo aver sperimentato un legame contenitivo, si può parlare del legame perduto. La psiche di un bambino non può, da sola, contenere l’esperienza dell’abbandono, poiché il senso gli è distante e incomprensibile. Solo quando il bambino raggiunge una certa sicurezza del legame, quando si sente appartenere a quei genitori e sente che loro appartengono a lui, può affacciarsi la tematica dell’abbandono. La posizione dei genitori rispetto alla ricerca delle origini rimosse è fondamentale per il vissuto del bambino, che ha bisogno di genitori coraggiosi e forti in grado di affrontare, insieme a lui, l’ignoto. Ha bisogno di genitori curiosi e tenaci, che vogliono ridare valore e significato a ciò che precede la storia adottiva, senza mistificarla o sminuirla, sapendo che anche quella parte della vita appartiene a loro figlio, e deve trovare una collocazione all’interno dello spazio familiaLa tematica dell’abbando- re. La disponibilità a fare no emerge solo dentro una luce in un mondo di ombre, relazione che il bambino spesso spaventose, apre a sente accogliente e sicura, un’esperienza diversa e to da una relazione solida, allora potrà sempre più avventurarsi e avvicinarsi alla realtà più dura, essendo in grado di sostenerla. La comunicazione di informazioni non è mai la risposta che mette a tacere le ansie e le angosce. Ciò che conta non è tanto il contenuto di ciò che si narra, ma il racconto in sé, poter pensare insieme e co-costruire, aprendo un varco nel mondo delle fantasie e poter finalmente dire ciò che lui vorrebbe fosse accaduto, le persone che avrebbe voluto accanto, le esperienze desiderate e mai realizzate. La ricerca profonda del bambino è il raggiungimento del senso di continuità interna, di coesione di se stesso, al di là delle possibili rivelazioni o scoperte. Se questo processo viene attivato, il bambino, attraverso la conoscenza di sé, può prendere la giusta distanza dal passato, riponendolo in quella parte di vita che si è conclusa, ed estinguerne la qualità persecutoria. Se viene lasciato solo con le sue fantasie, difficilmente gestibili, inevitabilmente l’angoscia acquisisce un ruolo primario e schiacciante.

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totalmente nuova di sé, innanzitutto perché si sente riconosciuto in un bisogno. Anche se non ci sono dati concreti da rivelare, ci si può aprire ad altro, riempiendo un vuoto affettivo e relazionale, creando insieme scenari, se necessario, immaginare possibili storie mitiche sul proprio passato, che acquisiranno nel tempo il valore di memoria storica, poiché ciò che realmente conta non è l’evento in sé, ma il significato che esso assume; bisogna riuscire a creare un’apertura, senza farsi limitare dalla realtà concreta, ma entrare in un mondo immaginario, popolato di personaggi connotati positivamente, o negativamente, ma chiari e riconoscibili. Questo atteggiamento contrasta la percezione dell’“impossibilità”, che inevitabilmente pone in una condizione di forte frustrazione e rimanda un senso del limite. La possibilità di avere un adulto che aiuti a dare un senso a quanto accaduto, fornisce la chiave di lettura adeguata attraverso la quale poter inserire poi tutte le informazioni reali, anche quelle più difficili. Poter parlare, raccontare qualcosa, poco a poco va a costituire realmente una parte di sé. Ciò che veramente importa è creare

uno spazio in cui far affiorare domande, quindi permettere che emergano dubbi e paure; non importa se non c’è una risposta a ciò, non facciamoci spaventare, poiché l’unica risposta che conta è quella che si crea insieme, quella che prende forma nella relazione attuale. È il valore di una madre che ascolta, senza paura, i dubbi e le angosce del bambino e le trasforma rendendole semplicemente più sopportabili, laddove invece rappresentavano un carico troppo grande, il cui peso è schiacciante. Lo stesso discorso vale anche per i bambini più piccoli, anche per quelli che vengono adottati in fasce, che non hanno ricordi coscienti o memorie, ma riescono ugualmente a rappresentare quella porzione di ignoto della loro vita. Anche in piccoli gesti possono raccontare un passato che non c’è più, far trasparire un’esperienza o una sensazione che forse a parole non si potrebbe dire. Verso quella parte della vita hanno delle fantasie, poiché rappresenta un mondo perduto, dal quale sono stati esclusi e non ne comprendono la ragione. Io credo che non ci siano verità indicibili, poiché le emozioni legate all’esperienza, anche molto precoce, hanno bisogno di essere espresse.

Se tutto ciò avviene all’interno di una relazione affettuosa e amorevole, come in un “utero” mentale, allora sarà possibile comunicare ciò di cui il bambino necessita, seguendo la propria sensibilità, ed essere attenti nel dire ciò che il bambino può accogliere. All’interno del racconto ci sono anche i genitori, che parleranno di sé, della loro esperienza, dei propri dolori, ma anche del loro entusiasmo nell’accogliere un nuovo membro della famiglia. Potrebbe rappresentare un bell’esempio di creatività sostenere il racconto documentandolo con la scrittura, con disegni e foto, poiché diventa un modo, anche per i genitori, di riflettere su se stessi e di guardare indietro alla propria storia. In fondo in ogni esperienza adottiva ci sono due storie che si incontrano, due voci che hanno bisogno di esprimersi, quella dei genitori e quella del bambino. I racconti dei bambini si intrecciano con quelli di genitori, che, in questo atto creativo, li arricchiscono con la loro esperienza, la loro porzione di vita: «anch’io facevo questo, mi fai ricordare quando mi è successo, quella volta…», mettendo in campo forti risonanze emotive.


I genitori adottivi possono costruire un ponte tra il presente e il passato, fornendo anche la possibilità di creare insieme un mondo di colori e di suoni, che non facciano sentire il bambino strappato via dal suo mondo. I ricordi, coscienti o meno, affioreranno attraverso i sogni, i disegni, i racconti e aspettano solo di avere un contenitore dove essere depositati, ripensati e riorganizzati insieme. Potersi situare in un percorso narrativo con chiarezza, rafforza la sicurezza del bambino e protegge anche da pregiudizi e immaturità culturale rispetto alla realtà adottiva. Fondamentale è l’esperienza con i genitori che diventano i testimoni di questi racconti e che rappresentano una speranza di un cambiamento, assicurando che ciò che è stato in passato non accadrà più e aiutando il bambino a superare il senso di sfiducia che ha nell’ambiente in cui vive.

ce viene veicolato da una sfumatura dell’espressività vocale o dal corpo; questo tipo di comunicazioni necessitano di un particolare tipo di ascolto, attento e rispettoso, che non si fermi alla superficie e che vada al di là di ciò che viene comunicato. L’ascolto, dunque, non riguarda solo il discorso cosciente, bensì a volte può necessitare una traduzione in parole della rappresentazione impalpabile e inconscia degli affetti. Noi tutti siamo dotati, per natura, di questa attitudine, che necessita solo di essere affinata; essa ci consente di cogliere realmente la voce interiore dell’altro, per poter ascoltare il bisogno silente e il dolore inesprimibile. Per riuscire a cogliere una comunicazione più profonda, quindi, bisogna uscire dai propri panni e raggiungere il figlio là dove lui è, presupponendolo realmente nel suo diritto esistenziale.

La capacità di ascoltare l’altro implica il riconoscimento dell’altro come diverso da sé, come persona “altra”, un individuo separato. Il linguaggio a volte non è sufficiente a comunicare qualcosa di profondo legato al mondo degli affetti, che inve-

Il genitore adottivo deve tenere presente che suo figlio chiederà sempre, nei vari momenti dello sviluppo, di raccontargli delle cose che riguardano lui, il loro incontro, come erano i genitori prima di conoscerli… ciò serve a costruire una rappresentazione

di sé sempre più solida e coerente, che gli fornisce la certezza di essere finalmente approdato in un luogo protetto, popolato da figure rassicuranti che lo vedono e lo ascoltano. La vita relazionale ha un enorme valore e dunque influisce fortemente sulla realtà interna, per questo credo fermamente nella possibilità, da parte dei genitori, di offrire ai propri figli uno sguardo diverso e riconosco a molti genitori la competenza per saper affrontare anche situazioni difficili, facendo appello alle proprie risorse interne, che si potenziano e si rafforzano nell’incontro con il figlio tanto desiderato.

Pietrina Guglietti psicologa e psicoterapeuta

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Raccontiamoci

La narrazione autobiografica con i bambini

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Uno scrittore può inventare storie e personaggi all’infinito grazie alla propria creativa immaginazione. Ma anche ciascuno di noi, adulto o bambino che sia, può scrivere della propria esperienza di vita; infatti sentimenti ed emozioni, incontri e persone possono dar luogo a un infinito e variegato numero di racconti. Il bisogno dello scrittore è spesso lo stesso del bambino, cioè quello di dare un’organizzazione alle esperienze della vita, collegando le vicende del proprio vissuto secondo un preciso ordine e cercando di dare un senso generale al tutto. Non è facile raccontarsi, ma è fantastico poterlo fare. Attraverso la narrazione orale e scritta possiamo collegare gli eventi in una sequenza scelta da noi; comunque non dobbiamo dimenticare che spesso il

vissuto non si configura come un tutto armonico ma piuttosto come un insieme frammentario di percezioni, sensazioni, pensieri e azioni. Il mondo narrato, diverso da quello vissuto, seleziona e sceglie gli elementi in base a determinati principi; si crea una sorta di nuova realtà elaborata e trasformata, migliorata e arricchita di significato. Attraverso il racconto autobiografico si può realizzare una specie di metafora delle vicende dell’esistenza ma si può anche ritrovare un filo conduttore della propria vita. Per riuscire a raccontare storie con il punto di vista dei bambini non è sufficiente inventare storie con bambini come protagonisti; gli autori dovrebbero ricordare lo stato d’animo del proprio mondo infantile e, attraverso questo, guarda-

re la realtà e costruire la storia. Il protagonista dell’albo illustrato Nel paese dei mostri selvaggi vive il suo viaggio fantastico e coinvolge il cuore del lettore. Maurice Sendak racconta una esperienza attraverso la visione di un bambino, riportando riflessioni e pensieri, paure ed entusiasmi. Nel libro si narrano le avventure immaginarie di questo bambino di nome Max che si infila il suo vestito da lupo, parte per un viaggio in un paese sconosciuto e incontra i mostri selvaggi che danno il titolo alla storia. La trama inizia proprio con Max travestito da lupo che ne combina di tutti i colori e rincorre il cane con una forchetta. La mamma lo definisce mostro selvaggio e Max le risponde E io ti sbrano. Così Max viene cacciato senza


cena nella propria camera; improvvisamente però tra le mura della stanza cresce una foresta lussureggiante fino al soffitto e fino a far scomparire le pareti. Si forma persino un mare e Max, esplorando tutto intorno, trova una barca, vi incide il proprio nome e inizia un viaggio che sembra durare mesi. Giunto nel paese dei mostri selvaggi incontra strane creature che gli ruggiscono terribilmente, digrignano terribilmente i denti, roteano tremendamente gli occhi e mostrano gli artigli orrendi. Max non si fa prendere dal panico, li manda a cuccia, li doma e li conquista; addirittura viene proclamato mostro più selvaggio di tutti e nominato re. Max dà inizio a un grande ballo scatenato, la ridda selvaggia; dopo una iniziale euforia, ben presto si stanca; i mostri selvaggi non

vogliono fermarsi e Max li caccia a letto senza cena. Max si sente solo e avverte la mancanza di casa, di un posto dove ci sia qualcuno che lo ami più di ogni altra cosa al mondo. Contro il volere dei mostri, decide di ritornare nella sua stanza dove sente ancora un profumo di cose buone da mangiare. Max, con il trucco di fissare i mostri negli occhi, li vince ed è come se vincesse anche la sua rabbia e i suoi impulsi selvaggi. Anche quando organizza la ridda selvaggia, Max rivela la parte più istintiva, selvaggia e incontrollata. È una trovata bellissima la maschera da lupo di Max poiché permette a chi racconta e a chi ascolta di immedesimarsi contemporaneamente nel bambino e nel lupo; i due personaggi sono uniti magicamente e anche nei bambini magicamente possono convivere,

nel medesimo tempo, forze ed emozioni contrastanti. Il costume da lupo di Max permette a uno stesso personaggio di avere una natura rabbiosa e irrispettosa e una dolce ed educata. Nell’ultima fantastica immagine, Max si lascia cadere dalla testa il cappuccio da lupo, gli occhi sono assonnati e i capelli arruffati. Sembra che il protagonista abbia compiuto un vero e proprio faticoso viaggio; in realtà l’autentico viaggio l’ha compiuto dentro di sé; anche questo è stato faticoso ma al tempo stesso è stato meraviglioso. Il bambino riesce, con il mascheramento del lupo, a essere quello che lui a volte è e quello che gli adulti vorrebbero non fosse. Come un equilibrista spinto da forze opposte, Max è alla ricerca della propria identità, che costruisce attraverso esperienze dolorose nel difficile

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processo di conoscenza del sé. Il libro Nel paese dei mostri selvaggi è stato pubblicato per la prima volta nel 1963 e ha creato una forte contrapposizione fra detrattori e sostenitori: da una parte c’erano quelli che consideravano la storia cupa e inadatta ai bambini; dall’altra quelli che consideravano la storia all’avanguardia, scritta e illustrata considerando veramente il sentire dei bambini. I primi criticavano il libro poiché narra di un bambino che non ascolta, risponde male alla propria mamma e addirittura scappa di casa. I secondi apprezzavano invece la capacità di raccontare la forza di un bambino che riesce a trasformare la sua rabbia, diventare autorevole con i mostri, sfogare la frustrazione attraverso un viaggio introspettivo. Alla fine Max fa intendere che non vuole più lasciare chi lo ama in modo incondizionato come i suoi genitori e fa capire che non lascerà più che la rabbia lo separi dalle persone che ama. Le spiritose e spaventose illustrazioni di Sendak descrivono perfettamente lo stato d’animo del bambino, soprattutto la sua rabbia e la sua rassicurazione finale. In conclusione Max è un personaggio in cui i bambini si possono realmente

identificare perché con lui si possono vivere fino in fondo esperienze, aspettative e sogni. I bambini, già dai tre anni, cercano di produrre racconti personali che collegano avvenimenti e persone della loro esperienza concreta; si tratta delle prime narrazioni autobiografiche. Quando lo scrittore per l’infanzia cerca di riprodurre il vissuto, utilizza uno schema elementare ma al contempo ripesca nella sua memoria. Nel racconto i protagonisti seguono uno scopo e gli avvenimenti hanno luogo in contesti precisi; l’inizio, la parte centrale e la conclusione seguono una trama e uno sviluppo che dovrebbero essere guidati da una tensione ricercata nella propria memoria emotiva. A casa come a scuola è importante permettere e stimolare le narrazioni dei bambini. Già dai quattro anni i bambini sono capaci di dare un senso unitario a certi episodi che li riguardano. Prendono il materiale per le loro narrazioni sia cercando nella memoria sia utilizzando la propria immaginazione e, come detto in precedenza, fanno proprio come gli scrittori di libri per l’infanzia: viene scelta una emozione principale che guida tutto lo

svolgimento della storia da narrare; viene ricordato, raccolto e organizzato tutto il materiale scelto per poi togliere ed eliminare quello che si ritiene superfluo o accessorio. Infine la storia viene adattata in maniera che gli altri possano recepirla: il bambino trasforma la propria esperienza soggettiva da esclusiva a partecipativa. A volte c’è la necessità di utilizzare delle figure diverse da sé per non sentirsi costretti a mettersi subito a nudo in prima persona. In Piccolo giallo e piccolo blu e in Pezzettino, Leo Lionni racconta in maniera essenziale ma poetica, delicata ma intensa la vicenda di due bambini che cercano dentro se stessi e nel rapporto con gli altri gli elementi per costruire la propria identità e i concetti di diversità, condivisione, libertà. Lo scrittore sceglie una coppia di protagonisti inusuali ma perfettamente espressivi che riescono a raccontarsi nella loro più profonda intimità: piccolo blu e piccolo giallo sono macchie di colore, senza occhi né bocca. Piccolo blu è un bambino che ama stare con i suoi coetanei e il suo amico preferito è Piccolo giallo. Insieme si divertono molto giocando a correre, a salta-



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re e a nascondersi. Mamma blu, un giorno che deve uscire, lascia da solo Piccolo blu e gli raccomanda di aspettarla a casa fino al suo ritorno. Però Piccolo blu si annoia e decide di uscire per incontrare il suo amico Piccolo giallo. Lo cerca dappertutto; all’inizio non lo trova ma poi lo vede e con entusiasmo lo abbraccia. La gioia incontenibile fa fondere tra di loro i due amici che si uniscono fino a diventare verdi. Dopo aver giocato al parco, nel tunnel e in montagna, Piccolo blu ritorna a casa ma trova ad aspettarlo mamma blu e papà blu che non lo riconoscono: Tu non sei il nostro Piccolo blu, tu sei verde! e lo stesso succede a Piccolo giallo. I due bambini piangono grandi lacrime blu e gialle fino a ricomporsi e ritrovare se stessi. Alla fine genitori e figli si abbracciano tutti insieme diventando anche loro un po’ verdi e capendo finalmente cosa era successo. A differenza di molti adulti i bambini vivono certe esperienze facendosi travolgere e perdendo in parte la loro identità. Molte volte ho sentito dire dai genitori ai figli Non ti riconosco più; magari in quelle occasioni è proprio successo che gli adulti abbiano visto un modo di parlare o una posizione insolita che il figlio

ha ricalcato da un amico. Nel raccontarsi Piccolo blu riesce quindi a esprimere gioie e dolori e insegna anche ai genitori qualcosa in più di sé. Anche Pezzettino si racconta in cerca della propria identità. Si sente talmente piccolo che si convince di essere un pezzetto di qualcun’altro. Attraverso le caratteristiche illustrazioni di Lionni il lettore entra nell’animo del piccolo quadratino rosso. Pezzettino inizia una lunga ricerca anche in relazione ai suoi amici che sono tutti grandi e grossi, capaci di volare, nuotare, arrampicarsi. Alla fine del suo percorso potrà esclamare con gioia e stupore Io sono me stesso!. In entrambi i libri viene raccontato un vero dramma: non si può vivere senza essere riconosciuti nella propria identità, come se si fosse invisibili; è tragico sentire la disperazione di non essere riconosciuti per quello che si è soprattutto se si diventa estranei agli occhi di chi ci ama. Altrettanto tragico è però quando ci succede di non riuscire a raccontare agli altri chi siamo e come ci sentiamo. Anche i bambini, nel gioco del raccontarsi, possono spiegare pensieri ed emozioni utilizzando figure

simboliche che all’inizio li salvaguardano del mettersi totalmente allo scoperto. La capacità e la disponibilità a raccontarsi fino in fondo è un processo lento e graduale fatto anche di incontri di persone che hanno iniziato il percorso prima di noi. Se noi adulti comprendiamo l’importanza del raccontarsi, dobbiamo noi per primi iniziare a dire qualcosa di noi. Gli educatori e gli insegnanti, ad esempio, possono stimolare i loro piccoli allievi non rimanendo estranei e pretendendo una narrazione a senso unico, ma mettendosi in gioco e raccontandosi in prima persona. Forse per questi motivi sono molto frequenti nei racconti dei e per i bambini le figure di animali. Surreale ma esemplificativo e molto immediato è il dolce racconto Giotto il leprotto. Giotto ha il coraggio di raccontarsi con umiltà e sincerità: Son Giotto il leprotto, e vivo contento. C’è solo una cosa di cui mi lamento: son troppo piccino, e questo, si sa può mettere a rischio la mia dignità. Il protagonista è deriso per la sua bassa statura e lui


ne soffre; nessuno vuole giocare con lui anche se si stiracchia per diventare più alto; di notte sogna di raggiungere le cime degli alberi. Poi trova una scatola abbandonata e con il cuore in subbuglio scopre all’interno pennelli e colori. La ricerca della sua identità e del senso della sua vita è arrivata a un punto fondamentale. Dopo aver dipinto tanti leprotti su alberi e sassi, inganna i cacciatori e diventa l’eroe degli altri animali del bosco. E tutti gli uccelli dicevano in coro che io avevo fatto un gran bel lavoro, che ero un eroe, che li avevo salvati, che della mia astuzia mi erano grati. E mentre cantavano, fra me e me dicevo che, pur piccoletto, qualcosa valevo, che essere alti può essere bello, ma quello che conta davvero è il cervello! Molti bambini si immedesimano in Giotto e, leggendo la sua storia, cercano, spesso per la prima volta, di valorizzare ciò che sono e sanno fare, piuttosto che quello che non sono. Spesso gli animali incarnano anche quella istintività e

quella libertà che gli esseri umani non si concedono. Utilizzare le figure allegoriche che incarnano paure, insicurezze e speranze dei bambini, permette un giusto distacco e nello stesso tempo un giusto coinvolgimento, ottimale per la rielaborazione personale e per lo sviluppo dell’attitudine al racconto autobiografico. Anche nell’incantevole libro Lupo sabbioso ritorna la figura dell’ animale lupo, reinterpretato totalmente: lupo sabbioso è saggio e ironico e attraverso esso la bambina riesce a vincere incertezze e paure. Lupo sabbioso è un lupo di sabbia dorata creato da Zackarina, bambina curiosa che fa mille domande. Non si tratta di un lupo qualsiasi, di un lupo cattivo, ma di un lupo giallo-dorato che si nutre di luce di sole e di luna, sapiente viaggiatore che per mille anni ha viaggiato nella terra e nelle stelle. Nella casetta in riva al mare Zackarina vive con i genitori ma si annoia specialmente perché il papà è troppo impegnato per giocare con lei. I sogni e i giochi, le aspettative e le domande accompagnano la protagonista nell’affrontare le difficoltà del crescere. La leggerezza, l’immediatezza dei sentimenti della

bambina sulla spiaggia ci portano direttamente dentro il suo animo. Il lupo sabbioso, allegro e misterioso, si materializza dalle dune sabbiose, quasi per dare l’opportunità a Zackarina di trovare qualcuno dentro o fuori di sé che risponda alle proprie domande. Nel libro l’io narrante, anche se viene usata la terza persona, ha l’animo di un bambino che deve affrontare i piccoli-grandi fatti della vita quotidiana. Nel racconto autobiografico il bambino inizia a percepirsi in un cammino di costruzione della propria personalità. Per recuperare materiale utile per il racconto, è necessario attingere al passato tramite il ricordo e selezionare gli avvenimenti e poi confrontarli con il presente e con le aspirazioni del futuro. Nell’eliminazione dei fatti e delle sensazioni non indispensabili al racconto, ha un ruolo fondamentale ciò che si vorrebbe essere e non si riesce a essere. Zackarina usa la narrazione proprio come prezioso strumento per la costruzione e la scoperta del sé, per rafforzare la propria autostima e sostenere il difficile processo di crescita.

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Alla scuola dell’infanzia in forma orale e poi alla scuola primaria anche come produzione scritta, l’intento dovrebbe essere quello di sollecitare i bambini a raccontarsi agli altri e a se stessi. Riuscire a esplicitare un

racconto chiaro ed esaustivo procede di pari passo con il miglioramento della capacità di ascolto reciproco. In classe è importante destinare uno spazio e un luogo costante per il racconto autobiografico inteso come momento di cura di

Bibliografia M. Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi, Babalibri, 1999 L. Lionni, Piccolo blu e piccolo giallo, Babalibri, 1999 L. Lionni, Pezzettino, Babalibri, 2006 P. Coran, Giotto il leprotto, Emme Edizioni, 2001 A. Lind, Lupo sabbioso. L’incontro, Bohem Press Italia, 2009 A. Cousseau, Io, Manola e l’iguana, Il Castoro, 2009 R. Dahl, Boy, Salani, 2008 A. Chambers, Ladre di regali, Giunti Junior, 2004

sé e momento di autoriflessione, per quello che i bambini e i ragazzi sono in grado di fare. Sollecitare la cultura della memoria, della propria storia e dell’introspezione è anche un modo di sviluppare una positiva relazione con gli altri. In questo senso sono ancora i racconti dei libri che ci aiutano a migliorare la capacità di raccontare in modo semplice ma profondo qualcosa di noi stessi, di ascoltare i bisogni degli altri dando voce alle loro esigenze, spesso difficili da esprimere. Ed è proprio dai bambini che gli adulti possono imparare a pensarsi e a narrarsi in modo più autentico.


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