Adozioni e dintorni - GSD Informa novembre 2012

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - novembre 2012 - n. 9

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novembre 2012 | 009

GSD informa

di Anna Guerrieri

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editoriale

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psicologia e adozione

La rabbia. Prime riflessioni di Franco Carola

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scuola e adozione

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giorno dopo giorno

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Voglio fare il pasticciere di Marta e Alberto

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leggendo

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sociale e legale

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trentagiorni

Il percorso scolastico dei bambini stranieri adottati di Adriana Molin e Silvia Andrich Lettera a un bambino già nato di Antonella Avanzini

Le cronache della barchetta di Marina Zulian Storia dell’Istituto dell’adozione di Angelamaria Serpico

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progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma, Diana Giallonardo, L’Aquila, Raffaella Ceci, Monza.

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di Anna Guerrieri

Le famiglie al centro dell’attenzione. Davvero o per finta?

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Da mesi, da anni, si sente di proposte tese a rivedere le leggi che regolano l’adozione nazionale e internazionale. Le proposte accendono dibattiti, talvolta passioni, impongono scelte di campo e discese in campo. Quello che però resta immutato nel tempo è il bisogno, la necessità, delle famiglie adottive di trovare una rete sociale che sappia accogliere le specificità di cui sono portatrici. Una rete sociale che non ne disconosca la realtà ma che le riconosca e ne riconosca il valore fondamentale: quella di essere risorsa preziosa per i bambini e le bambine. Nonostante i tanti passi in avanti, tutt’oggi l’informazione e la sensibilizzazione, la cultura sull’adozione appaiono poco incisive o efficaci. Le reti di sostegno per chi adotta sono distribuite in modo irregolare e disomogeneo. Ci sono zone di Italia ricche di risorse, sovente non in sinergia e collaborazione tra loro, e zone d’Italia dove le risorse sono semplicemente sparute. Nel campo della scuola esistono prassi difformi, pochi sono i protocolli in atto, vari quelli in divenire, manca certamente ancora una linea nazionale chiara e definita (nonostante l’intenso lavoro di tanti e l’impegno in tal senso del MIUR). Nel campo della sanità, tutt’ora non esiste una diffusa cultura di base sulle specificità fondamentali riguardanti i bambini adottati. Siamo ancora in cammino quindi, un cammino che appare lungo. Un viaggio, il cui fine è quello di vedere riconosciuto il valore della famiglia adottiva. In una recente audizione presso la Bicamerale Infanzia del Coordinamento CARE è stato detto: “Il rischio maggiore delle famiglie adottive è quello della solitudine dopo l’adozione, solitudine dovuta alla mancanza


di una riflessione forte e continuativa sul significato post adozione a fronte di un’adozione che diventa anno dopo anno sempre più complessa. Più della metà degli italiani adotta bambini di almeno 6 anni. Molti bambini adottati hanno bisogni speciali in termini di salute. Si adotta anche in paesi dove l’assenza di anagrafe e di uno stato sociale forte fa si che i bambini arrivino con età presunte, con dati anagrafici talvolta contraffatti, lasciandosi alle spalle storie incerte. Tanti bambini hanno fratelli adottati altrove e affetti frammentati. Tanti bambini hanno subito maltrattamenti pesanti e/o violenze. A fronte di realtà così complesse il post adozione vive spesso dell’eccezionale buona volontà e intuizione di molteplici operatori del sociale. Il tutto può venire ancora semplicemente relegato a pochi incontri con i servizi territoriali nel primo anno di adozione, o ai rapporti con l’ente autorizzato per la stesura delle relazioni da mandare nei paesi di origine.” Lo Stato ha uno strumento eccellente per intervenire a favore dei bambini e delle bambine, ed è costituito dalla carne e dal sangue di chi si offre di diventare genitore per adozione. Si tratta di una risorsa eccezionale perché la famiglia è la protezione più grande, l’unica e vera protezione dei piccoli. In famiglia si è nutriti e accuditi nel corpo, nel cuore e nella mente e si cresce, si diventa adulti. E’ la famiglia lo strumento fondamentale, e la scommessa dell’adozione è proprio questa: creare una famiglia per chi non la ha. Per i bambini e le bambine che non la hanno. Donandogli dei genitori. Come associazione famigliare riceviamo spesso, sempre più spesso, vere e proprie richieste di aiuto. Richieste dolenti e urgenti

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quando vengono da chi si confronta con le fasi dell’adolescenza dei figli e in qualche modo ne resta travolto. I motivi sono tanti, tutti specifici ed ogni storia è a sé e come associazione più volte ci siamo confrontati con l’impossibilità a offrire l’aiuto che si sarebbe voluto. Resta l’amarezza di non potere dare una “soluzione” ai tanti e importanti problemi, quell’accoglienza efficace che si desidererebbe, per quelle famiglie e per quei figli e quelle figlie che stanno attraversando momenti di grande rischio. Resta la percezione che ci si trovi davanti ad una situazione complessa e problematica di cui si parla troppo poco ed in assenza di dati certi e delimitati che


dicano con chiarezza quale sia l’entità del disagio. Dati che permettano di avviare un’analisi onesta sul “cosa fare” e sul “come farlo”. A noi che siamo genitori resta la sensazione che si dovrebbe fare più e meglio prima dell’adozione per accompagnare le coppie, magari già giudicate idonee, a comprendere cosa significhi l’impegno che si è preso, ad arrivare a toccare con la mente e con l’emozione anche solo per un attimo il mondo dei figli che arriveranno. Che si possa fare di meglio e di più nell’attuazione delle adozioni, nel momento dell’abbinamento e dell’incontro, investendo affinché forte sia il senso dell’etica, che grande sia l’attenzione per far si che nessun adulto (nemmeno le coppie adottanti) arrivino a prevaricare i bambini e le bambine che vengono loro affidati. Che mai un adulto arrivi a calpestare la vita di un bambino. Che si possa fare tanto ancora nella fase del post-adozione e nel testo dell’audizione in Bicamerale del CARE si legge ancora: “Serve una ridefinizione delle complessità del post adozione che sia centrato sui cambiamenti che l’adozione ha subito in questi anni. E’ esperienza di molti operatori (privati e dei servizi) e di molte associazioni famigliari che mettono in pratica interventi a sostegno delle famiglie adottive, che il post adozione passi soprattutto attraverso la creazione di gruppi di mutuo aiuto che si incontrano in modo regolare per un arco di tempo congruo, gruppi che non mescolino chi ha già adottato con chi deve ancora adottare. Questo agevola la condivisione di esperienze differenti e complesse, la restituzione di significati, il poter leggere per tempo le situazioni critiche e la creazione di una rete di sostegno per combattere l’isolamento del nucleo famigliare, il rischio del fallimento adottivo o dell’instaurarsi di relazioni non funzionali al benessere dei membri della famiglia. I servizi territoriali che si occupano di famiglie adottive vanno sostenuti e rafforzati e vanno messi in grado (grazie alla formazione e alla riorganizzazione delle risorse) di dare alle famiglie che si formano contesti di questo genere.” Come associazione famigliare queste sono le parole che vogliamo ascoltare, questi gli impegni che vogliamo veder prendere dalla società e dallo Stato, parole e impegni veri per le famiglie. Sono impegni fondamentali se non vogliamo fare “per finta” e svilire il significato dell’adozione come strumento al servizio dei bambini e delle bambine. Il resto è rumore.

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di Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process), è vicepresidente dell’ A.P.R.E. e vicedirettore dell’I.J.P.E.

La rabbia: prime riflessioni

La rabbia è un’emozione tipica, considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche; è possibile identificarne una specifica origine funzionale, degli antecedenti caratteristici, delle manifestazioni espressive e delle modificazioni fisiologiche costan-

ti così come delle prevedibili tendenze all’azione. Può essere osservata sia in bambini molto piccoli che in specie animali diverse dell’uomo. Deduzione logica è quindi che, insieme alla gioia e al dolore, la rabbia sia una tra le emozioni più precoci osservabi-

li nell’essere umano. L’accezione negativa che è andata assumendo, ne nega l’intrinseca natura vitale: la rabbia è un’emozione fortemente legata allo spirito di sopravvivenza, all’istinto di autoconservazione e alla capacità degli esseri viventi di riaffermarsi alla vita nei momenti in cui si sentono particolarmente minacciati dall’ambiente che li circonda. Moltissimi risultano essere i termini linguistici che si riferiscono a questa reazione emotiva: “collera, esasperazione, furore ed ira” rappresentano lo stato emotivo intenso della rabbia; altri invece esprimono lo stesso sentimento ma di intensità minore, come “irritazione, fastidio, impazienza”. Molti concordano nel vedere la rabbia nascere come reazione a sensazioni altamente frustranti o costrittive, di origine fi-


AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a: rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione.

sica o psicologica; ma tali sensazioni, di per sé, non paiono risultare esaurienti nel giustificare l’emergere di un’emozione tanto intensa e potenzialmente dannosa. La relazione causale che lega la frustrazione alla rabbia va implementata con la conoscenza approfondita dell’origine dell’ostacolo frustrante, soprattutto laddove esso sia una persona fisica che, con l’arrabbiato, ha una relazione connotabile affettivamente. Insomma, a seconda di chi ci dice o ci fa ciò che non vogliamo sentirci dire o fare, la nostra reazione rabbiosa sarà più o meno intensa. Se poi completiamo il quadro originario della rabbia con il grado di volontà che attribuiamo a chi ce la fa scaturire, avremo un ulteriore misuratore dell’ampiezza e portata dell’onda emotiva alla quale saremo

esposti. Una visione come quella descritta potrebbe risultare semplicistica, ma per chi si muove in un regno relazionale come quello dell’adozione, i ruoli sociali che sottendono alle relazioni inter ed intrafamigliari, diventano essi stessi parte non trascurabile di quelle reazioni fortemente rabbiose, spesso poco decifrabili. L’emozione della rabbia può essere quindi definita come la reazione che consegue ad una precisa sequenza di eventi: io sento un bisogno, qualcuno o qualcosa si oppone al suo appagamento, io attribuisco una responsabilità a quel “qualcuno o qualcosa”, che non mi incutono timore, e sento di poter attaccare. In altre occasioni, l’attacco si trasforma in fuga, mutismo, spostamento e altri meccanismi di sublimazione della rab-

bia, che da etero diretta, spesso, si trasforma in auto-direzionata, in azioni auto lesive. Il figlio adottivo che esprime la propria rabbia spaventa. Tale paura spesso nasce da un’idea, da parte del genitore, di non riuscire a controllare o contenere una reazione emotiva legata, presumibilmente, a vicende non strettamente correlabili agli “attori” famigliari presenti sul momento. Troppo spesso, infatti, si cede alla tentazione di connotare dello “stigma abbandonico” ogni esplosione aggressiva dei propri figli: “Una rabbia così feroce non può che essere causa del trauma che ha subito”, piuttosto che “Non ce l’ha davvero con me; si sta arrabbiando con i suoi genitori biologici o per probabili abusi in istituto”. Qualcuno potrebbe non

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riconoscersi in tali considerazioni, che invece sembrano essere però più usuali di quanto si possa credere. La rabbia di un figlio, al di là del fattore scatenante, è una dura messa alla prova delle capacità contenitive dei genitori, siano essi adottivi o biologici. Tale emozione porta a feroci situazioni di attacco, durante le quali ogni arma pare essere lecita, soprattutto quella verbale. I figli arrabbiati provocano, indeboli-

scono le difese e usurano il raziocinio del genitore, che spesso si vive “snaturato”, preda di improvvisi eccessi di rabbia egli stesso, colpevole di contravvenire al silenzioso giuramento per il quale non avrebbe mai urlato o avuto reazioni violente davanti alla propria prole. La rabbia di un figlio genera una paura molto specifica: mina alla radice la convinzione del genitore di poter efficacemente aiutare il proprio piccolo. La collera produce uno scenario nuovo, destabilizza, disarma, disorienta e rischia di mettere il genitore in una posizione totalmente inaspettata: da educatore a gendarme, da dispensatore di affetto e conoscenza, a rigido orco sbraitante. La favola dell’amore famigliare, per il tempo dell’esplosione rabbiosa, e suoi strascichi fisici ed emozionali, lascia il posto a una drammatica realtà, una sorta di campo minato contenuto da due differenti trincee. Il clima di amore è divenuto guerra, gli amici, nemici, i famigliari, persone ignote le une alle altre. Se torniamo indietro di qualche riga di questo stesso scritto, potremmo però provare a ragionare su un aspetto importante della questione. Abbiamo descritto la


rabbia che viene espressa, come un meccanismo esplicito di attacco verso qualcosa o qualcuno di frustrante che non incutono timore e, di conseguenza, si sente di poter attaccare. Un figlio che non sente più paura e si legittima l’espressione di questa emozione fondamentale, forse sta implicitamente dichiarando che ha trovato il luogo dove lasciare scorrere in maniera naturale, e consono alla propria evoluzione psicosociale, il fiume emotivo che altrove non ha avuto modo di essere lasciato libero. La rabbia è un’emozione molto fisica. Quando siamo arrabbiati, i muscoli si tendono, il sangue scorre più rapidamente, i sensi si affinano, il calore corporeo aumenta. Un bambino, piccolo o grande che sia, che viva tutto questo senza potergli dare voce, è un bambino che teme che la propria reazione emotiva possa danneggiarlo, più che proteggerlo. Egli conserverà in sé questa idea a un livello più o meno consapevole, più o meno corporeo. Quando i timori del livello della propria potenzialità distruttiva lasciano il campo libero a un’esondazione di quanto si sente, qualsiasi sia lo stimolo scatenante, e il bambino si permette una piena libera-

zione da tutti questi segnali endogeni e psichici, egli si concede l’opportunità di non fuggire dalla rabbia, di utilizzarla per attaccare, consapevole degli eventuali danni provocabili, ma al contempo fiducioso in un ambiente sicuro che lo possa sostenere. Tutto questo preambolo per poter affermare che, sebbene esperienza dolorosa e difficile e articolata, l’espressione rabbiosa di un figlio è segnale di un processo in atto per il quale, forse, il giovine sente il luogo famigliare in cui è immerso sufficientemente pronto ad accogliere le sue problematicità, a non perire di fronte a quella rabbia che il suo corpo conserva in sé e che spesso viene sollecitata inconsapevolmente da chi gli sta intorno. Una giusta risposta contenitiva dei genitori, attraverso un irrigidimento delle regole e una legittimazione SOLO parziale dell’espressione aggressiva, consentono al figlio di prendere dimestichezza con l’articolata emozione che vive, e di cogliere le giuste dimensioni entro cui relegare l’espressione di tale costrutto emotivo. È vero: alle volte il figlio adottivo utilizza situazioni apparentemente sganciate dal contesto per riempirle di una rabbia che non

appartiene direttamente a chi presenzia alla situazione. È pur vero che, una volta poste le basi e le regole famigliari circa la tolleranza o meno di talune emozioni, gli episodi rabbiosi vanno letti e re inscritti nella cornice delle contingenze, senza cioè cedere alla tentazione di sovrastimarli o significarli per ciò che non sono. Tutti ci arrabbiamo e tutti abbiamo bisogno di farlo per istinto, necessità ambientali ed emozionali. La rabbia inespressa è una mina inesplosa, quella deflagrata alle volte può devastare, ma nella maggior parte dei casi è il segnale che è iniziato un lungo e giusto viaggio verso una più ampia maturazione emotiva e sociale. Un’evoluzione nei figli, e una nuova e più matura coscienza di sé e della propria forza d’animo nei genitori che li assistono.

BIBLIOGRAFIA • Ferro A., “Evitare le emozioni, vivere le emozioni”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007 • Winnicott D.W., “Bambini”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997 SITOGRAFIA • http://www.benessere.com/ psicologia/emozioni/la_rabbia.htm

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di Adriana Molin e Silvia Andrich

Il percorso scolastico dei bambini stranieri adottati “Non è una novità che i bambini stranieri adottati presentano in misura maggiore degli altri difficoltà di apprendimento, talvolta così marcate e severe da rientrare nel Disturbo Specifico di Apprendimento.” La storia personale dei bambini adottati, le loro caratteristiche e l’appartenenza a culture diverse, spesso lontane da quella di accoglienza, contribuiscono a generare una condizione di vulnerabilità di cui tenere conto nel percorso scolastico, condizione di vulnerabilità che si complica quando l’adozione è tardiva. Mentre è intuitivo comprendere quanto può incidere nello sviluppo del bambino la sua storia personale di sofferenza, più sfuggente è la comprensione che l’appartenenza contemporanea a due culture

richiede una rielaborazione profonda della propria identità: italiana per cognome e talvolta nome, straniera per lingua nativa, tratti somatici. E’ già stato ricordato in altri lavori che Cecilia Edelstein (2010) parla di “migrazione invisibile” per i bambini adottati-stranieri che, di fatto, hanno un’identità mista in quanto non sono italiani, ma neppure stranieri. I bambini adottatistranieri, infatti, portano nella nuova famiglia un mondo culturale destinato a celarsi per aprirsi su quello della famiglia adottante, che diventa così una famiglia multiculturale, nella quale a volte prevale una gerarchia etnica senza averne però piena consapevolezza. Ciò accade soprattutto nelle adozioni tardive, mentre in quelle precoci spesso sono gli


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stessi bambini che sentono il bisogno di dimenticare il passato e la lingua nativa per meglio assimilarsi alla nuova famiglia e al contesto scolastico, nonostante lineamenti e tratti somatici differenti rammentino la lontana provenienza. Senza dubbio oggi ci sono maggiore sensibilità e rispetto per le culture di cui sono portatori i bambini adottati. Stanno comparendo pratiche sociali nelle famiglie adottive che dimostrano questa dimensione e che introducono nella vita quotidiana aspetti della cultura di ori-

gine dei figli adottati (es. frequenza di corsi della lingua nativa del bambino, cucina, arte, ecc.). Questa tendenza rappresenta, secondo Jacobson (2008) che l’ha studiata negli USA, il nuovo standard delle adozioni internazionali che si fondano, appunto, sul principio della continuità tra il pre e post adozione, recuperando quindi passato e cultura di provenienza per riallacciarli al presente e al futuro. Per intuire il peso che il parlare una lingua diversa e l’appartenere a culture con visioni del mondo di-

verse possono avere sulla scolarizzazione, ricordiamo brevemente che anche il solo fatto di essere bambini stranieri aumenta le probabilità di incontrare difficoltà di apprendimento a scuola. Molti sono gli studi che esaminando il rendimento scolastico dei bambini figli di immigrati (anche di seconda generazione) rilevano nello svantaggio linguistico la causa principale delle loro difficoltà. Tali difficoltà solitamente non si manifestano a livello di lettura strumentale o matematica, ma prevalentemente a livello


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di comprensione del testo scritto, quando i bambini devono confrontarsi con testi di tipo informativodisciplinare complessi a tutti i livelli, da quello lessicale a quello sintattico e argomentativo. Il quadro è complesso e non omogeneo, naturalmente, ma evidenzia ancora una volta la situazione di particolare vulnerabilità dei bambini stranieri adottati, fragilità riscontrata in molti studi anche a livello internazionale. Da una ricerca italiana, condotta dall’Università di Padova (2009), è emerso che i bambini adottati stranieri mostravano in misura maggiore di altri gruppi fin dalla classe prima primaria difficoltà nell’apprendimento e problemi di autoregolazione, difficoltà diffuse che si mantenevano anche a livello di scuola secondaria di primo grado. In generale molta letteratura, sia nazionale che internazionale, conferma che sono più probabili le difficoltà scolastiche, a volte diffuse a più aree di apprendimento, i problemi di motivazione allo studio e di comportamento a fronte di uno sviluppo cognitivo nella norma. E’ come se, nonostante gli sforzi profusi, fosse faticoso cogliere in questi bambini/ragazzi le loro potenzialità, la

creatività che si esplica talvolta al di fuori dalla scuola. E’ una costante questa discrepanza tra potenzialità cognitive e risultati scolastici nei bambini stranieri adottati, come è una costante la rilevazione che, nonostante le difficoltà, l’adattamento sociale è soddisfacente. Il percorso scolastico del bambino adottato straniero La ricerca sulle adozioni ha evidenziato i punti di criticità della scolarizzazione. In particolare, alcuni momenti richiedono particolari attenzioni e cure sia da parte della scuola, sia della famiglia, sia del contesto educativo allargato. In sintesi le criticità riguardano: • L’inserimento scolastico, più difficoltoso nelle adozioni di bambini già scolarizzati; • Gli anni di passaggio tra un ciclo d’istruzione e quello successivo; • La scelta della scuola media superiore di 2° grado e la sua frequenza. Parlando di inserimento scolastico è necessario tenere presente l’età di

adozione del bambino, la cultura di appartenenza, la conoscenza della lingua italiana e, nel caso di adozioni tardive, la precedente scolarizzazione. Naturalmente più i bambini sono adottati in tenera età, meno numerosi possono essere i problemi che si incontrano. In ogni caso, poiché l’inserimento scolastico comporta un cambiamento importante nella vita del bambino, deve essere adeguatamente preparato. Ricordiamo che il bambino che inizia a frequentare la scuola primaria da “figlio” passa al ruolo di “scolaro/ studente” appartenente ad una comunità - la classe, la scuola - che ha regole proprie, nella quale ci si confronta con un’autorità esterna alla famiglia, l’insegnante, che ha il compito di guidare nell’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze. L’inserimento nella nuova realtà scolastica, specialmente se gestito in modo frettoloso e troppo velocemente, spesso fa riaffiorare esperienze di dejà vu, emozioni e dolori mai dimenticati legati all’istituzionalizzazione precedente, entrata nella nuova famiglia e innescare paure di un nuovo abbandono. Possono essere individuate le fasi di: • Accoglienza, relativa


alla conoscenza del bambino/ragazzo nella sua storia pre e post adozione da parte della scuola. L’insegnante che lo avrà in carico potrà conoscere il bambino/ragazzo nelle sue caratteristiche psicologiche, linguistiche e nel livello di sviluppo delle abilità scolastiche, potrà altresì preparare la classe all’inserimento del bambino nella classe in accordo con la famiglia, anche con il supporto dell’ente che ha seguito l’adozione. Saranno, quindi, prese delle decisioni condivise tra scuola e famiglia rispetto alle modalità di sviluppo dei requisiti utili ad una frequenza scolastica frut-

tuosa nella classe di iscrizione; • Accesso nella classe più adatta a quel particolare bambino/ragazzo. La scelta della classe e i tempi di accesso vanno effettuati mediando tra esigenze del processo adottivo, abilità scolastiche possedute dal bambino e richieste apprenditive della classe di inserimento. In sintesi, nella scuola dell’infanzia saranno necessarie alcune precauzioni per offrire al bambino tempi scolastici rilassati e una particolare attenzione all’apprendimento della lingua italiana e allo sviluppo dei prerequisiti

specifici di apprendimento che necessitano di un potenziamento. Nella scuola primaria, l’analisi della situazione di partenza del bambino – esaminata nei diversi aspetti e nel suo insieme - potrà suggerire il percorso più opportuno a partire dall’apprendimento di lingua italiana e avviando strategie di accompagnamento e di supporto anche extrascolastico, se necessario. Una cosa è certa, che in queste prime fasi sarebbe quanto mai opportuna una collaborazione tra famiglia, scuola, servizi territoriali ed ente che cura l’adozione, nell’idea che la sinergia tra chi si occupa del bambino possa

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rendere il contesto educativo sensibile alla problematiche adottive. Dalle ricerche da noi effettuate, abbiamo rilevato che nella scuola primaria i momenti di maggiore criticità sono individuabili negli anni di passaggio da un ciclo all’altro. Con l’inizio della classe prima iniziano le prime difficoltà (vedi fig. 1) che riguardano sia l’apprendimento della lettura, sia quello del calcolo, si rilevano inoltre problematiche autoregolative, nel senso che appaiono meno sviluppate le componenti attentive e metacognitive, mentre si evidenziano buone abilità sociali e buone capacità espressive. La storia di C. e dell’inizio della sua scolarizzazione C. proviene dall’India ed è stata adottata all’età di 3 anni e mezzo. I primi tre anni di vita li ha passati in istituto. I suoi genitori sono entrambi laureati e professionisti e, precedentemente, hanno adottato un bambino, anch’esso indiano, che attualmente frequenta la seconda media. C. da subito si presenta come una bambina molto vivace, intelligente e affettuosissima. Parlava la sua lingua originale,

il “marathi”, ma in modo impreciso e commettendo alcuni errori articolatori. L’inserimento in famiglia procede molto bene, a parte alcune problematiche legate al momento dell’addormentamento e al controllo sfinterico. Dai 3 anni e mezzo fino circa ai sei C. bagnerà il letto di notte. Come tutti i bambini adottati, C. dimentica presto la sua lingua madre per concentrarsi e dedicarsi all’apprendimento della lingua dei suoi genitori e del fratello. Quando un bambino straniero adottato si sforza di imparare una lingua che non è la sua, lo sforzo e l’impegno non sono unicamente a livello linguistico e cognitivo, poiché l’investimento affettivo ed emotivo dei nuovi suoni può anche essere inizialmente sconvolgente. L’italiano diventerà la lingua in cui dovrà imparare a comunicare i propri sentimenti e le proprie emozioni, che un bambino precocemente e a lungo istituzionalizzato non ha avuto la possibilità di fare. Dopo due - tre mesi dall’arrivo in Italia, C. impara a comunicare in italiano, anche se con qualche difficoltà quando si trova ad interagire con i pari, che spesso la capiscono poco e talvolta la deridono. La sua grande capacità

comunicativa, la consapevolezza da parte dei genitori che ognuno ha i propri tempi (il confronto con il figlio maggiore a volte è inevitabile) ed il desiderio di diventare presto “brava” come il fratello mascherano le difficoltà a livello fonologico e di costruzione frasale. Dopo nove mesi dall’arrivo in famiglia, C. viene inserita nella scuola dell’infanzia nel gruppo dei medi. I due anni di frequenza alla scuola dell’infanzia sono molto positivi e i miglioramenti linguistici sono costanti e notevoli, anche se le maestre evidenziano una certa iperattività nella bambina, la tendenza a dover avere tutto sotto controllo e ad essere sempre al centro dell’attenzione. Nel caso di un bambino precocemente istituzionalizzato la difficoltà di attenzione selettiva si può tradurre nell’invece ottima capacità di prestare attenzione a tutto ciò che gli succede intorno e ad avere la situazione sotto controllo. C. è descritta dalle maestre come una bambina “vulcanica” ma interessata, curiosa ed entusiasta, con delle buone capacità cognitive, relazionali e sociali. L’inserimento alla scuola primaria avviene in modo sereno e positivo. Le maestre apprezzano le quali-


tà sociali e affettive della bambina, la sua simpatia e spontaneità. Riferiscono che la sua presenza in classe è una ricchezza per tutti. Il clima è ottimo e molti bambini provengono da culture e Paesi diversi. C. è molto apprezzata e amata sia dai compagni maschi che dalle compagne femmine (ha un rapporto di odio e amore con una bambina proveniente dalla Nigeria). L’apprendimento della letto-scrittura è molto difficoltoso e sofferto. Vengono presentati contemporaneamente tutti e quattro i caratteri di scrittura e ciò crea comprensibile disorientamento. I ritmi di ap-

prendimento proposti alla classe sono abbastanza sostenuti. Fortunatamente i compiti a casa sono limitati e ciò permette alla famiglia di poter seguire in modo più specifico la bambina. Alla fine della prima elementare, attraverso lo screening effettuato a scuola, la bambina viene segnalata insieme ad un altro compagno per difficoltà in letto-scrittura. Durante le vacanze estive i genitori lavorano con la bimba su schede ortografiche specifiche fornite dalla maestre, con CD-Rom didattici sulla letto-scrittura e la bambina arriva ben preparata all’inizio della seconda riuscendo a legge-

re in modo sillabico e più spedito. La sua collaborazione e l’atteggiamento positivo sono di grande aiuto. C. inizia molto bene la classe seconda. Ha dei buoni risultati in italiano, ha imparato correttamente l’utilizzo del corsivo, gli errori ortografici sono sensibilmente diminuiti, riesce ad imparare bene le poesie a memoria (e le ricorda anche a lunga distanza di tempo). Anche i tempi di attenzione sono migliorati. Tuttavia, nei dettati più impegnativi e nelle schede di calcoli matematici, la prima parte dell’elaborato è pressoché perfetta, mentre gli errori si concentrano quasi sempre nella se-

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conda parte (effetto affaticamento). Le difficoltà maggiori si concentrano adesso nell’apprendimento della lingua inglese veicolare. La bambina riferisce di capire poco e di annoiarsi. Purtroppo, se deve decifrare una parola scritta che conosce a livello orale o, peggio, se deve scrivere o ricopiare termini inglesi, ha molte difficoltà. Se un bambino non ha una buona padronanza della struttura linguistica della lingua di appartenenza sarà per lui estremamente difficoltoso impadronirsi della scrittura di una lingua poco trasparente come l’inglese. E la pratica clinica quotidiana insegna come ciò possa ostacolare e peggiorare ulteriormente gli eventuali problemi di disortografia e dislessia. Pur avendo un bellissimo temperamento e avendo dei successi a livello scolastico, la bambina qualche volta comunica ai genitori la sua frustrazione e la considerazione che i compagni leggono tutti molto meglio e che lei non è brava. Come nel caso precedentemente descritto, le difficoltà iniziali sembrano attenuarsi nel giro degli anni, e molti bambini completano la scuola primaria con soddisfazione. Tuttavia, in

una percentuale superiore a quella normalmente attesa, in alcuni bambini iniziano a registrarsi difficoltà nella comprensione del testo, nello studio e nell’apprendimento della matematica, nelle abilità e contenuti caratterizzanti la parte finale del ciclo primario. D’altra parte, ben più complesse sono le richieste scolastiche: i bambini devono diventare lettori esperti, devono apprendere strategie di comprensione e abilità di studio sofisticate, devono imparare ad organizzarsi nelle attività pomeridiane, memorizzare termini specifici, eseguire i compiti a casa e “tenersi pronti” per il giorno dopo. Le difficoltà scolastiche spesso si accompagnano a scarsa fiducia nelle proprie capacità, demotivazione scolastica a cui i ragazzi rispondono in modo differenziato, a seconda delle proprie caratteristiche psicologiche: in forma oppositiva, provocatoria, con una propensione a rompere le regole della vita scolastica, oppure in forma passiva, poco interessata agli eventi che accadono a scuola. Accanto alla evidente “fatica scolastica”, in contemporanea, i nostri giovani studenti sviluppano abilità diverse, interessi e ca-

pacità che possono passare inosservate se non si è attenti e sensibili ai segnali che lanciano. Con la scuola secondaria di primo grado, appare più evidente nei bambini la cui storia scolastica è segnata da percorsi accidentati la “fatica di dipanare il pensiero”: le difficoltà sono diffuse nell’area linguistica e nelle aree scientifiche. Talvolta l’accompagnamento nello studio giornaliero del ragazzo a casa rende più arduo lo sviluppo di un metodo di studio personale e autonomo. Tuttavia, alle criticità frequentemente sono associate buone abilità di tipo artistico, forti e particolari interessi (disegno, musica, moda) che dovrebbero essere in qualche modo accolti e “negoziati” tra genitori e scuola, anche perché l’adolescenza è un periodo critico per tutti, ma per i bambini adottati e stranieri appare molto più complesso, travagliato per alcuni. E’ nella scuola secondaria di primo grado che dovrebbero essere poste le premesse per orientarsi alla scuola secondaria di 2° grado, che dovrebbe essere scelta più per gli interessi e potenzialità del ragazzo che per importanza o desiderio della famiglia.


La storia di V. illustra bene le problematiche da affrontarsi nelle fasi avanzate della scolarizzazione V., 20 anni, è un bel ragazzo che è stato adottato a pochi mesi di vita in Brasile. L’inserimento nella nuova realtà familiare è stato da subito gioioso e sereno. V. era un bambino facile da accudire e cresceva normalmente. Le tappe evolutive sono nella norma: V. impara presto a parlare correttamente, con un lessico appropriato e ricco. Molto vivace e socievole, sa instaurare con i pari relazioni positive e amicali. L’inserimento e la frequenza alla scuola dell’infanzia sono molto positivi e il bambino viene descritto come affettuoso, con buone capacità cognitive e linguistiche, attento e,

pur se un po’ esuberante, rispettoso delle regole ed educato. V. frequenta la scuola primaria senza particolari difficoltà. Si evidenziano già da subito le buone capacità a livello linguistico, impara senza problemi a leggere e a scrivere, mentre fatica un po’ di più nel calcolo e nella risoluzione di problemi. Affronta subito con grande interesse la lingua straniera (tedesco) e nel secondo ciclo della scuola primaria ottiene buoni risultati anche nell’inglese. Anche alla scuola secondaria di primo grado i risultati scolastici sono soddisfacenti, specialmente nelle materie umanistiche. Rafforza ulteriormente un forte legame di amicizia con due compagni delle elementari con i quali gioca a calcio nella squadra

del paese. La mamma lo aiuta nell’organizzazione e nello studio per i primi due anni. Il terzo anno V. richiede lui stesso maggiore autonomia e acquisisce un metodo di studio. Viene promosso alla fine del triennio con il giudizio finale di buono. Malgrado i non brillanti risultati in matematica (sufficiente) e in tecnologia (sufficiente), la famiglia ritiene che per V. sia preferibile, in vista di una più certa occupazione futura, l’iscrizione ad un istituto tecnico ad indirizzo informatico. V. già dal primo anno presenta difficoltà serie in matematica, fisica, informatica e soprattutto chimica. Buoni invece i risultati in italiano e nelle due lingue straniere. Ripete il primo anno e a detta degli insegnanti manca di impegno

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e motivazione. L’insegnante di tedesco loda invece la sua capacità superiore alla media della classe nella sua materia e lo iscrive ad un soggiorno studio in Germania. Arriva in terza superiore sempre con il debito in matematica e chimica (non recuperati, malgrado le lezioni private) e, profondamente deluso dai risultati scolastici e in crisi di autostima, decide di ritirarsi ad un mese e mezzo dalla fine della scuola. Su consiglio di una psicologa esperta di orientamento scolastico, in accordo con la famiglia, V. viene iscritto al terzo anno di un Istituto Tecnico Turistico. Durante l’estate V. affronta con grande impegno lo studio delle nuove materie e a settembre supera con successo l’esame di ammissione. Attualmente frequenta con successo e soddisfazione l’ultimo anno dell’istituto tecnico turistico. E’ felice ed è fidanzato. Le materie in cui va meglio sono le lingue straniere (8 in tedesco, 8 in inglese e 9 in spagnolo), italiano (7), economia (7) e diritto (8). Continua a faticare un po’ nella matematica, ma con delle lezioni private riesce ad arrivare quasi sempre alla sufficienza. Vorrebbe diventare una guida turistica e viaggiare per tutto

vita. La ricerca di Chistolini del 2006, in ogni caso, ci assicura che nonostanRari sono gli studi in Ita- te le difficoltà incontrate lia a livello di scuola se- (maggiori ripetenze) una condaria di secondo grado, buona percentuale di rasia perché solo dal 2000 gazzi adottati si diploma e c’è un monitoraggio sul- ben il 14% si laurea. Anche le adozioni internaziona- le ricerche internazionali li, sia perché le ricerche confermano il buon adattasull’apprendimento sono mento sociale. Per il futuro piuttosto rare. Uno studio quindi le prospettive sono sugli apprendimenti scola- favorevoli. stici conclusosi di recente riguarda ragazzi italiani, Conclusioni in affidamento e/o disponibili ad essere adottati, che Dagli studi, pochi, rispetto vivono in comunità, moti- alla scolarizzazione appare vo per cui non si possono una situazione eterogenea generalizzare i risultati dove si registrano casi di al gruppo di adottati che difficoltà diffuse, talvolta vivono in famiglia. E’ noto problematiche accentuate che per quanto ottimali anche da scelte di scuola siano le condizioni di vita media superiore non adatnelle case famiglia, è pur te al ragazzo. Tuttavia non sempre una istituzione che emerge una situazione scocondiziona nello svilup- lastica drammatica come po sociale e nelle scelte di invece talvolta accade dai il mondo, magari tornare anche in Brasile…

Fig. 1 Difficoltà scolastiche percepite da genitori adottivi e naturali (dati ricerca SOS – Vicenza, 2007)


colloqui con i genitori adottivi che testimoniano spesso la grossa difficoltà dei bambini adottati stranieri di avere successo e benessere scolastico. Il genitore si percepisce e spesso si sente percepito dalla scuola come “scomodo”, forse perché, ritenendosi il custode dei bisogni del proprio figlio, chiede molto più spesso dei genitori biologici e dei genitori stranieri colloqui personali di monitoraggio. E ciò non solo per quanto riguarda i compiti a casa, vissuti sempre con grande conflitto e angoscia, ma anche per quanto riguarda la didattica. Alcuni genitori, inoltre, sono dell’idea che i bambini adottati non sono tutelati come i DSA, per i quali una Legge Nazionale sancisce obblighi e doveri da parte del corpo insegnante, rilevano che manca totalmente una didattica specifica per loro, che spesso sono equiparati agli altri compagni dopo solo alcuni mesi dell’arrivo in classe. Una cosa è certa: la situazione particolare dei bambini stranieri adottati impone alla scuola un rinnovamento e una formazione sul tema specifico. Su questo anche i genitori sono d’accordo; infatti, essi spesso lamentano l’impreparazione degli insegnanti di fronte ai problemi specifici che quotidianamente i bambini adottati pongono. Non mancano iniziative di sensibilizzazione degli insegnanti promosse da Associazioni Familiari e da Enti Autorizzati per le Adozioni Internazionali, tuttavia limitati a determinati territori. C’è da augurarsi, quindi, che vengano generalizzati e proposti agli insegnanti (e molti di essi si dichiarano molto interessati) dei corsi di approfondimento sul tema adozione e che si cominci a studiare e valutare la problematica scolastica in età adolescenziale, in particolare a livello di scuola secondaria di secondo grado.

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giorno dopo giorno

di Antonella Avanzini

Lettera a un bambino già nato 22

Io e mio marito abbiamo fatto tre viaggi in Russia. Oltre alla tipologia di viaggio prettamente turistico, al viaggio per lavoro, al viaggio sentimentale sessuale nei territori dell’est, ce n’è almeno un altro: i nostri sono stati tre viaggi del tipo “più di così non potrà mai esserci niente”; perché partire per andare in un paese per portare a casa due figli, partire in due e tornare in quattro, per sempre, è stato un viaggio S-T-R-A-O-R-D-IN-A-R-I-O !!!! Dei luoghi in cui sono stata ricordo ogni millimetro, ogni odore, ogni colore. Più che un viaggio però è più giusto chiamarlo una deportazione. Tutto l’iter adottivo che precede i viaggi nel paese estero è molto lungo, difficile, si impegnano moltissime energie da parte di tante strutture, tanti operato-

ri. Quando parti sei quasi arrivato in fondo. Ci sono voluti tre anni prima di arrivare ad avere il biglietto dell’aereo per andare a vedere i miei futuri figli. E non potete immaginare cosa abbia voluto dire preparare i documenti necessari a convincere lo Stato Federale Russo a far uscire definitivamente dalla Russia due cittadini russi. Proporzionato a cosa chiedono per farvi solo passare, o a cosa chiedono per farvi solo sposare, è molto, ma molto, ma molto di più. Da parte dei russi la Russia è ancora un paese “oltrecortina”, il mondo di qua è ancora un altro mondo, a cui si guarda, sì, ma ancora con un moderato ma tangibile sospetto, soprattutto nelle zone un po’ più provinciali. Arrivato in Russia, il genitore adottivo trova ad aspettarlo una persona

russa di riferimento, che si occuperà della sua procedura di adozione; persona pagata dall’ente italiano a cui si dà l’incarico per fare da intermediario con lo Stato della Federazione Russa. Per questa persona far adottare bambini è un lavoro, e lo svolge ovviamente con “spirito russo”. Il lavoro svolto prima del viaggio è tantissimo! Sia in Russia, perché convincere lo stato russo, che l’ente italiano per cui tu lavori ha diritto a dare in adozione un certo numero di bambini russi, è un lavoro non indifferente, soprattutto di alta “diplomazia” e svolto nei vari dipartimenti. Tanto lavoro anche in Italia, fatto da noi futuri genitori, dall’ente italiano che gestisce i rapporti tra lo stato russo e la coppia che vuole adottare e anche dalle strutture pubbliche italiane. Quando arrivi in


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Russia, sono quindi TERRORIZZATI che le povere, sprovvedute coppie di aspiranti genitori combinino qualche casino e mandino a monte tutto. Casino tipo farsi rubare i documenti, perdersi, perdere le valigie, farsi fermare dalla polizia, farsi arrestare e via discorrendo. Per cui, passi di mano in mano ai vari autisti, interpreti e referenti russi, e tra un incontro, uno spostamento e l’altro, sei messo in castigo ad aspettare senza muoverti. Arrivati all’aeroporto a Mosca, dopo la dovuta attesa alla verifica dei passaporti – un’ora e mezza stante la presenza di alcuni orientali non meglio identificati, verso cui i controllori dei passaporti hanno un innato senso di antipatia - c’era ad aspettarci l’autista, con cartello, che ci ha depositati alla stazione. Per

telefono, la nostra persona di riferimento russa ci ha detto che una volta arrivati in stazione dovevamo sederci esattamente dove ci lasciava l’autista e aspettare fino a quando sarebbe arrivata lei a portarci i biglietti del treno e ad accompagnarci sul treno. Assolutamente non uscire dalla stazione, non uscire dalla sala di attesa, non parlare agli sconosciuti; questa, invero, cosa molto facile non conoscendo noi il russo. Ora, sei a Mosca per la prima volta nella tua vita, devi aspettare cinque ore e... non ti puoi muovere da una fottuta sala di aspetto!? Anzi, non ti puoi muovere da una precisa, fottuta poltrona di una panca in ferro di una fottuta sala di aspetto!? Una precisa posizione di sedia, perché - dopo abbiamo capito - ti hanno piazzato davanti a

un signore di un baracchino che vende non so cosa. E si sono messi d’accordo perché ti dia un’occhiata intanto che aspetti! Ora, già da questo primo approccio ci è stato chiaro che la parola attesa ha, in Russia e per i russi, un significato totalmente diverso che per noi in Italia. E io sono pure di Milano, dove se aspetti più di due secondi quando ti fanno il caffè al bar già ti arrabbi! Nella sala di aspetto della stazione, a dire il vero, anche tutti gli altri presenti hanno pazientemente e silenziosamente atteso ore e ore. Fino allo scoccare di un preciso momento, quando, prima piano piano, poche persone, poi sempre più numerosi e velocemente, silenziosi personaggi spostavano le panchette in ferro, trascinandole secondo una certa logica.


Logica che al momento non capivamo. Solo in seguito abbiamo realizzato che le panche ambite erano quelle senza braccioli, che permettevano perciò di sdraiarsi e dormire, durante la notte che si avvicinava. Ci venne anche il dubbio che le panchetteletto venissero, in un orario più tardo, subaffittate. Ma, prima di poter vedere la sala trasformata in dormitorio, finalmente arrivò la nostra referente russa. Dopo due parole di presentazione, ci portò sul treno, nella nostra cuccetta, e ci abbandonò alla nostra notte insonne, a immaginare le facce sconosciute dei nostri futuri bambini, che avremmo visto per la prima volta l’indomani. A confronto dei treni italiani il treno russo era SPETTACOLARE! Passerella in stoffa rossa e contro passerella bianca per terra nel

corridoio, tendine decorate e cuscinetti pendant nella carrozza letto. Aahhh ... finalmente! Ci siamo sentiti quasi dei turisti sull’Oriente- Express ai primi del novecento, soprattutto quando ci hanno dato il tè in due meravigliose tazze in vetro e simil-argento: “ecco!” - abbiamo detto – “finalmente siamo nella grande Russia!”. Se un italiano adotta un bambino nato in un paese estero, deve attenersi alle leggi che regolano l’adozione in quel preciso paese e che sono diverse per ogni paese. Per la Russia, essendo uno stato federale, la procedura è simile in ogni regione, anche se leggermente diversa. Comunque, le informazioni che hai prima di partire per la Federazione Russa sono spesso minime; nel nostro caso sapevamo il mese e l’anno di nascita della bimba

e solo l’anno di nascita del bimbo, nulla di più: non un nome, non una foto. Da un certo punto di vista questo è un bene, perché non sempre quei bambini per cui tu parti, nel frattempo che proseguono le pratiche burocratiche, sono ancora “adottabili” e quindi rischi di sentirti già mamma, o papà, di un bambino che non starà mai con te, non sarà mai tuo figlio. Parti nell’insicurezza più totale. Devi andare lì e vedere cosa succede, come andranno veramente le cose. È con quello spirito che scendiamo dal treno alla stazione di Voronezh, alle 7,15 di mattina: c’è l’interprete ad attenderci. Prima di partire, le persone dell’ente che ci seguivano in Italia nella procedura di adozione, ci avevano “istruito” su alcune cose: ci avevano detto, tra l’altro, di cercare di presen-

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tarci vestiti bene, non trasandati, quando saremmo andati in istituto o dal giudice in tribunale per la sentenza di adozione. Insomma, di cercare di fare “bella figura”, perché in Russia all’apparenza ci si tiene ancora. E siccome c’è concorrenza, tra aspiranti genitori adottivi americani, spagnoli e italiani - e le liste di attesa sono lunghe - meglio tenere alta la bandiera. Per questo, prima di partire, mi ero comprata un bel tailleur in seta piuttosto costoso, tipo cerimonia, di un bel colore bluette. Avevo anche con-

vinto mio marito a portarsi il vestito del nostro matrimonio, celebrato due anni prima, proprio per potere presentare la domanda di adozione, anche se convivevamo ormai da venti anni. Sempre per lo stress di ritardi e inconvenienti vari, avevamo deciso di portare solo bagaglio a mano e, quindi, ci portavamo i nostri vestiti belli nei sacchi appositi con relativa gruccia, da portare di traverso sul braccio, con mio marito che a ogni cambio di mezzo di trasporto smadonnava, maledicendo il giorno che mi era venuto

in mente di portare il tailleur nuovo stirato! Indossiamo, quindi, finalmente in treno, di prima mattina, i nostri completi della festa e, tutti eleganti, andiamo incontro alla giornata della nostra vita. L’interprete è una bella ragazza - mai sentito di interpreti russe poco piacenti - che comunque ci analizza con sospetto sin dal primo momento: “Ma i nostri bambini russi se li meritano questi due?” La nostra referente a Voronezh è invece una signora in carne, giovane ma, a giudicare dai tratti somatici, deve essere originaria delle repubbliche sovietiche asiatiche. Un po’ troppo sorridente, ma d’altra parte esperta nei rapporti con gli uffici pubblici: deformazione professionale. Purtroppo non parla italiano e, cosa ben peggiore, non ha nemmeno la patente, per cui ci si avvarrà di un autista. Un signore simpatico, che invece due parole due di italiano le sa anche (scopriremo più tardi che è anche il suo fidanzato…). Siccome l’autista è per tutta la giornata, e lo paghiamo noi, passiamo la mattina seduti in macchina - con i nostri vestiti da matrimonio - ad accompagnare la nostra referente nei diversi uffici comunali della città. Lasciarci soli e farci fare un giretto rilas-


sante non se ne parla nemmeno. Sempre della serie: non perdiamoli d’occhio! Verso mezzogiorno, finalmente, ci portano al Dipartimento della Tutela dei Minori, dove ci diranno chi sono e dove sono i bambini. Una signora distinta ci riceve - il funzionario pubblico in Russia è generalmente sempre distinto – e ci fa accomodare. Tira fuori un foglio formato lettera che ci consegna: è compilato a mano con incollate due foto tessera, con i dati anagrafici dei bimbi. Vediamo finalmente per la prima volta i bambini, in foto. Due faccine che ci guardano incuriosite e un po’ stralunate: russe, molto russe, bionde e con un incarnato color latte e biscotto. La bimba ha in testa il foularino coi fiorellini legato dietro, che tenerezza! Teniamo il foglio come se tenessimo in mano… che so, il gioiello più delicato e prezioso del mondo. L’interprete traduce, sinceramente non abbiamo sentito molto, non abbiamo capito nemmeno i nomi, per come eravamo in trance a guardare le fotine. Nel frattempo, sentiamo che c’è una certa discussione tra le signore; l’interprete non ci traduce nulla perché, se è bene che sappiamo allora traduce, ma se è meglio che non sappiamo

non traduce. Questi russi! Spionaggio e controspionaggio a livello spicciolo. Chiediamo che succede, ma ci tranquillizzano. Ci chiedono se confermiamo che questi bambini vogliamo andare a vederli: SIIIIIII!!! I bambini sono a 150 chilometri fuori città, in un paese nella provincia: si parte subito in macchina. Benché abituati ai paesaggi invernali del nord Italia, la campagna russa in inverno è un paesaggio diverso, dove la strada è solo dritta per 150 chilometri, larga, ma solo a tratti senza neve, senza ghiaccio. Si può percorrere a fatica, a bassa velocità. Pochi camion, pochissime macchine; si capisce che l’autista ci tiene a che tutto vada bene, non rischia. Ma per noi va sempre troppo piano, non vediamo l’ora di arrivare. Nella macchina poche parole, ci accorgiamo che c’è una certa tensione e un certo imbarazzo. Ci fermiamo un attimo da un benzinaio, chiedo di andare in bagno. Mi indicano una baracchina in legno un po’ lontano: è una latrina senz’acqua, con buco scavato nella terra, uguale a come le ricordavo quando ero bambina, in campagna, al paese dei nonni, quarant’anni fa, sotto il fico! Non mi rendo

ancora pienamente conto delle cose, ma inizio a intuire perché non c’è nessuno, qui, che voglia due bocche in più in famiglia. Ci fermiamo anche a mangiare qualcosa appena fuori del paese, in una specie di bar per camionisti: sono le tre del pomeriggio e siamo tutti digiuni dalle 7 di mattina. Nel bar c’è poco, prendiamo dei biscotti in scatola e acqua da bere. Finalmente siamo arrivati. Attraversiamo un piccolo paese, con case basse, strade innevate, viali alberati innevati. Siamo subito in una piccola via secondaria e ci fermiamo davanti a un cancello basso, verde, con pitturati sopra disegnini da bambini, che introduce a un vialetto innevato. In fondo una costruzione in mattoni grigi a vista. Nel vialetto innevato ci accoglie un grazioso portiere. Il disegno di un coniglietto su una tavoletta appoggiata a un pilastrino sembra dire: “Benvenuti! Qui ci sono bambini!”. Ci riceve una signora sui sessant’anni, con fare timido, imbarazzata, che ci fa accomodare. Solo allora capiamo il motivo dell’imbarazzo e della discussione al Dipartimento per la Tutela dei Minori a Voronezh. La direttrice non c’è, non avremmo potuto andare quel giorno, ma per non complicare le

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cose e non perdere giorni di lavoro, hanno risolto chiamando il responsabile di zona del dipartimento, che ci raggiungerà più tardi. Non avendolo mai visto e non sapendo chi è, la nostre referente e l’interprete sono un po’ preoccupate. Nel piccolo ufficio della direttrice, la signora che ci ha accolto, identificata come “maestra”, ci legge le schede con la storia dei bambini che siamo venuti a vedere. Legge prima qualche riga - noi in reverenziale silenzio - e poi ci guarda in viso e riassume lentamente quello che ha letto. Con pudore. Questi bambini hanno una storia triste, ma noi eravamo preparati: i bambini che sono dichiarati adottabili hanno tutti storie tristi. Mi piace però questo pudore. Siamo estranei, stranieri, non abbiamo mai avuto contatti con questi bambini, è giusto che si senta in imbarazzo a raccontare per filo e per segno le loro vicissitudini. E’ giusto che racconti, ma anche sapendolo, che non ci racconti tutto. Perché in effetti non farebbe nessuna differenza.Ci fanno aspettare un poco perché è l’ora del sonnellino e gli spiace svegliare il piccolo. Ci introducono finalmente in un salone grande. Vicino alla porta c’è un divano

e sul divano è seduta una ragazza, una bimba, che ci volta le spalle, piange appoggiando la testa sulla sua spalla, nascondendosi. Resto ferma, immobile, pietrificata, a guardare i fermagli rossi e arancioni di due codini biondi. Sono distratta dall’arrivo del piccolo, che arriva di corsa alle mie spalle, ridendo, e si butta in braccio a mio marito, che, girato, lo ha visto arrivare e si è abbassato per accoglierlo. Non sappiamo che fare, la bimba non si stacca dalla sua “tata” e non smette di piangere. L’interprete prende in mano la situazione e ci dice di darle velocemente i regali che avevamo portato. Prendiamo i pacchetti ma non li vuole. Allora ne apro uno velocemente, un pacchettino piccolo, con un anellino con cuoricino in legno colorato, rosa e fucsia, e un braccialettino. Si interessa subito: evvaiiii!!! La tata finalmente si allontana, i bimbi si mettono comodi sul divano e scartiamo gli altri pacchi tutti insieme. L’interprete è esperta, ha accompagnato tante coppie, anche spagnole, e ci fa subito delle foto. Questo momento è un momento che non scorderemo mai più, quelle foto le riguarderemo mille e mille volte. Possiamo stare con i bam-

bini in questo grande salone. Non siamo soli: c’è la referente, l’interprete, la “maestra”; la tata dopo qualche minuto va via. I bambini sono così contenti! Noi così impacciati! Cosa dobbiamo fare? Cosa possiamo fare? I bambini parlano, ma l’interprete non traduce tutto, solo qualcosa qua e là. Le signore parlano tra loro, ma sembrano soddisfatte. Ci stiamo comportando bene. A un certo punto l’interprete ci dice che non possiamo giocare tenendo i bambini separati, non possiamo stare coi bambini a due a due, ma tutti insieme. Ci sentiamo osservati. Veramente sotto esame. Potremo prenderli in braccio? Si potrà? Sarà giusto? Mi sento ospite, non voglio sembrare maleducata, ma nemmeno non dimostrare affetto, non avere un contatto. L’unico contatto possibile è il gioco. Questi bambini sono adorabili. Natascia adora il fratellino, appena può, appena riesce a distrarsi dalla gioia di potere giocare da sola nel grande salone con tutti i giochi finalmente a sua disposizione, rincorre e abbraccia il fratello. Nel salone ci sono diversi giochi, e Natascia li prende tutti, e con tutti vuole giocare. Ci invita a giocare con lei, a sederci al tavolino a in-


filare gli anelli di plastica a scala dentro il piolo. Vuole che la guardiamo in tutto quello che fa. Anche il piccolo Dima gioca, ma è un pochino più controllato con noi. E’ entusiasta dei dondoli di legno e galoppa velocissimo. Mi preoccupo che cada e cerco di tenerlo, ma lui scosta la mano. Corre velocissimo da un punto all’altro del salone. Si tuffa nel recinto con le palline di plastica colorate, ci guarda e ride divertito. Passa praticamente tutto il tempo occupando una mano a tirarsi su i pantaloni che gli cadono. Ha un completino blu, ma i pantaloni sono enormi, anche la maglietta. Hanno sandalini di stoffa con la suolina di gomma, con la punta tagliata, da dove esce la calzina. I dondoli e i tavolini sono molto belli: nello stile russo, laccati in rosso oro e nero a fogli e fiori, con i decori tradizionali. Iniziamo a prendere confidenza, i bambini con noi l’hanno invece avuta fin da subito. Natascia adora la macchina fotografica, vuole fare anche lei le foto; le spieghiamo come funziona e si rivela subito una abilissima fotografa. Abbiamo anche un riproduttore di cd, per sentire la musica con le cuffiette, e facciamo sentire a Dima delle canzoni. Si sorprende del

funzionamento. Mette le cuffiettine nelle orecchie, ma dopo poco le toglie e avvicina l’orecchio direttamente al riproduttore dove ci ha visto mettere il disco. E’ stupito di come funzioni strana la cosa e ci guarda senza dir nulla, ma parlando con gli occhi: “che magia è questa?”. Dopo una mezz’ora arriva Vassili, il responsabile del dipartimento che farà le veci della direttrice. Parla un po’ con le signore presenti e dopo ci chiama per il colloquio. Capiamo subito che la cosa è seria. Ci fa un terzo grado che non ci hanno fatto in Italia neanche psicologi, assistenti sociali e giudici. Come farebbe un buon padre di famiglia che si assicura del futuro della propria figlia nei confronti del futuro genero, ci fa domande molto dirette e molto pratiche. Noi scendiamo dalla nostra nuvoletta dove ci eravamo appena sistemati, e precipitiamo senza freni nella realtà, nel terrore che qualcosa non ci renda idonei a essere i genitori dei bambini che abbiamo appena conosciuto.

bambini russi? Cosa sapete della Russia? Siete già stati in Russia? Avete una casa vostra? Com’è grande? Quanto vale? Quanto costa? Quanto guadagnate? Avete un mutuo, un prestito da rendere?” Rispondiamo brevemente, quasi a monosillabi, sorpresi dalle domande. Si ferma e guarda gli appunti che man mano prende. Ci dice che gli sembra che siamo un po’ a rischio, potremmo non guadagnare abbastanza per pagare il mutuo. Quanto aveva ragione!!!! Bluffiamo sfoderando sicurezza e controllo della situazione, ma sappiamo che ha visto giusto! “Avete i genitori? Cosa darete ai vostri figli, a questi bambini? Questi bambini hanno già rifiutato due coppie, una coppia ha rifiutato Dima, perché è molto piccolo, avete visto bene che è molto piccolo? Siete disposti a prenderlo anche se è così sottosviluppato?”

Siamo frastornati dalle “Perché volete adottare dei domande. Nessuno ci ha bambini? detto che dovevamo giustiPerché non ne avete avuti ficare la nostra presenza vostri? lì. Nessuno ci ha preparaSiete sterili? to. Non rispondiamo bene. Perché volete adottare Ci sentiamo come quando

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a scuola ti interrogano di sorpresa e la lezione l’avevi letta, ma non la ricordi bene e rispondi un po’ così. Sbrigativamente, sperando di non dire cose troppo sbagliate. Cosa sappiamo della Russia? Io guardavo la ginnastica artistica in televisione, mio papà è stato in Russia negli anni settanta. “Si, va bene lo sport e il turismo, ma oltre a quello?” 30

No, per venire a vedere i nostri figli, non abbiamo studiato la storia russa. E’ stato un caso arrivare a presentare i documenti per l’adozione in federazione russa. Poteva essere qualunque altra parte del mondo. Ma questo ci rendiamo conto che al signor Vassili, orgoglioso del suo paese, e titubante nel dare per sempre due figli della grande Russia all’Italia, che tanti morti ha lasciato nelle campagne intorno a Voronezh, non lo possiamo dire. Stia tranquillo Signor Vassili. In Italia Voronezh non la conosce nessuno. Nessuno sa che esiste una città di un milione di abitanti a cinquecento chilometri a sud di Mosca. Nemmeno noi prima di venirci. E non c’è nessuno in Italia che ormai ricordi i morti della grande guerra che qui ci sono stati. I bam-

bini quando arriveranno in Italia troveranno tante donne russe, sposate a tanti italiani. E oggi della Russia in Italia si ricordano solo modelle e tenniste. E le foto di Putin insieme a Berlusconi. Vivranno bene i bambini in Italia. Saremo bravi genitori? Non lo so. Meglio di altri? Peggio di altri? Sicuramente meglio di quelli che hanno avuto fino ad ora. Finalmente Vassili ci lascia liberi di tornare a giocare coi bambini. Ci domanda però se siamo disposti a tornare in Russia ancora una volta a incontrare i bambini, prima della sentenza di adozione in tribunale, che potrebbe essere tra tre o quattro mesi. Che vediamo i bambini solo quel giorno, gli sembra poco, perché i bambini possano affezionarsi almeno un po’ a noi. Non abbiamo ancora passato l’esame? Ancora un altro viaggio oltre ai tre in programma? Finiamo il colloquio sconsolati e depressi, ma dobbiamo tornare a giocare coi bimbi e mettiamo da parte ancora per un po’ l’angoscia che ci ha preso. Mentre giochiamo Vassili chiama Natascia. Le chiede se vuole venire a casa nostra, restare con noi. Natascia risponde che questi signori (noi) sono simpatici (meno male!),

ma che a casa nostra non vuole venire. Vuole venire a trovarci, ma non rimanere. Alla fine dell’incontro, Natascia chiede all’interprete di invitarci, assolutamente dobbiamo andare ancora a trovarli per la “festa dell’autunno” che ci sarà tra qualche settimana nell’istituto. Ci sembra bello che almeno ci voglia rivedere. Ci salutiamo con sorrisi e un bacio. Caio ciao con la manina. Quando se ne vanno i bambini sono tristi. Anche noi. Moltissimo. Appena saliamo in macchina ci assale l’angoscia. Perché questo incontro, che doveva essere meraviglioso, ci lascia questo amaro in bocca? I bambini sono strepitosi. Bellissimi. Allegri. Giocosi. Ironici. Intelligenti. Abbiamo una paura abissale e inconfessata che non diventino nostri figli. Quando siamo in macchina, sale ed esce tutta la tensione. La referente ci dice che hanno concordato che non faremo un altro viaggio, ma che torneremo il giorno dopo e vedremo i bambini ancora per due ore. Dobbiamo anche assolutamente sviluppare le fotografie fatte, per lasciarle in istituto, così che le veda la direttrice e anche i bambini quando saremo via. Siamo felici di questa nuova pos-


sibilità di vedere i bambini. Ma io piango per tutto il viaggio fino a Voronezh. Per tutta la sera riecheggerà nelle orecchie la sfilza di domande che ci ha fatto Vassili. Ci ha messo di fronte ai rischi. Alle nostre responsabilità. Non ci ha perdonato niente. Siete sicuri di volere questo bambino così piccolo? Questo bambino che a quattro anni e mezzo parla pochissimo? (Sapremo solo dopo quattro mesi, in occasione dell’ultimo viaggio, che l’istituto dove sono è un istituto per bambini audiolesi). Dima è piccolo. Ma quanto piccolo, ci domandiamo. Cosa ne sappiamo noi delle misure precise che deve avere un bambino di quattro anni e mezzo? E se ha delle disfunzioni gravi? Se è affetto da nanismo? Se non par-

lerà mai? Siamo disposti? Saremmo capaci? Ma come potremo, da ora in poi, vivere senza quei bambini? C’è un filo che ci ha legato e che ormai non è più possibile rompere. Quei bambini son già nostri figli. Sono nati da noi in un secondo parto nel momento stesso in cui li abbiamo visti. Lasciarli sarebbe ormai come abbandonare un figlio. Per quei bambini significherebbe essere rinnegati una seconda volta. Sono figli che hai visto per un giorno, ma sempre figli. Tuoi. Arriviamo in albergo, l’interprete e la referente ci consegnano dei fogli da compilare e firmare. Ci chiedono lì, in piedi, nella hall dell’albergo a tre stelle, nel via vai della gente che arriva per l’ora di cena, se siamo disposti a firmare i documenti con

cui ci impegniamo ad adottare i bambini. E’ lì che diciamo quel sì che vale una vita. Dire si ora, e accettare di andare a Mosca dal notaio per la registrazione ufficiale della domanda allo stato russo. Siamo stremati, confusi, ma diciamo di si. Litigo con l’interprete perché mi dice che dobbiamo per tre volte portare il foglio in istituto. Mi agito chiedendo perché dobbiamo andare in istituto per tre volte? Dopo qualche spiegazione concitata, si capisce che in realtà intendeva tre copie del foglio, firmare tre volte i tre fogli. Ci salutano sorridenti e soddisfatte. Anche loro stanche e nervose, ma soddisfatte. Il loro lavoro è arrivato finalmente ad un primo traguardo.

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giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

Voglio fare il pasticciere! 32

go massimo 5 volte al giorno (!). Mio papà è pavese e sono fortunato perché mi piace andare a Pavia a trovare le zie che sono molto simpatiche. Da grande voglio fare il pasticcere, ma ora ho solo 9 anni. “La mia Storia” Deglutisco e inizio a legge- La cosa più bella che mi è capitata è vedere quest’ere: “Mi chiamo… e sono stato state la cascata delle Maradottato. Mia mamma era more…”. Reazione della mamma russa. Ho una sorella con cui liti- Rileggo alla velocità delMentre sfoglio il quaderno di storia di mio figlio – alunno di IV elementare - lo sguardo cade su una pagina incriminata. E’ il titolo in rosso ad attrarre la mia attenzione:

la luce il testo una seconda volta. Posso essermi distratta… Più pensieri si scontrano e litigano tra loro simultaneamente. I primi ad affacciarsi sono i più pericolosi, difficili da ricacciare indietro: mio figlio si identifica come decisamente “un figlio adottivo”…Lo dice subito nella prima riga, forse per togliersi il pensiero, forse perché il titolo del tema lo rimanda immediatamente alla particolarità degli inizi della sua vita. Del resto, quanto tempo abbiamo dedicato alla scrittura e alla lettura del libretto della sua storia, corretto, rivisto, corredato di foto e disegni e finalmente dato alle stampe dopo mesi di affannoso lavoro? Ma insidioso un dubbio mi paralizza: non è che noi genitori abbiamo calcato troppo la mano sulla sua


adozione? E se si sentisse un diverso, etichettato per sempre da quell’aggettivo? Passo al secondo tremendo pensiero: cita in apertura la sua mamma di nascita (e sbaglia anche il paese di provenienza, ma forse Ucraina non sapeva come si scrivesse…), sua sorella, persino le zie pavesi. Ed io, la SUA MAMMA, cuore del suo cuore… neanche vengo nominata tra le donne della sua vita!!! Mi sento improvvisamente inesistente, insignificante: COME PUO’ ESSERSI DIMENTICATO DI ME?!? Lo smacco è grande. Sono senza fiato… Beh, trovo a stento l’unica magra consolazione: il tema è corretto, la maestra (chissà come mi avrà compatito …) gli ha dato un “bravissimo” decisamente meritato (a suo parere, ma non a mio giudizio). Appena arriva papà, glie-

Gli ho fatto una domanda: “Tesoro, che bel tema hai fatto… Ma davvero ti hanReazione del papà Ho letto la pagina e mi è ve- no colpito così tanto le canuto subito da sorridere. Mi scate delle Marmore?”. Lui sono sciolto per la passione ha risposto: “Papà, non mi per la città delle mie origini veniva in mente niente… In realtà ripensandoci il che gli ho trasmesso. Ho notato che non parla fatto più bello che mi è cadi sua madre: ovvio, è così pitato nella vita è il viaggio legato a lei che è una figu- in Cambogia per prendere ra direi scontata nella sua mia sorella!” vita, invisibile, ma neces- Litigano di continuo eppusaria come l’aria che respi- re sono davvero legate le due pesti… ra. ne parlo.

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leggendo

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Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Cronache dalla barchetta Il catalogo dei genitori - Quarta puntata 34

In questi ultimi anni vengono organizzati sempre più frequentemente incontri, seminari e convegni che hanno come obiettivo quello di migliorare la fiducia nelle proprie competenze genitoriali. Psicologi, educatori, esperti della famiglia cercano di promuovere una migliore qualità della relazione fra genitori e figli. Da un lato si cerca di offrire un sostegno ai genitori in relazione alle quotidiane problematiche che affrontano con i figli, dall’altro si cerca di favorire ai figli la possibilità di esprimere emozioni e sentimenti.

solidi principi educativi. Chissà se anche lui avrà frequentato uno di quegli innumerevoli incontri sul mestiere di genitore.

Questo ironico albo illustrato sovverte e capovolge i ruoli tra papà e bambino poiché, come dice il titolo, non insegna a educare bambini ma papà. Nonostante sia raffigurato un bambino molto piccolo, il libro viene consigliaAnche Come educare il tuo to anche per ragazzi della papà, di Alain Le Saux, è scuola media, età in cui è una vera e propria guida sempre più difficile accetall’educazione dei papà, tare le imposizioni dei gema è a cura di un bambinitori. no che segue dei precisi e

Tutti abbiamo un solo papà. Poiché di solito non è perfetto è molto importante sapere che cosa si può fare per educarlo. Quindi il punto di partenza è che tutti i papà hanno delle imperfezioni e che è fondamentale imparare tutti i modi per educarli. Il rovesciamento dei ruoli che sta alla base del libro è un modo originale e ironico per affrontare il difficile tema dei rapporti tra padri e figli a tutte le età. Naturalmente si potrebbe far valere tutto, o quasi tutto quello che viene descritto anche per le mamme. A volte il papà mi domanda un favore. Io gli rispondo: Vedremo. Un papà non può fare tutto ciò che vuole. Quando il mio papà mi chiede: Mi vuoi bene? Io gli rispondo sempre: Tantissi-


mo. Meglio avere un papà felice. Con ironia e a volte comicità, il bambino sgrida il suo papà con moderazione ma al tempo stesso lo rassicura e lo accetta per quello che è. Lo tratta sempre con fermezza, incoraggiandolo, gratificandolo, ma anche riprendendolo quando non si comporta bene. In forma rovesciata questo albo ci racconta di come i bambini vorrebbero che fossero i genitori: fermi e decisi ma anche accoglienti e gratificanti. Ogni pagina è corredata da una illustrazione nell’inconfondibile stile di Alain Le Saux che con il suo tratto semplice riesce a rappresentare perfettamente le espressioni dei visi, gli atteggiamenti e i comportamenti dei due protagonisti. Esemplare è la capacità di trasformare le proporzioni in modo sovversivo, ribaltando i rapporti nello spazio e le grandezze delle figure rappresentando il bambino molto piccolo che sgrida il papà molto grande. Il testo spiritoso ed essenziale coglie gli stati d’animo di grandi e piccini e mette in luce quelle che dovrebbero essere le basi dei rapporti educativi e affettivi. A tratti il libro è addirittura grottesco ma in mol-

te pagine è anche tenero e avvincente; i bambini, almeno per una volta, si possono sentire i più saggi e possono decidere loro le sorti dei papà, anziché dover sempre obbedire alle imposizioni dei genitori. Il bambino consiglia, premia, coccola, perdona il suo papà così come vorrebbe che il suo papà facesse con lui. Quando il papà fa i capricci io non gli do retta. Non bisogna sempre concedere a un papà tutto ciò che vuole; Quando il papà dice di sapere tutto io faccio finta di credergli. Non bisogna mai offendere un papà. E anche: Quando il papà discute con me diventa sempre molto nervoso. Io non perdo la calma, preparo una tazza di te a tutti e due e ricominciamo a parlare tranquillamente. Un papà deve imparare a discutere senza arrabbiarsi. Se il papà vuole fare un gioco che detesto, io gioco con lui lo stesso. Bisogna dedicare del tempo ad un papà. A volte il papà è troppo aggressivo. Allora mi chiedo: sono stato abbastanza affettuoso con lui? L’ho sgridato di recente. Sono stato troppo severo? Per educare

un papà è necessario usare intelligenza e psicologia. Quando il papà è svogliato, di malumore, io non lo tormento. Un papà ha il diritto di non essere sempre perfetto. Riuscire a riconoscere che nessuno di noi è perfetto, accettare i propri e altrui limiti è già un buon punto di partenza per iniziare a realizzare un certo benessere nel rapporto tra genitori e figli. Comunicare nel rispetto reciproco, riconoscere e aiutare l’espressione delle emozioni sia nei figli che nei genitori è un primo passo fondamentale. Nei rapporti conflittuali tra genitori e figli, i genitori spesso pensano che senza urlare ai propri figli non potrebbero mantenere la loro autorità; a volte i genitori vorrebbero smettere di essere violenti, anche solo verbalmente, con i propri figli, ma non sanno come gestire i momenti quotidiani di stress. Rispondendo ai propri figli con reazioni puramente emotive, papà e mamme non stabiliscono rapporti di fiducia e non riescono a impostare una comunicazione che allontani paure e frustrazioni. Se gli adulti reagiscono urlando o insultando, insegnano ai bambini l’opposto di ciò che vorrebbero. In modo semplice e alle-

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gro l’albo ci fa capire l’importanza di far sentire il proprio affetto e di fornire punti di riferimento ai figli. Solo se gli adulti cercano di comprendere cosa pensano e cosa provano i bambini nei diversi momenti della giornata e assumono un approccio costruttivo anziché punitivo, possono riuscire a risolvere i problemi e le difficoltà. Così come ci insegna il bambino protagonista dell’albo, l’affetto è necessario per realizzare una relazione positiva, ma deve essere sempre accompagnato da fermezza e chiarezza sui punti di riferimento.

Proprio di rapporti violenti e conflittuali tra un padre e un figlio parla il romanzo di Susan Shaw La nuova vita di Charlie. Il libro è consigliato per ragazzi dai 12 anni, ma quando l’ho letto mi sono chiesta se un ragazzo così giovane possa non rimanere sconvol-

to da una storia così forte e violenta. Si tratta di un libro che affronta un dolore talmente grande che si vorrebbe che nella vita non succedessero mai cose del genere. Nel raccontarlo faccio fatica a trovare le parole per descriverlo. Ritorno con il pensiero a Charlie, l’adolescente protagonista della storia che ha la stessa età di mio figlio. Si tratta di un ragazzo di dodici anni vessato e maltrattato che il padre ha costretto a vivere in una cantina per lunghi anni senza permettergli di uscire neanche per mangiare. La cantina è la sua casa, il suo mondo. La cosa più difficile da capire è che il padre instilla nel ragazzo l’idea che tutto ciò che accade è perché lui è un bambino cattivo. Niente scuola, né giochi, né amici a causa di quel padre folle e incapace di amare. Charlie non ha alcuna intenzione di scappare dalla cantina poiché suo padre si arrabbierebbe. Charlie pensa di esserselo meritato e ciò è la cosa più crudele. Tutta la sua vita, le sue azioni, i suoi movimenti sono condizionati da questo fatto. Una notte esce di nascosto dalla cantina per prendere un po’ di aria, ma la porta di casa si chiude inaspettatamente e Charlie si ritrova per caso fuori dalla sua prigione, li-

bero. La prima reazione è di paura. Paura di suo padre, paura del mondo, paura di non poter più tornare indietro. Quello che lo porta fuori dalla sua prigione non è una fuga ma solo un caso. Anche camminare per strada diventa troppo difficile per il suo debole corpo, ma soprattutto per la sua mente sconvolta. Charlie non si rende subito conto che è appena iniziata la sua nuova vita. Una vita piena di ostacoli da superare e problemi da risolvere, ma una vita che possa definirsi tale. Lungo la strada Charlie sviene e si risveglia in ospedale. La ripresa è lenta e dolorosa: incubi, vaneggiamenti, febbre, ricordi della sua vita precedente. Poi la sua nuova vita riprende a scorrere grazie anche al suo vicino di letto e alla sua famiglia affidataria. Charlie non sa leggere, non sa cosa sia una scuola o una festa; deve nuovamente imparare a vivere e persino a riuscire ad uscire di casa senza essere terrorizzato. Piano piano Charlie ricorda la bellezza del verde, degli alberi, della pioggerellina e riesce a godere delle piccole cose di tutti i giorni. Non importa se non conosco gli alberi di Natale – le dico – Non conoscevo neanche Halloween e il Ringraziamento, ma sto imparan-


do. Presto sarò un bambino normale. La signora West appoggia la schiena alla sedia e ride. Credimi, Charlie, – dice – i bambini nomali non esistono. Non so perché, ma queste parole mi rassicurano. In queste parole si può condensare il senso profondo del libro: quando si parla di bambini non si può parlare di normalità poiché tutti i bambini valgono per quello che sono, indipendentemente da tutto e da tutti. Sempre più spesso mi succede di chiedermi se sia giusto che bambini e adolescenti leggano libri di questo tipo. Cerco di lottare contro il mio istintivo desiderio di protezione nei confronti dei giovani lettori, ma mi rendo razionalmente conto che parlare e affrontare temi spinosi è l’unica possibilità. L’ideale sarebbe leggere insieme il libro come con i bambini piccoli. Ma neanche questo spesso è possibile con un figlio di dodici anni. Molte volte con mio figlio decido di leggere i suoi stessi libri per poi condividere sensazioni ed emozioni. Lo consiglio vivamente a tutti i genitori. Attraverso libri e anche film si può davvero entrare nel misterioso mondo degli adolescenti e si può trovare con loro uno spazio di confronto e di dialogo.

Il dilemma se far leggere o meno, se consigliare o no la lettura si è presentato anche con il libro La casa sull’albero della brava e famosa scrittrice Bianca Pitzorno. La storia parla di due ragazzine che vivono sopra una quercia insieme a un gatto, a cani che fanno le uova e a una pianta carnivora. Già da queste poche indicazioni, si può capire che si tratta di una storia piena di fantasia e di magia. Un albero davvero singolare. A prima vista poteva sembrare un albero come tutti gli altri. Stava nel mezzo di un prato leggermente in discesa. Aveva un tronco piuttosto grosso e una chioma folta e voluminosa … Un albero come tutti gli altri, insomma! Ma, a guardare bene, si scopriva una porticina nascosta in basso fra le radici nodose. Una porticina abbastanza

grande per poterci passare attraverso senza rimanere incastrati (a patto di non essere troppo grassi). Il tronco, infatti, era cavo, e dentro c’era una scaletta a chiocciola che portava in alto ai rami pieni di foglie. Non solo, ma sulla parte esterna del tronco alcuni spuntoni di rami tagliati ad altezza crescente formavano ottimi gradini o appigli per chi volesse arrampicarsi senza passare per la porticina segreta. Bianca Pitzorno riesce a mescolare battute e colpi di scena tenendo il lettore immerso nella storia. A completare il libro ci sono anche le divertenti illustrazioni di Quentin Blake che aiutano il lettore a entrare ancora di più nell’avventura di Bianca ed Aglaia. La storia parla di ecologia e di natura ma anche di quanto siano importanti i rapporti con le persone, gli animali e le cose. Le due amiche, una un po’ più adulta, stanche della loro vita in città, decidono di andare a vivere insieme sull’albero. In una giostra di incontri strampalati e di situazioni assurde, di paura e di risate, la piccola comunità sull’albero impara a convivere e a far fronte alle situazioni più improbabili. In particolare mi ha colpito il quinto capitolo nel

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quale si racconta di tre cicogne che passano sopra la quercia. Bianca viene a sapere dalle cicogne che trasportano nei loro grossi fagotti dei bambini e allora chiede loro dove li portano. Da tre famiglie che li hanno ordinati. Risposero le cicogne. Neanche loro erano informati che i bambini non li portiamo noi. Così invece di farseli in casa, aggiunse la seconda, ci hanno scritto una cartolina postale con tanto di francobollo per via aerea e modulo di pagamento alla consegna della merce. Conoscete il nostro motto? Chiese la terza. Teneteli una settimana in prova e se non siete soddisfatti sarete rimborsati. Il linguaggio della scrittrice è diretto ed efficace. Sa raccontare del meglio e del peggio delle persone. Proprio in questo spensierato

e avventuroso racconto, la scrittrice inserisce uno spietato modo di pensare, speriamo non troppo comune, che i bambini possono essere mandati via se gli adulti non sono soddisfatti. Ma a parte questo, mi chiedo per l’ennesima volta, cosa può pensare un bambino sentendo che c’è la possibilità di essere rifiutato e mandato via dai genitori? Leggere in biblioteca e in classe questo passaggio è stato davvero interessante. I bambini, insieme a dei genitori e a degli insegnanti attenti, hanno potuto rielaborare questi concetti senza rimanere traumatizzati. Tutti i bambini e i ragazzi, così come gli adulti, apprendono e rielaborano meglio quando sono aiutati e informati correttamente. Naturalmente tutti

hanno bisogno di un sostegno adatto al loro grado di comprensione. In conclusione rendere i bambini partecipi della narrazione è l’unico modo per rendere questo libro un momento di riflessione che offra contemporaneamente anche tutta una gamma di forti emozioni. Infine riporto alcune parti di una interessante ricerca presentata all’interno della Guida pratica alla genitorialità positiva. Come costruire un buon rapporto genitori-figli. Con tutti i limiti che una guida generalizzata può avere considerando l’infinita gamma di possibilità dei rapporti interpersonali, ritengo che vi sia un grande stimolo alla riflessione. Anche perché, come sottolineato nella guida, per prima cosa i bambini e i genitori hanno bisogno di amore e di affetto.


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I genitori per far sentire affetto ai loro figli: dimostrano di amarli, anche quando sbagliano; li confortano quando soffrono o sono spaventati; li ascoltano; tengono conto anche del loro punto di vista; giocano con loro; ridono insieme a loro; li sostengono quando devono affrontare una prova; li incoraggiano di fronte alle difficoltà; gli dimostrano che credono in loro; riconoscono il loro impegno e i loro successi; dimostrano di avere fiducia in loro; si divertono insieme a loro; li abbracciano; leggono per loro; dicono “Ti voglio bene”.

Sarebbe bello poter mettere in pratica tutte queste parole. Io non so se ancora ci sono riuscita. Chissà come mi descriverebbero i miei figli e dove mi collocherebbero nel Catalogo

Bibliografia Come educare il tuo papà. A. Le Saux, Il Castore Bambini, 2004 La nuova vita di Charlie. S. Shaw, Edizioni Piemme, 2010 La casa sull’albero. B. Pitzorno, Mondadori 2010 Link Guida pratica alla genitorialità positiva. Come costruire un buon rapporto genitorifigli http://www.endcorporalpunishment.org/pages/pdfs/ positive-discipline/Save the Children Italy guide.pdf

biamento. La strada da gedei genitori? Gli psicologi e i pedagogi- nitore è per me ancora lunsti mi dicono che farsi que- ga, ma grazie al confronto sta domanda è già un pri- e al dialogo con i miei figli mo passo poiché significa cerco ogni giorno di fare un mettersi in discussione ed piccolo passo avanti. essere disponibili al cam-


sociale e legale

Angelamaria Serpico Avvocato specializzato in diritto di famiglia e diritto minorile

L’Istituto dell’adozione nell’antichità 40

bene restino dubbie le circostanze e le finalità per le quali fosse applicato. In realtà, nei popoli antichi, l’istituto dell’adozione non ebbe uno sviluppo regolare. Piuttosto, si trattò di una figura giuridica regolata in ragione delle esigenze contingenti proprie di ciascuna popolazione e soggetta a frequenti e rilevanti mutamenti. Non è possibile, di conseguenza, identificarne con precisioAnche nella Grecia antica ne i tratti distintivi. l’adozione era diffusa ed in particolare presso il popo- L’adozione nella lo Ateniese, dove l’istituto società romana era disciplinato nelle leggi di Solone: essa aveva la L’adozione raggiunse il suo funzione di perpetuare il massimo sviluppo presso i nome della famiglia; infat- Romani, venendo utilizzati potevano essere adottati ta per una serie di scopi estremamente importanti, solo i maschi. Le ricerche storiografiche spesso di natura politica: hanno dimostrato che l’i- quando, ad esempio, i plestituto fosse noto anche al bei giunsero ad occupare popolo degli Egiziani, seb- posizioni politiche di rilie-

Le prime notizie sull’adozione, intesa come passaggio di una persona da un nucleo familiare ad un altro, si rinvengono nel 2000 a .C. nel codice di Hammurabi. Molti esempi di adozione si ritrovano nelle fonti dell’epoca: ad esempio nella bibbia si narra di come Esther fosse stata adottata da Mardocheo; adottato fu anche Mosè e non da ultimo Gesù.

vo, l’adozione venne utilizzata da quei patrizi che aspiravano a divenire tribuni della plebe, facendosi adottare per poter acquisire la condizione sociale di plebeo. L’adozione consentiva all’adottato di uscire dalla sua famiglia naturale. Questa scelta aveva conseguenze di grande rilievo: comportava la perdita dei diritti di agnazione e di quelli di successione verso la famiglia originaria. Inoltre, rendeva l’adottato estraneo agli Dei domestici e, come tale, non più tenuto ad esercitare il culto della sua famiglia naturale. L’ingresso nel nuovo nucleo familiare produceva effetti altrettanto significativi. Infatti, dal momento in cui il negozio di adozione poteva considerarsi perfezionato, l’adottato ac-


quisiva uno status completamente nuovo. Si determinava, così, la devozione ad un nuovo culto, l’acquisizione di nuovi diritti di agnazione e successione e, soprattutto, un nuovo nomen al quale, però, non si accompagnava la perdita di quello precedente, che si trasformava in aggettivo, con l’aggiunta della desinenza ianus : così, ad esempio, Scipio Aemilianus, Caesar Octavianus, e così via. Per comprendere meglio la natura dell’adozione in epoca romana, occorre precisare che la famiglia nel diritto romano primitivo non è un legame di natura meramente affettiva, ma viene vista come un organismo complesso, all’interno del quale si prescinde dal vincolo di sangue o di parentela, ed è piuttosto assimilabile al prototipo dello Stato. La famiglia, con il suo svolgimento naturale nella gens, è dunque anzitutto una società politica organizzata, posta sotto la protezione degli Dei familiari. Inoltre, è fonte del diritto privato e pubblico che si svolge intorno ad essa. All’interno di questo organismo autonomo, avente carattere civile, religioso e politico, assume importanza fondamentale la figura del pater familias, il

supremo giudice ed il supremo sacerdote del culto familiare. Egli presiede la gestione del patrimonio ed ha un potere assoluto sugli altri componenti. Si distinguono due diverse forme di adozione: l’ adrogatio, che era l’adozione delle persone sui juris, in virtù della quale il cittadino romano passava sotto la patria potestà dell’adottante, e l’adoptio, attraverso cui un individuo alieni juris modificava il proprio status passando dalla soggezione da una patria potestà a quella di un’altra. Mentre l’arrogazione chiedeva un atto solenne, poichè veniva a modificarsi lo status familiae dell’individuo; l’adozione propriamente detta invece si svolgeva dinanzi al magistrato. Per quanto riguarda gli effetti, entrambe ponevano l’adottato sotto la potestà dell’adottante, rendendolo suo erede. Tuttavia se taluno, con il consenso di suo figlio, avesse eseguito una procedura di adoptio nei confronti di un soggetto, considerandolo come se fosse nato dal figlio medesimo, e dunque proprio nipote, l’adottato non diventava erede dell’avo che l’aveva adottato. Infatti, morto quest’ultimo, egli sarebbe ricaduto sotto la potestà del padre ori-

ginario. Nell’arrogazione, invece, poiché l’arrogato diveniva un figlio di famiglia, se avesse avuto figli, questi ultimi passavano di pieno diritto sotto la potestà dell’arrogator, che li avrebbe riconosciuti come nipoti . Un’altra, significativa, differenza si produceva in ordine al regime patrimoniale dei beni, in quanto solo l’arrogazione produceva una successione universale. Nell’adozione tradizionale, invece, i patrimoni restavano distinti. La riforma giustinianea dell’adozione: adoptio plena ed adoptio minus plena Un sensibile mutamento di disciplina si avrà con Giustiniano, il quale, nel 531 d.C., riformò in modo sensibile l’istituto dell’adozione distinguendo tra due figure. La prima era costituita dall’adoptio plena , che si verificava quando l’adottante era un ascendente. La seconda ipotesi, più innovativa, era quella dell’adoptio minus plena, in cui l’adottante era un estraneo. In questa circostanza i rapporti dell’adottato con il padre biologico non erano alterati, e l’adozione valeva soltanto a fare acquistare all’adottato il diritto

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di successione verso adottante. Si trattava di un istituto estremamente importante perché rifletteva l’esigenza, evidentemente frequente, di garantire a soggetti tra loro estranei un vincolo sul patrimonio dell’uno nei confronti dell’altro. L’adozione nel diritto medioevale. L’adozione militare Con la caduta dell’Impero romano l’istituto dell’adozione subisce sorti alterne, in parte venendo soppiantato dai nuovi diritti feudali, in parte resistendo alla scomparsa. Tra gli aspetti che sembrano più interessanti c’è quello che riguarda l’introduzione di nuove figure di adozione, tra cui rileva in particolare l’adozione militare. Una delle forme più antiche di questo tipo di adozione risale al 737 d.c., ed è

un istituto nato e sviluppatosi presso le popolazioni germaniche, che conoscevano l’adozione già prima di entrare in contatto con i Romani. Poiché per lo stile di vita ed i costumi che caratterizzavano questa popolazione le arti della guerra rivestivano la massima importanza, l’adozione iniziò ad essere svolta con una cerimonia militare, che veniva a garantire alleanze stabili tra guerrieri. Così come per l’adozione di epoca romana, anche quella militare presupponeva che l’adottante e l’adottato avessero raggiunto la maggiore età. In altre parti dell’Europa, durante il periodo medioevale, l’adozione cadde in disuso, soppiantata dal sistema feudale. In questa fase storica, l’utilizzo dell’adozione è relegato a quei paesi che continuarono a far uso del diritto romano.

L’adozione nel diritto moderno. Dalla fine del secolo XVIII ai giorni nostri A partire dalla fine del secolo XVII l’istituto dell’adozione subì un periodo di rinnovata fortuna. Abbandonate le ostilità del sistema feudale (che tuttavia avrebbero resistito fino alla vigilia dell’emanazione del codice napoleonico), l’istituto fu definitivamente accolto in tutte le legislazioni europee, restando ignoto solamente agli ordinamenti di matrice anglosassone, presso i quali venne regolato molto più tardi. Secondo la concezione che allora prevalse l’adozione era un contratto, le cui parti sono costituite dall’adottante e dall’adottato. La tesi contrattuale verrà sostituita da due tesi prevalenti: quella della fattispecie complessa, in cui l’accordo tra le parti ed il provvedimento


giudiziale sono entrambi necessari; oppure quella di un negozio giuridico di natura familiare, collocabile cioè tra quegli istituti che disciplinavano il regime giuridico della famiglia. In questo periodo rimane ancora sconosciuta l’ipotesi di adozione di soggetti minorenni e permane l’esigenza di garantire, per il tramite di questo istituto, la prosecuzione dell’esercizio di diritti di natura patrimoniale L’adozione nel Code Napoleon L’istituto dell’adozione scomparve nei paesi di diritto consuetudinario e fu reintrodotto dal Code napoleon, dove ne fu accentuato il carattere affettivo. Si posero infatti alcuni obblighi precisi all’adottato nei confronti della famiglia naturale di cui continuava a far parte. Inoltre, si consentì

l’adozione nei casi in cui forti debiti di riconoscenza vincolassero l’adottante e l’adottato, ovvero quando da almeno sei anni il primo avesse sovvenzionato il secondo con sussidi e ne avesse avuto la cura non interrotta. L’istituto dell’adozione nel diritto italiano In Italia, a partire dal XVIII secolo, l’adozione assunse una funzione di natura prevalentemente patrimoniale. Si legò infatti alle esigenze di continuazione del casato ed alla perpetuazione dei titoli e dei possessi delle famiglie nobiliari, qualora fossero assenti figli legittimi o naturali: il codice civile del 1865 riconobbe, così, la possibilità di adottare persone che avessero compiuto il diciottesimo anno di età. Ciò nonostante, le varie proposte di modificazione

legislativa a favore dell’adozione non trovarono consenso fino al 1939, quando fu creato l’istituto della “affiliazione”, caratterizzato per il fatto di non dare diritti ereditari, né stabilità al vincolo, ma semplicemente un sussidio alimentare che, raggiunta la maggiore età, veniva meno. Invece, a partire dal codice civile del 1942, fu introdotta per la prima volta la possibilità di adottare i minori di età. L’adozione continuò per lungo tempo ad avere una impostazione adultocentrica, sia come mera possibilità di crearsi una discendenza, sia come strumento per non disperdere il patrimonio familiare, il ruolo ed il prestigio del casato. Nel 1967, poi, con la legge n. 431, si introdusse l’adozione speciale, che distinse le due ipotesi di adozione di maggiorenni e di adozione di minorenni.

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trentagiorni

GIORNATA MONDIALE DELL’INFANZIA: SAVE THE CHILDREN, CRESCIUTA DEL 35% LA DISUGUAGLIANZA TRA BAMBINI RICCHI E POVERI NEL MONDO. GRAVI CONSEGUENZE SU SALUTE, SOPRAVVIVENZA E ACCESSO ALL’ISTRUZIONE. Raggiunti negli ultimi vent’anni i livelli massimi di disuguaglianza a discapito dei bambini più poveri, denuncia il nuovo rapporto “Nati Uguali” di Save the Children diffuso in occasione della Giornata Mondiale per l’Infanzia. Una condizione che influisce drammaticamente sulla loro salute, la loro educazione e le possibilità di sopravvivenza, esponendoli maggiormente alle malattie, al ritardo fisico o mentale, e all’abbandono scolastico. Secondo il nuovo rapporto dell’Organizzazione, che raccoglie i dati relativi a 32 paesi, il gap tra i bambini poveri e quelli ricchi a livello globale è cresciuto del 35% rispetto al 1990 – un aumento doppio rispetto a quello riscontrato per gli adulti – con la conseguenza che in alcuni paesi la mortalità infantile sotto i 5 anni per i bambini poveri è doppia rispetto a

quella dei più ricchi. In linea generale, il rapporto dimostra che i bambini che nascono con maggiori possibilità economiche hanno 35 volte le possibilità di accedere alle risorse rispetto a quelli più poveri e questo riguarda ad esempio l’accesso all’educazione, alle cure sanitarie, ma anche una minore possibilità di dover lavorare in tenera età. “I bambini sono i più colpiti da una distanza che continua a crescere inesorabilmente tra chi ha e chi non ha. La disuguaglianza va combattuta senza tregua se vogliamo dare a tutti i bambini la stessa possibilità di vita e di sviluppo, perché possano beneficiare degli enormi passi fatti dal progresso a livello globale,” ha dichiarato Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia. In alcuni paesi la distanza tra bambini ricchi e poveri negli ultimi vent’anni è quasi triplicata, come nel caso del Perù dove è aumentata del 179%. Gli altri paesi meno virtuosi sono Bolivia (+170%), Colombia (+87%), Camerun (+84%) e Ghana (+78%). Mentre i bambini ricchi hanno

addirittura migliorato le loro condizioni, in un quinto circa dei paesi analizzati - Bolivia, Perù, Zambia, Costa d’Avorio, Ghana e Camerun - il reddito dei bambini più poveri è precipitato allargando ulteriormente una distanza già pesante. Tra i paesi presi in esame nel rapporto, sono 11 quelli che mostrano una variazione in positivo rispetto alla distanza tra ricchi e poveri, ovvero un aumento del reddito nella fascia meno abbiente maggiore di quello riscontrato nella fascia più ricca, e sono Niger, Mali, Burkina Faso, Armenia, Cambogia, Bangladesh, Nicaragua, Egitto, Nepal, Marocco e Giordania. Al contrario, in 12 paesi l’aumento del reddito nella fascia più ricca è stato più del doppio di quello nella fascia più povera, così è avvenuto in Madagascar, Zambia, Kenya, Turchia, Costa d’Avorio, Tanzania, Uganda, Ghana, Camerun, Colombia, Bolivia e Perù. Non solo nascere povero o ricco determina la cosiddetta “lotteria della vita”, altrettanto importante è dove si nasce poveri: una persona che nasce povera in India ha


minori possibilità di una che nasce povera negli Stati Uniti. Se è vero che la povertà a livello globale è scesa da 2 miliardi nel 1990 a 1,3 miliardi di persone, e la mortalità infantile si è dimezzata, Save the Children fa notare che si tratta di una tendenza che cela in molti casi la totale incapacità del progresso di raggiungere i più poveri tra i poveri. Una disuguaglianza che in Nigeria, per esempio, determina un rischio di mortalità più che doppio per i bambini con meno di 5 anni poveri rispetto a quelli che invece sono più ricchi. In Tanzania, spesso lodata per gli investimenti sulla salute e sui programmi sociali, la mortalità infantile nel quintile più ricco è scesa da 135 a 90 ogni 1.000 nati, mentre in quello più povero la riduzione è stata modesta, passando da 140 a 137 ogni 1.000 nati. Ma le disparità non risparmiano nemmeno i paesi più ricchi, come il Canada, dove i bambini con il reddito più basso hanno una probabilità 2,5 volte superiore di avere problemi di vista, udito, parola o abilità motoria. Per molti bambini, essere

femmine, disabili o membri di minoranze etniche, vivere in zone rurali, sono elementi che limitano ulteriormente le proprie opportunità. Nel mondo 61 milioni di bambini non vanno a scuola. Se tutti i bambini dei paesi a basso reddito avessero accesso all’istruzione, 171 milioni di persone non vivrebbero più in povertà. Ad esempio, in Brasile i bambini bianchi hanno il 32% di possibilità in meno rispetto ai coetanei di colore, meticci o indigeni di avere gravi lacune scolastiche. In Nigeria, la fascia di giovani che ha attualmente tra i 17 e i 22 anni, ha meno di 5 anni scolarizzazione se fa parte della parte povera della popolazione, contro i 10 anni dei più ricchi. In termini di genere, al mondo se tutte le femmine avessero lo stesso accesso dei maschi alla scuola primaria, almeno 3, 6 milioni di bambine in più la frequenterebbero: in Indonesia, ad esempio, le donne analfabete sono il doppio degli uomini e le ragazze mai iscritte a scuola sono tre volte i ragazzi. Negli ultimi 4 decenni, l’aumento delle donne con un’istruzione

di base ha prevenuto la morte di 4 milioni di bambini. Nel 1990, la maggior parte dei poveri, pari al 93%, viveva nei paesi a basso reddito. Oggi, il 70%, quasi un miliardo, vive in paesi a medio reddito, che rappresentano, secondo Save the Children, la maggiore sfida per promuovere un contrasto alla disuguaglianza e favorire una maggiore condivisione dei progressi della crescita. Inoltre il problema della povertà relativa e assoluta aumenta ogni giorno anche nei paesi al alto reddito, accompagnata dalle minori risorse investite in educazione e servizi per l’infanzia. A tale proposito, il 4 dicembre Save the Children Italia, lancerà l’Atlante dell’Infanzia (a rischio) in Italia, l’annuale pubblicazione che è la cartina di tornasole sulla situazione di bambini e adolescenti nel nostro paese, con uno sguardo al futuro. Fonte: Save the Children ADOZIONI, IN TOSCANA LE RICHIESTE CALATE DEL 13% IN UN ANNO FIRENZE - Tornano a crescere le adozioni internazionali in Toscana nel 2011 rispetto

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all’anno precedente. Si conferma invece il trend negativo della disponibilità all’adozione da parte delle coppie, con le domande in diminuzione sia per la nazionale che per l’internazionale, fatte al Tribunale per i minorenni di Firenze. Cresce il tempo medio di attesa per le coppie, dalla presentazione della domanda all’adozione. Il rapporto definitivo sulle adozioni 2011, curato dal Centro regionale di documentazione su infanzia e adolescenza gestito dall’Istituto degli Innocenti, è ancora in fase di elaborazione ma ci sono già alcuni dati a disposizione. Nel 2011 il Tribunale per i minorenni di Firenze ha ricevuto il più basso numero di domande di adozione (nazionale e internazionale) dal 1999 (anno di avvio del sistema informativo regionale): 578 di cui 357 hanno presentato domanda sia per l’adozione nazionale che internazionale, 185 per la sola nazionale (di cui tuttavia la maggioranza -144 provenienti da altra regione) e 36 per la sola internazionale. Rispetto al 2010 la diminuzione raggiunge il 13% (664), mentre

rispetto al 2006, anno dove si tocca la punta massima dal 1999 (883), è stata del 34%. La contrazione del numero delle domande di adozione riguarda sia quella congiunta nazionale/internazionale che quella solo nazionale. Nel primo caso, dalle 574 coppie del 2004 si è passati a 357 (-38%). Nel secondo, dal valore massimo del 2006 (349) si è passati a 185 (quasi la metà). Nel 2011 si è registrato il numero più basso di sentenze di adozione nazionale dell’ultimo decennio: 22 bambini (-48 rispetto al 2003, valore massimo, e -12 rispetto al 2010). Se le domande di adozione internazionale sono diminuite, non altrettanto è accaduto per le adozioni internazionali che, dopo il lieve calo registrato nel 2010, sono tornate a crescere del 10% (da 353 a 388). L’età media dei richiedenti è invece cresciuta tra il 1999 e il 2011, sia per le donne che per gli uomini: per le prime ha raggiunto la soglia dei 40 anni, per i secondi è rimasta appena al di sotto dei 42. Rispetto al 1999 le coppie che hanno presentato domanda

di adozione sono, in media, di tre anni più grandi. Quelle che hanno fatto domanda di adozione nazionale hanno mediamente un’età più alta (42,1 anni per gli uomini e 40,3 anni per le donne). Nello stesso periodo l’età media all’adozione degli uomini è passata da 41,2 a 44,4 anni, per le donne da 39 a 43,1 con un incremento dell’età media ancora più alto di quanto fatto registrare dalle coppie aspiranti adottive. Anche quella dei bambini è aumentata, rispetto al 2010, di circa un anno: da 5,3 anni a 6,1. Aumenta il tempo medio trascorso dalla data della domanda a quella di adozione, sia per le nazionali che per le internazionali. Nel primo caso da 2,9 anni del 2003 (primo anno con dati a disposizione) si è passati a 3,8, nel secondo dai 2,9 sempre del 2003 si è passati a 4,4. Rispetto alla provenienza di bambini e ragazzi ancora la Federazione Russa al primo posto. Infine due confronti, uno nazionale e uno provinciale. In base ai dati della Commissione per le adozioni internazionali, nel periodo


2000-2011 i minori stranieri adottati in Italia sono stati 36.117, 4.022 solo nell’ultimo anno. In valore assoluto la Lombardia è in testa: 7.357, un quinto del totale. La Toscana, con 3.191 adozioni, incide per il 9%. Se confrontiamo il dato con la popolazione media residente minorile nel periodo 2000-2011 la Toscana ha il secondo tasso medio annuo più alto tra le Regioni (51 bambini adottati su 100mila 0-17enni residenti), dietro alla Liguria e abbondantemente sopra la media nazionale che si ferma a 30. A livello provinciale Firenze è prima tra le 110 province italiane, con 58 coppie richiedenti autorizzazione all’ingresso ogni 100mila coppie di 30-59 anni. Anche le altre province toscane, ad eccezione di Massa Carrara (23), hanno tassi molto al di sopra della media nazionale (27). Fonte: redattoresociale.it ABUSI, “LA MAGGIOR PARTE NON DENUNCIATA O NON CREDUTA” (DIRE - Notiziario minori) Roma, 13 nov. - L’abuso sui minori e’ un fenomeno in aumento, ma viene sempre meno riconosciuto e segnalato. Si

sta diffondendo una tendenza negazionistica, che impedisce di far venire a galla i casi. E’ un’accusa forte quella di Claudio Foti del Centro studi Hansel e Gretel di Torino, intervenuto in uno dei workshop del convegno “La tutela dell’infanzia”, in corso nei giorni scorsi a cura del centro studi Erickson. Per Foti “la maggior parte dei casi non viene denunciata o, nel caso, non viene creduta. Quando si viene a contatto con un potenziale abuso scattano difese massicce che ne impediscono il riconoscimento. Questo determina un oceano di falsi negativi di cui non ci si occupa”. La ragione di questa tendenza sta nella “perdita di capacita’ emotiva e apertura all’altro che caratterizza la societa’ d’oggi”. Se da un lato sta crescendo una cultura di attenzione verso i bambini riconosciuti come vittime di abuso, dall’altro “schiere di psicologi e avvocati sono a disposizione delle persone benestanti che possono permettersi una difesa forte, fatta di ricerche e perizie. Non a caso quando ci rechiamo in carcere non troviamo

neanche un sex offender che sia abbiente, ma solo poveracci”. E tutto questo mentre il fenomeno degli abusi e’, dall’esperienza di chi lavora sul campo, in aumento: “In una societa’ perversa caratterizzata dalla solitudine, la sessualizzazione cresce anche perche’ sono cadute le barriere etiche”, incalza Foti. Ma non e’ solo questo il nodo che contrasta la tutela dell’infanzia in Italia. La vera grande criticita’ e’ che si e’ smesso di ascoltare i minori, preferendo una logica adultocentrica che ha sbattuto la voce dei bambini in secondo piano. “C’e’ un’incapacita’ diffusa di garantire un ascolto serio e approfondito, un lavoro che richiederebbe risorse sociali, economiche ed emotive oggi assenti- spiega- Questo origina controsensi: succede ad esempio che non si fanno quasi piu’ allontanamenti da famiglie multiproblematiche, ma li si fanno in presenza di separazioni conflittuali, come nel recente caso di Cittadella. La protezione si e’ molto ridotta”. Fonte: direnews.it.it

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