Adozioni e dintorni - GSD Informa giugno 2014

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - giugno 2014 - n. 5

GSD informa

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giugno 2014 | 005

GSD informa

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editoriale

di Luigi Bulotta

psicologia e adozione

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Il gruppo come famiglia adottiva di Daniela Lisciotto Raccontare l’adozione di Ondina Greco giorno dopo giorno

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La principessa dell’Altay di Antonella Ferzi Una chiamata dalle origini di Greta Bellando Una gita esotica di Marta e Alberto leggendo

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Leggere, fare e raccontare di Marina Zulian

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trentagiorni

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

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impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze

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di Luigi Bulotta

Diritti vecchi e nuovi

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La sentenza della Corte Costituzionale che sancisce il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini anche nei casi di “madre naturale che ha scelto di non voler essere nominata”, apre un dibattito sociale e politico tra i sostenitori di tesi divergenti. Molti sostengono che ricontattare oggi quelle madri che hanno scelto di partorire in forma anonima per verificare il perdurare della loro scelta dell’anonimato, sia una intrusione nelle loro vite, una violenza che fa riemergere un passato che avevano chiesto di archiviare per sempre, con un concreto rischio di sconvolgimento dei loro rapporti familiari. Gli stessi ritengono che per il futuro, la possibilità che sulla decisione di partorire in forma anonima non cali l’oblio previsto attualmente dalla nostra legislazione (99 anni), e che è stato il motivo principale di tanti parti anonimi, possa aumentare il rischio di aborti e di abbandoni selvaggi, quando non di peggio anche di infanticidi. Di sicuro una madre che decide di partorire e di non voler essere nominata opera una delle scelte più difficili e dure che una donna possa fare, una scelta che merita tutto il nostro rispetto. Altrettanto rispetto però merita chi, non riconosciuto alla nascita, vive con sofferenza la privazione di una parte di sé e della propria identità e arriva alla determinazione di ricercare le proprie origini. Si tratta di una decisione che richiede senz’altro una notevole introspezione, l’accettazione dell’impatto che questa ricerca avrà sui rapporti familiari esistenti, la delusione a cui una scelta del genere inevitabilmente espone. Anche questa è una scelta che si compie non senza fatica e che merita tutto il no-


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stro rispetto. Ma siamo sicuri che nel mondo in cui viviamo oggi esista realmente una garanzia alla riservatezza? La legge che di fatto oscura i dati della madre non consentendone alcuna diffusione, non impedisce certo l’iniziativa personale e la rete è forse il canale di più facile accesso tramite cui una tale ricerca possa essere svolta. E’ facile imbattersi in siti web o pagine sui social network in cui appaiono bacheche con annunci in tal senso, in cui vengono fornite le poche informazioni di origine in proprio possesso e si attende e spera che qualcuno possa dire qualcosa di più. Vogliamo chiamarlo un “fai da te” di ritorno? Ma allora perché non mettere a punto delle regole e prevedere un intermediario istituzionale che non lasci solo chi si mette alla ricerca delle proprie origini, cercando così di superare il ricorso al “fai te”? Perché non immaginare che anche una decisione difficile e sofferta come quella di partorire e non lasciare traccia di sé possa essere soggetta a un ripensamento? Si potrebbe persino pensare di modificare l’attuale normativa sul parto anonimo. In questo potrebbe venirci in aiuto l’esperienza maturata da altri paesi europei laddove ad esempio prevedono che anche una madre che partorisce in forma anonima possa decidere di lasciare in forma pubblica alcune informazioni che non possono servire a identifi-


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carla (potremmo pensare, ad esempio, a informazioni sanitarie). D’altra parte bisogna pensare che anche la ricerca delle origini, così come l’abbandono, è mossa da molte diverse motivazioni e spesso è dettata anche solo da necessità di conoscenza, non sempre dalla volontà di recuperare rapporti. Quale tra il diritto alla riservatezza della madre e quello alla conoscenza di un figlio deve ritenersi prioritario? E’ fondamentale che, trattandosi di diritti entrambi legittimi, anche se spesso contrastanti, nessuno prevalga sull’altro e la discussione che si svilupperà nei prossimi mesi e che porterà alla modifica dell’attuale legge, così come la Consulta ha richiesto, ottenga il contributo più ampio possibile da parte di tutte le forze politiche e sociali. Solo così si potrà sperare di realizzare il grande equilibrio necessario affinché tutto possa coesistere nella maniera più armoniosa possibile. Volete farci conoscere il vostro parere su quest’argomento? Scriveteci a redazione@genitorisidiventa.org


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psicologia e adozione

a cura di Daniela Lisciotto psicologa, psicoterapeuta

Il gruppo come famiglia adottiva Considerazioni del lavoro psichico in un gruppo Parliamone Post

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Al sud, in una suggestiva location sul mare, un gruppo di persone, uomini e donne, si riuniscono un sabato al mese. E’ pomeriggio. Hanno a disposizione un’ora e mezza di tempo ma si fa fatica, di solito, a terminare l’incontro; anzi sembra che, allo scadere del tempo, ci sia sempre un altro intervento che introduca in una nuova storia, in altre riflessioni. Si tratta di uno dei gruppi dell’Associazione Genitori si Diventa (GSD) Parliamone Post, attivato a Messina e fortemente voluto da Luisa Ferlazzo e Gabriella Cacciola.

to e approfondimento, non solo delle problematiche adottive, sempre in divenire, quanto della condizione psichica ed esperienziale, armonica e/o conflittuale, dei singoli e dell’impatto e della ricaduta che questa ha nel gruppo. Idealmente proverò a farvi entrare nel gruppo attraverso la descrizione di ciò che avviene durante un incontro Parliamone Post a Messina.

so posto della volta precedente, che significa che “ognuno ha il suo posto relazionale”. Questa fase preparatoria sembra evocare il raccogliersi attorno ad un fuoco, dove si attende che avvenga qualcosa; è propedeutico al pensare, al pensiero di gruppo, come avveniva nelle tribù o nella dimensione rurale.

Il conduttore allora accende il gruppo con un interAppartenenza vento insaturo che ha lo al gruppo L’appartenenza si costru- scopo di raccogliere e chiaisce, non è automatica e mare i membri del gruppo quando c’è, si evince da al- alla partecipazione emocune semplici performan- tiva, invitando i pensieri di tutti a scivolare da un ce: Mi sento di dire, con fran- – la puntualità dei parteci- assetto mentale individuale ad uno gruppale; chezza e gratitudine, panti quanto la conduzione di – lo spegnimento dei cel- passaggio, questi, non del questo gruppo, continui ad lulari prima dell’inizio del tutto scontato e che avvia un cambiamento di stato essere per me momento di gruppo conoscenza, apprendimen- – l’occupare ognuno lo stes- e prevede ascolto recipro-


co, scambio e circolarità (il pensiero del gruppo). Avviene cioè che si formi un pensiero, - come una tela - prodotto da tutte quante le persone presenti, non da una sola. Qualcuno prende la parola, inizia la narrazione e si realizza, partendo dalle singole storie, un’unica grande Storia, con tante divaricazioni, che racconta di umanità, di dolore e di gioia, di speranze e delusioni, di aspettative e smarrimenti, di rabbia, di risentimento. Una narrazione adottata (è il caso di dirlo) da tutto il gruppo. Ogni incontro, una narrazione diversa, a cui tutti contribuiscono aggiungendo sempre qualcosa in più (aneddoti, ricordi personali, quesiti, perplessità). Si compone, così, la storia del gruppo e, al contempo,

si dà corpo a la memoria gruppale. Stare insieme in assetto di gruppo attiva un lavoro psichico. Dietro le parole che si dicono quasi con nonchalance, c’è un movimento psichico intimo che si snoda a diversi livelli e complessità e che tocca profondità imprevedibili.

interventi, il parlare sottovoce col vicino di poltrona ripetendo un’abitudine scolastica, la tendenza a formare piccoli sottogruppi che si esprimono contemporaneamente realizzando l’effetto babele.

L’ascolto include anche il silenzio; saper ascoltare il silenzio, saper stare in silenzio. Il silenzio può essere un’ L’ascolto angosciante; Non è scontato sapere esperienza ascoltare, anzi direi che, a esso mette in contatto con volte, c’è chi non può ascol- la propria solitudine ma, tare poiché ostacolato da nel converso, è anche una conflittualità interne irri- possibilità per ascoltare l’ solte che impediscono la inquietudine, non necessadisposizione serena e fles- riamente negativa, propria sibile all’ascolto dell’Altro. e altrui, e creare una “soMolto presto i membri del spensione”, uno spazio in gruppo hanno imparato cui essere capaci di aspetad ascoltare (non nel mero tare ciò che dovrà essere senso di sentire dei suoni). udito. Sono pertanto, nel tempo, Dovremmo imparare dalla diminuite le sovrapposi- Musica che presuppone ed zioni di voci, gli incroci di esige il silenzio, le pause,

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affinchè si sviluppi l’intera in pericolo o in forte imbarazzo psichico. Ecco allora sinfonia. che qualcuno farà ricorso Apprendere ad ascoltare, alla superficializzazione di comprende anche la capa- alcuni contenuti o proverà cità di accettare le diver- a banalizzare o negare. se posizioni, gli altri punti di vista e a non avere ne- Tutto quanto detto lega il cessariamente “sempre ra- gruppo come se esso stesso gione”; piuttosto tollerare diventasse una famiglia. le differenze di opinioni, Si può dire che il gruppo anche quando si tratta di diventa famiglia adottiva dei suoi stessi membri, temi molto forti. Accettare i contrasti, la laddove ognuno assume conflittualità emergente una parte, che, per dare efsignifica, in primis, essere ficacia all’esperienza grupcapaci di sentire il conflit- pale, dev’essere di volta in volta, modificabile, interto, non di negarlo. scambiabile, flessibile, mai Ascolto, silenzio e accetta- rigida e predefinita e dove zione sono strettamente le- deve trovare spazio il congati al rispetto che preve- traddittorio oltre alla conde l’astensione dal giudizio divisibilità. e dall’urgenza di essere pedagogici a danno di un più Quando ciò avviene il libero pensare che avvia gruppo assume al suo inverso altre e nuove consa- terno un movimento snello a favore di una pensabilità pevolezze. A volte ciò che emerge nel ricca, piena, “intelligente”, gruppo, attiva sentimenti sobria e sempre insatura ed emozioni contrastanti che dia cioè spazio, nuovo, e intollerabili; solitamente alla possibilità di attualizquesto provoca l’interven- zare la storicità dei vissuti to di meccanismi difensivi col modernismo reso dal che si attuano ogni qual buon lavoro psichico. Quevolta avvertiamo di essere sto, crea una migliore com-

prensione di sé e delle cose del mondo; una maggiore capacità critica, libera dalla componente super egoica fine a se stessa, produce sollievo e, di conseguenza, avanzamenti di stato. Attesa Il gruppo condivide anche l’attesa del prossimo incontro, attesa che i contenuti emersi vengano singolarmente e gruppalmente elaborati e che questo consenta il passaggio ad una fase successiva dove poter affrontare altro ancora non conosciuto. L’attesa si percepisce ogniqualvolta il gruppo ha difficoltà a separarsi, temporeggia nei saluti e sosta nel luogo dell’incontro ancora un po’ di tempo. Un’”abitudine” del gruppo messinese, nata causalmente e consolidatasi nel tempo come tutti i riti che si rispettano, è l’aperitivo. Sì, avete letto bene. Si può dire che l’ “aperitivo” fa ormai parte del gruppo, (per questo l’ho virgolettato) e quando “salta”, manca.


Alla fine dell’incontro, alcune persone del gruppo si soffermano nella suggestiva location (un porticciolo sul mare) a sorseggiare un cocktail accompagnato da sfizi mentre lo sguardo si perde nella vista dei cabinati e delle barche a vela che popolano lo specchio d’acqua che perimetra la location. L’ “aperitivo-post” diventa allora un interstizio, che accoglie contenuti del gruppo, la fatica appena conclusa del lavoro psichico, diverse sensazioni, pensieri, domande, lasciandoli in incubazione, sospesi tra l’oblio e la memoria…fino al prossimo incontro, fino al prossimo insigth. Per concludere, il gruppo è impegnato in un vero e proprio lavoro che comprende alcuni importanti momenti: – svelare, – conoscere – affrontare – superare. Devo purtroppo ricorre ad uno schematismo per sottolineare le operazioni con

cui l’individuo (e il gruppo) è chiamato a misurarsi ma il processo è dinamico. Lo svelamento è duplice, esso è riferito non soltanto alla conoscenza di un fatto concreto (il dossier del bambino adottato, la problematicità del figlio e delle dinamiche adottive, ecc) ma soprattutto all’esistenza del conflitto psichico inteso come fatto emotivo che si scatena dalla presa di consapevolezza. Nel primo caso lo svelamento può assumere per il genitore, le proporzioni di un trauma anche soltanto per “trasmissione”; egli può cioè compenetrarsi a tal punto da “sentire” emotivamente il trauma del figlio e assimilarsi a lui; nel secondo caso, le rivelazioni possono essere per lui talmente forti da risultare indigeribili, insopportabili. Ecco che torniamo ai meccanismi di difesa (negazione, banalizzazione, rimozione, scissione, ecc) che servono a scongiurare l’insopportabilità del dolore e garantire l’integrità della

propria mente oppure ad adottare comportamenti espulsivi e denigratori a danno del figlio. Si può sopportare lo svelamento?.. e si può superarlo? Si può poi guardare il figlio e sentirlo “proprio”?... Dipende dalla capacità di tollerare la presenza del conflitto e di farlo evolvere trasformandolo in comprensione. Questo significa che bisogna evitare di conoscere la storia del proprio bambino?...tutt’altro! Conoscere e quindi affrontare il conflitto interno è l’unico modo per superare il dolore, l’ambiguità, l’inquietudine. Dare spazio alla conflittualità è il modo per sapere di sé, valorizzarla è un passo verso il superamento, che non comporta l’eliminazione del conflitto, piuttosto la presa in carico del conflitto stesso; è il progresso della conoscenza; negare la conflittualità o edulcorarla, rafforza il turbamento e indebolisce.

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psicologia e adozione

di Ondina Greco *Psicologa, psicoterapeuta, Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia; Servizio di Psicologia clinica per Coppia e Famiglia, Università Cattolica, Milano

Raccontare l’adozione

Il riferimento alle origini nei libri italiani per bambini sull’adozione internazionale 12

(Revista Familia, Instituto Superior de Cencias de la Familia, Universidad Pontificia de Salamanca, n. 48, marzo 2014, pp. 47-60) Introduzione Come raccontare l’adozione ai figli adottivi? Da quando la legge italiana 149/2001 ha esplicitamente richiesto ai genitori adottivi di parlare al figlio della sua origine adottiva, il tema del racconto delle origini è diventato cruciale nella famiglia adottiva, poiché parlare del passato mette in questione natura e finalità del legame adottivo. Del resto, a seconda dell’età del bambino al momento dell’adozione, il compito dei genitori adottivi può essere molto diverso. Se il figlio è stato adottato molto piccolo, solo crescendo egli si renderà conto

dell’eventuale differenza somatica, e comunque della peculiarità della sua storia, soprattutto nel confronto con i pari, nella scuola materna, e più ancora alle elementari, e il compito dei genitori è quello di aiutarli a comprendere la loro storia e ad accettare positivamente l’inserimento nella famiglia adottiva, come un’opportunità per una crescita serena e ricca di potenzialità. Se invece il figlio è stato adottato in età prescolare o scolare, come sempre più frequentemente accade in Italia riguardo all’adozione internazionale, la funzione dei genitori adottivi - oltre a quella di offrire cura e facilitare l’inserimento del bambino nella famiglia estesa e nella comunità di arrivo - sarà quella di accogliere e valorizzare i ricordi e le domande che egli porrà loro, e prima an-

cora di farlo sentire libero di chiedere e di comunicare frammenti di ricordo o di fantasie, di esprimere emozioni e sentimenti, per ricomporre gradualmente i capitoli della sua storia. Il processo di ricordo e di riflessione sul passato richiederà al figlio di attraversare sensazioni di perdita e sentimenti di lutto, che non sono estranei neppure ai genitori adottivi, che dal canto loro devono passare più volte nel tempo attraverso il dolore per l’infertilità e il lutto per un figlio biologico mai nato (Greco, 2006). E’ molto importante sottolineare che raccontare l’adozione ai figli adottati non costituisce un evento puntuale nel tempo, ma piuttosto un processo in cui il desiderio di comprensione da parte dei bambini riaffiora più e più volte durante la loro crescita,


man mano che l’evoluzione cognitiva pone le stesse questioni in modo diverso, e “il noto diventa nuovo” (Bozzo & Cavanna, 1994). Brodzinsky (2014) ricorda che solo attorno ai 6-8 anni d’età i figli adottivi iniziano a mostrare una comprensione più realistica di cosa significhi l’adozione. Quando essi iniziano a capire le implicazioni legate allo status adottivo della propria famiglia, divengono sempre più sensibili al senso di perdita legato all’adozione. In particolare, la conoscenza della fisiologia del concepimento e della nascita, la comprensione dell’esistenza di legami di sangue nella maggior parte delle altre famiglie, lo sviluppo della capacità di ragionamento logico e,

nella preadolescenza, del pensiero astratto, mettono il figlio adottato di fronte alla complessità della sua storia con nuovi punti interrogativi e nuovi sentimenti da fronteggiare. Spesso i genitori adottivi, in difficoltà nell’iniziare il dialogo con il figlio sul delicato tema dell’abbandono-inserimento in una nuova famiglia, ricorrono a fiabe o racconti che, attraverso intriganti metafore, aprano la riflessione sulle caratteristiche particolari delle loro relazioni familiari. Di qui nasce l’interesse clinico per il contenuto delle fiabe, che rappresentano potenti strumenti di comunicazione all’interno delle famiglie adottive

La ricerca In questa sede, l’obiettivo è illustrare le immagini che fiabe e racconti(1) offrono ai bambini rispetto ai personaggi principali del percorso dell’adozione, mostrando l’orizzonte rappresentazionale (Sandler, 1962) che viene via via disegnato all’interno dei racconti. Per raccogliere gli aspetti comuni a tutte le storie, ci vengono in aiuto le categorie di analisi del racconto proposte da Greimas (1973), che qui vengono declinate secondo la vicenda dell’adozione. Il protagonista ( i genitori adottivi) è incaricato da un secondo (Autorità del Paese di origine/ del Paese di arrivo) di fare qualcosa (andare a prendere il bambino, por-

La ricerca a cui questo contributo fa riferimento è stata condotta attraverso la lettura e l’analisi tematica di 52 tra fiabe e racconti pubblicati in Italia dal 1995 al 2012 per raccontare l’adozione internazionale a bambini in età prescolare e scolare, dai 5 ai 10 anni circa (Greco, 2013).

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tarlo con sé in Italia e accoglierlo nella propria famiglia), e in questo è aiutato da un quarto (operatori sia italiani sia del paese di provenienza), a beneficio del bambino. Ma c’è un’ultima categoria indicata da Greimas, che per ora lasceremo in sospeso: il protagonista nello svolgimento del suo

incarico è ostacolato da un terzo (Oppositore) - e possiamo chiederci se esista e chi svolga la funzione di oppositore nell’avventura dell’adozione. Per rintracciare quale immagine di adozione si ricavi dalla totalità dei racconti presi in considerazione, essi sono stati dapprima analizzati come un unico

corpus, attraverso lo strumento informatico di T-lab (Lancia, 2004)(2): riguardo a tale complessa analisi in questa sede si riportano solo due elementi che appaiono particolarmente significativi. Prima di tutto osserviamo quali siano i personaggi più nominati in questi racconti:

Si può osservare come le occorrenze più frequenti riguardino il figlio adottato e la famiglia adottiva, mentre la famiglia biologica e i care-givers che si sono presi cura del bambino prima

dell’adozione risultano essere molto meno presenti nelle storie esaminate. Si comprende così come fiabe e racconti, pur proponendosi di spiegare il processo adottivo, siano in realtà

orientati sul presente più che sullo svolgimento della storia. Ma ci si può chiedere allora se questi racconti siano strumenti adeguati per aiutare il bambino a comprendere che cosa sia

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T-Lab è un software che permette l’analisi di materiale testuale ed è costituito da un insieme di strumenti linguistici e statistici per l’analisi di contenuto e per il text mining. Dopo un lavoro di codifica dei termini con uno stesso significato (ad esempio, figlio e bambino) sotto uno stesso lemma, il lavoro di analisi è orientato a stabilire relazioni tra le unità di analisi, per fare inferenze sul significato contestuale delle parole, attraverso le matrici di occorrenze (numero di volte in cui i diversi lemmi sono presenti all’interno del corpus o delle sue parti) o matrici di co-occorrenze (numero di volte in cui due lemmi significativi risultano contemporaneamente presenti). 2


successo e a riconoscere un qualche tipo di connessione con il proprio passato, ponendo le basi per trovare nel tempo la modalità di integrazione più consona alle proprie capacità e ai propri desideri. In fondo, l’oggi è già a disposizione del bambino, fa

parte della sua vita quotidiana; sono l’esperienza preadottiva e il processo di passaggio da una realtà all’altra che richiedono di essere focalizzati, in quanto possono costituire, a seconda dei casi, fantasie o ricordi a volte vividi, a volte evanescenti, ma

spesso inquietanti, che il figlio adottato ha bisogno in qualche modo di mettere a tema. In secondo luogo, è interessante osservare a quali categorie appartengano le forme verbali utilizzate più frequentemente nei racconti:

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Da questo secondo istogramma, possiamo osservare come i verbi che rimandano ad azioni (guardare, prendere, arrivare…) siano sei volte più numerosi delle forme verbali che rimandano ad emozioni e sentimenti, quali sentire, sorridere, piangere… La stessa struttura del rac-

conto prevede, com’è ovvio, E’ necessario, tuttavia, che venga narrata una se- approfondire nelle singole quenza di fatti e di azioni, storie (3) come siano declima i pochi rimandi a senti- nati i temi cruciali. menti ed emozioni sembra- In questo secondo tipo di no far trasparire un atteg- analisi di contenuto, rigiamento di difesa contro saltano, al contrario che il rischio di un’irruzione in T-Lab, le differenze tra di emozioni di segno nega- i diversi racconti, poiché tivo, a cui sarebbe arduo vengono sottolineati gli fare fronte. elementi distintivi di cia-

Sono stati sottoposti ad analisi “carta-matita” 45 racconti, escludendone 7, a causa della eccessiva lunghezza. 3


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scuno di essi rispetto a specifici topoi, individuati attraverso sia la riflessione teorica, sia l’esperienza clinica: come vengono rappresentati i diversi protagonisti? quando si fa iniziare la storia? Come vengono descritti il primo incontro e il lieto fine? E a chi viene attribuita la responsabilità dell’abbandono? In questa sede mostrerò degli esempi di rappresentazioni contrastanti dei diversi protagonisti rilevate in differenti storie: alcune radicalizzate, sia di segno positivo, sia negativo; altre più complesse, con un intreccio di qualità e di limiti, come accade nella realtà. L’obiettivo di questa scelta è mostrare lo spettro e la varietà del mondo rappresentazionale (Sandler, 1962) che le storie veicolano, e che spesso sembra

muoversi verso gli estremi di un continuum che tiene al centro immagini più realistiche e complesse. Riguardo ai protagonisti, si può osservare come bastino poche pennellate per fissarne la rappresentazione in un’area del tutto positiva o al contrario in un territorio semantico decisamente negativo. Così in una storia il bambino “è bellissimo, ha le guance paffute… sta bene, è un bambino vivace e curioso…”, mentre in un’altra il bambino è rappresentato prossimo alla morte: “Giovannino allora smise di piangere e pensò che presto sarebbe morto se nessuno fosse corso in suo aiuto…” Analogamente, i genitori adottivi in un racconto sono presentati come depositari di ogni virtù: “tutti gli aspiranti genitori dal cuore grande e gene-

roso sono pregati di presentarsi all’ ospedale…”, mentre in un altro il problema dell’infertilità viene descritto in termini atroci e fa della mamma adottiva una vittima da consolare: “C’era una mamma pesciolina a cui uno squalo cattivo aveva mangiato i piccoli”; invece in una terza fiaba la rappresentazione della futura madre adottiva comprende insieme limiti e risorse: “C’era un canguro in disparte, era Rina: la sua tasca era vuota e non aveva mai portato il dolce peso di un cucciolo…non ho le ali…ma ho zampe per procurarmi cibo e per cullare, e un morbido marsupio per proteggere un cucciolo”. La stessa polarizzazione è rintracciabile nei racconti a proposito della madre naturale, presentata in un piccolo numero di racconti come una figura positiva,


che ha lasciato qualcosa di buono e di bello al bambino: “la tua prima mamma, la mamma Florentina. Fino a tre anni sei rimasto sempre con lei e lei con te. Sulle sue spalle, avvolto nello scialle colorato, hai percorso le strade della Bolivia, ti ha insegnato a camminare, parlare, sorridere ed amare”. In un numero maggiore di storie, al contrario, l’immagine della birth mother è negativa, a volte in un crescendo sottile ma sempre più angosciante, come in questo caso:“..Anche la mia mammina era felice perché la sua pancia, che era stata molto grossa e pesante, adesso era più leggera. Ma era anche un po’ triste perché non mi poteva tenere con sé. Forse abitava in una casa stretta e non sapeva dove mettermi…forse aveva una malattia contagiosa… forse era vecchia

come la strega bacucca…”. Relativamente a questo tema, è molto interessante rilevare l’azione di “diminuzione” che molte storie operano relativamente alla madre biologica, nel confronto con quella adottiva, attraverso precise scelte linguistiche. In alcune fiabe, la “tua mamma” indica, tout court, la mamma adottiva. In altre troviamo un rapporto dialettico tra madre biologica e madre adottiva, in cui la seconda risulta invariabilmente vincente: “una donna” versus “la tua mamma”; mammina (minuscolo) versus Mamma e Papà; “mamma di pancia” versus “mamma di cuore”; “mamma e papà” versus “la tua mamma e il tuo papà”. E’ significativo osservare anche come venga delineata la terra di origine del bambino, rappresentata in modo molto diverso nelle

differenti storie. La stessa nazione, ad esempio, viene descritta, in due diversi racconti, in modo opposto: nel primo caso troviamo: “Arrivati in Ucraina videro che era un bellissimo paese ”; nel secondo le connotazioni attribuite alla terra d’origine sono solo negative: “ (i genitori adottivi) incontrarono finalmente un signore vestito di blu…aveva bevuto un po’ troppo…Il cielo non era molto bello: si vedevano dei grandi camini da cui usciva un fumo nero nero…le case erano dai colori tristi!” Anche l’immagine dei caregiver temporanei, figureponte che si prendono cura del bambino tra il momento dell’abbandono e quello dell’adozione, sembra registrare, in alcune storie, un movimento verso il polo positivo: “In un paese lontano…c’è la casa dei

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bambini. .. In quella casa le buone tate si prendono cura di loro…proprio come farebbero le loro mamme”; in altre, al contrario, subire una trazione verso l’estremo negativo:“Le streghe avevano portato Giovannino nella loro casa, dove vivevano anche degli enormi orchi, e lo avevano rinchiuso in una gabbia.” Gli aiutanti dei genitori adottivi - i servizi sociogiuridici e gli operatori degli enti autorizzati – in una narrazione presiedono un passaggio ordinato e pieno di significato: “Poi i saggi consiglieri hanno detto a mammina che c’erano un Papà e una Mamma che desideravano tanto crescere una bambina bella come te; in un altro racconto, invece, sono annunciatori di vicende tragiche da bonificare miracolosamente: “Abbiamo saputo dallo Gnomo del bosco, che

ha girato a lungo per tutto il mondo, che in un paese molto lontano dal nostro vive un bambino prigioniero delle streghe che lo tengono chiuso in gabbia”. Anche l’immagine della comunità di arrivo può essere molto diversa: solo positiva in alcuni racconti: “quando arrivarono a casa…trovarono … gli amici sulla porta ad aspettarli…C’erano i nonni e anche gli zii….e tantissimi bambini….”; più complessa in altri, dove si dà voce anche alla sensazione di diversità/estraneità, in questo caso da parte dei compagni del figlio adottato: “Gli altri bambini si stupivano che fosse tanto diverso da loro…. Spesso i compagni lo deridevano perchè lui, invece della corazza verde, aveva il pelo candido…”. In un’unica fiaba, il figlio adottivo non è solo la per-

sona da accogliere, ma ha a sua volta qualcosa da dare agli altri: Crictor (un serpente, simbolo del figlio adottato) giocava volentieri con i bambini… e naturalmente anche con le bambine. Faceva vedere ai boy-scout come si fa un nodo. Crictor aiutava tutti volentieri”. E’ rilevante inoltre considerare il momento in cui viene fatta iniziare la storia, perché l’inizio del racconto può dare voce o al contrario censurare la figura e il ruolo dei genitori biologici. E’ innanzitutto interessante notare come solo un piccolo numero di storie inizi descrivendo la situazione della famiglia naturale prima dell’abbandono. Dove accade, l’immagine della madre naturale viene descritta positivamente: “C’era una volta una Mamma Uccello che viveva su


un albero di gelso. Era piccola e giovane, ma molto forte…” o, in un’altra storia: “C’era una volta una grande isola…Per giorni e giorni l’uccello covò il suo uovo, lo protesse dai raggi di sole di giorno e dalle brezze la notte…” Più frequentemente, la storia comincia dopo l’abbandono, escludendo dal discorso e dalla riflessione la prima fase della storia del figlio adottato. In un racconto, l’abbandono ha lasciato dietro di sé qualche cosa di positivo: “Sulla porta della Chiesa di San Pietro, una piccola suora aveva trovato un bambino bellissimo avvolto in una coperta gialla…”; in un altro racconto l’abbandono dà inizio a una serie di tragedie terribili: “C’era una volta un bambino di nome Giovannino. Il bambino appena nato era stato abbandonato nel bosco e lì

era stato rapito da alcune streghe cattive…”. La prima fase della storia del figlio adottato – il periodo più o meno lungo vissuto con la famiglia d’origine e con i care giver prima dell’adozione – non risulta in primo piano o viene sottaciuto anche in alcuni racconti, in cui la storia comincia dalla situazione di vita dei futuri genitori adottivi, che a volte viene descritta con connotazioni positive: “Era quasi mattino, ma i quattro agnellini stavano ancora dormendo profondamente stretti stretti alla loro mamma (futura mamma adottiva)”, a volte, invece, sottolinea unicamente gli aspetti di mancanza vissuti dalla coppia: “C’era una volta una coppia di cerbiatti che ogni giorno diventava sempre più triste e sconsolata”. In una storia, l’esordio de-

scrive il periodo dell’attesa nella futura famiglia adottiva fino alla partenza per l’incontro con il bambino: “Mamma…ma…quando arriva il mio fratellino?” “Non lo so, Sara, speriamo di avere qualche notizia presto…stiamo aspettando…” In poche narrazioni, la storia comincia dopo l’adozione e in questi casi la situazione viene descritta come serena e senza conflitti: “E’ una bella giornata di sole…e Sheffali l’ha passata al mare, con la sua mamma (adottiva)…” E’ prevedibile poi che il primo incontro sia ricordato nelle fiabe con un timbro di idealizzazione, momento magico in cui l’attaccamento reciproco “sboccia magicamente”, mentre sappiamo che la nascita di una relazione è un processo che richiede del tempo e attraversa molte difficoltà:

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“E nell’istante stesso in cui lo videro lo amarono”, o, in un’altra storia: “La porta si aprì…ed ecco la magia: la donna prese in braccio il bambino e si trasformò in una mamma, il bambino si trasformò in un figlio stretto alla sua mamma e l’uomo si trasformò in un papà” Non in tutti i racconti viene affrontato il tema della differenza tra il figlio che viene da lontano e le persone del contesto di arrivo. Dove viene trattato, esso è visto come una complessità che genitori e figlio incontrano ad un certo punto del loro rapporto e sono chiamati a sostenere insieme, fino ad arrivare a qualche forma di integrazione: “ All’inizio, quando era ancora piccolo, Doremì era felice con mamma e papà…qualche tempo dopo…Doremì cominciò a porsi delle domande…

così era sempre più arrabbiato, con se stesso e con gli altri… I genitori non riuscivano a capire il suo comportamento” Dopo un periodo difficile, il figlio adottato, aiutato dai genitori, accetta la propria differenza come un aspetto positivo della realtà: “Doremì non assomigliava per niente alla mamma, e ancor meno al papà. Ma tutti e tre insieme vivevano in armonia, ed erano molto felici”. In un’altra storia, invece, il malessere del figlio adottato è attribuito non ad un elemento di realtà che ha bisogno di essere compreso ed elaborato, ma ad un incantesimo – quindi a qualcosa di soprannaturale di cui si può essere solo in balia, e della cui risoluzione nessuno può prendersi la cura né la responsabilità: “passarono i giorni e il re e la regina erano sempre

più preoccupati per Giovannino, perché se ne stava sempre triste e solo…(I maghi dissero) ‹purtroppo a Giovannino è stato fatto un incantesimo potente che durerà per molto tempo. Tale maleficio impedisce al principino di essere felice” Il tema fondamentale resta comunque l’attribuzione della responsabilità dell’abbandono del bambino. In un piccolo numero di racconti, la responsabilità è della cattiva sorte, e sono le narrazioni in cui, parallelamente, la figura della madre naturale viene tratteggiata positivamente: “La sua vita (della mamma naturale) scorreva tranquilla con il piccolo Ruslan, finché un giorno un incidente portò su una stella la vita della donna”, o, in un’altra fiaba: “Sin dall’inizio del mondo, disse Gufo, è successo tante vol-


te che una mamma avesse un piccolo che amava, ma per quanto si sforzasse non riusciva a dargli ciò di cui aveva bisogno”. In altri racconti, al contrario, la responsabilità dell’abbandono è chiaramente attribuita alla madre o ai genitori naturali, gettando una luce sfavorevole sui genitori di nascita: “non è facile fare la mamma e il papà… Qualcuno non riesce proprio a essere Orsa Mamma o Orso Papà e allora lascia il proprio cucciolo nel Prato dei Cuccioli Soli” o ancora, in un’altra storia:“sappiamo solo…che non erano capaci di occuparsi di te e allora ti hanno lasciato nel Paese dei Bambini Soli”. In due racconti, sorprendentemente, la responsabilità della frattura con la famiglia naturale è attribuita al figlio adottato, che possiede delle caratteristiche che lo portano necessariamente altrove: “La donna che l’aveva tenuta nella pancia però ben presto si era resa conto che non poteva essere la sua mamma. La bambina infatti aveva sempre lo sguardo verso l’alto e, anche se nessuno poteva vederle, sulle sue spalle c’erano due grandi ali. Era una bambina che voleva volare.” E, in un altro racconto: “Ma Akun si svegliò e si ritro-

vò a volare… Mamma e papà (naturali) piangendo, lo portarono dal dottore: ci aiuti, nostro figlio non ha i piedi per terra. .. Mentre la luna calava Akun si alzò in volo… e si unì ad uno stormo di uccelli diretti verso la calda Africa. Laggiù quello strano bambino riconobbe subito il povero villaggio dei suoi veri genitori”. Suggerire al bambino che l’origine della vicenda adottiva è a suo carico ha come conseguenza che il figlio finisca con il sentirsi responsabile delle difficoltà passate e presenti, ma questa visione stravolge la realtà, perché il minore ovviamente è l’unico protagonista “oggetto” di decisioni altrui e quindi a priori “senza colpe”. Altrettanto inquietanti sono quei racconti che celebrano l’impossibilità di trovare un senso alla vicenda adottiva: “Poi una mattina l’uovo si schiuse e inspiegabilmente l’uccello dalle piume lucenti di mille colori si alzò in volo” o, in un altro racconto: “Una donna …ha deciso di lasciarlo qui. Non sappiamo perché l’ha fatto”. Se non ci possono essere spiegazioni, il figlio adottivo sentirà le proprie domande e i propri interrogativi su ciò che è successo inutili o, peggio, assurdi, e si trove-

rà nella difficoltà, se non nell’impossibilità, di esprimerli apertamente. Ben diversa allora risulta l’immagine di adozione, che emerge dai diversi racconti: in uno di essi tema da non focalizzare, che va lasciato quasi al di fuori dell’area di consapevolezza:“E fu così che scivolai senza quasi accorgermi dalle braccia della mammina a quelle di Mamma e Papà”; in un altro, al contrario, è frutto di due intenzionali e complementari gesti d’amore: “tua mamma non ti ha dato via. Che brutta parola! Tua madre ti ha lasciato nella casa dei bambini, perché le persone che lavorano lì ti trovassero una mamma nuova e un nuovo papà che potessero prendersi cura di te, e farti crescere bene”. Differente, infine, è il profilo del lieto fine, che nelle storie, al di sotto delle diverse vicende particolari raccontate, può essere categorizzato in due generi fondamentali. Il primo genere di racconti descrive un inserimento a pieno titolo nella famiglia adottiva, ma con una logica di esclusione- rimozione della parte di storia e delle figure prima incontrate: “( i genitori adottivi e il figlio adottato) spiegarono tutti e tre le loro ali, si alzarono

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in volo e salirono nel cielo azzurro fino a che furono così lontani da sembrare una cosa sola, un grande cuore con le ali”; o, in un altro racconto: “Poi felici presero l’aereo e tornarono in Italia, per incominciare una nuova vita, insieme nella loro casetta”. Nel secondo gruppo di storie, molto meno numeroso, invece, il lieto fine richiama un orizzonte più complesso, in cui sia il presente che il passato trovano il loro posto e il loro significato: “Essere adottato, decise, significava aver due famiglie: una lontana lontana e mai dimenticata, e una che la mattina lo salutava al risveglio, con i genitori che lo abbracciavano con il caldo battito dei corpi piumati e il coro rumoroso del loro canto”; o, ancora, “Ora so di essere un lupo, disse Nuvolino, ma voi pecore (famiglia adottiva) siete la mia famiglia e io vi proteggerò sempre” Riflessioni cliniche

Come si è visto, attraverso la metafora delle fiabe o attraverso un racconto semplice, che si riferisce ad esperienze quotidiane, le narrazioni prendono posizione su temi chiave dell’adozione. Un primo topos interessante riguarda un tema cruciale: ci sono una mamma o due mamme? La soluzione più radicale che alcuni racconti trovano è sopprimere il riferimento alla madre biologica, facendo iniziare la storia nella fase successiva all’abbandono, oppure, come si è visto, operano sottilmente una diminuzione del valore della madre biologica in relazione a quello della madre adottiva, attraverso scelte linguistiche mirate. Un approfondimento merita l’opposizione tra “mamma di pancia” e “mamma di cuore”, che appaiono curiosamente unite in un passaggio di uno dei racconti: “e le onde del mare adesso portano via con sé

(il messaggio nella bottiglia) lontano lontano…fino al cuore della tua mamma di pancia…” Ma, potremmo chiederci, le mamme di pancia hanno un cuore? E le mamme di cuore hanno una pancia? La definizione dei due termini “cuore” e “pancia” ci aiuta ad approfondire a che cosa alluda questa opposizione. Il cuore è sede dell’affettività e della emotività, simbolo della vita interiore e della coscienza morale dell’uomo; il termine è associato con i sostantivi coraggio, generosità, sensibilità, sentimento…e con i verbi vibrare, balzare, saltellare, giocare… La pancia è invece la sede dei bisogni e degli istinti (compresa la sessualità), e questo termine è associato con pancetta, panciuto, pancione, spanciata e con le espressioni di pancia… stare in panciolle …quindi con parole che sottolineano il concedersi agli istinti meno nobili, come riem-


pirsi il ventre od oziare. Viene operata dunque una scissione pericolosa per l’immagine di entrambe le figure femminili! Opporre infatti la generatività psicologica (il cuore) alla generatività fisica (la pancia), oltre a non rendere giustizia né alle birth mothers né alle mamme adottive, propone ai figli una scissione che non li aiuterà nella crescita, in particolare quando, giovani adulti, si troveranno di fronte alla scelta di avere un figlio (Greco, 2010). In quella situazione, quale potrà essere il loro riferimento? Allargando lo sguardo dalla madre biologica all’immagine più ampia di origine che viene trasmessa nei racconti, è importante sottolineare che poter pensare di avere qualche cosa di positivo dietro di sé (rispetto alla propria famiglia naturale, ai caregivers transitori o almeno alla propria terra di origine) ha conseguenze feconde per il figlio sia sulla immagine di sé e quindi sullo sviluppo della sua autostima, sia sulle relazioni nella famiglia adottiva: relazione che solo in questo modo può costruirsi simbolicamente alla pari, perché ciascuno ha dei doni per l’altro… Infatti, l’adozione è da considerarsi un innesto tra

due parti altrettanto vitali. Per sua definizione, l’ innesto comporta l’inserimento, con varie modalità, in una pianta di una porzione d’altra pianta della stessa specie o di specie diversa, allo scopo di migliorarne la qualità o ringiovanirla. E’ significativo sottolineare come l’adozione sia un percorso nel quale familiare ed estraneo si intrecciano: ciò che è dentro e ciò che è fuori (estraneo, da extra), in relazione tra loro, innescano un processo di scambio senza mai consumarsi totalmente. Il rischio è che l’accelerazione del processo di apparentamento finisca con la negazione dell’estraneità, cioè della diversità del figlio, destinata comunque a riapparire nel tempo (Malagutti, Milano, 2013). Ecco allora apparire la figura dell’oppositore (Greimas, 1973). L’oppositore nelle storie di adozione – nelle fiabe come nella realtà - è la tendenza alla negazione, alla riduzione o all’oblio del rapporto dialettico tra presente e passato, la prevaricazione di un polo sull’altro, quando un aspetto si isola tentando di affermarsi come assoluto (Greco, 2010). È compito degli adulti – genitori ed operatori – sostenere il figlio adottivo in

questo cammino di integrazione non facile e mai concluso… Conclusione Un’attenta lettura dei racconti sull’adozione internazionale fa comprendere come essi rappresentino un mezzo potente per parlare delle origini nella famiglia adottiva, ma bisogna porre attenzione a ciò che viene comunicato! L’immagine di adozione che ne deriva può infatti variare da una immagine polarizzata – tutto il positivo al nuovo contesto adottivo, tutto il negativo al mondo delle origini – ad una rappresentazione meglio integrata, con aspetti positivi e limiti in entrambi i poli, sia quello dell’origine che quello adottivo. In Italia, spesso le fiabe o i racconti sull’adozione sono creati da genitori adottivi, che frequentano un percorso di gruppo nel periodo post-adozione, ma è molto importante che i racconti, una volta scritti, vengano ripensati e commentati con gli operatori e ne venga discusso il significato, invitando i genitori adottivi a mettersi nei panni del figlio adottato, per comprendere meglio quali risonanze potrebbero avere per lui i diversi aspetti del racconto.

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CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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giorno dopo giorno

di Antonello Ferzi

La principessa dell’Altay Storia di un’adozione - parte prima 26

Introduzione Un meraviglioso fiore e sbocciato nel giardino delle nostre vite, l’alba della nuova esistenza ci ha guidato nel descrivere gli stati d’animo, le emozioni, i tormenti che hanno proceduto un vero e proprio “parto adottivo”. La nostra vicenda si e svolta prevalentemente in Federazione Russa, nella Siberia meridionale, nel Kray dell’Altaj , tra le citta di Barnaul e Bijsk. Per introdurla ci piace ricordare quanto Papa Giovanni Paolo II disse, ricevendo, il 5 settembre 2000 a Roma, un gruppo di genitori adottivi: “Adottare dei bambini, sentendoli e

trattandoli come veri figli, significa riconoscere che il rapporto tra genitori e figli non si misura solo sui parametri genetici. L’amore che genera e innanzitutto dono di se. C’è una “generazione” che avviene attraverso l’accoglienza, la premura, la dedizione. Il rapporto che ne scaturisce e cosi intimo e duraturo, da non essere per nulla inferiore a quello fondato sull’appartenenza biologica. Quando esso, come nell’adozione, e anche giuridicamente tutelato, in una famiglia stabilmente legata dal vincolo matrimoniale, esso assicura al bambino quel clima sereno

e quell’affetto, insieme paterno e materno, di cui egli ha bisogno per il suo pieno sviluppo umano. Proprio questo emerge dalla vostra esperienza. La vostra scelta e il vostro impegno sono un invito al coraggio e alla generosità per tutta la società, perché questo dono sia sempre più stimato, favorito e anche legalmente sostenuto”. La telefonata Affrettati Agnese, lo scuolabus sarà qui a momenti. Non dimenticare lo zaino, mi raccomando, e fai la brava a scuola. Un dolce abbraccio, un bacio su una guancia e il mio sguardo l’accompagna in strada,

Il Territorio dell’Altaj (in russo: Алтайский край) e un kraj della Russia, nel Distretto Federale Siberiano. Confina con il Kazakistan, l’Oblast di Novosibirsk e l’Oblast di Kemerovo e la Repubblica dell’Altaj. Il centro amministrativo della citta e Barnaul. Il principale corso d’acqua della regione e il fiume Ob’. La regione si estende per 169.100 km2 ed ha una popolazione di circa 2,6 milioni (nel 2002). Con più di 600.000 abitanti, Barnaul e la piu grande citta della zona. Nel kraj ci sono 60 distretti e 12 citta (come Bijsk, Alejsk, Slavgorod).


tra pochi giorni, il 27 marzo 2013, la nostra bambina compirà nove anni. Gli otto vissuti accanto a lei sono trascorsi cosi velocemente. Ricordo come se fosse adesso quel mattino di lunedì 4 ottobre 2004 quando ho ricevuto la telefonata che cambio per sempre la nostre vite… “Pronto Antonello, ciao, sono Donatella dell’associazione. Reggiti forte che ho una bella notizia. Tra pochi giorni dovrete partire per effettuare l’abbinamento con un bambino in Federazione Russa… pronto mi ascolti? Antonello mi ascolti…” “Si Donatella, scusami, ma sono cosi emozionato”. “Dovremmo vederci al più presto per definire ogni cosa”. “Si, si certo. Federazione Russa d’accordo, ma dove di preciso, la Russia e tal-

mente grande!” “Dovrete andare in Siberia”. “Starai scherzando spero!” “No, niente affatto, proprio in Siberia, la citta si chiama Barnaul”. “Barnaul! Mai sentita, ok Dona, quando ci vediamo?” “Fammi pensare. Se per voi va bene possiamo vederci anche domani, d’accordo?” “Si, credo che domani possa andar bene”. Abbandono in fretta il posto di lavoro e mi dirigo velocemente verso casa. Non sto nella pelle, non vedo l’ora di condividere con mia moglie Patrizia questo momento. Durante il tragitto mi sfiorano mille pensieri e mi avvolge una dolce consapevolezza, sta iniziando la nostra rinascita, inseguita, voluta, mai abbandonata. Arrivo a casa, salgo le scale leggero e veloce come un

insetto, non apro, ma attraverso le porte e sono già negli occhi di mia moglie. “Ciao amore, apri bene le orecchie, ho una cosa importantissima da dirti: mi ha telefonato Donatella dall’associazione, dobbiamo partire per effettuare un abbinamento in Federazione Russa”. Patrizia rimane in silenzio, uno sguardo e ci uniamo in un abbraccio lunghissimo allentato soltanto da teneri singhiozzi. Il tempo di respirare e ci tuffiamo immediatamente dentro un atlante geografico, cerchiamo disperatamente questa benedetta Barnaul. “Santo Dio”, esclama Patrizia, “quant’è lontano!” “E già, oltretutto dovremo necessariamente viaggiare con gli aerei, ed io non so proprio come fare, conosci perfettamente le mie paure”. “Dai, adesso non ci pensa-

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re, vedrai che troveremo senz’altro una soluzione”. Alle 9.00 di martedì 5, puntuali come due lord inglesi, siamo già all’interno dell’associazione per parlare con Donatella. “Allora ragazzi, siete contenti?” “Non aspettavamo altro”. Rispondo allungando il sorriso negli occhi di Patrizia. Donatella ci spiega tutto nei minimi dettagli, ci elenca i documenti da produrre e ci ricorda che prima della partenza dovremmo coordinarci con Mila. Mila e la referente nonché interprete dell’associazione, prepara la documentazione e assiste le coppie dalla prima partenza sino al rientro in Italia con il bambino. Per noi e sicuramente molto di più. E colei che ci ha portato in associazione, che ci ha motivato per tutto il tempo.

Grazie ai suoi insegnamenti abbiamo acquisito la consapevolezza che ogni desiderio, con il coraggio e la forza del cuore, lo puoi soddisfare. “Dona, con gli aerei come la mettiamo?” “Senti Antonello, conosco bene le tue fobie per i voli, ma adesso le devi superare. Non abbiamo altre possibilità, e impensabile poter raggiungere la Siberia con altri mezzi…” “Scusa, ma se andiamo in treno?” “Posso chiedere alla nostra agenzia, ma, ripeto, mi sembra cosi assurdo… Nessuna coppia fino ad oggi mi ha posto mai questo problema”. “Dona, ti prego, provaci almeno…capisci, solo il pensiero di salire su quei dannati aerei mi fa star male”. “D’accordo, vediamo cosa si può fare, nel frattempo preparate questi benedetti

documenti, poi si vedrà”. I giorni a seguire sono una corsa continua sia per produrre i documenti, sia per organizzare il nostro particolarissimo viaggio. Con Donatella siamo giunti ad un compromesso. Fino a Mosca andremo in aereo, da Mosca per la Siberia, per evitare i pericolosissimi voli interni e alleviare un po’ le mie sofferenze, andremo in treno, con la mitica e affascinante Transiberiana! La partenza Le ore che precedono la partenza hanno un sapore particolare. Siamo frastornati, non riusciamo a realizzare bene cosa ci stia accadendo, e immensa la voglia di gridare a tutti la nostra gioia ma, un po’ per scaramanzia, un po’ perché il futuro lo annusi, ma in effetti ancora non lo conosci, ti trattieni, ti trat-


tieni e preghi umilmente il Signore affinché tutto vada bene e quei dolci sentimenti possano un giorno diventare realtà, trasformarsi in un aquilone e volare alto nei limpidi cieli della vita. E il giorno 16 del mese di Ottobre, il volo per Mosca e previsto per le 10.30. Ci siamo alzati prestissimo, mio fratello Walter ci accompagnerà in aeroporto. “Mi raccomando Rolly”, dico supplicando mia suocera. Rolly e il nostro cane dalmata, un bel cucciolo di 15 mesi bisognoso ancora d’affetto. “Tranquilli, lo lasciate in buone mani”, ci risponde sorridendo, “di certo non morirà di fame”. Un’ultima verifica per essere sicuri di aver preso tutto il necessario, un saluto con i genitori di Patrizia e con mio padre Marcello e via, corriamo ad abbrac-

ciare il nostro destino. In meno di due ore siamo all’aeroporto di Fiumicino, salutiamo Walter e ci dirigiamo verso il settore dei voli internazionali. Li troviamo altre due coppie, una di Roma che già conoscevamo per aver frequentato un corso formativo insieme, e un’altra di Ragusa. “Ciao ragazzi, come va? E arrivata Mila?” “Tutto bene grazie, Mila ancora non si vede, sarà qui a momenti”. “Credo proprio che non ci siamo regolati con i bagagli, ma quanto tempo dovremo restare?” “Dai, d’altronde non conosciamo quasi nulla della Siberia!” “E già, abbiamo ascoltato pareri cosi discordanti che farsi un’idea precisa era praticamente impossibile”. Iniziano le operazioni d’imbarco, voliamo con la

compagnia Russa Aeroflot, il mio cuore e in tumulto, mio fratello Walter, medico di base, mi ha fatto assumere un Tavor da 2,5. Dice che stenderebbe un cavallo, per me e come se avessi succhiato una caramella. Ci fanno accomodare all’interno dell’aereo. Le hostess sono molto gentili, ci indicano i posti prenotati, ma Mila ancora non si vede e la cosa mi crea ancora più ansia. Le palpitazioni non accennano a diminuire, decido di assumere anche qualche goccia di Lexotan, spero proprio di stare meglio. Quando ormai avevamo perso la speranza di viaggiare con Mila, pochi attimi prima che si chiudesse il portellone dell’aereo, la vediamo comparire davanti ai nostri occhi. “Volevate partire senza di me?”

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“Ho pregato molto che fossi qui, ora mi sento più tranquillo”. “Guarda che l’aereo non lo pilota mica Mila”, dice sorridendo Patrizia. Pochi minuti e si avviano i motori, l’aereo inizia a muoversi, prendiamo velocita, si parte! Credo di avere accumulato talmente tanta adrenalina che potrei da solo alimentare i motori dell’aereo. La paura e tanta, ma e stupenda anche la sensazione di lottare finalmente con le mie fobie, adesso sono su un aereo, questo e quello che conta, ed e una cosa che mai nella mia vita avrei immaginato. “Guarda dall’alto che spettacolo”, dice Patrizia seduta vicino al finestrino. “Non provarci, lo sai che non ho il coraggio di guardare fuori. Se lo facessi rischierei seriamente un colpo al cuore, voglio illudermi di non essere mai

decollato”. Fortunatamente il tempo scorre via senza grandi tragedie, inizio anche a rilassarmi, in fondo stare quassù non e poi cosi male. Allora accarezzo delicatamente la mano di Patrizia, un attimo di silenzio, un incrocio di sguardi dolce ed espressivo. “Sto pensando al bambino, a quando lo incontreremo, ai suoi occhi, alle sue reazioni”, gli sussurro amorevolmente. “La nostra vita cambierà”, risponde Patrizia, saggia come sempre, “e sarà un cambiamento bellissimo”. “Sai, non riesco a immaginare nulla, sono cosi confuso, questa maledetta paura del volo non mi fa vivere appieno le mie sensazioni”. “Forse le rifiuti per scelta”. “Come per scelta?” “Forse inconsciamente non vuoi ancora affrontare il problema, vedrai che al

momento opportuno ti riapproprierai dei tuoi sentimenti”. E incredibile come Patrizia riesca a gestire le sue emozioni. Non ho mai pienamente condiviso il suo carattere chiuso e oltremodo riflessivo, ma adesso me ne vorrei volentieri appropriare. Il volo procede benissimo, ho la sensazione di smarrire la percezione del tempo. “Mila, quanto manca all’atterraggio?”, domando alla nostra amica Ucraina. “Non preoccuparti, mancherà ancora mezz’ora”. Nemmeno il tempo di voltarmi e avverto un rumore incredibile, spalanco gli occhi e cerco nervosamente lo sguardo di Mila. Lei se la sta ridendo. “Mila, che cosa sta succedendo?” “Non preoccuparti, siamo atterrati, siamo a Mosca!” Il nostro sogno sta per iniziare.


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giorno dopo giorno

di Greta Bellando

Una chiamata dalle origini

Pezzi di storia attraverso gli occhi di una figlia e di una madre ritrovata 32

Carissimi lettori, lasciamo momentaneamente l’India per prendere il volo sino in Corea, precisamente a Seul. Questa è la storia di una giovane donna che a 39 anni, dopo 35 dal suo arrivo in Italia, decide di tornare. Il suo non è solo un ritorno, ma potremmo definirlo una chiamata da quel Paese in cui ha trascorso i primissimi anni della sua vita. Lei, che ha ricevuto l’invito per tornare a conoscere quella terra, andrà oltre, a scovare un po’ del suo passato attraverso gli occhi di colei che le diede la vita …. sua madre. Di quella donna non possiede ricordi, anzi sì, nell’incedere del nostro dialogo gliene viene in mente uno e me lo racconta: “Io un ricordo in realtà ce l’ho, però non so se è manipolato dalla fantasia; ricordo i giorni in cui

mia madre mi accompagnava in questo luogo, che potrebbe essere paragonato a un asilo, e alla sera mi tornava a riprendere. Questo è successo per un po’ di giorni, fino a quando non è più venuta. Lei, quindi, mi ha lasciata in un posto che conoscevo, che mi era familiare proprio per evitare lo shock totale”. Lei, K., oggi è una donna molto forte, determinata, è una moglie e da figlia è divenuta madre di 2 bambine, oggi ormai adolescenti. Ha trascorso la sua vita serenamente, tra gli alti e i bassi che spettano a ciascuno di noi, senza porsi troppe domande. E’ andata via da casa all’età di 20 anni, verso quell’indipendenza che ancora oggi la contraddistingue. Finalmente fuori casa ha potuto giungere all’autonomia, negatagli durante

il corso dell’infanzia dalla personalità della madre adottiva, la quale ha ‘scelto tutto’ senza lasciar emergere le passioni della propria bambina. I suoi genitori, dopo aver adottato lei negli anni ’70, hanno deciso di adottare un altro bambino e durante il corso della loro crescita hanno sempre cercato di mantenere viva la curiosità nei confronti della cultura coreana, anche se né lei, né il fratello, erano così appassionati; loro, nonostante questo, ogni volta che vedevano coreani in giro sfruttavano l’occasione per scambiare quattro chiacchiere e conoscere più a fondo la cultura di quel Paese. Alla fine si sono instaurate delle amicizie soprattutto con una persona, un sacerdote coreano, che nel tempo è diventato un po’ come uno zio e si rive-


lerà, nel percorso di ritorno alle origini, un faro, una guida, un sostegno, un’ancora per conoscere e riconoscere - tra il turbine di emozioni, tra la confusione nella testa e dentro sé - la via giusta. Gli anni sono trascorsi tra la routine e i pensieri, sino a giungere a una forma di curiosità tale da voler cercare qualche informazione del proprio passato e grazie al sistema nazionale coreano ciò è stato possibile; tutto iniziò un paio d’anni prima di compiere il viaggio di ritorno, K racconta: “Ho avuto la curiosità di ricercare qualcosa del mio passato, e l’ho fatto attraverso il servizio che viene offerto gratuitamente dall’organizzazione Holt International. Io, giusto per provarci, ho inviato la mia richiesta e loro dopo qualche giorno mi hanno risposto, dando-

mi conferma della presa in carico della domanda, volendo accertarsi che fossi realmente io, i motivi della mia ricerca e una fotografia digitale poiché nel 99% dei casi, dato che i genitori vengono ritrovati, viene loro mostrata questa foto. Da li, per alcuni mesi, non ho avuto più nessuna informazione; quando meno me l’aspettavo sono stata ricontattata e mi è stato detto che mia madre era stata ritrovata subito e però, dato che si era risposata, viveva con la suocera e aveva altri figli, era molto difficile poterle parlare (in riservatezza). Io per la sua famiglia attuale, ero e sono, un segreto. Dalla Holt, comunque, le avevano detto di me; lei non era sorpresa, ha chiesto semplicemente se c’era una fotografia mia come se si aspettasse quel momen-

to. Lei non sapeva dove fossi finita ed ha appreso alcune notizie sulla mia vita attraverso questo contatto. Il primo ostacolo tra me e lei era la lingua, per cui l’associazione - finanziata dal governo coreano - mi ha offerto gratuitamente la possibilità di tradurmi una lettera. Io l’ho scritta in modo molto informale e allo stesso tempo ne ho ricevuta una da parte sua. Successivamente, dato che conosco due persone che vivono in Corea, ho chiesto loro di andare al centro della Holt, in modo tale da ricevere delle informazioni per poter incontrare mia madre. Così questa persona, che tra l’altro mi ha vista crescere, poteva trasmettere a mia madre, tutta una serie di informazioni e sensazioni, più di quanto potesse avvenire in una lettera”.

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K. si è trovata di punto in bianco catapultata in una nuova realtà, tra nuovi pensieri e sensazioni con la reale percezione che ormai quella donna appartenesse ad un passato privo di ricordi tangibili tali da sentire un calore nei suoi confronti, e di fronte a tale sensazione cresceva la consapevolezza che i genitori sono coloro che ti insegnano a muovere i passi nel cammino della vita. Nonostante questo: “Il mio interesse era di farle sapere dove stavo, darle una localizzazione fisica, ho pensato a lei, che aveva un figlio sparso per il mondo e non sapeva nemmeno identificare ‘dove’; in più volevo dirle che ho avuto un’infanzia molto bella, serena, ricca di tante cose, ovvero una seconda opportunità che non avrei avuto in Corea e l’ho compreso quando sono stata là”.

Mentre i pensieri in Italia crescevano, in Corea c’era chi pianificava un possibile avvicinamento, perfino un incontro, poiché quella donna rimasta nell’ombra per tanti anni sarebbe stata disposta a venire sino a Roma per conoscere quella bambina divenuta donna. A quel punto K. pensò di aver lei, per la prima volta, in pugno la situazione, era lei per la prima volta ad ‘avere diritto di scelta’; questa volta era la madre che voleva tornare da lei, ma il tutto a quel tempo appariva una forzatura tanto da voler bloccare questa iniziativa sul nascere. Ma, quando K. disse “No” quella volta, non sapeva che di lì a un paio d’anni, il suo Paese di nascita l’avrebbe invitata a tornare tra la sua terra, per respirare nuovamente i suoi profumi, osservare i suoi colori e sperimentare la

sua tradizione. Ricevuto l’invito, K. è spaesata, inizia a riflettere, ripensa a quella donna e forse…. Era il momento di andare ad incontrarla. In quindici giorni ha organizzato il viaggio, senza pensare troppo, senza crearsi false illusioni, piuttosto coltivando la convinzione che tutto ciò che avrebbe trovato sarebbe stato comunque un ‘di più’ per continuare a costruire il puzzle della propria vita. Durante il corso dei primi 15 giorni in Corea K. ha vissuto assieme allo zio sacerdote che l’aveva vista crescere e a una focolarina, assieme potevano aiutarla anche per la comunicazione e per mediare durante l’importante incontro con la madre. Assieme a quest’ultima lei ha trascorso 3 giorni interi, e per poterlo fare la donna aveva mentito alla sua famiglia


dicendo che andava in vacanza, poiché quella figlia concepita e data in adozione era da sempre un segreto e tale doveva restare. In quei tre giorni hanno trascorso assieme una notte ed oltre a conoscere la madre, K. ha potuto far visita anche a suo zio, a colui che aveva, ai tempi, deciso per la sua vita, deciso per la sua adozione. Questa persona le ha confessato che per tutta la vita ha portato con sé questo grande peso, e solo ora dopo averla rivista, poteva morire in pace. Durante l’intervista ho provato a chiudere gli occhi per lasciarmi cogliere da quegli istanti, e mi sono concentrata, ho provato a pensare a quanto forte possa essere stato quell’istante, a quali emozioni possano scivolare tra la gola e lo stomaco, a quale luce avranno avuto gli occhi in quelli attimi che si sono

incrociati. Occhi da orientale, gli uni che trasmettevano negli altri pezzi di storia che si mescolavano, continenti che si avvicinavano… e poi chissà i battiti del cuore, io me li sono immaginati forti, forse perché anche i miei in quell’istante stavano percependo una storia così coinvolgente, che mi donava emozioni dirompenti e brividi nella schiena ad ogni sua parola. Viste le mie emozioni, così forti, pur non essendo la diretta protagonista, ho provato a chiederle quali siano state liberamente le emozioni di quelli attimi e lei mi ha risposto: “Quando l’ho vista non l’ho riconosciuta, non ci somigliamo fisicamente, tanto che era talmente forte la non somiglianza che guardavo mio zio e gli dicevo “secondo me non è lei”. Lui mi ha detto che, se volevo esser più tranquilla, avrei potuto

fare l’esame del DNA, in Corea è una pratica usuale. Poi, mentre la stavo guardando e dicevo che non era lei, l’ho osservata mentre sorrideva ed ho notato che ha le mie stesse fossette in viso, ai lati della bocca, e allora a quel punto ho detto: “ è davvero lei”. Avevo sostanzialmente di fronte un’estranea e seppure sia una persona che si emoziona facilmente, in quell’occasione ero estremamente lucida, forse inconsapevolmente fredda, non mi sono molto emozionata”. Ho immaginato quel sorriso come la pellicola di una vita, che scorre nell’istante di una smorfia di felicità e fa rivivere 35 anni di vita, di momenti, di vissuti differenti, di attimi di gioia; chissà quante volte avranno sorriso senza pensare che dall’altra parte del mondo c’era colei che

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ha donato la vita e colei che l’ha ricevuta che magari nel medesimo istante sorridevano e mostravano quelle fossette profonde, diverse, uniche come un cordone ombelicale lungo continenti di distanza. E poi ho pensato a lei, a una ragazza divenuta donna, consapevole di quell’atto di abbandono, spinta dal fratello maggiore poiché ai tempi nessuna donna poteva crescere un figlio da sola e quindi chissà dopo tanti anni come ci si possa mostrare di fronte a quella bambina; K. ricorda con queste parole, l’atteggiamento della madre: “Lei

ha pianto molto, era molto emozionata. In genere quando vedo una persona che piange mi emoziono. In quel momento mi sono sentita molto io la madre. Ed è paradossale il fatto che lei mi abbia riconosciuta subito. Oggi, essendo madre, credo che sia possibile riconoscere un figlio anche dopo 35 anni. Lei mostrava un atteggiamento molto difensivo, probabilmente si aspettava tanti “Perché?” da parte mia, e allora ha iniziato a dirmi com’ero da bambina ovvero molto allegra, sveglia, intelligente; io non ero pronta a sentire delle

giustificazioni ma, al contrario, ero semplicemente pronta ad avere davanti una persona che valeva la pena conoscere anche se le difficoltà di comunicazione non me lo consentivano appieno. Quello che le volevo dire, anche se purtroppo non direttamente poiché non conoscevo il coreano, era che non volevo che si giustificasse; quel percorso, ormai, l’avevo fatto, ero una persona adulta e matura e volevo ripartire da quel momento”. Di fronte a quell’atteggiamento difensivo si celava una profonda fragilità: “


A Seul, tra lo stordimento della gente, lei mi teneva per mano come fossi una bambina di 3 anni, come quando lei mi aveva lasciata. Lei osservava qualsiasi cosa e quella notte che abbiamo dormito nello stesso albergo, nella stessa stanza, la mattina mi sono svegliata e ho visto lei che mi osservava e sentivo addosso questo sguardo che non si voleva perdere nulla, nemmeno i respiri. Io però non riuscivo a reggere quel carico di presenza”. K. non era più quella bambina, ormai era donna, ormai era madre e in quella situazione sembrava che i ruoli si fossero scambiati; lei non riusciva a sopportare così tante attenzioni, era disturbata da quell’eccessivo contatto fisico, tanto da comunicarglielo. Poi con il tempo quell’atteggiamento un po’ freddo ha creato in K. un senso di colpa verso quella donna che forse, in fondo, cercava in quei gesti la possibilità di un perdono che in quel momento sua figlia, però, non era disposta ancora a darle. Dopo quei giorni, vi è stato un saluto, con la consapevolezza che non vi sarebbero stati altri incontri e oggi K. dice: “L’unico leggero rimpianto probabilmente è quello di non esser stata molto chiara rispetto al

mio perdono. Forse effettivamente ora l’ho perdonata e non nel 2010”. Il resto del viaggio è proseguito seguendo il programma “Motherland” e il poter condividere questa esperienza assieme ad altri giovani, provenienti da altre parti del mondo, è stata un’esperienza unica e profonda che ha mostrato sfumature di una Corea misconosciuta: “Eravamo un gruppo di coreani che però non lo erano in senso assoluto. Ci osservavano perché seppure si vedeva che avevamo i tratti tipici delle persone che sono nate là, allo stesso tempo, era marcato il fatto che non fossimo vissuti là. Eravamo coreani stranieri. Là, io ho capito assolutamente di non essere coreana ma italiana. Io non posso dire di essere al 100% italiana o al 100% coreana; non è necessario per forza fissarci al 100, noi adottati stranieri abbiamo un plus e questa è una grande ricchezza. Ognuno nella sua modalità ha qualcosa di più. Io penso di essere 130% italiana e 30% coreana. Siamo ‘portatori sani di due culture’. Il rapporto con gli altri ragazzi, provenienti da altre storie di adozione, da altre culture, da altri Paesi, è stato molto particolare e allo stesso tempo forte:

“Ci intendevamo all’istante, seppure ognuno con il proprio carattere e le proprie personalità. Ci siamo voluti molto bene; io non li ho mai più rivisti anche se ci teniamo in contatto e so che se li andassi a trovare, sarei accolta a braccia aperte e nello stesso modo io li accoglierei. Là, ognuno andava a cercare qualcosa; chi il Paese, chi le proprie origini, chi le tradizioni. In questo senso c’era un grande rispetto delle nostre esigenze”. Io e K. in un sabato di primavera ci siamo fatte una lunga chiacchierata, assieme abbiamo sviscerato emozioni profonde, indelebili, 40 anni che si sono snodati lungo una voce a tratti smorzata e un pianto inaspettato, liberatorio, profondo, che ha donato una pausa, un attimo di respiro per riprendere fiato dopo aver ripercorso assieme flash di vita unici, forti, irripetibili. Il suo racconto è stato come una dolce melodia, mi ha donato molto, mi ha aiutato a comprendere e a pensare, un po’ come quell’Ipod e quelle cuffiette che l’hanno aiutata ad evadere dalla confusione, durante il suo viaggio, per donare un posto alla sua storia, tra le innumerevoli note di una canzone, di una vita intonata che non terminerà mai.

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giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

Una gita esotica 38

Stiamo aspettando da più di venti minuti nelle prime ore del mattino alla fermata del bus navetta (?!?) per Villasimius, nota località balneare tra le più rinomate della Sardegna. Io e i miei due figli, bardati di tutto punto, asciugamani da mare, maschera e pinne, abbiamo deciso di non ascoltare i suggerimenti di chi ci ha sconsigliato di utilizzare l’azienda di trasporti pubblici. Troppa la voglia di farsi un bagno nelle splendide acque della spiaggia bianca. In fondo si tratta di un tragitto di un’oretta, sulla litoranea molto panoramica, percorsa tante volte in passato in auto, oggi non disponibile. Il ritardo inizia ad innervosirmi, ma cerco di non far trapelare il disagio prima che i miei figli si pentano di aver aderito con tanto entusiasmo alla

spedizione. Pure i biglietti del bus sono esauriti al bar dove ci siamo presentati con mezz’ora d’anticipo e l’inizio non fa presagire nulla di buono. Finché il pullman finalmente arriva: è un gran turismo, con i finestrini oscurati, ideali per il sole rovente della Sardegna. L’allegria ci invade di nuovo e appena il portellone si apre ci precipitiamo sopra. Vedo mio figlio bloccarsi subito. Capiamo in un attimo il motivo per cui ci volevano dissuadere dall’utilizzo del pullman: davanti a noi tutti i 50 sedili appaiono occupati da altrettanti venditori ambulanti africani, evidentemente saliti a Cagliari, alla stazione di partenza. Ci sentiamo improvvisamente stranieri. Cento occhi sembrano fissarci interrogativi: chi sono questi

tre “italiani” che utilizzano il pullman per Villasimius, nota per il Tanka Village e il Timi Ama Resort, villaggi a quattro stelle frequentati dai vip? Loro appartengono al popolo della spiaggia, che percorrono instancabili per ore, nel caldo più torrido, vestiti con jeans e camicie a maniche lunghe, con gli inconfondibili sacchettoni di plastica verde da cui esce di tutto, borse, salvagenti, vestiti, racchettoni… Chiedo all’autista se a suo parere ci sono tre posti liberi. La risposta è laconica e affatto rassicurante: “Forse, qua e là…”. Mia figlia si è attaccata un po’ spaventata alla mia gamba e faccio fatica a percorrere il corridoio. Mio figlio cerca di farsi spazio, fino a quando riusciamo a individuare due posti sul fondo in cui ac-


covacciarci raggomitolati. Inizia il viaggio in torpedone: stranamente c’è silenzio. Anche tra noi: i bambini si sono ammutoliti e a fatica riesco a spezzare il loro stupore attonito. A un certo punto mia figlia starnutisce. Mi esce spontanea una battutaccia: “Potremmo chiedere chi ci fa il prezzo migliore per un pacchetto di fazzoletti…” Strappo a malapena un sorriso a mio figlio, che subito però mi fa cenno perentorio di star zitta. E’ compreso, serio, guarda avanti come una sfinge e a un certo punto sussurra: “E’ strano…” . “Pensa – gli rispondo d’istinto - è la sensazione che probabilmente avverte ciascuno di loro ogni giorno, frequentando la spiaggia o vivendo nelle nostre città, popolate principalmente da ‘facce bianche’, neanche

molto bendisposte nei loro confronti…”. Annuisce e continua a rimanere silenzioso. Vorrei continuare con una breve lezione sugli immigrati, proprio in questi giorni protagonisti delle tante tragedie dei barconi, mentre noi ce ne stiamo beatamente in vacanza sulle rive dello stesso mare dove loro trovano troppo spesso la morte, ma capisco che non è il momento né il contesto giusto. Mia figlia, sempre più adesiva al mio corpo, nel frattempo è diventata oggetto degli sguardi perplessi di una giovane massaggiatrice cinese che sicuramente si sta chiedendo il perché dei suoi tratti orientali. La ragazza la guarda con insistenza, prima lei e poi me. In fondo la mia bambina le assomiglia eppure sono sicura che mai come in

questo momento si senta “uguale a me” e completamente estranea alla sua interlocutrice asiatica. Spezza l’imbarazzo la domanda - in un inglese più fluente del mio - di una signora slava, unitasi alla bizzarra comitiva ad una fermata lungo il tragitto, che mi chiede spiegazioni circa l’orario di arrivo. Il viaggio sta per concludersi. Scendiamo, un po’ frastornati, ci guardiamo noi tre e ci dirigiamo verso la spiaggia. Molti pensieri si affollano nella mia mente, ma sicuramente anche in quella dei bambini: non vediamo l’ora di raccontare la piccola avventura e di cercare tra i tanti volti degli ambulanti della spiaggia qualche compagno di pullman… magari per fargli un timido sorriso d’intesa!

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Leggere, fare e raccontare

Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di Barchetta Blu 40

15. Questo mese: bookcrossing e social reading Durante il festival della lettura 2014 le molte iniziative, i percorsi formativi, i laboratori per le scuole e le famiglie sono state ispirate al tema e alla questione molto discussa in questi ultimi anni dell’antagonismo fra libro cartaceo e libro digitale. Fra promotori e detrattori qualcuno ha trovato un punto di incontro cercando di sottolineare come se il libro digitale permetta di far leggere anche un solo libro in più, allora debba essere ben accolto e divulgato. Anche alla Biblioteca BarchettaBlu crediamo in una sorta di convivenza pacifica: può essere comodo leggere un ebook in viaggio, in treno, al parco e poi a casa, leggere un tradizionale li-

bro cartaceo comodamente seduti sulla propria poltrona. Poter scegliere di volta in volta e decidere quale sia il supporto più adatto per una storia è un’ottima opportunità e, come sempre, il libro è un buon libro o meno a seconda del suo contenuto e di ciò che c’è scritto. Quindi l’utilizzo di un supporto o di un altro dipende dall’uso che viene fatto. Ci sono infatti in entrambe i casi dei pro e dei contro. Il supporto cartaceo è più costoso, richiede tempi di pubblicazione più lunghi, ma il poter essere toccato è ancora molto affascinante per molti lettori. Il supporto digitale ha tempi e costi decisamente ridotti, non ha problemi di tiratura, non usando carta salvaguardia maggiormente alberi e ambiente, permette a scrittori e illu-

stratori esordienti di farsi conoscere pubblicando facilmente i loro lavori, ma per qualche lettore c’è una maggiore difficoltà di lettura. Ad ogni modo mentre aumentano le vendite di ebooks continua a molti livelli la discussione se sia migliore il modello digitale o quello cartaceo e soprattutto quale sia il più gradito dai lettori. I bambini di oggi fanno ormai parte di quella che viene definita come generazione dei nativi digitali. Negli stati Uniti ma anche in Europa, alcune ricerche evidenziano come i giovani siano i maggiori fruitori dei libri digitali e leggano più su computer e tablet che su carta. Anche dai bambini e dai ragazzi gli ebook sono utilizzati durante i viaggi e in momenti di attesa mentre i libri tradizionali a casa.


Ecco perché durante il festival della lettura di quest’anno abbiamo voluto divulgare l’utilizzo di libri cartacei accanto ad altri modi di raccontare le storie con le iniziative legate al bookcrossing e al socialreading, il primo legato ai tradizionali libri cartacei e il secondo legato invece agli ebook. Il primo progetto è un bookcrossing chiamato Leggo Dondolando. Per più di un mese circa 200 libri e albi illustrati sono stati lasciati a gruppetti sulle

panchine delle fermate dei vaporetti, che a Venezia sostituiscono le fermate degli autobus. Bambini e ragazzi hanno potuto trovare i libri, leggerli, farseli leggere, farli girare. I libri erano riconoscibili perché riportavano un’apposita etichetta. Dopo averli letti i bambini potevano riportarli nella fermata dove li avevano trovati o in un’altra fermata. L’idea di base è di rilasciare libri in ambienti naturali affinché possano essere ritrovati e quindi letti da altri, che eventualmente possono commentarli e farli proseguire nel loro viaggio. I libri di questo speciale bookcrossing a Venezia sono stati poi donati a scuole e a biblioteche. Il termine deriva da bookcrossing.com, un club gratuito di libri on-line fondato nel 2001 per in-

coraggiare tale pratica, al fine di rendere il mondo intero una biblioteca. Il bookcrossing è un attività con iscritti in più di 100 paesi quasi a indicarci che i libri non conoscono frontiere. I libri prima di essere “liberati” vengono registrati e a loro viene assegnato un numero. Chi ritrova il libro lasciato in libertà può registrarne il ritrovamento e seguirne il percorso. Può anche aggiungere un commento in modo che chi lo ha rilasciato sappia che fine ha fatto il libro. Dopo averlo letto può rilasciarlo nuovamente in libertà su una panchina, su un treno, in un bar. Nel sito ufficiale il bookcrossing è definito come un miscuglio di spirito di avventura, letteratura e anche generosità che molte persone trovano irresistibile. Alcuni lo vedono come una versione moderna dei messaggi nella

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bottiglia o dei biglietti attaccati ai palloncini. Altri lo concepiscono come il tentativo di creare un’enorme biblioteca aperta e libera dove si possano consigliare i libri e commentare i passi più belli e appassionanti. Naturalmente tutto è in forma riservata e gratuita. Sul sito ufficiale è possibile quindi registrare libri, seguirne i viaggi, cercare libri liberati da altri, e cercare altri bookcrosser. Provare per credere. Ma contemporaneamente durante il Festival della lettura la Biblioteca BarchettaBlu ha voluto sperimentare un altro modo, questa volta digitale, di condividere commenti di storie e libri. In collaborazione con Telecom Italia sono stati proposti alle scuole secondarie di primo grado dei laboratori gratuiti di social reading.

Attraverso Societyschool, l’applicativo di social reading della piattaforma educational di Telecom Italia che propone servizi innovativi e sperimentali per il mondo della scuola, i giovani partecipanti ai laboratori hanno potuto sperimentare nuove modalità di didattica partecipativa ed inclusiva. L’applicazione permette di importare libri direttamente dal web, evidenziare il testo per mettere in risalto le parti del libro che interessano di più, inserire delle note e condividerle con compagni e/o professori e leggere le note che i compagni di classe e i professori hanno inserito. Molto utile può essere anche la modalità semplificata di lettura che, modificando la pagina, aumenta la leggibilità del testo.

Nella sperimentazione del Festival abbiamo scelto l’albo illustrato Polline di Davide Calì, una storia sull’essere generosi senza secondi fini. Un tema di grande attualità tra i ragazzi anche giovanissimi spesso coinvolti in situazioni di bullismo o egoismo, ma spesso anche molto sensibili alle tematiche di condivisione e solidarietà. Polline è una storia d’amore e sull’amore. Un amore simboleggiato dalla cura di una donna per dei fiori


spuntati all’improvviso e finisce ma non muore, semche poi smettono di cresce- plicemente rinasce altrove, è complesso anche per gli re e di rinnovarsi: adulti. Dovresti amare solo per amore, né per dare qual- Un giorno una donna scocosa né per essere ricam- pre un fiore bianco nel suo biata. Dovresti godere di giardino e inizia a prenderciò che hai, non di ciò che sene cura. Aspetta la fioritura, assapora il profumo ottieni del fiore e ammira il canL’autore ha affermato che dore dei petali. Ogni matil libro non è rivolto ad una tino sboccia un nuovo fiore età particolare e che quan- ma la pianta ad un tratto do scrive ha smesso di pen- inizia a spegnersi. La rasare ad un preciso target. gazza non sa darsi pace, Sembra quasi che con que- cerca in se stessa e nelle sto libro sia definitivamen- sue stesse azioni la ragiote superato il confine fra ne di questo sviluppo amaalbo illustrato per bambini ro. Un corvo, un po’ saggio e libro per adulti, conside- e un po’ crudele le parla e rando che, come dice l’au- la invita a non gioire di ciò tore anche bambini di una che ottiene ma di ciò che stessa età possano essere ha. Passano le stagioni e l’estate successiva spunmolto diversi tra loro. ta un nuovo fiore bianco, Se ci pensi il senso profon- ma non nel giardino della do della storia, l’accetta- donna ma in quello del suo zione del fatto che l’amore vicino. Solo il polline con il

suo profumo e la sua impalpabilità placherà l’anima inquieta della protagonista. Il color seppia, monocromatico delle illustrazioni conferisce quasi una atmosfera nostalgica, del tempo passato. Le preziose illustrazioni rafforzano la storia nel suo essere sospesa nel tempo e nella magia dell’amore. Il testo è minimo ed essenziale per sottolineare la forza dell’amore ma anche la delicatezza di tutto quello che fa nascere un amore.

Per tutti questi motivi abbiamo scelto questo albo e poi l’abbiamo inserito nella biblioteca virtuale. Durante i laboratori con le classi, dopo aver creato alcuni gruppi di 4/5 studenti

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ciascuno, abbiamo invitato i ragazzi a leggere l’albo, a commentarlo e a inventare le storie di alcuni oggetti presenti nel testo in una sorta di social writing. Ogni gruppo iniziava con descrivere sul tablet l’origine di un preciso oggetto e poi continuava descrivendo l’oggetto di un altro gruppo, condividendo le descrizioni di tutti i compagni. In questo modo la tazzina di caffè, il vecchio orologio, la chiave antica, l’innaffiatoio e la forbice hanno preso vita e hanno continuato idealmente ciò che l’autore aveva scritto e pubblicato.

stato superiore alle nostre aspettative. Nel coinvolgere gli studenti abbiamo dato loro la possibilità di essere attori attivi dell’apprendimento, in una relazione collaborativa con i propri compagni ed anche con i propri professori. Altri ragazzi in altre scuole di Venezia hanno poi potuto implementare le informazioni, commentare i vari brani e far prendere vita a parti del libro poco esplorate. Anche in questo caso la storia è stata raccontata e ascoltata utilizzando sia il libro cartaceo che quello digitale. Ognuno dei due supporti è stato prezioso per alcuni aspetti dimostrando quindi che la convivenza dei due sia possibile e anzi auspicabile. Forse la presunta guerra è stata solo una invenzione di autori ed editori. Ora che i toni si sono smorzati L’entusiasmo dei ragazzi è si possono trovare anche

degli editori che regalano ebook se si acquista il cartaceo. Si sta diffondendo anche il bundling cioè la vendita parallela di uno stesso titolo in cartaceo e digitale, dove l’acquisto di una copia in libreria consente anche di scaricare quella digitale. Interessante è anche riLeggo, una iniziativa di Internet Bookshop per cui si può acquistare a prezzo ridotto la versione digitale del libro che si è acquistato. Bibliografia e siti interessanti Polline. D. Calì, Kite Edizioni, 2013 Booktrailer Polline http://www.youtube.com/ watch?v=5tsgAPUt1og www.barchettablu.it/mesedella-lettura www.bookcrossing.com www.ebookreaderitalia.com www.bookrepublic.it www.timreading.it/ebook/ narrativa/narrativa-ragazzi. html


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trentagiorni

GAZA, SAVE THE CHILDREN: LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE DEVE FERMARE QUESTA GUERRA CONTRO I BAMBINI Ogni ora ucciso 1 bambino palestinese; 116.000 necessitano di sostegno psicologico. 90 scuole danneggiate. Negli ultimi due giorni ogni ora è stato ucciso un bambino palestinese. Lo scioccante numero di bambini uccisi, feriti o sfollati a Gaza, esige un’inequivocabile risposta internazionale per fermare il bagno di sangue, dichiara Save the Children, l’Organizzazione internazionale indipendente dedicata dal 1919 a salvare i bambini e a promuovere i loro diritti. Intere famiglie sono state cancellate in pochi secondi dopo che le loro case erano diventate bersaglio militare. In tre settimane di offensiva militare almeno 70.000 bambini sono stati costretti ad abbandonare le loro abitazioni insieme ai familiari. Il numero di coloro che hanno bisogno di un immediato supporto psicologico specialistico è salito a oltre 116.000 bambini. In Israele, i minori continuano a fare i conti con il terrore causato dal lancio indiscriminato di razzi. Lo staff di Save the Children e i partner locali dell’organizzazione, a Gaza, stanno operando sotto il fuoco per distribuire medicine salvavita e soccorrere le famiglie sfollate fornendo loro materassi, teli e coperte, kit

igienici e per la cura dei bambini più piccoli, ma i bisogni sono enormi. Il cibo per i bambini è scarsissimo, il che accresce l’enorme stress nelle mamme. I dottori stanno assistendo a un aumento esponenziale di parti prematuri. “Stiamo vedendo molti parti pre-termine che sono dovuti alla paura e allo stress psicologico causato dall’offensiva militare”, dichiara il Dott. Yousif Al Swaiti Direttore di Al Awda Hospital, partner di Save the Children e il cui staff ha lavorato per 1.000 ore in più, rispetto al normale orario di lavoro, per fare fronte al continuo afflusso di pazienti. “Il numero di nascite premature al giorno è duplicato, in confronto ai tassi medi giornalieri prima dell’escalation di violenza.” Il Dott. Raed Sabbah, Direttore dell’Union of Health Work Committees, sottolinea come le scuole che stanno ospitando migliaia di persone sfollate, debbano fronteggiare una grave penuria di acqua e che le famiglie stanno lottando per trovare del cibo per i neonati e i bambini. Sono stati colpiti ospedali, cliniche e strutture sanitarie e almeno 90 scuole sono state danneggiate. Save the Children sta portando avanti il suo intervento di soccorso per assicurare acqua alle famiglie sfollate, rimettere in sesto fonti idriche fondamentali e scuole. Sta inoltre implementando gli interventi di supporto psicologico per i bambini. Dal

momento che le strutture civili continuano ad essere sotto attacco, è necessario che tutte le parti smettano immediatamente di colpire o utilizzare infrastrutture civili per altri scopi che non siano civili. Ma Gaza ha bisogno di molto più di tale risposta. “Ad ogni esplosione abbiamo visto svanire anni di lavoro, sia che si trattasse di infrastrutture civili che del benessere emotivo di bambini di cui ci occupavamo già prima dell’escalation di violenze”, dice David Hassel di Save the Children. “Non è mai proporzionato attaccare scuole e ospedali quando così tanti civili non sanno dove andare. Nessuna delle parti in conflitto dovrebbe utilizzare tali strutture a scopo militare. Deploriamo l’uso della forza che abbiamo visto in questi giorni”. “La gente di Gaza e di Israele ci dice che le cose non potranno tornare come erano prima di queste violenze. Siamo a un punto di non ritorno”. Save the Children fa appello alla comunità internazionale affinché risponda alla guerra in corso contro i bambini mettendo in campo tutta la sua forza diplomatica per ottenere un immediato fine del blocco a Gaza e un accordo fra le parti in conflitto con misure di lungo periodo che fermino questa assurda spirale di violenze, compreso il blocco. “Se la comunità internazionale non agisce ora, questa guerra montante contro i bambini a


Gaza, infesterà per sempre la vita delle nostre giovani generazioni”, conclude David Hassell. Fonte: Save the Children ANONIMATO DEL PADRE BIOLOGICO L’ITALIA PENSA A UNA DEROGA È la questione da risolvere nelle linee-guida della fecondazione eterologa AA.A. papà biologico cercasi. Nelle Linee-guida con cui il consiglio dei ministri si appresta a regolamentare la fecondazione eterologa, la questione più spinosa riguarda le deroghe all’anonimato dei donatori. Insomma, l’effetto a lungo termine della provetta libera potrà essere un esercito di bebè che una volta cresciuti vorranno conoscere il loro vero padre. In base alle norme italiane, i dati dei donatori sono conservati con l’anonimato per 30 anni in appositi registri e di fatto c’è la possibilità di risalire ai propri dati genetici, tutto allo scopo di garanzia sanitaria ma non per una identità biologica che non è alla base di rapporti familiari, come sentenzia la Corte Costituzionale. Le regole in vigore riguardano le donazioni di cellule, le modalità con cui prestare il consenso informato da parte del donatore, l’anonimato del donatore e del ricevente, e le modalità di selezione del donatore. Sia il ministro Lorenzin sia - su “Avvenire” - il giurista cattolico Francesco D’Agostino, concordano che

occorre risolvere il problema dell’anonimato o meno di chi cede i propri gameti alla coppia e il diritto a conoscere le proprie origini e la rete parentale più prossima (fratelli e sorelle) da parte dei nati con queste procedure. «Non c’è esigenza di intervenire nuovamente sulla questione dell’anonimato perché è già tutto previsto dalla normativa vigente; alle centinaia di coppie sterili e infertili che si rivolgono a noi consigliamo di consultare il Registro Nazionale della Procreazione Medicalmente Assistita spiega Filomena Gallo, Segretario dell’Associazione Luca Coscioni-. Da quell’elenco scelgono in quale struttura andare. La necessità per il nato di poter risalire alla propria identità biologica entra in contrasto con la stessa legge 40 che prevede che i bambini nati dalla donazione di uno o due gameti sono figli legittimi della coppia e non hanno rapporti giuridici con i donatori». È una tabella di marcia precisa quella indicata dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per arrivare all’applicazione, a pieno regime, delle tecniche di fecondazione eterologa in Italia dopo la sentenza della Consulta che ne ha bocciato il divieto contenuto nella legge 40: il 28 luglio le linee guida in materia, ha annunciato, verranno presentate alla Camera e subito dopo ci sarà un decreto. Dopo l’annuncio

delle prime gravidanze ottenute in Italia da fecondazione eterologa, il ministero della Salute ha pronte le linee guida da presentare alla Camera. L’associazione Coscioni, soprattutto in questo periodo, sta ricevendo molte telefonate da coppie che in tutta Italia vogliono sapere a chi rivolgersi per accedere alla fecondazione assistita. «Indichiamo sempre di consultare il registro nazionale in cui sono forniti i nome e le prestazioni di tutti i centri accreditati sul territorio afferma Gallo -. Anche le coppie che hanno in corso le gravidanze da eterologa hanno preso contatti tramite l’elenco dei centri autorizzati ad applicare tutte le tecniche di procreazione medicalmente assistita». Il ministero della Salute, attraverso una Authority, vigilerà sulle banche del seme e sul registro dei donatori. L’anonimato sarà garantito per i donatori, con eccezioni per particolari esigenze di tipo sanitario e medico o su richiesta del soggetto nato da fecondazione eterologa. Sono previste forme di rimborso per i donatori e l’opportunità di rendere possibile l’eterologa sia nei centri pubblici sia in quelli privati. Fonte: Lastampa.it

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