Adozione e dintorni GSD informa - mensile - novembre 2013 - n. 9
GSD informa
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Accadde a Scu
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Il nostro primo in La donna della
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GSD informa
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editoriale
di Simone Berti
psicologia e adozione
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Accadde a Scuola di Franco Carola scuola e adozione
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Imparare in tempi di crisi di Roberta Lombardi Mi arrabbio perchè lui dice che dico bugie di Vilma Lettieri giorno dopo giorno
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Il nostro primo incontro di Giuseppe Nostro È ora di crescere di Raffaella Ceci La donna della foto di Antonio Fatigati leggendo
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Leggere, fare e raccontare di Marina Zulian sociale e legale
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Convegno Adotti non si nasce, si diventa di Greta Bellando Intervista a Ilaria Borrelli di Greta Bellando trentagiorni
Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956
redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,
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impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze
ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile
di Simone Berti
Nuove sigle e bambini agitati
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Ho letto recentemente un aneddoto che racconta di un bambino che di fronte a un test psicologico aveva messo il cucchiaino che gli era stato consegnato invece che nella tazzina nella propria scarpa. Di fronte alla preoccupazione manifestata intorno a lui aveva risposto semplicemente che lo aveva fatto per ridere. Forse a volte occorrerebbe tornare a dare un valore al sorriso anche se il sorriso non può essere misurato e quell’atteggiamento se inserito in una griglia di valutazione non può che apparire una grave deviazione dal comportamento ritenuto normale. Ho usato volutamente un paradosso ma è innegabile che negli ultimi tempi sempre più frequentemente il rapporto con la scuola obbliga molte famiglie con figli in difficoltà a fare i conti con nuove sigle che identificano la forma di handicap, più o meno grave, da cui il proprio figlio sarebbe affetto. Il diritto allo studio nel senso più completo del termine per loro ormai passa da quelle sigle. Un bambino e i suoi bisogni diventano visibili attraverso l’acronimo che lo identifica in rapporto alle proprie difficoltà e in rapporto a quello può essere identificata il corrispondente intervento di aiuto a cui ha diritto. La solidarietà collettiva rischia di cedere il posto a varie forme burocratiche di gestione pubblica della salute. Quante sigle nuove per i nostri figli! Un bambino viene agitato è il bel titolo di un libro uscito di recente nel quale si racconta a partire dal contesto francese proprio la tendenza alla medicalizzazione della nostra società con particolare riferimento alla vita dei bambini sempre più ad uso e consumo di tecnici e specialisti di disagi e malattie psichiche infantili, industrie farmaceutiche con pillole miracolose da spacciare ed economisti che traducono il tutto in costi sociali e relativi tagli da effettuare per garantire l’ottimizzazione della spesa. Anche la scuola non sfugge a questa logica. La tendenza alla classificazione è frutto della tendenza a includere nel dominio medico aspetti che prima non erano di competenza della medicina. Le nuove etichette denominano e
nel contempo creano nuove malattie. Se un ragazzo non vuole andare a scuola è affetto da fobia scolastica, se ci va con difficoltà invece si ricorrerà a sigle per certificare e classificare questa difficoltà. Abbiamo bambini BES, bambini DSA, quelli con la 104 e poco più in là i bambini DDAI. Si considera sempre più l’intervento nei confronti del bambino confinato all’intervento misurabile o riconducibile a statistica per cui l’autore ci dice che i bambini dovranno sempre più agitarsi, raddoppiare gli sforzi per farsi intendere, per rendersi riconoscibili attraverso la ricchezza della propria complessità. Poco importa perché in ogni caso dovremmo inchinarci comunque alle esigenze di un altro criterio sempre più determinante nel nostro contesto sociale. Quello di una visione sempre più ristretta all’aspetto economico dell’intervento di aiuto, che finisce per valutare il disagio in vista della limitazione o ottimizzazione dei costi dell’intervento, possibile solo ricorrendo a delle tabelle che trasformino i maestri in amministratori e appiattiscano la visuale sul dato quantificabile. La medicalizzazione della società può diventare infine la premessa per considerare la famiglia adottiva come una famiglia affetta da un tratto patologico che ha bisogno di assistenza ma non in quanto una risorsa messa a disposizione della collettività da tutelare ma in quanto deve essere normalizzata. Il passo da essere considerati una risorsa a disposizione a essere percepiti come un peso sociale o un costo è breve. La diversità è implicitamente trattata come patologia. Occorre quindi ritrovare una lingua che si sottragga al tecnicismo alla misurazione ad ogni costo. Bisogna trovare il modo di arginare la crescente medicalizzazione ed economizzazione delle esistenze dei nostri figli, la consegna alla figura dello specialista che è in grado di fornire risposte tecniche e misurabili alle domande di un desiderio che nessuno più è in grado né disposto ad ascoltare. Lasciatemi concludere con un ricordo personale. 20 dicembre 2003, esattamente dieci anni fa mi trovavo a Mosca con mia moglie e mio
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editoriale
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figlio in attesa di un foglio, di un timbro dall’Italia che mi avrebbe consentito di rientrare in tempo per il Natale. Era ormai un mese che aspettavamo nel nostro albergo sull’Arbat e temevamo che se quel venerdì quel foglio non fosse arrivato la chiusura natalizia prima degli uffici italiani e poi di quelli russi per le festività ortodosse ci avrebbe costretto a passare altri quindici giorni di tempo in un soggiorno obbligato a Mosca dove ormai la stanchezza di sentirsi in una situazione transitoria si faceva sentire sempre più forte. Ricordo il senso di abbandono, di impotenza, la sensazione di non sapere come farsi ascoltare, la paura di essere dimenticati che con mia moglie abbiamo provato fino all’arrivo di quel sospirato fax. Eppure eravamo in un buon albergo di una splendida città, con tutti i comfort e soprattutto con la certezza che nostro figlio sarebbe rimasto con noi e che lo avremmo portato prima o poi a casa. Un pensiero denso di preoccupazione non può che rivolgersi da parte mia e di tutta la redazione a quelle famiglie che attualmente si trovano imprigionate da problemi che tutti conosciamo, ma di cui non è sempre facile capire fino in fondo quali siano le motivazioni, nella Repubblica Democratica del Congo e il nostro augurio più forte e sentito che riescano anche loro per Natale a tornare a casa con i loro figli.
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Accadde a Scuola
Buonasera Dr Carola, siamo due genitori di un figlio di quasi 11 anni, di origine est europea. Yari è con noi da due anni e frequenta la quinta elementare. Ieri mattina, durante l’orario scolastico, Yari ha litigato con una sua compagna di classe e, alla fine dell’alterco, indispettito, le ha dato una spinta. La bambina, che non si è fatta male, è andata a lamentarsene con la maestra. Già in precedenza, con un’altra compagna, durante una discussione tra bambini, Yari aveva spinto l’amica, ma senza nessuna conseguenza, tanto che , né allora, né ieri, abbiamo ricevuta alcuna convocazione da parte della scuola per discutere l’accaduto. L’insegnante, che avevamo messo al corren-
te della nostra situazione famigliare, ha rimproverato Yari dicendogli, più o meno, queste parole: “ Yari, tu devi rispettare le donne, non le devi trattare male. Io so che tu hai sofferto per nove anni perché sei stato in istituto e so anche che tu sei tanto arrabbiato perché la tua mamma di pancia ti ha abbandonato e forse per questo motivo tu ce l’hai col genere femminile. Tu non devi avercela con le donne perché, anche se la tua mamma di pancia ti ha abbandonato, probabilmente avrà avuto i suoi motivi. Magari non poteva darti da mangiare, comprarti i vestiti e quindi, per farti stare meglio, ha preferito metterti in istituto. Sia lei che lo Stato ti hanno fatto adottare, hanno agito per il tuo bene, lo hanno fatto per farti stare meglio”.
Le confessiamo, caro Dottore, che siamo molto arrabbiati per l’ingerenza e la superficialità di questa insegnante. Tra pochi giorni abbiamo i colloqui con gli insegnanti e temiamo di perdere le staffe; le chiediamo un consiglio che ci metta in grado di affrontare questa signora e di argomentare nel modo giusto le nostre ovvie ragioni. Ringraziandola per l’attenzione, la salutiamo. Due genitori arrabbiati. Gentili Signori, credo facciate bene a perderle le staffe! La conoscenza, da parte di un insegnante, di fatti riguardanti la privacy di un bambino, deve essere motivo per meglio supportarlo nelle normali tappe della crescita cognitiva e sociale e NON diventare un pregiudizio attraverso
AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a: rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione.
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il quale valutarne i comportamenti. I bambini si spingono da che mondo è mondo! E, da che mondo è mondo, i maschi spingono le femmine e viceversa, fino più o meno alle scuole medie, quando entrano in gioco altri fattori che trasformano questi arcaici e brutali modi di interagire in atteggiamenti e verbalizzazioni di altra natura. Sia chiaro: qui non si legittima la violenza. Sarebbe bastato sgridare Yari, come lo si sarebbe fatto per qualsiasi altro bambino della sua età, spiegandogli l’importanza del rispettare i confini fisici dei propri pari. Utilizzare le notizie private del bambino per costrui-
re teorie comportamentali atte a giustificarne taluni atteggiamenti è pericolosamente anti-educativo: si rischia di instillare l’idea di una diversità insanabile, discriminante e incontrovertibile. Il passato non può certo essere cambiato, ma Yari non è certo il suo passato, anzi! È un essere umano in piena fase evolutiva che sta scoprendo le regole dell’interazione sociale e, nel farlo, alle volte sbaglia, come lo facciamo tutti. È chiaro che se Yari passasse tutte le sue giornate a prendere a pugni le compagne sarebbe nostro preciso dovere indagarne più a fondo le ragioni, ma dal dipinto che voi ci re-
stituite nel descrivere gli eventi non pare proprio sia questo il caso! Forse andrebbe ricordato all’insegnante in questione la differenza tra “conoscere un proprio alunno” e “crearsi un pregiudizio sul proprio discente”. Laddove la maestra dimostrasse, durante il colloquio con voi, di non avere le idee chiare in merito, vi suggerirei di coinvolgere nella discussione il Dirigente e sensibilizzare così l’Istituto a un maggiore rispetto e regolamentazione della privacy di chi lo frequenta. Spero di aver risposto adeguatamente al vostro quesito. Un saluto, Dr Franco Carola
psicologia scuola e adozione 10
di Roberta Lombardi Psicologa, Psicoterapeuta sistemico-relazionale e Giudice Onorario Tribunale per i Minorenni di Roma, si occupa da 20 anni di adozione. E’ presidente dell’associazione Contuttoilcuorefamiglie, per l’orientamento, il sostegno e la cura delle famiglie adottive (www.contuttoilcuorefamiglie.it)
Imparare in tempo di crisi
L’integrazione difficile dei ragazzi adottati (e delle loro famiglie) nelle scuole secondarie – prima parte
Non temere i momenti dif- pri di quel ragazzo, quella to un handicap. Pertanfamiglia, quella scuola, al to pretendere a scuola un ficili, il meglio viene da lì trattamento differente per di là dell’adozione? Rita Levi Montalcini questo, rispetto a quello messo in atto verso gli alSovente si parla delle diffi- Lo specifico adottivo coltà di inserimento a scuo- Credo che prima di ogni tri alunni, può veicolare bisogna un pericoloso messaggio di la del bambino adottato. ragionamento, Molto meno si è discusso quindi chiedersi se rite- diversità che non è d’aiuto fin ora delle difficoltà sco- niamo opportuno trattare né per il ragazzo in sé, né lastiche dei giovani adole- l’adottato come una ‘cate- per la sua crescita ed intescenti con storia adottiva, goria’ che caratterizza i fi- grazione nel gruppo classe. ovvero dei problemi che gli negli anni; e se si fino a Ritengo che l’essere adottati sia un elemento proprio insorgono nella scuola se- quando? Ovvero, mi chiedo: esiste della identità, non invece condaria. un elemento di fragilità. In L’esperienza di molte fa- uno specifico adottivo? miglie adottive però testi- Ovvero, si rimane adottivi verità non è neppure una monia le difficoltà a scuola per sempre? Sempre figli, risorsa. E’ una condizione. di molti ragazzi, adottati sempre fragili, e quindi Che come tale caratterizza alcuni aspetti della vita. A ormai molti anni prima. sempre da tutelare? Anzi, sovente i problemi E quindi, i problemi sco- volte spiega molto di quaniniziano proprio gli ultimi lastici che eventualmente to accade, soprattutto nelanni delle scuole medie e un ragazzo può presentare la fase dell’adolescenza. ancora di più alle superio- a 12 – 19 anni in che mi- Sono infatti d’accordo con sura possono ancora esse- Winnicott che afferma che ri. Ma queste difficoltà pos- re ricondotti ancora alla “durante l’adolescenza i fisono esser tutte ricondot- dimensione adottiva, ed è gli adottivi non sono come tutti gli altri, per quanto te al particolare percorso giusto farlo? di abbandono / adottivo, o Sono dell’idea che l’esse- invece si faccia finta che lo non possono invece essere re stato adottato non può siano”. determinate da fattori pro- e non deve essere ritenu- Pertanto sono portata a
pensare che ci si, esiste uno specifico ‘adozione’ nei problemi scolastici dei figli nelle scuole di secondo grado, anche se l’esperienza abbandono/adottiva non può essere naturalmente l’unica chiave di lettura di tutti i problemi che si possono presentare, né in sé una condizione necessariamente limitante. Ottimi percorsi scolastici - resilienza E’ evidente in svariati studi, al contrario, che molti adottati hanno degli ottimi percorsi scolastici, a volte anche migliori di figli non adottivi. Eppure gli operatori dell’adozione sanno bene che la domanda di consultazione da parte delle famiglie adottive arriva sovente proprio a seguito di difficoltà scolastiche, a conclusione di un ciclo con lo spauracchio della boccia-
tura, o all’inizio dell’anno quando – nonostante le promesse dell’estate – iniziano le prime assenze o si scopre che i figli marinano la scuola. Quindi, seppure i ragazzi che presentano problemi a scuola non rappresentano grandi numeri, in quelle situazioni dobbiamo riconoscere che la famiglia vive uno stress davvero notevole e quindi merita delle risposte, delle chiavi di lettura, delle strategie. Inoltre, va anche rilevato che sovente la buona riuscita scolastica di un figlio adottato è l’effetto di un impegno eccezionale in termini di tempo, di forze ed anche di spese economiche da parte della famiglia, per sostenere a casa questi ragazzi con ripetizioni, o con un accompagnamento ai compiti da parte dei genitori stessi o (in casi nient’affatto rari)
con l’attivazione di percorso privato di studi. Quindi se moltissimi giovani con storia adottiva riescono negli studi è anche perché loro stessi e le loro famiglie rendono possibile, con grandi sforzi, il miracolo della cura delle ferite e del superamento del gap iniziale. Questo per tutta la durata del percorso di studi, e non solo nella scuola primaria. Questo impegno eccezionale va riconosciuto alle famiglie dalla scuola e quei ragazzi vadano maggiormente compresi nei loro sforzi. Diventa allora importante poter comprendere quali possibili difficoltà questi giovani più frequentemente affrontano. Tre chiavi di lettura A mio parere 3 diversi aspetti giocano un ruolo importante nella riuscita
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scolastica dell’adolescente con storia adottiva nelle scuole secondarie: 1. La specificità del percorso scolastico – formativo prima dell’adozione e le sfide derivanti dalla perdita della L1 a vantaggio della L2 2. La persistenza di fragilità proprie della storia di abbandono e di istituzionalizzazione subita 3. Il dover fare i conti con il passato Analizzeremo ciascun aspetto traendone indicazioni di intervento. Primo Focus La specificità del percorso scolastico – formativo prima dell’adozione e le sfide derivanti dalla perdita della L1 a vantaggio della L2
Come prima generica riflessione, è evidente che una inadeguata o del tutto assente scolarizzazione impone un recupero faticoso e lento al figlio adottivo, tanto da compromettere la performance anche alcuni anni dopo l’arrivo. In secondo luogo va tenuto conto che anche i bambini che sono stati scolarizzati devono affrontare degli ostacoli nel cambiamento. Per i bambini adottati ‘grandi’ (un numero sempre maggiore) nell’adozione internazionale, questo aspetto si presenta come molto rilevante, almeno negli anni delle medie – primo superiore. In particolare ritengo utile tener conto: a. della diversità dei metodi di insegnamento utilizzati nelle varie materie nella scuola italiana ed
in quella di provenienza. Un esempio è la diversa concezione in paesi come la Russia nell’apprendimento della matematica: il diverso utilizzo dell’apprendimento basato sui problemi, dell’esplorazione e dell’indagine, così come dell’utilizzo di contesti di vita reale per rendere la matematica più pertinente all’esperienza degli studenti o l’utilizzo di strategie di memorizzazione. b. della notevole diversità nelle regole che definiscono lo ‘stare in classe’ nonchè il rapporto ‘insegnante – docente’. Esempio banale è quello dei ragazzi provenienti da scuole rurali dei piccoli villaggi africani, in cui l’insegnamento si svolge prevalentemente all’aperto, che si ritrovano a confrontarsi con una concezione scolastica in cui la
‘classe’ è il luogo privilegiato dell’apprendere. O, di diverso tenore, il notevole disorientamento di quei ragazzi che hanno studiato nella scuola russa, caratterizzata da una impostazione molto severa, in cui si da grande importanza alla disciplina, in cui gli insegnati tendono ad avere un rapporto con l’alunno basato sulla autorità, sul distacco e sulla costante valutazione dell’apprendimento. O anche, sempre a titolo di esempio, la difficoltà di quei ragazzi che nel Paese di provenienza erano stati inseriti nelle scuole speciali (perché portatori di un disagio o di un handicap), che si ritrovano ora inseriti (finalmente, ma anche con qualche difficoltà) in contesti basati sulla integrazione e sulla valorizzazione delle diffe-
renze; c. del cambiamento dei riferimenti: avvenimenti, luoghi, nomi di popoli e personaggi proposti nelle nostre scuole sono molto distanti rispetto a quelli appresi nel Paese di origine. Quello che devono riuscire a fare questi ragazzi già scolarizzati, è un difficile ri-orientamento, troppo spesso sottovalutato nell’impegno cognitivo che richiede. Per comprendere cosa intendo, posso fare un semplice esempio: non c’è da stupirsi se un ragazzo che proviene dall’India, arrivato in Italia da pochi anni, fa fatica a trovare il suo paese di origine su una cartina geografica (percependo di rimando una notevole confusione), essendo stato abituato per molto tempo ad una diversa rappresentazione del mondo,
non eurocentrica, ma con il continente Asiatico al centro del planisfero. Infine merita una riflessione particolare l’esperienza di aver lasciato la propria lingua madre primaria in sostituzione con la lingua madre secondaria. Imparare la L2+ Sappiamo bene che l’apprendimento delle nuova lingua nell’adottato è molto veloce. Gli adottivi dimenticano quasi completamente la propria lingua d’origine nel giro di poche settimane, prima ancora di acquisire la lingua adottiva. E quasi tutti gli adottivi apprendono la nuova lingua così bene da non presentare un accento che tradisce la loro provenienza. A differenza dei bambini
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di famiglie migranti gli adottivi non sono affatto bilingui, se non per un brevissimo periodo all’inizio dell’adozione. La capacità ricettiva può perdurare a lungo, ma in capo ad un anno ogni uso funzionale della lingua d’origine viene a perdersi, e a volte anche prima. Molti studi hanno analizzato le ragioni di questo oblio, concludendo che dimenticare la lingua madre è premessa indispensabile dell’integrazione nella famiglia adottiva e nella nuova cultura. Non appartenere più – nuova appartenenza Madrelingua, è la definizione che “universalmente” si da alla prima lingua che gli individui cominciano a parlare. Queste immagini verbali esprimono suggestivamente l’idea che “la funzione del linguaggio venga ‘presa’ e appresa attaccati al seno materno, insieme al latte”.
L’esperienza di cambiamento catastrofico che l’adozione rappresenta ha in sé un elemento di grande vitalità che si esprime proprio inizialmente nella necessità di apprendere la lingua familiare sostituendola del tutto alla prima, tanto da poter essere definita lingua materna secondaria (che preferisco distinguere dalla seconda lingua chiamandola L2+). La lingua materna secondari (L2+), andandosi a sostituire del tutto alla L1, diventerà anche la lingua interiore; quell’unica lingua che può dare parole alle esperienze della vita, successiva ma anche precedente l’adozione. La nuova lingua, emblema del sistema difensivo che il bambino mette in atto rispetto alla sua vita precedente, diventa significante della nuova appartenenza. Offre l’opportunità di stabilire un nuovo autoritratto che può soppiantare le antiche immagini: E’ ‘nuo-
va identità’. Ma c’è un prezzo da pagare per questo. Il rischio che si corre è quello di una scissione che si opera proprio attraverso la lingua, e che riguarda l’identità: la lingua adottiva viene a delimitare proprio quella frontiera tra il se e il non-se, può diventare la protezione dietro cui difendere la propria identità profonda e quindi può essere un espediente per mutilare il proprio mondo interno (seppure contemporaneamente rappresenta un’ancora di salvezza, un rifugio per ‘rinascere’), le immagini a cui non si vuole - può più accedere. La L1 rappresenta per il figlio adottato l’origine perduta, il radicamento impossibile, “la memoria a perpendicolo, il presente in sospeso” si esprime - per così dire- con il silenzio, attraverso la mancanza di parola. Diviso tra due lingue, quella materna tenuta na-
scosta ed inaccessibile, e quella nuova, appresa ma a volte inefficace a descrivere il pensiero piuttosto che il mondo, il ragazzo preferisce non parlare. Un silenzio, dunque, che mette anche al riparo dall’imbarazzo di non essere capiti o di commettere degli errori.
scrivere che parlare perché per alcuni bambini adottati in età pre-scolare o mai/mal scolarizzati, la scrittura è esperienza ‘primaria’ nel post adozione, non ha concorrenti, e quindi può essere più facilmente depositaria di emozioni altrimenti indicibili nelle nuove parole.
Dice Igor, 20 anni, V° superiore: “a volte mi mancano le parole. Mi piacerebbe disegnare, a volte è quasi più facile scrivere che parlare”
... Ma quale italiano parla?
Dice Anica, 16 anni, 1° superiore: “dottoressa ti posso scrivere su facebook, mi viene meglio. Io non so parlare” Dice Violeta, 16 anni, II° superiore: “Se mi fanno fare il compito scritto capisco meglio, le parole scritte hanno più senso …. Puoi chiedere al professore se mi interroga per iscritto?” Forse diventa piu’ facile
La letteratura sull’argomento distingue tra le basic interpersonal communicative skills, ossia il vocabolario di base e la padronanza delle espressioni quotidiane - abilità linguistiche usate nella conversazione comune che gli adottati padroneggiano molto bene -, e le cognitive/ academic linguistic abilities, usate in un linguaggio più astratto e necessario per l’apprendimento scolastico: per queste sono necessarie una grammatica più raffinata e un vocabo-
lario più ampio, che padroneggia sinonimi e contrari. A questo proposito rilevo, dopo circa un anno di scolarizzazione, il ricorso frequente alla richiesta di intervento logopedico, proprio quando al bambino sono richieste competenze linguistiche più avanzate perché inserito a scuola. Ma è soprattutto nelle classi superiori della scuola dell’obbligo che queste difficoltà emergono massicciamente, a causa di una maggiore pressione all’utilizzo di un lessico specialistico, spesso lontano dalla lingua comune. Alcuni adolescenti con storia adottiva evidenziano inoltre difficoltà nello studio delle singole materie, più in generale, per la fatica di intendere concetti astratti e per il gap nella comprensione del significato globale di un testo. Le cause sono la presenza nei testi scritti, sempre più articolati, di termini polisemici o delle sinoni-
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mie1 o, per alcune materie specifiche come nel caso della storia, per le particolari caratteristiche morfosintattiche: una sintassi molto complessa, che vede l’uso frequente del gerundio, del participio passato, di forme passive ed impersonali. Quegli stessi ragazzi sono invece capaci di gestirsi molto bene in situazioni di linguaggio comune. Si può pensare che queste difficoltà nell’uso scolastico della L2+ riguardi i ragazzi adottati più tardivamente. Gli studi da più parte ci dicono che il gruppo di adottivi più a rischio nell’apprendimento della nuova lingua sono, al contrario, i bambini adottati tra i quattro e gli otto anni, e non i bambini adottati ‘grandi’.
Quando l’adozione è avvenuta prima dei quattro anni, i bambini hanno davanti a sé un periodo lungo di apprendimento prima di entrare a scuola, mentre i bambini di più di otto hanno già imparato a leggere e a scrivere nella lingua madre e possono pertanto trasferire alcune abilità cognitive nella nuova lingua. Mentre, gli adottati tra i quattro e gli otto anni si trovano in una fase in cui il linguaggio dovrebbe essere consolidato, ampliato, mentre si trovano ‘a dover ricominciare da capo’. Spesso i genitori adottivi, stupiti e soddisfatti per i rapidi progressi in abilità comunicative di base, non si rendono conto del bisogno di un supporto linguistico ulteriore. Quando il problema diventa evi-
dente, questo richiede uno sforzo di recupero maggiore. E il tempo in cui ci si pone il problema, sovente coincide con le maggiori richieste di prestazione proprie della scuola media o ancor più superiore. In quegli anni, a volte lontani dall’evento adottivo, lo sforzo richiesto ai ragazzi, sia a scuola sia a casa (nei percorsi di recupero pomeridiano) facilmente trascura una analisi del percorso affrontato (in termini di apprendimento, di sviluppo linguistico, di competenze cognitive e di gap relativi) e centra invece sulle singole materie da apprendere e sul rendimento conseguente. Quali interventi, quali strumenti, quale modalità?
1 Per termini polisemini si intende quelle parole che possono assumere un significato diverso da quello che viene loro attribuito nel linguaggio comune - es. ‘scala’ in geografia - e possono presentare accezioni diverse a seconda del contesto e del tempo. Le sinonimie, invece si verificano quando uno stesso concetto viene espresso con termini diversi all’interno dello stesso testo
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I genitori adottivi sono molto interessati alla vita scolastica del figlio, certamente perché (come spesso si dice) ne fanno anche un metro della adeguatezza del ragazzo alle aspettative di una vita ‘sana’ e di loro stessi in quanto genitori ‘adeguati’. Ma obiettivamente chi rileva delle fragilità nel figlio non può sottrarsi al grande impegno in termini di tempo,
energie e costi per sostenerlo al fine di una riuscita adeguata. Tutto questo andrebbe maggiormente riconosciuto dal sistema scolastico, affinché la famiglia si possa sentire sostenuta in un percorso CONDIVISO. Occorre dal canto suo che la scuola possa uscire da una logica del ‘profitto’ e in alcuni casi (e gli adottivi sono tra questi) premiare
il movimento, prima ancora che il risultato. Chiediamoci: da dove partono questi ragazzi? Quale percorso hanno svolto sinora?, che risultati hanno ottenuto e, in previsione, quali risultati ci aspettiamo? Quanto tempo hanno ancora? Questo significa fare un progetto condiviso scuola – famiglia.
scuola e adozione
Vilma Lettieri coordinatrice scuola dell’infanzia paritaria
Mi arrabbio perchè lui dice che dico bugie
Scuola e adozione si incontrano e scontrano nel gioco dei bambini. 18
Ecco come Giovanni mi accoglie stamattina. E’ arrabbiato! Questa è la scena che mi si presenta oggi entrando in classe: Mario (4 anni) e Giovanni stanno discutendo animatamente. Giovanni agita le mani e le braccia, e ripete con insistenza - con la ferma intenzione di ottenere la sua ragione - “non è vero TU dici bugie…non è vero TU dici bugie…non è vero TU dici bugie…”. Mentre Mario, senza guardare Giovanni perché impegnato con lo sguardo e le mani in una seria costruzione di lego, con tono fermo e deciso ripete con insistenza “non è vero tu dici bugie…” . A quel punto chiedo: “Giovanni che succede perché litigate? Ora basta…” Pensando fosse per l’ennesimo litigo dovuto ad un
mattoncino di lego conteso. Ma Giovanni ripete urlando senza lasciarti la possibilità di parlare “Mario dice che dico bugie…non è vero! Lui dice bugie” gesticolando animatamente e camminando velocemente nella classe. Era serio e preoccupato. Era una questione importante. Troppo Importante per lasciarsi dire che era un bugiardo ed accettare questa risposta. Si trattava della sua vita e non di un gioco. Ma questo non lo sapevo ancora. Li riavvicino entrambi e chiedo: “Giovanni e Mario perché state litigando?”. Giovanni “Lui dice che dico bugie e che non è vero che il giudice mi dà una sorellina di due anni!”.
Ecco Mario, che sempre con lo sguardo sulla sua costruzione lego, da sua versione: “non è vero!!! Le sorelline arrivano quando hanno un anno e non due anni!”. E’ vero tutto. Entrambi hanno detto il vero. Entrambi hanno la loro verità e ragione. Anzi hanno le loro legittime ragioni: Per Giovanni, adottato, le sorelline arrivano perché si dice al giudice che si desidera una sorellina. E, come gli hanno spiegato la sua mamma e il suo papà, il giudice può decidere per una sorellina piccola o più grande anche di 2 o 3 anni. E comunque più piccola di lui. Invece per Mario, al quale è nata una sorellina da poco, le sorelline non arrivano a 2 anni ma arriva-
no piccole piccole...proprio come la sua. Le sorelline appena nate non arrivano a casa grandi. Ha ragione…per lui tutto ha inizio da 1 non da 2. Sono in mezzo a loro, piegata sulle ginocchia, con lo sguardo alla loro altezza. Giovanni a questo punto mi guarda fermo aspettando la mia risposta. Mario continua a giocare. Rispondo: “Giovanni non ha detto una bugia, le sorelline possono arrivare anche a due anni”. Poi guardo Giovanni e dico: “Ma che bella notizia! Davvero arriverà una sorellina? Ma è un tuo desiderio o il desiderio di tutta la famiglia? Hai deciso tu da solo o insieme a mamma
e papà? ” (perché è da un anno che esprime questo suo desiderio!). Giovanni sorride e con gli occhi che s’illuminano mi dice “io…e insieme! Andiamo a prenderla in Cina”. Ed io rispondo “che bello!!! Che bella notizia!” Era contento. Ora si allontana e va a giocare. Nel frattempo, Mario continua a giocare con lo sguardo sui lego. Mi avvicino e mi dice brontolando “le sorelline non arrivano a 2 ma arrivano a 1!” Allora gli parlo con voce bassa accanto mentre continua a giocare. “Giovanni non ha detto una bugia: esiste davvero il giudice dei bambini. Ci sono bambini che hanno 2 anni che non hanno una mamma e un papà. Questi bimbi sono protetti dal giudice dei bambini. E il giudice cerca per questi
bambini una famiglia: una mamma, un papà e anche un fratellino come Giovanni”. Lui rimane in silenzio. Smette per un attimo di giocare. Io continuo a raccontare. “Giovanni, la sua mamma e il suo papà hanno detto al giudice dei bambini che voglio diventare la famiglia di una bambina. E il giudice ora deve decidere. Giovanni non ti ha detto una bugia. Sai le sorelline arrivano in due modi: dalla pancia della mamma o dal giudice dei bambini, come ha detto Giovanni”. Mi guarda e gli chiedo “hai capito”. Lui risponde serio “va bene” mentre continua a giocare con la sua costruzione lego. Ora Giovanni felice dà l’annuncio a tutti…di questo suo grande grande grande desiderio!
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giorno dopo giorno
di Giuseppe Nostro
Il nostro primo incontro 20
Io e mia moglie Emma siam partiti per l’Ucraina esattamente tre anni fa. Era il 30 novembre, lo ricordo come fosse adesso... I primi giorni a Kiev sono stati terribili, eravamo in ansia per l’abbinamento che in Ucraina avviene solo sul posto. Partiti così, all’avventura, avevamo dato la disponibilità per due fratelli o sorelle in età scolare, ma ci immaginavamo dei bimbi biondissimi e abbastanza piccoli, pur temendo fortemente che il loro effettivo stato di salute potesse riservarci delle brutte sorprese. Il primo incontro con i nostri bambini sarebbe stato di lì a qualche giorno e l’ansia non andava via. Avevamo letto su Internet tante storie di bambini adottati che avevano seri problemi di salute e temevamo fortemente potesse capitare
anche a noi, forse perché non ci sentivamo pronti ad affrontare questa eventualità. Dulcis in fundo, il clima trovato in Ucraina non era molto incoraggiante: freddo pungente, -17°, strade ghiacciate e la gente che praticamente pattinava sul ghiaccio con tutti i tipi di scarpe, anche le meno adatte, a volte ci fermavamo stupiti a osservare l’incedere sicuro sulla neve ghiacciata di snelle ragazze ucraine con tacco 12, per loro era come camminare sull’asfalto lucido! La prima passeggiata al centro di Kiev è stata un vero esercizio di equilibrismo, ma non si poteva star fuori per più di 5-10 minuti perché non bastavano cappelli e guanti di lana, ci voleva il burka... davvero ti si congelavano naso e orecchie, quindi facevamo dei continui pit-stop come
dire... termici, tra un tratto di strada e l’altro, entrando e uscendo dai negozi della Khreshchatyk. Il centro di Kiev è abbastanza globalizzato per via dei tanti negozi e department stores (i centri commerciali multipiano) all’occidentale, c’era il negozio di Zara e altre marche di catene europee, il che lo rendeva abbastanza carino, per noi viaggiatori di lungo corso di tutte le principali città europee... L’albergo che avevo prenotato dall’Italia era il Rus Hotel, nomen omen, classico albergone della Mitteleuropa, ma rimodernato e con servizi tutto sommato soddisfacenti, wifi incluso. Solo un problema, se si sostava accanto alle finestre della nostra camera arrivavano degli spifferi gelati. Insomma il secondo giorno ero già raffreddato cotto!
Il 3 dicembre era il giorno fissato per l’abbinamento al Dipartimento della Famiglia di Kiev. Ci siamo presentati tutti emozionati all’appuntamento con la nostra referente e quindi siamo entrati nella sala della funzionaria. Ci ha squadernato un librone pieno di foto di bimbi con patologie varie, mostrandoci la prima coppia di fratelli. Che brutto momento scegliere il destino di due bambini così, su due piedi, eppure... toccava farlo! La prima coppia era formata da due bei bambini biondissimi, uno di 13 anni e l’altro di 7, il grande era in salute già alto e coi baffetti, ma il piccolo era ammalato abbastanza seriamente, del resto la foto lo raffigurava mentre piangeva, il che non prometteva nulla di buono. Viste le mie titubanze, presagendo
un nostro rifiuto, non appena ci ha presentato la seconda coppia di fratelli, formata da Rustam 9 anni e Anatoly 6 anni, due bambini bruni sorridenti, io mi son sentito sollevato. Non me la sentivo di accogliere un bambino malato e l’altro così grande, sentivo dentro di me che non gliel’avrei fatta. Così la scelta cadde sui due fratelli brunetti. La funzionaria del Dipartimento, vedendo la nostra perdurante ansia per le condizioni di salute dei bambini, volendo rassicurarci ulteriormente, ha telefonato alla Diezstki Dom dove stavano i bambini, a Odessa. “I pambini sono bbuoni” ci disse, insomma stanno in buona salute, potete partire. Nei giorni che ci separavano dalla partenza per Odessa, mia moglie, che aveva resistito fino allora, non
ha fatto che piangere e lagnarsi, era rattristata per il futuro che attendeva la coppia dei bambini “non scelti” e soprattutto per il più grandicello. Io cercavo in tutti i modi di distrarla e rincuorarla, ma lei temeva fortemente che più nessuno si sarebbe interessato a loro... c’era poco da dire, forse aveva ragione, che tristezza. La vita da e toglie nello stesso istante. Il treno notturno che portava da Kiev a Odessa era solo un lontano parente del mitico Orient Express, era un vecchio sferragliante treno sovietico che procedeva con lentezza impressionante, ci ha messo dodici ore a coprire i 600 km che separavano Kiev da Odessa: velocità media 50 km/h. L’unica cosa caratteristica che ricordo era l’antica macchina del the. Da ingegnere nell’anima,
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come i miei amici dicono che io sia, mi ha stupito il raffinato impianto del boiler con caldaietta autonoma a legna, in testa al vagone, separata dal resto dell’impianto termico del treno. Mia moglie non è stata entusiasta del the, si è dovuta forzare a bere pensando con malcelato istinto igienista alla quantità di persone che aveva già bevuto dallo stesso bicchiere in vetro che lei stava sorbendo: “Chissà se li lavano e come li lavano... ”, io non me ne son curato e ho bevuto senza pensarci, semmai notando compiaciuto il fine decoro dorato del bicchiere e la maniglia metallica che cingeva e reggeva il bicchiere. Siamo arrivati sulle rive del Mar Nero nella tarda mattinata, scoprendo con piacere che il clima a Odessa era più mite, se così si può
dire, la temperatura oscillava intorno allo zero. Era con noi la nostra interprete, che ci avrebbe assistito per tutto il percorso adottivo, una ragazza bruna di lingua russa, giacché la città di Odessa era stata per un secolo il principale porto sul Mar Nero della vecchia Unione Sovietica e quindi la principale lingua parlata era proprio il russo! Parlava un italiano approssimativo, ma era abbastanza esperta per quel particolare lavoro: interprete, assistente burocratico e... tuttofare. Appena arrivati e sistemati i bagagli in albergo alla velocità della luce, ci siamo fiondati con un taxi alla vicina Diezstki Dom (letteralmente Casa dei Bambini) per vedere i bambini così a lungo immaginati e sognati. La Diezstki Dom era quello che in Italia
chiameremmo orfanotrofio. In realtà più che di orfani si trattava e si tratta di bambini abbandonati per vari motivi dalle famiglie di origine: alcolismo, povertà, tossicodipendenza e altri simili regali che l’occidentalizzazione ha creato alla società dell’ex Unione sovietica. L’istituto era abbastanza dignitoso, come poi avremmo appurato nei giorni e nei mesi seguenti. Era diviso in due classi di età, una per i bambini da 6 a 8 anni e l’altra per i bambini di 9-10 anni. Ogni classe di età aveva a disposizione una camerata con circa venti lettini, una grande sala da pranzo che fungeva anche da soggiorno e un’aula scolastica con la sua bella libreria e gli armadietti per gli oggetti scolastici. I bagni erano in comune: una fila di lavandini in una stanza e una
fila di vasini in un’altra... Il nostro primo giorno in Istituto è stato indimenticabile. Stavamo in piedi col cuore in tumulto nella stanza della direttrice, una donna di mezza età che ha cominciato a parlare dei bambini, della loro salute e della loro vecchia famiglia, mentre l’interprete traduceva a noi. Sono stati i trenta minuti più lunghi della nostra vita. Io non riuscivo a prestare molta attenzione alle loro parole, tanta era l’attesa e l’impazienza di vedere se i due bambini fossero davvero così come li avevamo immaginati dalle due sole fotine che avevamo visto di loro. E finalmente il momento tanto atteso, il primo incontro... mentre scrivo queste righe riesco a stento a trattenere le lacrime, e son passati già tre anni... E’ stato in una piccola sa-
letta con un vecchio divanetto abbastanza comodo, dove avremmo poi passato lunghe ore in allegra compagnia dei bambini per giorni e giorni. Le maestre ci hanno introdotto in questa saletta e ci hanno detto di aspettare. Dopo cinque minuti che non passavano mai, eccoli... il piccolo Anatoly si è avvicinato lentamente con timidezza, ma con fare orgoglioso, come a dire “E questi ora cosa vogliono?”, invece il grande più risoluto con due salti e con un gran sorriso è arrivato subito da noi per ricevere il primo bacio da mia moglie. Gli occhi di mia moglie erano lucidissimi e anch’io ho dovuto frenarmi per non sommergere di baci Rustam e soprattutto Anatoly, mi sono limitato a un piccolo bacetto, per rispettare la sua naturale ritrosia. Rimaneva un solo
piccolo-grande problema: non conoscevamo una sola parola di russo e loro non conoscevano una sola parola d’italiano. Allora abbiamo tirato fuori il coniglio dal cilindro, i giocattoli: due macchinine radiocomandate nuove di zecca! E i bambini hanno iniziato subito a giocare gioiosi, dimenticando almeno per un po’ i dolori dell’abbandono, della vita in istituto e delle ansie del futuro che fino allora li avevano accompagnati. Io ed Emma forse non eravamo mai stati così felici prima di allora, ma ci attendevano tre lunghi mesi prima di portarli in Italia, anche se ancora non lo sapevamo.
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giorno dopo giorno
di Raffaella Ceci
È ora di crescere 24
Sto male. Ho un nodo in gola che mi soffoca, ma devo farmi forza, non mi devo voltare a guardarlo, altrimenti scoppio a piangere e lui ci resterebbe male. Guardo di sottecchi mio marito, che cammina accanto a me… si sta soffiando il naso, beh, mi consolo, è in agitazione anche lui. Penso all’ ultima parola di nostro figlio “Andate” accompagnata da un gesto eloquente della mano. Niente, neanche un bacet-
to o un abbraccio, ed io “ti chiamiamo domani”…, ma lui già voltato ad ascoltare quello che dice l’allenatore, imbarazzato dal fatto che eravamo gli unici genitori lì a disturbare… Torniamo a casa, ripetendoci a vicenda che si divertirà come un matto, giocherà e farà sport tutta la settimana, ma… caspita, stamattina faceva proprio freddo lì in Austria, e se non si veste abbastanza? E se si ammala? E se … quasi non abbiamo il coraggio
di pronunciare la parola, e… se si sente abbandonato un’altra volta ? Ma forse siamo solo noi a farci un sacco di problemi per nulla: venerdì torniamo a prenderlo e quando gli chiederemo com’è andata la risposta sarà la solita, che ci dà a fine giornata sia che si tratti di scuola sia che si tratti di campo estivo: tutto bene. OK, Raffaella, ormai è ora di crescere e tranquillizzarmi, ce la posso fare!
CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.
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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.
Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.
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giorno dopo giorno
di Antonio Fatigati
La donna della foto 26
Della donna ripresa in questa fotografia non sappiamo nulla, né il nome, né dove vive, né che lavoro faccia. E’ una donna anonima e questo rende perfetta la fotografia. La scena invece è fin troppo nota, Sicilia, estate 2013, uno dei tanti sbarchi di uomini, donne, bambini, in cerca della terra promessa. Quando il barcone si è arenato a pochi metri dalla riva i bagnanti, tra cui questa donna, hanno formato una catena umana per portare a terra i bambini. E allora fermiamoci un momento a osservarla questa foto, facciamoci conquistare dalla bambina, appoggiata tranquillamente sulla spalla della donna, a lei estranea. Poi sostiamo sul volto compreso e serio della donna, che appare concentrata per portare a termine un compito
delicato e importante nello stesso tempo. Al mattino, sarei disposto a scommetterci, era uscita di casa pensando di poter trascorrere una tranquilla giornata di mare, posso immaginare qualche chiacchera con le amiche in spiaggia, il sole, forse due passi sulla battigia. Finché l’inaspettato si è materializzato: una barca sempre più vicina, gente straniera a bordo che si agita Qualcuno che si butta in acqua prima che dalla spiaggia possano avvisare la Guardia costiera e diventi impossibile evitare di essere portati nel centro di accoglienza. Qualcuno, per questo, morirà annegato, forse per un calcolo sbagliato, forse contando troppo sulle proprie capacità. Ma sulla barca c’è anche chi non può muoversi, come i bambini. E allora si
organizza la catena umana a cui la donna della foto non si è sottratta. Alla sera sarà tornata nella sua casa con negli occhi le immagini di quel giorno e, mi piace pensarlo, continuando a sentire sulla spalla il peso leggero di quella bimba. A cui auguriamo che questo Paese, che continuiamo imperterriti ad amare anche grazie a persone come la donna della foto, dia un’opportunità insieme alla sua famiglia. Una bambina, che ha compiuto un tale, lungo, terribile viaggio, mi pare proprio che meriti che il Paese così a lungo desiderato apra le proprie braccia ad accoglierlo. Delle braccia capaci e amorevoli, proprio come quelle della donna della foto.
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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu
Leggere, fare e raccontare
Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di Barchetta Blu 28
10. Questo mese: Anch’io vado a scuola
Se mi insegni, io lo imparo Se mi parli, mi è più chiaro Se lo fai, mi entra in testa Se con me tu impari, resta. Nel libro Rime Raminghe ci sono cinquanta poesie raccolte e poi scritte da Bruno Tognolini in più di quindici anni. Tra queste ho scelto quella chiamata Diritto all’educazione che spiega in poche parole come i bambini rispondano agli imput degli adulti: se l’adulto insegna il bambino impara, se l’adulto parla il bambino ascolta e capisce con più chiarezza, ma solo se l’adulto sta con lui
il bambino interiorizza e assimila veramente, avendo bisogno di una serenità emotiva per apprendere. I bambini hanno bisogno di essere sostenuti, supportati, aiutati. Per genitori e bambini i primi giorni di scuola sono impegnativi e complessi. L’inizio dell’anno scolastico o ancor di più l’inserimento a scuola per un bambino adottivo che arriva in Italia ad anno iniziato, ha bisogno di una particolare attenzione. Si tratta infatti di un grande cambiamento e di un momento di crescita emotiva non priva di paure e difficoltà. Molte volte sento dire che i bambini devono essere responsabilizzati, devono essere autonomi e devono cavarsela da soli, magari riferendosi a bambini di seconda elementare. Sono convinta che ci sia tempo per mettere alla prova i bambini e per
sviluppare in loro autonomia e capacità di sapersi arrangiare. Come magistralmente viene espresso da Bruno Tognolini nella poesia, i bambini hanno bisogno di adulti che stiano con e insieme a loro. I libri, le storie illustrate, gli albi e i racconti possono venire in aiuto di genitori e insegnanti suggerendo situazioni in cui i bambini possano immedesimarsi. Per sdrammatizzare si possono trovare dei momenti per inventare rime e filastrocche sugli accadimenti dei primi giorni di scuola; con l’aiuto di albi illustrati e piccoli racconti si può dare la possibilità ai bambini di trovare le parole giuste per raccontare i momenti più difficili. Per strada, al ritorno da scuola, a pranzo o a merenda, in biblioteca o distesi sul divano del salotto di casa si può fare il gioco dell’inventarima e avere
la possibilità di parlare di ciò che è successo a scuola. All’inizio sarà l’adulto a suggerire gli argomenti e le rime ma poi i bambini diventeranno dei veri e propri poeti e inventori di filastrocche. Ecco alcune rime di bambini e genitori che hanno partecipato ad un incontro in biblioteca sui primi giorni di scuola: “Son tre notti che non dormo perché penso al primo giorno ai miei compagni cosa dire, senza aver paura “da moririe” “Colazione e zainetto, libri e anche un fazzoletto Sono pronto per uscire ma vorrei tornare a dormire” “Quando vedo la mamma andare via mi viene una grande malinconia Mi viene da piangere e sono disperato, mi sento solo e abbandonato” “C’è un bambino che mi dice ciccione, lui è un vero
mascalzone una bambina mi fa la linguaccia ma poi mi prende per mano e forte mi abbraccia” “Oggi ti ho detto all’entrata di scuola stai contento e buon divertimento Io al lavoro ti ho comunque pensato e son felice tu sia ritornato Ogni mattina a scuola ti porto per giocare e imparare Al pomeriggio poi stiamo insieme per raccontarci e ricordare”.
ma diretto della reazione di un gruppo di insegnanti davanti ad un nuovo modo di comportarsi di una intera classe. A dire il vero si tratta di una sorta di sfida fra marchi e femmine, fra bambini e adulti. I bambini della classe di Dave vengono chiamati gli inzittibili poiché sono la classe quinta più chiacchierona e rumorosa degli ultimi anni. Dave allora, ispirandosi a Gandhi, durante una ricerca sull’India, ha pensato di provare a stare in silenzio per un’ora, per un’intera giornata, senza dire una parola. Aveva letto che per molti anni, per un giorno alla settimana, Gandhi restava in assoluto silenzio. Era convinto che fosse un modo per rimettere ordine nella sua mente. Nell’ironico e divertente li- Il protagonista della stobro Il gioco del silenzio di ria rimane affascinato da Andrew Clements si rac- questa possibilità e lancia conta in modo semplice la sfida alla inarrestabile
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compagna di classe Lindsey. All’inizio la sfida è solo tra lui e lei per quattro ore; poi, sottolineando il fatto che i maschi parlano sempre meno delle femmine, la sfida diventa per due giorni e per tutti i bambini della classe. Non potendo dire niente a nessun adulto e non potendo proprio stare sempre in silenzio si stabilisce che a casa come a scuola si possono dire al massimo tre parole di seguito; ogni parola in più è un punto contro la propria squadra e ognuno segna i propri punti lealmente. Scorrendo fra le pagine di questo libro, la cosa che più mi ha sorpreso è la reazione degli adulti. Improvvisamente preside e insegnanti hanno ottenuto dai bambini di quinta quello che per tanti anni con grida e megafoni hanno sempre richiesto: il silenzio. Para-
dossalmente però, invece di esserne contenti ne vorrebbero fare a meno; anziché cogliere al volo questa nuova possibilità, gli adulti contestano i bambini e vogliono ancora un volta punirli e obbligarli a rientrare sotto il loro controllo. Per fortuna non tutti gli insegnanti reagiscono allo stesso modo. Alcuni adulti infatti si rendono conto che la proposta dei bambini può aprire nuovi e interessanti scenari didattici; qualche insegnante ha capito che la motivazione fa superare ogni difficoltà e che valorizzare l’intraprendenza dei bambini può essere utile in molte occasioni. La vita a casa e a scuola si intreccia in questo stravagante gioco che coinvolge allievi, insegnanti e genitori. Spesso chiediamo ai bambini di stare in silenzio in un
modo non proprio gentile e calmo, e così otteniamo al contrario ancora più confusione. Forse l’autore ci vuole anche spingere a riflettere su come ci dovrebbero essere ben altre occasioni di scambio e condivisione fra scuola e famiglia. Un piccolo spunto pratico può proprio essere quello di provare anche noi, con i nostri bambini a stare in silenzio per un po’. Non un silenzio di rimprovero o punitivo ma un silenzio magico che permette di sentire le gocce di pioggia, il vento, il respiro e il battito del cuore. A volte per grandi e piccoli lo stare in silenzio spaventa; stare in silenzio significa riflettere su se stessi e mettersi in una condizione di ascolto. Da un lato si chiede di non parlare, di non fare più niente ma dall’altro si chiede di concentrarsi e
prestare maggiore attenzione. I bambini sono così invogliati a dare maggiore ascolto al mondo che li circonda. Il vecchio e ingrato compito di segnare alla lavagna chi non sta in silenzio può essere sostituito con lo scrivere chi nel silenzio di base riconosce più rumori e suoni possibili.
Un libro davvero strabiliante ed emozionante, intenso e divertente che genitori, insegnanti e bambini dovrebbero assolutamente leggere è Wonder di R. J. Palacio. Essenzial-
mente questo è un libro sulla gentilezza: a casa e a scuola, con gli amici e con i familiari, dappertutto e in ogni momento la gentilezza ci dovrebbe sempre accompagnare. La storia di August è così intensa e profonda che coinvolge dalla prima all’ultima pagina. Commuove e fa sorridere, diverte e fa riflettere. August è un ragazzo normale ma con una faccia speciale, con un volto deforme dalla nascita. Per i primi dieci anni della sua vita viene protetto dalla sua famiglia che lo istruisce in casa e filtra tutti i rapporti con il mondo circostante. Quando compie dieci anni, arriva però il momento in cui deve andare in una scuola vera e propria e Auggie deve accettare questa inevitabile decisione di frequentare la prima media insieme a
tanti altri ragazzi. Il protagonista è tenace e ironico ma è anche schiacciato dalla paura: chi gli rivolgerà la parola? Chi si siederà vicino? Come dovrà comportarsi con gli altri? Riuscirà a convincere i suoi coetanei che nonostante le apparenze lui è proprio come loro? Fino a quel momento, l’unico giorno in cui August si era sentito come gli altri bambini era stato la festa di Alloween; in quel giorno August poteva liberamente aggirarsi con la sua maschera e con il suo costume di guerre stellari senza essere notato; poteva finalmente sentirsi un bambino come tutti gli altri. La sindrome di August gli ha deformato il viso e le molte operazioni non hanno riportato la faccia alla normalità. Quindi il suo aspetto esteriore condiziona fortemente qualsi-
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asi relazione con coetanei e adulti. Quando inizia a frequentare la nuova scuola, August si accorge che molti parlano di lui, a volte con disgusto, a volte con sorpresa. Per fortuna il protagonista scopre anche che c’è qualcuno, come la sua nuova amica Summer, che va oltre l’aspetto esteriore; con lei scherza, ride e compila la sua personale classifica di bulli e antipatici. La vita a scuola non è per niente semplice soprattutto quando scopre che il compagno di classe Julian, geloso dell’amicizia di Auggie con Summer, inventa la diceria secondo la quale toccare August significa prendersi la peste! L’autrice del libro racconta che ha deciso di scrivere questa storia poiché è rimasta sbigottita di se stessa e della sua reazione davanti ad un bambino con il viso deforme incon-
trato in un parco. Uno dei suoi figli, vedendo il viso di quel bambino così diverso, aveva iniziato a urlare fortissimo e lei, non sapendo cosa fare, era scappata portandosi via l’amara sensazione di aver reagito in modo sciocco e insensibile. Così ha deciso di scrivere questa sorta di diario raccontando August ma anche la sua famiglia e sua sorella adolescente, la sua scuola e i suoi compagni, lo sconforto iniziale e la forza di superarlo in una storia di affetto e amicizia. Ma come ho accennato, Wonder è soprattutto un libro sulla gentilezza, così rara e preziosa di questi tempi. Leggendo queste pagine si deve ammettere che sono per primi gli adulti ad aver difficoltà ad accettare le differenze, a non saper insegnare la gentilezza, a voler spesso dimostrare il loro bisogno di sopraffazio-
ne. Sono spesso gli adulti i primi a non sapersi rapportare con una diversità. La reazione di chi incontra August può essere descritta con wonder, lo stesso titolo del libro che indica una sensazione che non si riesce a tradurre in italiano con una sola parola: si tratta di un incrocio tra stupore, meraviglia e curiosità provocata da qualcosa di anomalo. So di non essere un normale ragazzino di dieci anni. Sì, insomma, faccio cose normali, naturalmente. Mangio il gelato. Vado in bicicletta. Gioco a palla. Ho l’Xbox. E cose come queste fanno di me una persona normale. Suppongo. E io mi sento normale. Voglio dire dentro. Ma so anche che i ragazzini normali non fanno scappare via gli altri ragazzini normali tra urla e strepiti ai
giardini. E so che la gente non li fissa a bocca aperta ovunque vadano. Così si descrive il protagonista, con la sua rarissima sindrome che non gli impedisce di essere molto intelligente e ironico, simpatico e determinato; naturalmente le sue incertezze sono tante e soprattutto la paura di non trovare il suo posto nel mondo lo accompagna in ogni istante. Ogni giorno, adulti e bambini, fanno i conti con le proprie incertezze e debolezze; ogni giorno è possibile cercare di superare le proprie paure confrontandosi con gli altri e cercando di conoscere meglio sé stessi e gli altri. In questo stupefacente libro si riesce a parlare di moltissimi temi: rapporti interfamiliari, scuola, amicizia, bullismo, ricerca della propria identità.
Lo spazio per ridere e per commuoversi, per gioire e per aver paura, per appassionarsi e per temere non toglie mai niente alla vera protagonista presente in ogni pagina: la gentilezza. Non intesa come un finto perbenismo ma come una necessità di prestare ascolto ai bisogni dell’altro. Il libro è consigliato dai 12 anni in su ma io lo suggerisco anche a genitori e insegnanti che abbiano la voglia e la pazienza di leggere ad alta voce, magari qualche pagina al giorno, anche con bambini più piccoli. Quando ti viene data la possibilità di avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile. Con questa affermazione, l’autrice, attraverso il suo libro, vuole convincerci che la gentilezza sia l’atteggiamento migliore per condizionare in meglio ogni cosa
che ci circonda. Anche io ne sono convinta e chiedo a tutti di condividere con me questo semplice ma prezioso pensiero.
Bibliografia per bambini e ragazzi che crescono Rime Raminghe. B. Tognolini, Salani Editore, 2013 Il gioco del silenzio. A. Clements, Rizzoli, 2010 Wonder. R. J. Palacio, Giunti, 2013 La maestra è un capitano. A. Ferrara, Coccole e Caccole, 2012 Fra i banchi. G. Rodari, G. Orecchia, Einaudi Ragazzi, 2013 Ascolta il mio cuore. B Pitzorno, Mondadori, 2010 Ladre di regali. A. Chambers, Giunti, 2004 Siti interessanti www.webalice.it/tognolini www.wonder.giunti.it
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sociale e legale
di Greta Bellando Studentessa di Pedagogia, appassionata alla tematica adottiva, che ha approfondito nella prima tesi e curerà anche nella seconda; collabora da un anno con ItaliaAdozioni.
Convegno Adottivi non si nasce, si diventa 34
Una grande sala, maestosa antica, che ‘assapora di storia’; tante le persone che accoglie, ciascuna con il proprio vissuto, dal genitore, all’operatore psicosociale, a loro, i veri protagonisti: i figli adottivi. Una sala divenuta il centro del Mondo, con i suoi colori, con gli occhi che narrano quelle origini, con i tratti che rivelano gli angoli della terra, le sue sfaccettature e le sue tortuosità. L’evento è stato organizzato dal CIAI (l’Ente che per primo avviò le adozioni internazionali in Italia – nel 1968) e si è svolto a Milano presso il palazzo Schuster. La volontà di creare quest’occasione di confronto, è nata dalla volontà di restituire – a tutte le figure del panorama adottivo – quanto avvenuto a Bologna per il primo Meeting italiano dei figli
adottivi. Le numerose richieste di partecipazione già a quest’ultimo evento, hanno portato alla creazione di questa ricchissima giornata. L’incontro ha unito esperienze di adozione nazionale e internazionale, di giovani adulti che si sono raccontati e confrontati, principalmente, su tre tematiche: la ricerca delle proprie origini, l’identità etnica e il significato dell’essere adottivo nel corso della vita. Ogni argomento trattato è stato una restituzione di quanto avvenuto lo scorso giugno, a Bologna, (primo meeting nazionale), dove in quell’occasione, i figli adottivi avevano avuto la possibilità di dialogare senza pregiudizi, senza paure, all’insegna della libertà di espressione. Paola Crestani (Presidente CIAI) ha ‘aperto le por-
te’ ad una giornata davvero entusiasmante tra emozione e commozione. Lei stessa ha sottolineato l’importanza di un dialogo continuo, di creare momenti di incontro poiché sono i figli stessi - a partire dal loro patrimonio di emozioni, esperienze e conoscenze - ad insegnarlo a tutti noi. E’ importante riconoscere anche il valore delle famiglie, di coloro che mettono in gioco l’amore. La Presidente, nel lasciare la parola agli innumerevoli interventi, ha ringraziato proprio le famiglie poiché senza di loro, non si potrebbe parlare di adozione. A seguire, l’intervento di Fernanda Contri (Presidente della Commissione di studio sulle adozioni internazionali) ha evidenziato la straordinaria presenza di ‘tutti i protagonisti dell’adozione’, sottolinean-
do che un figlio è un atto di amore e di intelligenza, non devono esistere differenze, non vi sono figli di serie A o di serie B. L’intera giornata è stata condotta da Marco Chistolini (Psicologo-Psicoterapeuta, responsabile scientifico CIAI, coordinatore del GAA), il quale ha esordito con un’affermazione di grande rilevanza: “L’adozione non finisce con l’età adulta, ma dura tutta la vita”; essere adulti adottivi comporta impegni fisiologici come: acquisire l’autonomia, divenire coppia, genitori…. Tutto questo, seppur comune a tutti i giovani, negli adottati gli eventi si colorano di specificità e occuparsi dell’età adulta è fondamentale poiché è la fase più lunga della vita. L’attenzione all’età adulta è orientata a comprendere come stanno i figli ‘gran-
di’, ovvero se l’adozione è riuscita o meno. Dobbiamo tutti chiederci, come le adozioni procedono nel tempo, poiché, ciò aiuta a migliorarci in un panorama che cambia continuamente volto (oggi la media dei bambini che giungono in Italia è di 6 anni). Parlare di adozione, porta a ‘rispolverare’ vecchie idee, ovvero: “adozione= problema”, talvolta c’è ancora la tendenza a generalizzare; il dott. Chistolini ha tenuto a precisare che “occorre liberarci dell’idea dell’adozione come una dimensione più o meno disagiata e patologica, senza negare la peculiarità e le sofferenze che dobbiamo saper vedere. Molti adottivi possono essere persone assolutamente normali”. A seguire, ecco parlare i tanto attesi protagonisti, le loro voci e le loro esperienze, hanno conquistato
un pubblico curioso e ansioso di sentire finalmente parlare i figli. Per ‘riannodare il filo’ del meeting bolognese, La prima tematica affrontata è stata quella legata al significato dell’essere adottivo nel corso della vita, quanto questo condiziona le scelte e il modo di considerarsi. (sono intervenute Isabel Pogany, Maria Forte e Daria Vettori - Psicologa-) Il significato dell’essere adottivi è una riflessione che si accompagna alla consapevolezza che il tutto non è legato alla condizione stessa ma è dato da ciò che il contesto ci dice. “Se il contesto ti dice che hai una ferita non rimarginabile, poi ti senti realmente così”. In questo workshop gli obiettivi erano legati ad una condivisione delle esperienze, individuando i
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momenti salienti della vita di un adulto adottivo per giungere a delle proposte costruttive per coloro che operano nell’adozione. Gli adulti che componevano questo gruppo variavano, per età, dai 18 ai 60 anni; vi erano tra questi, alcuni che non avevano mai parlato di adozione, che non si erano mai confrontati poiché, magari, non avevano tratti somatici differenti da quelli europei. Un aspetto a cui si è dato importanza è stato quello del ruolo della famiglia nei confronti della tematica adottiva; essa è fondamentale poiché può fungere da facilitatore o, al contrario, può problematizzare l’adozione. “Se la famiglia adottiva ha fatto ‘sua’ la tua storia, ti può aiutare anche quando tu figlio adottivo diventi genitore” La genitorialità vissuta dai figli adottivi pone, solitamente, molte domande e riflessioni; la mente viaggia tra il pensiero della madre biologica, la sua fatica nel dover giungere ad abbandonare il proprio figlio, ad un senso di rabbia: “Dopo che mi ha tenuto 9 mesi in pancia come ha fatto a lasciarmi?” ed infine altri ancora che si immedesimano e ripensano ai genitori adottivi.
Molto coinvolgenti, sono state due letture fatte dal dott. Chistolini, proprio in merito alla genitorialità; la prima è uomo, della provincia di Verona, a raccontarsi: “ Del mio passato conosco solo la mia data di nascita. Ogni giorno mi pongo mille domande, soprattutto adesso che ho un figlio”; la seconda riporta invece le parole di una giovane donna che sta per diventare madre: “Sono nata figlia due volte e ora che sto diventando madre, il cerchio si chiude e si sciolgono finalmente i nodi di una ricerca. Ho capito che non ci sono più risposte da cercare perché non ci sono colpe. Tutti i genitori, a loro modo, hanno contribuito alla mia vita e …. Va bene così”. All’interno del gruppo, ogni età portava un modo diverso di ‘fare adozione’; ciascuno con la propria consapevolezza ed il lavoro, fatto negli anni, su di sé. C’era chi portava sulla propria pelle un senso di compimento, di quel ‘cerchio che si chiude’, chi è riuscito a pensare all’adozione come ‘la mia storia’ poiché ogni rielaborazione è diversa. La ricerca ha assunto per ciascuno un significato diverso; c’è chi ha deciso di compiere fisicamente il viaggio, fino a trovare i ge-
nitori biologici, e chi invece ha semplicemente viaggiato con la mente. Ogni tappa della vita è un anello che si unisce agli altri per formare il grande cerchio della vita; l’adolescenza, l’incontro di un partner, della sua famiglia, la nascita dei figli e molto altro ancora, è uno stimolo, e tutto il mondo esterno sollecita ad allargare il cerchio della propria esistenza. La serenità è necessaria per poter affrontare una società ancora densa di pregiudizi verso l’adozione. Oggi per fare una giusta ‘cultura dell’adozione’ è necessario sconfiggere i tabù legati al concetto di abbandono o di adozione come una malattia, un problema da superare. Per combattere la solitudine è importante trovare momenti di dialogo e di incontro per dare voce alla propria storia nella sua specificità e unicità. Il secondo workshop, ha messo in luce l’identità etnica del figlio adottivo, legata alla percezione del ‘sociale’ ( sono intervenuti: Vasanth Armando, Katia Montani e Gregorio Mazzonis – Psicologo -) La questione etnica si lega al rapporto con le origini; “Se hai la pelle scura, o gli occhi a mandorla si può essere un vero italiano?”
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A prescindere dall’età di arrivo in Italia si deve affrontare la doppia cultura; “Non c’è omogeneità se sentirsi o meno italiani”. A tal proposito V.A ha detto: “Sono italiano, mangio italiano, non so l’indi ma io sono nato là!” Il razzismo è presente all’interno della nostra società. “Io ho vissuto il razzismo, l’ho accettato e c’ho fatto i conti, ho dovuto fare pace con quello che sono: Indiano”. Se si possiedono caratteristiche somatiche differenti da quelle europee, allora si presenta la possibilità di essere ‘etichettato’ ed
ogni giorno, la quotidianità ti mette di fronte al raccontare sempre la propria storia. V.A ribadisce: “Noi siamo italiani di colore”. Al meeting, di Bologna, essi riportano un senso di fratellanza; non era importante se eri bianco, giallo, marrone con gli occhi a mandorla o scuri, l’importante era essere là assieme per capirci: “C’era posto per ognuno di noi”. Come ha ribadito Katia M., molti sono gli adulti adottati che considerano la doppia cultura una fortuna; talvolta manca quella percentuale, quel tassello per fare di un figlio adotti-
vo, un italiano al 100%. Tutti hanno evidenziato la fatica del ‘dover spiegare’ il proprio status di italiani perché talvolta la paura del ‘diverso’ esiste eccome. Esiste un ‘razzismo latente’ per cui come riportato da V.A: “Alcune volte le persone, trattengono verso di sé la borsa, come per paura che io, solo perché di colore, possa essere uno scippatore”. Tirando le fila del discorso, lo stesso dott. Mazzonis, ha ribadito che, la doppia identità dovrebbe essere una ricchezza da cogliere, come quando si impara una lingua straniera, sen-
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za cancellare la propria. Talvolta nel periodo adolescenziale, può nascere un conflitto ulteriore, poiché il desiderio di piena omologazione può scontrarsi con ‘l’essere somaticamente diversi’. Al contrario, questa diversità, in relazione ai genitori, mette il giovane a doversi continuamente ‘spiegare’ e ciò porta alla formazione di un carattere forte. Dobbiamo renderci conto tutti, che le differenze somatiche, etniche e culturali, non sono un disvalore sociale, bensì sono un arricchimento per tutti noi. Nel terzo, ed ultimo, workshop si è discussa la tematica relativa alla ricerca delle origini: “Tutti ne hanno bisogno?” ( sono intervenuti Veena Englen, Gioia Giunchi e Marco Chistolini – Psicologo -) La ricerca delle origini, ancora oggi per alcuni appare un tabù. Questa ricerca, non necessariamente, deve essere fisica, ma può essere piuttosto un percorso individuale e interiore. La ricerca può comprendere due aspetti: - Il luogo di provenienza ed informazioni relative ad esso - Affetti legati alla propria nascita: genitori/fratelli/ parenti. La ricerca è un bisogno di tutti, ma non è vissuta per
tutti allo stesso modo; c’è chi parla di curiosità, chi di paura, di timore, di serenità ……. In tutto questo, i genitori adottivi hanno un ruolo fondamentale poiché attraverso il proprio atteggiamento possono condizionare la ricerca; ci sono genitori che hanno accompagnato il proprio figlio, o che comunque hanno appoggiato questa sua volontà, altri che invece hanno vissuto il tutto con un pizzico di spavento che talvolta può sfociare in un sentimento di tradimento. Il dialogo e la trasparenza in famiglia, consentono un clima di maggior serenità, portando a fare meno domande. E’ quando le informazioni vengono negate che allora ci si accanisce maggiormente. E’ importante sottolineare che cercare non significa tradire l’amore: “la ricerca è un diritto che va oltre l’amore”. A conclusione di questi tre workshop vi è stato un ‘acceso’ confronto tra due figli adottivi, proprio in merito alla tematica delle origini. Vi è stata una doppia intervista, condotta dal dott. Chistolini, a John Campitelli (FAEGN) e Federico Milazzo (ANFAA). Per entrambi vi è stata una breve presentazione della propria storia e del
vissuto come figlio adottivo. Milazzo ha ribadito il fatto di sentirsi a tutti gli effetti un figlio di ‘serie a’ nonostante la presenza in famiglia di altri figli biologici. Ha precisato che, talvolta la chiusura dei ragazzi nel narrare la propria storia, deriva da un tabù presente in famiglia. L’esperienza di Campitelli, adottato da genitori americani, il quale ha avuto la possibilità di ritrovare i genitori biologici, ha rimarcato l’orgoglio di essere adottivo, il quale va considerato un valore aggiunto nella propria vita. L’Italia, riportando proprio la sua esperienza, sembra essere solo oggi ad una ‘maturità iniziale’ di dialogo, cosa che in America si ha già da molto tempo. Alla domanda del dott. Chistolini: “Voi siete uguali ai figli biologici?” Milazzo ha risposto: “ In casa si è sempre parlato quotidianamente di adozione; non si è mai fatto differenza tra me e i miei fratelli, mi hanno sempre rispettato per quello che sono attraverso le mie specificità e le mie doti!” Campitelli ha risposto: “Io, innanzitutto, sono una persona, un figlio, un marito, un padre, in più ho il valore dell’adozione” Fino a questo punto il di-
battito è stato lineare, per poi trasformarsi e prendere un ‘tono più acceso’ proprio sulla questione “ritorno alle origini” poiché tra Milazzo e Campitelli, vi sono due posizioni inconciliabili. “Conoscere le proprie origini…. Perché saperlo?” (Ripresa istanza del Tribunale di Catanzaro il quale ha sostenuto che senza un’identità biologica non si possa giungere in definitiva ad un’identità concreta, cosa che accade oggi ai figli non riconosciuti alla nascita) Per John Campitelli è fondamentale avere il “diritto” per ciascun figlio adottivo di conoscere le proprie origini. Questo diritto che è presente già a partire dal 2001, per i figli riconosciuti alla nascita, dovrebbe essere esteso a tutti attraverso la modifica della legge. Riportando la sua esperienza, egli ha aggiunto: “Aver avuto la possibilità di guardare negli occhi, di confrontarmi con il mio passato, è stato importante per il mio patrimonio storico”. Milazzo, il quale non ha cercato le proprie origini, ha dibattuto sostenendo: “Non nego il diritto a chi vuole sapere, ma, allora non chiamiamoci adottivi”; “Io non ho questa necessità perché i miei genitori
hanno colmato tutte le mie lacune”. Egli stesso in un’intervista a TV2000 (dicembre 2012) ha sostenuto: “ Se un ragazzo adottato arrivato ad una certa età sente la necessità di ricercare i propri genitori biologici, credo che questo possa venire perché nella crescita nella famiglia adottiva i genitori non hanno colmato tutte le sue lacune materiali, psicologiche, ed affettive”. Dare questo ‘diritto’ secondo Milazzo, significa confondere il concetto di famiglia. In sintesi, le ricerche condotte in questi anni, mostrano che: gran parte dei figli adottivi cerca informazioni relative al proprio passato, e lo fa a partire da una riuscita dell’adozione. Ciò contrasta l’idea che i genitori adottivi, pertanto, siano cattivi. Ad ogni modo, se facciamo un confronto tra chi cerca e chi non lo fa, sembra che quest’ultimi vivano un maggior benessere. Dopo la pausa pranzo, vi è stata una svolta, nell’andamento del Convegno, attraverso una Tavola rotonda formata da: • Monya Ferritti, Presidente di CARE e Presidente Associazione GenitoriChe • Ondina Greco, psicologa e psicoterapeuta, docente
Università Cattolica • Paolo Limonta, padre adottivo, consigliere CIAI • Monica Malaguti, Servizio Politiche familiari infanzia adolescenza Emilia Romagna • Kim Migliore, figlia adottiva, consigliera Kor.i.a (Associazione Culturale Koreani Italiani Adottivi) • Raffaella Pregliasco, giurista, Istituto degli Innocenti di Firenze. Tirando le somme relative alla prima parte della giornata, secondo la dott. ssa Ondina Greco l’adozione può essere immaginata come un ‘campo simbolico metafamiliare’ ovvero tra l’origine e la famiglia adottiva. Ognuno abita il proprio campo, ‘non c’è un dove essere’: gli adulti devono essere custodi di questo orizzonte metafamiliare. E’ opportuno evitare di avere timore di questi movimenti, poiché non si può rimuovere l’altro confine, ma piuttosto è fondamentale esserne consapevoli. L’esperienza di Kim, figlia adottiva, che ha compiuto il suo viaggio di ritorno, riporta: “Quando ho guardato negli occhi mia madre biologica, ho capito che i miei genitori erano quelli adottivi” e rispetto al fattore ‘identità etnica’ lei stessa ribadisce: “ Io mi sento italiana, sono gli altri a farci sentire diversi;
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noi siamo ‘portatori sani’ di due culture” e continua dicendo: “ Vado in Corea e non so il coreano, non ci sentiamo senza identità ma siamo orgogliosi di entrambe”. Sicuramente è necessario essere un po’ preparati, per accettare anche realtà difficili; “Se si vuole sapere, bisogna affrontare la verità”. Paolo Limonta, padre adottivo, è intervenuto sostenendo che la multietnicità è una condizione quotidiana, non va vista come un fallimento, ma piuttosto questa curiosità per la riscoperta della propria storia può facilitare e tranquillizzare molto. E’ giusto che la famiglia supporti il proprio figlio. Monya Ferritti ha ribadito, rispondendo a Chistolini che le chiedeva se considerarsi adottivi è ribadire una differenza e se questa può essere pericolosa che: “Il Paese dei nostri figli diventa un po’ anche il nostro, in senso sommativo”. Inoltre lei stessa ha lanciato una ‘provocazione’, domandando se: “L’accento va posto sula parola figli o sulla parola adottati?”. Il figlio infatti richiama sempre il genitore, come se ci fosse sempre un “minus”, mentre gli adulti adottati sono adulti, appunto, e capaci di agire in maniera indipendente e autonoma.
Ha anche aggiunto una riflessione sulla legittimazione della famiglia adottiva come famiglia e ha sottolineato i bisogni reali delle famiglie che adottano oggi. Secondo la dott.ssa Ondina Greco, le teorie psicologiche, che procedono per ipotesi, paiono non essere d’accordo con la visione posta da Tribunale di Catanzaro (la conoscenza dell’identità biologica è importante per la formazione della propria identità personale). La condizione indispensabile affinché vi sia una buona riuscita nella costruzione del sé, sembra risiedere in campo familiare, è lì che è indispensabile che ci sia la consapevolezza di una doppia origine ovvero come disse Anna Freud: “ Le innumerevoli varianti della personalità”. Secondo la dott.ssa, la costruzione dell’identità è un percorso interiore. La dott.ssa Pregliasco ha riportato la propria esperienza, informando che dal 2003, è possibile accedere (tramite TM) alle informazioni di tipo sanitario. Spesso però purtroppo non è possibile fornire informazioni, poiché non ve ne sono. Nella realtà toscana, esistono delle esperienze pilota che mirano alla raccolta
delle informazioni sanitarie delle madri anonime; queste dovrebbero essere conservate per i figli. Dalla regione Emilia Romagna, ovvero dall’esperienza di Monica Malaguti, sembra necessario, sin dall’inizio del percorso adottivo, aiutare i genitori, anche attraverso un sostegno concreto, ad accettare e valorizzare le origini dei propri figli. Giunte quasi le 17 del pomeriggio, di una giornata che davvero si è resa sin dall’inizio entusiasmante, ha preso parola il pubblico; le voci dei genitori si sono mescolate a quelle dei figli. Una giornata come questa lascia dentro a ciascuno di noi una profonda ricchezza, che voglio lasciare a voi tramite le parole di un figlio adottivo: “Quando si adotta si cresce e si matura insieme; nel nostro viaggio di ritorno si è cresciuti insieme, i miei genitori si sono resi consapevoli delle mie origini indiane …….. Genitori, anche se i vostri figli non sono parte della vostra carne, essi sono dentro lo spirito, sono come voi e CRESCONO con voi” …. Vi lascio con queste parole, nella speranza di rivivere il prima possibile, un’occasione così profondamente unica.
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sociale e legale
di Greta Bellando Studentessa di Pedagogia, appassionata alla tematica adottiva, che ha approfondito nella prima tesi e curerà anche nella seconda; collabora da un anno con ItaliaAdozioni.
Intervista a Ilaria Borrelli
“Talking to the trees” un film, una denuncia contro lo sfruttamento sessuale dei minori 42
Ogni giorno la vita scorre, talvolta arriviamo a sera che nemmeno ci siamo resi conto di com’è andata la nostra giornata, delle relazioni che abbiamo avuto, degli attimi preziosi che ci sono trascorsi davanti agli occhi e che non siamo riusciti a captare. Riceviamo in continuazione stimoli, viviamo sulle corde della frenesia e come trapezisti stiamo attenti a non cadere, a stare nel nostro cantuccio per paura che ciò che è “altro” possa in qualche modo destabilizzare la nostra routine. Ci sentiamo appagati di ciò che abbiamo e temiamo ciò che ci circonda e che sembra non appartenerci. Quante volte sentiamo in televisione di notizie shoccanti, di tragedie che accadono nel mondo; quante volte apprendiamo dai nostri tablet, super tecnologici, la miseria e le atrocità
del pianeta.... Ma infondo: “ Cosa facciamo?” Le immagini, che vediamo, impressionano i nostri occhi, ma, poi fino a che punto arrivano al cuore? Giusto il tempo di arrivare infondo alla notizia? Seppure tutti viviamo nel terzio millennio, sull’onda della modernità e dell’emancipazione, in realtà non tutti possediamo gli stessi mezzi, le stesse opportunità; calpestiamo valori senza accorgerci della fortuna che abbiamo ogni giorno.... Forse per cambiare basta alzare lo sguardo al di là del nostro naso, rompere quel muro che ci permette di non vedere, per renderci conto che seppur viviamo tutti sullo stesso pianeta, non tutti possediamo gli stessi privilegi. E sapete qual è la cosa più triste? Quella che ci sono persone che non possiedono sogni,
ci sono bambini senza futuro, senza speranza per il giorno che verrà. A questa “cruda” verità hanno deciso di dar voce Ilaria Borrelli assieme a Guido Freddi attraverso le immagini del film “Talking to the trees” (Parla con gli alberi). Questo film nasce da uno slancio di commozione e vicinanza per quei bambini che vengono sfruttati sessualmente da uomini senza scrupoli; vuole “urlare” contro violenze che spezzano i sogni. Le scene, girate in Cambogia, vogliono ridare bellezza a questa terra, alle sue foreste, ai suoi colori. Ilaria mi ha personalmente raccontato che si è avvicinata, e ha sentito proprie queste problematiche, nel momento in cui è diventata mamma dei suoi due splendidi bambini di 7 e 5 anni. Con la loro nasci-
ta, il suo registro artistico comico, ha lasciato spazio a questo slancio verso il prossimo, verso le persone che hanno bisogno di ricevere attenzione. Da quel momento ha deciso di mutare genere e prospettiva di vita, iniziando questo percorso; oggi è decisa, più che mai, a continuare su questa strada, che necessita di essere messa in luce. Il libro di Somaly Mam, che racconta la storia di una ragazza costretta a subire abusi e a vivere in un bordello cambogiano, assieme alle inchieste di Nicolas Christoph condotte nei bordelli, fingendosi un cliente, hanno condotto Ilaria a riflettere, pensando a quanto fosse scandaloso che non ci fosse nulla, all’interno del mondo cinematografico, che desse attenzione a tali brutalità. Secondo lei è importante che un mezzo potente
come il cinema, sia in prima linea per queste giuste cause, per impressionare con le sue immagini chi resta impassibile, per urlare ai finti sordi le atrocità che l’uomo è in grado di compiere e allo stesso tempo di subire. Sono 40 milioni i bambini imprigionati nel mercato del sesso. In ogni Paese del Mondo un pedofilo può “pagarsi” un bambino per una notte, maschio o femmina, sicuramente rapito, senza più documenti, né diritti. Queste creature sono solo bambini che non hanno la forza per ribellarsi per cambiare il loro destino. Un pedofilo si può nascondere ovunque ed è bene fare una giusta prevenzione in famiglia e a scuola affinché nessuno possa cadere nella rete; questo è un aspetto che anche Ilaria assieme ai suoi due figli, affronta e continuerà
ad affrontare. Un genitore ha dovere di proteggere i propri figli e deve renderli in modo cauto e adeguato, consapevoli di quanto marcio possa celarsi anche alle nostre spalle. I figli di Ilaria hanno vissuto la Cambogia, si sono trasferiti anche loro nel mentre la pellicola del film stava girando; hanno frequentato la scuola ed hanno vissuto la bellezza ma anche la povertà di quei luoghi. Vivendo laggiù hanno imparato cosa significa “essere fortunati”. Oggi hanno nostalgia di quei luoghi, di quei sapori e di quelli odori che seppur nella povertà, li hanno arricchiti. Il film tra commozione e drammaticità è stato costruito sulla base di storie vere; ogni storia recitata è reale, ma è importante sottolineare che in nessuna scena compaiono bambini
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vittime di sfruttamento sessuale. Il ruolo di Ilaria da regista, attrice e protagonista del film si mescola, amalgamandosi, dando un valore aggiunto ai contenuti. In questo modo il film è apparso più personalizzato; come sostiene Ilaria, facendo così, non si sono perse tutte quelle sfaccettature importanti, che talvolta invece vengono poste in secondo piano perché ci sono “troppe teste” a dire la propria. Un’unica visione permette di restare ancorati alla realtà della situazione e, lavorare in questo modo è gratificante perché si cerca di restare il più possibile fedeli all’idea originale. Fare la regista e allo stesso tempo l’attrice, ha consentito a Ilaria di dare oltre che voce, anche anima a questo film. Mentre la pellicola scor-
re, tante sono le immagini che colpiscono l’anima e sembrano legate tutte da quelle fasce arancioni, presenti in tutto il film, che “stringono gli alberi”; quest’ultimi sono spiriti guida, aiutano queste piccole creature a combattere la solitudine tra sacralità e poesia. Tante sono le scene che stringono il cuore: gli occhi di quelle bambine senza sogni, l’impossibilità di cambiare vita, la fragilità, la morte, il dolore, lo strazio, la rabbia e la speranza che come l’arcobaleno sul finale illumina il cielo dopo una vita di tempesta. Ilaria oltre a dar voce a questi bambini, assieme alla sua famiglia, ha deciso di disegnare il loro futuro, aprendo un conto bancario a ciascun protagonista, con un po’ di soldi che concretamente li aiuteranno
a studiare e a scrivere un domani migliore, nelle loro pagine di vita. Inoltre sono stati mantenuti dei contatti perché è importante che, chi si è messo in gioco, ed ha avuto il coraggio di raccontarsi, non si senta nuovamente sfruttato. Il film sta ottenendo molto successo all’estero, vince molti premi ma purtroppo il nostro Paese sembra ancora cieco di fronte a queste problematiche. Si sta cercando di promuoverlo il più possibile (è possibile acquistare il film su ITUNES a 4,99€ e sul sito www.talkingtothetrees. com per la stessa cifra con trasferimento a Vimeo) per cercare di cambiare, tutti insieme, questa realtà. E’ importante sostenere il cinema indipendente da casa con la vendita online, poiché, altrimenti in Italia, non sarebbe possibile
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visualizzare film di questo tipo. Questo film è il primo di una serie sui bambini che devono affrontare e superare condizioni di sopravvivenza estremamente drammatiche. Ci sono già in preparazione altre storie (sempre basate su fatti veri) che verranno girate in Nepal, per quanto ri-
guarda la storia dei bambini rifugiati, e in Etiopia per il caso drammatico delle spose bambine. La protagonista inizia e termina il film con un diario, scrivendo al figlio dei sogni, a quel figlio che sempre avrebbe voluto ma che il destino non le ha donato. Lei un po’ materialista, ha bisogno di questo figlio
ma come ricorda alla fine, dopo le mille vicissitudini, riprendendo un’immagine buddista, sono i figli a scegliere i genitori... E se “Teo” non è arrivato c’è un perché che lascio scoprire a voi invitandovi a riflettere e a visionare il film ..
trentagiorni
RUSSIA: ADOZIONI DI BAMBINI SOLTANTO ALL’ITALIA Lo annuncia il Cremlino: «Questo perché Roma non riconosce i matrimoni gay» Le adozioni di bambini russi saranno consentite solo all’Italia, che non riconosce i matrimoni gay. Lo ha dichiarato oggi il rappresentante del Cremlino per i diritti dell’Infanzia, Pavel Astakhov, come riferisce l’agenzia Interfax. LA DICHIARAZIONE - «Ci risulta che attualmente l’Italia è l’unico Paese i cui cittadini hanno la possibilità di adottare bambini russi», ha spiegato Astakhov, «perché questo Paese non riconosce il matrimonio omosessuale, e, di conseguenza, non dobbiamo cambiare nulla nell’accordo vigente e, inoltre, loro rispettano i termini di questo accordo». La Russia, ha aggiunto il rappresentane per i diritti dell’infanzia russo, non affiderà i propri bambini e orfani ai Paesi con i quali non ha accordi bilaterali in proposito, precisando che oggi la Russia ha un accordo bilaterale di adozione solo con l’Italia, mentre la Francia
non ha completato le procedure di ratifica del documento: «Non è colpa nostra. Voi (i partner occidentali, ndr) dovreste lavorare più attivamente se volete che l’adozione internazionale prosegua, perché la Russia ha altre priorità. La nostra priorità è dare in adozione i bambini all’interno del Paese». A giugno la Duma ha approvato una legge che vieta l’adozione di bambini russi da parte di cittadini di Paesi in cui è consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso e genitori singoli. Inoltre, dal primo gennaio 2013 i genitori americani sono stati banditi dalla adozione di bambini provenienti dalla Russia nell’ambito della cosiddetta legge Dima Yakovlev, varata in risposta al «Magnitsky Act» degli Usa. Fonte: corriere.it I MALTRATTAMENTI AI MINORI COSTANO 13 MILIARDI L’ANNO I maltrattamenti ai bambini costano 13 miliardi di euro ogni anno e i costi indiretti sono quelli più pesanti: l’educazione speciale, la
delinquenza giovanile e le cure della salute da adulti. Perché il più delle volte un bimbo maltrattato diventa un adulto problematico. I minori in carico ai servizi sociali sono 100.231, pari allo 0,98% della popolazione minorile totale. L’impatto sulla spesa pubblica in Italia della mancata prevenzione della violenza sui bambini è stato calcolato da uno studio promosso dalla Bocconi, Terre des Hommes e il Coordinamento Italiano dei servizi contro il maltrattamento all’infanzia (Cismai), presentato oggi in vista degli Stati generali sul maltrattamento all’infanzia in Italia, il 12 dicembre a Torino. I soli casi nuovi costano 910 milioni di giuro ogni anno. Il maltrattamento durante l’infanzia procura quindi non solo danni fisici e morali ai minori, ma anche una spesa rilevante per la società, generando interventi di protezione o trattamento delle vittime, che si traducono in costi diretti per il bilancio pubblico. Un costo stimato ora in circa 13,056 miliardi di euro annui, ovvero lo 0,84% del Pil. Lo studio ha
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FEDERAZIONE RUSSA (Fonte: © 3INT Srl)
utilizzato molteplici fonti di dati ufficiali, avendo il 2010 come riferimento, e una recente indagine di Terre des Hommes e Cismai, che ha stimato in circa 100.231 i minori maltrattati in Italia in carico ai servizi, pari allo 0,98% della popolazione minorile totale. Tra i costi diretti per la cura e l’assistenza dei bambini vittime di maltrattamento, per la voce ospedalizzazione si giunge alla stima di una spesa annua sostenuta di 49.665.000 euro, perla cura della salute mentale di 21.048.510 euro, mentre per i costi di welfare si
sommano le spese per strutture/prestazioni residenziali (163.818.655 euro), di affido familiare (12.648.948 euro) e per il servizio sociale professionale (38.052.905 euro). La spesa per interventi diretti per il rispetto della legge è stata stimata in 3.166.545 euro e per la giustizia minorile in 50.215.731 euro. Il bambino maltrattato, poi, crescendo spesso diventa un adolescente e un adulto problematico, che può gravare sulla collettività. Proprio i costi indiretti sono quelli più pesanti:
si passa attraverso i 209.879.705 giuro spesi per l’educazione speciale, ai 326.166.471 euro stimati per la cura della salute da adulti, 5.380.733.621 euro per spese di criminalità adulta, 152.390.371 euro per delinquenza giovanile e 6.648.577.345 euro di perdite di produttività perla società. Sommando le voci dirette e indirette, si giunge così a 13,056 miliardi all’anno versati dalla collettività in un anno tipo in Italia. Fonte: ilmattino.it