Adozione e dintorni GSD informa - mensile - maggio 2014 - anno IV, n. 4
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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - dicembre 2014 - anno IV, n. 4
maggio 2014 | IV, 4 GSD informa
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Banalità del razzis
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L’incontra tra famig scuola e servizi ADHD
GSD informa
di Simone Berti
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editoriale
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Il potere dell’amore e la genitorialità adottiva Nella Mazzoni
psicologia e adozione
scuola e adozione
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ADHD: il disturbo, il trattamento, i genitori Carlo Capone, Antonio G. Pirisi L’incontro tra famiglie, scuola e servizi Gloria Joriini giorno dopo giorno
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Tra radici e germogli: frammenti di viaggi di ritorno alle origini Greta Bellando Un posto al confine Greta Bellando Rabbia bambina Marta e Alberto sociale e legale
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L’era del cyberlupo Loredana Polli
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trentagiorni
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redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro
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impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano
ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro
progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze
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editoriale
di Simone Berti
Mestieri «Tante volte mi era capitato di leggere fatti di cronaca dove, a margine di episodi di vario genere, i soggetti coinvolti venivano appellati come rom, zingaro, albanese, romeno, negro ecc., notizia assolutamente ininfluente rispetto al fatto accaduto. La cosa mi ha sempre dato molto fastidio, ma, come spesso accade, quando i fatti riguardano gli altri, un po’ ti scivolano sopra. Poi un bel giorno capita a tuo figlio, figlio nato in un paese straniero, figlio di genitori italiani e quindi cittadino italiano. Ma questo poco importa ai giornalisti, è molto più interessante sbattere la sua (falsa) cittadinanza o comunque il suo paese di nascita ben chiaro e visibile nel titolo dell’articolo. Del resto si sa, che certi paesi, che certe razze, sono tutti ladri, delinquenti, prostitute ecc., disconoscendo storia, letteratura, geografia, come sino a non molti anni fa, ma forse anche oggi, i meridionali erano sporchi, fannulloni e mafiosi. Scopri così quanto il bel popolo italiano sia razzista e xenofobo e quanto tuo figlio dovrà farci i conti tutta la vita con questi suoi ignoranti connazionali. Un consiglio ai tanti, troppi, giornalisti razzisti e xenofobi: cambiate mestiere!». Riceviamo la lettera di questa madre che ci porta ad affrontare ancora una volta un tema su cui più volte siamo tornati nel nostro giornale, che riguarda il deprecabile uso sensazionalistico della titolazione della nostra stampa e la pessima abitudine di fornire come elemento centrale della notizia la cittadinanza del responsabile, come a fornire la chiave di lettura dell’accaduto. In questo modo la stampa entra in sintonia con un tratto del razzismo diffuso e subdolo che ri-
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sponde a un intimo e inconfessato bisogno del lettore. Scriveva Antonio Fatigati, ex presidente di Genitori si diventa onlus, in un passato editoriale: se chi esce dalle regole, ruba, violenta, uccide, lava i vetri ai semafori viene da fuori e ha una fisionomia e un colore della pelle diverso dal nostro, beh, allora, il reato è più comprensibile, meno allarmante, basterà invocare maggiore rigidità, più espulsioni, più controlli alle frontiere. Otteniamo così il risultato di soddisfare la ricerca di un responsabile che ci sgravi dalle nostre responsabilità, che attribuisca ai cattivi delle caratteristiche che li identifichino come diversi da noi. Così, non sono più uomini o donne che delinquono, ma romeni, albanesi, marocchini, algerini, russi e, infine, italiani. Premesso che sta nel dovere di ogni Stato garantire che chiunque vi soggiorni rispetti le regole vigenti e soprattutto che vi sia il rispetto per le libertà di ognuno, compresa quella di desiderare di attraversare in piena notte un parco poco illuminato senza venire infastiditi, mi pare che questa scelta giornalistica apra la strada a una forma moderna di individuazione dei capri espiatori. Conveniamo con Ben Jelloun che tra le cose che ci sono al mondo il razzismo è la meglio distribuita tanto da divenire, ahimè, banale. Il razzismo è tutt’altro che banale ma poiché, al di là delle sue manifestazioni più eclatanti, agisce in maniera silente, ce lo portiamo dentro e ce lo coltiviamo lasciandolo agire inascoltato. La banalità del razzismo è proprio ciò che ci fa illudere di poterne uscire facilmente indenni. È la forza del senso comune e del buon senso che pervade, senza che se ne sia coscienti, tutto ciò che quotidianamente incontriamo. La famiglia che adotta è necessariamente portatrice di diversità. E se non è mai facile fare i conti con la diversità, quando questa diviene una necessità spesso può trasformarsi in una bandiera da sventolare senza che se ne misuri la forza per sostenerla al vento.
Favorire la cultura dell’accoglienza e non dell’esclusione corre sempre il rischio di volgersi in una posizione moralistica. Il rispetto della diversità non può che partire dall’incontro dello straniero che è in noi e che non deve assumere per forza i contorni dell’estraneo. Per questo riteniamo che la società e la cultura tutta farebbero un balzo in avanti se andassimo verso una dimensione in cui le diversità non fossero riconosciute come minacce o, ancor di più, qualcosa di intrusivo che porta solo disordine e inquietudine, ma venissero infine accolte con la curiosità e l’interesse che possiamo riservare a ciò che è nuovo e non conosciuto. Riconoscersi tutti nella disuguaglianza è la base del riconoscere l’altro come qualcuno con cui si può convivere, senza timore o paura. Per questo colpisce ma non stupisce come la nostra stampa e gran parte dei mezzi di informazione giochino a esaltare gli aspetti che alimentano paura dell’altro in un gioco che invita a mettersi al riparo dalla diversità, perché questa riguarda sempre un altrove e noi potremmo esserne esenti. E anche per questo non possiamo che concordare con quella madre augurandoci che chi lavora nell’informazione sia in grado di aprire uno spazio di riflessione maggiore sulla correttezza e l’etica professionale che si è impegnato a rispettare e che viene costantemente disattesa o in alternativa, se non è in grado di farlo, riesca almeno a capire che per lui è il caso di cambiare semplicemente mestiere.
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psicologia e adozione 8
Il potere dell’amore e la genitorialità adottiva
sono i contesti in cui viene applicato che lo connotano positivamente o negativamente. In psicologia il potere intride tutte le relazioni affettive e sociali e si riverbera nei comportamenti secondo modalità che derivano dall’esperienza del potere, esercitato e subito, che ogni individuo porta dentro di sé. A questo proposito noi non sappiamo praticamente nulla di ciò che i nostri bambini hanno esperito prima di arrivare in famiglia, possiamo solo supporlo, ma quanto possa essere stato per loro rassicurante o minacciosa la vicinanza dell’adulto non possiamo saperlo. Potere e famiglia All’arrivo in famiglia la Il potere è un’entità ben reazione dei bambini, definita, talvolta diffi- soprattutto se grandini, cile da individuare, né può essere molto diverbuono né cattivo in sé; sa di fronte al genitore Vi propongo una esplorazione intorno e dentro la relazione genitori e figli. A seconda della differente miscellanea tra ingredienti affettivi, emotivi, razionali e cognitivi che la compongono, il potere intrinseco proprio di questa relazione crea uno spazio libero dove crescere oppure una prigione. L’evidenza di quanto sia importante l’uno o l’altro contesto per il futuro dei figli è lampante: potranno essi trovare i luoghi più congeniali per esprimersi oppure saranno obbligati a scegliere tra la prigionia e una pericolosa evasione?
che esercita il suo ruolo, e questo dipende non tanto e non solo dall’autorevolezza del genitore, quanto dalle primitive esperienze del bambino, che noi non conosciamo, appunto. In ambito familiare, l’assunzione e la gestione del potere operata dai genitori è determinante nella crescita e nell’educazioni dei minori. I genitori esercitano sempre una profonda influenza sui figli e il loro potere è insito e legittimato nel ruolo genitoriale. Questa affermazione, apparentemente scontata, è fonte di fraintendimenti e fuorvianti pudori, poiché spesso la parola potere viene associata a scenari di arbitrarietà e prevaricazione, inaccettabili in nome di malintese pedagogie che scambiano ogni regola
educativa per repressione. Da parte del genitore adottivo impostare la relazione da questo versante, diciamo lassista, sia per scarsa consapevolezza di sé e del rapporto con i propri genitori, sia per evitare eventuali reazioni difficili e/o aggressive del bambino, non è così inconsueto; a volte, poi, il vissuto genitoriale è diverso tra madre e padre, in questi casi, se tra di essi l’alleanza viene meno, la difficoltà di comprendersi può rendere ancor più sfrangiato e ambiguo il loro ruolo. In realtà, la bussola delle scelte educative e, ancor prima, la possibilità di riconoscersi sufficientemente buoni e accoglienti, non può derivare esclusivamente dal gradimento espresso dal figlio e/o dall’evitamento della rabbia e del conflitto; è fondamentale che il fulcro dell’equilibrio familiare trovi il suo baricentro nella coppia genitoriale. Il potere del genitore è legittimo, perché inscritto e ben delimitato nel ruolo dell’adulto, che è tenuto a prendersi cura del bambino che ha adottato e ad accompagnarlo nel percorso verso l’adultità. Questo percorso implica l’instaurarsi di una relazione di dipendenza del piccolo, dipendenza totale, fisica ed affettiva, poiché il bambino affida al genitore la propria sopravvivenza fi-
sica e lo sviluppo armonico della propria mente. Cioè il proprio futuro. È possibile che alcuni bambini adottati, soprattutto i più grandi, tendano a sviluppare una contro dipendenza, facciano finta in pratica di non aver bisogno di niente e di nessuno. Ogni volta che in famiglia, nell’entourage o a scuola risuonano affermazioni come ‘questo bambino va come un treno… ha una marcia in più’ è necessario alzare la soglia dell’attenzione. Spesso a sostenere tale livello di prestazioni c’è la motivazione inconscia di non rischiare una nuova delusione e un nuovo abbandono. Se i genitori lasciassero spazio solo e collusivamente all’orgoglio e non cercassero la risposta a queste domande: ‘‘dove è il bambino che non ho ancora incontrato?’’, oppure ‘‘il bambino che ho incontrato negli incubi notturni o nelle furie diurne conosce e parla con il bambino dalle prestazioni fantastiche?’’, ‘‘ho accolto anche il piccolo terrorizzato?’’. Ecco, se nel sistema familiare gli adulti non riescono a far circolare le opposte emozioni che ruotano intorno a potere e impotenza, i bambini possono reggere anche per lungo tempo, ma a un certo punto non potranno evitare un doloroso crollo.
Coraggio/vigliaccheria nell’essere genitore Se il genitore non è consapevole di quanto sia concreto e reale il potere del suo ruolo, eserciterà quel potere ugualmente ma senza comprendere la responsabilità che comporta e le conseguenze derivate dallo svolgimento del suo compito. Attraverso l’assunzione di responsabilità si definiscono i confini del potere genitoriale, inizialmente assai ampi – con un po’ di retorica si può dire ‘di vita e di morte’ – ma nel tempo della crescita sempre più delimitati e chiari per lasciare spazio all’apprendistato del bambino come futuro adulto autonomo. La chiarezza dei limiti del potere genitoriale consente il riconoscimento del figlio come individuo, amato e protetto, ma non di proprietà di chi l’ha generato o adottato. Talvolta i genitori delle nuove generazioni hanno paura del potere implicato dall’atto di generare o adottare; e per timore di ripercorrere il modello abusante del padre-padrone di storica memoria, preferiscono un ruolo da ‘migliore amico di mio figlio’, dannoso e ambiguo. Nella peggiore delle ipotesi, questa relazione ingannevole, come il lupo trave-
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stito da agnello, diventa a sua volta abusante, impedendo la crescita maturativa del figlio. Infatti, l’abuso di potere genitoriale può presentarsi così subdolo e celato da essere indulgentemente scambiato per eccesso di amore e di protezione. Un dialogo
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Modesta: … Sono mai entrata in camera tua senza bussare?… Prando: No Modesta: Ho mai aperto una lettera indirizzata a te…? Prando: Mai. Modesta: … ti proibisco di oltrepassare lo spazio di libertà che mi spetta… E no! Non puoi diventare rosso Prando, sei un uomo, o preferiresti che ti chiamassi ancora ‘il mio bambino’? Non credo. E allora sappi… che, come quando alla tua età non ho subìto il ricatto dei vecchi, oggi, vecchia nei tuoi confronti, non ho intenzione di subire il ricatto dei giovani! Prando: Io non ricatto, mamma. Modesta: E invece sì, in nome della tua giovinezza e del fatto che io sono tua madre tu mi dici che dovrei dedicarmi a te, solo a te! Tu mi chiedi adesso… di scegliere tra te e Joyce, e io rigetto il tuo ricatto ri-
spondendoti che non sono né di tua proprietà né di proprietà sua, come tu stesso non sei proprietà assoluta di Modesta…». Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Torino, Einaudi, 2009, p. 371 Questo esempio di dialogo serrato tra una madre e un figlio adolescente è molto suggestivo. Il rischio di scivolare in un desiderio di rapporto esclusivo con un genitore, essere il figlio preferito ed essere preferito non solo tra i fratelli, è sempre in agguato. Ricordiamoci che un modo possibile per essere preferiti e preferire è quello di provocare ansietà, problemi e delusioni. Lo sviluppo di una relazione parentale sostenuta dalla cornice e dalle regole che ho cercato di mettere a fuoco, permette di non cadere nel tranello: solo il profondo rispetto degli spazi e della individualità del figlio ha permesso la forte e serena risposta di Modesta. Il potere imprigiona l’amore
dolamente, misconosciuto, nella relazione. Questo accade anche nei casi in cui l’adozione è stata mossa, a livello profondo, dal bisogno di raggiungere lo status genitoriale a tutti i costi, a causa della difficoltà di tollerare l’angoscia ed elaborare il grande dolore derivato dall’impotentia generandi o l’infertilità. Uno dei volti del potere ‘vigliacco e secondino’ del genitore si maschera nei gesti semplici di tutti i giorni ricoperti da spessa glassa di bontà; è necessario fare molta attenzione perché il concorso della tecnologia, che permette il monitoraggio continuo dei pensieri e delle azioni del figlio attraverso telefonate, sms, mms, social network ecc. confonde protezione e controllo, amore e possesso. Genitori e figli, alla fine potrebbero trovarsi prigionieri del rapporto esclusivo che hanno sviluppato. È perfino possibile che questa relazione di potere non venga svelata mai e sia ereditata dai nipoti e bisnipoti, ‘felici eredi di una famiglia tanto unita…’.
Al contrario, nel caso in cui l’interesse del genitore per il figlio abbia avuto la principale meta di tranquillizzare il genitore e non lo scopo di sostenere il Nella Mazzoni figlio, il ricatto entra sub- psicologa-psicoterapeuta
psicologia e adozione Franco Carola psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, esperto in psicologia scolastica e in tecniche di rilassamento. Lavora da anni sui temi legati al parenting e, in particolare, sulla genitorialità adottiva. Docente in training presso la SGAI (Società gruppoanalitica italiana), è Student member IAGP (International Association for Group Psychotherapy and Group Process)
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Franco Carola risponde ai lettori Il dott. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione. La redazione
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ADHD: il disturbo, il trattamento, i genitori Il punto di vista del medico sull’ADHD
La sindrome da deficit di attenzione ed iperattività è conosciuta fin dal 1902 (Still) ed è stata denominata con diversi eponimi, tra i quali i più conosciuti sono: sindrome ipercinetica, disfunzione cerebrale minima. Attualmente si parla di ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder); il disturbo è caratterizzato da due gruppi di sintomi: inattenzione e impulsività/iperattività. «Sulla base di evidenze neuropsicologiche, genetiche e neuroradiologiche è oggi giustificata la definizione psicopatologica dell’ADHD quale disturbo neurobiologico che si manifesta come alterazione nell’elaborazione delle risposte agli stimoli ambientali» (Cagliari Consensus Conference 2003). L’ADHD è uno dei disturbi ad esordio in età evolutiva più importanti e frequenti.
Le stime di prevalenza in studi epidemiologici italiani mostrano un indice del 4%, in linea con le stime nordeuropee e nordamericane; il rapporto M/F è all’incirca 4/1. La sintomatologia clinica può variare con l’età. In età prescolare l’iperattività si associa spesso a disturbi del sonno e a disturbi della condotta, con crisi di rabbia, comportamento oppositivo o aggressivo (attaccare briga e accapigliarsi con i compagni, impossessarsi dei loro giochi etc.), sottovalutazione del pericolo con frequenti lesioni accidentali. Quando queste manifestazioni rimangono isolate o occasionali non sono da considerare un disturbo, ma quando diventano la modalità predominante di comportamento possono ostacolare seriamente l’apprendimento e la stessa
socializzazione. Il bambino con un disturbo ADHD frequentemente va incontro a perdita di concentrazione e incapacità di portare a termine qualsiasi attività protratta nel tempo. Ha difficoltà a controllare i propri impulsi e a ritardare una gratificazione, non riesce a riflettere prima di agire, ad aspettare il proprio turno in situazioni di gruppo, a lavorare con un obiettivo differito nel tempo. Mostra un’attività motoria eccessiva: da seduto muove le gambe, giocherella, lancia oggetti, cambia posizione di continuo. A scuola trova difficile, se non impossibile, stare seduto al banco per tutto il tempo richiesto. Il rendimento scolastico è insoddisfacente a causa del disturbo attentivo, dell’impulsività (alza la mano per rispondere prima che l’in-
segnante abbia finito di formulare la domanda) e del disturbo della memoria non verbale. Sono presenti difficoltà di relazione con i coetanei: spesso viene emarginato per il suo comportamento, non ha amici o li sceglie tra i più piccoli o i più instabili. Le difficoltà nei rapporti con gli altri, i problemi scolastici, i continui rimproveri, la sensazione di essere inadeguati, generano, nel bambino ADHD bassa autostima, senso di colpa e di solitudine, con rischi di comparsa di un disturbo depressivo o ansioso. Una simile condizione può facilmente determinare notevoli disagi di adattamento sociale soprattutto in adolescenza; in età adulta il disturbo può persistere come senso di irrequietezza interiore, difficoltà ad organizzare le proprie attività, problemi negli studi, traversie lavorative, sociali, frequenti incidenti stradali. In età adulta si assiste ad un’attenuazione dei sintomi in circa il 50% degli adulti con pregressa ADHD, mentre l’altro 50% mostra la persistenza di sintomi a carico dell’attenzione con difficoltà di organizzazione, impulsività, labilità d’umore.
Interventi e Terapie Scopo principale dell’intervento terapeutico è quello di migliorare il funzionamento globale del bambino: migliorare le relazioni interpersonali, le capacità di apprendimento scolastico, la qualità di vita dei bambini e delle loro famiglie; diminuire i comportamenti dirompenti e inadeguati; aumentare le autonomie e l’autostima. Trattamento psicopedagogico Ha l’obiettivo di modificare l’ambiente fisico e sociale del bambino per cambiare in modo positivo il comportamento: - con il bambino, utilizzando tecniche cognitivo comportamentali per insegnare strategie di autoregolazione; con la psicomotricità per disturbi della coordinazione e percezione motoria; con una eventuale psicoterapia di supporto, con l’intervento sui disturbi di apprendimento. - con i genitori: per favorire la comprensione dei comportamenti del bambino ed aiutarli a gestirli. - con gli insegnanti per favorire un’adeguata integrazione scolastica del bambino e consentire strategie educative più adeguate.
Trattamento farmacologico I farmaci utilizzati per il trattamento farmacologico dell’ADHD appartengono alla classe degli psicostimolanti: 1. Il metilfenidato è il farmaco più studiato in età evolutiva: dal 1996 ad oggi sono stati fatti 161 studi controllati, di cui 156 in età evolutiva. Gli effetti sul comportamento sono rapidi ed intensi: sono necessarie due-tre somministrazioni giornaliere del farmaco. Gli effetti del farmaco sono rapidi e tempestivi: i bambini iperattivi in trattamento sono meno impulsivi, irrequieti e distraibili; più capaci di memorizzare informazioni importanti e di mantenere l’autocontrollo. Anche l’interazione sociale coi genitori, gli insegnanti e i coetanei migliora dopo brevi periodi di terapia. Gli effetti terapeutici non diminuiscono con l’uso prolungato. Gli effetti collaterali sono modesti e facilmente gestibili; i più comuni sono la diminuzione dell’appetito, l’insonnia e mal di stomaco. L’insonnia può essere prevenuta evitando le somministrazioni serali, la mancanza di appetito e i disturbi gastrointesti-
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Maj E. & Marzocchi G.M. (2006). Rapporto tra aspetti emotivi e tolleranza dell’attesa in bambini con DDAI. Disturbi di attenzione e iperattività, Disturbi di attenzione e Iperattività 1/2/,129-146. Paiano A. e altri (2014). Parent Training per ADHD. Programma CERG: sostegno Cognitivo, Emotivo e Relazionale dei Genitori. Edizioni Erickson, Trento SINPIA (2002. A. Zuddas, G. Masi) Linee-guida per la diagnosi e la terapia farmacologica del Disturbo da Deficit. Attentivo con Iperattività
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nali somministrando il farmaco dopo i pasti. 2. L’atomoxetina costituisce il secondo farmaco per il trattamento dell’ADHD; gli effetti terapeutici sono meno rapidi rispetto al metilfenidato, ma l’azione del farmaco è più duratura e richiede una somministrazione giornaliera singola. Anche gli effetti collaterali sono meno intensi e frequenti rispetto al metilfenidato e diventa il farmaco di scelta quando all’ADHD si associa il disturbo da tic multipli. In alcuni bambini i farmaci psicostimolanti possono indurre variazioni del tono dell’umore con aumento o diminuzione dell’eloquio, ansia, eccessiva euforia, irritabilità tristezza: sarà compito del medico valutare le opportune modalità di gestione della terapia. La terapia farmacologica
(ADHD) Società Italiana di Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza. Zuddas A., altri (2000). Che cos’è l’ADHD? Manuale minimo per genitori ed insegnanti Arti Grafiche Pisano, Cagliari Zuddas A. (2003). Conferenza Nazionale di Consenso: Indicazioni e strategie terapeutiche per i bambini gli adolescenti con disturbo da deficit attentivo e iperattività - Cagliari, 6-7 marzo 2003. Giornale di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva, 23.
viene somministrata durante il periodo scolastico per rendere più adeguato l’impegno negli apprendimenti e, quando possibile, viene sospesa durante le vacanze estive. Una volta iniziato il trattamento viene normalmente proseguito per circa due anni. Alcuni studi mostrano che in adolescenza i soggetti ADHD trattati con psicostimolanti da bambini, sono meno esposti all’abuso di sostanze psicotrope e a comportamenti antisociali rispetto ai soggetti ADHD non trattati. La possibilità di un uso incongruo dei farmaci da parte degli adolescenti deve sempre essere presa in considerazione ed è quindi indispensabile monitorarne l’uso. Alcune considerazioni e consigli sulle
modalità relazione e di comportamento con i soggetti con ADHD Queste riflessioni riguardano in modo prevalente bambini e ragazzi preadolescenti in quanto la evoluzione e/o esito della Sindrome ADHD in adolescenza comprende una certa variabilità delle forme sintomatologiche, rispetto ai quadri d’esordio, che necessitano di essere seguite insieme ai terapeuti (medici e psicologi) con interventi e sostegno più specifici e personalizzati. La presenza in famiglia, a scuola, nei contesti sociali di un bambino con ADHD pone quasi sempre notevoli problemi di gestione dei criteri educativi agli adulti, siano essi genitori, insegnanti e altri che con essi si rapportano. Gli stili educativi (o di parenting) vengono nor-
malmente influenzati dai comportamenti anomali tipici dei bambini con ADHD. Studi sistematici ed ampi hanno messo in risalto l’impatto psicologico negativo che l’ADHD determina nella famiglia, evidenziando, soprattutto nelle madri, l’induzione di notevoli livelli di ansia e depressione, elevati condizioni di stress con la conseguente percezione di inefficacia e di inadeguatezza nelle proprie competenze educative (Lasesne et al 2003, Moreno 2006, Harpin 2005). L’importanza del ruolo delle figure educative nel percorso terapeutico del bambino con ADHD è sottolineato dalla opportunità di dare una guida e un aiuto concreto ai genitori e agli insegnanti per affrontare i piccoli e grandi problemi che prendersi cura di questi soggetti comporta. I metodi più appropriati da intraprendere per avere un aiuto utile e confacente sono sicuramente riferibili al Parent Training per i genitori e al Teacher Training per gli insegnanti. Questi programmi possono considerarsi come un intervento necessario e complementare al trattamento psicofarmacologico del bambino. È possibile comunque individuare alcune linee di
indirizzo e consigli utili per i genitori e adulti che interagiscono con valenza educativa con i bambini ADHD. Buone prassi educative per genitori di bambini con ADHD Il bambino con ADHD ha difficoltà a gestire i propri comportamenti, sia in modo autonomo che di fronte alle richieste che vengono fatte da genitori e insegnanti. Non è un problema di comprensione ma di capacità a mantenere un adeguato controllo dovuto al disturbo. Servono quindi a poco le spiegazioni continue e le ripetizione delle regole, delle critiche e dei rimproveri: il bambino va incoraggiato con commenti brevi e positivi che sottolineano i risultati ottenuti e lo stimolino per gli obiettivi da raggiungere. I rimproveri devono essere concisi e immediati, le punizioni pertinenti e collegate alle mancanze. Importanti per il rafforzamento dell’autostima sono la gratificazione e il riconoscimento, anche con premi, delle prestazioni ottenute. Il bambino con ADHD ha bisogno di essere rassicurato di ricevere attenzio-
ne: le spiegazioni devono avere una connotazione di sollecitazione positiva, di esortazione sulle sue capacità. Prima di fare una richiesta è necessario avere chiaro cosa vogliamo ottenere. Le punizioni e le prediche continue finiscono per diventare inefficaci e inutili. Sembrerebbe incoerente con i loro comportamenti, ma i bambini con ADHD hanno bisogno di gratificazioni e di elogi con maggiore frequenza degli altri bambini e la loro aspettativa ha bisogno di essere esaudita con tempestività. Questo infatti agevola e rafforza la loro capacità di controllo e li aiuta a migliorare le performances. È inoltre importante che i bambini sentano la presenza dell’adulto quando devono affrontare compiti che li mettono alla prova. L’esperienza dei genitori deve servire per prevedere e pianificare le situazioni nelle quali il bambino può trovare difficoltà. Semplici strategie possono rivelarsi di grande aiuto: rivedere con il bambino alcune regole e fargliele ripetere; stabilire i premi se raggiungerà l’obiettivo e le penalità se non rispetta le regole. Ancora: essere presenti e partecipi con un atteggiamento rassicurante e con
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Tutti noi genitori sappiamo quanto tale tema sia dibattuto e quanto sia complesso crescere un bambino che corrisponda alle caratteristiche qua descritte. Uno dei dibattiti più forti del mo-
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commenti pronti e concisi quando i comportamenti sono validi e corretti. È necessario procedere all’identificazione e alla scelta delle sfide e battaglie da affrontare con i bambini ADHD, tenendo conto di quelle che hanno rilevanza in ambito sociale e per il suo sviluppo, impegnando quindi su di esse le energie educative. Allo stesso tempo è utile mantenere una certa flessibilità sulle questioni e sui comportamenti meno importanti che, per quanto censurabili sono secondari e irrilevanti. È possibile in questo modo ridurre le inadeguatezze e i problemi che accompagnano i comportamenti dei bambini ADHD. Quando i metodi e le strategie messe in atto non sembrano sortire gli effetti desiderati, non bisogna ad-
mento è: farmaci si/ farmaci no. Avete opinioni ed esperienze al riguardo? Che siate genitori o operatori del settore aspettiamo le vostre lettere a direttore@genitorisidiventa.org
dossarsene la responsabilità e farsene una colpa. È necessario ricordarsi che i bambini con ADHD hanno un Disturbo e che fa parte dell’affezione clinica attraversare periodi più problematici e difficili di altri. Ottenere buoni risultati non dipende necessariamente dall’essere genitori particolarmente capaci e preparati.
Carlo Capone Antonio G. Pirisi neuropsichiatri infantili
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scuola e adozione
Gloria Joriini
L’incontro tra famiglie, scuola e servizi 18
Questo è il titolo della giornata di studi sull’adozione che si è tenuta a Cremona il 7 maggio 2014. La costruzione di questo incontro parte da lontano, da un corso di formazione organizzato nel 2011 da ASL e UST di Cremona, tenuto dal Dott. Chistolini, dedicato alle tematiche specifiche dell’adozione all’interno del contesto scolastico, rivolto a tutte le realtà che si occupano di infanzia e di adolescenza sul territorio cremonese: scuola, servizi pubblici e privati, associazioni familiari. Da questa importante esperienza è nato un tavolo di lavoro a livello provinciale, che ha la caratteristica di annoverare al suo interno presenze e professionalità diverse e di essere, come tale, interistituzionale: la scuola, il centro adozioni, la neuropsichiatria pubblica e privata, il consultorio
familiare privato che si occupa dei gruppi di genitori del post adozione, l’associazionismo familiare con la presenza di GSD. Questa realtà, definita «Gruppo di lavoro tecnico-scientifico scuola e adozione» è partita dalla condivisione dell’esperienza formativa per attivarsi e riflettere. Nel corso del primo anno di lavoro il gruppo ha prodotto delle «linee guida scuola e adozione», seguendo la scia di un più ampio movimento che ha interessato tutto il territorio nazionale e che ora sta approdando alla emanazione di Linee guida prodotte dal MIUR. Il tavolo cremonese ha individuato una specie di decalogo, concentrando la propria attenzione su alcuni nuclei fondanti: quali sono le modalità più idonee per l’accoglienza e l’inserimento dei bambini/ ragazzi adottati nella fase
di primo ingresso nel mondo della scuola, ma anche come accompagnare e sostenere nel tempo il benessere dell’alunno adottato a scuola, nelle fasi successive dell’iter scolastico, insieme alla necessità di costruire una rete, che faccia da supporto, che permetta di non sentirsi soli di fronte alle difficoltà, ed infine come diffondere la cultura dell’adozione. Nel secondo anno di lavoro il gruppo si è posto il problema di come rendere operative le linee guida, per far sì che potessero realmente essere realizzate all’interno delle scuole. Ecco allora che si è giunti a costruire degli ‘allegati pratici’, parte integrante delle linee guida, che vogliono offrire strumenti di lavoro utili per le scuole e le famiglie, non solo per quanto riguarda l’aspetto organizzativo e scolastico, ma anche per
quello didattico e relazionale. Nel luglio del 2013 è arrivato il primo importante riconoscimento ufficiale del lavoro svolto: la sottoscrizione di un ‘accordo di programma’, siglato da tutte le istituzioni coinvolte nel progetto, che dava nuovo slancio all’iniziativa. Era arrivato il momento di costruire una rete di docenti referenti per l’adozione. All’inizio di questo scolastico 2013/2014, in ognuno dei nuovi Istituti Comprensivi della città di Cremona è stato individuato un insegnante referente, che cominciasse il suo lavoro internamente alla propria scuola, ma collegato alla rete del tavolo provinciale, cosa che garantiva una condivisione di interventi e di obiettivi ed una conoscenza lenta ma progressiva delle specificità dell’adozione. Proprio dal confronto interno
al tavolo ci si è resi conto che le scuole superiori risultavano quelle meno agganciate, ma l’innalzamento dell’età media degli adottati al momento dell’ingresso in famiglia obbliga anche questo ordine di scuola ad affrontare la tematica. Da qui il bisogno di coinvolgere gli istituti superiori, ma partendo da un presupposto diverso: la necessità che i ragazzi stessi divengano protagonisti, perché diventando grandi hanno diritto e voglia di raccontarsi con le loro parole. Si decide di avviare una riflessione all’interno del Liceo artistico Munari di Cremona: si individua un docente, una dimensione laboratoriale all’interno della quale venga offerta agli allievi (fra cui alcuni adottati) la possibilità di riflettere sulle nostre linee guida. Si chiede loro
di realizzare graficamente una versione che affianchi i contenuti elaborati dal tavolo, ma illustrati con una grafica scaturita dai pensieri, dalle fantasie, dalle emozioni dei ragazzi stessi. Nasce l’idea di un bambino gomitolo, che può cambiare forma, colore, dimensioni, che si può srotolare ed annodare, che si aggancia e si lancia in nuove dimensioni. Parallelamente la presenza del tavolo viene richiesta dall’Istituto tecnico Einaudi di Cremona, grazie alla sensibilità di una docente di diritto la quale, dopo aver analizzato l’adozione nei suoi aspetti normativi, si pone il problema di affrontarla sotto altri punti di vista: scaturisce una collaborazione che consente ai ragazzi di fermarsi a riflettere, lasciando spazio alle emozioni, alle domande e permettendo ai
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pensieri di fluire. Anche il Consultorio familiare UCIPEM da anni sta lavorando con le famiglie adottive, per accompagnarle nel prosieguo delle loro storie, perché i bambini sono divenuti adolescenti ed hanno bisogno di mettere ordine e dare un senso ai loro pensieri. Così, in una dimensione esperienziale, i nostri ragazzi parlano, si raccontano, si confrontano fra loro, cominciano a riannodare i fili della loro vita. Nel corso di quest’anno scolastico il tavolo di lavoro ha voluto investire sulla diffusione della cultura dell’adozione attraverso l’organizzazione di seminari informativi e formativi. In decollo di anno scola-
stico, il 26 settembre 2013, ed in chiusura il 7 maggio 2014, il gruppo di lavoro si è presentato alle scuole e ai genitori, fornendo differenti punti di vista: da quello della dott. Daniela Marino, giudice togato del Tribunale dei minorenni di Brescia, a quello del Dott. Chistolini, psicologo e psicoterapeuta, responsabile scientifico del CIAI nonché membro della Commissione scuola e adozione presso il MIUR. Al loro fianco le esperienze maturate in città, offrendo le linee guida prodotte dal gruppo in tre anni di incontri, con l’intento di estendere al massimo la possibilità di partecipazione e confronto riguardo alle tematiche
proposte. Ma insieme a questo, abbiamo voluto cogliere gli stati d’animo, la quotidianità, dando voce ai nostri ragazzi, creando loro degli spazi all’interno del seminario: gli alunni del Liceo Artistico, quelli dell’Einaudi, gli adolescenti adottati del Consultorio familiare UCIPEM, gli allievi del Liceo Musicale Stradivari di Cremona, che hanno accompagnato con il suono di violino, viola, chitarra ed accarezzato con la loro voce i racconti di storie vissute. Ci hanno fatto emozionare evocando ricordi, ci hanno fatto vibrare esprimendosi con linguaggi alternativi a quello verbale, ci hanno toccato nel profondo quando ab-
Il seminario cremonese del 7 maggio è nato per presentare le linee guida «Scuola - Adozione». Ma poiché la platea era molto eterogenea (docenti, genitori, operatori ASL, studenti, giornalisti), abbiamo pensato di offrire un ampio panorama e catturare l’interesse non solo con una spiegazione tecnica dei nuclei fondanti del nostro lavoro, ma affiancando ai contenuti più tecnici la lettura di testimonianze che andassero a sollecitare gli aspetti più legati alle emozioni, che sono strettamente connesse con le tematiche adottive. Il via è stato dato dal seguente racconto, narrato da un genitore, che vuole raccontare la storia scolastica di Martino, prima che il dialogo fra scuola, associazioni familiari e operatori socio-sanitari iniziasse a produrre quel movimento di idee e contenuti sfociati poi nei vari protocolli o linee guida locali. TESTIMONIANZA N° 1 Il mio bambino è arrivato all’età di tre anni e tre mesi dalla Bulgaria. Io e mia moglie lo abbiamo visto solo poche ore nel novembre del 1998 prima di dare il via alle pratiche di adozione. Lui aveva 2 anni e mezzo. Si sapeva che ci sarebbero voluti circa 9 mesi per ottenere la sentenza del Tribunale di Sofia… Avrebbe dovuto arrivare a luglio, in tempo quindi per iniziare il primo anno di scuola materna. Ma al momento dell’iscrizione il bambino non esiste ancora per lo Stato italiano e a nulla serve che l’Ufficio bulgaro preposto alle Adozioni preveda che la pratica sia conclusa entro l’estate 1999. Nessuna possibilità di riservare un posto, di esprimere un ‘desiderata’. Pazienza! Martino arriva a luglio e a quel punto la scuola materna più vicina con posti disponibili è una statale. Così io e mia moglie a settembre prendiamo appuntamento con le maestre per spiegare la sua particolare situazione: - «È in famiglia da poco più di 2 mesi; non capisce e non parla ancora, ma salta, corre, si arrampica ovunque… Un piccolo ciclone». Spieghiamo che aspetteremmo volentieri ancora qualche mese prima dell’inserimento, per ovvie ragioni, ma ci viene consigliato di cominciare da subito, perché così il bimbo potrà godere dei tempi graduali di inserimento previsti per gli altri primini… più difficile sarebbe attuarli in seguito. Inizia l’inserimento graduale. Mia moglie dà alle
maestre la disponibilità assoluta a rimanere nei pressi della scuola per qualsiasi necessità. Al 4° giorno, ad inizio mattina, con il via vai dei genitori, Martino corre come il vento fuori dalla porta finestra della classe, trova il cancelletto aperto, esce in strada e solo a quel punto viene raggiunto e bloccato. Le maestre sono in crisi… «non era mai accaduto prima», ci dicono. Prendiamo in autonomia la decisione di rinviare l’approccio con la scuola. L’anno dopo scegliamo un asilo privato con muri di cinta altri tre metri e portineria. Ci diciamo «qui lo portiamo, qui lo ritroviamo». Inoltre possiamo evitare il problema dell’anno di differenza tra lui e i compagni perché qui la classe è composta da piccoli, mezzani e grandi. Il rovescio della medaglia consiste però nel fatto che il gruppo è composto da 29 bambini con un’unica maestra… una maestra gentile, sorridente, disponibile, ma il rapporto 1 a 29 non lascia molti spazi d’azione. Martino viene spesso separato dagli altri perché ha modalità di gioco troppo fisiche e soprattutto «si muove in continuazione». Certo, anche quando è fermo si muove… seduto in mezzo alla nidiata spicca per il suo incessante dondolio. Preoccupati dal resoconto quotidiano della scarsa adeguatezza del bimbo , ci rivolgiamo alla Neuropsichiatria Infantile per un consulto… l’esito delle osservazioni è negativo, ci viene solo proposta una terapia basata su sedute di psicomotricità. Arriva il momento dell’iscrizione alle elementari. Stavolta ci siamo mossi per tempo: nella scuola vicino a casa partirà una prima a tempo normale, con uscita alle 12.30 dal lunedì al sabato e un solo rientro pomeridiano. Ideale per non sovraccaricare Martino! Altro fattore positivo: la sua classe sarà composta da 14 bambini.. La situazione appare ottimale. Ma le cose non vanno per il verso giusto. Martino è incapace di stare seduto nel banco, ha tempi di attenzione limitati… non riesce a capire la differenza tra materna ed elementari. Lui e altri 3 maschietti descritti come ‘problematici’ mettono a dura prova la pazienza dei maestri. Anche a casa Martino è turbolento e ci dà filo da torcere, ma nel complesso, riusciamo a gestirlo. Perciò, anche se a scuola non riesce a seguire le lezioni, al pomeriggio a casa recupera e riesce a stare al passo con i coetanei…… Ci tengo a dirlo: il suo profitto a scuola è sempre
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stato buono, ma che fatica per noi e per lui ottenere questo risultato. Decidiamo perciò di rivolgerci privatamente a una pedagogista che aiuti noi e la scuola a creare un percorso più adatto alle esigenze del bambino… Ma 15 anni fa, senza una certificazione, non si poteva personalizzare un granché. Per Martino è stata azzardata una ipotesi di ADHD, ma anche in questo caso l’esito delle osservazioni compiute dagli specialisti è stato negativo. Il bimbo era adeguato quando voleva lui, per quello che interessava a lui, con chi voleva lui e per il tempo da lui stabilito… purtroppo sempre troppo poco per farci stare dentro lo sforzo prolungato che richiedevano le cose di scuola. E ha continuato a funzionare così anche alla secondaria. Alle medie Martino cambia quasi tutti i compagni di scuola e al primo anno viviamo un fase positiva, stigmatizzata da un distinto in comportamento oltre che dal solito buon profitto. Che il peggio sia alle spalle? Confortati dal miglioramento, al secondo anno accogliamo con piacere la proposta della coordinatrice di classe di avviare un graduale processo di autonomia nello studio a casa. La mamma finalmente potrà fare solo la mamma e lui sarà seguito nei compiti da una signora abituata a dare ripetizioni, che sarà in diretto contatto con l’insegnante di italiano. Ricordo questi mesi come i più sereni della nostra vita familiare. Dopo qualche tempo, la professoressa, preoccupata, ci contatta perché Martino sta accumulando lacune: l’educatrice segnala che il ragazzino non ascolta e usa tutte le modalità di estraneazione di cui è capace. A questo punto, ecco il ritorno dei pomeriggi trascorsi con lui a tavolino, con mia moglie dilaniata tra il senso del dovere che le impone di fare da mamma e insegnante di sostegno al contempo e la tentazione di mollare la presa e lasciare che la scuola vada come vada. Un dilemma da non poco per una famiglia che crede profondamente nella valenza educativa e formativa dell’esperienza scolastica. No, non si poteva! Dovevamo continuare a supportarlo, a dimostrargli che papà e mamma credevano in lui, che erano al suo fianco, che capivano la fatica che faceva nello stare al passo con la scuola e che avrebbero continuato a studiare con lui e qualche volta anche in vece sua, preparando schemi e riassuntini
quando ‘tutto sembrava troppo’. Alla fine della scuola media Martino sceglie di frequentare un Istituto professionale. Arriva perciò all’atto dell’iscrizione alle superiori con nient’altro che la scheda di valutazione (con la media del sette e mezzo) e il certificato delle competenze. Quindi, quando io e mia moglie chiediamo un colloquio con il coordinatore di classe per parlare delle difficoltà del ragazzo, l’insegnante sembra non prenderci troppo sul serio «con una scheda così qui da noi sarà uno dei piu bravi !». E questo è stato vero per quanto attiene il profitto, ma nel nuovo ambiente il comportamento si è fatto problematico. Nessuno però è più disponibile a cercare di capire il perché, la questione adozione è considerata capitolo chiuso, passato, finito. E questo è il punto. Si possono considerare i primi tre anni e mezzo di vita passati in Istituto un’esperienza chiusa, passata, finita? Un’esperienza così lascia il segno e soprattutto durante l’adolescenza tutto ritorna a galla e nel modo più violento, quando alla naturale instabilità emotiva e psicologica del sedicenne, si assommano pensieri sull’abbandono, sulla diversità che accentuano la rabbia e il rancore. A questo punto, vi chiederete, cosa ne è stato di lui e di noi come famiglia? Per fortuna Martino ha trovato una sua dimensione… una dimensione lontana dalla scuola tradizionale, che ha concluso con un diploma di qualifica professionale al terzo anno perché ha scoperto la danza. Attraverso la danza ha potuto esprimere le sue qualità acrobatiche, sfogare la sua energia, trovare una forma espressiva personale e finalmente ha iniziato ad aprirsi e ad interagire, stimolato da un ambiente nel quale si è sentito apprezzato e valorizzato. Noi genitori avremmo avuto altre aspettative, certo! Perché negarlo? Avremmo desiderato per lui un diploma di maturità, un corso magari anche breve all’Università. Ci sentiamo lontani come stile di vita dal mondo che ha scelto, ma abbiamo capito che questa accademia è per lui la più valida delle terapie. Qui lui profonde impegno e attenzione, rispetto per le regole e autocontrollo. Essendo il protagonista dei propri successi, Martino ha cominciato a credere in se stesso. E noi siamo diventati finalmente solo e nient’altro che i suoi genitori.
Il primo punto delle nostre linee guida prevede l’istituzione di un insegnante referente per l’adozione, con il compito di seguire l’inserimento e l’accompagnamento del bambino/ragazzo e della famiglia nel percorso scolastico. Ecco allora la narrazione dell’‘avventura’ di una insegnante referente all’interno di questa esperienza, affascinante per certi versi, ma irta di difficoltà per altri. TESTIMONIANZA N° 2 La mia avventura è cominciata qualche anno fa, quando il mio dirigente scolastico – dott. Piergiorgio Poli dell’Istituto Comprensivo Cremona Uno – mi ha proposto di occuparmi dell’integrazione degli alunni stranieri: confesso che da una parte ero molto attratta e curiosa perché lavoro in una scuola con una notevole presenza di bambini non italofoni. Dall’altra parte ero anche un po’ spaventata perché non sapevo bene come organizzare le mie attività, quali strategie e metodologie mettere in campo per accogliere e lavorare sull’integrazione degli alunni stranieri. Ho cominciato a frequentare corsi di formazione-aggiornamento organizzati sul nostro territorio; sono venuta a contatto con esperti o insegnanti di ogni ordine e grado che, come me, avevano lo stesso incarico (funzione strumentale). Vorrei paragonare questa mia esperienza ad un’escursione in montagna, perché è così che mi sento ancora oggi: prima di partire per una camminata di solito è bene pianificare la meta, cosa portare con sé nello zaino scegliere un percorso, gli strumenti utili (macchina fotografica, binocolo, cartina…) e magari qualche amico con cui condividere questa difficile ma meravigliosa impresa. Così mi sono attrezzata, e lo sto facendo tuttora: mi sono confrontata con persone che prima di me avevano intrapreso questo tipo di percorso; ho cercato materiale per l’integrazione degli alunni stranieri, per la loro alfabetizzazione… Poi sono approdata a questo tavolo di lavoro e i miei orizzonti si sono ulteriormente aperti. Sì perché, secondo me, l’insegnante referente per l’accoglienza e l’integrazione, soprattutto relativamente ai bambini adottati, oltre a possedere delle competenze tecniche di insegnante deve avere doti umane che richiedono notevoli energie da spendere anche fuori dall’orario scolastico: deve sapersi mettere in gioco, deve saper anche rischiare – se necessario – provare a percorrere una strada alternativa, magari anche se è molto in salita, tortuosa,
impegnativa. Non va dimenticato che, oltre al bambino adottato, l’insegnante referente ha il compito di accogliere anche la sua famiglia, rassicurarla, trovare una sintonia necessaria per una collaborazione fattiva, entrare in empatia e ipotizzare percorsi adeguati. Infatti, come dicevo, in una gita in montagna si incontrano spesso degli imprevisti, magari a cammino iniziato se non subito. A volte mi è capitato di incontrare difficoltà legate all’organizzazione burocratica: spesso si concorda, per esempio, con la famiglia di un bambino adottato i tempi adeguati per l’inserimento in classe; invece nel momento in cui l’alunno risulta iscritto deve venire subito in classe altrimenti comincia a fare delle assenze che vanno segnate sul registro… È importante che l’inserimento a scuola avvenga in modo graduale: la frequenza scolastica può, anzi non deve coincidere nei tempi con l’iscrizione; sarebbe buona cosa che i primi giorni magari il bambino frequentasse solo la mattina, aggiungendo il tempo mensa (se previsto) e, solo dopo qualche tempo, il rientro pomeridiano. Oppure le difficoltà nascono quando si comincia a parlare con i colleghi che dovranno poi effettivamente prendere in carico il bambino o ragazzino adottato; perché non va dimenticato che all’inizio, un alunno nuovo, porta un po’ di preoccupazione: soprattutto quando arriva ad anno inoltrato. Bisogna dedicare molto tempo all’accoglienza, preparare gli spazi adatti, ‘costruire’ un percorso educativo personalizzato ad hoc, ‘cucito’ su misura per lui, proprio come un abito realizzato dalla sarta. Certo tutto questo sconvolge un po’ il nostro modo di insegnare che è segnato tempisticamente da ritmi insostenibili, fatto da obiettivi da raggiungere, competenze da acquisire… Cammin facendo però si comincia a intravedere la meta: e dopo alcuni intoppi, si iniziano ad ottenere risultati stupendi come i progressi legati anche soltanto all’aspetto della socializzazione. Bisogna sempre cercare di puntare al fatto che il bambino stia bene a scuola, viva esperienze serene, che lo facciano crescere come persona prima ancora di essere un alunno. I bambini, a maggior ragione quelli adottati, hanno un bisogno ‘speciale’ di sentirsi accettati, apprezzati, valorizzati non solo dai compagni ma anche dagli insegnanti. E qui arriviamo magari alla meta del nostro
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viaggio: quanta fatica se guardiamo indietro, ma ora che dall’alto osserviamo il panorama intorno a noi, quasi vengono i brividi. Sì, perché un insegnante che ha a che fare con bambini adottati deve necessariamente mettersi in gioco: spendere energie vitali per far in modo che tutto funzioni, utilizzare un linguaggio semplice, chiaro, fare in modo che interagisca coi compagni e con gli insegnanti. Osservando le mie classi, negli ultimi anni, posso notare che è una bella sfida: scopro di avere risorse incredibili, che imparo guardando i bambini stessi: sono così diversi ma così uguali. La diversità, allora, non costituisce solo un problema da risolvere, un ostacolo da superare, ma è considerata una ricchezza, una risorsa per tutti perché ci spinge ad essere persone migliori, a trovare strade alternative che a volte sui libri, sulle mappe, sulle cartine non sono segnate… Uno spazio speciale lo abbiamo voluto dedicare alla transizione da un ordine di scuola all’altro ed in particolare alla delicata fase della preadolescenza, in cui i nostri ragazzi sono tenuti a scegliere una scuola superiore e quindi a lanciare lo sguardo sul loro orientamento scolastico e sul loro progetto di vita. Abbiamo voluto costruire una scheda di accompagnamento dalla scuola secondaria di I grado a quella di II grado, per trasformare l’accoglienza da iniziale a permanente, perché divenga una modalità di porsi con l’allievo, perché si crei passaggio di documentazioni ed informazioni fra ordini differenti di scuole, perché possa diventare una cultura diffusa nell’ambiente scolastico. Da qui l’esperienza narrata da una docente di scuola superiore. TESTIMONIANZA N° 3 Di che cosa ha bisogno un ragazzo che inizia il suo percorso alla scuola secondaria di secondo grado? È la prima domanda che ci poniamo quando accogliamo i nuovi alunni provenienti dalla scuola media. E se questi alunni sono stati adottati, che cosa vale la pena di sapere prima che inizino il loro percorso? Partendo da qui, abbiamo evidenziato alcuni punti che ci sono sembrati importanti per facilitare ai ragazzi il passaggio da un ordine di scuola all’altro. Abbiamo dunque pensato di raccogliere alcuni dati riguardanti l’alunno in una scheda di accompagnamento redatta dal docente della scuola media. Nella prima parte, sulla base di quanto raccon-
tato dai genitori, si riassume la storia adottiva del ragazzo, ponendo particolare attenzione alle esperienze vissute prima dell’arrivo in famiglia e all’evoluzione successiva osservata in famiglia. Dunque abitudini, comportamenti, disagi e difficoltà. Nella seconda parte, si evidenziano invece quelli che abbiamo voluto definire i punti di forza e di debolezza rilevati dalla famiglia e dalla scuola. Punti di forza e di debolezza che possono riguardare aspetti caratteriali o relazionali del ragazzo, interessi o particolari abilità. Per quanto riguarda invece la sfera più prettamente scolastica e cognitiva, la scheda rimanda a tutta la documentazione che il consiglio di classe predispone durante il percorso triennale e che può riguardare eventuali progetti specifici per ragazzi con DSA, BES, certificazioni H e alla scheda di valutazione finale. La scheda di accompagnamento riporta, inoltre, nella parte finale, i dati della referente del progetto della scuola media. La comunicazione di tali dati ci è sembrata particolarmente importante per facilitare, da un lato, il passaggio delle informazioni ma anche per creare una continuità nel lavoro che, in prospettiva, comprenderà tutte le tappe del percorso scolastico, dalla scuola materna alla scuola superiore. Questa scheda accompagnerà dunque il ragazzo e sarà conservata nel suo fascicolo personale, a disposizione del coordinatore di classe o del referente scuola-adozione, evidentemente nell’assoluto rispetto della privacy e in accordo con quanto deciso dalla famiglia. A tal proposito è importante aggiungere che i genitori, nel momento in cui accettano di iniziare i colloqui con il referente, sono invitati a firmare un modulo… Ci rendiamo conto che questa scheda può sembrare l’ennesima ‘carta’ da compilare, magari velocemente pur di espletare la pratica, ma non è certo stata pensata per appesantire, burocratizzare o, peggio ancora, per etichettare o rinchiudere un alunno in poche caselle prestabilite. È solo il tentativo di rendere più facile e più fruttuosa la conoscenza dei ragazzi con una storia di adozione, per accompagnarli al meglio nella loro crescita personale e scolastica. È solo un mezzo che può aiutarci a leggere più velocemente e profondamente nella storia di un ragazzo la cui vita ha avuto una partenza speciale. E non solo. La compilazione di questa
scheda può diventare anche per gli insegnanti e la famiglia un motivo di incontro autentico, fatto di ascolto, di attenzione e di emozione. Dopo aver messo a fuoco le azioni da effettuarsi a scuola, un’attenzione particolare va posta alla costituzione di una rete, che si allarga, si estende, ci sostiene, ci fa parlare in maniera coordinata, non ci fa sentire soli di fronte alle difficoltà, ci permette di leggere e comprendere il disagio tenendo conto della componente emotiva correlata alla dimensione adottiva. Ecco quindi la testimonianza di una famiglia che attraverso l’amicizia ed il sostegno con altre famiglie adottive, è riuscita a confrontarsi e a capire che genitori si diventa giorno per giorno… TESTIMONINZA N° 4 Siamo genitori di una bimba che abbiamo attesa per 3 anni e mezzo. Dopo la valutazione dei Servizi Sociali e del tribunale abbiamo impegnato i lunghi anni dell’attesa incontrando famiglie adottive, partecipando ad incontri formativi di associazioni e leggendo molti libri. Il nostro figlio immaginario si stava formando nella nostra mente e nel nostro cuore e una fitta rete di relazioni, rapporti e amicizie si stava costruendo attorno a noi. Poi la chiamata più attesa ha unito le nostre vite ad una bimba di 5 anni, non piccolissima ma con un grande bisogno di amore. L’abbiamo incontrata nel suo lontano paese, si è fidata di noi, ha lasciato le cose conosciute e con grande entusiasmo si è lasciata guidare alla scoperta di cose ed emozioni nuove. Ci siamo regalati tanto tempo per stare insieme, la scuola poteva aspettare, prima dovevamo coltivare come un piccolo albero la nostra famiglia e capire bene di che cosa aveva bisogno nostra figlia per riconquistare una tranquillità emotiva. Poi giustamente è arrivato il momento della scuola: quanta gioia nel conoscere nuovi amici, imparare cose in una lingua sconosciuta, affrontare situazioni nuove. Il primo ‘banco di prova’ anche per noi genitori! L’esperienza con la scuola è stata difficoltosa, abbiamo fatto tanti passi avanti, ma anche tanti indietro, parecchie cadute, soprattutto quando il profitto scolastico veniva prima dell’accoglienza e dell’educazione, quando le lacune erano più importanti dei piccoli e costanti progressi.
In questa difficile esperienza è stata di grande conforto l’amicizia e il sostegno di altre famiglie adottive con le quali ci si capiva al volo perché il cammino fatto ci univa. Un confronto indispensabile per renderci conto che non eravamo soli, ma che ce la potevamo fare insieme. Nessuno ha la bacchetta magica, ma ci si può confrontare, ci si può consigliare e sostenere. Genitori si diventa giorno per giorno crescendo con i nostri figli in uno scambio reciproco: noi abbiamo deciso fin dell’inizio di far parte della loro storia e loro della nostra. Le voci dei nostri ragazzi adulti che ricordano quanta fatica hanno fatto ad esternare le loro emozioni più vere ad una coppia di ‘estranei’, siano stimolo ed esempio perché anche la famiglia sperimenti la condivisione delle gioie e delle difficoltà con altre famiglie. Altro nodo concettuale di fondamentale valore è per noi la cultura dell’adozione, che deve avvenire attraverso la diffusione di idee, valutazioni, pensieri che germogliano e creano informazione e formazione, ma anche cogliendo la quotidianità, le emozioni, gli stati d’animo attraverso i racconti dei protagonisti. Questi due livelli si devono fondere perché il tutto divenga un dialogo, un pensiero comune , una cultura appunto diffusa. Ecco le parole di una educatrice del consultorio familiare che si dedica da anni alla conduzione di gruppi di genitori adottivi: TESTIMONIANZA N° 5 Nella mia mente la diffusione della cultura dell’adozione è avvenuta, come sempre, in 2 diversi modi: uno più istituzionale, l’altro più ‘naturale’, quotidiano… Iniziare a condurre gruppi di genitori adottivi in consultorio ha portato anni fa tutte noi operatrici alla ricerca di spazi formativi: libri, convegni, giornate di studio. Paragonabile ad una semina curata nei particolari, preparata nei tempi, nei modi, con idee chiare sui frutti da cogliere. Poi, ecco il secondo, fondamentale passaggio: l’incontro con le storie, dei grandi, dei piccini e dei ragazzi, raccontate, lette, chiacchierate… la semina ‘casuale’, della natura, del vento e delle api… Tutto questo ha creato uno spazio, uno spazietto mentale che è rimasto in me e nel quale la realtà di tutti i giorni, man mano che viene conosciuta, passa e viene ‘filtrata’.
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E allora in classe, a scuola, con i ragazzi, i bambini, gli insegnanti e i genitori si prova a dare voce anche a questa realtà: «C’è qualche bambino o ragazzo in adozione in classe?», non è indifferente affrontare tematiche legate all’affettività o alle relazioni in generale se è presente una storia adottiva (o di affido, o di separazione, o di tante altre specifiche situazioni…). Un tempo, qualche anno fa, semplicemente, non ci avrei pensato… niente di grave, ma avrei perso un ‘pezzetto’ della vita intorno a me. E non tenerne conto, era un po’ come negarne l’esistenza. Invece le storie diverse di tanti esistono e obbligano ciascuno di noi a cercare parole sempre nuove per entrarci in contatto, con delicatezza, con curiosità attenta. E la vera cosa curiosa e bella è che, più si prova a trovare parole per approfondire un argomento, più chi ti è intorno ti aiuta a trovarne: ne parla e arricchisce il lessico di storie, emozioni e vissuti che rendono quello spazietto della mente non solo pieno di nozioni ‘libresche’, ma ricco di colori, immagini e parole che fanno da ponte con gli altri ‘spazietti’ che si incontrano e che hanno voglia di condividere saperi e storie. E tutto questo è assolutamente contagioso… come il polline, si diffonde… La cultura è un concetto in assoluto divenire, in me, in ciascuno di noi: 1000 spazietti attendono di essere conquistati e condivisi. E così, a chiusura ideale, un’ultima testimonianza del nostro percorso a cura di una psicologa la quale, mettendo insieme tutti i pezzettini di questo nostro immaginario puzzle, raccontando la storia di Samuel, prova ad intravvedere cosa succederà ai nostri ragazzi, dentro e fuori la scuola, se ciascuno di noi adulti avrà davvero nella mente e nel cuore il benessere dei nostri figli. TESTIMONIANZA N° 6 Nella settimana enigmistica, c’è un gioco, quello che fa emergere una figura solo se si connettono esattamente i puntini nell’ordine numerico preciso. Se sbagli qualcosa, se connetti un puntino prima di un altro, la figura prende altre forme, non quella prevista. Se si connettono scuola, famiglia, enti deputati al benessere, emerge la figura perfetta: quella del Bambino. Come nel gioco della settimana enigmistica. Con una differenza: scuola, famiglia, enti vari, nessuno viene prima o dopo: tutti, nelle benessere e nella crescita del Bambino, hanno un’importanza sostanziale.
Non possiamo dimenticare che quando mandiamo a scuola un bambino, in quel luogo, noi vogliamo che egli apprenda per diventare un giorno la persona che andrà nel mondo con un pensiero da esprimere, con un bagaglio di emozioni ed esperienze grazie alle quali egli traccerà il suo segno nel mondo. Quindi, a scuola il bambino apprende, impara, socializza. Vive. E non possiamo pensare che il bambino possa vivere prescindendo dalla sua storia di vita. Steve Jobs, parlando dei puntini nel suo famoso discorso alla Stanford University, disse: «Non è possibile unire i puntini guardando avanti, potete unirli solo guardandovi indietro». Oggi, si potrebbe dire applicando al tema di questa giornata che non è possibile unire i puntini solo guardando avanti se prima non abbiamo guardato indietro. Alla storia di adozione del bambino. Samuel mi chiede sempre «Tu mi diventi?» con una pronuncia che lascia ampia indecisione alla comprensione del verbo. Mi difendi o mi diventi? «Io sono qui per te finché ce ne sarà bisogno. E insieme…». Prima che io possa finire la frase, Samuel mi precede: «Lavora Samuel, lavora». Samuel ha connesso tutti i puntini. In realtà lui mi ha interrotto per riportarmi la stessa frase che la sua insegnante gli ripete in continuazione a scuola e con la quale mamma e papà lo sostengono quando lo vedono pigro, svogliato o solo per canzonarlo amorevolmente. Mentre si ripete e mi ripete «Lavora Samuel, lavora» aggiunge «Arrabbiato io», ma sia io che lui sappiamo perfettamente che non lo è. Che ha solo bisogno di continuare ad essere visto e tenuto nella mente da tutti per ciò che Egli è: un bambino adottato, con una famiglia, una scuola, con persone che vogliono il suo benessere, tutti volti nella direzione della sua crescita nel pieno rispetto della sua storia. Samuel diventerà e sarà capace di difendersi, se vorremo tutti che egli diventi e sia capace di difendersi.
biamo potuto lanciare il nostro sguardo un po’ oltre ed abbiamo visto giovani adulti che si stanno proiettando verso il loro progetto di vita. Questi due diversi piani si devono fondere perché il tutto divenga un dialogo, un pensiero comune affinché le future occasioni di incontro possano tener viva l’attenzione sulle tematiche specifiche dell’adozione. A tutt’oggi la realtà cremonese può contare sicuramente sulla rete che si è costruita, ma anche sulla periodicità regolare e mensile con cui il gruppo riesce ad incontrarsi e a confrontarsi. In questo senso Cremona è all’avanguardia rispetto ad altre realtà nazionali, poiché grazie a questa cadenza regolare si prosegue nel lavoro di confronto e sarà possibile per il tavolo stesso proporsi come punto di riferimento locale per le tema-
tiche dell’adozione nonché promuovere una cultura dell’accoglienza attraverso attività di sensibilizzazione ed educazione delle giovani generazioni. Non possiamo che concordare con Maria Linda Odorisio la quale, in una rispo-
sta dello sportello virtuale scuola di GSD affermava che «… la via più produttiva da percorrere, per tutti i figli di questo mondo, è quella dell’educazione alla diversità in tutte le sue forme…».
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Greta Bellando
Tra radici e germogli: frammenti di viaggi di ritorno alle origini
Carissimi lettori, voglio parlarvi di un’avventura, di un giro intorno al mondo, di un viaggio che ho avuto occasione di fare tra la mia mente ed il mio cuore. Di solito si viaggia fisicamente io, al contrario, l’ho fatto ascoltando le voci e guardando negli occhi coloro che mi hanno coinvolta nella loro esistenza, nel loro ritorno a quel Paese che gli ha donato la vita. Credo sia importante e lecito dirvi chi sono, perché ho deciso di compiere questa esperienza e soprattutto dirvi chi mi ha tenuta per mano lungo questo cammino di scoperta. Io sono Greta, una studentessa di Pedagogia; mi definirei curiosa, appassionata, una sognatrice che crede nel proprio lavoro, nei sacrifici e nell’importanza che ciascuna esperienza e ciascun impegno portano con
sé. Cavalcando la cresta dell’onda della mia passione, inerente l’adozione, e spinta dal mio lavoro di tesi triennale sul medesimo argomento, ho deciso di riprendere in mano il mio primo lavoro di tesi, per donare una prosecuzione a quei puntini di sospensione. Io non sono né una mamma né una figlia adottiva, ma sono una giovane che crede nell’adozione e ai suoi protagonisti. In questo lavoro ho deciso di mettermi in gioco e di confrontarmi con i giovani adulti adottivi, poiché ritenevo importante cogliere ogni sfumatura insita tra i loro occhi. Ci siamo conosciuti telefonicamente, io ho chiesto loro di accompagnarmi in questo percorso, di donarmi un po’ di loro, attraverso un’intervista aperta per la quale avremmo deciso assieme come effettuarla, mettendomi a
loro disposizione per ogni eventualità. Le interviste che ho svolto sono avvenute principalmente tramite Skype, poiché in questo modo abbiamo potuto accorciare le distanze ma, allo stesso tempo, non ci siamo sottratti al piacere di conoscere reciprocamente i nostri volti, guardandoci negli occhi con curiosità e interrogazione verso quello che ne sarebbe stato. Inizialmente, l’impatto è sempre stato ‘forte’ perché si coglieva un lieve imbarazzo dovuto all’essere degli ‘sconosciuti’. Solo in un caso ho avuto l’onore e il piacere di sentire l’esperienza di una mia carissima amica. Con lei non è stato semplice, anzi, entrambe coglievamo un senso di lieve imbarazzo, poiché io non ero più solo l’amica fidata, ma dovevo entrare nel profondo con la giusta discrezione per
paura di ledere il nostro legame. Posso affermare che questa ragazza è stata un po’ ‘la bussola’ di questo mio cammino, aiutandomi sin dal principio nella formulazione del lavoro; assieme ci siamo confrontate e mi ha aiutata a indossare una veste nuova, più profonda ed empatica. È grazie a lei che mi sono avvicinata al ‘mondo dei figli’ ed è con lei che ho potuto gioire ed esprimere i miei dubbi. Tutti i giovani dopo le prime domande introduttive, le classiche per sciogliere il ghiaccio, si sono lasciati trasportare dalle parole e mi hanno aiutata a viaggiare tra la memoria dei loro ricordi, mentre le immagini dei loro occhi si increspavano tra un luccichio di emozione e una voce che proveniva dal profondo, tanto da giungere, alcune volte, in superficie con un lieve tremolio. Mi hanno raccontato di loro, della loro vita attuale, del bisogno di sapere, della nostalgia di quei ricordi sfumati, della nostalgia per quei profumi, della voglia di conoscere, del bisogno di riconoscersi e della necessità di trovare un posto nella loro vita. Io, per consentire loro di prepararsi al meglio e con la giusta serenità, ho sempre inviato a coloro che si mostravano favorevoli,
la traccia dell’intervista in modo che capissero ancora prima di iniziare di cosa avremmo parlato. Tutti hanno apprezzato la cosa, ma ahimè, in un’occasione, colta dall’entusiasmo e dalle frenesia, mi sono dimenticata di inviare la traccia a una ragazza. Questa è stata l’intervista più difficile, più spontanea e più profonda tanto da destabilizzare me stessa. Io ero in balia del suo racconto e ormai non si poteva e non volevo tornare indietro, non potevo frenare la sua storia, non potevo che cogliere e accogliere tutte le sue emozioni, quelle fatte da un ritorno di ricordi, un ritorno alla propria casa, a quegli oggetti utilizzati dalla madre per cucinare, a quelle coperte ancora là che hanno saputo cullare il suo sonno nel tiepido calore della sua casa e della sua terra. Alla fine di questa intervista la ragazza stessa mi ha confessato che se avesse letto la traccia – prima di iniziare –, forse si sarebbe ‘costruita’ per evitare di sviscerare così tanti ricordi, ma allo stesso tempo raccontarsi a me le ha fatto bene perché si è sentita libera e dissociata da ogni forma di giudizio. La parte più piacevole di questo lavoro, o meglio quella più gratificante, è stata la
consapevolezza che cresceva, minuto dopo minuto, la convinzione che non saremmo stati più sconosciuti. Ritrovarsi nei miei scritti ha dato loro la possibilità di conoscersi ancora di più e questa grande occasione non è stata solo mia ma anche loro, perché hanno potuto leggere le proprie storie e ritrovarsi in quelle parole. Ogni storia, ogni viaggio fatto assieme mi ha portata a immaginarmi là con loro e ha portato loro stessi a rivedersi là tra i colori dell’India, la confusione di Seul, l’odore dei chicchi di caffè appena tostati in Etiopia, la vita dei villaggi in Vietnam e il suono delle campane nella piazza Rossa a Mosca, come un benvenuto nella terra madre. Seppure distanti e divisi da uno schermo, io sono riuscita a percepire i battiti del loro cuore per fare in modo che quelle emozioni potessero divenire un po’ mie. Questo lavoro che chiamo, per ragioni tecniche, tesi, potrei definirlo una vera e profonda esperienza di vita: ci siamo presi per mano e abbiamo iniziato a scrivere le pagine di questa storia; insieme abbiamo aperto lo zainetto, quello che portano sulle spalle dal loro arrivo, quello che dopo un viaggio di ritorno si è fatto, a seconda dei casi, più pe-
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sante o più leggero. Io non ho preso fisicamente l’aereo che li ha riportati alle loro radici, ma ho potuto cogliere i pensieri che si sollevavano nel cielo tra due Paesi che per molti saranno sempre uniti. I ragazzi intervistati sono tutti maggiorenni e hanno in comune il ‘dono del germoglio’ che l’adozione e la vita in Italia ha concesso loro. Il viaggio di ritorno è stato vissuto e rappresentato da ciascuno con un oggetto differente; c’è chi lo ha immaginato come un cacciavite che ha sbullonato tante emozioni e cose da rielaborare, chi a una valigia perché questo non è il viaggio, ma è un percorso che non finirà mai perché non si arriverà mai a un punto. Infine, c’è chi ha vissuto questo viaggio come la possibilità di accorciare le distanze tra le radici e i rami, tanto da definire il
viaggio come una pallina da tennis, perché la vita è una continua partita in cui non si sa alla fine dove questa pallina deciderà di fermarsi. Tornare ha concesso loro di annaffiare, con la commozione, quelle radici tornando poi alla vita di tutti i giorni più vivi e consapevoli di prima. Questo lavoro vuole essere un omaggio a tutti quei figli che hanno avuto il piacere di donarmi parte della loro storia per farla un po’ mia. Adesso, in preda all’entusiasmo di questa esperienza, voglio donare a voi, mese dopo mese, un racconto diverso, una storia diversa, un viaggio tra quegli angoli del mondo non poi così lontani. Buon viaggio a voi attraverso queste pagine di vita.
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giorno dopo giorno
Greta Bellando
Un posto al confine 32
Cari lettori, iniziamo assieme a ripercorrere questo lungo cammino, intorno alle sfumature del mondo, assieme alle voci di chi le ha vissute e osservate. Per guidarvi in questo viaggio, voglio partire dal racconto di una ragazza, che riconosceremo come D.V., la quale è stata, sin dal principio, la mia guida per questo percorso. All’inizio dei miei studi potevo solo immaginare, ma grazie alla sua conoscenza e alla nostra amicizia, lei mi ha insegnato a dare forma alle mie immaginazioni. I suoi occhi, scuri e profondi, raccontano della sua terra, la sua pelle color cioccolato fondente ricorda da dove proviene, la sua voce e le sue parole sono la naturalezza della donna che è diventata. Il suo percorso di ritorno alle origini è avvenuto all’età di 16 anni,
nel pieno dell’adolescenza e delle ‘turbolenze’, oggi il suo racconto è quello di una giovane donna adulta, di 29 anni, che è stata in grado di raccogliere i cocci della propria storia, per dare loro una forma e una collocazione. Le sue radici sono nate e hanno preso forma per 22 mesi in India, si sono nutrite attraverso la condivisione di quei pasti seduta per terra con altri bambini; queste sono le sue memorie un po’ come increspate nell’acqua. I ricordi sono difficili da mantenere nel tempo, talvolta sbiadiscono al punto tale che non si riesce a definire i contorni tra quella che è stata la realtà e quella che potrebbe essere frutto della fantasia. D.V racconta: «Più che di ricordi, io ho potuto conservare nel cuore sensazioni positive, in cui non c’è solo abbandono, ma
l’idea di essere stata abbracciata e amata, anche in quella prima parte della mia vita». L’adozione le ha concesso di conservare gelosamente le sue memorie, di plasmare il proprio corpo; ma, per essere davvero completa, lei aveva bisogno di conoscersi e rispondere a domande essenziali per intraprendere il bivio della vita che conduce al divenire ‘grandi’. Durante la fase adolescenziale la vita si aggroviglia, la mente si contorce e assieme si mescolano i pensieri, quelli che hanno bisogno di essere rasserenati. A un certo punto della sua vita c’era, oltre alla curiosità verso quel Paese che per 22 mesi l’aveva cullata, il bisogno di conoscersi e di sapere il perché della sua storia per colmare quel ‘buco’ che racchiudeva in sé un ‘prima’, tanto che confessa: «Volevo tornare laggiù per: rivede-
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re quei luoghi, annusare quei profumi e vedere quei colori che scorrono nelle vene perché fanno parte del mio Essere; tornare mi poteva portare a nuove conoscenze per condurmi al mio posto». Il desiderio di tornare lei lo ha sempre avuto sin da bambina, proprio perché nella sua mente non c’erano ricordi precisi e delineati e, giunta all’adolescenza, c’era la necessità di ‘riconoscersi 34
ma questo è umanamente comprensibile poiché l’idea che il proprio figlio voglia cercare l’altra mamma e l’altro papà può portare a pensare perfino di aver sbagliato qualcosa, di non essere stati così all’altezza delle sue aspettative di vita. A fianco al desiderio di non ferirli, cresceva in me il bisogno di vivere tutto come ‘mio’ perché quel ritorno era ‘mio’, quella terra apparteneva a ‘me’ e tutto
“Il mio posto l’ho trovato sul confine, al limite tra due mondi e due realtà che si mescolano e si mescoleranno per il resto della mia vita” in qualcosa’. Il dialogo è sempre stato presente in famiglia, ma lei, nonostante questo dice: «Una cosa è parlare della propria storia e un conto è chiedere di voler tornare; Come si può fare una richiesta di questo tipo senza ferire? Io e i miei genitori abbiamo parlato, a lungo, ma io conservavo dentro di me un senso di colpa un po’ strisciante perché avevo paura di ferire i miei cari, tanto da mettere in dubbio l’amore coltivato fino a quel momento della nostra vita assieme. Loro si sono mostrati disponibili, certamente hanno vissuto dei momenti di crisi, di paura,
quell’egoismo forse era una protezione nei confronti del mio Essere». Come in tutti i viaggi, si hanno delle aspettative e in questo caso esse erano grandissime tanto da credere di tornare in India e finalmente essere al proprio posto, sentirsi a proprio agio, riconoscersi nelle persone, nella lingua, nelle usanze, in quel cibo. In realtà, una volta giunta in India D.V. racconta: «Nemmeno là mi sentivo a mio agio, tanto da non riuscire a trovare un’identità definita, poiché dopo 14 anni come potevo riconoscermi in una ragazza indiana? Il pensiero di viver lì era distante, o me-
glio irrealizzabile, poiché io non ero più quella bambina, ero cambiata, non ero più solo indiana: e allora, chi ero? Mi sentivo spaesata anche là, ma allo stesso tempo non volevo mostrarmi delusa, non volevo cedere di fronte agli altri e, forse, nemmeno io stessa potevo accettare di non stare bene neppure in quella terra che pensavo potesse riabbracciarmi in un calore familiare». Di fronte a quel senso di smarrimento, non restava che ‘esasperare’ un senso di appartenenza, che non provava, ma che voleva mostrare agli altri quasi come uno scudo protettivo, da una delusione che poteva essere troppo grande da mostrare. La realtà indiana si è rivelata in tutta la sua ‘nudità’ tanto da provocare uno stato di shock di fronte a quelle discrepanze, così difficili da accettare ai propri occhi; tra gli alberghi lussuosi e la gente povera per le strade c’era un divario così forte da lacerare un po’ quella parte di ‘cuore indiano’. Il ritorno al proprio istituto si è rivelato la parte più coinvolgente e familiare: «Là, in quel luogo, io potevo dire ‘Sì, qui ci sono passata!’. Ma allo stesso tempo tra quel senso di familiarità si celava un senso di frustrazione legato
alla mancanza di ricordi». Quel senso di inadeguatezza si è addolcito grazie alle parole delle suore che le hanno detto che i suoi occhi erano uguali a quelli di quella ragazza che, poco più che bambina, le aveva donato quelli stessi occhi, scuri, profondi e grandi tanto da poter trovare un bagliore di vita e di speranza. In India, D.V. ha affermato il suo essere occidentale, e questo ha fatto un po’ male, perché lei si sentiva sbagliata da qualsiasi parte, come se non ci fosse un luogo in cui essere finalmente al sicuro, c’era sempre qualcosa che stonava. Per fortuna il confronto con altre ragazze, che stavano vivendo la medesima esperienza, l’ha aiutata a sopire quella confusione costante tra la mente e il cuore. Il vero lavoro interiore è avvenuto al rientro in Italia, ad una realtà diversa rispetto a quel ‘prima’ che era mutato. Erano cambiate le consapevolezze e c’era il bisogno di risistemare cocci di esistenza sparsi tra due terre, sparsi dentro sé. D.V. sottolinea che: «Questo viaggio è stato la chiave di volta; da quel momento tutto si è acuito ancora di più, la mia vita aveva le sembianze di un groviglio sempre più confuso. Quelli sono stati anni molto inten-
si, ma tutto si è reso fondamentale, perché si è segnato tra le pagine di quel diario di vita, un punto fermo da cui ripartire. Quel viaggio ha ‘spazzato via’ l’illusione di appartenere ad una terra sconosciuta, tanto che a quel punto era necessario un lavoro interiore per trovare, non in qualche parte del mondo, ma in una parte del cuore, il proprio posto». Con lo scorrere del tempo i nodi si sono sciolti e le famigerate domande hanno trovato risposta assieme alla consapevolezza che tutto può essere soggetto a sfumature che, in adolescenza, non si prendono in considerazione. Il senso di appartenenza non deve convenire ad un luogo preciso, tanto che lei afferma: «Il mio posto l’ho trovato sul confine, al limite tra due mondi e due realtà che si mescolano e si mescoleranno per il resto della mia vita». Il suo viaggio è stato una profonda insonnia fatta di pensieri accompagnati alla necessità di metterli su carta in un diario, per poterli oggi rileggere, con pianto annesso e un po’ di tenerezza per quella ragazzina che lo ha scritto. Da quel viaggio lei non ha avuto conferme, ma ha avuto domande, ed è grazie a quel viaggio che il groviglio della sua esistenza ha assunto le
sembianze di un unico filo in un cui risiedono le sue paure e le certezze di figlia divenuta donna, moglie e madre e tra gli occhi di suo figlio potrà riscoprire nuove realtà, nuovi modi di riscoprirsi e di sperimentare gli infiniti sé che risiedono in ognuno di noi. Il pianto di quel figlio che viene alla luce è la dolce melodia di un futuro che urla e vuole sconfiggere ogni fievole amarezza e dona l’immagine di un bambino dai tratti ‘color nocciola’ che potrà insegnare alla sua mamma a leggere nei suoi occhi la pellicola di un film che unisce i tempi dell’esistenza.
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giorno dopo giorno
Marta e Alberto
Rabbia bambina 36
Quando non esce, ti preoccupi. Pensi che possa scavare, come un fiume carsico, delle voragini dentro. Ma quando esplode, ti trova sempre impreparato. Temi che possa distruggere tutto, anche i rapporti più solidi, costruiti con pazienza nel tempo. La rabbia: un argomento evergreen per noi genitori adottivi, che attiva tante discussioni ed emozioni. E fa paura. Io, per fortuna, ho ancora poco a che fare con la rabbia. I miei figli sono piccoli e la rabbia dei bambini ha un colore tutto diverso da quella degli adolescenti. Eppure le esercitazioni dell’infanzia forse ti aiutano a non temerla troppo, per non rimanerne sconvolti. Ho una figlia molto focosa, ammettiamolo pure… permalosa e collerica! Ogni ‘no’, ogni limite la fa arrab-
biare. Si infiamma spesso, in occasioni e contesti diversi, con le compagnette di scuola, con il fratello, con la mamma e il papà. E urla, strepita, batte i piedi. Non sente ragione, mentre si allontana con le piccole mani sulle orecchie, perché non vuole ascoltare nessuna spiegazione razionale. Mi sono chiesta da dove le arrivi tutta questa sua suscettibilità. È questione di carattere? Storia? Discendenza diretta da un indomabile vietcong? Contesto familiare? Segno zodiacale? Vita stressante? Gelosia? Fase di sviluppo (che dura da cinque anni)? Inadeguatezza materna? Sono mille le ipotesi cui mi aggrappo ogni giorno, a seconda dell’umore. C’è un aspetto delicato che mi preoccupa: la sua rabbia attiva, in modo simmetrico, la mia; mi aggancia, smuovendo probabilmente
dei vissuti antichi che mi destabilizzano. Reagisco, di pancia, le sue urla mi scuotono dentro, toccano qualcosa nel profondo che a fatica riesco a dominare. Oggi in libreria mi è capitato in mano un libretto magnificamente illustrato: La furia di Banshee, Gallucci editore. Sarà il titolo esotico, o le magnifiche illustrazioni di David Sala, che mi hanno attratto. Banshee è una piccola fata, con un vestito d’oro cangiante che sembra disegnato da Klimt: lei si arrabbia e la sua rabbia terribile esce dal piccolo corpo e agita la spiaggia, il cielo, arriva fino alle profondità del mare. La protagonista è così furiosa che quando i suoi piedi toccano il suolo, l’erba secca prende fuoco, crepita sotto le sue piccole dita. «Poco fa – scrive l’autore Jean-François Chabas – tutto era tranquillo.
Cos’è successo?». La rabbia scatena all’improvviso la tempesta, turba i pesci, gli uccelli, i marinai. Si trasforma in urlo spaventoso che nessuno riesce a capire e consolare. Nel finale entra per la prima volta in scena la mamma di Banshee, non ha perso il controllo, non è per nulla turbata da tutta quella furia: ha in mano una piccolissima bambola (che assomiglia tantissimo a mia figlia e alla sua inseparabile bambolina) e dice: «L’ho ritrovata! Tieni. Te l’avevo detto che non era andata perduta! Ti era solo caduta sotto il letto…». E la prende per mano, per darle la colazione. Il vento si placa, «le nubi scure liberano il cielo, sfilacciandosi come cotone strappato. Con un gesto la madre di Banshee guarisce le ferite degli scogli». La bambina torna a sor-
ridere. La mamma, senza farsi travolgere dalle emozioni, ha ritrovato il bandolo, la chiave perduta dell’equilibrio di sua figlia. Una buona partenza per affrontare insieme la giornata, e altri temporali improvvisi che sicuramente si scateneranno, inevitabili.
Come vorrei assomigliare a quella mamma-fata, che sa che la rabbia è un’emozione legittima: se la conosci fa meno paura e se mantieni il controllo, puoi aiutare a governarla.
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sociale e legale
L’era del cyberlupo 38
C’era una volta Cappuccetto rosso che aveva modo di riconoscere il lupo dai suoi occhi grandi, dalla sua roca voce e dalla sua grande bocca, ma oggi molto più subdolo, il lupo si nasconde meglio dietro a una tastiera. Come farebbe Cappuccetto rosso nell’era digitale a capire che dietro alla dolce nonnina si cela il terribile lupo cattivo? Chi di noi genitori di giovani adolescenti e a volte anche di bimbi più piccoli, non ha quella strana sensazione che qualcosa sfugga di mano, quando li vediamo risucchiati come da una ventosa attaccati al loro smartphone o incollati allo schermo del pc?
Sempre più di frequente leggiamo titoli sui giornali come questi: Adescava minori online, caporale a processo Chiedeva sesso virtuale in cambio di soldi per videogame «Cyberbullismo, mio figlio ha tentato il suicidio»: una madre denuncia Scatti hard tra adolescenti dilaga il ‘sexting’
Non ci sono parole per commentare certe notizie, solo brividi che corrono lungo la schiena. Evidenziano da sole in modo inequivocabile, come internet possa trasformarsi veramente in una rete in cui rimangono intrappolati i più deboli. Dai dati della Polizia Postale e delle Comunicazioni emerge come l’adescamento on line sia un fenomeno in forte espansione. «Più aumenta la diffusione di Internet e più c’è un coinvolgimento trasversale di tutte le fasce d’età» avvertono al Centro nazionale di Contrasto della pedopornografia on line (C.N.C.P.O.). Chiediamo all’ispettore della Polizia postale dott. Alberto Bonvicini, da anni protagonista nella lotta ai reati digitali, di farci capire com’è il quadro attuale della situazione a cui sono
esposti i nostri figli e ad il web da parte di sediaiutarci a intervenire nel centi intermediari, ovviamente a pagamento, tra modo migliore. il ragazzino adottato e le D.: Dott. Bonvicini è dav- loro famiglie biologiche, si vero così drammatico il tratta di truffe, particoquadro attuale di approc- larmente aggravate dalla cio alla rete per i nostri fi- predisposizione verso queste ricerche che spesso i gli? minori adottati effettuano R.: Innanzitutto io non senza nessuna protezione parlerei di un problema di tramite social network, approccio dei giovani alla qual è la portata reale di rete ma di come la stessa questo fenomeno? in maniera prepotente e talvolta devastante entra Con questa domanda, con nelle teste delle persone di- me sfonda una porta apervenendo sempre più inva- ta, perché da anni cerco di dente e creando una sorta capire quali sono le reali di dipendenza dannosa che motivazioni, che spingonei bambini diventa attra- no un minore adottato che zione, negli adolescenti di- vive in una famiglia che lo venta moda, negli adulti adora e che gli dà tutto, ad diventa ossessione e negli andare sul web alla ricerca di origini che poi si rivelaanziani compagnia. no in qualsiasi caso una Come mamma innanzitut- fonte di rischio. to, e come consigliera di Mi spiego meglio… il miun’associazione di famiglie nore vive felice sino all’aadottive, sento in prima dolescenza poi all’età delpersona l’esigenza di ca- le prime simpatie o amori pire di più e di cercare si comincia a mostrare il lato scoprire come intervenire insicuro, che poi purtropa tutela dei nostri ragazzi po viene confidato al web e che oltre essere giovani non solo. minorenni come gli altri Spesso le azioni poste in esoffrono una esposizione in sere da compagni di scuopiù alle tentazioni della la o di sport o di svago che rete: il richiamo della ri- prendendoli in giro sul cocerca della loro origine. lore della loro pelle o sulle Operatori del sociale che origini territoriali crea in lavorano a stretto contato loro una fretta imprudencon minori ,anche in comu- te e pericolosa che va nel nità protette, segnalano web a trovare urgentemenadescamenti attraverso te qualcuno che ti rispon-
da, che ti dica quello che ti vuoi sentire dire in quel momento,per esempio un facile ritrovamento della famiglia naturale che ti vuole bene ma che non ti poteva mantenere… e allora questi tipi di personaggi che adescano nella rete, creano nell’adottato il ragionevole dubbio che chi ti ha preso in adozione, sia una persona crudele e senza scrupoli che ti ha portato via alla tua famiglia per capriccio e non per affetto, ragion per cui spesso questi ragazzi poi scappano e diventano preda di persone senza scrupoli e in qualche caso poi venendo abusati o derubati, per la delusione si suicidano come nel caso di quel ragazzo di colore a Brescia l’anno scorso, oppure diventano violenti si drogano e fanno uso di alcool come per esempio una coppia di gemelli maschio e femmina in provincia di Savona… la soluzione unica è affrontare la radice del problema dicendo loro tutto ad una età di 7, 8 anni, sulla loro storia e adozione. Grooming, sexting, cyberbullismo un linguaggio che vorremmo non conoscere mai, ma che abbiamo il dovere di capire per difenderci meglio, ci può aiutare? Su questo sarò chiaro, bi-
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sogna assolutamente smettere di dare nomi affascinanti o da film a tutte le cose sbagliate che si trovano in rete tipo appunto grooming sexting. ecc. ecc. perché si continua a creare un alone di mistero e curiosità o emulazione a fatti che in realtà, sono truffe, furti, prostituzione e perversione, in particolare quando si parla di cyberbullismo bisogna dire ai giovani che la diffamazione il falso e la calunnia ma anche la molestia che stanno tutte all’interno appunto del cyberbullismo, sono atteggiamenti da vigliacco codardo che ha il solo scopo di umiliare un ragazzino e di spingerlo sino al buio profondo della depressione e di una possibile tragedia. Quali strategie, strumenti ha in mano l’adulto per accompagnare il minore nella giungla dell’accesso al web? Per quanto riguarda le strategie, l’adulto deve ac-
compagnare il minore allo stesso modo in cui un papà o una mamma, porta le prime volte i bimbi a giocare parco, deve cioè, far vedere che la rete può dare possibilità di conoscenza e divertimento, ma dietro alle stesse, ci possono essere insidie pericolosissime, come quello che succede su una bella altalena che ti mostra i colori le sensazioni del mondo in movimento, ma quando meno te lo aspetti, puoi ritrovarti con il mal di testa o caduto in terra. E se si arriva tardi? Sul fatto che si possa arrivare tardi e che siano ormai successe delle conseguenze spiacevoli il consiglio migliore è quello di stare vicino ai ragazzi. Perché una volta che il problema sia esploso, dopo la fase della paura, inizia quella della delusione e del rimorso ed è lì che possono iniziare i problemi più seri, con atteggiamenti di
autolesionismo e tentativi di suicidio. È per questo che io consiglio sempre ai genitori di ragazzi vittime ,di fermarsi a casa con loro almeno per tre mesi, in modo da capire ogni sintomo delle condizioni psicologiche e atteggiamenti che possano evidenziare uno stato di bisogno o di allarme e cercare di sdrammatizzare, di cambiare zona di frequentazione persone e possibilmente distrarli magari anche solo con fare un giro tutti i giorni con loro in bicicletta in modo di creare all’ora più pericolosa per l’oblio dei ricordi e cioè le ore 18, una sana stanchezza positiva che dia ai ragazzi il desiderio di una doccia, di nutrirsi e addormentarsi sul divano davanti alla tv,evitando solitudine e ricordi…
Loredana Polli
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trentagiorni
Italia, un minore su venti lascia la scuola e lavora Roma. Sono 260 mila i minori tra 7 e 15 anni coinvolti in lavoro minorile nel nostro paese: 1 su 20. Sono alcuni dei dati preliminari di «Lavori Ingiusti», indagine sul lavoro minorile e il circuito della giustizia penale, realizzata da Save the Children, in collaborazione e con il finanziamento del Ministero della giustizia Dipartimento per la giustizia minorile e diffusa ieri, Giornata mondiale contro il lavoro minorile a Roma. Emerge dal rapporto come il 66% dei minori che al momento sta scontando una condanna penale abbia alle spalle mesi o anni di lavoro svolto sotto i 16 anni. Fonte: Il Tempo
I russi adottano di più Scesi a poco più di centomila i minori fuori famiglia Buone notizie nella lotta all’abbandono in Europa dell’Est. Il 2013 ha segnato un’inversione di tendenza in Russia sul fronte delle adozioni nazionali. Per la prima volta dal 2008, infatti, il numero di bambini russi accolti da cittadini loro connazionali ha registrato un incremento. Lo ha rivelato Vladimir Kabanov, vicedirettore del Dipartimento per le politiche sociali nel campo della Tutela dei diritti dell’infanzia. «Anche se l’incremento risulta solo del 3% – ha detto Kabanov in occasione di una tavola rotonda presso la Camera pubblica della Federazione russa –, è pur sempre un
aumento, a differenza delle riduzioni che abbiamo osservato in precedenza. Speriamo che questa tendenza possa continuare». Negli ultimi cinque anni, il numero di minori abbandonati russi adottati da famiglie della stessa Federazione era andato sempre diminuendo. In generale, in Russia, risulta in costante calo la quantità di minori fuori famiglia. «Nel 2013 – ha segnalato ancora Kabanov – il numero di bambini abbandonati è diminuito dell’8% rispetto al 2012 e del 16% rispetto al 2011. Nel complesso, durante lo scorso anno, sono stati più numerosi i bambini accolti in famiglie russe di quelli rimasti senza la cura dei genitori».
Scende quindi il numero di bambini orfani registrati nei database nazionali: una cifra che ora supererebbe di non molto i centomila minori. La piaga dei bambini privi di famiglia resta però di notevole portata all’interno della Federazione. «Nel 2013 sono stati segnalati quasi 69.000 orfani e 38.000 cosiddetti ‘orfani sociali’» ha ricordato Kabanov. Tra questi ultimi, in particolare, «molti sono stati individuati all’interno di famiglie in situazione di grave difficoltà, nei casi in cui gli aiuti di Stato alle organizzazioni familiari e alle comunità non possono più portare al risultato atteso e le autorità tutorie dei minori devono procedere all’allontanamento dei figli
dai genitori». La principale causa di privazione della potestà genitoriale non sta tanto nell’alcolismo, come comunemente si crede, quanto piuttosto nell’evasione delle responsabilità genitoriali. Quest’ultimo è stato il motivo per cui 29.000 cittadini russi sono stati privati della potestà genitoriale, sui 40.000 totali che hanno subito analogo provvedimento. Solo 5000 di loro, invece, si sono visti allontanare i figli dalle autorità a causa dell’alcolismo e della tossicodipendenza. Fonte: aibi.it Adozioni: aumentano gli ‘africani’ Aumentano in Italia i bimbi adottati di origine africana, circa 5% in più in un
anno, un bambino su cinque. Lo rileva il rapporto della Commissione per le adozioni internazionali sul 2013, segnalando che è in costante aumento la percentuale di coppie che ricorrono all’adozione a causa della sterilità: il 93,5% contro l’80,6% del 2009. Lo scorso anno stati adottati 2825 minori stranieri contro i 3106 del 2012, con un calo del 9%; le coppie coinvolte sono state 2291, -7,2% rispetto all’anno precedente. Fonte: ansa.it
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