Adozioni e dintorni - GSD Informa dicembre 2012

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - dicembre 2012 - n. 10

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dicembre 2012 | 010

GSD informa

di Anna Guerrieri

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editoriale

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psicologia e adozione

Aiuto! Abbiamo adottato due fratelli di Carmine Pascarella

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scuola e adozione

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giorno dopo giorno

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Filastrocche e giocattoli per... perdere tempo di Marta e Alberto

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leggendo

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sociale e legale

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trentagiorni

A scuola, ma quando? di Livia Botta Lettera a un bambino già nato / 2 di Antonella Avanzini

Rovesciamenti di prospettiva per creare continuità di Stefania Lorenzini Dentro la CAI. Intervista ad Andrea Speciale di Luigi Bulotta

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Pea Maccioni, Lecce; Paolo Faccini, Milano

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro;

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma, Diana Giallonardo, L’Aquila, Raffaella Ceci, Monza.

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di Anna Guerrieri

Kirghizistan e non solo

editoriale

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Nei giorni passati sono apparsi vari articoli sulle adozioni in Kirghizistan, alcuni sulla stampa nazionale. Si tratta di una storia che riguarda più famiglie. La situazione sociale in Kirghizistan è critica e complessa, si tratta di un paese che sembra combattere con una corruzione diffusa e strangolante. Dal punto di vista adottivo, solo da poco è stato rilasciato un alto funzionario arrestato nei mesi scorsi con l’accusa di aver accettato tangenti nella fase di accreditamento di agenzie straniere per l’adozione internazionale. Questa situazione ha portato, a Luglio, alla revoca e sospensione da parte Kirghisa di accrediti ad Enti Autorizzati Italiani e stranieri, fermando, di fatto, le adozioni internazionali che avevano, per altro, solo da poco ripreso dopo una moratoria che aveva bloccato a lungo in un limbo molti bambini abbinati a famiglie statunitensi. Chi fosse interessato può leggere le notizie sull’agenzia http://eng.24.kg. Come associazione famigliare il nostro pensiero, va a chi ha ricevuto un abbinamento ed ha incontrato un bambino o una bambina immaginandoli come possibili figli. Siamo certi che la Commissione Adozioni Internazionali stia perseguendo tutte le strade per far sì che queste famiglie arrivino alla fine del percorso e questi bambini e bambine diventino figli e figlie per davvero. Questo ci sembra, in un momento così critico e delicato, la priorità più urgente. Contiamo altresì, che in tempi rapidissimi, ogni responsabilità venga chiarita e posizionata dove deve stare (e non basterà certo a riparare quanto accaduto alle persone coinvolte). La redazione di questo Notiziario farà il possibile per seguire attentamente questa vicenda. Le adozioni internazionali sono materia troppo complessa e intricata per pensare che certe situazioni non capiteranno mai più. Sono accadute nel passato, lontano e recente, sono accadute ora, accadranno ancora, ma un sistema fondamentalmente sano deve attivare degli anticorpi che minimizzino questi eventi. Sono


molte le persone che lavorano, o cercano di lavorare, nel modo più serio e trasparente possibile nel campo delle adozioni, saranno questi gli anticorpi che si attiveranno per impedire che confusioni, collusioni, pressapochismi possano trasformare uno strumento per dare una famiglia ad un bambino in uno squallido meccanismo di mercato. Si parla spesso dei numeri in calo delle adozioni internazionali e solo i dati potranno dirci per davvero di quanto e perché (andamento anagrafico della popolazione, maggior consapevolezza delle criticità dell’adottare, costo elevato verso certe direzioni dell’adozione internazionale, stasi di alcune direzioni storiche, cambiamento delle situazioni dei paesi esteri per quel che riguarda l’adozione nazionale e internazionale, ecc). Tuttavia, alla luce di quanto detto sopra, non sembrano oggi i “numeri” i problemi principali nell’adozione. Le difficoltà delle coppie prima e delle famiglie poi hanno peraltro tutte a che fare con la cura nel processo adottivo. Servono cura, attenzione e professionalità nelle fasi che portano a decidere se una specifica coppia può davvero essere una risorsa per dei bambini in stato di abbandono (e una fase di valutazione sembra del tutto ragionevole se l’adozione la si intende per davvero dalla parte dei bambini), servono altrettanto nelle fasi dell’attesa e certamente nel post adozione. E proprio perché da anni è in corso una svalutazione del servizio pubblico ci sembra importante sottolinearne il ruolo fondamentale in ambito adottivo come garante di diffusa professionalità e competenza imparziale. Il servizio pubblico arriva capillarmente per davvero in tutto il paese, viene continuamente formato, agisce e lavora su molteplici aspetti del sociale (cimentandosi con una terribile assenza di risorse, fiducia e investimenti). In qualsiasi incontro in cui mi sia trovata a confronto con i servizi territoriali, ho trovato sempre attenzione, investimento personale, continua ricerca di strategie per sostenere le famiglie ed è spesso l’assenza di risorse economiche che costringe a interrompere attività importanti, non la voglia personale. E’ questo il pubblico che va messo in luce ed aiutato dallo Stato nel fare quello che può fare al meglio: essere rete capillare a sostegno delle famiglie. Perché questa rete serve e non sembra che i privati possano, oggi come oggi, da soli fare quel che il pubblico già fa. Ad ognuno le sue competenze e le sue capacità! Ben integrate possono portare alla realizzazione di servizi di qualità, male integrate solo un danno. Nel complesso processo dell’adozione ognuno deve fare la sua parte e dovrebbe soprattutto pensare a farla bene, impegnandosi, nel proprio ambito, a far si che quanto accaduto con le famiglie che sono andate in Kirghizistan, non accada più. Questo è il fine, e non sembra che sia stato ancora raggiunto.

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psicologia e adozione 6

di Carmine Pascarella Psicologo AUSL REGGIO EMILIA Servizio di Neuropsichiatria Infantile e Adolescenza

Aiuto! Abbiamo adottato due fratelli

Il tema dell’adozione di due fratelli o l’adozione di parti di fratrie, rappresenta oggi un argomento ancora poco studiato e in letteratura non sono molti i contributi che ci possono aiutare per far luce su un tema relativamente nuovo, ma destinato a diven-

tare centrale nei percorsi adottivi. Me ne sono reso conto quando, nel 2009, partecipando a uno stage in Brasile, con la delegazione italiana, sotto l’egida della CAI, ho potuto constatare che le adozioni internazionali realizzate dall’Italia

nello stato di San Paolo rappresentavano l’80% di tutte le adozioni internazionali e che di questo 80%, ben il 65% riguardava l’adozione di più fratelli. D’altra parte mi riesce difficile oggi pensare che l’adozione di un solo minore possa consentire la scotomizzazione della rappresentazione riferita all’esistenza di altri fratelli. Il bambino adottivo non è una monade isolabile dalla sua storia, dalla sua cultura e dalla sua rete parentale, che esiste e che continuerà a occupare significativi spazi nella mente del bambino, nel post-adozione, riacquisendo una nuova luminosità nell’adolescenza o quando più intenso diventerà il bisogno di ripensare alla propria identità. Pertanto, l’adozione di fratelli è declinabile nelle sue diverse versioni: fratelli di


AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a: rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione.

sangue che costituiscono un affratellamento con figli naturali, fratrie divise, adozioni seguite da seconde adozioni, affetti lasciati e affetti incontrati. In questa sede ci occuperemo, in particolare, proprio dell’adozione di fratelli e di fratrie allargate. Nei nostri corsi di formazione, spesso, incontriamo coppie che, forse con un po’ di superficialità, forse prese dall’entusiasmo, esprimono il desiderio di adottare due bambini, senza rifletterci in modo adeguato. Si deve considerare, però, che l’adozione di un solo figlio già provoca un radicale mutamento degli scenari interni della vita di coppia che si trova, da un momento all’altro, ad abbandonare la propria condizione di figli, per riposizionarsi nella condizione di genitori che, d’altra parte, la riavvicina a quella dei pro-

pri genitori, futuri nonni del figlio adottivo. L’adozione simultanea di due fratelli implica un ulteriore livello di complessità che si traduce nell’accogliere la relazione tra due fratelli, un pezzo del loro passato rappresentato dal fratello, promuovendo un tumultuoso travaso dalla coniugalità, presente quando ancora non vi erano figli, ad una genitorialità, pervasiva ora che i due figli, con i loro bisogni, interrogano costantemente i nuovi genitori adottivi. Quali potrebbero allora essere le caratteristiche che contraddistinguono una coppia per la quale sia possibile pronosticare qualità sufficientemente buone per affrontare questa nuova complessità? In prima battuta, vorrei sottolineare come la capacità di costruire legami di attaccamento sicuro con

la generazione precedente possa considerarsi come un buon prerequisito per attrezzarsi ed equipaggiarsi in questo complicato percorso. Per i coniugi, attaccamento sicuro, implica l’essere in grado di riflettere sui propri stati d’animo, sulle proprie emozioni, acquisendo quella conoscenza riflessiva del Sé, o metacognizione, che potrà consentire loro di sentire empaticamente le vicissitudini emozionali, dolorose, di angoscia che ragionevolmente possono essere presenti nella mente dei figli adottivi. Per potersi trovare in questa condizione sarà utile avere fatto spazio dentro la propria mente, riuscendo a precostituire una sorta di silenzio interiore, connesso con i propri bisogni di adulti, per accogliere e risignificare le emozioni fondamentali dei figli

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adottivi. Fra le altre caratteristiche che individuano possibilità prognostiche positive troviamo la capacità di gestire adeguatamente le proprie emozioni, con possibilità di modularle con gradualità, capacità di esprimere la propria affettività, capacità di tollerare le frustrazioni, presenza di capacità plastiche e trasformative, capacità di prefigurarsi i futuri scenari familiari, presenza di adeguate strategie di coping (adattamento alle situazioni stressanti) e, non da ultimo, di una sufficiente quantità di tempo libero e la presenza di una rete parentale supportiva. Ora ci potremmo chiedere: quali sono i vantaggi connessi con l’adozione di due o più fratelli? Facciamo un passo indietro. Quando pensiamo all’adozione di un solo bam-

bino, molto frequentemente non siamo a conoscenza delle vicissitudini emotive che hanno contrassegnato il suo difficile percorso di crescita. Se il bambino ha vissuto nei primi anni della sua vita emozioni fondamentali quali la rabbia e la paura, potrebbe non disporre dei ricordi necessari atti ad ancorare queste emozioni, riempiendole di significato. Quando il bambino sarà più grande, di fronte ad una frustrazione o a una situazione di paura potrà avere reazioni emotive sproporzionate in quanto gli eventi attuali fungono da riattivatore emotivo di pregresse esperienze non significate. Da questo punto di vista la presenza di un fratello, che condivide con il bambino la sua storia, può certamente facilitare una risignificazione

del passato. Entrambi i fratelli avranno meno difficoltà nel percorso di rielaborazione di confronto con la propria storia personale. Ogni fratello è stato adottato insieme a un importante pezzo della sua storia. Molti psicologi ritengono che l’adozione congiunta di fratelli sia quindi da preferire rispetto ad una loro separazione. Qualcuno, inoltre, ritiene che, se i fratelli hanno vissuto in diversi istituti, potranno recuperare quel legame fraterno attraverso l’affetto che contraddistinguerà il futuro crescere nella famiglia adottiva. Certamente il legame tra fratelli, comunque implicherà una specifica attenzione dei genitori adottivi, ma potrà caratterizzarsi anche come elemento di facilitazione nel percorso di crescita.


Molti studi hanno evidenziato che i fratelli sono capaci di costruire relazioni di attaccamento multiple che non dovrebbero essere pertanto recise. Queste relazioni tra pari sono in un rapporto gerarchico con la relazione di attaccamento con la figura di riferimento primaria e, pertanto, di fronte ad un’esperienza stressante si fa ricorso alla madre, gerarchicamente più importante dei pari nella relazione di attaccamento. Va però considerato come la peculiarità delle relazioni di attaccamento multiple possa contrassegnare la difficoltà genitoriale nel farsi carico della crescita dei figli. Quando la relazione tra fratelli è di tipo esclusivo, oppure quando uno di questi si pone come caregiver nei confronti dell’altro, ci

troviamo di fronte a un ritiro dell’investimento genitoriale dalle responsabilità di cura parentale. Quando possiamo proporre allora la simultanea collocazione di due fratelli in adozione? È necessario riflettere sui livelli di attaccamento che legano i fratelli. Da Howes vengono proposti tre criteri: il primo l’erogazione di cure fisiche ed emotive da parte del fratello più grande, il secondo continuità e costanza del legame fraterno e il terzo coinvolgimento emotivo con il bambino. D’altra parte, il valore della relazione tra fratelli, anche quando ci troviamo di fronte a fratelli lasciati, è testimoniato dal fatto che, col tempo, i figli adottivi, spinti dal bisogno di realizzare una sorta di “inventario del Sé” che definisca

la loro identità, si mettono più alla ricerca di questi ultimi, che non dei loro genitori naturali, facilitati in questo anche dal cambiamento della fenomenologia dell’adozione, conseguente all’uso di social network e di Facebook. Sono ormai numerosi i contatti attraverso video chiamate tra fratelli lasciati e fratelli ritrovati nelle diverse parti del mondo. Ma allora in quali circostanze è preferibile la separazione di fratelli in occasione di una loro adozione? A volte gli operatori sono spinti, temendo il lungo trascorrere del tempo negli istituti, a prediligere l’adozione di un solo minore in considerazione della maggiore difficoltà a reperire famiglie disponibili ad adottare due bambini. Anche il timore di forti coali-

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zioni, ovvero di esacerbate conflittualità, sono immaginate come difficoltà aggiuntive che potrebbero rendere estremamente difficili i compiti riparativi della famiglia adottiva. In altre circostanze una delle ragioni della proposta di separare fratelli destinati all’adozione è riferita all’eventuale forte differenza di età tra i due fratelli quando, di norma, il più grande può essere stato esposto a una serie di maltrattamenti e abusi, le cui conseguenze, sul piano emotivo e comportamentale potrebbero essere ritenute troppo pesanti per essere gestite da una sola coppia di genitori. Anche nel caso in cui risulta che uno dei fratelli sia stato maltrattante o abusante nei confronti di quello più piccolo, la decisione della separazione ap-

pare opportuna, allo stesso modo in cui è opportuno separare un figlio da genitori abusanti e/o maltrattanti. Come si può notare è la qualità della relazione e non il legame di sangue che promuove vincoli relazionali meritevoli di essere tutelati. Per quanto attiene le motivazioni della coppia che decide di adottare due figli alcune di queste sono di ordine pratico: si sceglie di adottare due minori per evitare una maggiore spesa connessa con l’effettuare due diverse procedure nel paese straniero, riducendo i tempi e preservandosi dal timore di fare i conti con una nuova situazione di disequilibrio che una nuova seconda adozione potrà comportare. Dal punto di vista psicologico l’adozione di due fratelli si può considerare come una

“Grande Adozione”, fondata su un grande desiderio di completare e riempire gli spazi vuoti, che separano la coppia dalla rappresentazione di una famiglia completa. Inoltre, quando le fratrie sono molto numerose, non è possibile collocarle nella stessa famiglia, può accadere che vengano scelte due famiglie che hanno manifestato l’impegno di mantenere vivi i rapporti fra i figli adottati pur risiedendo in città diverse. Senza entrare nello specifico delle possibili storie sottese a queste realtà complesse, possiamo ritenere che, non è raro che i bambini cambino posizioni all’interno delle nuove fratrie acquisite, magari intensificando legami con i fratelli di latte, se sono presenti figli naturali nella famiglia adottiva, con-


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temporaneamente ridefinendo i legami di sangue con fratelli collocati in adozione presso un’altra famiglia. Ma quanti sforzi stiamo chiedendo ai bambini adottati? Se ci si identifica con il loro punto di vista appare ben giustificabile lo sforzo, da parte delle famiglie adottive, di mantenere vivo il legame tra fratelli collocati in famiglie diverse nel nostro Paese. Credo

si faccia un buon servizio a questi bambini che, peraltro, portano dentro di sé i propri fratelli lasciati, i quali manterranno uno spazio significativo nella loro mente e non di rado saranno ricercati, contattati, ritornando magari a essere fratelli a distanza dei nostri bambini adottati. In conclusione, accogliere i figli adottivi insieme al loro universo relazionale,

la loro storia, ai loro legami riconoscendoli anche come legami propri, nella prospettiva di immaginarsi come componenti di una famiglia più allargata, facilita movimenti di inclusione funzionali a tenere insieme i pezzi dell’identità del bambino riannodando i fili, spesso spezzati, che costituiscono la ricca trama di una biografia che si è intrecciata con quella dei genitori.


psicologia scuola e adozione 12

di Livia Botta Psicoterapeuta e Formatrice Responsabile del Progetto “Adozione e scuola” dell’ANSAS Liguria www.liviabotta.it - www.adozionescuola.it

A scuola, ma quando? Ora che sempre più spesso le adozioni riguardano bambini in età scolare (l’età media all’arrivo è in costante e lenta crescita: 6,1 anni nelle più recenti rilevazioni, con un 60% circa di bambini di età superiore ai 5 anni), il problema dell’inserimento a scuola è tra i primi a porsi. Nel contempo la scuola, in quanto prima organizzazione esterna alla famiglia con cui il bambino adottato entra in contatto, assume un ruolo sempre più importante e specifico per la sua accoglienza nel mondo sociale e per la buona riuscita stessa dell’adozione. Alcune questioni si pongono come cruciali ancor prima dell’arrivo del bambino. Dal punto di vista dei genitori: in quale scuola iscriverlo? In quale classe? Quanto tempo dopo l’arrivo? Dal punto di vista del-

la scuola: come accoglierlo? Come garantirgli un inserimento sereno? Come sostenere il successivo andamento scolastico? Proveremo ad esaminare le diverse questioni una per una, cominciando da un interrogativo su cui non c’è unanime accordo: dopo quanto tempo dall’arrivo iniziare la frequenza scolastica? La maggior parte di coloro che si occupano di adozione concordano nel ritenere non opportuno un inserimento immediato e suggeriscono di attendere almeno 3-4 mesi, anche se l’arrivo coincide con l’inizio o avviene durante l’anno scolastico. Quest’attesa è finalizzata a evitare ai bambini un eccesso di stimoli e un tour de force cognitivo, e a dar loro il tempo necessario per “mettere radici” nel-


la nuova famiglia, nonché per adattarsi ai tempi e ai ritmi della nuova vita e del nuovo ambiente. E’ un’opinione su cui molti genitori concordano, soprattutto i genitori di bambini piccoli, per i quali le opportunità di socializzazione offerte dalla scuola dell’infanzia non assumono solitamente carattere di urgenza. Questo punto di vista privilegia l’attenzione al “fare famiglia”, nella consapevolezza che passare molto tempo insieme nella fase iniziale dell’adozione, anche se può essere faticoso, aiuti a “creare legame”, a costruire quel linguaggio emozionale condiviso che connota ogni relazione intima. L’attaccamento che ha cominciato a nascere durante la permanenza dei genitori nel paese d’origine del bambino ha bisogno di consolidarsi nelle

routines familiari: ai genitori serve tempo per imparare a conoscere il figlio, al bambino serve tempo per imparare a riconoscere nei nuovi genitori delle figure di attaccamento stabili, accoglienti, capaci di soddisfare i suoi bisogni di protezione, accudimento, affetto. Non si trascura, inoltre, il fatto che un bambino che proviene da un paese molto diverso dal nostro deve orientarsi, nei primi tempi, in un nuovo ambiente fatto di colori, odori, suoni e paesaggi finora sconosciuti: cambiamento che comporta una buona dose di stress, a cui è opportuno non sommare quello dell’immissione precoce nell’ambiente scolastico con le sue richieste di ordine comportamentale e cognitivo, oltre che con una lingua tutta nuova. Non tutti coloro che si oc-

cupano di adozione, tuttavia, condividono la tesi dell’inserimento tardivo. Alcuni enti consigliano ai genitori un inserimento scolastico quasi immediato se il bambino arriva in età scolare. Le scuole stesse tendono sovente a dare per scontato un inserimento rapido, affinché il bambino possa giovarsi al più presto di tutte le opportunità di socializzazione e apprendimento offerte dall’ambiente scolastico. Questo secondo punto di vista privilegia l’ottica della “normalizzazione precoce” della nuova famiglia. Ipotizza inoltre che per un bambino che ha trascorso molta della sua breve vita in una collettività la convivenza con due adulti quasi sconosciuti, che parlano un’altra lingua, in assenza di contatti con coetanei, possa rappresentare un

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carico emotivo troppo pesante, che può rendere più faticosa, anziché facilitare, la costruzione del legame di affiliazione. L’immersione precoce nel gruppo dei pari, realtà senz’altro a lui più familiare, potrebbe rendergli meno ansiogeno l’ingresso nel nuovo contesto familiare e sociale. In quest’ottica, il “fare famiglia” è inteso come un processo che può aver bisogno, per tutti i soggetti, di snodarsi su tempi lunghi e di disporre di momenti di “alleggerimento” del legame. Né va passato sotto silenzio il fatto che molte mamme trovano estremamente faticosi i primi mesi a tu per tu con il bambino, al punto da attendere come una salvezza il momento dell’ingresso a scuola; e che i bambini stessi, se sono già abbastanza grandi e hanno alle spalle esperienze scolastiche positive nel paese d’origine, talvolta “scalpitano” per andare a scuola al più presto, per

incontrare altri bambini... e forse come via di scampo dalla nuova famiglia! Senz’altro ogni bambino è una singola individualità, ogni situazione è diversa e non è corretto suggerire soluzioni valide per tutti i casi. Vanno prese in considerazione l’età del bambino (più è piccolo, più è consigliabile una prolungata permanenza a casa), la precedente esperienza scolastica - se c’è stata - e il vissuto di tale esperienza, il momento dell’arrivo in Italia (la fine primavera-inizio estate è il periodo più favorevole, perché si hanno davanti i tempi distesi delle vacanze), la presenza di altre figure familiari che possano affiancare la madre nei primi mesi. Ritengo tuttavia che in generale sia preferibile “tener duro” e tenere i bambini a casa per un periodo di tempo abbastanza lungo, in cui fare cose insieme e vita normale, instaurare delle routines, nella con-

sapevolezza che non è un male annoiarsi un po’ pur di evitare un bombardamento di stimoli; e mandare poi i figli a scuola quando saranno un po’ meno disorientati, avranno già una conoscenza rudimentale della lingua, e - come si è espressa una mamma - “cominceranno ad avere un po’ di famiglia dentro, come i loro compagni”. Si tratta, caso mai, di pensare a come gestire questa fase, evitando di lasciare le mamme da sole in un “tu per tu” prolungato e faticoso con il bambino, ma cercando di coinvolgere il più possibile anche i padri, e di appoggiarsi ad altre figure familiari (nonni, zii) che possono cominciare a ritagliarsi un proprio ruolo definito e riconoscibile nella relazione con i nuovi nipoti. Il fondamentale contatto con i coetanei è meglio avvenga in una dimensione di gioco piuttosto che di confronto cognitivo. Ben vengano cugini e figli di


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amici, ben venga un ruolo attivo delle associazioni dei genitori, che potrebbero organizzare occasioni d’incontro e spazi di gioco per supportare in modo ludico e discreto questa fase così delicata. Anche la scuola dovrebbe tener presenti queste problematiche, evitando di dare per scontati o di suggerire inserimenti precoci in nome delle opportunità offerte dalla socializzazione con i pari e dall’apprendimento scolastico: occasioni positive di crescita che rappresentano però solo un aspetto, e non il più importante, del buon esito di un’adozione. Anche la scuola dovrebbe

comprendere che eventuali accelerazioni potrebbero rivelarsi negative e che inserimenti scolastici realizzati in maniera apparentemente semplice e in tempi brevissimi potrebbero nascondere adattamenti forzati e il rischio che il bambino si porti dietro una fragilità nell’intimità e nella sicurezza che potrebbero emergere problematicamente più tardi, riflettendosi anche sul successo scolastico. Compito della scuola dovrebbe essere quello di muoversi il più possibile in sintonia con i genitori: incontrarli preventivamente, cercare di conoscere il bambino attraverso di

loro, senza fretta, per poi concordare insieme i tempi e le modalità di inserimento più opportune. Dal punto di vista normativo, non va dimenticato che con l’adozione un bambino diventa giuridicamente italiano e in quanto tale sottoposto da subito all’obbligo scolastico: se per molti dirigenti scolastici è sufficiente un accordo preventivo con la famiglia per giustificare un inserimento tardivo, in altri casi è possibile che la scuola richieda un’attestazione da parte dell’Equipe Adozioni Territoriale o un parere specialistico che motivi tale scelta.


giorno dopo giorno

di Antonella Avanzini

Lettera a un bambino già nato 16

Continua il racconto iniziato nel numero precedente. Riprendiamo con le ultime righe ….

firmare tre volte i tre fogli. Ci salutano sorridenti e soddisfatte. Anche loro stanche e nervose, ma soddisfatte. Il loro lavoro è Arriviamo in albergo, l’in- arrivato finalmente ad un terprete e la referente ci primo traguardo. consegnano dei fogli da compilare e firmare. Ci Ma la giornata non è ancochiedono lì, in piedi, nella ra finita. Giusto il tempo hall dell’albergo a tre stelle di salire in camera: abbianel via vai della gente che mo appuntamento dopo arriva per l’ora di cena, se mezz’ora nella hall con siamo disposti a firmare i l’interprete. Come ci handocumenti che confermano no chiesto in istituto, dobche accettiamo di adottare biamo portare a stampare i bambini. E’ lì che diciamo le fotografie. E noi vogliaquel sì che vale una vita. mo comprare ancora qualDire si ora, e confermare di che regalo, da portare ai andare a Mosca dal notaio bambini il giorno seguenper la registrazione ufficia- te. L’interprete ci accomle della domanda allo Sta- pagna in un supermarket. to Russo. Siamo stremati, Tutto di corsa, è tardi, è confusi, ma diciamo di si. freddo, siamo stanchi, non Litigo con l’interprete: mi c’è tempo. Negozi di giodice che dobbiamo per tre cattoli o cartolerie non ne volte portare il foglio in troviamo. Io voglio prendeistituto; mi agito chieden- re qualcosa di speciale, ma do perché tre volte andare l’interprete pensa più alla in istituto? Dopo qualche quantità che alla qualità: spiegazione concitata si tante caramelle per tutti i capisce che in realtà inten- bambini dell’istituto. Vordeva tre copie del foglio, rei portare anche qualcosa

al cioccolato: vedo i Ferrero Rocher, cioccolatini di wafer, tondi, con nocciola dentro e granella sopra, produzione italiana. L’interprete mi blocca dicendo che sono carissimi; ordina al mio posto un altro abbondante sacchettone di caramelle. Mi chiedo se immagina che quei Ferrero Rocher, nella scatola trasparente con la loro bella carta dorata, sarebbero finiti nella borsa di qualcuno e non nella bocca dei bambini. Portiamo a far sviluppare le foto, che andremo a ritirare l’indomani mattina. Io voglio regalare ai bambini una cornice simpatica, con inserita una fotografia di noi e dei bambini insieme, una per ognuno, da tenere per ricordo nei mesi a venire, dopo che saremo ripartiti per l’Italia. Il negozio ha delle belle cornicette per bambini, rivestite di stoffa-peluche colorata, con un animaletto in un angolo; ce ne sono due simili di colore diverso, una rosa e una


azzurra: siamo fortunati! Facciamo stampare anche una ventina di foto, quelle venute meglio: noi coi bambini, solo i bambini, noi quattro tutti insieme. Stiamo proprio bene! Le porteremo il giorno dopo all’istituto, quando vedremo per la seconda volta i nostri bambini. E’ ormai sera tardi e siamo in albergo a Voronezh. Questo rientro è difficile, e la notte che verrà anche. Vorrei parlare con qualcuno dell’ente in Italia, ma ormai è tardi e non c’è nessuno. Ho un numero di cellulare per le emergenze, ma, in effetti, emergenze non ce ne sono. Certo parlare con qualcuno adesso ci servirebbe. Siamo qui proprio soli. Una solitudine enorme. Perché sei tu e il tuo destino. Fuori dell’albergo il freddo. Dentro la stanza un caldo pazzesco, ma si trema di paura. Adesso ci siamo. I bambini li abbiamo visti. I bambini ci sono. Come

siamo deboli. Come ci spaventano questi bambini. Ma come li vorremmo già avere nella nostra stanza, lì vicino. Ma restano i dubbi, restano le paure che il vedere i bambini ci ha lasciato. Dubbi e paure che decidiamo di accantonare per la notte, di rimandare a quando riusciremo a parlare con qualcuno dell’ente. Il prima Non siamo qui in Russia insieme ad altre coppie che stanno adottando. Come può capitare. E a dire il vero, non abbiamo nemmeno avuto, prima, frequentazioni con altri aspiranti genitori che volevano adottare in Russia. L’ente, o associazione, o onlus che si voglia dire, al quale abbiamo dato l’incarico di seguire la nostra procedura, ha sede in una regione molto lontana da noi. Un incarico siglato da un vero e proprio contratto, con clausole

e penali. C’era un loro ufficio nella nostra regione, ma l’avevano poi chiuso per incomprensioni con la responsabile. Perciò, i nostri rapporti con l’associazione e quindi anche con tutte le coppie che vi fanno riferimento, sono stati minimi. Il primo contatto è stato il viaggio fatto da sola, in aereo, per assistere all’incontro informativo. A differenza degli incontri avuti con gli altri enti, questa volta, mio marito non venne. Per due ragioni: la prima perché l’ente permetteva che fosse presente uno solo dei due aspiranti genitori (tutti gli altri ci avevano voluto “pesare” entrambi, anche solo per il primo contatto); il secondo motivo era prettamente economico: avevamo perso già diverse giornate di lavoro e aggiungere ancora il costo di un viaggio aereo prenotato con urgenza era un po’ troppo. Ma, sinceramente, mio marito accanto avrei preferito averlo: ave-

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vamo fatto tutto in due, mi sembrava giusto continuare. Comunque, quella mini conferenza del cosiddetto “incontro informativo”, servì a convincermi quanto bastava che mi sarei potuta fidare proprio di loro. Mi convinse perché, a differenza delle altre associazioni, chi parlò in quelle due ore – una delle due psicologhe che lavorano presso l’ente – raccontò soprattutto dei bambini, delle loro caratteristiche: i bambini che sono negli istituti, che vivono nei paesi dove l’associazione fa il lavoro di intermediario per le adozioni. In quel primo pomeriggio di luglio, in un bel palazzo storico del centro, con l’ascensore che per usarlo ci devi mettere la monetina o avere la chiave, scesi all’ultimo piano dove c’erano gli uffici, con la speranza che quella bella scala antica mi portasse dove si aprivano le porte del mio personale paradiso. Sapevo

però, per esperienza, cosa dovevo aspettarmi: uffici un po’ arrangiati, dove un bel po’ di fotografie di bambini erano appese alle pareti, a testimoniare che l’associazione lavorava sul serio, e i bambini esistevano e davvero li avevano fatti arrivare in Italia. Faccine di bimbi di tutti i tipi, di tutte le età, esposte con poca discrezione a beneficio del futuro “cliente”. Come i tabaccai che espongono in vetrina i biglietti vincenti del “Gratta e vinci”: giocate che la ruota della fortuna girerà anche per voi. La psicologa parlava ad un piccolo pubblico di una trentina di presenti, in un attico vetrato, praticamente una serra, dove il caldo soffocante di luglio annebbiava il cervello e faceva sudare il resto del corpo. Ma alla fine io rimasi soddisfatta e contenta, perché invece di sfoderare i numeri dei costi e delle quantità di bambini portati in Italia -

come era stato abituale negli incontri informativi con le altre associazioni – ci avevano raccontato come erano realmente i bambini, cosa dovevamo aspettarci dai nostri futuri figli. Alla fine della piccola conferenza, portai via la documentazione da firmare per il contratto d’incarico. Ripresi l’aereo di ritorno e durante il viaggio, sorvolando mezza Italia, pensai che stavo facendo la scelta giusta. Rimandato via posta il contratto firmato, seguirono, dopo alcuni mesi, gli incontri collettivi con la psicologa dell’ente. Andammo coscienziosamente a queste riunioni, dove facevamo parte di un gruppo di otto coppie che intendevano adottare in Russia. Si svolgevano a cadenza mensile ed erano obbligatorie. Ascoltavamo le preziose informazioni che la psicologa dell’ente ci dava. Il programma originario degli incontri ne prevedeva sei, ma furono ridotti a


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tre pomeriggi. Erano tenuti presso la sede di un’altra associazione in provincia di Milano, che offriva lo spazio. La psicologa arrivava in aereo il mattino, teneva il corso di tre ore e ripartiva lo stesso giorno: giustamente era meglio concentrare. Le altre sette coppie partecipanti arrivavano da tutto il Nord Italia; ci si vide in totale solo tre volte: difficile riuscire ad avere un minimo di confidenza, preludio a un’amicizia. Non ho saputo più nulla di nessuna di loro. In questi incontri la psicologa, giovane ma molto brava e intelligente, ci spiegava dei bambini russi. Voleva anche sapere

quale era il bambino che, nel nostro immaginario, avremmo voluto come nostro figlio. Ci raccontava di quali erano le difficoltà burocratiche che potevamo incontrare durante tutta la procedura. Fu sincera. Non nascose i rischi e le difficoltà. Dopo gli incontri, arrivò il momento di preparare il primo gruppo di documenti da inviare allo stato russo. Dove era necessario indicare anche le nostre disponibilità in merito all’età e allo stato di salute dei bambini che avevamo intenzione di adottare. Le nostre disponibilità erano per certi versi piuttosto larghe. D’altronde, l’assistente sociale e la psicologa della nostra Asl-Azienda sanitaria locale, che ci valutarono per il Tribunale dei Minori, ci dissero che come coppia avevamo le spalle larghe. Un anno di matrimonio, vent’anni di convivenza e altri quattro di fidanzamento - e malgrado tutto eravamo ancora lì - erano per loro una bella base su cui costruire. Ci fu all’epoca una discussione con quella psicologa, perché quando dovette scrivere nella sua relazione l’età dei bambini che potevamo adottare, io insistevo per la fascia tra zero e sette anni, invece che tra zero e sei anni come lei voleva. Mi spiegò che arrivare in Italia a sette anni passati, significava avere grosse difficoltà di inserimento scolastico e sociale. Alla


fine mi arresi e fu scritto “età dei minori tra 0 e 6 anni”. Non era nemmeno molto d’accordo sulla nostra idea di formare una famiglia con tre figli: spalle larghe si, ma senza esagerare. Dovevamo pensare bene a cosa significava gestire tre bambini arrivati tutti in una volta, alle difficoltà che questa scelta comportava. Il giudice del Tribunale poi, nel nostro decreto d’idoneità all’adozione, decise di non specificare una fascia di età. Quindi potevamo adottare bambini in qualunque numero e in qualunque età. Nei documenti inviati all’ente, noi però si mise nero su bianco che avremmo voluto sì adottare tre fratellini, ma non oltre i sei anni. Così come risultava dalla relazione che la psicologa e l’assistente sociale dell’Asl avevano scritto. Questa disponibilità ci fece superare tutta la fila delle coppie in attesa presso l’ente: “Ueilà! Ci sono due che se ne prendono tre! Sfogliare l’elenco dei terzetti disponibili e telefonare subito!”. Solitamente l’abbinamento tra gli aspiranti genitori e il bambino viene fatto dai funzionari dello stato russo, in Russia. Ma per particolari situazioni, come per esempio più fratelli, sono le persone dell’ente italiano che possono proporre alle coppie in attesa di abbinamento, i bambini che sono registrati in queste liste speciali. Di telefonate

perciò ne abbiamo subito ricevuta una, poi un’altra, poi un’altra ancora. Nella prima telefonata la psicologa disse che c’erano per noi tre fratelli, di cui il più grande, un maschio, aveva nove anni. Oddiooo! Aspetti che qualcuno ti faccia questa telefonata per mesi e poi, quando arriva, non salti di gioia ma resti interdetta. Nove anni, maschio. Non me la sento. Io sono alta un metro e cinquantadue. Nove anni, maschio. Non me la sento. Nei mesi precedenti avevamo fatto visita, su suggerimento di un altro ente, a quattro famiglie con ognuna tre figli adottivi. Una famiglia con bimbi etiopi, una con bimbi brasiliani, una con bimbi colombiani, una con bimbi russi. Dodici bambini, di età variabile tra dieci e tre anni. E’ vero che la psicologa dell’ente ci aveva raccontato che i bimbi russi che vivono in istituto sono molto minuti; ma se così non fosse stato, il mio bambino adorato avrebbe potuto essere alto e pesante come me, come qualcuno dei bimbi incontrati che avevano otto, nove, dieci anni. Non me la sentivo di avere nel mio nido un piccolo di cuculo. E’ vero che bisogna passare dall’immagine ideale che si ha del futuro figlio alla realtà, ma questa realtà per me era troppa. Ma dire no è difficile. Molto difficile. Mi attacco alla

burocrazia: sui documenti c’è scritto età compresa tra zero e sei anni; non l’ho scritto io, chi ne sa più di me ha scritto così, e così deve essere. Ma si piange. Dire no a questi bambini è un dolore forte come un aborto. Qualcuno ha messo quei figli lì per te, e tu non li vuoi. Hai un senso di colpa che ti fa piangere disperatamente. Mio marito mi dice che non devo, che non devo farmi gli occhi rossi così: si parla del nostro futuro, è giusto che valutiamo consapevolmente. La seconda telefonata, dopo una settimana, è per tre bambini, il più grande maschio, otto anni, il più piccolo due, la sorellina nel mezzo. Si potrà però partire per il primo incontro solo fra cinque mesi, per non meglio specificati motivi burocratici. Oddiiiooooo! Un altro no! La telefonata arriva mentre sono in strada, sto rientrando a casa e sono nella via più centrale di Milano; sotto i portici pieni di negozi, passano duecento persone ogni trenta secondi. Cerco di appartarmi almeno un po’ dal caos, spostandomi di dieci passi in una via laterale. Penso: come può farmi questo? Come può quella giovane psicologa così gentile e garbata, in cui riponevo fiducia, tirarmi un altro colpo come questo? Vuole capire se il nostro no agli altri fratelli, l’abbiamo detto perché

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non c’erano bambini piccoli? Uno di questi fratellini ha due anni. Se vuoi un bimbo abbastanza piccolo devi prenderne anche uno grande? Pensa che per noi funzioni così? In strada sento male dal telefonino, non riesco a parlare. La psicologa, dice di pensarci con calma. Ci possiamo risentire, non devo darle subito una risposta. Un’onda di disperazione mi sale da dentro, fino alla gola, fino agli occhi. Vorrei piangere forte, buttarmi per terra e urlare, picchiando i pugni. Ma non posso. Ho mille persone attorno. Devo resistere, mi manca poco per arrivare a casa. Devo solo attraversare la piazza del Duomo, poi ancora trecento metri e sono a casa, al sicuro. Passo davanti al Duomo. Dentro c’è una famosa statua scolpita nel marmo di un santo martire, morto perché spellato vivo. Famosa per come lo scultore ha reso nei particolari un corpo vivo, a cui per metà si è già strappata e rivoltata la pelle. Ecco. Anche io mi sento così. Mentre cammino in mezzo alla folla della piazza. Spellata viva. Ogni centimetro del mio corpo brucia di dolore e di rabbia, mentre penso a quei bambini che potrebbero essere, ma non lo diventeranno, i miei figli. Arrivo a casa e posso sfogare i miei sentimenti. Posso soffrire, piangendo e

stringendo i denti, come se stessi partorendo nella difficoltà di un travaglio doloroso, difficile e ancora senza fine. Non me la sento di accettare. Mio marito mi dice ancora che non devo farmi gli occhi rossi così; si parla del nostro futuro, è giusto che valutiamo consapevolmente: decide lui anche per me. Mi dice che un bambino grande maschio non lo vuole. Non saprò mai se era proprio vero o se lo disse per sollevarmi da quel peso che non riuscivo a reggere. La terza telefonata, dopo un’altra settimana, è per due fratellini; la più grande, una bambina, ha sette anni appena compiuti. Del fratello più piccolo non sanno o non mi dicono niente. Hanno urgenza. Se accettiamo, si parte a brevissimo termine. Oddiiiioooooooooo! Io vado in crisi ancora una volta. Tre “no” sono veramente troppi per me. Ma cambiare una visione che si aveva da mesi, anni, e riadattarla a qualcosa di nuovo e improvviso è difficile. La mia famiglia doveva essere fatta da cinque persone, non da quattro. Io volevo tre figli, non due. Tempo per andare a prenderne un terzo non ne ho. Non siamo più così giovani. Mio marito, solitamente assai meno decisionista di me, questa volta (e questa volta basterà per tutto il passato e tutto il futuro) decide ancora lui. Con que-

ste parole: per me va bene. Richiamiamo la psicologa, che si accorge però dei miei dubbi: ci chiede di andare per un incontro. Prendiamo il treno dopo due giorni. Parliamo con lei mezz’ora. Ci dice: se non ve la sentite, non forziamo. Se non ci sentiamo disponibili per quei bambini possiamo dire ancora no. Ma io mi chiedo quale può essere la scelta: come è possibile scegliere ancora? Come è possibile dire un si o dire un no: attaccarsi ancora al documento burocratico, dove era scritto che per noi era giusto adottare minori di età tra zero e sei anni, non può avere più senso. Sette anni rispetto a sei non fanno una differenza. Due bambini invece di tre non fanno una differenza. Dire si a questi bambini e pentirsi di questo si, dire no a questi bambini, per averne altri e pentirsi ugualmente di questo no. Non è possibile fare una scelta. Su quali criteri? Non sai niente di questi bambini. Non sai niente perché nessuno lo sa; nessuno sa quali figli, quali persone diventeranno questi bambini. Forse sono i figli sbagliati per te quando hanno cinque anni, ma forse sono i figli giusti per te quando ne avranno venti. O al contrario sono i figli perfetti a tre anni, ma i peggio figli quando ne avranno dieci o quindici. Ma giusti o sbagliati, come i figli arrivati dalla pancia, dovranno essere per


sempre i tuoi figli. Ed io la responsabilità di questa scelta non la voglio. Non voglio essere io a decidere questo destino, a doverlo rinfacciare a me stessa un domani. E’ giusto che siano altri a decidere per me. Qualunque sia la mano che ha messo i nostri nomi a fianco di questi bambini, è lei che maledirò o ringrazierò tutta la vita. Senza rinfacciare niente ai figli che verranno, o a me stessa. In Russia, le coppie russe possono andare negli istituti, vedere un numero ragionevole di bambini e decidere se vogliono l’uno o l’altro. Ma quale peso viene messo sulle spalle di quei bambini? Quale macigno porteranno per tutta la loro vita? Un obbligo di riconoscenza a cui non potranno mai sfuggire. A cui si ribelleranno con forza e rabbia o a cui si sottometteranno. E il genitore sarà capace di non pronunciare, non pensare mai, in tutta

la sua vita, nemmeno una volta: io sono venuto a portarti via da dov’eri, te e non un altro. Ti ho dato il mio nome, è questo il ringraziamento? Difficile rispondere. La psicologa ci spiegò bene, che una volta in Russia non si tornava indietro. Il no si diceva qui in Italia, non là. Come nessun’altra volta nella mia vita, ho lasciato che altri decidessero al mio posto. Ma se avessi detto sì, confermai che sarebbe stato un si definitivo. Accettai l’abbinamento, firmammo i documenti che servivano e restammo lì ancora un giorno, per tirare il fiato. Il panorama era magnifico, il mare era bello, azzurro. Belle giornate anche se ai primi di ottobre. Finalmente eravamo felici: avevamo un abbinamento! Avevamo, anche se solo promessi, dei figli. Si potrebbe dire che ci sentivamo come un fidanzato

innamorato. Che non era ancora arrivato a sposare e ad avere la sua amata accanto ogni giorno, ma era riuscito almeno ad essere “fidanzato in casa”. Pochi giorni dopo prendevamo il volo per Mosca. Il secondo incontro coi bambini. E’ il 20 ottobre 2009, siamo a Voronezh. L’albergo dove alloggiamo è abbastanza confortevole. In pieno centro, la stanza ha una bella finestra panoramica sulla città. La mattina è fredda, brumosa, si vede dalle finestre il freddo e la nebbia di una giornata dura. Mi soffermo a guardare il bel palazzo di fronte a noi, sembra un teatro, con una maestosa facciata con colonne e un grande timpano triangolare soprastante. Stanno ristrutturando il tetto. Si vedono attrezzature abbandonate ricoperte dalla neve. Mi chiedo se, e per quanto, riusciranno

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ancora a stare in equilibrio senza scivolare giù in strada dalla falda inclinata del tetto. Anche l’edificio a lato è in corso di ristrutturazione. I lavori sono quasi finiti e il risultato mi sembra buono. Questa città è piena di immagini contrastanti: qualcosa di estremamente nuovo, fianco a fianco a qualcosa di estremamente vecchio, usurato, consunto. Malgrado questo, l’impressione che se ne trae è quella di una città comunque amata. E’ anche una città universitaria, ci sono molti studenti che arrivano da altre parti della Russia e anche da altre nazioni, con ben quindicimila studenti stranieri. La differenza che c’è tra le diverse generazioni è enorme. I giovani appartengono a un nuovo mondo. Le persone oltre i quarant’anni vivono divise tra una nuova vita e una vecchia vita, e non sanno decidere, e questa indecisione le logora. Le persone oltre i sessant’anni vivono in un vecchio mondo e ne conservano le vestigia, con passione, sanno che è un mondo destinato a scomparire. Oggi andremo all’istituto senza la nostra Ekaterina, il nostro riferimento in Russia, ma solo con Anna l’interprete, e l’autista. Partiamo nel primo pomeriggio. Con un po’ meno ansia del giorno precedente, attraversiamo prima il centro e poi la periferia della città; ci allontaneremo fino al paese dove sono i bambini, at-

traversando la steppa e la piatta e deserta campagna attorno a Voronezh. Un po’ più riposati e tranquilli del giorno prima, riusciamo ad avere spazio nella nostra mente, per osservare il mondo attorno a noi dai finestrini della macchina. Vediamo attraverso la nebbia leggera, che avvolge in una silenziosa e ovattata distanza, persone case e cose. Distinguiamo i tipici monumenti russi al centro delle grandi piazze: la navicella spaziale, l’eroe, il poeta, l’aereo della seconda guerra mondiale, l’immancabile Lenin. I grandi palazzi pubblici che ospitano importanti funzioni per il popolo, come l’università, e poi le piccole case abitate dal popolo. Ci sono nella periferia della città, e poi nella campagna, queste piccole case, deliziose, in legno. Casette di favola, con finestre con cornici decorate a fiori, colonnine, decori geometrici. Dipinte coi colori gioiosi e chiari dei bambini, verdi, rossi e marroni, giallo senape, con finestre in contrasto, verde chiaro, bianco, verde scuro. Con i tetti contornati, nelle gronde, da smerli che si confondono con le stalattiti del ghiaccio e della neve. La neve c’è. Tanta. E il ghiaccio è un rischio, un pericolo. Un pericolo sulla strada, sui marciapiedi, sui tetti che fanno cadere sopra le teste dei passanti stalattiti enormi, che al minimo disgelo precipitano come acuminati coltelli

verso terra. La neve se ne va solo per pochi mesi l’anno. In estate: solo per tre o quattro mesi c’è il caldo. Il resto dell’anno si convive, sopravvive, al freddo, alla neve, al ghiaccio. Non è facile. Vivere di espedienti in Russia non è possibile. Non è il Brasile, dove i bambini sopravvivono nelle strade anche per anni. Qui nelle strade non si vive, appena arriva il freddo, si muore. I bambini negli istituti sono tanti, ma molti sono i bambini che sono tolti ai genitori perché non sanno garantire la sopravvivenza dei figli. Molti sono i giovani genitori che, affogati nell’alcool o nella droga, non hanno la lucidità per rendersi conto di dove siano i figli. Di dove li hanno lasciati o di dove siano andati. Un bambino di due anni che esce e si perde per strada a 10 gradi sotto lo zero, non va lontano. Forse è vero che i bambini negli istituti in Russia sono tanti, ma il funzionario russo pensa che per loro sia meglio soffrire in un istituto, che essere perduti per sempre. Avvolti da questi pensieri un po’ tristi e da questo paesaggio malinconico, tremendamente somigliante alla retorica dei film, alle terre ricoperte di soffice neve del dottor Zivago, che più di una volta ho visto in televisione, arriviamo finalmente davanti al cancellino basso verde chiaro, coi disegni colorati dipin-


ti, dell’istituto. Che bello entrare. Accolti dal caldo esagerato. Dal viso un po’ furbo e sorridente di una nuova signora (che ci viene detto è la direttrice!) e che ci fa accomodare direttamente nel salone dei giochi del giorno prima. Che bello aspettare i nostri bambini. Vedere ancora quei visini dolci, quelle codine bionde, quegli occhietti vispi, quei dentini bianchi. Ma Natascia entra accompagnata ancora dalla sua tata e anche se proprio non piange, ci accorgiamo che ha occhi gonfi e rossi e un’aria abbattuta. Diamo subito i regali come il giorno precedente, e vediamo ancora, tempo un secondo, ricomparire il sorriso sul suo bel visino. Com’è bella questa bambina! E’ vestita elegante per noi. Ha una camicettina tutta in pizzo bianco, sotto a un vestitino scamiciato di velluto arancione con tasche davanti. Calzine corte bianche, di pizzo anche loro, e

sandalini un po’ più belli di quelli del giorno prima. Le sue lunghe eleganti e affusolate braccia, escono dallo scamiciato e si muovono nell’aria sollevando i giochi e i regali. Si muove come con passi di danza, e viaggia per il salone da uno all’altro dei presenti, mostrando quanto da noi portato e facendo giravolte su se stessa, mentre osserva estasiata dalle sue mani, ogni cosa che le abbiamo regalato. Adora persino i sacchettini delle confezioni, che avevo scelto apposta con bei disegni colorati di fiori. E mette anche loro in bell’ordine, in fila, in esposizione. Il gusto per l’allestimento è tipico russo. Anche nei chioschetti lungo le strade, le cibarie in vendita, mai meno che perfette, sono esposte in modo gradevole e “artistico”: cioccolatini sovrapposti con millimetrica precisione a piramide, così come la frutta; le confezioni, anche se di poco valore,

sono disposte con ordine e simmetria e mostrate con orgoglio. Oggi ci sentiamo meno osservati. Il signor Vassili non c’è, non c’è la nostra referente Ekaterina. Siamo tutti più rilassati. L’interprete chiacchiera molto con la direttrice e la maestra che ci ha ricevuti il giorno prima, ma non traduce per noi quello che si dicono. Noi intanto giochiamo coi bambini. Che sono curiosissimi. Cercano nelle nostre borse qualche altra novità, oltre a quello che abbiamo portato. Anche oggi Natascia fotografa tutto e tutti. Malgrado l’atmosfera più serena, l’interprete ogni tanto traduce qualcosa che non vorremmo sentire. Perché Natascia ha pianto? Ha pianto perché qualcuno in istituto le ha detto che noi eravamo venuti per portarla via. La direttrice racconta all’interprete che i bambini hanno una nonna, che

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ogni tanto telefona in istituto, non capiamo se va anche a trovare i bambini. L’interprete ci dice che quando Natascia ha sentito nominare la nonna dalla direttrice, si è rabbuiata e insospettita. E ha guardato nell’altra stanza dove hanno il telefono, pensando avesse chiamato. Il piccolo scopre una piccola torcetta elettrica per fare luce in caso di emergenza, che mio marito aveva nella borsa. Si divertiranno a giocare al dottore. Certo, guardare in gola al piccolo forse è maleducato, ma la curiosità di vedere se in quella bocca e in quella gola tutte le cosine sono al loro posto c’è. Che poi noi non siamo mica dei dottori, cosa capiremo. Comunque il palato c’è, e anche i dentini e il resto. L’interprete ride, perché il piccolo chiama mio marito Gazpadin, che vuol dire signore in russo, perché la sorella il giorno prima l’ha

sgridato: non deve chiamarci mamma e papà. Noi non ci eravamo nemmeno accorti che diceva “mama” e “papa”, perché emetteva piccolissimi incomprensibili monosillabi come gridolini. Comunque oggi possiamo giocare un po’ più tranquillamente, cercare un contatto un pochino più intimo. Mio marito ha fatto subito breccia: i bambini lo preferiscono; se lo contendono perché giochi con loro e li faccia divertire, sorrida loro felice di vedere ricambiato il suo sorriso. Bisogna dire che in istituto di uomini se ne vedono pochi. Giocare con un uomo è sicuramente una novità rispetto allo stare con una donna. Io per loro sono solo una donna. Come una delle tante che hanno intorno. Però, verso la fine dell’incontro, capisco che anch’io sono un po’ speciale per loro. Natascia vuole fare una foto con me. Io mi metto in posa

dietro di lei. Lei allunga un braccio all’indietro per abbracciarmi, ma io non mi aspetto questo gesto, non mi accorgo di questo suo dolce dono per me, e resto impettita ad aspettare lo scatto. Nella foto si vede il viso e il braccio di Natascia che cercano di arrivare al mio viso, forse per darmi un bacio. Come ho amato quella foto. Nei mesi successivi, quando i bambini non erano ancora con noi, l’ho guardata tante volte. Ho pensato che quella bambina con un carattere così aperto, così facile al sorriso, alla comunicazione con gli altri, non poteva non rispondere con gioia alla nostra voglia di amarla. Natascia ha una grande confidenza con la direttrice e le maestre. Si avvicina a loro e si appoggia al loro braccio mostrando cosa sa fare e chiedendo commenti. Una delle maestre a un certo punto porta dei pen-


narelli e dei fogli nuovi, si vede preparati apposta per noi. Anch’io avrei voluto portare i colori e dei blocchi da disegno in regalo, ma non eravamo potuti andare a comprarli, il giorno prima era già tardi e l’interprete comunque non aveva intenzione di accompagnarci. O almeno preferiva portarci nel negozio dove vendevano dolci e caramelle. Col senno di poi aveva pienamente ragione. La maestra chiede a Natascia di disegnarci tutti e quattro insieme, copiando la fotografia che abbiamo messo nella cornice, dove siamo seduti sul divano mentre scartiamo i regali, foto scattata il giorno prima. Natascia copia, ma, trasforma quel quadretto nella sua vecchia famiglia: una bella mamma bionda e un papà che per nulla assomiglia a mio marito. Siamo simpatici, ma non siamo sua mamma e suo papà. Vediamo di mettere i puntini sulle “i”, sembra

voler far capire a tutti. Scrive anche il suo nome in cirillico, e anche quello del fratello: la maestra ci tiene a far vedere le capacità di Natascia. Ma noi adoriamo già questa bambina! E’ già la bambina più bella e più brava del mondo per noi. La guardiamo in estasi. Guardiamo innamorati come si muove, come parla al fratello, ridiamo comprensivi della sua prepotenza nei confronti del fratello, che trottolino cerca di prendere in mano la macchina fotografica, appena lei la posa un attimo e subito come un falco lei arriva e gliela strappa di mano! Questi bambini hanno una energia e una simpatia contagiosa. Nel salone dove siamo ci sono diverse attrezzature che servono per fare psicomotricità coi bambini: tantissime palle di ogni tipo e dimensione, dei materassi componibili colorati, rivestiti in plastica, con cui si possono formare delle fi-

gure - come un treno o una macchina - dove Dima si siede e fa finta di guidare e ci invita a metterci dietro di lui per portarci in giro. Un attrezzo per fare i salti, una scala a pioli, che Natascia adora e con cui chiede a mio marito di farla dondolare come una specie di altalena. Ogni tanto si avvicinano alle nostre borse, in particolare a quella di mio marito, più grande, del tipo con tracolla da viaggio, dove tiene delle cose di emergenza: oltre alla piletta, scoprono caramelle, chiavi, apri bottiglia, fazzoletti di carta. Natascia trova interessanti i fazzoletti di carta, e li vuole. Volentieri glieli diamo, ma la maestra la ferma. Anche oggi ci fanno domande: la direttrice è curiosa di noi, vuole sapere che persone siamo, cosa facciamo, vuole un po’ capire quale vita futura può immaginare per questi bambini. Bambini di cui

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comunque per un periodo si è presa cura, che ha visto tutti i giorni, a cui ha insegnato, a cui ha cercato un paio di sandalini che andassero bene, un vestito adatto. Capiamo che hanno fatto di sicuro sforzi, soprattutto per Dima, che deve essere arrivato qualche mese prima in questo istituto in condizioni critiche: a tre anni e mezzo senza avere ancora parlato, così magro e così piccolo, ma così capace di essere intelligente e simpatico. Che questo bambino stia simpatico parecchio anche alle maestre si capisce: lo guardano sorridendo, se lo vedono in difficoltà lo aiutano. Quando la sorella disegna, si avvicina, e la maestra chiede anche a lui di provare a fare qualcosa. Si siede in braccio all’interprete - perché non a me, penso invidiosa – e inizia a scarabocchiare qualcosa. La maestra subito lo indirizza, silenziosamente gli sposta la matita che ha in

mano nella posizione giusta. Un piccolo gesto, ma un gesto di attenzione, di cura. Ci chiedono come sarà la nostra vita e cosa faremo quando avremo i bambini con noi. Raccontiamo un po’ dove viviamo, della casa, della città, delle cose belle per i bambini che ci sono. Questa parte è facile: viviamo a Milano, in centro. Dubito che queste signore un po’ attempate della provincia russa conoscano Milano, ma sembrano capire che i bambini avranno tante possibilità per il loro futuro. Ci salutiamo coi bambini, ma meno calorosamente del giorno prima. Qualcosa è cambiato. Sia in noi che in loro al momento dei saluti affiora la paura di non vedersi più. La direttrice deve avere intuito il nostro sentire, visto la nostra delusione per questo saluto con i bambini un po’ distante; e mentre andiamo

via ci rassicura, ci dice che nel tempo che passerà prima del nostro ritorno, prepareranno i bambini alla loro nuova vita. Prendiamo il treno per Mosca la sera stessa e sul treno riusciamo a parlare con qualcuno dell’ente. Purtroppo non è la psicologa che ci aveva seguito, ma un’altra persona, che si occupa solitamente dei documenti burocratici da preparare. Facciamo a lei il resoconto degli ultimi due giorni. Facciamo presente che la nostra sensazione è che non siano propensi a mandare questi bambini all’estero. Lei ci conferma che anche la referente a Mosca le ha detto che, in effetti, non ci hanno accolto bene all’istituto (la direttrice non ha voluto nemmeno farsi vedere il primo giorno!), ma ci dice che di tutti i nostri dubbi dobbiamo parlarne con Natalia, la persona a Mosca responsabile dell’ente


in Russia, che incontrere- che potrebbe non accettamo il giorno dopo. re. In ultimo ci chiediamo qual è veramente lo stato Questa telefonata non ci di salute di Dima, se il suo ha dato risposte, non ci sottosviluppo fisico e menha per niente tranquilliz- tale non sia dovuto a patozato. Quando rivedremo logie veramente gravi. i bambini? La sensazione Alla stazione il mattino che abbiamo è che questa presto, viene a prenderci procedura si trascini, che un’autista donna, che ci acl’istituto o qualche funzio- compagna in un bell’albernario chieda regali extra, go, ci sistema nella hall, ci che i parenti russi si op- piazza ancora in una prepongano all’adozione. Ci cisa poltrona, ci sistema i pare strano che i bambini, bagagli a fianco e ci dice di ai cui genitori è stata tolta non muoverci di lì, di stare la patria potestà, stiano in proprio lì e di aspettare tre un istituto nello stesso pa- ore fino a quando tornerà a ese di venticinquemila abi- prenderci per andare dove tanti dove vive la nonna e ci aspetta Natalia, la refedove sono nati i genitori. rente, con la quale andreCi sembra chiaro che l’o- mo dal Notaio. Mmmhhhh! biettivo è cercare di avvici- Ancora prigionieri di una nare i bambini ai parenti. poltrona! L’albergo è bello, O almeno così pensiamo. niente da dire, le poltrone Siamo anche molto addolo- sono anche comode, ma tre rati al pensiero di portare ore seduti nei posti meglio via da un ambiente dove inquadrati dalle telecametutto sommato Natascia re del circuito di sicurezza sembra serena, e trapian- dell’albergo, che trasmettarla di peso in un mondo tono nei monitor al banco a lei estraneo, obbligarla a dell’accettazione, mi fanno uno sforzo di adattamento innervosire, è veramente

troppo! Cerchiamo di rilassarci, di non pensare a niente, ma la mente torna sempre lì, a quei visini, a quelle manine. Abbiamo paura di soffrire. Abbiamo paura di illuderci per mesi e poi non averli con noi, pensiamo che allora sia meglio evitare quella sofferenza. Non resisteremmo. Incontriamo dopo tre ore Natalia in una bella panetteria con bar nel centro di Mosca, come usa adesso anche in Italia. Mangiamo qualcosa e intanto parliamo seduti a un tavolo. Le spieghiamo il perché abbiamo forti dubbi che quest’adozione vada a buon fine. Spieghiamo che abbiamo visto resistenze dalla parte dei funzionari russi e che sentiamo anche “resistenze” in noi stessi. Lei ribatte punto su punto: “Se i bambini sono nelle liste che l’autorità centrale ha dichiarato essere destinati all’adozione internazionale, quei bambini

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andranno in adozione internazionale. Chi è questo signor Vassili che ha voluto fare tutte quelle domande, per decidere su questo? Chi è quella direttrice che vuole tenersi i bambini per tenersi un posto di lavoro? Non preoccupatevi che mi farò sentire io dove devo, e quando tornerete questi signori non avranno niente più da dire o fare. Cos’è questa storia che avete paura che una bambina di sette anni soffra troppo nell’essere da un giorno all’altra trasferita in un altro paese? Ma che futuro deve avere questa bambina in questi istituti, in quel buco di merda di paese dove vive adesso? Io ho un figlio che vive a Milano, e vengo spesso a trovarlo in Italia. Che vita avrà quella bambina qui, quanto meglio è la vita che voi potete offrirle in Italia? Voi dite che ricorda i genitori biologici, ma quando uscirà dall’istituto e sarà con voi vi assicuro che vi

chiamerà subito “mama” e “papa”, e non si ricorderà più neanche i nomi di quegli altri! Io ho visto tanti bambini, leggo le relazioni che le coppie mandano, sento le storie che mi raccontano dopo che sono in Italia. I bambini, certo che hanno paura quando devono andare via dal posto che conoscono! E’ capitato a una coppia che il bambino è scappato all’aeroporto, non voleva partire, abbiamo dovuto cercarlo, urlava e gridava e si attaccava alle sedie, ai corrimano. Lo stesso bambino, mi hanno telefonato appena arrivati: come sceso dall’aereo ha visto i parenti coi regali ad aspettarlo ed era già un altro bambino, felice ha abbracciato tutti!”. Ci guardiamo io e mio marito: l’arringa ci ha convinto. Ma Dima? Anche per lui ha le risposte giuste: “Avete visto il bambino? Ekaterina mi ha detto che il bambino è vispo e sveglio, parla poco ma parla,

già ieri più dell’altro ieri. E’ vero, è piccolo, e allora?” Chiediamo se si possono fare delle analisi: non so, tipo esami genetici per vedere se è affetto da qualche sindrome, da nanismo o qualche altra patologia invalidante. Ci guarda calma con serietà: “Se le richiedo si possono forse fare, ma chi le paga? E poi sarà altro tempo che passa”. E poi velatamente ma non troppo, ci fa capire che se già non sono propensi a darli in adozione, se vedono che dalla nostra parte abbiamo pure delle “critiche” da fare sui bambini, non andiamo a migliorare la situazione. E comunque, al di là di tutti i discorsi che si potrebbero fare, quei bambini ci sono già entrati dentro. Avevamo solo bisogno che qualcuno ci rassicurasse, sul fatto che la procedura sarebbe andata a buon fine. Che ci togliesse un po’ della paura che avevamo. Magari anche illudendoci,


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ma ridandoci un po’ di forza, un po’ di lucidità. Quando ripenso a quell’incontro mi sento un’idiota. Quante sciocchezze abbiamo detto. Ma al momento ci credevamo davvero. Perché è facile avere certezze dopo, quando le cose le hai viste e le hai vissute e sono andate proprio come ti avevano detto; ma prima, tu, la certezza che quello che ti dicono sarà la verità, non ce l’hai. Qui in Italia nei corsi preparatori tutti ti parlano con una certa accortezza precauzionale, come se anche noi coppie di aspiranti genitori adottivi fossimo un po’ oggetti da maneggiare con cura: dire ma con delicatezza, non fino in fondo, non tutto. Fare esempi ma senza esagerare nelle

situazioni limite, senza scioccare questi signori già ansiosi e apprensivi di loro. Sì, ma noi abbiamo proprio bisogno invece di essere un po’ presi di petto. Abbiamo proprio bisogno di una che ti dice, senza tanti giri di parole: “Avete paura dei bambini grandi? Avete paura che non vi vogliano, che pensino per sempre al loro paese, ai loro vecchi genitori? Ma bravi idioti che siete! Pensate che i bambini siano scemi? Pensate che preferiscano vivere in istituti di schifo, posti di schifo, senza futuro, pensando e cercando genitori che nel migliore dei casi li hanno lasciati in istituto o per strada, e nel peggiore li hanno pestati a sangue, magari lasciandogli cicatrici in faccia, che

tutti i giorni che si guardano nello specchio le vedono?”. Ecco, se uno ti parla così, i dubbi ti passano. E ci voleva una russa per dirlo, perché in Russia se hanno qualcosa da comunicarti, non fanno giri di parole, sono parecchio schietti e non te le mandano a dire. Subito dopo il colloquio al tavolo della panetteria, siamo andati con Natalia dal notaio, a firmare il documento ufficiale nel quale chiedevamo allo stato russo che volevamo diventare il padre e la madre di Dimitri e Natascia. Già il pomeriggio avevamo l’aereo per il rientro in Italia.


giorno dopo giorno 32

di Marta e Alberto

Filastrocche e giocattoli per... perdere tempo

E’ dicembre. Fuori dalla finestra la città è bagnata, grigia e fredda. Sembra l’inizio di una vecchia pellicola. Ma la colonna sonora tradisce l’atmosfera: “Il coccodrillo come fa, non c’è nessuno che lo sa…”. Mia figlia, quattro anni e mezzo, adora le rime, ma ora vuole cambiare musica: dallo Zecchino d’Oro ad una canzone in cui ci imbattevamo spesso io e mio marito nel periodo in cui aspettavamo il suo arrivo. “Luna di lana riscalda la mia cena…”. Ogni volta che risento questa filastrocca in musica, sorrido dentro. Questa giornata assomiglia proprio a una filastrocca, in apparenza vuota e senza senso, potrebbe non finire mai. Sono stata costretta a casa dalla febbre improvvisa della bambina e, malgrado al lavoro abbia

una scrivania ingombra di “priorità da evadere”, tutti mi hanno piantato in asso. I nonni sono fuori uso, la baby sitter non era disponibile. Mio marito, nonostante si dichiari assolutamente convinto della parità uomo-donna, in questi casi ha sempre degli appuntamenti urgentissimi che non può proprio rimandare: ha accompagnato l’altro figlio a scuola e fino al tardo pomeriggio, di loro due non avremo notizia. Davanti a noi, dodici ore tutte da riempire tra le quattro mura di casa. La sfida è aperta. La TV si potrà accendere solo più tardi nel pomeriggio: questi sono i patti che mi sono subito pentita di aver stipulato. Una giornata all’insegna delle coccole - la medicina più efficace degli antibiotici (così dice il pediatra) - della calma, della famiglia…

“Con la fame faccio la famiglia… con la crepa faccio una cremina” canta lo stereo, e un piccolo dubbio s’insinua nella mente, incrina per un attimo il sogno: ma io sarò capace davvero di vivere bene una giornata così? “... Con la fretta faccio una frittata…” dice sempre la canzone: mettere fretta ai nostri figli è uno sport che pratichiamo quotidianamente e ossessivamente, perché è sempre tardi. E’ difficile non sostituirsi a loro, nel vestirsi, nel portare lo zaino di scuola, nelle piccole e grandi tappe della crescita, nelle scelte, perché li vorremmo sempre pronti, veloci nell’apprendere e adeguati al ritmo incalzante di una società che non ammette ritardi e dilazioni. Eppure noi genitori adottivi dovremmo aver impa-


rato l’arte dell’attesa, della pazienza, dei tempi lunghi. E invece eccoci in affanno come gli altri, presi subito dal desiderio di normalità che ci fa vivere con fatica l’idea di far loro ritardare ogni esperienza. In preda anch’io all’ansia di ottimizzazione dei tempi, mi trovo oggi – tanto per cominciare – a caricare la lavatrice, rifare i letti, accendere il pc (non si sa mai che la cucciola giochi così bene da sola che possa rispondere a qualche mail…). Le mie acrobazie domestiche innervosiscono subito la bambina e sono costretta ad arrendermi, mentre mi affiorano alcuni ricordi d’infanzia: la limonata della mamma quando anch’io ero ammalata e le mitiche fiabe sonore al “mangianastri”. Ma mia figlia non vorrebbe mai bere e delle fiabe del cd oggi non ne vuole proprio sapere. Il rodaggio tra noi è più complicato del solito: tutto ciò che le propongo naufraga miseramente. Mi rassegno ai giochi più antichi del mondo, improvvisati dalla sua fantasia con pochi oggetti raccattati qua e là in giro per casa: al ristorante, al negozio, alla scuola, alla parrucchiera, con i miei capelli pieni di mollettine e fiocchi! I minuti si srotolano più

calmi e più lenti: l’atmosfera di una giornata atipica sta prendendo anche me. Oggi devo, voglio imparare ad attardarmi. Lo stesso dubbio di prima torna ad assalirmi malizioso: noi adulti vogliamo davvero cambiare lo stile di vita che tanto critichiamo e finalmente rallentare la corsa, dimenticarci un po’ di noi stessi e sederci a giocare ogni tanto e con gusto insieme ai nostri bambini? Tra qualche giorno è Natale: vorrei che nella letterina i miei figli chiedessero tante giornate insolite come questa che sta tramontando, da passare tranquillamente, con mamma e papà. Penso più realisticamente che chiederanno qualche giocattolo di nuova generazione, ma non importa. Intanto la canzone “Luna di lana” è finita da un pezzo e mi trovo a canticchiare le note di un’altra filastrocca musicata, questa volta sul tema dell’adozione. Quando l’ho sentita mi ha allargato il cuore, forse per la gioia di essere diventata mamma in questo modo

così speciale. Mia figlia, per il momento, si esercita con le rime, io amo le filastrocche che dicono cose importanti in modo leggero: “Io non so se la botte è figlia del bottone, o se un matto è figlio di un mattone, io non so se il fiammifero è figlio della fiamma, ma io sono tuo figlio perché tu sei la mia mamma. La tua mamma ti ha scolpito in plastilina, o ti ha sfornato dal forno di cucina, ti ha cercato nel mondo per mesi ed anni e pianti, finché non ti ha veduto lì davanti, o forse ti ha voluto così tanto e così a lungo, finché non sei spuntato come un fungo. Che tu spunti dalla pancia o dal gran mondo, stai arrivando sempre da un bel tondo, da quale parte arrivi in fondo non importa, importa chi ti abbraccia sulla porta”. E’ arrivata improvvisa la sera. Alla porta ora ci sono mio marito e mio figlio. Di una cosa sono sicura: di questa giornata un po’ bislacca mia figlia a cena racconterà tutti i particolari!

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Leggere, fare e raccontare

Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di BarchettaBlu 34

1. Questo mese: La pedagogia del fare

in qualsiasi momento è importante scegliere una storia che sia coinvolgente, adatta alle esperienze del bambino e che possibilmente permetta a chi ascolta di attivare un processo di identificazione con il protagonista. L’adulto, scegliendo la storia adeguata, predisponendo un ambiente accogliente e dedicando a questo momento tutto il tempo necessario, riesce ad agganciare il bambino stimolando in lui il desiderio di proseguire la storia. A casa con i miei figli, in biblioteca con gruppetti di bambini o a scuola con un’intera classe, dopo la lettura di un libro, ci piace sempre abbiblioteca. In tutti questi binare anche un momento anni la risposta è sempre dedicato al fare e al creare, stata la stessa: non c’è uno naturalmente legato alla schema preciso da segui- storia appena sentita. Per re, non c’è una regola im- fare ciò non vengono scelte perativa; a qualsiasi età, storie didascaliche, piene A quale età si inizia a leggere i libri ai bambini? In quale momento della giornata? Quali storie dobbiamo scegliere? Cosa piace davvero ai bambini? Queste sono solo alcune delle domande che genitori ed educatori rivolgono a me e ai miei collaboratori in


di insegnamenti mascherati poiché spesso il bambino le percepisce come storie innaturali; anzi queste storie vanno evitate se si vogliono mettere in gioco le emozioni e se si vuole stimolare il dialogo con i bambini. Quando si scelgono le storie è importante considerare se affrontano le diverse situazioni della vita e i vari problemi della crescita; solo così si aiuta il bambino a conoscersi e a scoprire nuovi aspetti di se e degli altri. Dopo la lettura è necessario avere un tempo in cui i bambini possano esprimere liberamente le proprie impressioni e considerazioni. Quale modo migliore allora di continuare a parlare della storia e delle emozioni suscitate attraverso un fare creativo? Bambini e adulti hanno

sempre di più la necessità di ritagliarsi un tempo per stare insieme, per condividere, per gustarsi l’essere insieme in quel preciso istante. Quando l’adulto è lui stesso coinvolto nella lettura e nel fare con i bambini, riesce ancora più facilmente ad attivare una sorta di circolo virtuoso e di entusiasmo contagioso: i bambini vorranno ancora leggere e ascoltare i libri, vorranno ancora trascorrere del tempo insieme agli altri bambini, vorranno ancora esprimere le proprie emozioni, vorranno ancora condividere sensazioni e sentimenti con gli adulti. E tutto ciò aiuterà i bambini nella crescita. Oltre al piacere di ascoltare la voce che legge una storia, ai bambini piace guardare, toccare, sperimentare e scoprire. Realizzare una attività creativa

dopo la lettura è anche un modo ulteriore per avvicinarli al mondo delle storie e dei libri rendendo interessante e significativo il rapporto con essi. Gli atelier, i laboratori e le attività fatte a scuola, in biblioteca o anche in casa con i bambini devono basarsi sulla sperimentazione personale. Gran parte di quello che mi spinge nell’ideare e nel progettare iniziative per bambini e ragazzi, deriva da quello che ho imparato da Roberto Pittarello, professore di Didattica delle arti visive e di attività espressive all’Università di Padova, da trent’anni relatore e animatore di laboratori creativi sui linguaggi tattile, visivo e di scrittura interiore con bambini, ragazzi e adulti. Ho avuto l’onore di averlo come

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relatore della mia tesi ad un corso universitario di specializzazione ed è stato proprio lui che ha generosamente dato idee e spunti per l’allestimento e l’organizzazione della Biblioteca Ragazzi di BarchettaBlu. Come scrive il bravissimo prof. Pittarello, allievo di Munari, Sono creativi i laboratori che offrono strumenti, mezzi e tecniche, ma non suggeriscono soggetti o contenuti, lasciando che ognuno trovi la sua strada per esprimersi con quello che ha visto fare e subito anche lui ha provato a fare: sapere come fare per sapere cosa fare. Durante le sue lezioni e i suoi laboratori, il prof. Pittarello mi ha fatto capire e fatto sperimentare diret-

tamente come, per sviluppare la creatività, non bisogna pensare al risultato ma all’esperienza. Mi era piaciuto moltissimo quando, in una delle sue prime lezioni all’università, ci aveva detto che per spegnere la fantasia si può cominciare a dare ai bambini più piccoli una fotocopia con un disegno da colorare, cosa che avevo visto fare molte volte da educatori e animatori. Il professore mi aveva raccontato che nel foglio ci può essere invece una sorpresa, come una macchiolina, un tessuto, un piccolo segno. Da lì avremmo potuto iniziare il nostro fare creativo proseguendo, aggiungendo, cambiando. La fantasia negli adulti e nei bambini può così durare tutta la vita.

Nel libro I laboratori creativi, Roberto Pittarello fa il punto sugli oltre trent’anni di esperienza di laboratori creativi: inizia con lo spiegare la sua riflessione teorica da cui tutto parte e poi la metodologia usata e la scelta di spazi, materiali e contenuti. Infine sottolinea l’importanza della documentazione e della valorizzazione dei percorsi e delle pro-


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spettive di sviluppo. Anche nella serie di laboratori chiamati ironicamente Non toccare!, Roberto Pittarello prende in giro gli adulti in questo loro imperativo consigliare ai bambini di non toccare; i bambini invece vogliono toccare ogni cosa, sentire, conoscere e confrontare forme, materiali, colori. Impedire ai bambini di toccare vuol dire non permettere loro di conoscere e di prendersi il loro pezzo di mondo, amarlo con coraggio e giocarci senza paura. Nessuno può fare o toccare al posto nostro; il conoscere non si può raccontare ma solo fare in prima persona. Così, seguendo i preziosi suggerimenti del professore, anch’io ho iniziato in biblioteca, in ludoteca e anche a casa, a collezionare materiali, a riciclare scarti

e a immagazzinare oggetti per i bambini. E quando li tiro fuori con loro, diventano magici grazie alla fantasia e alla creatività innata e infinita dei più piccoli: i materiali e gli oggetti si trasformano diventando personaggi, animali, cose inesistenti, opere d’arte. In questo gioco del fare la curiosità e la ricerca sono stimolate in modo continuo fra bambini e adulti, in uno scambio intergenerazionale a doppio senso. Da tutto ciò ho iniziato allora a pensare alla lettura di alcuni libri e poi alla realizzazione di esperienze creative: un disegno con i colori naturali e le spugne, una torta con farina, uova e zucchero, una scultura con la pasta di sale. Provare per credere! La ricetta della pedagogia del fare è mettere insieme

un bambino e un adulto, un buon libro e un fare creativo; il tempo passerà velocissimo ma lascerà un tesoro, una sensazione e un ricordo di un’esperienza ricca, preziosa ed entusiasmante.

BIBLIOGRAFIA I libri in foglio. R. Pittarello, La Scuola del fare edizioni, 2001 Il mio primo laboratorio creativo. R. Pittarello, La Scuola del fare, 2005 I laboratori creativi, con adulti e bambini. R. Pittarello, Edizioni LIF, 2012 LINK www.robertopittarello.it


leggendo di Stefania Lorenzini

Rovesciamenti di prospettiva per creare continuità da Famiglie per adozione - Le voci dei figli 38

Rovesciamenti di prospettiva per creare continuità da Famiglie per adozione Le voci dei figli di Stefania Lorenzini I percorsi di vita precedenti l’adozione – pur se in maniera diversa da caso a caso, e in relazione all’età d’adozione – si presentano spesso caratterizzati da difficoltà, frammentarietà, discontinuità, perdita; a volte da lutti, quasi sempre da separazioni e vissuti luttuosi, da numerosi punti di frattura che, poi, anche l’adozione stessa produce. Spesso i genitori temono le difficoltà di inserimento di un bimbo che ha acquisito abitudini distanti dalle proprie, cioè di figli che proprio per le loro peculiarità potrebbe essere difficile sentire simili a sé, dunque figli. Il timore di non sentirsi “appartenenti” è

presente sia negli adulti sia nei bambini che giungono all’adozione grandicelli. Tutto questo si evince dalle parole dei nostri intervistati, e da tali evidenze nascono interrogativi, a mio avviso, centrali. A fronte dei percorsi di vita dei bambini sviluppatisi nella discontinuità, cosa e come fare affinché la vita nella nuova famiglia dia origine a esperienze capaci di integrare, di dare continuità a un passato che necessita di essere collegato in modo armonico al presente? A fronte di una storia e di un patrimonio di esperienze già presenti nei figli, cosa fare perché l’adozione non si trasformi nell’occultamento della vita precedente e dell’identità sviluppata sino a quel momento? Come evitare che il bisogno a volte presente negli adulti, genitori, di sentire il proprio figlio il più pos-

sibile simile a sé – poiché quanto più lo si sente simile tanto più lo si può riconoscere figlio – si traduca in un processo di assimilazione e negazione delle sue peculiarità? Le tante possibili risposte a queste domande concorrono a favorire la trasformazione dell’iniziale estraneità reciproca in reciproca familiarità e intimità. E la chiave di volta per trasformare l’estraneità dei punti di partenza delle adozioni in reciproca familiarità risiede nel riconoscimento delle peculiarità, nell’accoglienza di ciò che è più reciprocamente estraneo: cioè ciò che fa parte della vita precedente l’adozione, dall’origine biologica e dalle differenze somatiche, alle origini in un diverso popolo, alle esperienze compiute in un certo contesto umano e culturale. A tutto questo occorre dare


attenzione e spazio affinché possa trovare la libertà di esprimersi, per quanto possibile, in modo armonico e sereno. L’adozione può così concretizzarsi in opportunità per creare famiglie e prima ancora per dar vita a biografie complete, integrate; non forzate dalla richiesta – da parte dei genitori anzitutto, ma anche del contesto scolastico o sociale più ampio – di scegliere tra la nuova realtà affettiva, sociale, culturale e le origini e le esperienze precedenti, tra il passato e il presente/futuro. Occorre favorire l’armonizzarsi dei tasselli, noti e non noti, di percorsi di vita già avviati nel nuovo cammino che si apre con l’adozione, nella nuova famiglia, nei nuovi affetti. In questo, a mio avviso, risiedono fondamentali risposte ad alcune delle principali difficoltà insite nei processi adottivi,

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consentendo di: – costruire continuità entro percorsi di vita, quelli dei bambini, gravati da discontinuità, perdite, separazioni; – moderare l’entità del disorientamento vissuto dai figli per effetto del “cambiare tutto” con l’adozione; – accogliere e trasformare l’iniziale estraneità tra genitori e figli, sostenendo lo svilupparsi della conoscenza reciproca e di familiarità; – permettere lo sviluppo di identità individuali nella loro pienezza e completezza; – favorire il reciproco riconoscimento in quanto genitori e in quanto figli. È proprio grazie all’analisi delle testimonianze dei figli protagonisti dell’adozione che tali passaggi mostrano centrale importanza affinché l’incontro tra persone separate ed estranee

possa generare benessere nel presente e nel futuro, anche “risanando” qualche aspetto del passato, dando vita a un nuovo mondo affettivo, al reciproco riconoscimento, al divenire gli uni per gli altri mio padre, mia madre, mio figlio, laddove almeno inizialmente si temevano distanze e rifiuti. Certo, nell’incontro adottivo possono emergere punti di contatto, risorse comunicative, scambi affettivi immediati, ma occorre tenere presente che c’è un bagaglio di cultura e cioè di esperienza compiuta, posseduta, che gioca sia quando ci si trova (tra adulti e bambini) a sentire la reciproca estraneità o quando si devono affrontare silenzi e chiusure da parte dei figli, sia quando ci si trova a provare feeling immediato. Queste considerazioni, che

potrebbero apparire l’enfatizzazione unilaterale della dissomiglianza e della distanza, non dimenticano né disconoscono quanto può avvicinare in maniera rapida e intensa adulti e bambini. L’attenzione rivolta alle radici e alle tappe anteriori della vita dei figli non deve certo scivolare in una sorta di culto del passato. Non deve corrispondere né a un’enfasi controproducente sul passato né a un approccio che – deterministicamente – fa discendere lo sviluppo futuro dei bambini dalle loro esperienze pregresse. Le esperienze della vita preadottiva hanno un peso rilevante nel definire ciò che i bambini sono al momento in cui gli adulti li incontrano per divenirne genitori, ma non vanno intese come qualcosa che predetermina irrevocabilmente quello


che saranno. Si tratta di guardare all’oggi e al domani senza negare ciò che li ha preceduti, facendone invece un formidabile strumento di conoscenza e di comprensione dei propri figli. Perché questo possa avvenire, si pone come fondamentale e ricca di implicazioni positive la disponibilità a focalizzare l’attenzione sugli aspetti di iniziale estraneità che caratterizzano il disporsi alla/costituirsi della relazione adottiva. Esiste sempre uno scarto tra il ruolo genitoriale immaginato e le circostanze da affrontare concretamente con il bambino vero che “ci si troverà in casa”; tra la condizione preadottiva e quella che i figli trovano nella nuova famiglia, nel nuovo paese; tra le fantasie e le aspettative del bambino rispetto alla nuova realtà e ciò che essa

è realmente. Centrare l’attenzione sulla dimensione della distanza e dell’estraneità, percepita e vissuta sul piano cognitivo ed emotivo (o che al contrario può essere negata o solo all’apparenza ignorata), significa affrontare temi che si mostrano davvero rilevanti nelle realtà adottive. Significa anche rendersi consapevoli dei rischi insiti in un approccio alle differenze permeato di timori, di significati negativi, dal desiderio di nasconderle, e comprendere quanto, invece, possa essere ricca di implicazioni positive la capacità di volgersi ad esse con curiosità, alla scoperta dell’altro con le sue peculiarità. Sia nel non riconoscere le differenze e le distanze – occultandole per sentirsi meno estranei, più vicini e simili –, sia nell’enfatiz-

zarle – accentuando la dimensione dell’estraneità –, si possono individuare approcci basati sull’attribuzione di significati negativi alle differenze. Pensare (consapevolmente o no) alle differenze tra persone e identità avviatesi a partire da riferimenti diversi come a qualcosa di pericoloso, e che fondamentalmente separa gli uni dagli altri, mette a rischio la possibilità di far nascere familiarità, profonda conoscenza e riconoscimento reciproco nell’adozione. Nell’accogliere ciò che può essere avvertito come fonte di distanza e di radicale alterità risiede, invece, la fertile opportunità di dar vita a nuove appartenenze condivise, di creare familiarità e rapporti intimi, familiari appunto, tra genitori e figli, nel fondamentale rispetto delle loro origini.

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sociale e legale

di Luigi Bulotta

Dentro la CAI Intervista ad Andrea Speciale 42

Concludiamo questo mese la serie di interviste ai rappresentanti delle associazioni familiari all’interno della Commissione Adozioni Internazionali. Questo mese è la volta di Andrea Speciale, membro CAI fin dal 2007. Avv. Speciale, ci parli del Forum delle Associazioni Familiari, coordinamento a cui appartiene: come e quando è nato? Com’è strutturato e quali finalità perseguite? Da quante associazioni è composto? Il Forum delle Associazioni Familiari è nato nel 1993 per rivendicare la soggettività sociale della famiglia e della Associazioni Familiari. All’inizio le associazioni erano poco più di 10. Oggi oltre 50 Associazioni nazionali fanno parte del Forum, che rappresenta così oltre 3

le. Esistono infatti in tutte le Regioni (e nelle Province autonome) i Forum Regionali, sono attivi moltissimi Forum provinciali e si stano diffondendo i Comitati comunali, che si rapportano direttamente con l’amministrazione delle singole città in difesa della famiglia. Possono partecipare ai Forum che operano in specifici ambiti territoriali le Associazioni familiari che hanno una presenza attiva in quei territori, siano esse articolazioni di Associazioni nazionali oppure specifiche realtà locali, sempre che tra le finalità statutarie abbiano in modo prevalente la difesa dei diritti Come siete organizzati? della famiglia. Avete sedi e attività sul terLei è in CAI dal 2007, da ritorio? quando l’on. Bindi ne moIl Forum è presente con dificò il regolamento ed proprie articolazioni su aprì la Commissione alle tutto il territorio naziona- associazioni familiari. Posmilioni di famiglie italiane che chiedono di essere rispettate nel loro specifico ruolo di soggetto sociale primario. L’attività del Forum si realizza specificamente negli ambiti sociale, culturale e politico per far sì che le decisioni ed i provvedimenti, anche legislativi o di natura amministrativa, che in qualsiasi modo riguardano la famiglia e la vita familiare, rispettino i diritti della famiglia e, possibilmente, promuovano e sostengano le famiglie italiane ed europee. Il Forum infatti svolge una importante funzione anche in ambito europeo.


Questa intervista avrebbe dovuto essere pubblicata nel numero dello scorso mese. Pochi giorni prima della nostra pubblicazione, stralci dell’intervista sono apparsi all’interno di un articolo apparso sul sito di Ai.Bi. dal titolo “Andrea Speciale (CAI): due anni di attesa per una coppia sono troppi. Perché l’idoneità non potrebbe essere verificata dagli Enti Autorizzati?”. La nostra associazione si è vista costretta a chiedere ad Ai.Bi. di togliere l’articolo in questione dal proprio sito, cosa che è avvenuta con apprezzabile rapidità e, contemporaneamente, ha deciso di soprassedere momentaneamente alla pubblicazione. Ringraziamo l’avv. Andrea Speciale per averci gentilmente spiegato come mai siano emersi stralci della sua intervista anzitempo. Questo è il testo integrale, difficile forzarne i significati.

so chiederle quale fosse la proprio contributo di espesua esperienza con il mon- rienza e conoscenza. Non si do delle adozioni prima di corre il rischio che ciascun singolo tema sia affrontaentrare in CAI? to in modo, mi si consenta A seguito della modifica del l’espressione forte ma vo2007 un componente indi- glio farmi capire, riduttivo, cato dal Forum delle Asso- perché all’analisi partecipa ciazioni Familiari deve far anche chi si occupa di scuoparte della CAI. Si tratta la, di disabilità, di fisco, di del riconoscimento del valo- tariffe, di diritto .... re della modalità operativa Prima di entrare in CAI del Forum. Ogni decisione la mia esperienza in tema viene infatti assunta dopo di adozione derivava dal che tutte le Associazioni mio coinvolgimento fin sono state coinvolte nell’ap- dagli anni dell’università profondimento di ciascuno nel Consultorio Familiare specifico argomento. Mi della Diocesi di Ancona, la spiego: se si deve decidere mia città, che si occupava la posizione da assumere anche di accoglienza e di in materia di adozioni non adozione. L’attività profesvengono coinvolte soltanto sionale poi, sempre interle associazioni che hanno connessa con l’impegno nel l’accoglienza come loro spe- Consultorio che non ho mai cifica, o comunque preva- abbandonato, mi ha portalente, attività, ma il tema to ad approfondire molte viene approfondito da tutte tematiche legate all’adoziole 50 associazioni così che ne insieme a molte coppie e ciascuna possa portare il famiglie. Come componen-

te del Consiglio Direttivo del Forum ho partecipato nel 2001 all’attività che ha portato alla modifica della nota legge 184. Lei è in CAI da ormai cinque anni. Ci parli della sua attività e delle istanze che ha portato all’interno della Commissione. La Commissione è formata per la gran parte da incaricati dei diversi Ministeri e da esperti, che provengono sempre dai Ministeri oppure dalla Magistratura minorile. I rappresentanti delle Associazioni familiari hanno la funzione di portare all’interno della CAI la voce delle famiglie che entrano in contatto con la procedura adottiva e questo è quanto ho sempre cercato di fare. Il nostro compito consiste far sì che le diverse problematiche che

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si affrontano di volta in volta non siano trattate come questioni astratte, ma siano percepite ed esaminate per gli effetti concreti che producono sulle famiglie. Va dato atto che al riguardo c’è già una particolare sensibilità della Vice Presidente e degli altri componenti la Commissione, ai quali può mancare, in certi casi, il continuo riscontro diretto con le famiglie, riscontro che costituisce lo specifico dei rappresentanti delle Associazioni familiari. Sul punto va anche detto che nello scorso mandato di fatto i rappresentanti delle Associazioni familiari sono stati solo due, Michele Augurio ed io, e che, dopo le dimissioni del primo, il quale è sempre stato molto attivo ed ha sempre svolto un valido ruolo di stimolo e pungolo, sono rimasto solo. Da qualche mese sono stati nominati i due rappre-

sentanti che mancavano e quindi adesso la voce delle Associazioni familiari è completa. Le istanze che ho sostenuto all’interno della Commissione? Mi sembra inutile fare un arido elenco. Mi piace di più ricordare il continuo richiamo che faccio sempre alla corretta applicazione del principio di sussidiarietà: gli Enti Autorizzati svolgono compiti che l’ordinamento attribuisce alla Commissione e la Commissione deve far sì che gli Enti stessi riescano nel migliore dei modi a svolgere quanto già loro delegato e tutti ciò che dimostreranno di volta in volta di poter realizzare in prima persona. Tanto presuppone un effettivo controllo ed una continua verifica della Commissione sull’operato degli Enti e le decisioni in ambito ‘disciplinare’ che la Commissione ha adottato

non devono essere percepite come una ingerenza indebita, ma sono un dovere della Commissione nell’interesse delle famiglie e degli Enti stessi. Come ha interpretato il suo ruolo di rappresentate delle associazioni familiari, specialmente per quel che riguarda il tema della comunicazione alle associazioni del suo coordinamento? MI sono confrontato con il Presidente e gli Organi Direttivi del Forum e con la Commissione che all’interno del Forum si occupa di questi temi. Ho anche cercato di coinvolgere le Associazioni che potevano fornirmi indicazioni quando si è trattato di affrontare argomenti specifici o svolgere puntuali relazioni. L’ambito della comunicazione e del coordinamento è certamente un tema molto sen-


sibile perché si ha sempre Il Forum delle Associazioni la sensazione di poter fare Familiari ha tra le associazioni che lo compongono di più. due Enti Autorizzati. Gli Come è cambiato, se è cam- enti, nell’attuale sistema biato, il suo sguardo sul delle adozioni internaziomondo delle adozioni inter- nali, sono soggetti all’azionazionali a seguito di que- ne di controllo e d’indirizzo della CAI di cui lei è memsta sua esperienza. bro. Immagino che lei e la Non credo possa dirsi che Commissione sarete chiail mio modo di vedere il mati di continuo a prendemondo delle adozioni inter- re decisioni che coinvolgono nazionali sia cambiato da gli enti. Quale è stata la sua quando sono in CAI. Cer- linea di indirizzo in merito? tamente ho imparato di più per quel che riguarda gli Nella vita faccio l’Avvocaaspetti relativi ai rappor- to, per un certo periodo ho ti con le Autorità Centrali svolto la funzione di Magidegli altri Paesi ed ho com- strato Onorario ed ancora preso a fondo che le modali- svolgo la funzione di Arbità con cui ciascuna adozio- tro: sono tutte situazioni ne viene seguita dal singolo che impongono a chi voglia Ente ha una ricaduta enor- essere corretto di separame su tutte le altre adozio- re le conoscenze personali ni e sulla considerazione e, se vogliamo, anche gli stessa che gli altri hanno interessi personali da ciò del nostro Paese e del modo che è giusto. Questa è stata in cui si fanno le adozioni e sarà la mia linea di condotta all’interno della CAI. da noi.

Confido peraltro che gli altri componenti la Commissione mi segnalino immediatamente se mai dovesse capitare che una mia affermazione o presa di posizione sia anche solo percepita come motivata dal rapporto personale con l’uno o l’altro degli Enti Autorizzati, con i quali i rapporti sono più frequenti. Quale è per lei il ruolo delle associazioni familiari in CAI in futuro? Quale sarà, in concreto, il suo impegno all’interno della Commissione nel prossimo anno del suo mandato? Quali le priorità? Il ruolo delle Associazioni Familiari è stato, è e, secondo me, dovrà essere quello di portare la voce delle famiglie all’interno della Commissione. Il mio impegno sarà quindi portare all’attenzione della Com-

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missione le questioni che per le famiglie e le Associazioni Familiari saranno via via rilevanti. Credo che oggi per la CAI ci sia anche una priorità di ordine culturale. Viviamo un periodo in cui si diffondono sempre più l’individualismo e l’egoismo e poco importa in questa sede stabilire se la crisi sia la causa o l’effetto della detta diffusione. Anche la tradizionale apertura delle famiglie italiane a chi ha vissuto il trauma di un abbandono e vede frustrato il suo diritto a vivere in una famiglia risente della situazione del momento. E’ quindi opportuno un grande sforzo per rilanciare il valore dell’accoglienza, dell’apertura a chi ha bisogno ed anche la cultura stessa delle adozioni. Parallelamente è necessario ricordare e ribadire

sempre che di fronte a progetti tanto complessi, quali l’accoglienza di un minore abbandonato, ed a bambini così deprivati è assolutamente irrinunciabile che l’adozione internazionale sia riservata a famiglie stabili, impegnate socialmente e pubblicamente, cioè famiglie legalmente sposate, e costruite sulla differenza sessuale, formate cioè da un padre e da una madre. Quali sono le criticità che vede nell’attuale sistema delle adozioni internazionali? Come dovrebbe evolvere per adattarsi ai cambiamenti sociali e meglio assolvere alla sua funzione? Le famiglie che danno la disponibilità all’adozione non riescono a comprendere e vivono con enorme difficoltà l’approccio burocratico della procedura finalizzata

alla verifica dell’idoneità. La verifica è necessaria perché non si può correre il rischio che un minore che ha già vissuto il trauma dell’abbandono sia accolto da una famiglia che non abbia tutti i requisiti per assicurare a quel minore di non incorrere in una seconda tragica esperienza. Non ci si può negare tuttavia che i soggetti che gestiscono l’attuale sistema, con le note criticità ed i diffusi patologici ritardi, non riescono a far sentire accolte le famiglie, ma sembra facciano di tutto per allontanarle e scoraggiarle. Come può accettare una coppia di attendere due anni per conoscere se la propria disponibilità all’adozione internazionale sia stata accolta e di essere giudicata in funzione dell’esito di un solo incontro di due ore con una psicologa? Altra cri-


ticità è rappresentata dal costo della adozione internazionale. Che fare allora? Si dovrebbe aprire una grande discussione non sulla questione idoneità sì idoneità no, in quanto a mio avviso una verifica è assolutamente necessaria, ma sulle modalità con cui la verifica viene effettuata. E’ opportuno e possibile coinvolgere le Associazioni Familiari, gli stessi Enti Autorizzati? Con quali modalità? Credo che qualcosa in questo senso possa essere fatto. Non dimentichiamo che nel sistema italiano alcune delle funzioni che sono proprie dell’Autorità Centrale sono già svolte dagli Enti Autorizzati. Perché allora non cominciare a porsi per lo meno il problema della opportunità di verificare se, ed eventualmente quali fasi del procedimento volto

a verificare l’idoneità delle coppie alla adozione internazionale possano essere svolte da soggetti della società civile? Cinque anni all’interno della CAI fanno di lei sicuramente un osservatore privilegiato. Qual è la sua idea sulle modalità operative della Commissione? Che giudizio esprime su come è organizzata e sul suo funzionamento? Intravvede l’esigenza di cambiare qualcosa? A mio avviso il giudizio in merito all’organizzazione ed al funzionamento della CAI è positivo. Posso dire che a volte sono rimasto personalmente colpito per la capacità della Vice Presidente e della struttura, nonostante i continui impegni istituzionali, spesso anche all’estero, di gestire

tempestivamente l’attività ordinaria e straordinaria. Siamo peraltro alla vigilia del rinnovo delle Camere, con quanto di conseguente anche per la stessa CAI. Se devo indicare una esigenza che sento, e che ho già evidenziato in Commissione, mi piacerebbe che, qualche giorno prima delle riunioni, ai Commissari fosse inviata via mail, con tutte le necessarie garanzie di segretezza e riservatezza, la documentazione relativa ai punti all’ordine del giorno. Per chi non vive a Roma, come me, ciò sarebbe utile perché non sempre è possibile passare presso la sede della Commissione nei giorni precedenti la riunione per esaminare i fascicoli. Su questo aspetto gli ‘informatici’ sono al lavoro e probabilmente una soluzione sarà trovata a breve.

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trentagiorni

SE I FIGLI MARINANO LA SCUOLA I GENITORI RISCHIANO LA CONDANNA. Solo la prova del rifiuto categorico da parte dei minori a frequentare la scuola salva i genitori dalla condanna per non aver adempiuto agli obblighi educativi. La Cassazione stringe le maglie della responsabilità del padre e della madre dei minori nell’abbandono scolastico. La Suprema corte annulla la decisione del giudice di pace che aveva assolto, per non aver commesso il fatto, due genitori immigrati i cui figli minorenni avevano disertato le lezioni. Il giudice di prima istanza aveva basato la sua clemenza su una comunicazione del direttore didattico dal quale risultava che i ragazzi non erano andati a scuola, nonostante l’impegno dei genitori. Una conclusione troppo affrettata, secondo il pubblico ministero, che si è rivolto alla Cassazione per far annullare il verdetto favorevole alla coppia: cosa che la Cassazione puntualmente fa. Il collegio di piazza Cavour ricorda che la responsabilità della famiglia può essere esclusa solo quando emergono elementi che rendano chiaramente inattuabile l’obbligo imposto dalla legge. Tra questi c’è «il rifiuto volontario categorico e assoluto del minore non

superabile con l’intervento dei genitori e dei servizi sociali». Sono una scriminante anche: la mancanza assoluta di scuole e di insegnanti; lo stato di salute dell’alunno e, per finire, la distanza disagiata tra la scuola e l’abitazione se mancano i mezzi di trasporto e le condizioni economiche non consentono l’utilizzo di mezzi privati. Nel caso specifico il giudice di pace si era limitato genericamente a far riferimento, senza esaminare gli atti processuali, alla comunicazione del dirigente dell’istituto, che aveva tra l’altro mandato anche molte comunicazioni con le quali esortava il padre e la madre dei minori a far rispettare ai figli l’obbligo scolastico. La Cassazione rinvia dunque allo stesso giudice, invitandolo, questa volta, a specificare da quali elementi aveva tratto la prova del rifiuto categorico dei ragazzi e quale era stato l’effettivo impegno dei genitori per superare le presunte resistenze. Fonte: Il Sole 24 Ore SÌ DELLA CAMERA, ORA I FIGLI NATURALI HANNO GLI STESSI DIRITTI DI QUELLI LEGITTIMI La legge interessa centomila figli, il 20% del totale 366 sì, 31 no e 58 astenuti. Bongiorno: «Risultato storico» Mai più figli e figliastri. Finalmente anche in Italia i figli

naturali sono equiparati ai figli legittimi, nati all’interno del matrimonio. Il disegno è diventato legge alla Camera con 366 favorevoli, 31 contrari, 58 astenuti ed è stato approvato in terza lettura. Sono centomila i figli naturali nel nostro paese, il 20% del totale. RISULTATO STORICO «Abbiamo finalmente raggiunto un risultato storico in materia di diritti civili, archiviando norme odiose fondate su un anacronistico senso della morale. Spero che sia solo il primo di una lunga serie di provvedimenti coraggiosi, capaci di eliminare le profonde discriminazioni che esistono ancora nel nostro Paese» ha detto la portavoce di Fli, Giulia Bongiorno. NUOVA CIVILTÀ - «Finalmente, dopo anni di discussione, è stata approvata una legge che costituisce un importante punto di innovazione: non esistono più i figli con aggettivi, cioè legittimi o naturali, ma i figli sono tutti uguali. È una nuova civiltà giuridica. Questo è uno di quei passi in avanti che fanno entrare il nostro Paese in un’altra epoca storica». ha affermato la senatrice Pd Vittoria Franco. BAMBINI TUTTI UGUALI - «La parentela è il vincolo tra le persone - dice la legge - che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione sia all’interno del


matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo». Il figlio «nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto» dalla madre e dal padre «anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento» e il riconoscimento «può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente». La legge riconosce ai figli naturali un vincolo di parentela con tutti i parenti e non solo con i genitori. Il che significa che in caso di morte dei genitori può essere affidato ai nonni e non dato in adozione come accade oggi. Inoltre questa parificazione ha conseguenze anche ai fini ereditari. DIRITTI E DOVERI DEI FIGLI - «Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore (che ha compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento) ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. In tutti gli articoli del Codice le parole figli legittimi e figli naturali sono sostituite semplicemente da figli.

DELEGHE AL GOVERNO - La revisione di alcune delle norme in materia viene affidata a una delega al governo da attuare entro un anno. Per questo è stata già istituita dal ministro Andrea Riccardi una commissione ad hoc guida dal professor Cesare Massimo Bianca che metterà a punto le norme di attuazione. Uno dei decreti attuativi riguarderà la disciplina delle successioni e delle donazioni, ai fini dell’eredità . I decreti di delega si occuperanno anche di prova della filiazione, presunzione di paternità del marito, azioni di riconoscimento e disconoscimento dei figli, dichiarazione dello stato di adottabilità FIGLI NATI DA INCESTO - Sul delicato tema dei bimbi nati da persone legate da vincolo di parentela (fino al secondo grado) viene riformulato l’art. 251 del codice civile e ampliata la possibilità di riconoscimento dei figli nati da queste relazioni. La scelta ha sollevato la protesta dell’Udc e in particolare di Paola Binetti secondo la quale «è stato sdoganato l’incesto». FIGLI CONTESI, DECIDE TRIBUNALE DI COMPETENZA: in base ad un’altra modifica del Senato, in caso di controversie tra i genitori, dei procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli si

occuperà, d’ora in avanti, il Tribunale ordinario. Fonte: corriere.it INFANZIA, AL VIA PROTOCOLLO INTESA FRA AUTORITÀ GARANTE E POLIZIA “Alla presenza del ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, del Capo della Polizia, Antonio Manganelli, e del Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Vincenzo Spadafora, oggi verrà sottoscritto, il Protocollo d’Intesa tra il Ministero dell’Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza e Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza. Il Protocollo è finalizzato a rafforzare l’attività di prevenzione e repressione dei fenomeni di abuso di cui sono vittime i cittadini di minore età e sarà un’opportunità per incrementare il già stretto rapporto di collaborazione tra il Ministero dell’Interno e l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza. Da entrambe le parti c’è la volontà di individuare, insieme, sempre migliori prassi al fine di rendere omogenei sul territorio nazionale i metodi usati per approfondire le problematiche relative ai minori. Siano essi autori, vittime o testimoni”. Così in una nota il ministero dell’Interno. Fonte: repubblica.it

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