Adozioni e dintorni - GSD Informa ottobre 2012

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - maggio 2012 - anno II, n. 8

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ottobre 2012 | II, 8 Adozione e dintorni GSD informa - mensile - maggio 2012 - anno II, n. 8

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Intervista a F. Menil

GSD informa

di Simone Berti

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editoriale

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L’adolescente e i suoi genitori di Donatella Lisciotto

psicologia e adozione

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25 - 9 = 16 di Marta e Alberto Papà ora tocca a me di Paolo Faccini 13 maggio 2012 di Rosellina Epifanio leggendo

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Il catalogo dei genitori (terza puntata) di Marina Zulian Essere e avere figli. Avere e essere genitori di Stefania Lorenzini

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Intervista a Francesco Menillo di Luigi Bulotta Il diritto di conoscere le proprie origini di Emilia Rosati Adozione e successione di Angelamaria Serpico

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trentagiorni

sociale e legale

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@ genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maria Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pea Maccioni, Lecce

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Ilaria Nasini, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Mariagloria Lapegna, Napoli; Paola Di Prima, Monza; Simone Sbaraglia, Roma; Diana Giallonardo, L’Aquila; Raffaella Ceci, Monza.

abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


editoriale

di Simone Berti

Avere stomaco

Siamo stati questo mese involontari testimoni di storie dolorose di bambini contesi. Storie di famiglie a pezzi e vite di ragazzi calpestate dalle ragioni fragili di adulti confusi. Sulla stampa e in video, come sempre indifferenti alle continue violazioni della carta di Treviso, sono apparsi numerosi articoli e servizi che hanno gridato la violenza subita e i diritti ignorati dei minori protagonisti. Ancora una volta, diritti che vengono reclamati attraverso l’avidità guardona e pruriginosa di una società che abitiamo troppo spesso passando il tempo ad ammirare gli orrori altrui per non pensare alle fragilità che ci appartengono. Ognuno ha potuto vedere e schierarsi, continuando a gridare le ragioni dell’uno contro quelle di un altro, tutte ragioni di adulti, parenti, poliziotti, giornalisti, magistrati supportati da teorie psicologiche, motivazioni legali, diagnosi mediche. A ciascuno la propria ragione e il proprio specialista. Ciascun adulto coinvolto ha rivendicato di agire nel supremo interesse del bambino, ma nessuno ha potuto evitare che questo interesse trovasse la sua applicazione in scene di bambine imbarcate a forza su un aereo, mentre una madre urla il proprio strazio che le figlie non potranno ignorare, o di un bambino caricato a forza da un padre e un poliziotto, come un capretto è stato scritto, rivendicato anche qui dalle urla di altri parenti armati di video, perché tutto il dolore si trasformasse presto in pubblico scandalo. Ogni preteso diritto del minore si è subito impastato delle ragioni dell’adulto, delle motivazioni dello specialista, della regia di una telecamera che lo doveva rendere oggettivo, assoluto. Dove si è smarrito in queste storie il diritto del bambino? Come sarà possibile recuperarlo? Viene da pensare a quel piccolo paziente che, rivolgendosi a un noto psicanalista, affermava: “Per favore dottore, alla mamma fa male il mio stomaco”.


Troppo spesso, infatti, i bambini sono chiamati ad assumersi il compito di riparare guai e sensi di colpa dei genitori e non possono evitare di sentirsene responsabili. A volte per un genitore può essere pesante, addirittura schiacciante, reggere il peso della propria libertà e del proprio egoismo. Siamo noi adulti che dobbiamo cominciare a chiarire le nostre ragioni, assumerci la responsabilità di mettere in gioco il nostro di stomaco, per non permettere più che i nostri figli si convincano che sia il loro a farci male. Mostrarlo, anche spiegarlo, se possibile, e cessare di ostinarsi a tenerlo al riparo nascosto dalle nostre paure. Ma per questo occorre, appunto, avere stomaco. Un attento magistrato come Fadiga ha fatto notare come il bambino, nel linguaggio giuridico, è totalmente sconosciuto, lo pensiamo come figlio o minore. Il diritto non lo pensa mai come soggetto autonomo, ma in una relazione o attraverso una comparazione: in entrambi i casi sminuenti per lui e per la propria soggettività. Così, come in un procedimento legale non si richiede quasi mai l’ascolto che prevede l’attenzione e dare retta, ma sempre il sentire il minore, che è sicuramente un passaggio più passivo e quasi esclusivamente formale. Spesso ci dimentichiamo che non è solo la difficoltà ad ascoltare un bambino, ma anche la disattenzione che riponiamo nell’aiutare il bambino a capire quello che sta succedendo a noi e agli altri adulti che gli sono accanto. Sostenerlo nel fare un piccolo ordine nei propri sentimenti e nei legami con le persone che ha intorno. Per parlare insieme occorre trovare un piano su cui è possibile dialogare, un punto che vada incontro. Dove ci si possa mettere di fronte, guardarsi e riconoscersi nella propria differenza. Non confondersi, appunto, in una melma che nasconda tutti. Abbassarsi, se occorre arrivare a quelle orecchie, o spostarsi se l’altro non può arrivare fino a noi. Nelle stanze chiuse dove ognuno consuma le proprie ra-


gioni non c’è comunicazione, il luogo che comunica a volte è un posto di non appartenenza, a volte è lì che occorre incontrarsi, nei corridoi, nelle stanze di passaggio che non appartengono a nessuno, ma dove forse per questo è possibile ascoltarsi, raccontare vicendevolmente le proprie storie, in cui non esistono ragioni dei forti e dei deboli e neanche argomenti più forti e più deboli, ma dove sia possibile sostare insieme a guardare e ascoltare la fragilità della vita che appartiene a ciascuno di noi. Noi, che abbiamo a cuore il destino dei figli e delle coppie che si incontreranno per adozione, dobbiamo sapere quanto difficile sia tenere le ragioni dei bambini che coraggiosamente ci verranno incontro al riparo dalle motivazioni e i diritti di noi adulti che a volte maldestramente gettiamo involontariamente loro contro perché riusciamo solo a urlare. Dobbiamo avere riguardo per la comunicazione che riusciamo a creare tra di noi e con tutti gli attori che partecipano a questo delicatissimo intervento che è l’adozione. Potremmo arrivare a spogliarci delle diffidenze e dei pregiudizi, per ascoltare davvero, nelle ragioni di tutti, quanto difficile e fragile sia la creazione di una famiglia adottiva e per dedicargli la cura che richiede? Questo è una riflessione sempre aperta per Adozione e dintorni. Buona lettura.

© simone berti



psicologia psicologiaeeadozione adozione 8

L’adolescente e i suoi genitori

Non vorrei parlare di adolescenza come farebbe un tecnico, piuttosto mi sforzerò di pensare ai limiti dell’adulto, quelli che lo allontanano dalla comprensione del meccanismo dell’adolescente, un meccanismo che si è archiviato una volta “cresciuti”, fino a dimenticarcene il linguaggio e le regole. Spesso, infatti, la difficoltà che si incontra con l’adolescente è data dal fatto che ci troviamo ad un altro livello, lontanissimi da lui, dalla visione che ha del mondo, dalle sue paure e dalle sue passioni e, per di più, imprigionati nel ruolo di educatori, non sappiamo ascoltarlo. Per non essere un problema per il ragazzo, l’adolescenza, innanzitutto, non dev’essere un problema per il genitore.

La richiesta che proviene dai genitori di comprendere il figlio divenuto adolescente è, allora, l’esigenza di comprendere, piuttosto, le proprie difficoltà nel rapporto con lui. Proprio la difficoltà di “capirlo” ci può rendere aspri, astiosi, perché sentiamo che le nostre risorse educative vengono messe fortemente in discussione e allora diventiamo aggressivi, rancorosi e la delusione derivante dal fatto che l’impresa educativa non viene più riconosciuta e rispettata dall’adolescente, come quando era bambino, viene vissuta come un “tradimento”. A volte sembra che il genitore, a fronte dei comportamenti del figlio adolescente, ponga in essere atteggiamenti che lo spingono all’adozione di uno

stile infantile piuttosto che rivestirsi di autorevolezza. (“Perché non ubbidisci! Mi devi ubbidire, subito! Ubbidiscimi!”). Questo sentimento “passa” a lui, in maniera subliminale, facendogli sentire un’estraneità che lo allontana sempre di più. Davvero finisce per sentirsi alieno e adotta atteggiamenti alienanti. La cosa più triste che può capitare è sentire il nostro bambino diventare un estraneo e, per lui, sentire che il suo premuroso genitore diventi estraneo a sé, lontano e sadico. Intanto dico subito che non faccio distinzione tra “adolescente” e “adolescenteadottato”: il bambino che è stato adottato diviene adolescente come tutti gli adolescenti. Sembra una banale semplificazione ma non lo è.


Le regole del gioco sono le stesse; anzi, a volte, indugiare sul suo passato (l’abbandono, l’istituzionalizzazione, le deprivazioni, gli abusi, ecc.), può impedire di vedere la sua attualità, confermandogli, inconsciamente, la non-appartenenza alla famiglia, all’attuale realtà. Si mantiene, in questo modo, nella famiglia un’area un scissa in cui insiste l’antica storia del bambino, (l’”abbandonatoadottato”), e l’identità dei genitori risulta viziata (i “genitori adottivi”). Allora succede che piuttosto che entrare in relazione, i due genitori con il loro bambino, entrano in relazione i “genitori adottivi” col bambino “adottato”, cioè il bambino assume in sé l’identità dell’”adottato”, che supera quella dell’essere semplicemente un bambino; i genitori, ugualmen-

te, assumono l’identità di “genitori adottivi”, identità che occupa il posto di quella che comporta essere semplicemente genitori. In questa sede mi sembra di primaria importanza riuscire a scardinare queste posizioni che sono, perlopiù, posizioni soprattutto interne e, in quanto tali, difficili da scalfire, sebbene la consapevolezza, lo svelamento di esse sia già un passo in avanti verso la risoluzione. L’adozione, in qualche misura, può porsi tra il genitore e il bambino, ostacolando la loro unità e mantenendo l’esistenza di due entità separate, poiché non hanno potuto condividere il momento primario del legame. Se è vero che il modo in cui si è vissuta l’infanzia ricade sul modo di vivere l’adolescenza, è anche

vero che il modo di vivere l’adolescenza si rifletterà sul futuro dell’adolescente, quindi è importante attualizzare l’adolescenza, cioè viverla (da parte dei genitori) e farla vivere (al ragazzo) con le inferenze del presente e non del passato, alla luce delle dinamiche attuali e non di quelle antiche, che, ci piaccia o no, appartengono ad un’altra epoca, sono superate e, del resto, noi non ne facevamo parte, non c’eravamo. Bisogna “preoccuparsi” piuttosto del clima familiare attuale e quali siano le proiezioni che vi insistono (dei genitori, della coppia, dei figli, dei nonni, della nuova storia familiare). L’adolescente è un individuo di passaggio. Egli si trova nella difficile condizione di lasciare “la via vecchia per la nuova”.

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L’adolescenza è, infatti, uno snodo esistenziale, un crocevia dove tutto ciò che ci ha concesso di vivere in modo stabile prima non va più bene, decade; le certezze, le emozioni e persino talune percezioni di se’ stessi e del mondo, non sono più le stesse, quelle conosciute, collaudate e che davano stabilità. Si perde qualcosa di molto importante che ha istituito l’individuo sino a quel momento, si perde la condizione infantile. A guastare il gioco sono i cambiamenti interni ed esterni del corpo, le pulsioni. L’adolescente è scosso, è abitato da un subbuglio vulcanico che lo rende insicuro, ansioso e instabile. E’ triste ed eccitato, ritirato e grandioso, a secondo se si sta misurando con la pena per la rinunzia infantile o con l’ebbrezza di un più cospicuo vigore, l’adultità. Nonostante l’età avanzi, non vorrei tornare adolescente, perché gli sforzi che si fanno per superare questo delicato periodo sono davvero impegnativi e mi sono convinta che l’adolescente affronti e riesca ad andare oltre solo perché aiutato dalla spinta naturale e propulsiva, tipica della sopravvivenza, del procedere, dell’andare avanti e raggiungere “al-

tre”, sconosciute piattaforme. L’adolescente viene, più o meno improvvisamente, o anche con una gradualità che può essere avvertita come allarmante, investito da una quantità di stimoli nuovi e trasformazioni corporee evidenti, che lo deprimono e lo eccitano allo stesso tempo. Il menarca nelle bambine, il cambiamento di voce nei bambini, l’apparizione dei bottoncini mammari e l’aumento delle dimensioni del pene, i bei faccini diventano, dalla sera alla mattina, brufolosi e purulenti, e, come se non bastasse… la comparsa dei peli! Una trasformazione che sa’ di trasfigurazione. Ricordo una bambina di appena dieci anni che alla comparsa delle sue prime mestruazioni impallidì e chiese con disarmante candore: “E ora che mi succede, muoio?”. In effetti, non si sbagliava più di tanto, perché l’inizio dell’adolescenza è avvertito come la perdita, senza appello (proprio come un morire), dell’infanzia con tutte le sue comodità e privilegi, ma, di più, è la perdita di un’identità. Abbandonare l’infanzia significa che una parte di noi perde questa identità; è il primo segnale che l’adolescente sente proviene dal suo in-

terno, non può far finta di niente, lo sente inequivocabilmente, in un misto di eccitazione e smarrimento, lo sente perché gli viene richiesto da se stesso (nuove pulsioni, nuove sensazioni fisiche) prima che dal mondo esterno. In questo periodo, allora, può apparire uno stato mentale come di malinconia che è una nostalgia per quello che se ne sta andando, l’infanzia. L’ambiente a volte non aiuta l’adolescente nell’impegno di superare l’infanzia; anzi, spesso, le richieste dell’ambiente diventano invadenti, più pressanti ed esigenti proprio perché non allineate al turbamento interno dell’adolescente (studia, non stare sempre lì a giocare, non mangiare tutta quella cioccolata, ingrassi e ti si cariano i denti, sbrigati, arriverai tardi a scuola, fai sempre sciocchezze, non cresci mai, è una settimana che non ti fai una doccia, ecc., ecc.). A tutto questo l’adolescente risponde con delle performance che stressano ancor più i genitori (“non ti riconosco più!”). Il suo rinchiudersi nella stanza, il non partecipare più come una volta in seno alla famiglia, la sua trasandatezza, la scelta di un’amica del cuore, la trasgressione, sono segnali


della presenza di un’apatia depressiva e del bisogno di consolazione, di conforto, da un lato e, dall’altro, rispondono al tentativo di soggettivarsi, cioè diventare “soggetti” separati dai modelli di riferimento che fino a quel momento amavano e ricercavano. (Un ragazzo, un liceale, una volta mi disse che si sentiva fortemente irritato da un preciso atteggiamento della madre. Gli chiesi quale fosse. “Quando torno da scuola mi fa trovare sempre l’ovetto kinder, non lo sopporto, ….non sono più un bambino!”). A questi atteggiamenti, spesso, l’adulto risponde rincarando la dose, nel tentativo di scuotere il ragazzo piuttosto che interagire con rispetto. Insomma, è come dire a chi si è ustionato di stare sotto al sole. A questo proposito riporto un caso significativo. I genitori rimproverano il figlio diciottenne per una sua defaillance. Si sentono soddisfatti della loro funzione educativa: “Una buona strigliata ogni tanto ci vuole”- si dicono. Il giorno successivo, la figlia (anch’essa adolescente), fa presente ai genitori di essere stati “troppo

duri” col ragazzo; allora la madre dice “lo abbiamo voluto scuotere”. E la figlia: “lui non ha bisogno di essere scosso, è già scosso di suo, anzi è in subbuglio“. Questo è un semplice esempio di come si sbaglia con un figlio adolescente, pur pensando di fare il suo bene, e di come l’ascolto (le parole della ragazza) fa “vedere” ciò che l’emergenza educativa oscura. Voglio dire che, presi dal compito di normare, guidare, organizzare, spesso

l’adulto non ascolta ciò di cui ha più bisogno l’adolescente. In questo caso la madre è stata aiutata dalle parole della figlia, più vicina al ragazzo per età e stato mentale. Devo aggiungere, infatti, che la trasformazione a carico degli adolescenti, colpisce anche i genitori degli adolescenti che, spesso si trasformano essi stessi da essere amabili e comprensivi a spietati critici, spesso, umiliando e mortificando i propri figli. Questa posizione la si può

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mettere in relazione con la delusione propria dei genitori che, a loro volta, sono impegnati a lasciare andare con e attraverso l’infanzia del loro bambino, anche la loro infanzia o il loro essere infanti, infantili, contemporaneamente sono costretti ad affrontare un periodo che li pone in una condizione nuova, mai sperimentata e sicuramente più difficile della prima. Mi è capitato spesso di incontrare, dopo anni, i genitori dei compagni di asilo o delle scuole elementari dei miei figli e, chiedendo notizie dei loro figli, di imbattermi in una posizione da parte loro molto delusa e critica, come se stessero parlando di un “altro” figlio (“non me ne parlare, non ne posso più…combina solo guai, quello…”). Allora mi sono chiesta: “ma che fine ha fatto Alberto? E Luigi? Come è potuto diventare “quello”? Che cosa ha potuto trasformare il sentimento di smisurato amore materno in una critica così spietata?”. Non si è genitori nello stesso modo, non c’è cioè un essere genitore per tutti i tempi e per tutti i ragazzi. Essere genitore di un bambino neonato è diverso che esserlo di un bambino che va a scuola e lo è ancora di più quando questo bambino diventa adolescente.

Essere alle prese con un bambino che fa i capricci perché vuole l’ennesima fetta di pane e nutella non è la stessa cosa che gestire un adolescente che torna ogni notte alle quattro del mattino. E’ per l’adulto una messa alla prova molto difficile. Allora, quando parliamo di adolescenza non dobbiamo pensare solo all’adolescente fine a se stesso, come se fossero solo “fatti suoi”, quanto a tutto un processo che interessa l’intero gruppo famigliare; il genitore dell’adolescente è anch’esso, di striscio, impegnato ad affrontare, di nuovo, la sua adolescenza, e siamo fortunati se esso (il genitore) se l’è vissuta la propria adolescenza, altrimenti non sarà ben equipaggiato a superare quella del figlio. Non è raro, infatti, assistere a manifestazioni regressive dell’adulto di fronte alla crescita del figlio. L’adolescenza del proprio figlio scandisce il tempo che trascorre, posizioni, interne ed esterne, che si devono abbandonare, passaggi, superamenti di stati mentali ed emotivi; tutto ciò comporta, per chi non ha accettato a tempo debito il proprio cambiamento adolescenziale, cioè non è riuscito a mollare lo stato mentale di sicurezza di cui ha goduto nella pro-

pria infanzia, un tornare indietro, come a voler restare agganciati a un tempo giovanile che se ne sta andando. In questo caso si è soliti dire “non ha fatto il lutto, non ha elaborato”. L’adolescente, allora, funziona per il genitore come un impietoso specchio che rimanda il nuovo stato che molti di noi non sono pronti ad accogliere poiché si sono fermati ad una data fase del loro sviluppo emotivo, anche se nella scena sociale sono, di fatto, diventati professori, avvocati, politici, premier (!) E poi c’è l’invidia. Sì anche tra genitori e figli scatta l’invidia. Siamo abituati di solito a pensare che siano i figli ad invidiare i genitori, gli adulti, ma invertiamo l’immagine e ci accorgiamo che anche gli adulti invidiano gli adolescenti; invidiano la loro giovinezza, il tempo che hanno a disposizione, la possibilità di fare “cazzate” e di essere perdonati, la bellezza, la freschezza della carne, la potenza fisica e sessuale, le relazioni promiscue, la libertà. Naturalmente tutto ciò viene sofferto di più da quegli adulti che, appunto, non hanno “fatto” la loro adolescenza o che non si sono ancora decisi ad uscirne, entrando così in competizione col proprio figlio adolescente.


Non è raro il caso di coppie che si rompono durante l’adolescenza dei figli o che incappano nella cosiddetta “infatuazione” spesso per partner molto più giovani (questo è soprattutto vero per l’uomo solo perché pesano tuttora statuti sociali e culturali, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe molto lontano da qui). E della madre che si gonfia di botulino, ne vogliamo parlare? Di fronte alla freschezza e alla giovinezza della figlia, alla sua seduttività, sembra che la donna non possa sopravvivere al panico dei segni sul suo viso o si senta inconsciamente derubata dalla figlia che si propone sulla scena a suo detrimento. A volte succede che la difficoltà della madre di accettare i “raggiunti limiti di età”, diciamo, porti la donna a rafforzare un’alleanza inconscia con la parte femminile e seduttiva della figlia adolescente, provocando delle forzature che inclinano la ragazza ad adottare atteggiamenti esageratamente seduttivi, come se la figlia si sentisse inconsciamente autorizzata dalla madre, o meglio dalla depressione della madre, a rappresentare oltre che il suo essere femminino anche quello della madre.

Una responsabilità non da poco. E che peso… Si sa che la preoccupazione della vecchiaia che avanza vada di pari passo con la crescita dei figli e sia strettamente legata a una condizione depressiva che l’evoluzione dei figli promuove nel genitore, laddove non è avvenuta, prima, un’adeguata elaborazione della propria adolescenza e, quindi, un sereno approdo all’età adulta. Mi accorgo di aver parlato di più del genitore dell’adolescente che dell’adolescente, ma perché credo che in molti casi essi non siano sostenuti dai genitori che, mettendosi di traverso, non li aiutano a superare questa delicata fase, così come invece lo hanno fatto durante le battaglie dell’infanzia in cui, trovare dei genitori comprensivi e accoglienti, ha spianato loro la strada. Ciò che credo sia primario è ascoltare l’adolescente, la vicinanza silenziosa. Invece accade spesso di assumere comportamenti troppo reattivi, perché il rapporto col figlio adolescente riattiva la propria adolescenza e il modo in cui siamo stati aiutati dall’ambiente a viverla e superarla, e anche perché controtransferalmente, entriamo in contatto con i dubbi e le incertezze dell’a-

dolescente stesso. E’ vero che l’adolescente ci fa confondere e ci fa sbagliare. Mi è capitato di ricevere genitori preoccupati per il figlio adolescente, ma, al colloquio col ragazzo, accorgermi che la problematica era relativa piuttosto ai genitori; non che fossero genitori inadeguati o nevrotici, affatto, si trattava piuttosto di genitori “lenti”, rimasti indietro, che non si erano voluti accorgere che il proprio bambino si stava evolvendo, stava assumendo altre forme. In molti casi ho visto tenerezza, pazienza e obiettività da parte dei ragazzi nei confronti dei loro genitori (“sono arrabbiati perché non sto più con loro come prima… perché non voglio partire con loro… accontento papà che mi vuole portare allo stadio con sé… mia madre è capricciosa come una bambina… che ci possiamo fare”); mentre al contrario prevale l’irrigidimento e la presunzione dei genitori nei confronti dei figli (“non si può continuare così… cosa si è messo in testa… è un altro… scambia la casa per un albergo… finché sta con noi deve fare quello che diciamo noi”). Parlare e rapportarsi con un adolescente è un’esperienza stupefacente e inquietante.

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Lui è un treno in corsa, un intercity. Ti sembra che si sia soffermato su un argomento, che sia fermo in una qualche riflessione e invece è già lontano, da un’altra parte, dietro ad un altro pensiero, ad un’altra impresa, e magari tu sei rimasto lì a temporeggiare, con i ritmi della pensabilità dell’adulto. Così com’è altrettanto vero che il pathos dell’adolescente è momentaneo, passeggero; una “crisi” può essere superata se arriva l’sms dell’amica. E poi, all’improvviso… un pensiero maturo, una saggezza inaspettata, dà l’idea del funzionamento dinamico, ecclettico, espanso, tipico dell’adolescente. L’adolescente sano ha un’inquietudine fisiologica, un disordine e una disorganizzazione sana, pertanto non gli si può troppo chiedere di riordinare la sua stanza, i suoi cassetti, come non si possono avere da lui delle risposte comportamentali e sentimentali ordinate, organizzate. Paradossalmente un adolescente che riordina con meticolosità la sua stanza, la sua libreria, il suo zaino, dà da pensare; questo

comportamento potrebbe rispondere alla difficoltà inconscia di tollerare la crisi adolescenziale, il suo disordine interiore, e al tentativo di mettere tutto a posto per evitare invasioni di campo (il vento pulsionale!). A quest’età è auspicabile che l’adolescente abbia reazioni aggressive piuttosto che compiacenti, che sia reattivo e polemico, che si alleni a contestare i genitori, l’istituzione familiare, perché questo gli darà, in seguito, la capacità di contestare altre organizzazioni, altre istituzioni più vaste, di essere critico perché questo ridurrà il rischio del conformismo, o che l’essere eccessivamente accondiscendente (“yesman”) lo faccia diventare oblativo e finto, maggiormente rispondente ai bisogni che la società impone piuttosto che a un suo “godimento”. Così com’è altrettanto auspicabile che possa viversi i suoi momenti di criticità, il ripiegamento in se stesso, la sua sana depressione, senza sentirsi colpevolizzato per l’allarme che scatena all’interno della famiglia; questo lo allena

ad avere la capacità di sostenere la crisi evolutiva, il disorientamento, la delusione circa promesse di vita che vanno disidealizzandosi dentro di lui e, per questo, lo rafforzano. E allora, che fare con un figlio adolescente? L’approccio da adottare potrebbe essere quello di “non creargli altri problemi” oltre a quelli che ha già dovendo affrontare l’adolescenza. Abbandonare, con parsimonia, il piglio educativo tout court a favore di un più disteso ascolto, farsi contestare serenamente, senza drammatizzare, perché, parliamoci chiaro, nella maggioranza dei casi, l’adolescente a sfangare le giornate ci riesce da solo, noi possiamo solo essere una sponda sicura e non persecutoria, né punitiva, un esempio di attesa paziente a che tutto si compia, ognuno nel rispetto e nella valorizzazione della propria origine, qualunque essa sia.

Donatella Lisciotto


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giorno dopo giorno

Marta e Alberto

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Mia cognata ha avuto tre figli. Tutti rigorosamente “bio”, uno dietro l’altro, e regolarmente partoriti nello stesso ospedale dove, casualmente, è nato anche il mio cucciolo nove anni fa da una donna che ha chiesto di non essere nominata. Per diverso tempo in quell’ospedale, su indicazione dei servizi sociali e del tribunale dei minorenni, non ci abbiamo messo piede. Ma alla nascita del terzo nipote non si poteva proprio esimersi dalla visita alla zia insieme agli altri cuginetti, senza rischiare l’incidente diplomatico… Ricordo di aver varcato il reparto maternità con mio figlio per mano: sicuramente ha avvertito la mia emozione, il battito accelerato del mio cuore. Mentre tutti salutavano il nuovo nato dal vetro della nursery, cercando improbabili somiglianze con gli

stranamente silenziosa. Sono rumorose solo le mie domande e i pensieri ambivalenti che mi abitano dentro. Si parla proprio in questi giorni nel dibattito pubblico alimentato anche dai media di rivedere la legge sui non riconoscimenti alla nascita. C’è chi vorrebbe rivedere la legge - molti figli adottivi adulti in prima fila – e dare la possibilità anche ai bambini come il mio, una volta raggiunti i 25 anni, di avere qualche notizia in più rispetto alle proprie origini. Tutelando il diritto della donna di partorire nell’anonimato, ma anche quello del figlio di poter accedere, con la giusta mediazione del tribunale e dei servizi sociali, a qualche informazione sui genitori Cambio di scena, veniamo biologici e sulle circostanad oggi. Una mattina come ze che hanno determinato tante, in cucina, a fare co- l’abbandono. lazione. La casa è ancora Provo a parlarne a mio avi in quel visetto paffuto, mi sono sentita strattonare con forza il braccio. Il mio ometto di nove anni si è fatto serio serio e mi ha detto tutto d’un fiato: “Io sono nato qui!”. Un tremito mi ha percorso. L’ho guardato negli occhi e gli ho risposto semplicemente: “Sì, è vero”. Mi è rimasta a distanza di anni una sensazione forte di quel momento, sospeso nel tempo, insieme ad un leggero capogiro, dovuto all’intuizione della sua tristezza e della mia grande responsabilità nell’accompagnarlo. Molto altro non ho potuto aggiungere, anche perché le effettive informazioni che abbiamo circa la sua nascita e il suo non riconoscimento sono pochissime.


figlio, con parole semplici (?!): ha solo nove anni, ma mi piace approfittare dell’occasione per coinvolgerlo sul tema adottivo, per sentire la sua opinione su questioni che lo riguardano. Oggi come allora, quel giorno in ospedale, sgrana gli occhi, di primo acchito un po’ spaventato dalle mie parole. Poi alza il viso dalla tazza del latte, va al lavandino a sciacquarsi le mani e infine commenta: “Se cambia la legge, non devo comunque decidere adesso cosa fare…Tra sedici anni ci penserò!”. E corre via, verso la sua giornata popolata di tante cose. Io sorrido e penso: “E’ proprio ancora un bambino… Però ci vorranno molti meno anni perché affiorino in lui mille domande sulle sue origini. Certo… nei calcoli aritmetici è veloce, proprio come suo papà!”. © maddalena di sopra

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giorno dopo giorno

Papà, ora tocca a me

(ma tu stammi sempre vicino) Adolescenza e cambiamento nel percorso familiare 18

ti. Ma si può essere pronti, maturi, di fronte al cambiamento? Se si tratta di cambiare, non si è mai pronti, sennò non è vero cambiamento! Domande, pensieri da papa, che si sciolgono in acqua…

L’adolescenza svela molti cambiamenti. Cambiano i nostri figli e, a causa loro, cambiamo noi. Siamo costretti a cambiare, e magari ci fa anche bene. Scopriamo che anche noi siamo rimasti un po’ adolescenti, non ancora pron-

Filastrocca dei mutamenti Lorsignori

Quel ghiaccio diventò un fiume

“Aiuto, sto cambiando!

d’argento

disse il ghiaccio

Non ebbe più paura di cambiare

Sto diventando acqua,

E un giorno disse: “Il sale che io

come faccio?

sento

Acqua che fugge nel suo gocciolìo!

Mi dice che sto diventando mare

Ci sono gocce, non ci sono io!”

E mare sia.

Ma il sole disse:

Perché ho capito, adesso

“Calma i tuoi pensieri

Non cambio in qualcos’altro, ma in

Il mondo cambia, sotto i raggi miei

me stesso”

Tu tieniti ben stretto a ciò che eri E poi lasciati andare a ciò che sei”

Bruno Tognolini

Mia figlia si sta trasformando, ha paura lei per prima di questa trasformazione. Noi genitori non abbiamo paura, ma ansia. Peggio. Il cambiamento è una grande ricchezza, una opportunità di crescita, un “positivo”. Ma solo sulla carta dei libri, in quanto la fatica, il dolore, la frustrazione, il senso di inadeguatezza, l’insicurezza, fanno anch’essi parte del cambiamento, e non sono affatto belli da vivere. Come riesce bene a noi genitori programmare e scandire il ritmo della famiglia. E’ un nostro compito, in fondo. Tutto il periodo dell’infanzia ci ha fatto diventare esperti, e lo siamo. Si tratta di condurre, di accompagnare, di programmare il tempo. Scuola, compiti, tempo libero, vita in casa. Corsi sportivi, attività, e poi vedersi con gli


amici (quanti più possibile), tenere i contatti (le mamme sono maestre in questo). Tenere impegnati i nostri figli, e poi impegnarci noi, perché così si aiutano i figli nel loro percorso, si sta loro a fianco in maniera discreta. Quindi Associazione Genitori a Scuola, magari Consiglio di Istituto, e poi dirigente nell’Associazione Sportiva. Cosa facciamo poi nel weekend? Una bella mostra, la presentazione di un libro per ragazzi, seguiamo le partite. Mentre il figlio cresce, il papà si trasforma piano piano in un ottimo tassista, puntuale, disponibile, corre di qua e di là e lo fa anche volentieri. Il grande spartiacque di questa attivissima azienda familiare è l’ingresso alla Scuola Superiore. Improvvisamente qualcosa si rompe. Qualche segnale

era già arrivato, ma ora esce allo scoperto. Mia figlia non si ritrova più in questo bel programma fatto da altri, non ci sta più dentro. La Scuola esige più tempo e maggiore impegno, anche lo sport richiede maggiore impegno, ma le attività sono troppe, e i tempi sono sempre gli stessi. Il buon papà è sempre pronto, con la macchina accesa, ma sempre più volte spegne i motori, perché non si parte più. La Scuola Superiore esige un impegno di livello superiore, esige che il ragazzo diventi adulto, e sappia programmare il suo studio, il suo tempo… ma che stupidi genitori, bisognava aspettare la scuola per capire una cosa così elementare? E allora i pomeriggi cambiano aspetto, il tempo diventa poco e le cose troppe. Bisogna rivedere tutta la

costruzione del castello, anzi, il castello crolla al primo vento. Ho vissuto e sto vivendo questo periodo della vita, e sto maturando insieme a mia figlia. Mi accorgo di quanto stupido sono stato, ma mi voglio bene lo stesso, so di non essere infallibile, ma di essere a volte testone, pasticcione, e cieco. Sto imparando a farmi da parte, piano piano però, perché c’è ancora grande bisogno di affetto, di coccole. Sto imparando ad essere esigente, a dare delle regole, come insegna la Scuola. Non mi riesce facile. Mia figlia invece la vedo come un’anguilla che si muove nell’acqua della vita. Intanto il linguaggio diventa criptico, difficile da capire. I segnali vengono inviati, ma il destinatario deve imparare un nuovo

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linguaggio. Ho smesso di arrabbiarmi perché non mi sono state dette le cose, sto cercando invece di imparare il Nuovo linguaggio che mia figlia usa: fatto di umori, fatto di parole buttate, fatto di scelte contraddittorie ma mai casuali. Anguilla che sguscia dalle cose che non vuole fare per andare verso quelle che ama fare. Non in maniera lucida ma confusionaria, disordinata. Si sta buttando all’aria una vita per costruirne un’altra, e tutto viene buttato all’aria in maniera schizofrenica. In questo momento l’ottimo genitore stabilisce le regole, facili da imporre fino a quando non c’è grande resistenza dall’altra parte. Ma veri scogli quando invece trovi barricate pronte a combattere contro di te. La Televisione, Facebook, il Cinema alla Domenica… l’orario per andare a dormire, l’ordine nella stanza… Ho tralasciato l’altro protagonista assoluto, la mamma, lo rimandiamo. Dico solo che il cambiamento travolge il rap© simone berti

porto di coppia, lo mette a dura prova, esige che si trasformi anch’esso. In tutto questo non ho mai parlato di adozione, perché non ne ho sentito il bisogno. Forse ora, alla fine, parlando della coppia. Credo, anzi sono convinto, che il percorso adottivo sia linfa vitale per qualunque genitore, dal quale si prende a piene mani per dipanare la vita nostra e quella dei nostri figli. Un dono inaspettato, anche questo, che nell’adolescenza diventa vera risorsa, se abbiamo il coraggio di metterci in gio-

co. Chiuderci è l’errore più grande che possiamo fare nei confronti dei nostri figli. Chiuderci nelle nostre certezze, nelle nostre idee incrollabili, nelle nostre sicurezze da adulto. Mia figlia mi dona ogni giorno la cosa più bella, che anche lei ama: la mia umanità. Paolo Faccini

© ilaria nasini

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giorno dopo giorno

13 maggio 2012

Tragitto (poco meno di tre ore) tra due località italiane 22

Torno da un incontro GSD e, dopo una trasferta di 24 ore, fra i pensieri che mi affollano la mente ce ne sono tanti che si riferiscono alla difficoltà di condividere con gli altri il senso che ha per me fare volontariato in Genitori si Diventa. Ripensando alle ultime 24 ore è superfluo affermare che, invece di andare una città così distante per partecipare all’incontro di GSD, avrei potuto fare altro. La famiglia, il lavoro, un po’ di tempo per me stessa avrebbero assorbito in maniera fluida le ore passate. Partecipare agli appuntamenti di GSD è un impegno, ma è una scelta di cui sono molto soddisfatta e di cui non mi pento mai, anche quando per farlo, devo sacrificare altri spazi e devo impormi ritmi serrati. GSD costituisce una opportunità di incontri, scambi, riflessioni. È uno spazio nel qua-

le, nella veste di volontaria, provo il piacere di dare una mano a chi ne ha bisogno, anche soltanto attraverso l’ascolto, la condivisione. Ricordo bene quando mio marito ed io eravamo nella fase iniziale dell’avventura: ricordo la ricerca di informazioni sulle procedure, la lettura di libri, la voglia di capire e interrogarsi anche attraverso l’ascolto di esperienze. Nel ’97 per noi era molto forte l’esigenza di capire come districarsi nella giungla del “fai da te” delle AI. Sentivamo la necessità di sondare tutti gli aspetti per essere sicuri che l’etica dell’adozione fosse assolutamente rispettata. Gli incontri con persone che “sapevano” erano preziosi e rari. Conversare con coppie che avevano già adottato e anche con gli operatori, tutto costituiva uno spunto per pensare in maniera più reale a quello che ci sembrava

un traguardo lontano. In realtà vivevamo anche il nostro percorso di crescita verso il divenire genitori come una attività “fai da te”. Quando sono entrata in GSD, è stata da subito una spinta di volontariato, io ero già madre per la seconda volta; ero stata fortunata negli incontri, ero stata fortunata ad essere in grado con mio marito di affrontare i momenti bui, oltre che oltremodo fortunata ad aver coronato il desiderio di diventare madre con l’arrivo di due splendidi figli. La mia storia mi aveva fatto maturare esperienze e riflessioni, volevo metterle a disposizione di chi volesse, a prescindere da legami di conoscenza personale diretta o indiretta. Questo è il motivo cardine per cui ho deciso di aderire a GSD, volevo contribuire a creare e alimentare uno spazio di incontro nel mio


territorio, libero da vincoli e aperto a tutti; uno spazio nel quale potersi incontrare, scambiare idee e parlare ascoltando punti di vista molteplici in assenza di situazioni di giudizio. Stare dentro GSD mi ha consentito un volontariato attivo imperniato intorno alla cultura dell’accoglienza, dell’accettazione, temi che da sempre mi hanno appassionato, ma sollecita in me anche emozioni personali, generando la sensazione di commistioni tra “lavoro” e vita privata. Non sempre ciò è facile ma mi dà una sensazione di grande arricchimento. Essere in GSD dà l’opportunità di incontri con persone che condividono una visione della vita ed una sensibilità comune verso certi temi. Sembra scontato (anche se non lo è per niente) ma nell’associazione ho stretto amicizie profonde che, nate sull’esperienza comune dell’essere genitori adottivi, si irradiano a 360 gradi su vari fronti. Ieri provavo a spiegare tutto ciò a chi stentava ad immaginare che fossi ad un incontro di GSD a tre ore da casa in un sabato pomeriggio, solo in veste di madre non in qualità di operatrice presente per lavoro. D’altra parte, qualche giorno prima mi ero trovata in una situazione simile, an-

che se per certi versi opposta, quando una persona mi aveva chiesto se il mio impegno in GSD fosse collegato indirettamente ad una sensazione di “atipicità” permanente. La domanda era molto significativa e diretta: “Quando si finisce di essere genitori adottivi e ci si sente genitori e basta?”. Ebbene, io ho una certezza: dal primo momento in cui ho avuto i miei figli, mi sono sentita madre e basta. L’attributo “adottivo”, che forse qualcuno ancora collega a noi e ai nostri figli, è per me e mio marito un termine letterale senza significato concreto.

L’adozione non è un “problema” e sicuramente non la vivo come tale; essere genitori e figli adottivi non fa delle famiglie adottive una categoria, meno che mai una categoria in difficoltà; alcune esperienze però, indubbiamente, accomunano le nostre famiglie e condividerle può essere di supporto oltre che piacevole nel nostro divenire genitori. Credo che ciò definisca cosa non è per me l’appartenenza a GSD: non è una scelta dovuta ad una sensazione di differenza rispetto ad altri.

Rosellina Epifanio

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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Il catalogo dei genitori 3 24

Il libro delle famiglie è un albo illustrato del Battello a Vapore molto particolare, con colori forti nel classico e riconoscibilissimo stile di Todd Parr. Come si può evincere dal titolo il libro parla di famiglie, genitori e figli, ma anche di diversità, complessità e possibilità. L’autore scrive una speciale dedica:”Alla mia famiglia che qualche volta non mi ha capito, ma mi ha incoraggiato comunque a inseguire i miei sogni anche quando non li condivideva; E adesso capisco che per farlo, ci vuole un sacco d’amore”. In effetti la famiglia è spesso un punto di riferimento che a volte critica, a volte sostiene e altre volte non condivide. Sarebbe bello che tutte le famiglie, come quella di Todd Parr, incoraggiassero comunque a portare avanti i propri ideali e le proprie convinzioni. Ma purtroppo non è sempre

a

così! In ogni pagina colorata si trovano poche parole e semplici illustrazioni esemplificative: nella prima scena Parr scrive che Alcune famiglie sono grandi e disegna tanti coniglietti di varie misure e nella seconda scrive Alcune famiglie sono piccole e disegna un papà con la carrozzina e un unico figlioletto. E così via: Alcune famiglie sono dello stesso colore. Altre sono di colori diversi. Tutte le famiglie amano abbracciarsi. In alcune famiglie si vive vicini. In altre si vive lontani. In alcune famiglie ci si assomiglia tutti. Alcune famiglie assomigliano ai loro animali. Tutte le famiglie sono tristi quando perdono qualcuno che amano. In alcune famiglie i fratelli hanno mamme e papà di-

puntata versi. Alcune famiglie adottano dei bambini. Alcune famiglie hanno due mamme e due papà. Altre hanno un solo genitore invece di due. Tutte le famiglie amano festeggiare insieme i momenti speciali. In alcune famiglie tutti mangiano le stesse cose. In altre tutti mangiano cose diverse. Alcune famiglie sono tranquille. Altre rumorose. Questo libro viene presentato come un semplice e giocoso aiuto ai genitori che desiderino far capire ai bambini il valore delle differenze. Effettivamente ci sono tantissimi modi di essere una famiglia e sfogliando questo libro se ne possono scoprire tanti. Molto interessante è che, tra le pagine che elencano le differenze, ci sia ogni tanto una pagina che


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racconta una similitudine importante: a tutte le famiglie piacciono gli abbracci, in tutte le famiglie si soffre se accade qualcosa di triste e si è allegri e si festeggia per un evento lieto. Il messaggio al bambino è che in fondo tutte le famiglie, pur nelle loro diversità, sono accomunate nei sentimenti. Il messaggio è sicuramente rassicurante per il bambino che ha bisogno di sentirsi sicuro, ma ad una lettura più approfondita può risultare a volte un po’ utopistico e stereotipato. In generale non amo troppo gli illustratori che usano colori così forti e segni così netti; spesso penso alla complessità delle diverse situazioni, alle sfumature che sono sostanziali e a come sia difficile rappresentarle in questo genere di libri. Tuttavia apprezzo lo sforzo per dare sicurezza ai bambini, insegnando loro che posso-

no considerare le differenze senza paure o ansie poiché non sono sinonimo di mancanza ma di ricchezza. Il libro è consigliato per bambini dalla scuola d’infanzia, ma come spesso accade, può essere uno spunto di discussione anche con bambini molto più grandi. Un altro aspetto interessante, emerso durante la lettura di questo libro con un gruppo di bambini di 4 anni, è che spesso i bambini pensano che ciò che accade con i loro genitori e nella loro famiglia, accada anche in tutte le altre. In particolare una bambina che vive con i genitori e la nonna ha esclamato: ”Ma come?! Non c’è in tutte le famiglie una nonna che vive nella stessa casa con mamma papà e nipoti?” Normalità e diversità sono quindi concepiti dai bambini in modo diverso rispetto a noi adulti; importante è

che i bambini capiscano che in ogni famiglia ci possono essere delle differenze, ma che per questo una famiglia non sia meno importante o bella di un’altra. Ci sono molte ricerche e molti studi sulle diverse tipologie di genitori e di famiglie: monogenitoriali, nucleari o plurinucleari, monoetniche o differenti per appartenenza etnica. Ci sono pluralità di forme e modelli familiari e genitoriali con famiglie miste, con famiglie di differente provenienza geografica, famiglie autoctone, ecc. Indipendentemente dal tipo, non sempre la genitorialità viene però espressa come capacità di provvedere all’altro, di conoscerne il funzionamento, di entrare in risonanza affettiva con l’altro. Non sempre la famiglia, la coppia genitoriale riesce a provvedere alla protezione e all’accudimen-

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to dei più piccoli. In questo senso è bello il forte richiamo alla necessità di supportarsi vicendevolmente all’interno dei nuclei famigliari con cui il libro termina; l’autore dedica le ultime due pagine a quella che definisce una cosa che unisce tutte le famiglie del mondo: In tutte le famiglie, l’unione fa la forza!

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Anche in molti altri libri per l’infanzia, viene evidenziato come il punto di vista dei bambini sia molto diverso da quello dei genitori. In Per fortuna c’è la mamma il bambino si chiede “Cosa farà la mamma mentre io sono all’asilo? come farò a sconfiggere il buio, il freddo, gli orchi mostruosi che mi fanno paura? Ho anche tanta fame e dovrei andare in bagno ... Dov’è la mia mamma? Mammaaa!”. “La mia mamma sa fare cose straordinarie. La mia mamma mi cuce vestiti bellissimi. La mamma inventa storie avventurose”. La giornata della mamma vista dagli occhi di un bambino durante una normale, lunghissima giornata dalla sveglia all’asilo, dalla cena alla nanna è molto diversa da quella che effettivamente vive la mamma. E come il titolo ci fa intuire, anche in Mentre la mamma è al lavoro di Silvia Teodosi si

affronta lo stesso argomento. Leggendo queste pagine insieme al proprio figlio si può cogliere l’occasione per confrontare le situazioni di fantasia con quelle reali. È difficile per un bambino capire cosa fa la mamma tutto il giorno senza di lui. La mamma dice Vado al lavoro, ma cosa sarà veramente questo lavoro? e soprattutto cosa farà la mamma mentre è al lavoro? In modo semplice e diretto il libro racconta la giornata tipo di Mia, una bambina che va all’asilo e della sua mamma mentre è al lavoro. Il confronto è immediato perché in ogni pagina si illustra in parallelo cosa fa la piccola Mia da quando entra all’asilo a quando esce e quello che fa la sua mamma dal momento in cui arriva in ufficio a quando va a prendere la sua piccola al pomeriggio: mentre Mia fa la merenda la sua mamma prende un caffè, mentre Mia fa un riposino, la mamma vorrebbe riposarsi ma continua a lavorare. Come ultimo libro dedicato ai più piccoli, forse politicamente scorretto e spudoratamente dalla parte delle mamme, e non dei papà, consiglio Scacciabua. Nelle prime pagine si parla del Superpapà che porta il suo bambino sulle spalle in

mezzo alla neve, che quando il bambino gioca, corre o salta e sfortunatamente cade e si fa la bua, arriva il superpapà di corsa, gli dà un bacino e immediatamente la bua sparisce. Quando i nostri bambini cadono, il primo e fondamentale metodo per rassicurarli è quello di guarire la bua con un bacino. Il valore altamente terapeutico dell’affetto è davvero reale, i bambini ci sorridono incoraggiati e ricominciano a correre e a cadere. Il nostro papà Scacciabua è quindi un supereroe risucchiatore di piccoli inciampi. Ma che cosa succede quando il nostro supereroe dimostra tutti i suoi limiti, cadendo rocambolescamente nel tentativo di salvare il figlio? Un giorno infatti una brutta caduta dalle scale ha fatto piangere il cucciolo. Il Superpapà è subito corso per compiere la sua missione di Scacciabua, ma patapunfete, sulle scale è inciampato anche lui. Ma allora anche i Superpapà si fanno la bua? E chi scaccia adesso la superbua? Meno male che c’è la Supermamma! Anche in questo caso il punto di vista dei bambini è molto diverso da quello degli adulti. Agli occhi del


bambino il papà è perfetto e sa sempre come affrontare la situazione; nel momento della rovinosa caduta del papà, il bambino si rende conto però che i genitori sono tutt’altro che capaci di fare ogni cosa e che anche loro a volte hanno bisogno di qualcun altro che li aiuti. Segnalo anche una lunga e completa bibliografia tratta dal Database di Liber e intitolata Di mamme ce n’è una sola? Nella premessa si descrivono mamme perplesse, stanche, schiacciate dal peso di una responsabilità nuova e sconosciuta, dolorosamente combattute tra istinto protettivo e aggressività. Dai libri della bibliografia emerge un ritratto delle mamme dei nostri giorni, perennemente divise tra l’idillio e la lotta nel rapporto con il proprio bambino e le sue incessanti pretese. Vengono proposte testi di vario genere rivolti a bambini e ragazzi che hanno come protagoniste figure di madri. Quasi per riscattare l’immagine dei papà, presento questo meraviglioso libro per ragazzi e, oserei dire anche per adulti. Si tratta del dolce e coinvolgente The frozen boy del bravissimo Guido Sgardoli. Racconta la storia del dottor Robert Warren, uomo e papà di-

strutto dal rimorso e dai sensi di colpa. Con le sue ricerche ha contribuito alla realizzazione delle bombe che hanno raso al suolo Hiroshima e Nagasaki, e per queste esplosioni nucleari suo figlio è morto. Dopo un matrimonio naufragato, la morte del figlio, la solitudine per aver dedicato tutta la vita esclusivamente agli studi e alla ricerca, si trasferisce in Groenlandia in una stazione scientifica isolata tra i ghiacci. Abbandonata la base militare e avventuratosi tra i ghiacci con l’intenzione di farla finita, si imbatte in qualcosa di totalmente inaspettato. Proprio quando la speranza sembra abbandonarlo, un evento a cui la scienza non sa dare un nome né una giustificazione, cambia per sempre la sua vita. Prima di lanciarsi dalla scogliera, viene distratto e salvato da un bagliore metallico, proveniente da qualcosa incastrato nel ghiaccio. Avvicinatosi, si accorge che a creare il riflesso non è un oggetto, ma il corpo ibernato di un ragazzo. Protetto e nascosto da una spessa lastra di vetro, a strapiombo sul mare, c’è il corpo di un ragazzino che indossa abiti antichi. Il ragazzo nel blocco di ghiaccio viene trasportato nell’infermeria del laboratorio e diventa l’attrazione di tutti. A chi ap-

partiene il corpo? Cosa ha fatto sì che si trovasse in mezzo ai ghiacci? In quale epoca è vissuto il ragazzo, visti i suoi abiti fuori moda? Un giorno, il corpo di Jim, così si chiama il ragazzo, viene rianimato e riprende vita. In quella base militare americana, in quella terra di ghiaccio e luce perenni, quel fisico nucleare, tormentato dalle morti in Giappone, incessantemente percorso da rimpianti per suo figlio prematuramente scomparso, decide di rimandare il suicidio e di prendersi cura di un ragazzo. Robert si prende cura di lui in ogni momento, parlandogli dolcemente, trasmettendogli calore. Così facendo, anche il suo cuore arido e cinico ritorna a battere. Ma la rinascita di Jim è un caso così straordinario che attira l’attenzione della comunità scientifica, che vuole studiare questo evento unico. Robert comincia ad affiancare il medico che tiene Jim sotto osservazione; passa ore al suo capezzale, gli legge poesie, brani di libri, articoli finché il ragazzo inizia ad aprire e chiudere gli occhi, articolare suoni e muovere parti del corpo. Il medico dell’infermeria convince Robert a non abbandonare il ragazzo in balia di esperimenti scientifici, persuaso tra l’altro del fatto che il corpo


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del ragazzo stia subendo un processo di deterioramento molto rapido. Warren coglie la sua “seconda possibilità”: tenta di riportare il ragazzo da dove è venuto, nascondendosi con lui, cercando di comunicare attraverso i gesti, nel silenzio ma nell’empatia. Il ragazzo inizia a invecchiare rapidamente e i servizi segreti vogliono prenderlo per farne una sorta di cavia. Per impedire ogni accanimento sul corpo debole di Jim, Robert lo rapisce e con lui intraprende un viaggio all’ultimo respiro che porterà entrambi a riconciliarsi con i rispettivi passati, in un finale catartico e commovente. Qualcuno mi ha detto che ho ricevuto in dono una seconda possibilità. E da qui che intendo ripartire. Dalle occasioni perdute, senza guardare al passato, senza sapere che cosa sia giusto e cosa non lo sia. Jim e Robert riprendono a vivere in modo parallelo con un analogo processo di scongelamento. Se Jim rivive solo dopo aver eliminato il ghiaccio che lo ha tenuto prigioniero, anche Robert torna alla vita solo dopo aver sciolto il dolore che bloccava il suo cuore ibernato. The frozen boy è un romanzo che coinvolge dall’inizio

alla fine ed è scritto con sapienza e coraggio. Ci vuole coraggio per parlare di morte e di rinascite, di vita e di relazioni tra marito e moglie e tra genitori e figli. Nel libro si racconta di come Robert aveva trasferito sempre maggior tempo dalla famiglia alle sue ricerche, finchè la moglie Susan, constatato di essere vedova di un vivo, si era scoperta non più disposta a comprenderlo e ad assecondarlo. È fantastico come l’autore, dividendo il libro in tre parti, Bianco, Blu e Verde, ci catapulta magicamente in tre mondi esteriori e interiori completamente diversi ma al tempo stesso irresistibili. Il Bianco è quello delle nevi della Groenlandia, del desiderio di oblio e di morte ma anche della seconda possibilità; del bagliore che rischiara tutto il suo presente, il futuro e anche il passato. Come il ghiaccio è mutevole e instabile, lo è anche l’umore dell’essere umano. La mente del protagonista è come accecata e i pensieri erano grovigli di serpenti impegnati a contorcersi e difficile tenerli a bada. Il Blu è quello dell’oceano profondo e misterioso, del cielo e del riscatto. Robert si riscopre padre e sente nascere in lui il bisogno di proteggere quella creatura che miracolosamente è soprav-

vissuta al tempo. Il momento dello scioglimento, della confusione, della riscoperta delle emozioni. Alle volte aveva paura, una sensazione che partiva da dentro, dal punto esatto nel quale stava il cuore e che si diffondeva a tutto il resto del corpo. In quelle occasioni, anziché di dormire, aveva voglia di piangere, anche se piangere era una cosa per bambini piccoli e non per uno come lui. Eppure anche se avrebbe voluto piangere e non si sarebbe vergognato di farlo, non ci riusciva. Il Verde è quello della brughiera, delle chiome degli alberi, dei campi, del muschio; continua la vicenda delle due anime sole che si vanno cercando, che comunicano senza parole. L’uomo e il ragazzo erano due punti silenziosi in un universo che giganteggiava, eterno e che si muoveva secondo una concezione del tempo infinitamente dilatata. L’uomo e il ragazzo. E nient’altro. Un romanzo tenero che tocca corde profonde e sensibili non senza fornire una buona dose di brividi e avventura. Alla fine Robert si sente pieno di luce e di aria pulita. Ha colto la sua seconda possibilità e al termine del romanzo, quando il ragazzo non c’è più, Robert


Bibliografia Il libro delle famiglie. T. Parr, Piemme, 2012 Per fortuna c’è la mamma. A. Baruzzi, San Paolo, 2008 Mentre la mamma è al lavoro. S. Teodosi, GradoZero, 2009 Scacciabua. E. Jadoul, Babalibri, 2011 The frozen boy. G. Sgardoli, San Paolo, 2011 Link http://www.liberweb.it/upload/cmp/Temi_emergenti/ pdf/mamme.pdf

sa comunque da dove ripartire. Con alcuni passaggi estremamente toccanti, come quando Robert acquista il gelato al giovane Jim ricordandosi di non aver mai comprato un gelato al figlio Jack o come il tentativo di Jim di camminare appoggiato alle stampelle, il pianto confortato da un abbraccio, lo scambio reciproco dei nomi, il libro ci esorta a non mollare mai, a credere nelle seconde possibilità. Quante volte ho pensato “ormai non posso più tornare indietro”, “ormai non potrò avere ancora un’altra possibilità”. Ma ogni giorno i miei bambini mi hanno insegnato che c’è sempre un’altra possibilità, che non ci si può fermare al passato

e che nonostante possano accadere cose “tremende”, almeno agli occhi dei bambini, si può tornare a sorridere, a volte anche dopo solo cinque minuti. L’uomo e il ragazzo. Il presente e il passato. Le disillusioni e le speranze. Chi della vita si stava per sbarazzare e chi ne è sempre rimasto aggrappato. Da un lato un uomo che avrebbe voluto abbandonare la propria vita, dall’altro un ragazzo che non l’ha mai voluta mollare. Tra i due intensi protagonisti si è creato un legame fondato sul più primordiale dei bisogni. Quello di amare. E di sentirsi amati. E questo è proprio ciò di cui tutti noi,

grandi e piccini, abbiamo costantemente bisogno. La scrittura di Sgardoli esprime perfettamente questa essenziale e primitiva necessità e ci cattura in ogni riga, lasciandoci un senso di commozione infinita; lo stile della scrittura ricco e complesso è al tempo stesso semplice e si completa perfettamente con l’immensa forza della storia. The frozen boy parla di amicizia, fiducia, responsabilità, di scelte. Ma soprattutto di seconde possibilità. E quindi ricordiamoci di dare sempre a noi stessi e a nostri figli “un’altra possibilità”.


leggendo

Essere e avere figli. Avere e essere genitori

da Famiglie per adozione. La voce dei figli di Stefania Lorenzini 30

Uno tra i principali, determinanti, cambiamenti sperimentati entro questa pervasiva esperienza di “cambiare tutto”, va certamente ricondotto al fatto di “avere dei genitori” o di “avere dei nuovi genitori”; con tutto ciò che questo può implicare: a cominciare dal trovarsi a divenire per la prima volta o a ridivenire figli. Se uno o entrambi i genitori sono stati conosciuti si tratta nientemeno che dell’esperienza di “cambiare genitori”. O di cambiare figure adulte che hanno svolto un ruolo genitoriale e/o di accudimento, come ad esempio le persone che operavano negli istituti in cui i bambini erano accolti. Si tratta di un drastico cambiamento di punti di riferimento anche quando ad aver avuto un ruolo genitoriale erano persone non adulte, o persino bambini in età

precoce, come nel caso di fratelli o sorelle, maggiori di età benché molto piccoli, che hanno svolto un ruolo di cura e, per quanto possibile, di protezione, verso gli altri, sino all’adozione. Per questi bambini sarà necessario imparare a considerare genitori persone diverse e, per i più grandicelli, a demandare loro responsabilità e funzioni che si erano dovuti assumere in prima persona verso i più piccoli. Per questi fratelli e sorelle l’adozione implica il modificarsi sia del proprio rapporto con gli adulti sia della relazione strutturatasi tra loro. Laddove, invece, fossero mancate figure genitoriali, si tratta di trovarsi ad avere per la prima volta due genitori, senza saper attribuire a questo un significato, senza sapere cosa aspettarsi e come interpretarne comportamen-

ti e linguaggi verbali e non verbali. Se poi i genitori di nascita sono stati presenti per un certo periodo, il cambiamento è ancor più radicale. Questo ci impone di pensare a quale possa essere l’impatto e il significato dell’incontro con adulti che si pongono in quanto genitori, con tutto il carico di affettività e normatività che tale ruolo in genere implica, per una bambina o un bambino il cui rapporto con gli adulti incontrati sino a quel momento è stato di tipo diverso. Quando avviene l’incontro i nuovi legami ancora non esistono, né si può contare su linguaggi condivisi. Molto di quanto è connesso alla non conoscenza, all’estraneità reciproca, può rivelarsi sin dai primi momenti insieme e può avere forme variabili, che sembrano dipendere in buona parte dalla preparazione


Stefania Lorenzini, di formazione pedagogica e con radici professionali nella lunga esperienza in campo educativo nei nidi d’infanzia bolognesi, dal 2005 è ricercatrice in Pedagogia generale e sociale. In particolare si occupa di Pedagogia interculturale presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. È autrice di articoli e saggi sulle tematiche dell’interculturalità, con particolare riferimento alla realtà delle adozioni internazionali, ai servizi educativi per l’infanzia, ai minori di origine straniera, alle migrazioni femminili. Tra gli interessi di studio e ricerca più recenti quelli inerenti le differenze di genere, con specifico riferimento all’infanzia e all’adolescenza; fa parte del CSGE, Centro studi sul genere e l’educazione, presso il medesimo Dipartimento.

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all’incontro e alla nuova vita1 maturata dagli adulti, ma anche ricevuta dai bambini, per i quali una preparazione graduale può ridurre gli aspetti disorientanti di un impatto che, tuttavia, può sovente presentare un certo grado di intensità, specie per i più grandicelli. I ricordi delle tappe di un itinerario di vita già percorso, fondamento dell’identità personale e dell’evoluzione

presente e futura, emergono nella forma di narrazioni che gli intervistati riportano perché fatte loro dai genitori o ricordate in prima persona, di tante “prime volte”: «Quando ci hanno fatto ridere. È il primo modo in cui ci siamo conosciuti; anche se noi non ci ricordiamo loro si ricordano benissimo…» (44, f, Ecuador, 5 mesi); «Quando mi hanno fatto il bagnetto…» (48, m, India,

2 anni); «I miei genitori hanno chiare le immagini dei nostri primi sguardi, delle prime parole che ci siamo detti. Tutti e tre abbiamo gli stessi ricordi, molto belli» (26, f, Guatemala, 5 anni). Tante “prime volte” impresse nella memoria proprio per il loro valore fondante di una relazione, un legame di conoscenza e di amore, nei momenti iniziali del suo stesso nascere, tra genitori e figli. Molti (21 intervistati) raccontano questo momento in maniera dettagliata. E dai più grandi viene più volte precisato come per loro fosse sconosciuto il significato di parole quali genitori, famiglia, papà, mamma, adozione, soprattutto quando è mancata una preparazione all’evento che stava per coinvolgerli, ma non solo: Non pensavo minimamente di essere adottata, ho vissuto in collegio e lì, da un momento all’altro, mi hanno detto che sarei stata adottata; non sapevo cosa significasse la parola “adottata”, dove sarei andata, cosa sarebbe stato della mia vita. Al primo incontro con mio babbo, le suore mi presentarono e io sono scappata via da lui: vedi un uomo bianco per la prima volta e non sai che cosa è la tua vita, non sapevo niente, a che cosa andavo incontro. A volte quando racconto queste cose sembrano favole, ma non sono favole. È la realtà


cruda della vita… e quando vidi mio babbo, ora lo chiamo «Mio babbo», ma allora mi sono detta: «Ma cosa vuole?», e sono scappata dagli altri bambini. Quando ho visto mia mamma, mentre lei veniva, credo, per abbracciarmi, io mi sono nascosta e mi sono scansata da lei, ho avuto come un rigetto… (17, f, India, 8 anni). Sicuramente prima di essere adottata, non sapevo cosa significasse “essere una famiglia” e “avere due genitori”. Conoscevo solo la situazione dell’orfanotrofio, di me e di altri bambini, con le suore che si prendevano cura di noi. Poi, quando mi è stato spiegato cosa fosse una mamma e un papà e una volta conosciuti i miei futuri genitori, è nato l’affetto nei loro confronti, ma è scattata anche la gelosia nei confronti degli altri bambini dell’orfanotrofio che appena arrivavano i miei genitori li chiamavano «papy» e «mamy», correndogli incontro. La cosa che mi dava fastidio era che i miei genitori portassero regalini anche agli altri bambini. Sicuramente perché avevo paura che uno di quei bambini risultasse ai miei futuri genitori più bello e simpatico di me e che mi sostituissero con lui. Ricordo che ero molto insicura e che la prima volta che me li hanno presentati mi sono andata a nascondere subito sotto il mio letto (49, f, India, 5 anni, 2011).

Emergono sovente ricordi di paure e di sentimenti legati all’estraneità, reazioni immediate quali “scappare a nascondersi”, al momento del primo incontro. E questo è descritto sia nelle

interviste più recenti sia nelle precedenti, sia in assenza di preparazione sia quando sono state ricevute spiegazioni sull’adozione; quando mancava completamente l’esperienza di “famiglia”, ma anche quando un genitore è stato conosciuto e poi lasciato per incontrarne altri. Emergono, inoltre, timori centrati sull’insicurezza affettiva, sulla paura di non piacere e dunque su imperativi che corrispondono a un “dover piacere” ed “essere adeguati”, “all’altezza” della scelta, dell’accettazione e dell’amore dei genitori. Questi esempi devono far riflettere anche in merito a come sia più opportuno procedere nella preparazione e nell’organizzazione degli incontri adottivi, anche per rispondere all’esigenza di proteggere e rispettare la dignità dei bambini, sia di coloro che incontrano i loro futuri genitori sia di coloro che si trovano a dover, soltanto, assistere all’adozione degli altri. Per questo in certi casi viene opportunamente scelto di far incontrare adottando e adottanti in uno spazio separato e non davanti a tutti i bambini accolti nell’istituto. Vale la pena fare ancora un esempio per la chiarezza con cui sono esplicitati i sentimenti, i pensieri e

i comportamenti di una bambina di tre anni in procinto di incontrare un papà e una mamma sconosciuti: Le mie paure erano di non piacere. Intervistatrice: Tu ricordi questo? Sì, io avevo una mania folle di essere bella, come le altre bimbe penso, tanto che mi ero fatta un ciuffo, una frangia, me la ero tutta tagliata ed era diventata uno spennacchio: mi volevo fare bella, almeno così mi giustificai per quello che avevo fatto. Perché volevo piacere all’arrivo dei miei. Tant’è che alla fine mi hanno dovuto mettere un fiocco e quando arrivarono i miei mi nascosi dietro al divano. I miei mi hanno sempre detto che gliel’hanno raccontata così (52, f, Colombia, 3 anni, 2011).

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sociale e legale

Luigi Bulotta

Intervista a Francesco Mennillo 34

Continuiamo ad ascoltare la voce dei rappresentanti delle associazioni familiari per sapere chi sono e cosa si propongono di fare in seno alla Commissione Adozioni Internazionali nei prossimi tre anni. Questo mese è la volta di Francesco Maria Mennillo, presidente del Coordinamento Famiglie Adottanti in Bielorussia, il secondo nuovo membro nominato a luglio dal ministro Riccardi.

Dr. Mennillo, ci parli del Coordinamento che presiede: come e quando è nato? Com’è strutturato e quali finalità perseguite? Da quanti soci è composto? Il 2004 rappresenta un punto di svolta nella politica bielorussa sulle adozioni internazionali, in quanto, a seguito di uno scandalo legato alle adozioni con gli USA, un minore bielorusso, figlio di una coppia ameri-

cana, era purtroppo finito nel giro del mercato illegale dell’espianto degli organi, causando una forte pubblicità negativa sulle adozioni internazionali e facendo sì che il Presidente bielorusso Lukashenko congelasse i procedimenti adottivi aperti con tutti i paesi, anche quelli vicini al completamento. Il 14 giugno 2005 si tiene a Roma la prima riunione delle famiglie adottanti in Bielorussia che decidono di costituirsi nel Coordinamento Famiglie Adottanti in Bielorussia. Il Coordinamento nasce da un gruppo di famiglie italiane che, in rappresentanza di un vasto movimento di famiglie diffuso in tutta Italia, rivendicava il diritto all’adozione negato a circa 600 bambini bielorussi. Queste famiglie, come tante altre in Italia, attraverso l’opera di associazioni umanitarie e di istituzioni locali,

avevano aperto la propria casa ed il proprio cuore ai “bambini di Chernobyl” per accoglienze temporanee di risanamento e lo avevano fatto per puro spirito solidaristico, se non per aiutare dei bambini che vivevano in emergenza ambientale. Man a mano che l’ospitalità in famiglia si rinnovava, quell’amore che aveva cominciato a legare questi bambini alle famiglie che li ospitavano in alcuni casi aveva fatto sorgere l’esigenza di dare stabilità ad un rapporto di carattere affettivo per quei minori che vivevano in istituto. In alcuni casi, le famiglie avevano avuto conferma dalle autorità bielorusse preposte (Centro Adozioni di Minsk – CNA, equivalente della Commissione Adozioni Internazionale italiana) che si trattava di bambini adottabili. Prima del 2004 le adozioni inter-


nazionali verso l’Italia si erano attestate su di un valore pari all’1% per cento del numero totale di minori bielorussi ospitati. Il fenomeno dell’ospitalità si attestava in quegli anni su circa 30.000 accoglienze l’anno. Di conseguenza, nel corso del 2004, le famiglie - che ne avevano i requisiti secondo la normativa italiana - avevano presentato le domande di adozione corredate da tutta la documentazione richiesta dalle leggi bielorusse ed italiane. Le famiglie del Coordinamento iniziarono questo percorso nella convinzione che alla base di esso ci fosse fondamentalmente un incontro: quello tra un bambino, ormai “grande”, cui la vita ha tolto l’elementare diritto naturale di avere una famiglia che si prenda cura di lui, ed una famiglia che tali cure è disposta a dargli. Le famiglie avevano creduto

possibile dare a questi bambini ciò che essi stessi chiedevano: una famiglia nella quale crescere ed essere amati. Lo abbiamo creduto perché le leggi lo rendevano possibile, perché era già stato possibile in passato per alcuni di loro; i bambi-

ni lo volevano, le famiglie lo volevano, i decreti di idoneità emessi e timbrati. Cosa poteva impedire a questi genitori ed a questi figli di riunirsi? Da allora, iniziò un lungo, faticoso cammino tra un’altalena di speranze e © roberto gianfelice

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delusioni; tra la gioia di un rapporto d’amore e l’angoscioso timore che il percorso iniziato non riuscisse mai a trovare una sua fine, ma nel 2009, grazie al lavoro incessante di relazione, di supporto al dialogo tra gli stati, si è giunti allo sblocco di ben 508 pratiche di adozione. Il Coordinamento ha nel suo DNA l’azione di sensibilizzazione del mondo politico verso i temi dell’adozione e quello della costruzione di ponti di amicizia tra popoli. L’adozione internazionale, seppure pienamente legittimante, di fatto è un’apertura completa ad un nuovo mondo e ad una nuova cultura e questo è tanto più vero quanto più i ragazzi in adozione diventano “grandicelli”. Sulla base di queste considerazioni occorre probabilmente ripensare l’adozione come non ad uno sradicamento del minore dalla propria realtà d’origine, ma ad una opportunità che inserita in un’operazione di cooperazione, consenta la costruzione di ponti tra stati e popoli. Il Coordinamento, al di là dei numeri dei soci, ha di certo un seguito e simpatizzanti tra tutte le famiglie che accolgono i minori bielorussi e che di per sé hanno a cuore la cura di tanti minori colpiti dalla tragedia di Chernobyl.

I soggiorni terapeutici sono nati per dare un’opportunità di salute ai bambini che subivano, e subiscono tuttora, le radiazioni dovute all’incidente di Chernobyl. Negli anni, oltre agli innumerevoli benefici che hanno portato a coloro che ne hanno usufruito, numerose sono state le polemiche legate alla modalità con cui vengono effettuati i soggiorni, alla mancanza di preparazione delle coppie ospitanti, al fatto che spesso vengono considerate come succedanee dell’adozione, con tutte le conseguenze del caso, compresi casi ben noti alla cronaca. Pensa che la regolamentazione attualmente esistente sia sufficiente a garantire al meglio i bambini coinvolti in questi progetti? Cosa potrebbe essere fatto per migliorare le regole e la preparazione delle coppie? Premetto che la legislazione italiana consente l’ingresso di minori accompagnati nell’ambito di programmi terapeutici o solidaristici e la legge affida al Comitato Minori Stranieri compiti di tutela nei confronti dei minori stranieri non accompagnati e dei minori stranieri accolti temporaneamente in Italia. Nel corso del tempo questi soggiorni sono stati impiegati anche in aree geografiche non legate a Chernobyl (le zone colpi-

te riguardano Bielorussia, Russia, Ucraina e Lituania), sulla base delle emergenze paese che si venivano a presentare. Dall’anno scorso, ad esempio, vengono in Italia minori provenienti dal Giappone (zona di Fukushima). Nel caso bielorusso i soggiorni terapeutici sono organizzati da associazioni italiane di accoglienza sotto il controllo del Comitato Minori Stranieri ed operanti sulla base di un protocollo sottoscritto nel 2007 dalle istituzioni italiane e bielorusse. I minori sono da considerarsi minori accompagnati, sotto la tutela di un tutore bielorusso che ha il compito precipuo di verificare l’andamento del soggiorno terapeutico del bambino. Ovviamente tutto è perfettibile e vanno compiuti tutti gli sforzi per la tutela degli interessi dei minori. Ad esempio, sono in corso contatti tra Governo Italiano e Bielorusso per garantire standard più elevati di sicurezza per i minori ospiti in Italia dopo i recenti eventi luttuosi (anni 2011 e 2012) che hanno coinvolto due minori bielorussi. L’accoglienza è da distinguersi dall’adozione e rappresenta un percorso distinto. Le accoglienze si tramutano in adozioni solo nell’1% dei casi e nella realtà bielorussa riguardano minori con un’età media di


14,8 anni (fonte pag. 12 rapporto statistico CAI http:// www.commissioneadozioni. it/media/115090/d&p%20 2_2011_170512.pdf). Altrove questi minori verrebbero definiti “very very special needs”. In questi casi è il minore che esprime la volontà di essere adottato. Nel futuro, se richiesto, il Coordinamento è pronto a dare il proprio contributo alle istituzioni per la tutela dei minori, ma la tematica delle accoglienze è in primis in carico al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e agli enti di accoglienza. Come siete organizzati? Avete sedi e attività sul territorio o siete sostanzialmente accentrati? Siamo organizzati con dei rappresentanti a livello territoriale sull’intero territorio nazionale e per origini storiche siamo presenti soprattutto laddove è più forte il fenomeno dell’ospitalità di minori bielorussi. Nell’attuale contesto ritengo che la famiglie accoglienti debbano fare rete con le famiglie adottive. Ai fini della rappresentatività in CAI, stiamo lavorando come avevamo già operato nel passato, mettendo a disposizione la nostra esperienza anche nei confronti delle famiglie di altri paesi, espandendo la nostra rete di famiglie di-

sponibili a fornire supporto ad altre, grazie alla esperienza acquisita. Parliamo della sua recente nomina all’interno della CAI. Come ci si è arrivati? Ci contavate? Incontrammo il ministro Bindi appena insediatosi, per rappresentarLe il problema delle adozioni in Bielorussia. Il ministro comprese subito la particolarità della situazione e, quando decise di riformare la struttura e l’organizzazione della CAI, pensiamo che abbia tenuto conto anche delle nostre proposte e dell’esperienza “bielorussa”, elevando la presidenza della Commissione ad un rango politico. In quell’occasione si paventò anche la possibilità di entrare nella CAI, ma in quel momento non eravamo organizzati per poter affrontare quel passo. Nel 2012, la nostra esperienza pluriennale è stata ben considerata dal ministro Riccardi e dal suo staff, anche in virtù del lavoro fatto a supporto della riapertura delle adozioni insieme a funzionari del precedente Governo e soprattutto con il ministro Franco Frattini ed il sottosegretario Gianni Letta. Il nostro lavoro di collaborazione con quattro Governi italiani, con la Commissio-

ne Bicamerale per l’infanzia e con la delegazione parlamentare presso il consiglio d’europa e presso l’OSCE non è mai stato sbandierato, ma abbiamo sempre operato con riservatezza per il fine ultimo della tutela del minore. La notizia della sua nomina all’interno della CAI ha sollevato le critiche di alcuni enti autorizzati che vi hanno definiti portatori di una visione parziale e quindi insufficiente dell’ambito adottivo. Cosa pensa di queste reazioni e delle osservazioni che sono state mosse alla decisione del ministro Riccardi? Le adozioni internazionali richiedono persone che sappiano operare per il bene ultimo del minore, che intendano lavorare non per la divisione ma per l’unità: unica via atta a rafforzare la posizione italiana nel mondo. Le divisioni e coloro che le alimentano, non fanno del bene alla causa, soprattutto quando le critiche non sono costruttive. Le “accuse” immotivate o peggio con secondi fini, possono infatti danneggiare bambini e famiglie adottanti. Vanno fatte, certo con democratica libertà, ma allo stesso tempo con attenta responsabilità.

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che consentissero il lavoro da remoto per i membri della Commissione, anche per poter rispondere in tempi rapidi ai mutamenti che impone il contesto internazionale. Inoltre amplierei l’organico della segreteria tecnica Le modalità di lavoro della a supporto dell’attività dei Pubblica Amministrazione commissari introducendo sono estremamente diverse modalità di lavoro per sotda quelle del mondo privato tocommissioni al fine di da cui provengo ed occorre prendere delle decisioni più rifarsi ai principi di diritto rapide. amministrativo con i quali Dal punto di vista esterno opera e si muove una istitu- occorre lavorare sul piano zione come la Commissione. dell’informazione al fine di Il contesto professionale ed consentire alle famiglie di operativo da cui provengo poter prendere delle deciè di natura internazionale sioni riguardanti il loro fue sono di conseguenza abi- turo su basi oggettive. tuato da anni a convivere con differenti mentalità, Qual è per lei il ruolo delusi e costumi che possono le associazioni familiari in diventare dei baluardi alla CAI? Quale sarà, in concrecomprensione e al raggiun- to, il suo impegno all’intergimento degli obiettivi che no della Commissione nei i prossimi tre anni? Quali le ci si prefigge. Questa esperienza, accom- priorità? pagnata da un sano prag- matismo ed un lavoro di La presenza del punto di relazione, sono necessari vista delle famiglie è stata soprattutto quando ci si vacante per troppo e lungo confronta con le istituzioni tempo. In qualità di cittatecniche degli altri paesi dino voglio portare quella per risolvere questioni ed sensibilità che la Pubblica ostacoli che hanno degli im- Amministrazione dovrebpatti su minori e famiglie in be avere nei confronti dei attesa di adozione, richie- finanziatori ultimi dei serdendo di conseguenza una vizi, ossia delle famiglie, orestrema flessibilità e capa- ganizzate in associazioni familiari che, con le loro tasse, cità di adeguarsi. Dal punto di vista interno consentono l’erogazione di introdurrei delle modalità servizi per il bene comune. A tre mesi dalla nomina, che idea si è fatta sulle modalità operative della Commissione? Che giudizio esprime su come è organizzata e sul suo funzionamento? Intravvede l’esigenza di cambiare qualcosa?

© roberto gianfelice

In qualità di padre adottivo porto quella sensibilità ed esperienza di situazioni di blocco e la conoscenza professionale nella conduzione di servizi per clienti di respiro internazionale. Inoltre, possiamo portare il vissuto dell’adozione di bambini già grandi infatti per molte coppie un bambino è “adulto a 7 anni”. Io e mia moglie abbiamo adottato i nostri figli all’età di 12 e 18 anni. La priorità consiste nel rendere il processo adottivo il più rapido possibile; l’ideale dovrebbe essere l’equiparazione del periodo dell’attesa con quello della gestazione di una madre. Quali sono le criticità che vede nell’attuale sistema delle adozioni internazionali? Come dovrebbe evolvere per adattarsi ai cambiamenti sociali e meglio assolvere alla sua funzione? Le principali criticità sono le divisioni tra gli attori coinvolti. Unità di intenti, analisi, verifica e controllo dei processi adottivi e dei costi relativi, applicazione delle best practice internazionali e, soprattutto, ridurre l’eccessiva burocrazia che di fatto può bloccare i procedimenti adottivi.

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Il diritto di conoscere le proprie origini 40

Come socio fondatore del Comitato nazionale per il diritto alle origini biologiche e come figlia adottiva non riconosciuta alla nascita desidero aprire qui un dialogo con le famiglie adottive, le prime ad avere a cuore la sanità e il benessere dei loro figli, i cosiddetti “figli del cuore”. Vorrei brevemente accennare alla particolare situazione nella quale si trovano numerose persone adulte che vivono un profondo disagio esistenziale, diverso per ciascuno in intensità, tonalità e sfumature, ma con la stessa matrice: essere un figlio adottato che, non essendo stato riconosciuto alla nascita, non potrà mai, e sottolineo quel mai per tutta la categoricità e il senso di disperazione che lo connotano, conoscere il nome della propria madre naturale. Non a caso ho parlato di adulti, in quanto

per un bambino o un adolescente tale informazione sarebbe difficile da elaborare e gestire, mentre diventa assolutamente proponibile a un’età in cui l’evoluzione del ciclo di figlio abbia contribuito a strutturare strumenti emozionali e critici per affrontare una realtà che, per quanto difficile, resta la propria unica e irripetibile realtà, non da evadere, ma da incontrare. La legge L’antica questione del “diritto” a conoscere la propria identità biologica da parte di tutti, anche prima dei previsti quanto improbabili cento anni, ritorna di attualità con la recente sentenza della Corte di Strasburgo, che condanna l’Italia per non aver ricercato un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco. L’attuale ordinamento ita-

liano non consente al figlio adottato e non riconosciuto alla nascita di accedere all’identità dei propri genitori biologici, considerando prevalente l’interesse del genitore di conservare l’anonimato rispetto all’interesse del figlio di conoscerne l’identità. Tale divieto non opera per i figli adottivi riconosciuti alla nascita, per i quali la legge 149/2001 prevede un accesso raggiunto il venticinquesimo anno di età (e anche prima in taluni casi e con differenti modalità). Questo crea evidentemente un’ulteriore discriminazione tra gli adottati, oltre a quella già operante tra i figli adottivi e i figli tout court. Crediamo che uno stato civile e democratico non possa non allinearsi al resto dell’Europa, riconoscendo a tutti i cittadini pari dignità, ed è di questa dignità che


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stiamo parlando, quando chiediamo di riappropriarci dei nostri dati vitali. Le nostre istanze, considerato il carattere etico che le contraddistingue, sono state recepite trasversalmente dai rappresentanti politici e costituiscono oggetto di quattro proposte di legge attualmente in discussione in Parlamento. In particolare, nella II Commissione giustizia della Camera dei deputati è in esame, dal gennaio 2010, il progetto di legge 2919 (PDL), unificato ai PdL 3030 (PD) e 1899 (UDC), che reca “Modifiche all’articolo 28 della legge 4 maggio 1983 n. 184”, in materia di accesso dell’adottato alle informazioni sulla propria origine e sull’identità dei genitori biologici, da realizzarsi attraverso una procedura di mediazione, in parte simile a quella seguita in Francia con la legge 22 gennaio 2002 n. 93 che ha istituito il “Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali”, con il compito di agevolare l’accesso alle origini degli adottati. Tale procedura sarebbe attuabile a partire dai 25 anni, mediante una richiesta da parte dell’interessato e previo il consenso della madre biologica che, a distanza di anni e in mutate condizioni esistenziali (nonché storico-culturali) potrebbe © maddalena di sopra

non avere più alcun vincolo rispetto alla possibilità di palesarsi, restituendo a un figlio la completezza della propria storia personale e dei parametri genetici, indispensabili anche nel caso di malattie ereditarie, e per rendere praticabile, nel campo della salute, quella stessa prevenzione di cui possono godere gli altri cittadini. È poi presente in Senato il progetto di legge 1898 (PDL) nel quale si prospetta di attendere fino a 40 anni per far valere, senza autorizzazione del giudice, né del genitore naturale, un pieno diritto a ricevere ogni informazione in ordine alla propria origine e all’identità dei propri genitori biologici. Una insopprimibile esigenza L’attuale normativa ci impedisce di far luce su una zona senza ricordi e senza storia che sta all’origine della nostra vita e del nostro sviluppo, rendendoci eternamente incompleti e destinati a morire senza aver avuto piena cognizione di noi stessi. Partendo dalla domanda fondamentale “chi sono?” l’uomo si aspetta una risposta non solo relativa al presente, ma che si riferisca anche a ciò che è stato nel

passato, perché il passato non viene inghiottito nel nulla, ma resta come elemento che struttura la sua vita nell’oggi, e ne condiziona il futuro. In tal senso, la conoscenza delle origini contribuisce a formare l’identità entrando nell’insieme di realtà che rappresentano il punto di partenza dello sviluppo umano. Per identità s’intende la rappresentazione totale di un individuo, che la filosofia esistenziale definisce “unico e irripetibile”, rappresentazione che è fondamento stesso della consapevolezza di ciascuno di essere un uomo e di essere “quell’uomo” in particolare. Noi non desideriamo per questo che venga messa in discussione la possibilità per la donna di partorire in anonimato, riconoscendo le valenze racchiuse in tale istituto legislativo. Chiediamo, però, che venga realizzato un effettivo bilanciamento dei diritti in causa consentendo, finalmente, ai figli adottivi non riconosciuti alla nascita, di uscire da una condizione nella quale si sentono ombre, senza alcuna possibilità di replica né decisionale sulle scelte di cui sono stati fatti oggetto. Un figlio senza passato avverte l’inesistenza di una immagine interna dei genitori naturali.

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Non c’è ricordo personale, ma neppure un’immagine che possa essere trasmessa dai ricordi di chi gli sta intorno. Non c’è una storia di famiglia, né possibilità di rappresentazione degli antenati come normalmente e naturalmente avviene attraverso le relazioni con chi circonda coloro che nascono e rimangono nell’ambiente che gli appartiene. È questo il contatto che manca, che è molto di più di una mera conoscenza storica. Si tratta, come ritiene Silvana Lucariello, del contatto con il mondo emozionale delle proprie origini e della possibilità di una “riparazione”, come direbbe Melanie Klein. È possibile separarsi da qualcuno o qualcosa che si sa chi sia, che si è riconosciuto nelle sue qualità distinte e differenti e solo se lo si può collocare in un luogo della mente. E per questo risulta indispensabile la presenza amorevole del genitore adottivo, per permettere di operare le distinzioni e fare ordine nella confusione che c’è nella mente di chi è stato adottato. È dunque necessario tener conto di un bisogno di sa-

pere che non è necessariamente, anzi possibilmente non è mai, indice di una volontà di rottura con la famiglia di adozione o di ricostruzione, spesso impossibile, di legami con la famiglia di origine, ma risponde semplicemente a una esigenza dello sviluppo umano, di completezza della personalità. Eppure alcune associazioni di famiglie adottive (si veda per tutte l’ANFAA, Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) non hanno accolto con entusiasmo tali proposte di legge, anzi l’hanno aspramente criticata, vedendovi una forma di svilimento del tentativo di ogni famiglia adottiva di dare vita, attraverso l’adozione, a “una genitorialità e una filiazione vere”. Le associazioni avvertono come una minaccia il riconoscimento del diritto di accesso riconosciuto all’adottato, ritenendo che “riconoscere un ruolo ai procreatori che hanno abbandonato la loro prole, significa, soprattutto, disconoscere per tutte le famiglie, in primo luogo quelle biologiche, l’importanza dei rapporti affettivi

ed educativi sullo sviluppo della personalità dei figli”. La maggior parte delle obiezioni scaturiscono da una scarsa conoscenza dell’argomento e per la maggior parte di esse le risposte ci sono già, basterebbe leggere i documenti e prestare ascolto e interesse alle esperienze. Ecco di seguito le più frequenti: Verrebbero favoriti gli aborti e gli abbandoni nei cassonetti A tale proposito, bisogna ribadire che non si vuole escludere la possibilità di partorire in anonimato e, inoltre, che nessuna ricerca è stata fatta in tal senso. Non esiste alcuna statistica, e comunque un’adeguata riflessione farebbe ritenere che oggi non sia certamente l’anonimato a porsi in alternativa a un’interruzione di gravidanza, ma altre e diverse considerazioni, e che un abbandono per strada sia collegabile a una mente dolorosamente stravolta piuttosto che al timore di dover fornire le proprie generalità (vedi studio svolto dalla Confederazione Elvetica).


figlio e purtroppo le esperienze personali ci insegnano che questa mancanza originaria ci accompagnerà lungo l’intero percorso della nostra vita. Essa, inoltre, talvolta può essere legata a sentimenti di colpevolezza: è noto, infatti, come, nella cultura popolare, alcune volte i figli nati da relazioni illecite fossero anche noti come “i figli della colpa”. Tale dinamica può avere una notevole influenza sui nostri vissuti personali, quando (soprattutto nel passato), la nascita veniva accompagnata da sentimenti di clandestinità. Riconoscere un figlio non ha solo una valenza giuridica, ma anche psicologica: attraverso il riconoscimento il genitore attesta che dentro di sé ha creato quello spazio mentale che accoglie le primissime rappreA differenza dei bambini sentazioni del figlio, spazio riconosciuti alla nascita, e in cui il figlio stesso è idenin seguito dati in adozio- tificato, contenuto, e in cui ne, per i quali comunque la sua esistenza acquista l’abbandono rappresenta un senso. È questo l’aspetl’interrompersi di una con- to di cui viene depauperato tinuità di vita e di identi- il bambino prima, adulto tà, ai figli non riconosciuti poi, se non riconosciuto alla viene a mancare all’origine nascita, contribuendo al il principio materno che “lutto originario”, che non conferisce loro lo status di potrà non avere un peso Mancanza di legame profondo con la famiglia adottiva Mi sento di sostenere con forza e con sentimento personale che l’affetto per la famiglia adottiva non ha nulla in comune con il desiderio di una conoscenza che non potrà mai sostituire emotivamente legami consolidati. Anzi, direi che più è stata soddisfacente l’adozione, più la personalità del figlio è equilibrata e pronta a sostenere il cammino verso l’approfondimento della propria identità. È vero che molte persone adottate si fanno scrupolo e iniziano le ricerche senza dirlo o dopo la morte dei genitori adottivi, ma questo solo per evitare loro timori del tutto ingiustificati, con ciò penalizzando ancora una volta se stessi.

nella costruzione dell’identità personale e nella strutturazione della personalità, anche nel contesto delle più adeguate e amorevoli condizioni famigliari. Quello che a volte la teoria ci aiuta a chiarire corrisponde a una sensazione di disagio profondo nella maggior parte di noi. Le differenze individuali fanno sì che ci sia chi ci convive, chi si ribella, chi cerca ossessivamente, chi a intermittenza, chi manifesta la sofferenza, chi la cela, chi la condivide, chi non la manifesta. E, ancora, chi idealizza e chi non perdona, chi anela e chi rifiuta, chi pretende di sapere e chi afferma di non averne la necessità. Per tutti è giusto che venga riconosciuto il diritto alla conoscenza delle proprie origini, onde ciascuno possa avvalersene nei tempi in cui lo ritenga opportuno, o anche mai. Ciò che non può essere eluso ulteriormente è sancire il principio e, con esso, dare l’opportunità della scelta.

Emilia Rosati

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Angelamaria Serpico Avvocato specializzato in diritto di famiglia e diritto minorile

Adozione e successione 46

L’art. 27 della legge 4/5/1983 n. 184, che disciplina “Il diritto del minore ad una famiglia”, con particolare riferimento all’adozione, dispone: “Per effetto dell’adozione l’adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome.” La legge su richiamata, pertanto, istituisce la cosiddetta “adozione legittimante”. Il Titolo VII del codice civile, al capo 1, disciplina la filiazione legittima e sostanzialmente definisce i figli legittimi quelli concepiti in costanza di matrimonio. I minori adottati, pertanto, sono figli legittimi dell’adottante. Relativamente all’istituto della successione, l’art. 566 c.c. stabilisce: “Al padre ed alla madre succedono i fi-

status di figli legittimi. La differenza non è di poco conto, sotto il profilo degli effetti e delle conseguenze giuridiche. Basti solo osservare come prosegue il citato art. 567: “I figli adottivi sono estranei alla successione dei parenti dell’adottante”. La lettura di questo comma ha ingenerato preoccupazioni circa il diritto di succesPer effetto sione dei figli adottivi. Ma dell’adozione l’adottato la spiegazione è data dalacquista lo stato di figlio la circostanza che questo legittimo degli adottanti, articolo è stato formulato dei quali assume e anteriormente all’introdutrasmette il cognome zione della legge 184/1984, e risale alla prima formuL’art. 567, è fuorviante, lazione del codice civile che poiché parla di equipara- è del 1942. L’adozione, detzione tra figlio legittimo e ta “ordinaria” non aveva figlio adottivo, mentre si effetti legittimanti, e l’aè precedentemente visto dottato conservava i suoi come, a partire dal 1983 diritti e doveri nei confron(anno di introduzione del- ti della famiglia di origila legge sull’adozione) i fi- ne. Inoltre l’adozione non gli adottivi acquistano lo induceva alcun rapporto gli legittimi e naturali in parti uguali”. I figli adottivi, pertanto, acquisendo lo stato di figlio legittimo, hanno la capacità di succedere, esattamente come accade ai figli biologici. Il successivo art. 567 precisa: “Ai figli legittimi sono equiparati i legittimanti e gli adottivi”.


civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato, né tra l’adottato ed i parenti dell’adottante. Ciò avviene ancora in caso di adozione di persone di maggiore età (v. art. 300 c.c.). Si tratta, quindi, di un istituto diverso dall’adozione legittimante, che è quella ormai più diffusa. Il problema, talvolta, viene sollevato dalle persone adottate prima del 1983, che si interrogano sui propri diritti successori. Della questione si è occupata la Corte costituzionale risolvendo il dibattito instauratosi successivamente alla promulgazione della L. 184/1983, riguardante l’estensione dei suoi effetti all’adozione ordinaria: “È infondata la q.l.c. dell’art. 27 l. n. 184 del 1983 per contrasto con l’art. 3 cost. nella parte in cui non estende retroattivamente gli effetti dell’adozione legittimante alle adozioni di minori effettuate antecedentemente, secondo la disciplina ordinaria del codice civile, con particolare riferimento alla successione nei confronti dei parenti dell’adottante. (Invero, l’adozione di minori ordinari e l’adozione di minori legittimante sono caratterizzati da presupposti, requisiti e finalità diverse, e conferiscono differenti “status”; con l’ado-

zione legittimante il minore non è equiparato, ma diviene figlio legittimo degli adottanti: gli effetti successori sono soltanto una conseguenza di tale mutamento di “status”) (Cfr. Corte Cost. 3 luglio 1998, n. 240, in Famiglia e diritto 1998, 415). La Corte si è pronunciata negativamente, ritenendo i due istituti: “adozione ordinaria” e “adozione legittimante” diversi. Il figlio adottivo, pertanto, non può essere escluso dalla successione ed in quanto legittimario avrà in ogni caso diritto ad una quota dell’eredità: se figlio unico, avrà diritto alla metà del patrimonio; se i figli sono più di uno, ad essi è riservata la quota dei 2/3 da dividersi in parti uguali tra di loro. Nel caso in cui vi sia il concorso del coniuge superstite e dei figli, qualora il figlio sia uno solo, a questi è riservato un terzo del patrimonio mentre un altro terzo spetta al coniuge. Qualora i figli siano più di uno, ad essi è riservata la metà del patrimonio con divisione da effettuarsi in parti uguali tra tutti, mentre al coniuge è riservato un quarto del patrimonio stesso. Il nostro ordinamento prevede anche l’istituto della cd. “rappresentazione” per effetto della quale i discen-

denti naturali o legittimi subentrano nel ruolo e nel grado del loro ascendente in tutti i casi in cui questi non possa o non voglia accettare l’eredità (in sostanza si ha successione diretta tra “nonno” e nipote”). L’art. 468 c.c. stabilisce, inoltre, che la rappresentazione ha luogo anche a favore dei discendenti dei figli adottivi, con la conseguenza che detti discendenti, per quanto attiene all’eredità dell’adottante, possono subentrare nella stessa posizione dell’adottato che non possa o non voglia accettare l’eredità.

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Dallo sportello Domanda Sono un’assistente sociale e mi occupo di minor, e non solo e in particolare dell’adozione. Seguo da anni una ragazza che da bambina (circa 5 anni) è stata adottata con due fratelli da una famiglia italiana. Sfortuna (diciamo così) ha voluto che lei e i fratelli siano “incappati” in una famiglia non in grado assolutamente di farsi carico di lei e i fratelli tanto che dopo qualche anno il tribunale per i Minorenni ha addirittura allontanato i bambini dal nucleo e inseriti in comunità. Oggi questa ragazza è a sua volta madre. Porta ancora ovviamen-

l’adozione mite. Il giudice onorario ce l’ha illustrata dicendo che in genere parte con un affido in cui viene data la disponibilità della famiglia ad adottare il minore nel momento in cui questo sia possibile. L’adozione in questo caso viene fatta ricorrendo all’art.44 come adozione in casi particolari e non è legittimante. Questo che cosa Risposta Se sussiste lo sta- significa? Noi abbiamo tus adottivo, i diritti suc- anche un figlio biologico, a livello legale quale cessori permangono. sarebbe la differenza fra Domanda Gent. dott. i due anche per quanto abbiamo dato disponi- riguarda l’ereditarietà? bilità all’adozione pres- Grazie so il TdM di Bari, dove ci è stata proposta anche te il cognome dei genitori adottivi e si chiede (e me lo chiedo anch’io) se oggi che ha superato la maggiore età ha comunque mantenuto i suoi diritti alla successione, nonostante appunto a suo tempo ella sia stata con i fratelli allontanata dalla famiglia per maltrattamenti subiti in essa. Vi ringrazio saluti.


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Risposta L’adozione mite, oggetto di varie proposte legislative succedutesi nel tempo e di un esteso e non univoco dibattito da parte dei tecnici, non è stata ancora trasfusa in legge ma è avvicinata, nella sua regolamentazione, all’art. 44 della legge vigente in materia di “Adozione in casi particolari”. Con questo tipo di adozione l’adottante assume gli obblighi di istruzione, mantenimento e assistenza nei confronti dell’adottato, la titolarità e l’esercizio della patria potestà su di lui, ma non l’usufrutto legale sui suoi beni; ha l’obbligo di effettuare l’inventario

sui beni del minore, con poteri in tutto e per tutto coincidenti con quelli del tutore. L’adottato, invece, conserva diritti ed obblighi nei confronti della famiglia originaria, e, contemporaneamente, li acquista verso quella adottiva. Ha diritto di successione sia rispetto alla famiglia originaria che rispetto alla famiglia adottiva (mentre l’adottante non diventa suo successibile o erede); conserva il cognome originario, ma con l’anteposizione di quello dell’adottante. Pur in permanenza dei divieti matrimoniali, non ha rapporti giuridici con i parenti dell’adot-

tante (ma la regola vale anche per l’adottante nei confronti dei parenti dell’adottato). Lo stato di figlio adottivo può essere revocato giudizialmente per indegnità dell’adottato (art. 51 L. 4/5/1983 n. 184), quando questi abbia commesso gravi delitti nei confronti dell’adottante o della sua famiglia, ovvero può essere revocato per indegnità dell’adottante (art. 52 legge cit.) o, infine, su richiesta del pubblico ministero quando vi sia violazione degli obblighi gravanti sugli adottanti.


trentagiorni

«Troppi segreti sulle madri naturali» Strasburgo condanna la legge italiana Una persona adottata da bambino ha diritto di conoscere prima o poi chi è la propria madre biologica, anche se questa ha scelto di mantenere l’anonimato. Ancora una volta la Corte europea per i diritti umani (che fa capo al Consiglio d’Europa e niente ha a che fare con l’Ue) promulga una sentenza di condanna nei confronti dell’Italia foriera di importanti conseguenze. Nella fattispecie, la Corte di Strasburgo ha dato ragione ad Anita Godelli, una donna di 69 anni che ha fatto ricorso per protestare contro il divieto della legge italiana 184 del 1983 di conoscere l’identità della madre biologica se questa, lasciando il proprio neonato all’adozione, ha chiesto di restare segreta. Una legge, spiega la Corte, che viola l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al rispetto della vita privata familiare). La sentenza ha una particolare rilevanza soprattutto per quelle donne che rinuncino all’aborto in cambio della garanzia di poter dare in adozione il neonato restando anonime. Vediamo i fatti. La Godelli, che scoprì a 10 anni che i suoi genitori non erano biologici ma solo adottivi, invano chiese

loro di rivelare chi fossero i suoi veri genitori. «Ella – si legge in una nota diffusa dalla Corte – afferma di aver vissuto un’infanzia molto difficile a causa del fatto di non poter conoscere le proprie radici. All’età di 63 anni, la ricorrente ha avviato nuovamente dei passi in questo senso, ma è stata respinta dal momento che la legge italiana garantisce il segreto delle origini e il rispetto della volontà della madre». Da notare che, come sottolinea la stessa nota, la Godelli non ha chiesto di sapere nome e cognome della vera madre, ma soltanto “elementi non identificanti” delle sue origini biologiche. Ebbene, secondo la Corte di Strasburgo la legge italiana è troppo squilibrata a tutela della volontà di anonimato della madre. «Il sistema italiano – si legge nella nota della Corte – privo di qualsiasi meccanismo che cerchi un equilibrio tra gli interessi concorrenti (della madre all’anonimato e del bambino adottato a conoscere le proprie origini, ndr) ha inevitabilmente dato una preferenza cieca ai soli interessi della madre biologica». La Corte ricorda che il Parlamento italiano sta discutendo una possibile modifica della legge dal 2008. «Se la scelta delle misure volte a garantire il rispetto

dell’articolo 8 (della Convenzione, ndr) nei rapporti tra individui – si legge ancora nella nota – è di competenza, in linea di principio, del margine di valutazione degli Stati, nella misura in cui la legislazione italiana non dà alcuna possibilità al bambino adottato e non riconosciuto alla nascita di chiedere sia l’accesso a informazioni non identificanti sulle sue origini, sia la reversibilità del segreto, la Corte ritiene che l’Italia non ha cercato un giusto equilibrio tra gli interessi ed è andata oltre il suo margine di valutazione. La Corte conclude che vi è stata violazione dell’articolo 8». L’Italia, peraltro, dovrà anche risarcire la Godelli con 15.000 euro. La questione più cruciale, tuttavia, è un’altra: e cioè la necessità di modificare la legge 184. Un modello possibile lo indica la stessa Corte, e cioè quello francese, in cui è possibile chiedere almeno la reversibilità dell’anonimato della madre se questa si dichiara d’accordo. Potrebbe essere una soluzione di compromesso che dà qualche chance in più ai bambini adottati di conoscere le proprie radici senza compromettere drasticamente il desiderio di anonimato di una madre che non può, o non vuole, tenere il proprio bambino. L’Italia, comunque, entro tre mesi potrà far ricorso


di fronte alla Gran Camera della Corte Ue. Fonte Avvenire.it Adozioni internazionali: i collaboratori esteri vanno pagati a mese e non a “cottimo” o in relazione alle caratteristiche del minore Ad un mese dall’incontro sugli aspetti finanziari delle adozioni internazionali avvenuto all’Aja (dall’8 al 9 Ottobre), al quale hanno partecipato le Autorità Centrali dei Paesi aderenti alla Convenzione, sono state rese pubbliche le raccomandazioni ratificate dal Gruppo di Esperti, organismo composto da membri delle diverse Istituzioni e da professionisti nell’ambito dell’adozione internazionale. In modo particolare, Il Gruppo di Esperti si è’ focalizzato sulle questioni relative agli aspetti finanziari dell’adozione internazionale, mettendone in evidenza i rischi e le possibili conseguenze negative per tutti gli attori coinvolti nel processo adottivo. Un aspetto molto importante riguarda i compensi dei professionisti che lavorano nel campo dell’adozione. Conformemente all’articolo 8 della Convenzione (“Le Autorità Centrali prendono, sia direttamente sia col concorso di pubbliche autorità, tutte le misure idonee a prevenire profitti materiali indebiti in occasione di una adozione”),

gli Esperti hanno affermato che sono necessari dei tetti che mettano un limite ai suddetti compensi. Gli Stati possono chiedere che le autorità centrali facciano rispettare agli organismi determinati limiti stabilendo il compenso dei loro collaboratori esteri. Ad esempio, la retribuzione non dovrebbe dipendere dal numero di adozioni (la pratica del cosiddetto “cottimo”) o dalle caratteristiche del bambino in adozione (più il bambino è piccolo e sano, più costa). Viene viceversa raccomandato un salario su base mensile. Il compenso deve essere paragonabile ai tassi di remunerazione dello Stato in cui il professionista lavora, prendendo in considerazione le attività da svolgere, le competenze richieste e le norme locali per l’occupazione in vigore in nello Stato per posizioni analoghe. Gli organismi accreditati dovrebbero essere pienamente consapevoli dei tassi di remunerazione negli Stati dove operano. Ad esempio, i compensi potrebbero seguire i parametri di retribuzione del personale locale delle ambasciate nei vari Paesi: in tal modo si potrebbero compensare adeguatamente servizi di qualità come quelli richiesti per l’ accompagnamento

dall’adozione internazionale, ma senza indurre ad illeciti arricchimenti come, molto spesso, avviene, specie in determinati paesi dove impera la prassi del pagamento” a cottimo”. Fonte aibi.it Comunicato: Segnalazione di un tentativo di truffa on line Su alcuni forum è comparso un post nel quale una sedicente associazione “Adoption Directe” promette l’adozione di bambini del Burkina Faso. Ci è stato segnalato che sono state diffuse anche e-mail di analogo contenuto. Si tratta evidentemente di una truffa, che mira esclusivamente ad approfittare dell’inesperienza dei possibili interlocutori per estorcere loro denaro. L’Autorità Centrale del Burkina Faso è stata informata e ha attivato indagini sul suo territorio, così come sono state fatte le dovute denunce alle competenti autorità italiane di polizia. Si rammenta che nessuna adozione internazionale può essere realizzata al di fuori delle procedure stabilite dalla legge n. 184/83, nel quadro dei principi della Convenzione de L’Aja del 1993. Fonte commissioneadozioni.it


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