Adozioni e dintorni - GSD Informa agosto-settembre 2013

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Adozione e dintorni GSD informa - mensile - agosto/settembre 2013 - n. 7

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agosto/settembre 2013 | 007

GSD informa

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editoriale

di Anna Guerrieri

psicologia e adozione

Origine e narrazione nella costruzione della famiglia adottiva di Donatella Lisciotto

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salute e adozione

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scuola e adozione

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Le schisi labio maxillo palatine di Enrico Sesenna Scuola: i compiti dei genitori di Livia Botta

giorno dopo giorno

Dagli Appennini alle Ande: un fantastico viaggio in Cile - 3 di Carmine Pascarella e Federica Sassi La casetta di cartone di Marta e Alberto

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leggendo

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trentagiorni

Leggere, fare e raccontare di Marina Zulian

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Simone Berti direttore, Firenze direttore@genitorisidiventa.org; Luigi Bulotta caporedattore, Catanzaro,

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Pea Maccioni, Lecce; Paolo Faccini, Milano

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Eliana Gentile, Teramo; Anna Guerrieri, L’Aquila. correzione bozze Luigi Bulotta, Catanzaro;

progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Mario Lauricella, Firenze

abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Anna Guerrieri

Così come stanno le cose ...

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Non è facile in questo periodo trovare “buone notizie” da dare. Anche in ambito adottivo il nostro paese vive un momento di intensa incertezza e direi di confusione. A fronte di dibattiti che si aprono e chiudono repentinamente, a fronte di notizie in eccesso che vengono spesso usate e abusate, poi assistiamo ad una situazione complessa internazionalmente in cui la percezione è che le adozioni internazionali come le abbiamo sempre conosciute stiano mutando profondamente e radicalmente. Paesi come la Colombia e l’Ucraina hanno negli anni drasticamente cambiato il proprio approccio. Paesi che hanno chiuso anni fa, come la Cambogia, con l’intento di migliorare il sistema e riaprire, non hanno poi riaperto. Paesi come la Federazione Russa sono percorsi da dibattiti interni molto intensi, talvolta aspri, che portano a “chiusure” e “congelamenti” a livelli sia centrale che regionale. Paesi come la Repubblica Democratica del Congo che periodicamente bloccano le pratiche adottive fermando coppie e bambini ormai abbinati. Dal punto di vista di chi desidera adottare si prefigurano “attese” complesse, irte di dubbi e di colpi di scena dolorosi o quanto meno preoccupanti. In un clima così, a chi si occupa di adozione, forse resta soprattutto un dovere: cercare di fare il proprio lavoro senza clamore ma costantemente, dalla parte dei bambini e dalla parte delle famiglie. Facendo il proprio lavoro, forse non si farà sempre la cosa giusta o la cosa più efficace, ma si farà sicuramente qualcosa di serio per le famiglie. Questo, come associazione famigliare, chiediamo in questo istante alle Istituzioni Italiane. Fortunatamente tuttavia, con umiltà e con soddisfazione, ci sentiamo di dire che sul versante “scuola e adozione” tante cose si stanno muovendo e sembrano muoversi in senso positivo. I protocolli provinciali di Monza, La Spezia e ora di Cremona, la lettera di Genitori si diventa pubblicata sul sito dell’USR Umbria, la partenza dei lavori a Messina, i tanti convegni dedicati al tema in generale e al Protocollo MIUR CARE, sono


una testimonianza dell’efficacia del fare “rete” tra: famiglie, associazioni famigliari, operatori, servizi, istituzioni, enti locali. Il lavoro continuo con il MIUR sta dando i primi reali risultati, sia in termini di aiuto diretto alle famiglie, sia in termini di decisioni che piano stanno venendo prese. In particolare, come riportato efficacemente nel sito di CARE che si occupa di diffondere ogni informazione sul tema, nei mesi di Giugno e Luglio 2013, due Direzioni Generali del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) hanno espresso pareri favorevoli sul caso particolare di un bambino adottato internazionalmente per cui la famiglia chiedeva la possibilità di permanere un anno in più alla scuola dell’Infanzia in Regione Veneto. Si tratta di una situazione che riguarda tante famiglie adottive i cui figli sono arrivati recentemente per adozione internazionale in età di primo obbligo scolastico. Il caso specifico riguarda un bambino della provincia di Treviso, per cui la famiglia aveva chiesto la deroga all’obbligo scolastico, ossia la possibilità di permanere nella scuola dell’Infanzia oltre il compimento del sesto anno di età, alla luce delle sue necessità psicofisiche. Il bimbo era arrivato in Italia da un anno circa e la sua situazione veniva descritta da ampia documentazione dei Servizi territoriali e dell’Ente Autorizzato che aveva curato l’adozione e che sosteneva la famiglia nella richiesta. La famiglia ha sollevato il caso presso l’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto e l’Ufficio Scolastico Territoriale di Treviso. Il CARE informato della situazione ha proceduto a presentare ulteriormente la situazione presso il MIUR, anche perché si trattava di una situazione “esemplare” di molte altre situazioni. L’interesse sollevato ha portato l’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto a fare richiesta formale al MIUR in merito a questa situazione particolare. È da ricordare che in Veneto, l’11 aprile 2012, è stato firmato un Protocollo di intesa tra l’Ufficio Scolastico Regionale, le Aziende UU.LL.SS. della Regione Veneto, il Pubblico Tutore dei minori del Veneto, gli Enti Autorizzati, inerente l’inserimento e l’integrazione scolastica del minore adottato). Di

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tale Protocollo (correlato alla Deliberazione della Giunta Regionale 2497 del 29/11/2011), l’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto aveva per altro dato comunicazione al MIUR proprio a riscontro della Circolare per la ricognizione delle buone prassi che il MIUR stesso aveva diffuso nel giugno 2012 per richiesta del Gruppo di lavoro sul tema. Quindi era di particolare importanza per l’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto ottenere una risposta sul caso specifico del bambino in questione, alla luce dell’impegno che la Regione stessa aveva messo nella scrittura di un Protocollo che riguardava il tema “scuola e adozione”. La risposta, arrivata in giugno dalla Direzione Generale Ordinamenti Scolastici, dice che “in casi eccezionali e debitamente documentati, può essere possibile derogare di un anno l’iscrizione alla classe di scuola primaria, a norma dell’articolo 114, comma 5, del decreto legislativo n. 297/1994.” La risposta arrivata in luglio dalla Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione (presso cui è attivato il Protocollo MIUR CARE e presso cui sono attivi i due gruppi di lavoro sul tema e dice che “al fine di consentire la piena inclusione scolastica del minore, è possibile posticipare di un anno l’iscrizione alla prima classe della scuola primaria. La possibilità di operare in tal senso trova riscontro anche nel dispositivo D. Lgs 297/94 art. 114 comma 5 e nella Convenzione sui Diritti del Fanciullo (New York 1989 – Ratificata con L. 176/1991). È dovere dell’istituzione scolastica, garantire il perseguimento degli obblighi di tutela, dell’interesse superiore del minore, anche consentendo deroga all’obbligo scolastico, laddove motivata da adeguata certificazione e sempre in via eccezionale.” Tali pareri delle Direzioni Generali del MIUR e le loro motivazioni, pur centrate su un caso specifico della Regione Veneto, sono di grande rilievo e mettono al centro del dibattito il superiore interesse dei bambini e delle bambine ricordando come si possa derogare all’obbligo scolastico quando in gioco è la salute dei bambini, basandosi sulla definizione di salute dell’OMS secondo cui la salute è “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia o infermità, è un diritto umano fondamentale”. Questo, che sembra un piccolo passo ma per tanti ha già significato una reale differenza, è un passo significativo su cui ne verranno costruiti tanti altri in un lavoro stabile che ci auguriamo tutti porterà alla costruzione di linee di indirizzo ben più esaustive.


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psicologia e adozione 8

di Donatella Lisciotto

Origine e narrazione nella costruzione della famiglia adottiva

percepire l’essere nel mondo e che racchiude la storicità dell’individuo. Più che una sensazione si tratta di una condizione mentale, resa possibile e fruibile dalla presenza delle cure materne che danno al bambino la percezione di sé nel mondo in assetto armonico. ParafrasanVoglio iniziare questo ar- do Pirandello, l’individuo ticolo con le toccanti pa- sente di esistere se è vivo role che Pirandello rivolge nella mente della madre. alla madre morta, perché esemplificano efficace- E’ noto che quando il bammente quello che s’intende bino, soprattutto durante per Origine non già come la prima infanzia (0-3), luogo geografico di prove- è sottoposto a situazioni nienza, (la terra in cui si traumatiche, va incontro è nati), piuttosto Origine a frammentazioni, cioè come luogo mentale, stato si rompe qualcosa dentro psichico primario. Questi, di sé, si dice allora che si al contrario della prove- rompe la continuità del sé nienza territoriale che è (Winnicott); ciò avviene suscettibile di trasferi- anche perché l’equipagmenti, cambiamenti, mi- giamento psicologico di cui grazioni, è il punto d’inizio dispone a quell’età non è dal quale si incomincia a abbastanza maturo e fun“Quando tu stavi seduta laggiù (…) io dicevo: “Se Ella (…) mi pensa io sono vivo per lei”. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me (…) ma vedi? E’ questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più!” (Pirandello.)

zionale per affrontare stimoli che provengono dal mondo esterno che siano o troppo forti d’intensità o troppo insistenti, insinuanti, subdoli, e, soprattutto, mancanti di senso, incongrui, confusivi. Succede allora che il piccolo, se viene a mancargli l’accurato e puntuale supporto materno, non potendosi difendere adeguatamente, come succederà in seguito quando lo strumentario psichico sarà maturo, crolla psicologicamente; interviene cioè una sorta di blackout delle funzioni percettive e subentra un disorientamento emotivo molto forte che assume cifre disorganizzanti. Poiché chi non ha subito questa devastante esperienza può non coglierne il patos, userò una metafora per dare al lettore un’idea di ciò che succede o, di più,


AVVISO AI LETTORI Vi informiamo che il dr. Carola si è reso disponibile a rispondere alle domande dei lettori legate alle tematiche da lui trattate. Chiunque lo volesse può indirizzare gli eventuali quesiti a: rubricapsi@genitorisidiventa.org. Alcune delle richieste pervenute e delle relative risposte saranno successivamente pubblicate in un’apposita rubrica che, nel caso di risposta favorevole dei nostri lettori a questa iniziativa, vedrà la luce nei prossimi mesi. I dati sensibili contenuti nelle richieste non compariranno in nessun modo nel caso in cui verranno pubblicate sul giornale. L’informativa sulla privacy è pubblicata sul sito dell’associazione.

tenterò di riprodurre uno stato emotivo che serva ad immedesimarsi poiché è molto importante, a volte, riuscire a provare, anche in parte, lo stato emotivo di chi vorremmo comprendere ed aiutare. Avete mai visto un tornado in azione? Quando sconquassa le case, frantuma tutti i vetri, apre letteralmente le fondamenta, tira giù i tetti, cancella le strade, rende irriconoscibili interi paesaggi, spazza via scuole, giardinetti, il negozio di giocattoli in fondo alla strada, la gelateria dove si andava a comprare il gelato? E infine, quando è passato, ti lascia sgomento e confuso e pensi che non ce la farai a ricostruire con le tue sole forze. E’ in quel momento che hai bisogno di qualcuno che non faccia domande. E del resto,

quali risposte si possono dare? Non puoi darle, non ce la faresti. Potresti piuttosto facilmente lasciarti morire, anzi, in quel momento, ti sembra la cosa più facile e consequenziale; in quel momento hai bisogno solo di qualcuno che si metta con te, in silenzio, a ricominciare, che ti dia una mano, serena, non inquieta, non aggressiva né energica, ma cauta, discreta, determinata, confortante e soprattutto paziente e lenta, che pensi alla tua condizione, non alla sua fatica. Insieme passate tra le macerie (gli effetti del crollo psichico) a raccogliere pezzi sparsi, anche dettagli minuti, che paiono ininfluenti ma che vanno rimessi insieme, ricollocati, poiché sono la tua storia, anche se, probabilmente, la nuova versione non sarà mai più

come quella originaria. Queste brevi note sullo sviluppo emotivo servono per comprendere quanto sia, per il bambino, salvifico avere un Io ausiliario che lo aiuti a tenere insieme le sue esperienze, dando ad esse un nome che serva a dare senso alla sua storia. Sebbene la madre durante gli ultimi mesi di gravidanza, e per un anno a seguire la nascita del suo bambino, si “ammala” di quella che Winnicott definì preoccupazione materna primaria e, più tardi, Bion chiamò rèverie materna, stato mentale momentaneo attraverso il quale la madre entra in piena sintonia con lo stato mentale del suo bambino, prevenendo e prevedendo i bisogni che il piccolo non è ancora in grado di esprimere con chiarezza; tuttavia, al-

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dilà di tale condizione fisiologica, si è appurato che la funzione materna prescinde dall’essere madre naturale o adottiva, e prescinde persino dall’essere donna o uomo, giovane o anziano, genitore o educatore che sia; è piuttosto una capacità dell’individuo dotato del talento di prendersi cura dell’Altro e comprenderne i bisogni anche inespressi così come farebbe una madre dotata di “preoccupazione materna primaria”. La madre, o comunque la “funzione materna”, esercitata cioè anche da un succedaneo materno, risulta in questi casi fondamentale, poiché si configura come la memoria (Artoni, 2012), mette insieme i pezzi sparsi, aiuta a recuperare il significato delle emozioni vissute, in una parola, abbraccia la mente del bambino.

Come dice la psicoanalista Claudia Artoni Schlesinger nel suo bel libro “Adozione e oltre”, edito da Borla, “Il bambino adottato arriva ai suoi genitori adottivi, privo di questa memoria, privo di qualcuno che possa ricordare per lui e con lui”. L’aspetto del ricordare diviene allora non un mero esercizio mnemonico di episodi sparsi ma è un’operazione sublime che collega fili spezzati, dà significato ad esperienze che sono nel bambino confuse, nebulose, non soltanto non fruibili ma, peggio, terrifiche. Nel ricordare prende corpo la narrazione (Ferro, E il bambino adottato? Il bambino adottato rischia 1992) attraverso la quale, di essere astorico. Se priva- tornando sulla storia del to della sua storia passata, bambino e recuperandola, della sua origine, può svi- si restituisce a lui signifiluppare, inconsapevolmen- cato e memoria. te, l’inermità del presente. Nei legami adottivi, o meA volte, accanto ad una madre incompetente affettivamente, anche nonostante i suoi sforzi, la presenza di un’altra donna che la sostenga all’inizio della maternità, può essere di grande aiuto. Penso alla presenza di una nonna, una zia, un’amica più grande e già esperta ma anche un compagno cui appoggiarsi, può svolgere quella condizione happy end simile a quella che ritroviamo appannaggio degli adolescenti svolta da figure di riferimento chiamate Compagno Adulto (CA)* o Compagno di Riferimento (CR)*.


glio, affinché l’adozione possa svilupparsi in un legame adottivo, la funzione materna, la rèverie, la preoccupazione materna primaria, possono allocarsi nella narrazione. Aiutare il bambino a ricordare, non necessariamente fatti accaduti realmente, bensì immaginati, fantasticati, sognati, soffermarsi nei particolari sfuggenti della sua storia, veritieri o immaginifici che siano, e condividerli, trasformare le ombre in coni di luce, chiamare le cose col loro nome, raccogliere i dettagli sparsi camminando insieme, anche in silenzio, nel luogo del tornado, significa creare un ponte che unisca passato e presente piuttosto che imboccare bivi. Ma di più: come per ognuno di noi che vuol cercare di vivere bene, il passato non può e non

deve essere dimenticato, né annullato, se non prima essere stato ricordato. Ogni cosa è illuminata, recita il titolo di uno splendido film di Liev Schreiber; ogni cosa della nostra storia, che si trova in noi, dev’essere illuminata; recuperata, significa darle un significato, per impedire che si trasformi, in seguito, in sintomo: angoscia, terrore senza nome, disadattamento. A mio avviso, la narrazione è alla base della costruzione della famiglia adottiva, poiché, coinvolgendo sia il bambino che i genitori, li chiama nella costruzione di una condizione esperienziale, nuova e attuale, stavolta fatta da un presente che, raccogliendo il passato e ad esso raccordandosi, racconta anche (e soprattutto!) degli sforzi e

dell’impegno di esserci, di essere insieme qui e ora, nel recupero delle reciprocità e nella quotidianità. Perché questo possa accadere bisogna domandarsi: Ma come arrivano genitori e bambini all’adozione? Una domanda che sembra retorica ma non lo è. Se il bambino mostra segni del trauma relativo all’abbandono e all’istituzionalizzazione, alcune di queste molto severe, non trascuriamo il fatto che anche i genitori raggiungono l’adozione alla fine di altrettanti traumatismi assunti, poco alla volta ma inesorabilmente. Anche loro impegnati con l’esperienza dell’abbandono: dover abbandonare, e per sempre, la funzione, prima e la speranza, dopo, di procreare (condizione estremamente dolorosa che intacca, fino a destabi-

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lizzare, la compattezza del sé); a questo si aggiunge l’esperienza delle cure per la procreazione assistita, spesso un vero e proprio calvario, costoso, lungo e, in molti casi, improduttivo che mette a dura prova la coppia, provocando a sua volta un traumatismo di coppia, dove si possono sviluppare reazioni di rigetto fino all’allontanamento di uno dei partner e, quel che è peggio, anche in assenza di una separazione vera e propria; e, peggio di peggio, ottenere in queste condizioni emotive l’”abbinamento” (!). Sarebbe importante ripensare l’adozione con nuove premesse che la sgancino dal peso di un passato indefettibile che allontana ed estremizza. Certo non è facile. L’adozione, piuttosto com-

porta la costituzione di una nuova famiglia, una famiglia-altra, che vive una realtà-altra. Perché ciò avvenga bisogna ricominciare daccapo, insieme, nella Verità, anzi utilizzare, senza nascondimenti ciò che è stato e che è, poi, proprio ciò che ha fatto incontrare genitori adottivi e bambini abbandonati. Quando cioè avviene il famoso “abbinamento” (mai termine è stato tanto infelice e, del resto, ben rappresenta la logica oscura che regola l’adottabilità: una lotteria?) si incontrano bambini e adulti già alle prese, e spesso non aiutati, con l’elaborazione del senso di morte, di disfacimento, che sanno bene cos’è la delusione, che stanno emotivamente facendo i conti col fallimento di quello che da sempre è ritenuto

un fatto addirittura scontato: avere un figlio/avere dei genitori. In questo senso l’adozione potrebbe avviarsi dall’incontro e dalla condivisione di storie, reciprocamente dolorose che (proprio per questo) inducono, difensivamente, alla negazione dei vissuti di perdita. Si verifica allora un “incantesimo” che trasforma persone in personaggi, e che impedisce di collocarsi (sia bambino che genitore) in una storia, nuova, vera e reale, ancora non scritta o che aspetta di essere scritta. Quello che sembrerebbe un punto di debolezza potrebbe invece essere punto cardinale. E’ qui che la narrazione assume un effetto trasformativo. E’ muovendosi dal proprio dolore e dalla possibilità


di poterlo, adesso, insieme, pensare che si può finalmente costruire la famiglia adottiva. L’esperienza fatta a Messina durante la conduzione di un gruppo di genitori con figli adolescenti, mi ha fatto riflettere sul modo in cui l’adozione viene vissuta differentemente dalle famiglie nella considerazione di quanto detto. Pur all’interno di situazioni anche molto affettive, alcuni genitori sembrano impegnati di più a sentire il ruolo e la responsabilità piuttosto che sentire emotivamente il figlio. Il più delle volte questa condizione provoca il formarsi di dinamiche familiari in cui s’impone il contrasto tra i membri impegnati, tra loro e col figlio, in una sorta di braccio di ferro per stabilire chi sia il capo branco più che affermare il primato della genitorialità. Altre volte ho avuto l’impressione che ci fosse un atteggiamento mentale reciprocamente guardingo, di fiutarsi a vicenda; sia i genitori che i figli, indifferentemente, sembrano prendere le misure reciprocamente. Sembra che, entrambi, siano abbastanza preoccupati, ad un livello meno

cosciente, di tutelare e proteggere la propria individualità, la cosa che posseggono da sempre e alla quale, giustamente, non rinuncerebbero per nessun motivo soprattutto in circostanze nuove ed estranee laddove l’Altro viene vissuto come lo “straniero” (ancora Artoni, 2012), oggetto-sconosciuto che può appropriarsi, prendere possesso del proprio territorio, riducendo in minoranza gli altri del gruppo. Ma questo è un discorso che merita un buon approfondimento. In altri casi, invece, si può apprezzare un clima reso lieve dalla capacità dei soggetti (genitori e figli) di giocare tra loro nel “nuovo” ordinario familiare in cui prevalga la curiosità delle reciproche culture, delle storie, delle abitudini, delle diversità caratteriali. In questo caso prevale lo stare insieme per conoscersi e per apprendere gli uni dagli altri. Ho chiesto ad una madre adottiva che cosa l’avesse spinta ad adottare un bambino. “Ad un certo punto della ma vita – risponde – ho sentito l’esigenza di condividere con un bambino quello che facevo durante la giornata; se mangiavo,

se passeggiavo, se guardavo un film, avrei voluto farlo con un bambino accanto”. E’ a partire dal piacere di condividere la vita, di realizzare un modo giocoso di stare insieme, o di contrastarsi con spontaneità, di soffermarsi in un ascolto reciproco e commosso dell’Altro che un gruppo di persone diventa famiglia. L’esempio citato, per la sua semplicità e autenticità contiene quello che, aldilà dell’ovvio, ho voluto comunicarvi. BIBLIOGRAFIA Artoni Schlesinger C., Adozione e oltre, Borla, Roma, 2012 Bion W.R, Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, 2009 Ferro A., La tecnica nella psicoanalisi infantile, Cortina, Milano, 1992 Pirandello L., Colloqui coi personaggi, Opere, vol III, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1990 Winnicott D.W., Esplorazioni Psicoanalitiche, Raffaello Cortina, Milano, 1995

* Il Compagno Adulto è una figura professionale nata negli anni ’80 all’interno dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile “La Sapienza” di Roma; oggi è incluso tra le attività realizzate dall’Associazione Rifornimento in volo, sita a Roma in via Lucca 19. Il Compagno di Riferimento, figura professionale ispirata al Compagno Adulto, è inclusa tra le attività dell’Associazione Felicità Interna Lorda, sorta a Messina nel 2013.

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salute e adozione

Prof. Enrico Sesenna, Direttore Clinica Chirurgica Maxillo-facciale Università e Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma

Le schisi labio maxillo palatine 14

Le schisi labio maxillo palatine sono le malformazioni più frequenti nel distretto cranio-maxillofacciale, rappresentando una percentuale da 1:700 ad 1:900 nuovi nati vivi in base a variabili razziali e territoriali. Tali malformazioni trovano cause di tipo genetico (basate verosimilmente sulla partecipazione di più geni a diversa espressività) e/o cause cosiddette ambientali. Fra queste sicuramente di rilievo sono le malattie in periodo di gravidanza, la malnutrizione materna, fattori tossici ambientali e consanguineità fra i genitori. Come facilmente intuibile questi ultimi fattori coesistono in genere nei paesi in via di sviluppo ed in quelli ad alto impatto numerico quanto a popolazione e corrispondente scarsa attenzione alla salute del-

la popolazione stessa. La presenza di una schisi, ci riferiamo ad una labiopalato schisi (LPS) completa, ingenera vari tipi di problematiche che potremmo distinguere in: •  funzionali; • estetico-morfologiche; • correlate all’accrescimento scheletrico maxillofacciale. I problemi funzionali sono da riferire principalmente a: •  sviluppo di un linguaggio adeguato senza distorsioni fonetiche (fondamentale la funzionalità del palato molle) •  sviluppo di una occlusione dentaria normale (importanza di un corretto sviluppo dello scheletro maxillo-mandibolare) • funzione respiratoria normale (setto spesso deviato con alterazione funzionale);

•  corretto funzionamento delle tube di Eustachio e conseguente normale funzione uditiva (rapportata in special modo al corretto funzionamento del palato molle) Importantissimo è anche il risultato estetico per quanto consta la regione labio-nasale che dovrebbe evitare la riconoscibilità dell’evento malformativo e permettere un adeguato inserimento sociale, senza la paura di essere “ghettizzato”, in quanto diverso dagli altri (evento non così raro, specie nell’età più precoce). Al fine di condurre ad un risultato il più possibile ottimale, è quindi sotto tutti i punti di vista fondamentale il lavoro di un team multidisciplinare composto da più professionisti che collaborino ciascuno con la propria competenza con tempi e modi di-


versi ( gli specialisti più coinvolti sono in genere: Chirurgo delle schisi, Otorinolaringoiatra, Pediatra, Logopedista, Odontoiatra, Ortodontista, Genetista, Psicologo). Il team coopera nell’effettuare una serie di trattamenti e controlli spalmati nel tempo ( il bambino va seguito fino a crescita ultimata) in rapporto ovviamente al tipo di evento malformativo (labioschisi, LPS, palatoschisi, ecc) ed alla necessità del singolo caso, realizzando quindi un protocollo di trattamento personalizzato. A tale riguardo esistono più protocolli di trattamento seguiti dai vari autori che in realtà si distinguono non come filosofia ma per aspetti particolari (per esempio il timing esatto), condividendo l’obiettivo di risolvere i problemi del piccolo paziente nei tempi

e nei modi più idonei. L’aspetto chirurgico è ovviamente molto importante non solo per le metodiche utilizzate per eseguire la correzione della schisi ma anche per la tecnica operatoria (in termini di accuratezza della stessa) precipua del singolo chirurgo. Ross e Coll. hanno evidenziato come la stessa metodica possa portare a risultati molto diversi nelle mani dei vari chirurghi in base al fatto che una tecnica poco accurata avrà massime complicanze nel postoperatorio e porterà ad un impatto negativo sulla crescita dello scheletro del bambino (cicatrici retraenti; lesione di centri di crescita ecc). Oltre alla chirurgia l’apporto di figure terapeutico/riabilitative come per esempio il foniatra/ logopedista o l’ortodontista risultano egualmente

fondamentali per attuare una adeguata riabilitazione (per es. da parte del logopedista dopo correzione delle schisi palatine) o una correzione di alterazioni dento-scheletriche (per es. da parte dell’ortodontista). Esemplificando brevemente e sommariamente un caso di LPS monolaterale il nostro protocollo prevede: •  plastica labio–narinale e del palato molle a 5-6 mesi; simultaneamente vengono valutati eventuali problemi otoiatrici (otite sino-mucosa) •  plastica del palato duro e della gengiva a 18-20 mesi. Il bambino, completato il trattamento chirurgico, viene poi valutato dalla logopedista (appena vi è collaborazione da parte del bambino) e dall’ortodontista (intorno a 4 anni). Saranno questi specialisti

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a definire la necessità o meno di procedere ai trattamenti idonei. In genere, seguito ovviamente anche dal chirurgo, verrà rivalutato anche l’aspetto estetico onde eventualmente inserire nel protocollo una correzione secondaria del labbro o del naso prima dell’immissione scolare, sempre cercando di annullare il più possibile le “stimmate” malformative e consentire una migliore socializzazione. Successivamente negli anni il bimbo andrà controllato/trattato per eventuali correzioni secondarie per necessità estetiche o funzionali (per es. insufficienza velo-faringea ovvero linguaggio non corretto) che si dovessero presentare. Sarà solo a sviluppo scheletrico ultimato (cioè intorno ai 17-18 anni) che potremo considerare chiuso il nostro follow-up, avendo eventualmente preso in considerazione problematiche insorte con la crescita (mal occlusioni dento-scheletriche, alterazioni rino-settali ecc) che potranno anch’esse trovare una adeguata soluzione ( osteotomia delle ossa mascellari, rinosettoplastica ecc). Nel caso di bambini che provengono in adozione da altri paesi, molto spesso

le problematiche comunque insite nelle patologie malformative purtroppo si assommano ad altre situazioni ambientali, figlie delle realtà socio-economiche da cui i bimbi arrivano. I colleghi che eseguono la terapia chirurgica nei paesi di origine spesso derogano dalle considerazioni sopra esposte e dai protocolli internazionali adottando talora metodiche chirurgiche non propriamente standardizzate o eseguite con tecniche non accurate. Difficile stabilire le motivazioni di tale atteggiamento comportamentale. Verosimilmente si assommano vari fattori quali un carico numerico assistenziale decisamente superiore a quello vissuto nella nostra realtà, la necessità di risolvere il più rapidamente possibile la malformazione per potere preparare il bambino per l’adozione (senza curare troppo il timing o il risultato), il fatto che i bambini sono comunque affidati ad una struttura pubblica (orfanotrofio od altro) e non ad una famiglia e quindi seguiti in maniera non così accurata, la possibilità che i chirurghi che si occupano di questo tipo di pazienti non sono i migliori esistenti anche in questi paesi. Consideriamo inoltre che, in special modo nei bam-

bini che giungono in età un po’ più avanzata quindi dopo i 3-4 anni, molto spesso non sono state adottate le terapie riabilitative complementari alla chirurgia quali logopedia o ortodonzia, che rappresentano aspetti terapeutici fondamentali per un buon risultato. Il bambino adottato spesso presenta quindi problematiche complesse che comunque vanno affrontate il prima possibile al fine di inserire il piccolo paziente in un protocollo terapeutico adeguato. Indispensabile una visita collegiale (team) precoce al fine di definire le problematiche, gli obiettivi ed i vari step da seguire, ovviamente discutendo il tutto con i genitori adottanti, per così adattare correttamente i procedimenti terapeutici all’inserimento familiare e sociale del bambino. Ritengo che prima di tutto (ovviamente con le eccezioni che possono sempre essere presenti) vadano affrontati i problemi funzionali in special modo quelli legati al linguaggio. E’ infatti dato acquisito il fatto che eventuali distorsioni del linguaggio, di solito legati a problematiche della funzionalità del palato molle, possono risultare impossibili da correggere se lasciate sviluppare per


un tempo lungo. Una accurata valutazione clinica (basata anche su un esame fibroscopio nasale che ben evidenzia la funzione del palato molle in fonazione) e logopedica indirizzerà o meno verso una indicazione chirurgica. La chirurgia mirerà a correggere una eventuale insufficienza velo-faringea ricostruendo la corretta anatomia del palato molle ( e di quello duro nel caso di presenza di fistole oro-nasali) e di solito anche allungando il palato molle al fine di tentare di creare un normale rapporto fra palato molle e parete rinofaringea posteriore, indispensabile per sperare in una corretta funzione. E’ ovvio che sarà sempre indispensabile un periodo di riabilitazione logopedica volto a riabilitare il palato operato e a correggere tutte le distorsioni fonetiche esistenti. La presenza di comunicazioni oro-nasali possono essere dovute a complicanze degli interventi precedentemente eseguiti oppure, se presenti a livello delle gengive (cosiddette schisi alveolare), in seguito ad un protocollo di trattamento che non abbia previsto la chiusura della schisi a livello della gengiva nel corso del trattamento primario (come invece avviene nel nostro

protocollo ove la gengiva viene chiusa intorno ai 1416 mesi assieme al palato duro). Le comunicazioni oro-nasali complicanze di interventi mal eseguiti vanno risolte perché provocano anch’esse alterazioni del linguaggio e causano inoltre fastidioso passaggio di cibo nel naso durante l’alimentazione. Tali interventi sono spesso tutt’altro che semplici poiché ci si trova ad agire su tessuti palatini cicatriziali e quindi scarsamente mobilizzabili e con una vascolarizzazione talora alterata. La schisi alveolare (a meno di casi che possono rientrare per età nel protocollo standard) andrà invece risolta intorno agli 8-10 anni associando alla plastica della schisi anche un innesto osseo che ricrei la continuità tra i segmenti mascellari e consenta una corretta terapia ortodontica. Grande attenzione va poi dedicata al risultato estetico–morfologico del complesso naso–labiale poiché la presenza di anomalie in questa regione ha un grande impatto sulla riconoscibilità delle stimmate malformative e quindi sull’inserimento sociale del bambino. Tante possono essere le caratteristiche negative di una schisi labio-narinale trattata non

in maniera corretta. Le più frequenti: –  Labbro monolaterale: asimmetria di verticalità fra i due emilabbri a livello della cicatrice chirurgica, cicatrici troppo evidenti, asimmetria di forma del bordo rosso, ecc. –  Labbro bilaterale: cicatrici troppo evidenti, labbro troppo lungo o troppo corto, filtro labiale slargato e/o asimmetrico, deformità per retrazione verticale della regione labiale mediana, ecc. –  Naso: asimmetria della larghezza dell’ “aditus” narinale, asimmetria della punta del naso, allargamento eccessivo distanza tra le ali nasali (s. bilaterale), columelle corte (schisi bilaterali), ecc. (vedi Fig. 3,4). Sempre a livello nasale da valutare anche la funzionalità respiratoria dato che spesso, in special modo nelle schisi monolaterali, vi può essere una importante deviazione settale condizionante una corretta respirazione nasale. Molti di questi problemi possono essere migliorati, se non corretti completamente, con interventi secondari tenendo però ben presente che sempre in chirurgia gli interventi secondari vanno ad agire su tessuti già trattati (e quindi cicatriziali),

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talora con aree tissutali compromesse se non deficitarie o assenti per chirurgia troppo aggressiva. Non sempre quindi si riescono a realizzare i risultati che invece si hanno in chirurgia primaria ben fatta e realizzare gli obiettivi estetico–morfologici sperati dai genitori del bambino. Risolte le problematiche sopra esposte il bambino andrà poi inserito nel consueto protocollo di trattamento e seguito dai vari specialisti del team durante lo sviluppo, attuando le terapie (logopedica, odontoiatrica, ortodontica, psicologica, ecc.) che dovessero rendersi necessarie. In special modo importante è il monitoraggio dello sviluppo scheletrico delle ossa mascellari poiché, in conseguenza degli interventi ripetuti e di reliquati cicatriziali, si possono verificare alterazioni di crescita che possono esitare in modificazioni tridimen-

sionali delle ossa mascellari con impatto funzionale (occlusione dentaria) e estetico – morfologico. Tali eventuali anomalie di crescita possono trovare un’adeguata soluzione chirurgica a sviluppo ultimato con tecniche di osteotomia delle ossa mascellari. In definitiva il percorso terapeutico di un bambino portatore di LPS, ed in special modo quello di un bambino non operato correttamente in prima istanza, è lungo, complesso e richiede molta collaborazione da parte dei genitori e del bambino stesso. Affidandosi tuttavia a un team che abbia esperienza in questa patologia i risultati sono molto positivi e portano pressoché sempre ad un normale inserimento sociale del bambino prima e dell’adulto poi.

GLOSSARIO Aditus apertura, entrata. Columella nasale: la parte esterna del setto che divide le due narici. Comunicazione oro-nasale un apertura o canale innaturale che mette in comunicazione la bocca (oro) con il naso dovuta a non perfetta chiusura della schisi. Narinale aggettivo che riguarda le narici nasali. Schisi. Fessurazione; termine indicante un particolare tipo di malformazione congenita di alcune parti del corpo, che non si saldano fra loro a causa di un arresto dello sviluppo embrionale, dando quindi luogo a una fessura. Stimmate malformative: le caratteristiche esterne, visibili di una malformazione, le lesioni che rimangono dopo la correzione chirurgica (per esempio cicatrici cutanee evidenti ed anche le alterazioni causate dal tentativo di correggere quali le retrazioni e i reliquati cicatriziali. Timing il periodo giusto per fare un determinato intervento (chirurgico o medico o fisiatricoriabilitativo). Di solito dipende dall’età dal bambino ma anche da altri fattori.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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psicologia scuola e adozione 20

di Livia Botta

Scuola: i “compiti” dei genitori - 1

Cosa possono fare in concreto i genitori per sostenere il percorso scolastico dei loro figli? Esamineremo due aspetti, entrambi fondamentali: la comunicazione scuola-famiglia e (in un prossimo articolo) l’aiuto nell’apprendimento. E’ evidente come la collaborazione tra i genitori, gli insegnanti e gli altri operatori che supportano il percorso adottivo, giochi un ruolo chiave nell’aiutare i bambini adottati a procedere serenamente nella scolarizzazione. Un primo aspetto è l’effetto positivo sulla motivazione e sulla fiducia: i genitori che mostrano interesse per la vita scolastica e una buona opinione dei docenti, che mantengono con loro rapporti costanti, che partecipano con piacere agli eventi organizzati dalla scuola trasmettono ai figli una vi-

sione positiva dell’apprendimento e li aiutano a predisporsi attivamente verso le sfide che esso comporta. Sappiamo inoltre che, spesso, i bambini che hanno subito traumi e perdite di legami significativi possono mostrare comportamenti, innestati su profonde ragioni psicologiche, che scatenano negli adulti emozioni difficili da gestire e che potrebbero causare incomprensioni e divisioni tra i diversi soggetti che si occupano di loro. Per questa ragione è necessario che le diverse figure di riferimento del bambino imparino l’una dall’altra e si sostengano reciprocamente, soprattutto quando ci sono delle difficoltà. Non si può negare che esistano ancora insegnanti che non conoscono l’impatto che le perdite e i traumi possono avere sui bambini, e che molti genitori debba-

no lottare perché i bisogni dei loro figli siano tenuti presenti dalla scuola. Pian piano, tuttavia, questa situazione sta cambiando, e il cambiamento potrà essere più veloce se i genitori dimostreranno fiducia nella capacità della scuola di assicurare una risposta ai bisogni specifici di ciascun bambino. Famiglia e scuola hanno responsabilità diverse nella creazione e nel mantenimento di una collaborazione produttiva. Da parte della scuola è indispensabile una conoscenza delle dinamiche psicologiche dell’adozione e delle problematiche di cui i bambini adottati sono portatori; una disponibilità alla comunicazione e all’ascolto attento ed empatico dei genitori; la presenza di figure (insegnanti referenti per l’adozione) che siano


punto di riferimento per i genitori e tramite con gli altri operatori scolastici, nella necessaria riservatezza; l’individuazione delle aree su cui è opportuno condividere informazioni. La scuola deve inoltre fornire ai genitori le conoscenze indispensabili sull’organizzazione scolastica e sulla didattica, sulle eventuali linee guida e le esperienze pregresse di inserimento di bambini adottati, così come deve rendere espliciti gli obiettivi educativi e le metodologie che metterà in atto per il bambino. Spetta ancora alla scuola curare il passaggio delle più significative informazioni sull’alunno da un ciclo scolastico all’altro. Ai genitori si richiede fiducia negli insegnanti e disponibilità a fornire quante più informazioni possibili. La questione è

controversa (E’ giusto e opportuno trasmettere alla scuola informazioni spesso dolorose sulla storia precoce del bambino, sui traumi e le perdite subiti? Non si tratta di questioni riservate che è meglio restino in famiglia? Che uso ne faranno gli insegnanti?). Personalmente ritengo che sia meglio che la scuola riceva quante più informazioni possibili. Lo sviluppo dei bambini adottati si diversifica per alcuni aspetti da quello dei coetanei e gli insegnanti hanno bisogno di conoscere la loro storia per riuscire a capirli e a calibrare le richieste di apprendimento nei modi e nei tempi appropriati. Raccontare può essere difficile per i genitori, ma bisogna ricordare che questa collaborazione sarà fondamentale per i progressi evolutivi e il benessere del bambino.

La tipologia di informazioni da condividere al momento del primo ingresso a scuola può variare a seconda dell’età e della classe d’inserimento, ma in generale le aree di condivisione sono le seguenti: •  La storia del bambino precedente all’adozione (le notizie più importanti, eventuali traumi significativi, la scolarità pregressa se c’è stata); •  La storia adottiva (da quanto tempo il bambino è in famiglia, le sue abitudini e i suoi comportamenti più significativi, le criticità che richiedono attenzione, le situazioni che possono aumentare i suoi livelli di ansia e le strategie che i genitori usano in questi casi, se il bambino conosce la sua storia e ne parla spontaneamente); •  L’area delle abilità cognitive e relazionali (grado di conoscenza della lingua

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italiana e di quella precedente l’adozione, abilità/ disabilità riscontrate dai genitori in ambito motorio, espressivo e strumentale, autonomia, modalità di interazione con i coetanei e con gli adulti); •  La rete di riferimento (operatori dei servizi terrioriali, psicologi degli enti, professionisti privati o altre figure che stanno accompagnando il percorso adottivo, forme di collaborazione attivabili se necessario). Se è fondamentale una comunicazione esaustiva e trasparente nella fase di avvio della scolarizzazione, altrettanto importante sarà il mantenimento della collaborazione in itinere. Sia i genitori che la scuola devono essere consapevoli che investire tempo ed energie nella relazione scuola-famiglia sarà di enorme valore sia per il bambino che per tutti gli adulti che si prendono cura di lui. Ci sono modi diversi per mettere in pratica questa collaborazione. Ma in tutti i casi è importante che i contatti siano regolari e concordati nella cadenza e nella modalità, evitando di limitarli ai momenti critici e alle emergenze, quando intendersi può diventare più difficile. E’ anche ne-

cessario fissare i confini di ciò che andrà condiviso, definendo alcune aree importanti su cui comunicare: si dovrebbero individuare poche aree di potenziale miglioramento e monitorare insieme il lavoro che ciascuno riesce a fare all’interno del proprio contesto, evitando di focalizzarsi sui punti di debolezza o di riversare le tensioni scolastiche sulla famiglia, e viceversa. Sempre, inoltre, va preventivato un tempo adeguato per informare i genitori e discutere con loro su come affrontare in classe temi delicati che potrebbero incrementare l’ansia del bambino (il tema dell’identità, della storia personale...). Per i bambini e i ragazzi più in difficoltà ci sono ulteriori precauzioni da adottare. E’ importante, in primo luogo, non incaricarli di trasmettere informazioni tra scuola e famiglia e viceversa. Questa deve essere una responsabilità degli adulti, soprattutto nel caso di bambini che già hanno difficoltà a ricordare e a organizzarsi, o al contrario che tendono ad assumere un ruolo adultizzato. Nel caso in cui si rendano indispensabili contatti frequenti, va deciso insieme il mezzo migliore per comunicare: si può opta-

re per incontri periodici a cadenza definita, per un libretto di comunicazioni dalla famiglia alla scuola e viceversa da compilare settimanalmente, per il telefono o la posta elettronica, purché si tratti di uno strumento concordato nelle sue modalità e nei suoi tempi d’uso. E’ importante la costanza della comunicazione, che non va limitata ai momenti in cui si presentano situazioni difficili da gestire, quando diventa difficile una visione equilibrata della situazione complessiva. Quello che è importante comunicare, nelle due direzioni, sono le situazioni che potrebbero comportare un sovraccarico emotivo per il bambino (i cosiddetti “potenziali riattivatori post-traumatici”). Può trattarsi di nascite o di morti nella famiglia allargata, dell’allontanamento temporaneo di una figura significativa, di gravidanze di persone a contatto col bambino, di un cambio d’insegnante, ma anche di festività o compleanni, che certi bambini possono vivere con un senso di dolore e di vuoto. Se questi eventi vengono comunicati, sia gli insegnanti che i genitori potranno riconoscere che certi comportamenti (scoppi di rabbia, manifestazioni di aggressività o


di chiusura, ecc.) possono essere direttamente correlati a qualcosa che è accaduto. Sarà allora più facile, piuttosto che rispondere con sanzioni o lasciare che il bambino sperimenti fallimenti scolastici, decidere di diminuire le richieste (o anche il tempo scuola, se il bambino sta davvero male o è troppo stanco) fino a quando la situazione si sarà normalizzata. Un’ultima riflessione riguarda i passaggi da un ciclo scolastico all’altro. Spesso gli insegnanti, ma anche i genitori, tendono a pensare che un ragazzo adottato diventi con il tempo “come tutti gli altri”. In parte è così. Non va però dimenticato che chi ha subito nella prima infanzia importanti perdite di

figure di riferimento tenderà a vivere con maggior disagio e disorientamento dei coetanei i cambiamenti delle figure di riferimento in ambito scolastico e i passaggi da un grado di scuola all’altro. Inoltre, col procedere degli studi, criticità spesso presenti nei minori adottati (la difficoltà di concentrazione, la fatica a mantenere la costanza in un’attività) possono rendere sempre più arduo il percorso scolastico. E’ quindi importantissimo estendere la collaborazione scuola-famiglia anche alle fasi successive alla scolarizzazione iniziale. Se è compito della scuola curare la continuità trasmettendo la documentazione e le informazioni più importanti, i genitori non dovranno stancarsi di

ripetere la storia del figlio e di fornire tutte le informazioni che ritengono utili per mettere in grado gli insegnanti di comprendere certi comportamenti e i meccanismi che li generano. Anche nel prosieguo del percorso scolastico è dunque opportuno tenere aperto il dialogo, programmando, in accordo con la scuola, incontri inizali e in itinere con il referente per l’adozione (se presente) e/o con un insegnante di classe che possa fungere da riferimento e tramite per la famiglia e per i colleghi, per garantire il necessario confronto sui progressi del ragazzo sia per quanto riguarda gli apprendimenti, sia per quanto riguarda la maturazione personale.


giorno dopo giorno 24

di Carmine Pascarella e Federica Sassi

Dagli Appennini alle Ande: un fantastico viaggio in Cile - 3

L’aereo corre veloce sulla pista di Santiago per spiccare il grande balzo verso Madrid. Sono seduto fra Mauro e Federica e in quel momento corrono rapidamente nella mia mente le immagini dei tanti momenti che hanno scandito le emozioni del nostro soggiorno in Cile. Torniamo con una valigia molto più piena di quanto non fosse quella che avevamo all’andata. Come si dice, una valigia piena di ricordi, di emozioni da rivivere ripensandole… un carico veramente prezioso. Mi tornano alla mente Ana, Angelica, Emilio, Enrique, Madre Aline, Ovidio, Esterlina e tante altre persone ancora. Mettiamo un po’ di ordine e diamo contorno a questi personaggi. La madre naturale dei miei figli Rosa Miriam Riffo Vidal venne accolta quando era ancora una ragazzina da una famiglia che ha svolto le funzioni, in modo spontaneo, della

famiglia affidataria. Questa famiglia era composta da Ana, madre di Angelica, e dai suoi figli Enrique ed Emilio. Si tratta di una famiglia che per i nostri standard apparirebbe piuttosto povera, ma nel contesto cileno avrebbe, a buon diritto, potuto appartenere al ceto medio. Nonostante il sostegno dato alla madre naturale dei nostri figli, quest’ultima per la sua inadeguatezza venne dichiarata inidonea a svolgere funzioni genitoriali. Tutto questo fa parte di un lontano passato. Ciò che era importante durante il nostro viaggio era ritornare in quei luoghi, in quel quartiere periferico e ricontattare questi parenti “acquisiti” dei miei figli. Angelica, Emilio ed Enrique erano come zii, mentre la figlia di Angelica, coetanea di Mauro, era come una cugina. I contatti fra Mauro ed Ana erano attivi già da tempo e pertanto l’incontro che avremmo

avuto aveva già solide premesse. Non vi nascondo che inizialmente ero un po’ titubante all’idea di incontrarli, ma ho superato le resistenze grazie anche al confronto con Mauro e Federica. Verso le 18 di un sabato pomeriggio, impostato il navigatore satellitare, ci avviamo presso l’abitazione di zia e cugine che nel frattempo ci hanno preparato una cena con specialità tipiche cilene. Questa abitazione fra l’altro non era lontana dalla casa poverissima, fatta di legno e lamiere, nella quale erano cresciuti i miei figli. L’accoglienza è stata fantastica, una casa bassa, con tutte le cose essenziali, con la possibilità di cenare all’aperto, ci attendeva. Inizialmente erano preoccupati per la mia presenza temendo che io appartenessi ad una classe sociale molto distante dalla loro e che avrei posto una certa freddezza nell’interagire con loro. Nulla di tutto


questo. Sento di avere respirato le loro abitudini e di essermi immerso nel loro contesto relazionale. I racconti e il cibo hanno rappresentato un solido collante. Dovete sapere che quando viene apprezzata la bontà di una specialità gastronomica in Cile si dice “che ricco!”. In quella circostanza mentre io assaggiavo la cazuela, di cui Mauro aveva molta nostalgia, ho esclamato un’espressione tipicamente italiana: “ piatto ricco, mi ci ficco!”. La somiglianza e l’assonanza delle esclamazioni, nonché l’inevitabile comprensione del mio apprezzamento, ha suscitato una risata generale, rompendo l’imbarazzo, le barriere linguistiche e di lì la serata è trascorsa in modo estremamente piacevole attraverso il confronto e il racconto. Il confronto era inerente anche alla realizzazione delle ricette: sembrava di essere in Italia quando si discute sul modo

in cui confezionare un certo piatto in una regione piuttosto che in un’altra. I racconti confermavano e talvolta arricchivano i nostri ricordi e i ricordi di Mauro. A quel punto s’imponeva una perlustrazione nei dintorni. Usciti in strada, non ci crederete, Mauro incontra un vecchio amico di venti anni prima. E’ come se il tempo si fosse fermato: si abbracciano, si raccontano e si scopre che il suo amico, coetaneo, è già nonno. Piuttosto veloce! Raggiungiamo una zona vicino a “Mundo Magico”, un parco giochi dove Mauro aveva lavorato da piccolo e che ora è stato sostituito dalla presenza di un Ipermercato. Quelle strade una volta impolverate, oggi sono asfaltate. Erano il luogo di ritrovo per giocare con i “volantin”, gli aquiloni che i bambini cileni amavano costruire in assenza di giochi più costosi. A questo punto è inevitabile raggiungere

la casa dove per molti anni ha vissuto la famiglia dei miei figli. Si trattava di una struttura composta da assi di legno, rettangolare, di circa 10 mq, senza pavimento e con un tetto in lamiera, nella quale vivevano in cinque persone. Un vero colpo al cuore. La vita non poteva avvenire lì dentro, si svolgeva perennemente per strada; difficile solo immaginare di poterci dormire. Tante persone e così poco spazio! Però era la casa dei miei figli e a me è sembrata una reliquia. Di emozioni ce ne sono già abbastanza, ma si imponeva la necessità di un altro incontro e siamo stati nuovamente invitati il sabato successivo. In Cile si pranza di solito nel pomeriggio, piuttosto tardi e, forse per un malinteso, siamo arrivati a casa di zii e cugini intorno alle cinque. Vi era un’altra perlustrazione da fare: dovevamo andare a vedere la “feria”, una specie di mercatino piuttosto

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povero, dove viene venduto di tutto e dove lavorano ancora Enrique e Emilio. Vendono frutta e verdura esattamente come vent’anni fa quando vi hanno lavorato anche la madre dei miei figli, Mauro e Zaida. Come allora la verdura se la procurano nottetempo, appropriandosene negli immensi latifondi che circondano la città. Titubante ho assaggiato una specie di ciambella che non mi pareva nulla di eccezionale. Finalmente iniziamo il pranzo. Tutti intorno si sentono musiche e vociare di persone in quanto sono iniziati i festeggiamenti per la festa nazionale cilena. Pranzo a base di “pescado” con specie di crostacei, molluschi e pesci che sembrano degli organismi geneticamente modificati: vongole dalle dimensioni di capesante e altre specialità che ci lasciano sbigottiti. Io come al solito dimostro di apprezzare ed è da quel momento che mio fi-

glio mi chiamerà “el gordito”, soprannome condiviso anche da tutti i parenti fra innumerevoli risate. Essendo iniziato tardi, il pranzo termina circa alle otto di sera e pertanto si decide di fare una passeggiata fra le bancarelle che segnalano, anche in un quartiere così povero, che si sta festeggiando l’indipendenza cilena. Al ritorno dalla passeggiata accade l’inverosimile: ci avevano invitato anche a cena e dalle 21,30 in poi inizia l’attacco alla “parillada”, specialità di carne alla griglia tipicamente sud americana. Penso sappiate qual è la qualità della carne di quei paesi! Si è fatto ormai tardi, è quasi mezzanotte. Innumerevoli fotografie, tanti racconti, tanti abbracci, il momento del saluto. Per la prima volta Federica ha visto scendere una lacrima sul viso di Mauro. Anche noi eravamo in una condizione borderline. Io ho avvertito

la sensazione di avere allargato la mia famiglia. Mi sono sentito accolto, qualcosa di familiare era nato e ci siamo ripromessi di rivederci. Non hanno mai mancato di inviarmi saluti tutte le volte che c’è stata l’occasione di avere contatti con Mauro. Non è stato un addio, i rapporti, con i mezzi che oggi ci permettono di tenere contatti a distanza, sono continuati e dopo questo viaggio Mauro è tornato nuovamente in Cile nel mese di marzo 2013 e li ha nuovamente incontrati, in occasione di un viaggio di lavoro. Fra i vari racconti che hanno ricucito pezzi di memoria, quelli relativi alla madre naturale dei miei tre figli, sono stati i più significativi. Sapevamo che era morta alla vigilia del Natale 2002, e i loro racconti hanno riempito un vuoto che andava dal 1993, anno in cui è stato adottato Mauro, fino alla sua morte. Una storia tristissima che ha


fatto sorgere soprattutto in me il desiderio di andarla a visitare presso un cimitero situato in un quartiere degradato e periferico di Santiago. Ne abbiamo parlato più volte e dopo qualche giorno, individuato il cimitero, abbiamo cercato la sua tomba. L’impiegata ci ha riferito che nel 2007, non essendosi recato nessuno a trovarla, era stata spostata in una fossa comune. Un senso di pietà mi ha pervaso mentre sostavamo ai margini della fossa comune. Mauro, almeno apparentemente, sembrava più tranquillo e forse meno motivato a questa visita. Sottolineo, apparentemente. Vi avevo parlato anche di Madre Aline, una suora francese che si era occupata di Mauro il sabato e la domenica quando era all’Aldea Mis Amigos. Madre Aline ha rappresentato nella vita di Mauro un vero e proprio “tutore di resilienza”. Attualmente è in Francia,

data l’età avanzata, ma noi siamo andati a visitare la casa delle suore che lo ospitavano durante i week and e dove erano presenti molte altre consorelle più giovani che si ricordavano benissimo della storia dei miei tre figli. Madre Aline è stata veramente un grande riferimento per Mauro: cercava, a volte invano, di farlo studiare, parlava tanto tempo con lui, gli aveva regalato il suo affetto e lo ha protetto da errori giudiziari che rischiavano di separarlo dagli altri due suoi fratelli che in precedenza avevamo adottato. La sensazione che il tempo si fosse fermato anche quando abbiamo incontrato le suore era molto forte: un fiorire di racconti che riguardavano tutti e tre i miei figli ha colmato una serie di “buchi” che anch’io avevo relativamente alla loro storia. Abbiamo fatto una sorpresa a Madre Aline, inviando in Francia tutte le nostre fotografie,

mentre sostavamo nella casa nella quale lei per quarant’anni ha operato come missionaria. Madre Aline, pur avendo 81 anni è piuttosto tecnologica e vi lascio immaginare le sue espressioni di meraviglia giunte via mail dalla Borgogna, regione nella quale sta trascorrendo la sua vecchiaia. Anche qui naturalmente abbiamo rivisto stanze e luoghi, cari a Mauro e anche a noi che avevamo vissuto momenti felici nel 1993. Una storia particolare merita Suor Isabel che oggi non è più suora, ma fa l’infermiera presso l’ospedale di Santiago e studia giurisprudenza. Avvertita dalle vecchie consorelle della presenza di Mauro, lo ha immediatamente contattato e ha voluto incontrarci. Ci siamo dati appuntamento nella distesa di un bar fra Piazza D’Armi e Passeo Umada. Si sono riconosciuti subito e abbiamo trascorso due ore nelle

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quali si sono raccontati i propri percorsi di vita. Non solo quello di Mauro, ma anche quello della consorella che aveva deciso di lasciare l’Ordine. Di incontri come questo ne abbiamo avuti tanti e vedete che se li sommate a tutti gli altri, capite che le nostre giornate sono state veramente piene. Non è nemmeno mancata la parte turistica, come ad esempio la visita alla tomba di Pablo Neruda nella sua casa museo, a forma di barca, sita a picco sull’Oceano Pacifico, dove le onde, infrangendosi sugli scogli, provocano un boato simile a quello di un jumbo che decolla. Pablo Neruda non è stato soltanto un grande poeta, ma anche un grande naturalista e si definiva un “marinaio di terra ferma”; nel visitare la sua casa c’è da crederci. Il Cile pur essendo un Paese la cui popolazione è di circa 18 milioni di abitanti, ha un grande peso nella storia della letteratura latino americana: Pablo Neruda e Gabriela Mistral sono stati insigniti del premio Nobel. Altri grandi scrittori danno lustro alla letteratura cilena. Basti ricordare Victor Jara, Marcela Serrano, Isabel Allende e Luis Sepulveda, quest’ultimo fra i tanti libri ha scritto “Storia della gabbianella e il gatto che le insegnò a volare”. Vi dice qualcosa a proposito di adozioni? Victor Jara e Pablo Neruda morirono nei giorni im-

mediatamente dopo l’11 settembre 1973, durante il Golpe di Augusto Pinochet. Sarebbe interessante approfondire anche i riferimenti storici e d’altra parte il viaggio è stato un riavvicinarsi non solo ai luoghi ma anche alla storia e alla cultura del proprio Paese. Ovidio e Esterlina sono una coppia di ultracinquantenni che vivono alla periferia di Santiago, in un quartiere popolare, in una casa di proprietà. Per raggiungere il luogo di lavoro impiegano circa 2 ore e mezzo e pertanto sopportano un pendolarismo di circa 5 ore al giorno per uno stipendio familiare che potrebbe aggirarsi intorno ai 1000 euro mensili. Quando i miei figli erano piccoli, abitavano vicino alla loro casa, nello stesso quartiere, e spesso si sono resi disponibili a ospitarli. Forse avevano qualche desiderio in più nei confronti di Zaida che avrebbero voluto adottare. “O tutti insieme o nessuno” aveva sentenziato il Tribunale dei Minorenni di Santiago, ma quei tre bambini rimasero un po’ nel loro cuore. Ricordo che ci accompagnarono all’aeroporto venti anni fa quando partimmo per l’Italia. Furono le ultime persone cilene che salutammo in un momento nel quale ci sembrò di dire addio al Cile. Le tecnologie ci hanno riavvicinato e mia figlia con suo marito li incontrò in occasione del

suo viaggio effettuato nel 2003. Durante una delle prime sere in cui eravamo in Cile concordammo una visita nella loro casa veramente molto piccola ma dignitosa. Il viaggio serale fu abbastanza lungo e il navigatore satellitare fece le bizze: chiusi in macchina ci trovammo in una strada sterrata, in mezzo a una favela, poco distante dalla casa di Ovidio e Esterlina. Momento ansiogeno, ma dopo che il navigatore si è ripreso abbiamo finalmente trovato la loro abitazione. Ci stavano aspettando con ansia. Era ormai tardi anche perché in quel giorno vi era stato il cambio dell’ora legale. Iniziammo la cena alle 22.30 fra racconti, emozioni e scambi di fotografie. Ovidio e Esterlina avevano ancora molte fotografie dei miei figli di quand’erano ancora molto piccoli e mi fece molto piacere riportarne qualcuna qui in Italia. Ci ha molto colpito la loro semplicità, la loro dignità nello stare nella povertà, lo spirito di sacrificio, il loro essere uniti nonostante una vita dura privata della gratificazione data dalla presenza di figli. Ci è sembrato doveroso ricambiare il loro invito e l’ultimo giorno, prima della partenza per l’Italia, li abbiamo invitati a mangiare in un bellissimo ristorante nella località Garrobo, sull’Oceano Pacifico, proprio dove Mauro trascorreva con l’Istituto i soggiorni marini


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estivi. Ci è sembrato di offrire loro un momento che forse non avrebbero potuto permettersi. E’ stata una bellissima giornata d’inizio primavera cilena. Sono stati proprio loro il giorno dopo, come venti anni prima, che abbiamo salutato, mentre li lasciavamo commossi prima di entrare nel transito internazionale. Vi sarebbero tanti episodi che potrei ancora raccontarvi di questo viaggio in Cile. Questi tre piccoli racconti li ho scritti a distanza di un anno da quel soggiorno avvenuto nel Settembre 2012 e il ricordo è tanto più vivo

quanto le emozioni che abbiamo vissuto. E’ come se le emozioni impedissero di cancellare anche i dettagli. Molti altri ricordi hanno in particolare relazione con la nostra permanenza in Cile mia e di mia moglie di due mesi e mezzo avvenuta tra il 1991 e il 1993. Di questi non ho cambiato in modo specifico perché riguardano il mio viaggio verso un Paese nel quale si sono originati i nostri primi passi come genitori. Ho teso a privilegiare il viaggio verso le origini di mio figlio. Credo a questo punto che ritorneremo, maga-

ri per visitare il deserto di Atacama o la Patagonia, mantenendo quel filo che ci lega tutti quanti al Paese di origine dei miei figli. Non so se sono riuscito a trasmettervi tutte le emozioni vissute. Spero però di trasmettervi il desiderio di tornare con i vostri figli un giorno nel Paese che ha visto anche voi muovere i vostri primi passi come genitori. Se sentirete questa spinta potete costruire una grande opportunità per facilitare nei vostri figli una rilettura e una risignificazione della loro storia.


giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

La casetta di cartone 30

Sono incappata per caso nel tema di una ragazzina di quindici anni. Colori, suoni, persino odori della mia infanzia sono riaffiorati a galla. “Le mie radici si trovano nel negozio di famiglia: uno spazio magico, enorme, dove io e mio fratello abbiamo trascorso l’infanzia rincorrendoci fra scatoloni, tubi, raccordi, boccole, brontolii di mio nonno. Era l’estate del 2004, avevo sei anni, quando mio padre mi fece una bella sorpresa: gli era arrivata una grande fornitura di tubo per il suo negozio e pensò di regalare a me e mio fratello la scatola di cartone che la conteneva. Le dimensioni dell’oggetto magico erano notevoli, misurava oltre un metro cubo, un’enormità per noi due piccoli scriccioli. Io e

trasformare le scatole (di tutte le fogge e misure) in casette o adibire gli angoli della cantina a rifugi segreti della banda composta dai bambini della strada in cui abitavo. Se poi riuscivo a piantare una tenda nell’orto o a costruire una pseudo-casetta sull’albero, la felicità raggiungeva valori assoluti. Anche i miei figli giocano volentieri a costruire tane, castelli, anfratti con tutti i materiali che possono recuperare: basta un tavolo, pochi cuscini e vecchie lenzuola per creare questi angoli magici attrezzati di torce elettriche contro il buio, biscotti da sgranocchiare, utensili vari per scacciare fantomatici ladri o semplicemente genitori importuni. Giochi che rendono indiUno dei miei giochi prefe- menticabili anche le variti di bambina era proprio canze estive, le mie di un mio fratello ritagliammo porta, finestre e appendemmo persino le tendine: era diventata la nostra casa. Poi ci accorgemmo che odorava di gomma e carta umida e a noi non piaceva per niente, così iniziammo a tappezzarla di fiori e a ricoprirla di disegni per profumarla e colorarla. Quell’estate trascorse veloce e andai in Francia e al mare con la mia famiglia, ma quando iniziarono le scuole e le maestre ci chiesero di raccontare che cosa avevamo fatto nelle vacanze, io dissi che ero rimasta a casa e disegnai così la casetta di cartone con me e mio fratello dentro, perché mi ero dimenticata della Francia e della bella Riviera ligure”.


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tempo, e quelle dei miei bambini, puntualmente da rendicontare a settembre alle originalissime maestre. Oggi, più di ieri, noi adulti siamo proiettati a progettare per mesi esperienze stimolanti, mete indimenticabili, tour esotici per l’estate. Forse una fatica inutile e costosa dal punto

di vista dei bambini: nell’età dell’infanzia (e forse anche dopo) i ricordi più belli spesso sono legati a episodi molto feriali, semplici come i sassi raccolti sulla spiaggia o le pigne del bosco che ritrovo sempre nelle tasche polverose dei pantaloni di mio figlio. Per lui la vacanza più bella quest’estate è stata quella vissuta con

gli amici scout, in un luogo piuttosto anonimo, di dubbio valore paesaggistico. Alla faccia dei nostri programmi ricercati… E di ogni viaggio, uno degli aspetti più apprezzati da entrambi i miei due cuccioli è senz’altro (non so ancora per quanto) lo stesso: il piacere di tornare a casa!


leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Leggere, fare e raccontare

Le mille possibilità di stare (bene) nella biblioteca di Barchetta Blu 32

7. Questo mese: In punta di dita

Educare al bello è un progetto molto ambizioso ma allo stesso tempo semplice soprattutto se iniziato sin da quando i bambini sono piccolissimi. La cosa fondamentale è che questo concetto dovrebbe essere costantemente presente nella mente e nel pensiero di educatori e adulti in genere. La strada da percorrere verso il bello nasce da una disponibilità di relazioni verso gli altri e continua con l’organizzazione

di ambienti pensati con cura e attenzione: in casa, a scuola, al parco, per le strade e nelle piazze. L’armonia degli spazi e dei colori, l’equilibrio delle forme e delle dimensioni abitua il bambino ad una piacevole sensazione di accoglienza. In un contesto del genere il bambino si sente libero di esprimere la propria originale visione del mondo, soprattutto attraverso il linguaggio del gioco. La naturale capacità di rappresentazione grafica e pittorica dei bambini, ricorda l’opera di Mirò, artista che ricerca nei suoi quadri e nelle sue sculture la relazione primordiale di forme, colori ed equilibri. Quando Mirò afferma che lavora molto con le dita, che sente il bisogno di sporcarsi dalla testa ai piedi con il colore, ricorda proprio i bambini piccolis-

simi che anche al nido si esprimono attraverso segni lasciati con le dita, con le mani, con i piedi e con altre parti del corpo. Nel libro Con gli occhi di Mirò, di Paola Franceschini, si viaggia alla scoperta di Mirò attraverso il percorso di Erri, pittore surreale e sognatore. Si tratta di un albo illustrato per bambini, ragazzi e adulti che narra del viaggio nei luoghi frequentati dal grande artista. I colori, le linee, i temi e la luce dei quadri e delle sculture di Mirò sono proposti in maniera divertente e accattivante. L’avvincente percorso nasce da una casuale macchia di caffè sul foglio bianco e dal pensiero di come Mirò avrebbe saputo cosa farne di quella macchia. Per l’artista anche una piccola emozione poteva servire


per mettere in moto l’immaginazione. Una macchia sul muro, un filo che usciva dalla tela, un granello di polvere. Ogni cosa ne faceva nascere un’altra e poi un’altra. Come si racconta nel libro, Mirò riuscì ad avere la libertà di intrecciare la realtà con il sogno, la poesia con la pittura, i colori con la musica. Infatti, i titoli dei quadri di Mirò erano delle vere e proprie poesie. Le sculture nascevano dalle cose che custodiva nel suo studio come ad esempio bottiglie, pezzi di legno, ferri, cartoni. Non c’è bambino che non ami copiare Mirò e costruire le proprie opere con materiali recuperati in casa. Anche questa volta l’arte stimola la creatività. In particolare i bambini rimangono molto colpiti dalla scultura che si chiama L’orologio del vento; l’ha creata quando aveva settantaquattro anni. Un orologio che non funzionava con gli ingranaggi, come quelli del padre orologiaio, ma con le emozioni. Mirò ha continuato sempre a provare, sperimentare e a ricercare. Aspettava il tempo giusto per ogni cosa, ascoltava le parole silenziose delle cose. Sembra facile, ma, di fatto, è

molto difficile mettere in atto queste idee nella vita quotidiana! Fino a novant’anni non ha mai smesso di restare incantato davanti ad uno spicchio di luna. Per colorare usava le dita, il pugno, camminava a piedi nudi sulla tela appoggiata per terra. Si sporcava di colore la faccia, i capelli, proprio come i bambini del nido nei loro laboratori di pittura con i colori a dita. L’artista è quasi come se volesse ricordarci che i bambini devono poter esplorare il colore; devono poterlo toccare, stringere tra le mani e poi, solo in seguito possono iniziare a stenderlo sul foglio, a tracciare linee, segni e impronte che prenderanno un senso solo in un secondo momento. Alla fine, come scritto nelle ultime pagine del libro, si sente solo un fortissimo, prepotente, insopprimibile desiderio di … dipingere. E allora lasciamoci andare con i nostri bambini e riscopriamo il piacere di giocare con forme e colori. Le esperienze di relazione con l’arte in generale possono essere quindi stimolanti e possono attivare quella meraviglia e quella curiosità che spingono poi all’esplorazione e alla conoscenza degli altri e di se.

In copertina c’è anche un altro augurio, che faccio mio e dedico a tutti i bambini: Con gli occhi di Mirò puoi avventurarti senza paura nel buio della notte e scoprire che puoi vedere più lontano che di giorno, perché solo di notte si vedono le stelle!

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Un invito a usare le dita viene anche dal simpatico e colorato albo In punta di dita di Laura Crema. Quasi come un gioco di fantasie e di invenzioni si possono prendere le tre tinte primarie e creare infinite combinazioni di forme e colori. Il gioco consiste nel lasciare delle piccole tracce che danno spazio a molti modi di interpretazione: macchiette colorate diventano nasi, orecchie e scarabocchi si trasformano in ombelichi e ginocchia. Le possibilità sono infinite ma in ogni impronta c’è qualcosa di noi stessi, un pezzetto della nostra identità. Un grande foglio vuoto, bianco, dove tutto può ac-


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cadere, giallo, rosso e blu sul banco, un po’ d’acqua nel bicchiere. All’inizio intingo un dito, com’è morbido il colore! Premo piano, un po’ impaurito, sento battere il mio cuore … Pasticciando con le dita io mi sento un gran pittore, senza usare la matita riesco a disegnare un cuore. Una poesia invita i bambini a disegnare intingendo le dita nel colore a tempera. Possiamo con i nostri bambini seguire passo passo le istruzioni del libro e divertirci a trasformare tutti i segni in occhi, lentiggini ma anche colli lunghi di giraffa e orecchie di topolino. Il mondo di segni e puntini si trasforma per magia a seconda di chi lo crea e di chi lo guarda. Vola la fantasia nei bambini che disegnano in mille modi diversi lo stesso oggetto. Se anche le cose son

sempre le stesse, ognuno di noi le disegna diverse perché ciò che cambia nelle persone sono il cuore, la testa e l’immaginazione. Un altro modo semplice per far giocare i bambini con la fantasia e la creatività ma con un materiale poco costoso come la carta è suggerito dal libro Cos’è della casa editrice Artebambini. Il progetto nasce da una ricerca che verte sull’utilizzo di materiali anche banali o di situazioni casuali, come può essere un foglio macchiato o un semplice pezzetto di carta strappata, per cercare di stimolare la creatività nei bambini. Si parte da un frammento di carta insignificante. Cosa posso rappresentare con un pezzettino di carta colorata? E da qui il libro: la carta strappata diventa una nuvola o la chioma di un albero, una pera matu-

ra e così via. Un libro bello e colorato, un viaggio di scoperta, che insegna ai piccoli ad esprimersi in modo creativo, liberando la propria fantasia.

Bibliografia Con gli occhi di Mirò, P. Franceschini, Artebambini, 2008 In punta di dita, L.Crema, Lapis, 2012 Cos’è?, E. Comer, Artebambini, 2013 Achille il Puntino, di G. Risari, Kalandraka, 2008 Un libro, di H. Tullet, Panini, 2010 Il punto, di P. Reynolds, Ape Junior, 2003 Piccolo blu e piccolo giallo, di L. Lionni, Babalibri, 1999 Piccola macchia, di N. Nèouanic, Stoppani, 2005 Un colore tutto mio, di L. Lionni, Babalibri, 2001 Rosso Blu Giallo, di E. Bardella Rapino, Bohem, 2008 Giotto il leprotto, di C. Pierre, Emme, 2001


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trentagiorni

Adozioni internazionali: richiesta la riconferma di Daniela Bacchetta alla vice presidenza della CAI Adozioni internazionali: serve continuità nei rapporti tra l’Italia e i Paesi d’origine dei bambini abbandonati. E’ questa la premessa all’appello che i più importanti enti autorizzati alle adozioni internazionali hanno inviato al Presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta, e al Ministro per l’Integrazione, Cécile Kyenge. Quest’ultima anche in qualità di presidente della Commissione adozioni internazionali. L’appello chiede espressamente che l’attuale vice presidente della Cai, Daniela Bacchetta, venga riconfermata nel suo ruolo, in scadenza a breve. Gli enti autorizzati sperano che nonostante «gli attuali vincoli regolamentari, il sistema italiano delle adozioni internazionali continui ad avvalersi delle lodevoli capacità professionali con le quali la dottoressa Bacchetta sta assolvendo alla sua delicata funzione».

Ma come evidenziano gli enti autorizzati, le adozioni internazionali richiedono una collaborazione continua tra tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti: autorità straniere, Tribunali per i minorenni, Regioni, servizi territoriali ed enti autorizzati. Infatti continua l’appello: «In questo contesto così delicato si sottolinea la necessità di assicurare continuità nella gestione delle azioni strategiche, affinchè il sistema delle adozioni internazionali, in difficoltà anche a causa della crisi economica che sta attraversando il nostro Paese, possa continuare a are delle risposte concrete ai bambini e alle famiglie in attesa». Tra gli enti firmatari figurano: l’Arai-Piemonte, Ai.Bi., Aipa , Anpas, Arcobaleno, I Cinque Pani, Il Centro Aiuti per l’Etiopia, Ciai, Cifa, Emme emme, Fondazione Raphael, Naaa, Nova, Spai e le associazioni del coordinamento ‘Oltre l’Adozione’. Nella lettera viene sottolineato che, nonostante il 2012 sia stato

l’anno orribilis per le adozioni internazionali, con un calo vertiginoso del numero di adozioni realizzate, -22%, l’Italia continua ad essere il primo Paese europeo di accoglienza di minori stranieri. Di qui l’invio a che tutti i protagonisti cooperino per accompagnare e sostenere gli aspiranti genitori nelle varie fasi del procedimento adottivo, nell’ interesse primario dei bambini in stato di abbandono. Condizioni che rischiano di saltare qualora le competenze della dottoressa Bacchetta esaurisse il suo mandato. Fonte: Aibi.it Lavoro minorile in calo del 32% dal 2000. Ma riguarda ancora 168 milioni di bambini Il rapporto dell’Organizzazione internazionale del Lavoro: oltre 70 milioni di ragazzini lavorano e hanno meno di 11 anni. Nel complesso c’è stato un miglioramento, soprattutto tra il 2008 e il 2012. Per 85 milioni di bambini l’attività è “particolarmente pericolosa” MILANO - Nel 2012 c’erano


quasi 168 milioni di minori al lavoro (il 10,6% della fascia di età tra i 5 e i 17 anni), 73 dei quali con meno di 11 anni: è quanto emerge dal Rapporto dell’Ilo sul lavoro minorile secondo il quale c’è stato comunque un calo del 32% rispetto ai 246 milioni di minori in fabbrica e nei campi segnato nel 2000 (il 16% del totale). Il fenomeno, però, riguarda ancora l’11 per cento del totale della popolazione under 17. “Il contrasto al lavoro minorile è sulla strada giusta - segnala l’Organizzazione internazionale del Lavoro - ma di questo passo l’obiettivo dell’eliminazione delle sue peggiori forme entro il 2016 non sarà raggiunto. La direzione è giusta ma ci stiamo muovendo troppo lentamente - ha dichiarato il direttore generale Guy Rider se vogliamo porre fine a questo flagello nel prossimo futuro dobbiamo raddoppiare gli sforzi”. I progressi più consistenti si sono avuti tra il 2008 e il 2012 con il calo da 215 (il 13,6% delle persone tra i 5 e 17 anni)

a 168 milioni (il 10,6%). Si tratta di un risultato accolto positivamente dall’Ilo, che sottolinea come ci fossero timori perché la crisi economica avrebbe potuto costringere molte famiglie ad avviare i propri figli verso il lavoro prematuro. L’attività è particolarmente pericolosa per 85 milioni di bambini (il 5,4%) dato in calo rispetto ai 170,5 milioni del 2000 (l’11,1% della popolazione infantile). La situazione più grave è nell’Africa sub sahariana con il 21,4% dei bambini al lavoro (oltre 59 milioni) mentre nell’area Asia Pacifico il numero dei bambini al lavoro è più alto (77,7 milioni) ma la percentuale sul totale dei minori è al 9,3%. In America latina e Caraibi lavorano l’8,8% dei bambini tra i 5 e i 17 anni (12,5 milioni) mentre in medio Oriente e Nord Africa lavora l’8,4% dei minori (9,2 milioni). Tra i bambini più piccoli (tra i 5 e gli 11 anni) lavorano in 73 milioni, l’8,5% delle persone in questa fascia di età. Per 18,5 milioni di bambini con meno di 11 anni il lavoro consiste in una attività

pericolosa. Tra i 12 e i 14 anni lavorano oltre 47,3 milioni di bambini (il 13,1%) mentre tra i 15 e i 17 anni lavorano il 13% dei minori (47,5 milioni di persone). Il 58% dei minori è utilizzato in agricoltura, il 7,2% nell’industria e il 32,3% nei servizi (in forte aumento rispetto al 25,6% del 2008). La maggioranza dei bambini lavoratori è maschio (99,7 milioni a fronte di 68,2 milioni di femmine). Ma le differenze di genere si annullano tra i bambini più piccoli con 36,3 milioni di bambini maschi e 36,7 milioni di bambine al lavoro. Tra i 15 e i 17 anni l’80% dei minori lavoratori è maschio (38,7 milioni) e appena il 19% femmina (8,8 milioni). Secondo il rapporto Ilo tra i minori al lavoro ci sono 5,5 milioni di bambini in “lavoro forzato”, un quarto delle vittime totali del lavoro forzato. Tra questi 960.000 sono coinvolti in situazione di sfruttamento sessuale. Fonte: Repubblica.it

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