Adozioni e dintorni - GSD Informa gennaio-febbraio 2015

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Adozione e dintorni GSD informa - bimestrale - gennaio/febbraio 2015 - n. 1

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gennaio-febbraio 2015 | 001

GSD informa

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editoriale

di Luigi Bulotta

psicologia e adozione

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Grandi bambini, grandi genitori di Andrea Redaelli scuola e adozione

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Il talento del dolore di Monica Nobile giorno dopo giorno

Riconoscersi ed essere riconosciuto nella mia Russia di Greta Bellando La coperta dell’amore di Daniela Pazienza Diario di un’adozione - prima parte di Valentina Cafiero Socci socci come le tazze di nonna di Marta e Alberto

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leggendo

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trentagiorni

Parole fuori di Marina Zulian

Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956

redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro direttore@genitorisidiventa.org; Simone Berti, Firenze

editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org

impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila;

ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile


di Luigi Bulotta

L’attesa infinita

editoriale

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Sono passati quasi nove mesi e le immagini del ministro Boschi che rientra in Italia da Kinshasa in compagnia dei 31 bambini congolesi adottati da famiglie italiane sono ancora vive. Da allora, sul destino delle circa 130 coppie che ancora attendono di portare in Italia i figli che hanno adottato in Congo sembrava sceso il silenzio. Un silenzio assordante, certo, ma la consapevolezza che questa crisi riguarda, oltre all’Italia, diversi altri paesi, Stati Uniti compresi, ci ha in parte convinto, e un po’ tranquillizzato, che la sua mancata soluzione dipenda non da colpe del nostro paese ma dalla sua complessità, visto che paesi, notoriamente risoluti in materia di politica estera, ci tengono compagnia in questa triste storia. Da diverse settimane però questo silenzio è stato infranto. Non per annunciare l’atteso happy end che tutti stiamo aspettando, frutto del silenzioso lavoro che la nostra diplomazia, immaginiamo, ha tessuto con discrezione e lontano dalle luci dei riflettori. No, le notizie che invece ultimamente abbiamo letto sulla rete e sulle pagine di alcuni quotidiani, parlano di un misterioso trasferimento notturno, non concordato con le autorità locali, di alcuni di quei bambini che in Italia sono attesi da tempo. Un trasferimento da un istituto verso una località che gli articoli non meglio precisano, condotto da personale non italiano e con modalità degne di un film di 007. Su questa vicenda le autorità della RDC avrebbero aperto un’inchiesta e un’interpellanza parlamentare avrebbe chiesto chiarimenti in proposito al governo italiano. Dall’altro versante, sul sito ufficiale della CAI, la Commissione smentisce e informa che si tratta di notizie calunniose, volte al solo scopo di pregiudicare la felice conclusione di quelle adozioni pendenti e di allarmare le famiglie


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in attesa. Non ci è dato di sapere cosa realmente stia accadendo in Repubblica Democratica del Congo né cosa stia realmente accadendo nel panorama italiano delle adozioni internazionali, che di certo non sta attraversando uno dei suoi momenti più felici. Ci sembra, però, che si tratti di qualcosa che non ha molto a che fare con gli interessi degli unici soggetti che dovrebbe garantire. In questi giorni è giunta in redazione una petizione al Presidente del Consiglio per lo sblocco delle adozioni di tutti i bambini adottati in RDC da parte di qualsiasi paese del mondo (la troverete pubblicata tra le news sul nostro portale, n.d.r.). Leggendola abbiamo appreso che più di 12 bambini che aspettavano di raggiungere le loro famiglie americane in quest’attesa infinita sembra siano nel frattempo deceduti. Più di dodici. Bambini a cui era stato promesso un sogno che noi adulti non abbiamo saputo o potuto mantenere. Pensiamoci la prossima volta che parleremo di Congo.


psicologia e adozione

di Andrea Redaelli psicologo, psicoterapeuta sistemico-familiare e formatore freelance

Grandi bambini, grandi genitori Tra pregiudizi e falsi miti

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“I figli crescono come noi invecchiamo” ci sentiamo dire spesso. “La loro età cresce con la vostra”. “Quando lui avrà 18 anni voi ne avrete 65”. Ed è assolutamente vero. Una logica che non può essere contraddetta. Ma è una logica piuttosto sterile, tecnica, che non riesce a cogliere la complessa realtà del percorso verso l’adozione e del progetto di genitorialità in genere. Una logica incentrata sulla realtà dei bambini adottabili che tralascia il vissuto della coppia. Rimanendo su questo terreno un po’ asettico e realistico è giusto affermare che l’età dei bambini adottati attraverso il canale dell’adozione internazionale si è alzata nell’ultimo decennio. Nonostante “la media riscontrata nel 2013

sia stata di 5,5 anni, in diminuzione rispetto al dato registrato nel 2012 (pari a 5,9 anni). Più esattamente, oltre 4 bambini adottati su dieci nel 2013 (42,1%) hanno un’età compresa fra 1 e 4 anni, il 43,8% dei minori adottati ha un’età fra 5 e 9 anni, l’8,8% un’età pari o superiore a 10 anni, mentre solo il 5,4% dei bambini adottati si colloca sotto l’anno d’età. Le età medie più elevate, per i Paesi con più di 20 adozioni, si registrano tra i minori adottati in Ucraina (8,9 anni), in Bulgaria (8,1 anni), in Brasile (7,9 anni) in Ungheria (7,8 anni), in Polonia (7,7 anni), e in Lituania (7,6 anni); le età medie più piccole si riscontrano nelle adozioni realizzate in Vietnam (1,9 anni), in Etiopia (2,3 anni), nella Repubblica Popolare Cinese (3,5 anni), in Burun-

di (3,9 anni) e in Burkina Faso (4,4 anni)” (Rapporto statistico CAI sull’anno 2013) Ed è anche giusto affermare che l’età dei genitori si è alzata. La media delle età degli adottanti al momento della presentazione della domanda secondo i dati della CAI è di 42,7 anni per i padri e di 40,9 per le madri. Ma la classe di età che raggiunge la maggiore frequenza è quella tra 40-44 anni in cui possono essere inseriti il 37,5% dei mariti e il 38,2% delle mogli. Poi quella tra i 45-49 anni a cui appartengono il 20,3% dei mariti e il 14,9 delle mogli. Solo il 6,5% dei mariti e il 12.1% delle mogli ha una età inferiore ai 35 anni. Oggi sicuramente le coppie


in Italia hanno progetti di genitorialità e familiari in una età più avanzata rispetto a 30 anni fa, quando i nostri genitori a 30 anni avevano già uno o due figli. Attualmente l’età media per il matrimonio è per i mariti di 32-34 anni e per le mogli di 30-32. La crisi economica che dura da anni, la precarietà lavorativa degli ultimi 20 anni, un senso diverso della famiglia? Quali siano i motivi saranno i sociologi a potercelo spiegare. Sta di fatto che una coppia che vuole diventare padre e madre inizia a porsi questa domanda molto più avanti con gli anni. Da lì inizia un viaggio che passa dalla scoperta dell’infertilità, al valutare, o sottoporsi, a cure e processi di inseminazione alternativi, con spesso dolorosi, e ripetuti fallimenti.

E poi? Lo sconforto, il dolore, il senso di fallimento, la rielaborazione, il considerare la propria genitorialità attraverso il nuovo percorso dell’adozione, la condivisone di questo nella coppia, la ricerca, gli approfondimenti, la domanda di adozione, il percorso con i Servizi Sociali, il Decreto di Idoneità, la scelta dell’Ente. Bene, in quanto tempo si può pensare che una coppia possa fare tutta questa strada? Un mese o anni? Talvolta ce ne vogliono parecchi di anni. In media si parla di almeno 8/9 anni dall’inizio del matrimonio. E quando un Ente autorizzato incontra la coppia la vede come colei che sta muovendo i primi passi nel mondo dell’adozione. Ed è vero, per certi versi. Ma il percorso arriva da lontano e ha richiesto di-

versi anni, diverse fatiche, lacrime, pianti, sorrisi, speranze e delusioni. E se fermassimo l’età della coppia adottiva al giorno in cui hanno desiderato accogliere un bambino tra loro? Non è quella la loro età genitoriale? Tecnicamente sarebbe ovviamente impossibile, ma sicuramente capiremo meglio perché tante coppie arrivano all’adozione sognando un bambino piccolo, se non addirittura neonato. E non certo un bambino di 5a elementare. Se guardiamo i criteri previsti dall’art. 6 della legge 184/83 (come modificata dalla legge 149/2001) che riguardano la differenza di età tra adottanti e adottati, questa legge non è certo la spiegazione della realtà che stiamo vivendo. Infatti, la differenza minima

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tra adottato e adottante è di 18 anni mentre quella massima è di 45 per uno dei due coniugi e di 55 per l’altro. Cioè a 48 anni potrei adottare un bimbo di 3 anni sempre che l’altro coniuge non ne abbia più di 58. Ma questa non è mai la realtà che ci viene presentata.

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Ma allora cosa sta succedendo? Perché veniamo spesso accolti con frasi che ci richiamano alla necessaria riflessione sull’età del bambino? La realtà legislativa non è così restrittiva, anche se la coppia ha passato i 40 anni, ma la “realtà reale” si. Perché la questione dell’età rimane una variabile da valutare attentamente nel percorso adottivo? L’età più avanzata della coppia non può, da sola, spiegare l’innalzamento dell’età dei bambini adottati. Una spiegazione, forse semplicistica e sicuramente riduzionista di una realtà internazionale difforme e variegata, è sicuramente il principio di sussidiarietà dell’adozione. Principio forse a lungo sbandierato, ma che in molti stati d’origine, un tempo in primo piano nell’adozione internazionale, inizia oggi a diventare una realtà.

L’adozione, e l’adozione internazionale soprattutto, diviene “l’ultima strada da percorrere per realizzare l’interesse del bambino quando non è stato possibile aiutarlo all’interno della propria famiglia di origine e del proprio paese di origine”. Questo è quanto scrive la CAI e corrisponde al principio per cui oggi molti stati stanno valutando forme di affido extra familiare finalizzato al rientro in famiglia d’origine, se possibile, o l’adozione nazionale come prime strade per la soluzione dell’abbandono dei minori. Tutto questo ci porta a capire che la domanda sull’età del bambino sia una domanda con cui diviene necessario e doveroso confrontarsi. Talvolta arrivano anche loro all’adozione internazionale dopo un percorso più o meno lungo. Parlare di bambini grandi o, come preferisco, bambini in età scolare, per differenziarli da quelli in età prescolare, significa riferirci ad un range di età che va dai 7 anni a 13 anni. Sicuramente una differenza di età tra gli estremi che parla di universi lontani tra loro: l’inizio della scuola elementare, la fine della scuola media. Ma in realtà questi univer-

si vivono nella stessa galassia. Una galassia lontana da quella che mi vedeva madre e padre alle prese con le prime pedalate incerte sulla prima bici senza rotelle, i primi bagni in mare senza braccioli o le festicciole con pupazzetti e principesse. Ma se guardo questa galassia in questo modo forse sto cadendo nella trappola di molti pregiudizi che riguardano il bambino. Nei pochi paesi del mondo che ho incontrato nella mia esperienza nella cooperazione internazionale l’idea che il bambino fosse un adulto non ancora sviluppato o che una famiglia avesse bisogno di una casa per poter superare i problemi relativi al maltrattamento, l’abbandono e la discuria dei minori, si riflettevano in interventi a tutela dell’infanzia che risultavano molto spesso fallimentari e sicuramente non tutelanti dello sviluppo del bambino. Ma queste idee non sono lontane dal pensare che più un bambino è piccolo meno soffre per l’abbandono subito, Oppure che se il bambino è piccolo si adatterà più facilmente alla sua nuova famiglia, o mi riconoscerà più facilmente come genitore. O che sarà


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Quel legame di attaccamento che poi si riflette nelle modalità comportamentali da adulto nasce proprio dai primi respiri In primo luogo la ferita del bambino, dalle sue pridell’abbandono è emotiva e me esperienza di vita, se psicologica non cognitiva. non addirittura nei sentiQuindi non dipende dall’e- menti della madre durante tà del bambino. Il distacco la gravidanza. dalla madre e dal padre biologico anche in fasce, o Certamente il variare subito dopo il parto, rima- dell’età, il crescere del ne una perdita che giace bambino, la consapevonel profondo dell’animo del lezza dell’esperienza anbimbo che perde il suo rifu- gosciosa dell’abbandono, gio nel grembo della madre rende questa esperienza e il suo riferimento senso- differente. Ma nell’elaboriale, il suo sostentamento razione, che non è mai un e il suo universo psicologi- eliminare la ferita subita, i fattori che intervengono co. più facile confrontarsi con le sue origini, imparare una lingua nuova o inserirsi nel gruppo dei pari.

sono anche e soprattutto le modalità dell’abbandono o le esperienze successive. Il rifiuto del bambino durante la gravidanza e il suo abbandono dopo la nascita instaurano già dalla vita intrauterina un senso di fragilità e inadeguatezza scaturiti dall’impossibilità di comprensione di quanto accaduto e la naturale conseguenza di attribuirsene la responsabilità: io sono stato rifiutato quindi io sono sbagliato. Maggiore è la possibilità di comprensione di quanto sta accadendo quando l’abbandono avviene in età più consapevole: in questi casi


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abbiamo sono frammentarie, saltano alcuni anni di vita o sono contraddittorie. Ma sono comunque indicative per noi. Possono darci una linea guida per capire qual è il bisogno a cui io, Certo queste sono gene- come genitore, ho deciso di ralizzazioni che poi vanno rispondere. calate dentro la realtà di ogni singola storia e perso- Un bambino adottato già na. Ma sono già elementi grande sarà in primo luogo che ci devono far riflettere maggiormente consapevole, anche se quasi mai presui nostri pregiudizi. parato, di cosa sia l’adozioOltre a chiedermi quanti ne. È più facile comprenda anni ha mio figlio forse è il quanto sta succedendo, per caso che mi chieda da dove quanto non conosca la reaviene, qual è la sua storia. le bontà e capacità di accoCerto non sempre sappia- glienza di mamma e papà. mo con esattezza le sto- Il suo vissuto abbandonirie dei nostri figli. Non le co li renderà sicuramensappiamo con esattezza o te diffidenti, più freddi o a volte le informazioni che distaccati. Molto pronti a si vive, più o meno lentamente, la realtà del distacco/abbandono, e il rifiuto può trasformarsi in una sostanziale sfiducia verso gli adulti.

prendere e poco a lasciarsi andare. Inoltre purtroppo, a volte, gli affidi o le adozioni nazionali o le strategie di tutela del minore messe in atto dai paesi d’origine non hanno avuto esiti positivi e i bambini hanno rivissuto il dramma originale del loro abbandono o del maltrattamento, della discuria, riaprendo o acuendo l’antica ferita. In altri casi il vivere tanti anni in istituto li porta presumibilmente ad aver subito privazioni affettive, psicologiche o relazionali tipiche dei processi di istituzionalizzazione: mancanza di legami privilegiati o esclusivi, deper-


sonalizzazione del proprio Sé, insufficienti stimoli affettivi e cognitivi. Tutto questo generalmente può portare un ritardo nello sviluppo psicomotorio, ma anche a difficoltà nell’instaurare legami affettivi significativi. I bambini che hanno passato molto tempo in istituto possono sviluppare problemi comportamentali così come possono essere stati costretti dal contesto a crescere precocemente saltando tappe evolutive dello proprio sviluppo emotivo e del proprio Sé. Abbiamo paura della malinconia del bambino nei confronti del proprio paese di origine e dei legami affettivi con i compagni di gioco o con gli adulti che di loro si sono occupati. Certo anche questo è un bell’ostacolo da affrontare, una vera e propria sfida alla nostra legittimità genitoriale che tanto a fatica ci siamo costruiti. Ma è anche una

gran bella notizia: non solo dimostra che nostro figlio prova emozioni, anche se a volte le manifesta rifiutandosi di mangiare o lanciando il gioco che gli abbiamo regalato, ma dimostra anche che ha avuto la possibilità di avere esperienze positive nella relazione sia con i pari che con gli adulti. Un bagaglio molto più grande dell’esigua valigia con cui è uscito da quell’Istituto o da quella Casa Famiglia. Le ferite subite molte spesso si mostrano più che attraverso le parole attraverso i comportamenti: più agitati, aggressivi, scontrosi ed anche violenti. È la messa alla prova di cui spesso abbiamo sentito parlare. Non è l’affido preadottivo che riguarda le questioni legali, ma il “Mi posso fidare” di nostro figlio che riguarda il nostro essere genitori. La storia di nostro figlio

ci dice molto di lui. Anche quando non la conosciamo con esattezza. Sappiamo se ha potuto fidarsi nuovamente, se qualcuno lo ha tradito nuovamente, se ha dei giochi preferiti, dei cibi preferiti ed insieme a lui potremo ripercorre la sua storia. I nostri figli, quando ormai grandi, spesso ci chiedono di raccontare loro “quella volta in cui...”. Hanno bisogno di ricordare. Di essere rassicurati. Allora narrarla nuovamente con lui sarà un’occasione: non dobbiamo averne paura, perché lui la conosce già, ma forse non l’ha ancora compresa. Non ha compreso ancora quei vuoti, quelle informazioni mancanti. E saremo noi che potremo spiegargli, che potremo accogliere anche quei ricordi faticosi e quei vuoti dolorosi. Sapremo accogliere lui, perché è lui, con la sua storia conosciuta e sconosciuta.

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scuola e adozione

di Monica Nobile pedagogista, counsellor

Il talento del dolore 12

Giorgio, lo chiamerò così, ha tredici anni. E’ stato adottato all’età di quattro anni. E’ in perenne tumulto, fisico ed emotivo. Con la scuola fa fatica. O meglio, gli insegnanti fanno fatica con lui. Disturba, ha improvvisi attacchi di aggressività verso i compagni, interviene a sproposito. Gli insegnanti, in questi anni, hanno sovente telefonato ai genitori, chiedendo di venire a riprenderselo perché non sapevano come tenerlo. In quinta elementare tanta era la difficoltà che la famiglia è stata caldamente invitata a ritirarlo da scuola, così Giorgio ha seguito un percorso di educazione parentale e ha fatto gli esami da privatista. Quando è arrabbiato vede rosso, spacca, alza la voce, cerca lo scontro fisico. Sta meglio con gli adulti, forse perché i coetanei sono spa-

ventati dalle sue modalità irruente e bizzarre. Mario, lo chiamerò così, ha 14 anni. Ha una lesione cerebrale dalla nascita. Per muoversi ha bisogno del deambulatore, non riesce a scrivere se non utilizzando la tastiera del computer, parla con grande fatica. E’ amato da tutti, a scuola, è gentile, sorridente, si fa benvolere, dai compagni e dagli insegnanti. Tutti vedono in lui il coraggio e la forza nell’affrontare la sua disabilità, tutti lo vedono un ragazzino disabile che si impegna. Giorgio, in occasione del suo compleanno, ha invitato a casa sua Mario. Per farlo muovere meglio in casa, per farlo sentire a suo agio, in quattro e quattr’otto ha scardinato la porta e l’ha tolta perché il passaggio con il deambulatore fosse più semplice. Sono usciti insieme, Gior-

gio e Mario. Girare per Venezia, per un disabile, significa affrontare e superare infinite barriere. A Venezia ci sono calli strette, ponti, pavimentazioni sconnesse. Eppure loro se ne sono stati in giro tutto il pomeriggio. Al loro ritorno Giorgio ci ha raccontato il tragitto; così abbiamo scoperto che hanno camminato a lungo e scalato ben due ponti. Né io, né sua madre abbiamo voluto sapere come mai avessero fatto, abbiamo preferito non sapere, pensando subito a quanti incidenti sarebbero potuti capitare a Mario, sarebbe potuto cadere, avrebbe potuto farsi male… Noi abbiamo visto le difficoltà di Mario, i suoi limiti. Giorgio ne ha visto la forza e la capacità di superare limiti all’apparenza invalicabili. Ne ha visto le possibilità.


E Mario è tornato a casa con un sorriso radioso e gli occhi che brillavano. Abbiamo aiutato Mario a sedersi a tavola per la cena. Intanto Giorgio si è accomodato sul suo deambulatore, nella stessa posizione che assume Mario quando lo usa. Tutti e due ridevano in questo scambio di ruoli. Vorrei vedere il mondo con gli occhi di Giorgio, essere capace di vedere negli altri la possibilità e non il limite. A Giorgio viene naturale, non ha filtri né pensieri stereotipati, vuole bene a Mario e sta bene in sua compagnia, punto. Chissà se gli insegnanti che continuano a punire Giorgio per i suoi comportamenti oggettivamente inadeguati, chissà se riescono a vedere il talento di Giorgio. Perché di questo Giorgio

ha bisogno, che gli altri si accorgano di tutto quello che sorprendentemente è in grado di fare. Giorgio, come tanti bambini adottati, ha iniziato malamente la sua vita. Porta in sé il dolore e la paura della perdita e dell’abbandono. E’ arrabbiato, come tanti altri bambini, perché, penso, nella sua vita qualcosa non ha funzionato. Non è ancora consapevole di questo qualcosa, non ha ancora preso confidenza con le sue emozioni, gli escono spesso con irruenza, fuori controllo, lo inducono a comportamenti che mettono gli altri in difficoltà. Eppure è capace di entrare in relazione profonda con l’altro, e quando l’altro è un ragazzino disabile, Giorgio è capace di coglierne intuitivamente, istintivamente, i bisogni e di renderlo felice.

Ha talento Giorgio, il talento di quelli che hanno sofferto e sanno entrare in empatia con le sofferenze altrui. Non c’è ombra di pietismo in Giorgio, i suoi modi di stare non passano attraverso il pensiero del “come ci si deve comportare”. Vive le sue esperienze con una speciale sensibilità. Mi colpisce di lui questa alternanza. E’ un cataclisma, ha sfasciato la porta del bagno a calci in un eccesso di rabbia. E’ autenticamente generoso e affettuoso con il suo amico Mario. La rabbia di Giorgio è stata spesso dannosa, per lui e per la sua famiglia. Ancora non sa come riconoscerla ed esprimerla, credo, e questo gli impedisce di gestire situazioni per lui difficili. Ma, al tempo stesso, c’è in Giorgio qualcosa di spe-

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ciale, racchiuso da chissà quando nel suo cuore, che gli consente di gestire, talvolta molto meglio di un adulto preparato e consapevole, talvolta meglio dello “specialista” di turno, il rapporto con un altro ragazzino speciale. Ecco, penso, se esistesse nella scuola che frequenta Giorgio, un insegnante capace di scovare il suo talento, di farlo emergere, sbocciare… Se ci fosse qualcuno che lo prenda per mano e lo accompagni nella strada che porta al riconoscimento del proprio valore, delle proprie innate competenze, del bagaglio di vita e di esperienza che rende unici e irripetibili. Se Giorgio incontrasse qualcuno così… Penso a quante volte ho affermato, nei percorsi formativi per gli insegnanti, che avere un bambino adottato in classe può essere una risorsa e un privilegio. Perché sono bambini che hanno avuto esperienza profonda del dolore e che hanno sviluppato la capacità di resistere agli even-

ti, la particolare attitudine a prendersi cura degli altri non perché l’hanno imparato ma perché da piccoli hanno dovuto prendersi cura di sé stessi. E’ vero, non è facile affatto avere Giorgio in classe. E’ un disturbatore, diciamo pure un sabotatore. E’ maldestro, riempie in un attimo la stanza facendo una grande confusione, con il corpo, con il cuore, con la voce. Una ne fa e cento ne pensa e quasi mai gli esiti sono adeguati. Ma non va dimenticato che lui, insieme ai tanti altri che ho conosciuto nel mondo dell’adozione, è talentuoso e che il suo talento, se riconosciuto, se coltivato con pazienza, se fatto emergere, scovato in fondo in fondo tra le altre mille facce del suo cuore tumultuoso, il suo talento può fare di lui una persona che ce la fa nella vita. Vorrei far sapere, questo, ai suoi genitori, talvolta così affaticati, preoccupati, sfiancati dalle reazioni che insegnanti e genitori dei compagni hanno loro sca-

raventato addosso. Vorrei che un insegnante, almeno uno, dicesse loro che Giorgio ce la può fare perché sì è un cataclisma, ma porta anche il vento dell’allegria e della generosità, dell’intuizione e talvolta della genialità. Il talento del dolore è un libro di Andrew Miller. Me lo sono comprata tempo fa perché mi aveva affascinata il titolo. Il dolore è un talento. Può essere questa una chiave di lettura per sostenere i bambini adottati. Tutti partiti da un dolore. Tutti alle prese con un subbuglio di emozioni che hanno ingombrato i loro cuori, tutti intenti a mettere un po’ di ordine nella loro tempesta interiore. Loro e i loro genitori accanto a loro. Il dolore è un talento, ne sono convinta, può agire malamente dentro a un cuore ma può anche rendere le persone speciali, pazzamente spaventate ma anche innamorate della vita.


CARE inaugura lo Sportello Scuola e Adozione Il CARE mette a disposizione di genitori e insegnanti uno Sportello virtuale dove è possibile segnalare qualsiasi difficoltà di bambini e bambine adottati in materia di inserimento scolastico, con particolare attenzione al momento del primo ingresso e alle fasi di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.

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Il Coordinamento CARE è attivo informalmente dal 2009 e si configura come una rete di associazioni familiari, adottive e/o affidatarie, attive sul territorio nazionale. Si è costituito, ai sensi della legge quadro sul volontariato 266/91, in associazione di secondo livello (associazione di associazioni) il 15 ottobre 2011.

Le segnalazioni verranno analizzate caso per caso e a tutte verrà data risposta. Le questioni riconducibili ad un’analisi del MIUR verranno ad esso sottoposte previo assenso delle famiglie coinvolte. L’obiettivo dello Sportello è soprattutto quello di agevolare in tempi rapidi la soluzione dei problemi concreti delle famiglie. Si tratta di un aiuto concreto per le famiglie e per gli insegnanti ma anche per tutti coloro che seguono le famiglie stesse (enti autorizzati e servizi territoriali) nello spirito di “agevolare l’inserimento, l’integrazione e il benessere scolastico degli studenti adottati”, obiettivo dichiarato anche dal recente protocollo congiunto CARE-MIUR. Invitiamo tutte le Associazioni e tutte le persone interessate a dare la massima diffusione e socializzazione a questa iniziativa.

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giorno dopo giorno 16

di Greta Bellando

Riconoscersi ed essere riconosciuto nella mia Russia

Carissimi lettori, è tempo di riprendere il nostro viaggio attraverso le parole dei nostri protagonisti, che mese dopo mese, ci proiettano tra le variegate realtà culturali, tra un Paese ed un altro, alla ricerca del loro Essere, alla ricerca della loro storia tra desiderio, malinconia e stupore. Ci siamo lasciati a dicembre tra i colori della terra indiana, ora voglio catapultarvi in un nuovo continente, in un nuovo Paese: la Russia. E’ la prima volta che ci troviamo in un Paese dell’Est, affronteremo questo nostro ‘viaggio mentale’ attraverso il percorso compiuto da S., russo nel cuore e toscano nell’accento. Ci siamo conosciuti una mattina su Skype, ci siamo presentati, gli ho parlato dei miei studi e lui mi ha raccontato della passio-

ne per il suo lavoro che lo porta spesso a confrontarsi con turisti che provengono dal suo Paese e mi racconta pieno di entusiasmo e orgoglioso di quelle chiacchierate con loro, come se ogni volta il filo rosso delle sue origini, riuscisse ad avvolgersi nella matassa della sua storia: “Il lavoro che sto facendo, ossia di cameriere, mi ha portato a ristudiare la lingua e riscoprire un po’ la cultura russa. Questo è stato un altro punto a favore della ‘Madre Russia’. Poi anche le persone con le quali ho avuto un approccio, amici, parenti, che sono sempre stati affascinati dalla lingua russa, mi hanno dato un input per continuare ad informarmi sul Paese”. Iniziamo a parlare del suo passato, di cui ricorda bene ogni cosa: “Quando sono arrivato in Italia

all’età di 9 anni ricordavo moltissime cose ma tendevo a non parlarne, fino a quando non hanno scosso la mia mente a punto tale che non potevo più conservarli solo dentro di me. Ricordo l’istituto e tutte le cose che dovevo condividere con gli altri, dai vestiti ai giochi e talvolta anche qualche abbraccio quando c’era. Noi non eravamo mai soli, ma era come se lo fossimo. Si dormiva in camerette di una decina di piccoli letti e c’era la stufa. Là era tutta una regola, si doveva chiedere prima il permesso per far qualcosa, a noi restava ben poco da scegliere all’interno di quello schema”. Assieme ai ricordi della vita in Russia, ha bene impresso nella mente il suo arrivo in Italia, la confusione e quel bisogno di amore incondizionato che


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però all’inizio rifiutava: “Io non ero cosciente dell’adozione a nove anni; assieme ai miei genitori abbiamo costruito un dialogo sulla famiglia: che cos’è una mamma, un babbo, una sorella, un figlio… Con il tempo poi sono venuto a conoscenza di che cos’è l’adozione. All’inizio io non ho fatto domande poiché mi trovavo in una situazione in cui stavo bene e mi sentivo a mio agio, poi piano piano le cose me le hanno spiegate nel tempo, senza furia. Prima di tutto, secondo me, i genitori che adottano devono dare al proprio figlio il senso della famiglia, poi, quando riescono ad immettere cosa significa avere una madre ed un pa-

dre ed esser figlio, si crea un clima sereno per poter parlare di adozione. Se ciò venisse a mancare, si potrebbe creare un trauma nel ragazzo. I primi tempi, nella mia nuova famiglia, mi sentivo solo e, nonostante l’amore che i miei mi dimostravano, ero irrequieto e pestifero. All’inizio piangevo, poi dalla disperazione passai ai dispetti. Mia mamma era la mia vittima preferita, eppure l’amavo, e Dio sa se ne avevo bisogno di quell’amore, ma allo stesso tempo la odiavo. Lei era molto paziente, ed io ce la mettevo tutta per farla arrabbiare, per farmi punire in una lingua che neppure conoscevo.

Le punizioni non mi mettevano a disagio, c’ero abituato. Erano le sue coccole invece che mi imbarazzavano”. Il tempo gli ha insegnato a crescere nel rispetto dei ruoli trovando complicità nel rapporto figlio-genitore. Lui è cresciuto assieme ad un’altra bambina, anch’essa adottata dal suo stesso Paese e con cui negli anni ha costruito un legame profondo tanto da esser stata lei stessa a produrre in lui la volontà di ritornare alle sue origini: “Prima il viaggio di ritorno lo fece mia sorella, cosicché mi diede l’input per compiere anch’io questa esperienza. Volevo dare un senso ai pensieri che avevo in mente e che talvolta sognavo,


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poi c’era la curiosità di scoprire meglio il Paese dal quale provengo, anche se questo desiderio c’è da sempre. I miei genitori hanno sempre lasciato aperto uno spiraglio sul mio Paese di origine e mi hanno detto che poteva essere anche una fonte di profitto e di guadagno per il mio futuro; il fatto della lingua, i miei genitori non hanno potuto aiutarmi a mantenerla, ed è stata la prima cosa che ho perso, ma, che ho voluto rimparare prima di fare il viaggio di ritorno. Laggiù se non si sa il russo è difficile comunicare perché nelle zone dell’entroterra si parla solo quello e non inglese”. Continuo chiedendogli cosa lo avesse spinto a voler tornare nel suo Paese e senza la minima esitazione mi dice: “Avevo bisogno di ritrovare qualcosa, del ragazzo di allora, o magari tutto. Il viaggio mi appariva come una soluzione

e una sfida insieme. Una vera e grande sfida; davanti a me c’era l’ignoto da scoprire e il noto da ritrovare. Ancora non sapevo come l’avrei affrontato, e se ne sarei uscito vincitore”. Continuiamo a ripercorrere il filo rosso del suo ritorno, mi racconta di esser partito assieme alla sua mamma, a quella donna forte e tenace che non lo ha mai lasciato nonostante i rifiuti inziali: “Lei mi comprendeva benissimo, sapeva che era normale per me voler tornare alle mie origini perché mancavano i tasselli per completare il puzzle della mia vita; io avevo cercato quei tasselli nel fondo della scatola, ma qualcuno doveva averli presi o buttati via. Ero consapevole che senza di essi la mia vita non poteva essere completa. Oggi sento di poter affrontare la vita con più serenità”. Ripercorriamo il momento dell’atterraggio e l’ar-

rivo nella Piazza Rossa a Mosca: “La prima sera appena arrivammo a Mosca, mia mamma mi portò subito nella Piazza Rossa e li ci furono le campane che suonavano, un segnale mistico di accoglienza; La Russia mi dava il Bentornato alle origini”. Lascio che le emozioni defluiscano dal suo racconto, sono forti e incessanti, sono vive ancora in lui: “Già solo il fatto di essere tornato laggiù per me è stata una vittoria, quello che ho scoperto mi è bastato e avanzato. Poi magari c’è chi, è più o meno fortunato”. Riprende fiato e mi racconta dell’iniziale sconforto per quelle informazioni, che la sorella aveva avuto della sua storia e, che lui al contrario non poteva ricevere: “Di emozioni ce ne sono state tante, sia belle che brutte perché ovviamente da un viaggio alla scoperta delle origini non ci si può aspettare solo cose belle e posi-


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tive, perché dipende anche dalle circostanze e dalle situazioni. C’è chi riesce ad arrivare sino in fondo o chi non riesce. Per mia sorella è stato diverso, lei ha saputo più cose di me, ma perché ha avuto una situazione diversa, più facile ed è arrivata sino in fondo. Io, ad un certo punto, mi sono chiesto cosa sarebbe accaduto se avessi incontrato i miei genitori, cosa gli avrei detto e… la risposta non ce l’ho. Io all’inizio li avrei voluti incontrare, poi quando ho scoperto che non ci sarei riuscito, per vari motivi, ho pensato che ‘il mio’ lo avevo fatto ed ho iniziato a guardare avanti. Dopo di che continua raccontandomi della sua vita là, dei giorni alla scoperta del suo passato: “Ci siamo messi in contatto con i di-

rettori dei vari istituti e la persona che ha permesso la mia adozione, eravamo seguiti da un interprete. Grazie a queste persone siamo riusciti ad andare negli orfanotrofi in cui io ho vissuto la mia infanzia. Essi erano rimasti tali e quali a come ricordava la mia memoria visiva; io ricordavo a memoria geograficamente e sistematicamente, come se avessi una piantina dell’edificio, sapevo dov’era il dormitorio, la cucina, i bagni… Ritrovare i miei ricordi mi ha rincuorato, perché ha dato conferma ai miei sogni e alla mia immaginazione, tutto era realtà. Io sono stato fortunato, perché ho ritrovato tutto, certamente non per tutti è sempre così. La mensa era come la ricordavo: una grande stan-

za con tavoli e lunghe panche. E lo stesso odore usciva dalle cucine, un misto tra brodo e cavolo… un odore acido e penetrante. Ho rivisto il piano delle stanze, ho rivisto la ‘mia stanza’”. Si sofferma per un momento nel suo racconto, poi riprende fiato e mi racconta di quel profondo senso di sollievo donatogli dall’esser stato riconosciuto: “Ho trovato persone che mi hanno riconosciuto, sia i direttori degli orfanotrofi, sia le badanti che accudiscono i ragazzi orfani. Essere riconosciuti dà un valore aggiunto al proprio vissuto, infatti c’è stata un’immediata reazione di pianto e di gioia, e loro erano felici che io stessi bene”. Sento nelle sue parole la fierezza delle sue origini, ma voglio comunque chiedergli se si sente, ad oggi,


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più italiano o russo, lui sorridendomi mi risponde: “Io la cultura russa l’ho sempre avuta nel mio sangue e nel mio DNA, anche per il mio modo di fare e per il mio carattere, insomma qualcosa è rimasto in me e quindi quando sono arrivato là, io ero più avvantaggiato rispetto a mia mamma nel modo di interagire con i russi. Io mi sono sempre sentito russo dentro di me, non ho mai avuto né vergogna, né rimpianto di esser russo, ma al contrario, sono orgoglioso di esserlo. Io non è che mi sentissi tra i miei simili, mi sentivo comunque uno straniero che andava alla ricerca delle proprie origini, poi piano piano la cosa è andata ad ammorbidirsi perché mi sono sentito più parte di quel Paese lì, perché è il

mio Paese e quindi mi sono sentito a casa mia”. Poi riprende: “Ovviamente casa mia è qui, ma le mie origini non le rinnego, potrebbero essere anche una fonte di guadagno e di profitto”. Dopo avermi raccontato di questa esperienza gli domando se fosse già ritornato una seconda volta e lui non ha esitato a raccontarmi del suo secondo viaggio: “L’anno dopo sono tornato da solo per 20 giorni; è stata una ‘passeggiata’, un viaggio molto bello. Mi sono incontrato con delle amiche di mia mamma che facevano attività di volontariato, fornendo aiuti alimentari e qualche piccolo sostegno morale ai ragazzi orfani. Ho cambiato le mie vesti, da bambino che aveva bisogno, sono stato io in grado di dare qualcosa a chi stava là.

Questo viaggio l’ho fatto nella città di Vladimir, dov’è nata mia sorella. Io non ero mai stato prima in questa zona poiché ero sempre stato tra la zona di Mosca e San Pietroburgo; la ‘vera Russia’ l’ho vista qui perché prima avevo visto solo la parte più turistica”. Infine prima di salutarci gli chiedo che uomo è oggi, come si sente dopo questo viaggio: “Completo e rinnovato, un po’ come se avessi fatto un ‘lavaggio del cervello’ perché arrivi ad un punto tale di maturità in grado da affrontare la vita da solo. Sono riuscito a ricostruire il passato, grazie al presente, per affrontare con più serenità e sicurezza il futuro. Questo viaggio mi ha fatto bene sia all’anima, che allo spirito, che alla mente”.


giorno dopo giorno

di Daniela Pazienza

La coperta dell’amore 22

Chi non riesce a sentire un tepore avvolgente quando sta sotto una coperta? E non ci si sente coccolati e amati? Pensiamo a come, durante l’inverno… si sta bene accoccolati su un divano tutti insieme… abbracciati al caldo di una coperta mentre si guarda la televisione. Una coperta. La coperta dell’amore. Quella che regaliamo ai nostri figli per farli sentire amati anche quando non sono abbracciati (fisicamente) a noi. La coperta che li accompagna sempre, anche quando si dimenticano di averla con sé. La coperta che aiuta a sentirsi tranquilli e sicuri, soprattutto quando cominciano a reclamare la loro indipendenza. I nostri figli non sanno che, per essere pronti a camminare da soli, devono camminare ancora vicino a noi genitori, anche quan-

do tanti dei loro compagni camminano già abbastanza da soli. Le distanze da noi le prendono piano piano, un piccolo passo alla volta, magari uno avanti e due indietro e i loro atteggiamenti, spesso molto maturi, forse troppo, non debbono farci illudere. I nostri figli speciali hanno una maturità e una profondità a volte sorprendente se messa in relazione alla loro età anagrafica e noi genitori sappiamo che la loro esperienza di vita li ha portati a crescere in fretta. Troppo. E’ anche vero che hanno ancora voglia di giocare anche quando dovrebbero o potrebbero fare altro. Il loro crescere è discontinuo, soprattutto nell’adolescenza. Lo sappiamo. Sappiamo anche che la calda coperta che li avvolge, quella del nostro amore, allarga sempre di più i loro limiti e orizzonti,

donandogli un loro senso di adeguatezza. La pazienza è la nostra più grande alleata. Ma anche la fiducia nei risultati. Imparare ad accontentarci, a capire i loro sforzi anche quando tutto ci dice il contrario. Costruire sempre, giorno dopo giorno, anche sopra le sconfitte. Un giorno ci sembra di aver raggiunto un grande traguardo e il giorno dopo di quel traguardo neanche l’ombra, e poi ritrovarlo dopo due mesi. Spesso noi genitori ci troviamo spiazzati davanti ai loro atteggiamenti, ma non perdiamo mai la forza di credere in loro. Non ce lo possiamo permettere. Se noi, per primi, crediamo nei nostri figli, anche loro impareranno a credere in se stessi. E’ questa la forza più grande che possiamo trasmettergli. Insegnargli a credere in se stessi,


ad amare se stessi e a rispettare se stessi, senza mai andare oltre quello che possono essere o fare in quel momento. Permettere agli altri di amarli e accettarli per come sono. La fiducia di amare e allo stesso tempo di lasciarsi amare. In altre parole affidarsi completamente a noi. Una fiducia che dentro se stessi, nel profondo, non riescono più sentire veramente loro. Ma anche imparare ad aspettare, a costruire piano piano. Così, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la coperta si allunga, e noi doniamo loro, giorno dopo giorno, fili e fili di lana di tanti colori. I colori dell’entusiasmo, della voglia di fare, della voglia di gioire, di prendersi anche un po’ in giro quando nella vita si arranca un po’. Succede a tutti, ma ai nostri figli che hanno iniziato la loro vita

arrancando, le sconfitte bruciano di più, molto di più. Troppo di più. E allora si rifugiano in noi genitori, ma quando non siamo con loro in quel preciso momento devono riuscire a trovare dentro di loro quella forza che insieme a noi stanno costruendo… piano piano… affidandosi… piano piano… E allora, giorno dopo giorno, vivendo insieme ai nostri figli, doniamo loro anche tutte le sfumature di ogni colore di quei tanti e tanti fili di lana, anche quando, apparentemente, non sanno cosa farne, soprattutto nei momenti di rabbia. E ce ne sono di momenti di rabbia. In quei momenti, noi genitori, dobbiamo tenere le nostre gambe ben salde a terra per non farci travolgere e stravolgere dalla loro rabbia. Noi genitori possiamo accogliere quella rabbia

per ripensarla insieme: sappiamo bene che dietro quella rabbia si nasconde il loro dolore, grande, immenso, soprattutto incomprensibile. Così, giorno dopo giorno, tessiamo, tutti insieme, quei fili di lana e la coperta prende consistenza. E piano piano i nostri figli capiscono che si può imparare di nuovo ad affidarsi agli altri, almeno un po’. E noi genitori, sappiamo che con gli anni, saranno loro e soltanto loro, secondo il loro sentire, a mettere insieme altri fili di lana di questa coperta, con tutti i colori della vita che gli abbiamo fatto conoscere ed amare. E ad ogni intreccio e ad ogni sfumatura corrisponde una loro conquista e, soltanto loro, potranno farne le finiture a cui, potranno sempre aggiungerne delle altre, quando arriveranno tutti i momenti giusti del

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loro vivere, quando avranno imparato a camminare da soli senza arrancare ed avranno acquistato abbastanza forza per riuscire a portarla sempre con loro senza avvertirne il peso. La coperta dell’amore dovrà essere una… grande coperta… e una coperta grande… dovrà essere leggera, come leggero è l’amore… quello capace di amare… quello capa-

ce di accorgersi, di capire, di soddisfare i bisogni più profondi dell’essere… Così giorno dopo giorno, noi genitori saremo lì, accanto a loro, in un dolce silenzio e un grande rispetto del loro divenire in armonia con sé stessi e con il mondo, del loro impegno nel riuscire ad affidarsi ancora nella loro vita, della ricerca dell’autostima e dell’autonomia, e avranno capito

che meritano tutto l’amore del mondo. E noi genitori saremo sempre lì, accanto ai nostri figli, per rinnovar loro continuamente il nostro sostegno, per portare insieme la coperta dell’amore se quando e come ne sentiranno il bisogno. Un giorno, anche loro, potranno avvolgere le persone che amano… con la loro coperta dell’amore.


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giorno dopo giorno

di Valentina Cafiero

Diario di un’adozione - parte prima 26

16 maggio Oggi 16 maggio, dopo la fatidica giornata di ieri, ho un momento di respiro per aggiornarvi tutti e riprendere fiato. Devo dire che le nostre ansie di mamma e papà si sono completamente placate nel momento in cui abbiamo messo piede in Colombia, perché sapevamo che era la cosa giusta da fare: siamo entrati nel vivo della cosa lasciando a casa tutte le paure. Della giornata di ieri mi sembra di ricordare ancora poco, la tanta emozione sicuramente, quegli occhietti che ci guardavano e la naturalezza con la quale ci accoglievano e ci adottavano e poi sembrava tutto così naturale e vero per tutti. Quelle vocine tenere e delicate che pronunciano le parole senza la “s” e la “r” sono

tutto un programma di risate e divertimento, credetemi, sembrano usciti da un cartone animato. E poi è la proprio la verità: sono loro che stanno adottando noi, si alternano e vengono da noi a turno per richiedere baci, carezze e sicurezze e ovviamente per giocare. Ci cercano in continuazione, senza perderci mai di vista. Sono veramente assetati e bisognosi, soprattutto Jesus Antonio: quando ti guarda ti si scioglie il cuore. È stato tutto un continuo senza fermarsi mai, protagonista la palla come modo migliore per socializzare e poi le macchinine, el barquito del hombre araña e gli occhialini da sole, la loro passione. Sono ordinati e non li perdono mai. Per quanto riguarda i nomi vi confermiamo che il piccolo

è Juan David per intero e Jesus Antonio è detto Tonio, ma io continuo a chiamarlo per intero o solamente Antonio, altrimenti poi ci vorrà poco per passare da Tonio a Totore! Oggi nonostante i timori del papà, ci siamo lanciati nel supermercato: acquisto scarpe, sandaletti e vestiti. Erano eccitatissimi, sceglievano, erano felici come due principini e si sono comportati in modo educato senza mai lasciare la manina. A parte le “s” e le “r” non pronunciate, il loro spagnolo è tra il bambinesco e il sud americano sui generis; invece di autobus abbiamo le autobusetas, invece dei dibujos animados i muñecos, invece di dibujar è solo pintar, ma ci capiamo con “mucho gusto”, salvo quando Juan David parte con i suoi discorsi senza


fine e non si capisce dove va a parare. Mangiano poi come due porcellini, aiutano ad apparecchiare e sparecchiare, si aiutano tra loro e sono sempre collaborativi. Aggiungono sempre il sale alla mia comida, chissà perché…. Altri episodi divertenti: la prima volta che li ho vestiti con gli abiti nuovi, Juan esce dalla doccia e vede il fratello già vestito e dice: “wow.. e da dove hai preso questi vestiti?”. Juan dopo la doccia ringrazia sempre: “gracias por banarse”. Poi si stendono sul letto ed io li spalmo di crema e godono da pazzi. Appena mi hanno visto con gli occhiali, poi, mi hanno detto: “Perché adesso hai gli occhiali?”, ed io: “Perché non ci vedo senza”, e loro: “Ma prima non li avevi, come facevi a vedere?”. Jesus Antonio poi fa:

“Ma io ho visto le foto di un’altra casa, quindi avete un’altra casa ancora”. E io: “Sì, una in Colombia e una in Italia”. E’ un curiosone. Oggi ho fatto vedere la foto del Vesuvio ai bimbi e Jesus Antonio ha chiamato subito Juan David e gli ha detto: “Vieni a vedere dove andremo presto!”. Giocando con la barchetta dell’uomo ragno, Juan David dice: “Io so che avete la barca, quando la vediamo?”. Ieri la prima nottata insieme tutti e quattro nel lettone: erano agitati e sudavano per l’emozione e perché erano un po’ spauriti. Per paura che scappassimo via, ci hanno detto: “Perché non vi mettete anche voi il pigiama e poi venite, così siamo sicuri che non potete andare più da nessuna parte….” Adesso vi saluto e a presto

per le prossime novità 17 maggio Tutta la casa dorme… e io ho bisogno un momento per rilassarmi e raccogliere emozioni e riflessioni, anche se mi sento tanto stanca. Stamattina passeggiata sereni e tranquilli al parco: scivolo, palo dei pompieri, lleva, cioè acchiapparello. La nostra gioia è stata turbata solo dall’arrivo di un cane senza guinzaglio che ci veniva incontro. Io ho iniziato a urlare e Juan David ha rimediato una leccata in faccia, fin quando la padrona non si è degnata di prenderselo. Poi limonata al bar. Davanti al cibo Juan è sempre molto avido, non maleducato, ma strabuzza gli occhi. Altro che farsi sbucciare la frutta, questi vanno già di scarpetta con il pane inzuppato in sughetti vari. Andremo a mare con tutti

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della mia vita: ho smesso di essere figlia e sono diventata mamma e ancora non so bene come muovermi in questo ruolo. Lo vedo anche da come amici e parenti mi guardano su skype, con ammirazione e un po’ di incredulità, come per dire guarda come è cambiata. È stata una giornata difficile, quelle costruzioni buttate a terra, i posti a tavola che da quattro passano a tre e lo spavento nel cinema sono tutti episodi che destabilizzano e ti fanno sentire inadeguata. Per fortuna io e Gino ci siamo fatti forza e siamo riusciti a uscirne nel migliore nei modi. Adesso capisco cosa significa quando mi dicevano che era più difficile di quello che si pensa. Si è fatto 18 maggio Oggi, 18 maggio, ho capito tardissimo per andare a una cosa importante dormire perché dopo il i panni per sfamarli. A parte gli scherzi, a volte Juan tende a isolarsi e non ascolta, vuole fare come decide lui e non appare più il bimbo tenero che conosciamo, lancia sguardi di ammonimento e io e il papà ci rimaniamo male, quanto meno ci sentiamo un po’ inadeguati e non sappiamo se assecondarlo o meno. Intanto il fratellino coglie l’occasione per fare il ruffiano e dire che “el no le quiere y yo sì” e lanciare baci. Sembra il figlio ideale, sarà vero? Sicuramente no, ma lo scopriremo nelle prossime puntate. Ah dimenticavo, il ruffiano oramai quando vede il pc chiede direttamente dei nonni e coglie ogni occasione per fare show davanti al monitor!

cinema e la performance da pizzaioli erano super eccitati. Non dimenticherò mai quella luce nei loro occhi, quella eccitazione, quello sfrenamento che sta facendo uscire fuori sentimenti e modi di essere che neanche loro sanno di avere; questo mi fa sentire forte e mi dà ragione che quello che stiamo facendo è giusto. Nel frattempo mi faccio spazio tra loro, nella loro intimità e vita oramai simbiotica, nella quale mi fanno entrare un po’ alla volta. I pruriti notturni di Juan David e Jesus che si sveglia per grattarlo come fosse una papà e io che cerco di consolare uno e deresponsabilizzare l’altro, ma sento che in questo ci sto riuscendo. Sono stanca morta, ma ho sempre bisogno di fare il punto della situazione. Notte, anzi giorno a tutti.


19 maggio Oggi 19 maggio è stata una giornata importante. Abbiamo avuto la visita di controllo dello psicologo e devo dire che è stata molto utile. Confermo che c’è un alto livello di professionalità da parte di tutti gli addetti ai lavori. Ci siamo fatti una bella chiacchierata e lo psicologo ha esordito dicendo che nel giorno dell’incontro ci ha osservato e ha notato che le mie lacrime di commozione hanno segnato un passaggio ben preciso: la fine dell’attesa e l’inizio di una nuova realtà. Questo mi ha colpito molto, perché è esattamente così che ho vissuto quel momento. Abbiamo chiesto consigli su come fronteggiare le situazioni difficili come quella di ieri e ci ha detto che dobbiamo sgridare senza paura quando è necessario. Devo dire che

questo ci ha tranquillizzati tanto, è come se avesse legittimato il nostro ruolo, che piano piano sentiamo sempre più nostro. E così il primo nuovo capriccetto è stato risolto alla grande. Li abbiamo anche portati alle giostrine, concordando prima che quando avremmo detto di tornare a casa, non avrebbero dovuto fare capricci; ci siamo stretti la mano e le cose sono andate lisce, i bimbetti si sono comportati bene. Dopo l’episodio di ieri, devo dire che sto imparando tante cose: primo, che il concetto di perdono è innato nei bambini e che situazioni vengono dimenticate facilmente, a differenza di me che spesso sono rancorosa. Devo capire anche io che ogni volta che si verificano momenti meno facili, dobbiamo tutti mettere un punto e guardare

avanti proprio come fanno loro. Anche se sono rigida e devo imparare ad ammorbidirmi. Per il resto la giornata è passata tranquilla. Ho insegnato a Jesus Antonio a scrivere il suo nome ed era felicissimo quando lo gratificavo, è stato incollato a me come una cozza, mi cerca sempre e sento tanto che ha un estremo bisogno di me. Non mi lascia un attimo: doccia con me, compiti con me, foto con me e manina nel letto fino a quando non prende sonno. Ha scoperto anche la figata delle foto e adesso ogni cosa che fa mi dice: sacame foto. Mi dispiace solo non potermi godere come vorrei Juan, che mi cerca tanto anche lui ma non ha la stessa avidità di Antonio a cui devo dare più spazio. Il papà è abbastanza braccato quanto me:

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pulisce cacche, si sacrifica tanto e ce la mette tutta. Devo dire che è ancora tutto molto meccanico, nel senso che sbrigo varie faccende non perché le sento naturali, ma perché ci ragiono. Anche i baci so che gli fanno bene e li dispenso senza limiti e lo faccio per loro, perché anche i miei sentimenti non sono ancora precisi e definiti. Intanto iniziano a contare in italiano e sono sempre sveglissimi, ricordano perfettamente la strada di casa, dicono al tassista il nostro indirizzo una volta saliti a bordo, come se avessero fatto questo tutta la vita. Sono vispi, intelligenti e interessati a tutto ciò che gli proponi. Domani dovremmo passare la giornata al parco, chissà se che ci aspetta. Buona giornata a voi e buona

notte a me 20 maggio Stasera mi sento fresca e tosta anche se il mio aspetto dice il contrario. A parte il fatto di lavarsi per decenza, non c’è spazio proprio per nulla; tuttavia mi sento bene e sono fiduciosa, so che le cose piano piano ingraneranno e che adesso siamo ancora su “Scherzi a parte”. La mia leggerezza è data dal fatto che la giornata è filata liscia e questo mi fa sentire meno cupa e preoccupata. Oggi passeggiata in centro, manina sempre appiccicata e baci continui, anche ogni tre secondi: mama veame, mama di qua, mama di là, che non puoi neanche girare lo sguardo. Camminano tanto e non si lamentano; pranzo in centro con empanada e

atmosfera relax. Devo dire che adesso ci muoviamo anche molto più sciolti per la città, sembra banale dirlo, ma ci sentiamo già un po’ colombiani. Chiacchieriamo con le persone, salutiamo, i bimbi socializzano e ci aiutano anche a capire come vivono e le loro abitudini. La scelta dell’empanada infatti è nata proprio da una richiesta di Jesus Antonio che mi ha detto che spesso la mangiava con mama Helena. La nominano spesso, dicono: ci faceva fare questo, cucinava questo, e io per quello che posso cerco di seguire un po’ le sue orme perché penso abbia fatto un buon lavoro. Oggi gli ho chiesto se gli avrebbe fatto piacere rivederla e lui mi ha detto: “Sì, certo, ma io voglio stare con te”. L’empanada è stata


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quindi anche un modo per ricordarla e non tagliare il passato e poi devo dire che erano davvero ottime! Tra l’altro, questi bambini sono proprio vispi; io non so se inventano, ma sembra quasi che sappiano muoversi da soli: salgono sui taxi, dicono qui mangiavamo il gelato, da lì si va a casa nostra, insomma sono loro che badano me, che a volte sto tutta scemunita. A proposito di questo, cominciamo ad elencare le mie falle come mamma:

gli cascano i pigiamini perché soprattutto a Juan va tutto largo; non ho tolto le etichette ai vestiti e me lo fanno presente ogni volta prima di vestirsi: mama por favor corta marquilla. Come per dire: è vero che ci hai portato i vestiti nuovi, ma facci stare comodi. Spesso Juan mi dice: “Mamma attenta, mi stai infilando i vestiti al contrario”; poi gli ho fatto scottare la bocca per un boccone bollente. Sempre Juan è andato in giro con la mutanda del fratello. E

poi: “Mamma, ma quando ci tagli le unghie?”. Insomma, ma in mano a chi siamo capitati…? Infine, stasera il padre li ha sfrenati con la cassa piccolina collegata in bluetooth: lanciava con il cellullare prima i versi di animali e poi delle vere puzzette umane e loro si sono scompisciati dalle risate…risultato: abbiamo dovuto fare la doccia con il cibo sullo stomaco per quanto stavano sudati. Siamo praticamente quasi da arresto…


giorno dopo giorno

di Marta e Alberto

“Socci socci come le tazze di nonna” 32

Lei ha la voce squillante, sovrasta quella di tutti gli altri. Vuole imporsi, non passare mai inosservata. Lui misura le parole, preferisce i toni bassi. E’ sfuggente, difficilmente alza la mano per prendere la parola. Lei è teatrale, ha la lacrima facile, emotiva, impulsiva, vulcanica. Appena ti vede, vola tra le tue braccia. Non guarda gli ostacoli e… cade. Lui è un po’ scontroso, timido, riflessivo, è raro uno slancio. I movimenti sono sempre misurati. Lei ama parlare della sua storia, s’informa cento volte su tutti i passaggi e i dettagli. Lui è riservato, poche domande e qualche cenno alla sua adozione, solo ogni tanto. Sono entrambi miei figli, caratteri ed età diversi,

maschio e femmina. E anche io, necessariamente, devo essere papà in modo diverso con ciascuno di loro. Guardandoli, mi viene in mente un’espressione di mia nonna che diceva che, per lei, noi nipoti (ne aveva 7) eravamo “socci socci” come le sue tazze. Socci nel suo dialetto abruzzese vuol dire uguali e le sue tazze erano rigorosamente tutte spaiate, di colori e fogge diverse. Ma a nessuna di loro poteva rinunciare. I miei figli, insieme, fanno un po’ il medesimo o effetto: appartengono a… servizi diversi, eppure stanno bene insieme alla stessa tavola. A volte fanno a pugni (nel senso letterale del termine) come tutti i fratelli del mondo e a volte creano un concerto di risate che emoziona.

Il sabato mattina prima di Natale, si sono svegliati presto e sono corsi in camera da letto di mamma e papà. L’accoglienza non è stata calorosa: noi abbiamo brontolato che era l’alba e che avremmo voluto dormire ancora un po’. Lo abbiamo bofonchiato con poca convinzione, eppure.. Si sono scambiati due battute sottovoce e la porta della camera si è magicamente richiusa dietro di loro. Ci siamo risvegliati un’ora dopo con il profumo del caffè tra le lenzuola. In cucina regnava il caos, ma la tavola era minuziosamente apparecchiata con pane tostato, marmellate e tazze (tutte diverse anch’esse) da riempire di latte e tè. Peccato che il Natale arrivi solo una volta l’anno…


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leggendo Marina Zulian responsabile della BibliotecaRagazzi di BarchettaBlu

Parole fuori

Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi Barchetta Blu di Venezia 34

4. Questo mese: Stralisco Sicuramente vi starete chiedendo che cos’è lo stralisco. Non posso svelarvelo subito. Lo stralisco è comunque il titolo di un libro il cui autore è Roberto Piumini (illustrazioni di Cecco Mariniello, Einaudi Ragazzi, 1993); si tratta di una fiaba dolce e avvincente, di un racconto di colori, di mondi da esplorare, di realtà da conoscere e di emozioni da vivere. All’inizio non si capisce che cosa sia lo stralisco, non viene addirittura neanche citato fino a metà del racconto. Non cercatelo sul vocabolario perché non lo troverete. I protagonisti sono un bambino, un padre e un pittore. Il pittore Sakumat vive in una città turca e non è giovane ma nemmeno anzia-

no. Aveva l’età in cui gli uomini saggi sanno stare in amicizia con se stessi, senza perdere quella degli altri. Sakumat dipinge stupendi paesaggi visti intorno a lui o inventati, disponendo forme e colori in modo impareggiabile. Egli viene chiamato da ricchi proprietari che vogliono abbellire la propria casa; un angolo, un fondo di un portico, un davanzale veniva trasformato, ingrandito, allargato, colorato e vivacizzato. I pennelli erano per lui come dita e i paesaggi che immaginava non sapeva nemmeno lui dove li aveva visti; forse non esistevano in nessun luogo del mondo ma sembravano veri, profumati, da attraversare. Un giorno Sakumat viene chiamato da un ricco signore di una vallata lontana che lo vuole al suo palazzo

per affidargli un’opera speciale. All’inizio il pittore dice che è molto impegnato e che non può andare, ma poi si fa convincere dalla grande ricompensa e accetta di mettersi in viaggio. Arrivato nel palazzo Sakumat nota subito il ricco silenzio che vi regnava. A questo punto entra in scena il secondo protagonista della storia: Ganuan, il signore di Nactumal, colui che ha fatto chiamare il pittore; è alto con i capelli bianchi e corti, con folti baffi scuri e si presenta dicendo subito che per lui la cosa più importante è l’essere un padre. • Ho pensato di abbellire le stanze di mio figlio con figure e colori • Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? • A questo non ho pensato con precisione … lo decideranno la tua arte e il tuo


pensiero. Il terzo protagonista si presenta nel terzo capitolo. Madurer è un bambino solo ma non infelice; ha undici anni ma ne dimostra nove. E’ malato di una strana malattia per la quale deve stare sempre rinchiuso al buio, lontano dal sole e dalla polvere che gli sono nocivi. Nonostante la malattia il bambino, figlio di Ganuan, è grazioso con i suoi folti capelli neri e la carnagione pallida; non può vivere all’aria aperta, correre e giocare nel giardino del palazzo; gli occhi si gonfierebbero, il respiro diverrebbe affannoso, la pelle si riempirebbe di chiazze e di piaghe. In occasione dell’undicesimo compleanno di Madurer, il padre avrebbe voluto fargli un regalo speciale, una sorpresa: far dipingere tutte le pareti bianche delle stanze in cui viveva. Quando il pittore aveva chiesto al padre come fosse l’anima del suo bambino e se la dura sorte lo avesse reso infelice, il padre non aveva voluto rispondere dicendo che le parole di un padre non sono le più adat-

te per parlare del figlio: • Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto è grande l’illusione e quanto è bugiardo l’affetto ... la risposta te la daranno direttamente il corpo, il volto e l’anima del mio figliolo – disse il padre al pittore. Ad ogni modo il padre non avrebbe voluto un figlio diverso neanche se avesse avuto le ali come gli angeli. Inizia così la vita insieme del pittore e del bambino; vagano per le tre stanze da dipingere cercando l’ispirazione per i disegni, conoscendosi a poco a poco, giocando e scherzando, parlando del passato e del futuro, sfidandosi al gioco degli scacchi e leggendo i libri illustrati. Il progetto iniziale è quello di dipingere il mondo così com’è, ma con il passare dei giorni ci si rende conto che ciò che viene realizzato è il mondo secondo l’idea che si è fatta il bambino dalla prigione della propria camera. Pittore e bambino hanno in comune la stessa passione per la natura: il primo l’ha studiata e poi riprodotta nei suoi dipinti, il secondo

l’ha coltivata attraverso le immagini dei libri. Sakumat e Madurer, con la loro sensibilità, imparano subito a comunicare e la pittura diventa uno strumento per divertire il bambino e fargli dimenticare la grave malattia che lo ha colpito. Il tempo trascorre lento alla ricerca delle immagini giuste da dipingere. Il pittore chiede aiuto al bambino per capire quali fossero i ricordi a lui cari, le immagini emozionanti da riprodurre nelle pareti. Senza accorgersene il bambino mescola nei suoi pensieri le figure dei libri a quelle mai vedute ma solo immaginate ascoltando dal padre storie e racconti di luoghi selvaggi e miracolosi. A volte il padre entra di nascosto nelle stanze del figlio e osservava in disparte, da una certa distanza; l’entusiasmo e la gioia del bambino e del pittore, fanno pensare a Ganuan che anche se si fosse avvicinato a loro, il figlio, così preso dall’immaginazione, non lo avrebbe neppure visto. Questo non è motivo di tristezza per il padre;

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anzi egli è molto contento poiché non ha mai visto il figlio così vivace e felice in quel frenetico progettare e ideare nuovi universi ricchi e straordinari. Spesso il bambino propone al pittore per iniziare l’opera, l’immagine del mare o delle montagne, del cielo o di un prato fiorito; ma subito dopo lo blocca dicendogli di aver cambiato idea, dicendogli di fermarsi perché non avrebbe voluto sbagliare. • Abbiamo qualche idea? Chiese il pittore a Madurer • Si, certo. Ma non bisogna sbagliare. • Perché dici questo? Perché non bisogna sbagliare? • Perché se sbagliamo … se non facciamo le figure come vanno fatte, dovremo tenerle per sempre. • Invece possiamo sbagliare - disse Sakumat – Basterà tenere gli occhi aperti e accorgersi degli errori. Forma cancella forma e colore copre colore. Però ora bisogna cominciare. Se non cominciamo non possiamo fare le cose giuste, e nemmeno quelle sbagliate. Questa parte del romanzo mi ha affascinato moltissimo e in particolare la lieve ma decisa discussione fra il bambino e il pittore su ciò che si può o non si può fare, sul fare e magari sbagliare o sul preferire non

tentare neanche per avere la certezza di non cadere in errore. Decidere è sempre difficile, per un adulto e ancor di più per un bambino. Non si deve aver fretta nella vita. Non si può avere la certezza di fare sempre la cosa giusta. Ma anche se si commettono delle sciocchezze c’è sempre la possibilità di correggere il tiro, di rimediare, di avere un’altra possibilità. E così, con la consapevolezza che scegliere è proprio difficile ma che con una nuova pennellata si sarebbe potuto modificare il paesaggio, Madurer decide di far iniziare il primo disegno con una montagna. I giorni passavano e insieme alle montagne nascevano anche vallate, laghetti, capre e stambecchi. Tutto arrivava lentamente, fatto di quello che Madurer e Sakumat sapevano, immaginavano e desideravano, abbozzando, cambiando, disegnando e colorando. Che batticuore nel leggere come veniva creato un mondo intero! Erano passati già tanti mesi e le pareti erano ormai quasi tutte riempite di immagini, di disegni e di colori. Madurer confidò a Sakumat che aveva degli strani pensieri, come dei desideri: da quel giorno avrebbe voluto non solo

immagini nuove, ma immagini che lottano tra loro, immagini che cambiano col passare del tempo. La nave che era solo un puntino lontano nel mare, un po’ alla volta si sarebbe dovuta avvicinare, diventando sempre più grande e nitida nei suoi particolari; il prato che prima era di sola terra marrone poi sarebbe dovuto diventare verde, ricoperto di steli d’erba e con l’arrivo della primavera, avrebbe dovuto riempirsi di fiori e di insetti. Tra un racconto verosimile e una storia inventata, apparvero così pirati e fortezze, deserti e colline mentre la malattia del bambino peggiorava inesorabilmente. Ad un tratto il bambino era così immerso nei pennelli, nei colori e nella pittura di Sakumat che ebbe l’irrefrenabile desiderio di dipingere lui stesso. Con incertezza ma con coraggio la pittura di Madurer si mescolava ogni giorno di più a quella di Sakumat, scombinando qua e là l’ordine delle cose come sa fare un bambino meglio di chiunque altro, con leggerezza e decisione allo stesso tempo. I disegni proseguivano con fantasia e creatività fino alla comparsa del luminoso e misterioso stralisco, che dà il nome al libro


• Sì, è simile al grano, ma sono spighe di stralisco.disse Madurer • Stralisco? E’ una pianta che non conosco, – disse Sakumat, avvicinando con curiosità la faccia a una delle spighe dipinte, per studiarla meglio. • Nessuno lo conosce, – disse Madurer, – è una specie di pianta luminosa. • Luminosa? • Sì, splende nelle notti serene. E’ una specie di pianta-lucciola, capisci? Noi adesso non la vediamo splendere, perché è giorno. Ma di notte lo stralisco illumina il prato. Il rapporto fra il pittore e il bambino diventa molto più che un gioco. Sakumat non deve solo mostrare il mondo attraverso i suoi dipinti, ma ha il difficile compito di far nascere e vivere figure sulle pareti; immagini che non sono un semplice ornamento o uno statico abbellimento, ma sono l’unico mondo che il bambino può vedere e vivere. Il rapporto tra il pittore e il padre non è un semplice contratto d’opera ma un

patto intimo e generoso tra due adulti che si guardano negli occhi e si promettono di perseguire uno scopo comune. Tra il bambino e il pittore cresce una grande amicizia che li fa viaggiare attraverso l’avventura della vita. Il compito di Sakumat è portare il mondo esterno in quelle sale quasi asettiche mescolando realtà e fantasia, coinvolgendo il suo piccolo amico in una trasformazione continua; un universo in miniatura dove le immagini cambiano con il mutare delle stagioni così come avviene fuori del palazzo, nella vita reale. Le figure sulle pareti sembrano avere una vita propria. Ma anche quella del pittore e del bambino è la vita reale: diversa, particolare, ma sempre ricca ed emozionante. Nello spostarsi da una stanza all’altra il piccolo protagonista sa sperare e sa vivere; viaggia da una parte all’altra del mondo scoprendo la complessità e la diversità, ma anche conoscendo se stesso e i propri sentimenti. Accompagnare questi tre

personaggi nel loro viaggio è fantastico. Leggere questa favola profonda e indimenticabile aiuta adulti e ragazzi a vedere il mondo con la consapevolezza che la gioia può essere vicina, che l’amore e l’amicizia sono potenti e assoluti ma al tempo stesso delicati e fragili come lo stralisco. La pianta-lucciola si piega sotto il vento ma sa anche illuminare la notte come le stelle, facendo brillare tutto ciò che gli sta intorno. Leggere questo romanzo breve fa riflettere sui temi dell’amicizia e della speranza ma anche sui temi del dolore e della morte. Con la sua solita magia Roberto Piumini ci fa respirare una inusuale gioia di vivere; quella stessa gioia che il bambino, anche da dentro il suo dolore, insegna al pittore; quella fuggevole felicità che ci può essere insegnata dai bambini che stanno intorno a noi e che se non smettiamo mai di cercare, qualche volte possiamo anche trovare.

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trentagiorni

UTERO IN AFFITTO, STRASBURGO: “DIRITTO AL FIGLIO ANCHE SENZA LEGAME BIOLOGICO” Corte dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver tolto bambino a una coppia che lo aveva avuto da madre surrogata in Russia. Otterranno un risarcimento e il piccolo resterà nella famiglia che lo ha adottato nel 2013 L’Italia ha violato il diritto di una coppia sposata di poter riconoscere come proprio figlio un bambino che non ha nessun legame biologico con loro e che è nato in Russia da madre surrogata. Lo stabilisce la Corte dei diritti umani di Strasburgo, che condanna l’Italia a risarcire i coniugi, perché non ha dimostrato che l’allontanamento del bambino dalla coppia era necessario. Il caso. La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo riguarda il ricorso presentato a Strasburgo nel 2012 da una coppia di Colletorto, in provincia di Campobasso. Dopo aver tentato la fertilizzazione in vitro con i propri gameti in Italia, aveva deciso di andare in Russia per ricorrere alla maternità sostitutiva, dove la pratica è legale. Nel marzo

2011 è nato un bimbo riconosciuto dalle autorità russe e iscritto all’anagrafe di Mosca come figlio legittimo della coppia. Ma una volta tornati a casa i due si sono visti negare la trascrizione dell’atto di nascita nell’anagrafe italiana. Il bimbo dato in adozione. Le autorità ritenevano che il certificato di nascita russo contenesse informazioni false sulla vera identità dei genitori del piccolo. In seguito con varie decisioni i tribunali italiani, avendo anche eseguito un test del Dna da cui non risulta alcun legame biologico tra padre e figlio, dichiararono che il piccolo era in stato d’abbandono e lo affidarono ad una famiglia d’accoglienza. Fu stabilito inoltre che la coppia di Colletorto non doveva avere contatti con il bambino e che non poteva adottarlo. Oggi la Corte di Strasburgo ha dichiarato che c’è stata una violazione del diritto al rispetto della vita familiare e privata, e che la sentenza sulla coppia non riguarda la questione delle madri surrogate, ma la decisione dei tribunali italiani di allontanare il bambino e affidarlo ai servizi sociali. dello Stato italiano a restituire

il bambino alla coppia”, perché “il piccolo ha indubbiamente sviluppato dei legami emotivi con la famiglia d’accoglienza con cui vive dal 2013”. L’unico obbligo per l’Italia è di pagare ai coniugi 20mila euro per danni morali (loro ne avevano richiesti 100mila) e 10mila euro per le spese processuali sostenute. L’altro caso. La questione della maternità surrogata è spesso oggetto di sentenze. A novembre scorso la Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso di una coppia di Brescia che aveva avuto un figlio ricorrendo a una madre surrogata in Ucraina, e se l’era visto togliere da un tribunale italiano. I giudici della Cassazione avevano deciso di fermare la pratica di ricorrere all’utero in affitto all’estero. Per effetto di questa decisione il ragazzino, nato nel 2011, è stato dato in adozione. Dove è ammesso l’utero in affitto. In Europa la maggior parte dei paesi, come l’Italia, vieta la pratica dell’utero in affitto. E’ legale solo nel Regno Unito, in Grecia, nei Paesi Bassi e in Romania. Molte coppie italiane vanno all’estero per superare questo limite: in Russia, in Ucraina e


recentemente anche in Greci Fonte: Repubblica A FIRENZE LA VERSIONE 2.0 DELLA RUOTA DEGLI ESPOSTI La ruota degli esposti diventa una culla termica. I tempi cambiano, ma il problema resta L’ospedale fiorentino di Careggi ha inaugurato un lettino ad alta tecnologia, dove poter lasciare i bambini che non si vogliono o non si possono tenere. È stata la fondazione Francesca Rava a finanziare questa versione contemporanea delle antiche ruote dei conventi. Quelle che fino alla metà del Novecento accoglievano i figli di ragazze madri che si «liberavano» del frutto della colpa, di donne troppo povere per poterli mantenere, di lavoratrici che non avevano il tempo e la possibilità di allevarli. Abbandonavano il neonato, ma non la speranza di ritrovarlo un giorno, cresciuto da altre madri amorevoli. Infatti, lasciavano sempre una traccia di sé, un segno di riconoscimento. Un corallo rotto, un mezzo rosario, un anello diviso a metà. Poi un furtivo colpo di campanella e via nel nulla. A

Firenze al posto dell’antica campanella c’è un modernissimo campanello che avvisa i medici del nuovo arrivo. E al tempo stesso garantisce l’anonimato. E anche in questo caso le mamme lasciano un segno di riconoscimento, come un certificato di maternità criptato. Come le metà di un cuore che la sorte ha spezzato, ma che potrebbero un giorno ricongiungersi. Al di là dei progressi tecnologici, sanitarie assistenziali, evidentemente la maternità in molti casi rimane un dramma. Ora come allora. E adesso con tante donne immigrate e con tante nostre connazionali smarrite, non garantite, socialmente deboli, queste antiche istituzioni caritatevoli ridiventano sorprendentemente attuali. E socialmente preziose. A metà tra previdenza e provvidenza. Fonte: Il Venerdì di Repubblica RAPPORTO ONU: NEL MONDO LAVORANO 168 MILIONI DI MINORI Attualmente in tutto il mondo lavorano 168 milioni di minori. Tra questi 115 milioni tra i 5 e i 17 anni di età sono impegnati

in lavori considerati ad alto rischio, come minatori, agricoltori, muratori, lavoratori domestici e nei bar. Secondo una nota dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), ripresa dall’Agenzia Fides, ogni anno muoiono in tutto il mondo 22 mila bambini e bambine a causa di incidenti sul lavoro, mentre non si conosce il numero di quanti rimangono feriti o si ammalano a causa del lavoro che svolgono. La mancanza di misure di sicurezza e sanitarie porta spesso ad un numero maggiore di incidenti, mortali e no, a disabilità permanenti, cattiva salute, danni psicologici, comportamentali ed emotivi. L’organismo internazionale, con sede centrale a Ginevra, segnala che il fenomeno è diffuso sia nei Paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo e, spesso, i piccoli iniziano a svolgere lavori pericolosi in una fascia di età molto prematura. Il settore agricolo continua ad essere quello dove vengono sfruttati in maggior numero i minori: sono 98 milioni in tutto il mondo, il 59%. Nel campo dei servizi sono 54 milioni e nell’industria 12 milioni. Fonte: Aibi.it

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