Adozione e dintorni GSD informa - bimestrale - marzo/aprile 2016 - n. 2
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Adozione e dintorni GSD informa - bimestrale - marzo/aprile 2016 - n. 2
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28/04/16 11.58
editoriale
GSD informa
di Anna Guerrieri
psicologia - pedagogia e adozione 6 8 16
Viaggiare insieme di Monica Nobile Ti tocco, ti sento…ti lascio andare di Massimo Maini e Daria Vettori Le parole giuste di Donatella Lisciotto
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giorno dopo giorno
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leggendo
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spciale e legale
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trentagiorni
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leggendo
L’essenziale è invisibile agli occhi Maurizio, Marcella e Kola Pescin Parole fuori di Marina Zulian Bambini adottati a scuola Heidi Barbara Heilegger
di Daniela Pazienza
Registrazione del Tribunale di Monza n. 1840 del 21/02/2006 Iscritto al ROC al n. 15956
redazione Luigi Bulotta direttore, Catanzaro direttore@genitorisidiventa.org; Simone Berti, Firenze
editore Associazione Genitori si diventa - onlus via Gadda, 4 Monza (MI) www.genitorisidiventa.org info@genitorisidiventa.org
impaginazione e grafica Maddalena Di Sopra, Venezia; Paolo Faccini, Milano; Pier Paolo Puxeddu+Francesca Vitale studio associato, Roma progetto grafico e illustrazioni studio redazioni, Francesca Visintin, Venezia immagini Simone Berti, Firenze; Roberto Gianfelice, L’Aquila; Pier Paolo Puxeddu, Roma
ricerca iconografica Simone Berti, Firenze; Anna Guerrieri, L’Aquila. abbonamenti e contatti email Luigi Bulotta redazione@genitorisidiventa.org copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Adozione e Dintorni - GsdInforma, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Info: redazione@genitorisidiventa.org Antonio Fatigati, direttore responsabile
di Anna Gerrieri
Chiarezza
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Da sempre, quando si parla di adozioni internazionali, si parla anche di una forte esigenza di chiarezza. La trasparenza delle prassi è infatti essenziale e doverosa per i bambini e le bambine coinvolti, per le famiglie adottive e di origine e per gli operatori stessi che si occupano di adozione. E’ bene ricordare che la legge vigente fu figlia di una storia ben precisa, anzi di tante “storie” che interrogavano sull’opacità delle prassi e su quanto accadeva nelle adozioni del tempo in Sud e Centro America, in Russia e in Romania. Quella legge ha cambiato molte cose e molte ne ha dipanate se si pensa che un tempo si iniziava spesso il proprio viaggio adottivo districandosi da soli e a fatica in un ginepraio di contatti con referenti all’estero, avvocati e religiosi. I rischi erano ampi, talvolta si incappava in vere frodi e veramente poche erano le garanzie a tutela dei bambini. Dal 2000 tanto è cambiato, ma la “chiarezza”, quella piena è arrivata? Parzialmente, la risposta non può che essere parzialmente. Nel 2005 iniziava così il primo di una serie di articoli sulle adozioni in Ucraina di Marida Lombardo Pijola: Sebbene sia un magistrato, o forse proprio a causa di questo, il giudice Madzianovskij si fida più della vita che della giustizia, soprattutto da quando ha arrestato l’Uomo Nero che vendeva bambini agli italiani, e poi qualcuno, con metodi trasversali, lo ha fatto sparire prima che lui lo interrogasse. Pazienza: zhizn pokazhet, la vita dimostrerà, dice il giudice Madzianovskij, perché la vita ha un suo percorso, e qui la giustizia ne ha più d’uno, e ha più mani, e più teste, oltre alla sua. Nel 2008 su GSDInforma apparve un’intervista su una storia che riguardava l’Etiopia (http://www.genitorisidiventa.org/vi-
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sualizza.php?type=articolo&id=151): “Tu vai”. Così gli hanno detto in famiglia. “Tu vai. Quando hai 18 anni torni e aiuti la famiglia. In America (per loro chi viene per i bambini viene dall’America) le famiglie non hanno bambini e prendono anche quelli degli altri. Tu vai, studi e torni.” Vai e torna. L’hanno detto a tutti i bambini. È una frase che altre famiglie hanno sentito raccontare dai loro bambini, bambini arrivati come mio figlio. “A 18 anni torno?” Eravamo ancora ad Addis Abeba. Così mi ha detto. “Mamma, lì poveri, nulla da mangiare, hanno detto: Meglio che tu vai.” Nel 2011, sempre sul nostro mensile, apparve una storia vietnamita (http://www.genitorisidiventa.org/visualizza.php?type=articolo &id=173). Riguardava quanto fatto emergere da Peter Bille Larsen nel 2008 quando iniziò una campagna d’informazione per denunciare alle autorità competenti e all’opinione pubblica quello che era accaduto ad alcune famiglie Ruc, una minoranza etnica che abitava nella provincia vietnamita di Quang Bình, una zona montuosa al confine con il Laos. Iniziava così: Immaginate, per un momento, di
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essere stati colpiti dalla povertà causata dalla crisi finanziaria in corso o dal mancato raccolto e accettiate un’offerta fatta da funzionari locali affinché vostro figlio sia accudito temporaneamente in un centro di assistenza per bambini fino a quando la vostra situazione economica non sarà migliorata. Ora immaginate di andare a trovare i vostri figli, solo per essere informati che sono stati inviati all’estero per adozione internazionale e il funzionario del centro vi spiega che la vostra casa era troppo lontana per avvisarvi e tanto meno per chiedere la vostra opinione. Ucraina, Vietnam, Etiopia erano soltanto alcuni paesi, c’erano anche e non solo Nepal e Guatemala. C’era tanto, troppo. Un troppo su cui, da genitori adottivi, vedevamo le Istituzioni agire (tanti sono stati gli Enti chiusi nel tempo) ma su cui talvolta si aveva la sensazione si potesse fare anche di più, magari con difficoltà, ma di più. Oggi leggiamo sulle adozioni nella RDC. Leggiamo e abbiamo letto tanto in questi anni, e tanto altro abbiamo ascoltato dalle parole di chi era andato ad adottare e dai racconti dei bambini. Tante adozioni, contesti differenti, eppure di nuovo come in Etiopia segni di una fragilità del sistema (età presunte, nomi a volte cambiati, luoghi di origine a volte cambiati, a volte bambini che fratelli non erano). Poi nel Settembre 2013 iniziò il blocco e la crisi grande che ha coinvolto sia le famiglie che erano andate a prendere i figli e si sono trovate intrappolate dal blocco, sia chi, abbinato a bambini che ormai avevano sentenze RDC, non aveva fatto in tempo a partire. Per i primi si è trattato di mesi di angosciosa attesa, per i secondi di anni. E’ stato un tunnel che ha coinvolto centinaia di famiglie in tutto il mondo (e che, ad esempio in Francia, non sembra nemmeno finito). Destini appesi alle decisioni politiche della RDC e alle terribili dinamiche della politica internazionale e di quella nazionale. Per fortuna, per le famiglie italiane, tanto penare si è finalmente concluso a Giugno. Restano gli “instradati”, coloro che non potendo più cambiare direzione (magari perché hanno già pagato molto
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al proprio ente) attendono un abbinamento in RDC. Immaginiamo il loro cuore quando avranno letto quanto apparso sull’Espresso in questo periodo. Dunque, la chiarezza è necessaria, e lo è non da domani, bensì da ieri. Una chiarezza che immaginiamo frutto di un lavoro chiaro, trasparente, istituzionale, fatto con ferrea calma. Un lavoro che esprima valutazioni e precise conseguenze ma soprattutto costruisca, attraverso il confronto, la collaborazione e la capacità di fare rete, la possibilità realistica e vera di dare a tanti bambini in paesi troppo fragili una famiglia salda alla fine di un percorso adottivo inequivocabile. Troppo spesso abbiamo visto prassi poco chiare trasformarsi via via, di crisi in crisi (non dimenticheremo mai quanto successo in Kirghizistan), in un incubo. E’ venuto il momento di sapersi fermare, quando necessario, per stabilire come le adozioni italiane debbano procedere in alcuni paesi. Lo dobbiamo ai bambini e alle bambine in attesa.
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di Monica Nobile pedagogista, counsellor
Viaggiare insieme
“Io non posso mai essere sicuro di comprendere il mio passato meglio di quanto esso comprendesse se stesso quando l’ho vissuto, né far tacere la sua protesta” Bruce Chatwin Sono sempre stata convinta che viaggiare metta le persone nella particolare e privilegiata posizione di apertura verso la scoperta, di altri mondi, di altre persone, di se stessi. Per questo da sempre, nel mio lavoro con ragazzi e giovani, cerco di creare l’occasione di una gita, anche breve; ogni volta si realizza una magia! Quando torniamo da un viaggio siamo tutti, i ragazzi ma anche noi educatori, diversi. Soprattutto le relazioni si impreziosiscono, si arricchiscono dell’esperienza comune vissuta nella scoperta di un luogo, nella distanza da
casa e dalla quotidianità. Le serate a chiacchierare fino a tardi, le complicità, il tempo dilatato, lo spazio per fare amicizia, per conoscersi meglio, il piacere di mangiare, stancarsi, ridere insieme, sono occasione di scoperta e di benessere. È la magia che ho sempre vissuto alle assemblee nazionali di Genitori si Diventa, ho sempre assaporato il piacere degli adulti di stare insieme, ma più di ogni altra cosa ho respirato il coinvolgimento dei bambini e dei ragazzi, il loro profondo desiderio di starsi appiccicati, giocando, bisbigliando, talvolta anche tramando, gli uni in cerca degli altri, in una sorta di danza dell’amicizia. Approfitto dello spazio di questo notiziario per invitare tutti a creare occasioni di viaggio. Credo sia un modo di rega-
lare ai propri figli un profondo respiro. Soprattutto a quei figli che faticano nelle loro relazioni quotidiane, a scuola o nel tempo libero, soprattutto a quei figli che non smettono mai fino in fondo di sentirsi un po’ inadeguati, un po’ storti, un po’ poco “degni” dell’amicizia.
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Diamo loro l’occasione di viverla con pienezza, l’amicizia, affrontando insieme ad altri una strada di scoperta e di condivisione. Non è necessariamente una proposta che coinvolge soltanto figli adottivi, anzi, penso sia bello pensare a gruppi di ragazze e ragazzi,
con diverse storie, con diversi bagagli, con la voglia di stare insieme. Allontanarsi dalla propria casa e dai propri luoghi conosciuti, mette tutti sullo stesso piano, quello di una sottilmente piacevole insicurezza. La partenza suscita uno stato d’animo che porta all’aper-
tura, degli uni verso gli altri, lontano dagli stereotipi, dai luoghi comuni, dai ruoli consolidati. Proporre ai ragazzi un viaggio è, per me, regalare loro una possibilità di guardare se stessi e gli altri con occhi diversi, occhi curiosi e con altri cuori, cuori emozionati.
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di Massimo Maini psicopedagogista e filosofo e Daria Vettori psicologa e psicoterapeuta
Ti tocco, ti sento…ti lascio andare Quando i figli adottivi crescono: racconto di un incontro di gruppo di genitori
Oggi il gruppo s’incontra, come ogni mese. Non siamo tanti, ma la mamma di A. porta con emergenza il bisogno di confronto con gli altri genitori su quello che sta vivendo a casa. Inizia subito a raccontare: suo figlio di 11 anni, arrivato a 4 da un paese dell’Est Europa, ha molta paura a stare da solo. I genitori non hanno mai provato a lasciarlo senza un adulto, anche solo per qualche minuto. “Sentiamo che non è ancora pronto, che è necessario aspettare ancora un po’”.
“Avevo paura che mi aveste abbandonato”.
grandi, assolute, dolorose:
“Mi ricordo quando non lo I genitori di A., emoziona- trovavamo più dentro alla ti, raccontano di come in Coop”… ”Ah! Che paura quel momento si siano sen- che ho provato… il mio urlava tra i corridoi”. titi genitori “sbagliati”: “Come potevamo avere commesso un errore di questo tipo, sapendo i bisogni di nostro figlio? Da allora non lo abbiamo mai lasciato solo nemmeno per un minuto! Ancora adesso abbiamo paura di non capire, di spingere troppo, di dover aspettare i suoi tempi”.
Questa comunicazione attiva nel gruppo un fiume Raccontano di quando, in piena di ricordi, modopo qualche anno dall’ar- menti in cui i figli adottivi rivo di A., mamma e papà hanno manifestato un’annon si sono capiti, e lui è ri- goscia terribile. Eventi, masto fuori dalla porta, da talvolta apparentemente solo, per 5 minuti. Lo han- poco importanti, che semno trovato tra le braccia del brano avere evocato nei loro bambini perdite tanto vicino di casa, in lacrime:
I genitori di V. raccontano che, però, all’inizio non era così. La loro bambina dormiva da sola, non aveva paura del buio, non voleva saperne di averli intorno, bastava a se stessa. Un abbraccio non serviva a nulla, e doveva essere lei a decidere come e quando essere toccata. Ora, nonostante abbia quasi 12 anni, vuole la luce accesa, chiede di dormire nel lettone e di sentire il corpo dell’altro. I genitori di M., sempre di 11 anni, raccontano, invece, che il figlio chiede di essere lasciato da solo, sembra un atto eroico che lui vuole riuscire a sopportare. Poi,
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però, mentre attende l’arrivo della madre, ha bisogno di “anestetizzarsi” con la Play Station:
tone è anche di papà, perché stanotte non vai nel tuo letto?…”.
Lui, offeso, non ha nemme“Vado e torno e lui è lì, non no finito la cena, ed è andasi è mosso, mentre io ho fat- to nella sua camera, triste. to tutto di corsa per tornare La mamma allora ha sentito che stava troppo male, a casa il prima possibile”. è andata in crisi, si è senLo stesso ragazzino dorme tita “rigida” e in colpa, nei ogni notte con la mamma, confronti di questo figlio a ha deciso che il papà deve cui è mancato tanto prima stare da un’altra parte, e di arrivare nella loro casa. che il posto nel lettone è Allora è andata la lui: solo suo. La mamma racconta che un giorno ci ha “Se devi stare cosi male, non ti preoccupare, facciaprovato, ha detto a M.: mo un’altra volta… tanto il “Tesoro, tu lo sai che il let- papà può attendere”.
Nel gruppo ridiamo a questi racconti, che parlano di genitori che vanno in confusione, tra il desiderio di dare consolazione al proprio figlio, di dargli e darsi la possibilità di recuperare il tempo perduto, e la consapevolezza che anche in questo comportamento inizia a essere presente una dissonanza. Si comincia ad accennare a un “tempo” dove anche loro dovranno “staccarsi”, avviarsi verso il naturale cammino di autonomia e individuazione. I figli, adottivi o no, crescono e arrivano inesorabilmente a sentire cose nuo-
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ve, prima nel corpo, e poi nella mente. Indipendentemente dalle esperienze di vita, il corpo cresce, si trasforma, manda segnali più o meno consapevoli, che non possono non essere ascoltati. I genitori adottivi si trovano dunque a vivere da un lato il desiderio, reciproco, di consentire alla relazione con il proprio figlio di recuperare quello che è andato perduto. Gli abbracci, le coccole, le rassicurazioni, gli sguardi che un genitore biologico può dare fin dai primi istanti di vita del figlio, possono e devono essere parte della relazione adottiva. Trovarsi in un incontro fatto di corpo e non solo di mente, è fondamentale (come già evidenziato anche nell’articolo del mese passato), indipendentemente dall’età del figlio al suo arrivo. La ricerca di una consonanza, divie-
ne poi il punto di partenza per la creazione di quella base di sicurezza e fiducia che sono fondamentali alla crescita e all’esplorazione del mondo. Dall’altro, però, sentono che è necessario tenere conto del tempo che passa, indipendentemente dai bisogni ancora presenti e dal tempo che il figlio ha trascorso con loro. Pensando a quanto è stato lungo e faticoso trovare questa sintonia, i genitori raccontano alcuni episodi avvenuti nei primi tempi, dopo l’arrivo dei loro figli. Il papà di un ragazzo arrivato a 8 anni dal Cile narra ancora con inquietudine, di quando il figlio si è messo a cavalcioni del balcone al diciassettesimo piano di un palazzo. Il padre ricorda lo sguardo del figlio, uno sguardo di “sfida”, di qualcuno che
non ha nulla da perdere e che ha bisogno di sentire che chi mi prende deve “reggere” qualunque cosa. Questi genitori si commuovono pensando che, quello stesso giorno, erano andati dall’assistente sociale cilena dicendo che forse veramente era troppo per loro, che forse non erano adatti a quel ragazzo, così agitato e provocatorio. Si vergognano dei sentimenti provati, del senso di “espulsione” che non avrebbero mai immaginato di poter provare nei confronti di un bambino così piccolo. Dopo averlo desiderato tanto, ora volevano solo scappare. Anche i genitori di un al-
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tro ragazzino di origine russa raccontano un episodio drammatico, avvenuto poco dopo l’arrivo in Italia.
che non avrebbero mai immaginato di poter provare nei confronti del figlio tanto voluto:
“Ci avevate detto tante volte che potevano succedere queste cose, ma uno pensa sempre che capitano agli altri…e che comunque un bambino non può poi metI genitori erano sul pun- terti così tanto in scacco…è to di chiamare la polizia, pur sempre un bambino”. quando si sono accorti che lui li teneva d’occhio da Nel gruppo parliamo a lunlontano. Il papà racconta, go del significato di queste con la stessa angoscia di esperienze e di come conallora, quanto sono stati trastano con il racconto male e quanto si sono ar- di figli che non escono più dal lettone, che chiedono rabbiati. I genitori si confrontano su di non essere mai lasciati questi sentimenti negativi, soli. Ci rendiamo conto che “Dopo aver detto no per un giocattolo, P. è scappato e per più di un ora non si è fatto trovare…lo chiamavamo, urlavamo, ma niente”.
tutto fa parte di un percorso, un viaggio a cui tutti partecipano, grandi e piccoli. Il bisogno di passare attraverso la sfida prima di affidarsi, pare essere un denominatore comune per tutti. All’inizio questi bambini non sembrano avere paura di niente, bastano a loro stessi e non hanno bisogno dell’adulto. Fidarsi o affidarsi è troppo rischioso, forse ci hanno anche già provato, ma perdite e delusioni hanno poi segnato i loro tentativi di lasciarsi andare. Vi è dunque un percorso da fare, in cui, inizialmente, ci si studia, da lontano,
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rifugiandosi spesso, da entrambe le parti, nel controllo, utilizzando ciò che ciascuno già conosce. Solo nel tempo, nell’attesa è possibile piano piano avvicinarsi, annusarsi, iniziare a provare a entrare in un mondo nuovo, fatto di ciò che è noto, ma anche di gesti nuovi, scoperti nel rapporto con quel bambino, con quell’adulto. Un avvicinamento, un tentativo di trovare un ritmo condiviso, che, se funziona, porta alla scoperta, non solo della lingua dell’altro, ma anche di ciò che attendeva di essere visto ed ascoltato, l’uno nell’altro. Allora, ecco arrivare, indipendentemente dall’età, un tempo per abbracciarsi e “regredire” in una dimensione insieme nuova e antichissima. Una dimensione affettiva che non tiene conto dello spazio e del tempo, perché collocata nel luogo intimo
ed esclusivo dell’incontro. Un incontro tanto atteso, quanto desiderato, in cui parti affamate trovano un nutrimento. Il rischio però, è quello di non riuscire a riconoscere come questa esperienza, tanto voluta, avvenga di fatto in un preciso tempo e spazio. Se il bambino arriva in famiglia molto piccolo, probabilmente i tempi si assestano maggiormente su quelli fisiologici, di crescita. Quando, però, i bambini arrivano un po’ più grandi, le cose si fanno più complesse. Se da un lato è necessario e fondamentale trovarsi anche in una dimensione primaria di relazione, dall’altro il corpo del figlio racconta di un viaggio che non può essere fermato, quello di un corpo che sta diventando grande. Tappe evolutive che non si fermano, accadono nonostante le faticose
storie di vita e reclamano spazi e modi di relazionarsi che non appartengono più solo all’età infantile. Allora ecco il dilemma: tra darsi ancora la possibilità di recuperare una dimensione di accudimento primario e lasciare andare, tra tenerti vicino e permettere a quella parte di te che sta crescendo, di esprimersi anche nella distanza. Troppo spesso questo passaggio risulta inevitabilmente difficile per entrambi, in quanto evocatore del momento dell’incontro in cui l’estraneità era dovuta al fatto che non ci si era mai incontrati prima, si era vissuti in due mondi
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tanto diversi. Un tempo in cui la provocazione aveva la funzione di mettere alla prova e, nel contempo, consentiva di rifugiarsi ancora nel pensiero che si potesse, se necessario, fare a meno gli uni degli altri. Ora l’estraneità e la provocazione ritornano, ma hanno una funzione diversa, servono per differenziarsi e per individuarsi, dichiarare che posso farcela da solo, non perché sono solo, ma proprio perché ci siamo incontrati e affidati. Non è facile però riconoscere questa differenza, non è facile per i genitori, e nemmeno per i ragazzi. Tutti cercano la risposta,
il benessere nel manteni- dere qualcosa, si prende il mento di quella sintonia coraggio di lasciare andare e di incoraggiare la parte finalmente trovata: grande, nella certezza che “Non lo lascio mai solo”, non si sta creando un vuo“Come faccio a farlo usci- to, un abbandono, ma che re dal lettone se non vuo- si sta vivendo una trasforle”. Rifugiandosi in una mazione. Un cambiamento dimensione “inclusiva” e creativo ed evolutivo insierassicurante “Io sono qui, me, che consenta di ricoti proteggo da tutto e da noscere gesti rassicuranti, tutti, fidati solo di me”, op- non solo nell’abbraccio fisipure dando a questi figli co del corpo, o nel non creil potere di decidere tempi are mai assenze, ma piute modi: “Decidi tu quando tosto nella fiducia in quello che si è costruito fino a sei pronto…”. quel momento. La crescita invece, anche I figli adottivi hanno bisonell’esperienza adottiva, gno di scoprire la potenza prevede un passaggio mai di un corpo che abbraccia, facile. Un momento in cui, ma hanno anche altrettansenza avere paura di per- to il bisogno di interioriz-
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zare l’assenza, non come perdita o abbandono, ma come una conferma del legame, che esiste e che è rappresentato l’uno nella mente dell’altro. I ragazzi hanno bisogno di confini, di quel limite che permette di riconoscersi “competenti” senza percepire di essere lasciati soli. Una mamma del gruppo, sul finire del tempo, come illuminata da queste riflessioni condivide con noi il suo pensiero: “Ora capisco tante cose… mia figlia a volte mi cerca e mi chiede di fare le coccole, come quando era più piccola. La notte vuole sempre stare nel lettone. Altre volte invece mi manda via, dice che io non la capisco, che non so niente di lei e che la faccio stare male. Il mio modo di affrontare questi momenti è lo stesso… le
propongo sempre un abbraccio. Ora mi rendo conto che nei momenti in cui lei è lontana da me, non devo avere paura di perderla… contano gli abbracci che ci sono stati e che ancora ci sono, ma devo anche accettare che non sempre tornare indietro è la risposta che fa stare bene!”. Prendere consapevolezza di questo è fondamentale, in quanto, come avviene in molti passaggi di crescita, gli adulti hanno il difficile compito di aiutare anche il figlio a riconoscere cosa sta succedendo, e a cogliere l’attimo in cui, non lasciarti mai solo o tenerti nel lettone, non è più una “regressione necessaria”, ma piuttosto sta diventando un tentativo di fermare il tempo e lo spazio, una fuga dal prendere coscienza che è ora di accettare
il cambiamento. In tutto questo i bambini possono essere molto in difficoltà, l’elemento evocativo di tale passaggio, rischia, infatti, di essere motivo di paura o può essere male-inteso. Sono gli adulti quelli che possono rassicurare il figlio del fatto che la separazione non è un abbandono e che la crescita non è una perdita.
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Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo Svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell’identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l’attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna.
Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Insegna Pedagogia dell’Affido e dell’Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Parma.
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di Donatella Lisciotto psicologa e psicoterapeuta
Le parole giuste
Questo è un dialogo immaginario pensato in seguito ad un incontro col gruppo attesa, dopo aver ascoltato il racconto di due coppie in procinto di partire per il paese del bambino. La prima coppia è più avanti nel percorso poiché ha già conosciuto il bambino e a breve andrà a “prenderlo”; la seconda farà presto il primo viaggio dove conoscerà per la prima volta il piccolo. In entrambi i casi è evidente l’eccitazione mista a paura, ansia e un pizzico di nervosismo. Questi stati d’animo, vissuti tutti insieme, possono indebolire la coppia, non aiutandola a dire le “giuste parole” al momento del fatidico e atteso incontro col bambino e, soprattutto, della separazione che il piccolo dovrà affrontare dall’istituto o dalla comunità. Per superare il distacco
dal proprio ambiente, il bambino dev’essere aiutato dai “nuovi” genitori. Si tratta di un momento importante, forse troppo spesso dato per scontato. Invero è un “passaggio”, direi un vero e proprio rito di passaggio e, in quanto tale, ha tutta la sacralità del caso. In questo rito il compito dei genitori è riuscire a trasmettere al bambino, con parole semplici e sincere, la loro affidabilità, la forza, l’autorevolezza e la tenerezza della coppia genitoriale. Parole che rassicurano perché spiegano le cose come stanno, e che al contempo creano un raccordo tra il prima e il dopo, tra ciò che è stata la realtà del bambino e ciò che sarà in avanti; ma sono parole che aiutano anche i genitori ad abbracciare sin da subito, il senso della genitorialità.
Le “giuste parole”, racchiuse in questo dialogo, sono quelle che il genitore potrà pronunciare prima che il bambino lasci il suo ambiente d’origine, prima della partenza, quando abbandonerà per sempre l’istituto dove ha vissuto per anni, per seguirli verso ciò che ancora non conosce. È un passaggio fondamentale per un “buon inizio” e propedeutico a ciò che accadrà in seguito. Una casellina mancante da non sottovalutare.
Sarò tuo padre Ciao piccolo, veniamo da molto lontano e abbiamo fatto un lungo viaggio. Siamo venuti a prenderti, a portarti con noi in una casa che ancora non conosci e dove insieme saremo una famiglia, una nuova famiglia, che non sostituisce quella che hai già avuto. È solo diversa. Inizieremo una storia nuova che ancora non esiste. La
faremo insieme. Iniziamo da questo momento, iniziamo da ora. Sai cosa significa questo…? Vuol dire che adesso sei nostro figlio e noi siamo i tuoi “nuovi” genitori, il tuo papà e la tua mamma. Non ci saranno più “passaggi a livello” che si chiudono e si aprono. Piccolo, d’ora in avanti ci siamo noi. Fidati, appoggiati, stai tranquillo, ci siamo noi a proteggerti, ad aiutarti. Non è necessario dimenticare, ma se hai brutti pensieri lasciali qui. Ti saremo accanto anche quando sarai più grande perché, sai, questo è il compito dei genitori quando si fa famiglia. Non c’è nessuno rischio, stai tranquillo, con noi comincia una cosa nuova. Nella città dove vivremo abbiamo preparato una stanza per te, accanto alla nostra. Abbiamo messo un lettino per riposarti, un tavolo per colorare, un armadio per i tuoi vestitini, una cesta di giocattoli per giocare. La mattina ci vedrai andare a lavorare ma ci vedrai anche ritornare quando co-
mincerai ad avere fame e paura. Non sarai mai solo, nella nostra città ci aspettano altre persone, fanno parte della famiglia, sono i nostri genitori, i nostri fratelli. Adesso saranno i tuoi nonni, i tuoi zii. Piano piano ti accompagneremo a conoscere tutto questo, poi, più in là, quando sarai pronto, ti accompagneremo a scuola, dove troverai altri bambini che saranno i tuoi nuovi compagni. Imparerai una nuova lingua, vedrai cose nuove, diverse, che non hai ancora visto. Ma ora, prima di partire da qui, ti chiediamo di farci una promessa. È importante. Può succedere che a volte non capiremo quello che vuoi, abbi pazienza, aiutaci a capire. Altre volte sarai tu a non capire noi, ti sembrerà che siamo cattivi, succederà quando ci vedrai arrabbiati o stanchi, ma ricordati, poi passa e soprattutto non sarà tua la colpa. Adesso saluta tutti, è l’ora di andare.
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le relazioni giorno dopo degligiorno affetti
di Maurizio, Marcella e Kola Pescin
L’essenziale è invisibile agli occhi Lettera di una famiglia adottiva
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“È lui, è Kola, lo riconosco... ”. Nelle orecchie ho ancora, avrò per sempre, l’urlo d’amore del tuo babbo che ti indica, piccolo esserino settenne che corri, corri nel corridoio dell’istituto. Come puoi riconoscere tuo figlio se non lo hai mai visto? Eppure nell’immenso istituto, 900 minori, il silenzio assoluto odorante di zuppa di cavoli, decine di occhi che ti scrutano fuggitivi e muti dallo spiraglio delle porte, immerso nella neve, fuori -28 gradi, dentro il mio cuore che si scioglie di fronte... dietro a quella schiena nuda, guizzante, veloce verso la vita. Sorridi, ridi, e ancora ridi, e vedo te negli occhi del tuo babbo (tuo nel cuore perché in realtà per la legge russa non siamo ancora nulla)
che si abbassa ai tuoi 109 cm e ti parla in russo, e tu... fiero (come possono essere fieri 16 kg di ossa ben in vista... eppure è così), gli porgi la tua manina, gli metti la tua vita nelle sue mani, ti prende e… in quell’attimo ti avremmo già portato via, per sempre con noi... Non sarà così, perché ogni stato estero ha il suo iter prima di far sì che i propri figli volino verso un’altra vita e un’altra famiglia. E tu dovesti aspettare ancora 154 giorni (un tempo interminabile e indefinibile sia per te che per noi) prima di partire insieme. Perché il 28 luglio 2011, atterrati a Milano, da lì siamo partiti insieme, tu sei quello che si è giocato tutto; quel che agli occhi di un osservatore disattento potrebbe sembrare poco, era tantissimo: erano i suoni, i colori, gli affetti, l’istituto;
si, anche quello, era pur sempre, comunque, “il noto, verso l’ignoto”. “Io ti ho dato tutto di me...” “Ti ricordi?” con tono retto lo dicesti a babbo; ed è vero, tu ci hai dato tutto, ci hai permesso di tirare fuori una forza enorme per affrontare i tuoi mostri, ci hai donato le tue lacrime finalmente, le tue risate, la tua energia che pare non abbia mai fine; stiamo “lavorando” insieme perché l’adozione, genitorialità sociale, esca dalla sfera dei pregiudizi e del buonismo dilagante. La nostra amata casa “minimal” si è trasformata in un florilegio di colori e profumi... il samovar trovato da un robivecchi e restaurato; le icone, l’incenso e le candele della chiesa ortodossa, le tue foto da piccino in braccio alle babushka, le nostre “feste famiglia” si sono moltiplicate, il primo
incontro, la sentenza, il ritorno a casa. Tu che non vuoi che litighiamo “se vi separaste, io con chi vado? Dopo io non sono di nessuno!!!” Le tue paure, i tuoi dolori, la tua rabbia, prima di incontrarle - per accoglierle - abbiamo dovuto misurarci con le nostre emozioni dolorose, con i nostri limiti, e guardarci dentro. Partendo proprio da un profondo, seppur doloroso, lavoro su di sé, per poter davvero successivamente incontrare l’altro (nostro figlio), con tutte le sue debolezze, fragilità, ferite... E far risuonare questo grido disperato dentro di noi, ed iniziare a costruire non solo il “nido-famiglia” ma un nido più grande nella società di cui tutti, inevita-
bilmente siamo permeati. Cogliere la tua storia, le tue radici, fissate in una terra così lontana, e rispettarle e perdonarle per permettere a te, un giorno, di avere la forza e il coraggio di perdonare, per chiudere un cerchio dove si arriverà alla costruzione della tua identità, attraverso i tempi dell’esistenza adottiva. Passato, presente, futuro si mescolano dando vita al tuo sé storico, Quell’altro pezzo di identità la dobbiamo sempre tenere presente. Ognuno ha le sue difficoltà, la corsa è con noi stessi, non con uno standard, perché lo standard è piatto, accettare il tuo stato di sofferenza mentale: “perché è successo proprio a me???”. È per quello che ci aiutiamo
nell’associazione di famiglie adottive, e questo aiuto lo rimandiamo a nostro figlio. Non già le performance con cui usiamo misurarci socialmente utilizzando il metro del bel voto in pagella, o di qualunque riconoscimento proveniente dall’esterno. Lavoriamo affinché lo svantaggio iniziale di nostro figlio possa trasformarsi nel lungo periodo quasi in un vantaggio, un’opportunità, una sorta di trampolino di lancio. Con la loro parte oscura (abbandono, solitudine, adulti disfunzionali) i nostri figli speciali hanno già imparato a farci i conti, l’abisso più profondo l’hanno toccato da soli, e finalmente risalito insieme a noi. Sono forti senza saperlo, “piccole rocce” ma di cristallo, e di rimando la nostra responsabilità è quella di crescere insieme. Perché dopo un NO devastante, c’è stato un grande SI, che li ha saputi amare e proteggere, iniziando insieme la trasformazione di quella fragilità in una forza dirompente.
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le relazioni degli leggendo affetti
Marina Zulian responsabile della Biblioteca Ragazzi di BarchettaBlu
Parole fuori
Direttamente dalla Biblioteca Ragazzi BarchettaBlu di Venezia 22
11. Questo mese: Generazioni di Marina Zulian Una chitarra per due è un racconto profondo e ironico incentrato sul tema del rapporto tra adolescenti e adulti. Da una parte il sedicenne Alex e dall’altra una schiera di adulti e anziani che incrociano le loro strade con quelle del giovane protagonista. A Jordan Sonnenblick, burlone e scapestrato autore del libro, nonché insegnante di scuola media, l’idea
del libro è venuta una notte dopo una sua assenza a scuola. Durante i suoi giorni di malattia, i suoi allievi di terza media, quelli bravi, hanno ingaggiato una battaglia di palle di carta facendo impazzire il supplente. Cosi lo scrittore si è chiesto che cosa succederebbe se un ragazzo in gamba facesse qualcosa di davvero molto grave e poi si rifiutasse di assumersene la responsabilità. Ed ecco qui una storia davvero coinvolgente, piena di emozioni intense, legami profondi e colpi di scena fino alle ultime pagine. Una sera Alex decide di escogitare un piano, che all’inizio gli sembra semplice e sicuro, ma che poi si rivela folle e insensato.
litro della vodka di papà, avrei afferrato le chiavi di scorta dell’euro della mamma ... Poi sarei sfrecciato per le strade deserte, al chiaro di luna, dritto sul bersaglio come un missile teleguidato, o perlomeno dritto e deciso come una persona sobria, che sapesse effettivamente stare al volante.
Tutto avrebbe funzionato se Alex non fosse stato completamente sbronzo; d’altra parte non si era mai ubriacato prima e quindi non poteva sapere che quella roba lo avrebbe fatto sballare così in fretta! La sua serata infatti, finì subito e pochi metri dopo la sua casa, Alex piombò con l’automobile nel giardino della vicina; ad aggravaIl piano avrebbe avuto una re il tutto, all’arrivo della sua elegante semplicità. Mi polizia, il ragazzo vomitò sarei scolato un altro mezzo sulle nuove e lucenti scarpe
dell’agente che lo avrebbe arrestato e portato prima al posto di polizia e poi al pronto soccorso. Ritornato a casa al ragazzo viene comunicato che dopo trenta giorni avrebbe avuto un udienza in tribunale, una sorta di processo con tanto di avvocati, testimoni e giudice; non poteva sapere che proprio quella giudice gli avrebbe cambiato per sempre il corso della vita. In quei lunghi e interminabili giorni trascorsi a casa dopo l’ospedale, il ragazzo non può sottrarsi alle domande della mamma, sperando che la sua “piccola avventura automobilistica” venga tralasciata e dimenticata. Non riesce neanche a chiedere subito scusa ammettendo il suo errore e cerca di sminuire quanto successo.
ore a sentirti schitarrare, cercando di capirci qualcosa. Sai cosa mi sfugge?... Non riesco a capire perché ti sia ubriacato e abbia preso la macchina. Dove stavi tentando di andare? … Sei un ragazzo intelligente, ma quello che hai fatto è troppo stupido e insensato (disse la mamma). Che ne so, mamma. Volevo solo fare qualcosa. Tu eri fuori a divertirti, io ero qua confinato a casa da solo, il computer non funzionava e mi hai requisito il telefonino il mese scorso, se ti ricordi. Cosa dovevo fare? Studiare matematica il venerdì sera? Invitare qualche altro fesso senza amici e ragazza a giocare a Nintendo? Mettere ordine nell’armadietto del bagno? (rispose Alex).
Chiedere scusa e ammettere subito i propri torti Alex, sono rimasta qui per non è una questione molto
facile per un adolescente. Dopo una incomprensione, un malinteso o una vera e propria bravata, come in questo caso, rimangono spesso musi lunghi e silenzi. A volte le frecciatine e le frasi ironiche per abbassare la tensione e ricucire la relazione sono addirittura controproducenti. Ma per Alex il suo comportamento sembrava davvero avere un senso. Anche l’aula del tribunale fu scioccante per Alex: si aspettava un grande salone tutto in marmo, stile museo, con soffitti a volta e legno scuro dappertutto. Invece era una stanzetta piccola e disadorna con tavolini pieghevoli e una scrivania di metallo. Quando poi l’avvocato della difesa, suo zio, ammise subito i fatti e accolse le dichiarazioni del giudice, Alex rimase stupefatto.
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Ma come? l’avvocato avrebbe dovuto alzarsi in piedi e urlare obiezione! Ma come il processo non poteva risolversi con l’accordo di tutti e in così pochi minuti! L’immaginario del giovane era ancora una volta molto diverso della realtà. Alex, con somma soddisfazione dei suoi genitori, viene condannato a svolgere un servizio sociale. Il giudice aveva una vera e propria avversione per chi guidava in stato di ubriachezza e quindi il ragazzo avrebbe dovuto essere soddisfatto per non essere finito in prigione. Ancora una volta le decisioni degli adulti lo lasciano allibito. Il tribunale lo condanna a svolgere assistenza ad un anziano presso la casa di riposo dove lavora la madre. L’obiettivo del tribunale era che, affrontando le sfide e le difficoltà del servire gli altri,
avrebbe potuto imparare a badare a se stesso. Inizia così la nuova e inaspettata vita di Alex raccontata anche grazie alle lettere con il giudice che gli ha conferito la pena, nelle quali emerge la lenta metamorfosi del giovane protagonista. Accanto ad Alex, in questo suo percorso di cambiamento, ci sono le figure della paziente e accogliente mamma, del controverso papà e dell’amica Laurie che in ogni occasione interviene in sua difesa anche contro il sarcasmo dei suoi compagni di classe. All’inizio c’è un clima ostile nella casa di riposo, ma poi la situazione si trasforma soprattutto quando scopre di condividere con il burbero e insopportabile anziano che deve assistere, la sua passione per la musica e in particolare per la chitarra elettrica. L’intrattabile signor Solomon è infatti un musicista
che cerca di vincere la solitudine e il senso di abbandono solo facendo scherzi agli altri anziani e non risparmiando a nessuno battutine taglienti e continue provocazioni. Inizialmente Alex cerca di farsi cambiare la pena affidatagli, ma piano piano sì sente sempre più coinvolto dalle storie delle vite all’interno della casa di riposo e soprattutto dalla strana e imprevedibile sensibilità del signor Solomon che conosce sempre più a fondo andando oltre alle apparenze. Con leggerezza ma attenzione ai particolari, con ironia ma profondità si affrontano temi importanti principalmente legati ai rapporti interpersonali. I compagni di scuola rappresentano una prima variegata descrizione della realtà che i ragazzi affrontano tutti i giorni: alcuni compagni di classe lo pren-
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dono in giro, altri amici del gruppo musicale scolastico lo aiutano con la chitarra; con le ragazze ci sono i primi approcci e le prime sperimentazioni, con i rivali i confronti e le sfide. Ma anche fra gli adulti spiccano rapporti più o meno impegnativi: le infermiere della casa di riposo, gli anziani assistiti e naturalmente il giudice e i genitori. Il rapporto fra Alex e il signor Solomon non è facile: un bravo ragazzo che ha fatto una bravata e un anziano pieno di rimorsi e contraddizioni. Solo dopo un alternarsi di tensioni e di sorrisi riescono a trovare un linguaggio comune che li avvicina e li lega per sempre. Non è facile avere sedici
anni ed essere alle prese con genitori che sembrano essere diventati improvvisamente due estranei, coetanei con le loro stravaganze, amori inaspettati e incomprensibili. Ma può non essere facile nemmeno essere degli ottantenni alle prese con il tirare le somme della propria esistenza. Tutti e due, in modo e per motivazioni diverse, vorrebbero dare uno scossone alla propria vita ma a volte con delle idee non proprio brillanti. Solo mettendo insieme le forze riusciranno ad avere degli ottimi e incredibili risultati. Nell’intreccio degli incontri emergono molte somiglianze tra i due protagonisti seppur nelle loro diverse fasi della vita.
Un autentico scambio tra le generazioni è proprio la linea di senso che si ritrova nel succedersi dei capitoli. Al termine del libro il protagonista ripensa con tenerezza a quanto gli sia successo nell’ultimo anno, il suo terzo anno di scuola superiore, quello che lui chiama l’ultimo della sua infanzia: Ho capito che tutti siamo liberi, nell’unico modo che conti. Siamo liberi di scegliere le persone da amare e poi di amarle veramente. Bibliografia J. Sonnenblick Una chitarra per due. Mondadori, 2007
le relazioni sociale degli e legale affetti
Heidi Barbara Heilegger avvocato e mamma felice di Anand
Bambini adottati a scuola tra novità legislative e aspettative disattese
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Se si vuole interpretare la scuola come fattore di protezione dello sviluppo del minore, particolare attenzione dovrebbe rivolgersi a tutti quei bambini che presentano potenzialmente condizioni di fragilità, tra cui i bambini adottati internazionalmente, ed i bambini adottati in genere, soprattutto se in età scolare. Di fronte ad un minore adottato che fatica ad imparare, che non regge il ritmo di apprendimento della classe è lecito, ed anzi doveroso chiedersi, se ciò dipenda da componenti emotive, psicologiche oppure linguistiche, da un disturbo specifico di apprendimento non ancora individuato o, ancora, da una commistione di tutti questi fattori. D’altra parte, distinguere tra “semplice” difficoltà e disturbi di apprendimento (questi ultimi presenti nei
bambini adottati in una percentuale comunque superiore rispetto a quella mediamente presente tra i coetanei non adottati) non è neppure sempre facile, soprattutto all’inizio del percorso di scolarizzazione. Nelle more sarà certamente possibile ed anzi doveroso attuare da parte della scuola, di concerto con la famiglia, strategie, eventualmente strutturate in un piano didattico personalizzato, volte ad evitare che le difficoltà scolastiche si aggravino o, circostanza ancor più preoccupante, minino l’autostima del bambino con l’inevitabile carico di sofferenza e senso di inadeguatezza che ne conseguirebbe. L’alunno che “avverte” di non riuscire ad apprendere proverà un profondo disagio anche nella comunicazione e nella relazione con gli adulti e
con i coetanei; di più, potrà arrivare a mascherare questo suo disagio con comportamenti provocatori oppure sarà disattento, agitato e disturberà il normale svolgimento delle lezioni. La storia di un minore adottato è stata segnata in primis dall’abbandono e, spesso, da una precoce istituzionalizzazione quando non anche da ulteriori, gravi traumi (si pensi ad esempio ai bambini vittime di violenza o abusi sessuali). Innumerevoli studi mostrano la correlazione tra vissuto abbandonico e mancanza di autostima. Pertanto, appare con immediata evidenza l’effetto potenzialmente devastante che l’insuccesso scolastico potrebbe produrre in un bambino adottato. Ed è questo a dover preoccupare, più dell’insuccesso scolastico in sé.
I genitori vorrebbero – e francamente hanno tutto il diritto di pretendere - che la scuola mantenga nei confronti dei loro bambini aspettative flessibili e ragionevoli. Ma là dove la scuola sia, invece, rigida e poco recettiva, ciò non significa che la famiglia sia disarmata ed impotente. Il legislatore, infatti, soprattutto negli ultimi anni, complice l’acuita sensibilità nei confronti delle difficoltà di apprendimento in genere, ha approntato una serie di strumenti che se pure – con la significativa eccezione della Linee Guida scuola-adozione di cui si dirà nel proseguo – non si rivolgono specificatamente ai minori adottati, nondimeno possono venire in loro soccorso. Di sicuro
rilievo è innanzitutto la direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 relativa agli “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica“. Il presupposto della direttiva c.d. BES (acronimo che sta appunto per bisogni educativi speciali) è riassumibile nella considerazione, contenuta nella direttiva stessa, secondo cui “l’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o distur-
bi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”. L’espressione BES allude, dunque, ad un’area di alunni per i quali il principio della personalizzazione dell’insegnamento, già sancito dalla legge 53/2003, va applicato con particolare accentuazione quanto a peculiarità, intensità e durata delle modificazioni. A parere di chi scrive sarebbe stato forse meglio qualificare i suddetti bisogni come ‘specifici’, termine che riflette meglio l’aspirazione ad una didattica inclusiva e personalizzata piuttosto che ‘speciali’, espressione che richiama, invece, il concetto di strano, bizzarro e comunque eccezionale rispetto alla norma. Può sembrare una questione puramente nominalistica,
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di scarso rilievo pratico, eppure a volte, proprio la scelta dei termini, rivela la cultura di cui una legge è frutto (o la sua assenza). L’area dei bisogni educativi speciali, nell’ottica del legislatore, comprende, come si è visto, tre grandi sottocategorie: quella della disabilità, quella dei disturbi evolutivi specifici (in cui rientrano i disturbi specifici dell’apprendimento) ed infine quella dello svantaggio socio-economico, linguistico, culturale. I minori adottati, che pure, per il loro peculiare e talvolta drammatico vissuto, sono spesso, se non inevitabilmente, portatori di bisogni educativi speciali, non vengono, invece, espressamente menzionati. Se da un lato la citata esemplificazione non ha pretesa di esaustività e, dunque, la direttiva BES può e di fatto tutela anche gli alunni adottati, l’omissione colpisce ancora una volta come indice della
mancanza nel nostro Paese di una cultura dell’adozione. I bisogni educativi speciali possono manifestarsi in via transitoria – si pensi ad esempio all’ipotesi di svantaggio linguistico circoscritto ad una determinato periodo di tempo - oppure continuativa. Nella macro aerea degli alunni BES rientrano, infatti, a pieno titolo anche gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia), i c.d. DSA, nonché gli alunni disabili. Nel primo caso la normativa di riferimento è la legge n. 170/10, nel secondo la legge n. 104/92. In estrema sintesi, la legge n. 170/10 dà diritto a strumenti didattici e tecnologici di tipo compensativo (ad esempio sintesi vocale, registratore, programmi di video-scrittura e con correttore ortografico, calcolatrice) e a misure dispensative,
per sostituire alcuni tipi di prove valutative con altre equipollenti più adatte. Gli strumenti in concreto adottati verranno cristallizzati in un PDP (Piano Didattico Personalizzato). La personalizzazione attiene al percorso didattico per il raggiungimento degli obiettivi che restano però gli stessi del resto della classe. Ciò che cambia è “solo” il modo di insegnare. Il PEI (Piano Educativo Individualizzato) riguarda, invece, la progettazione di una programmazione individualizzata dove gli obiettivi sono diversi da quelli del gruppo classe venendo semplificati e ridotti. Solitamente il PEI si stila per tutti quei soggetti che rientrano nella legge 104/92 e per i quali viene previsto l’insegnante di sostegno. PDP e PEI, dunque, sebbene vengano spesso confusi nel linguaggio comune, non sono sinonimi. La scelta terminologica,
almeno a parere di chi scrive, appare ancora una volta non felicissima perché personalizzare ed individualizzare in italiano sono sinonimi e la vicinanza dei termini rischia di ingenerare confusione. Ad ogni modo, mentre per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento e disabili, il percorso sopra descritto è non solo dovuto, ma anche standardizzato per legge, per gli altri alunni con bisogni educativi speciali resta, invece, nebuloso e, in assenza di chiare indicazioni di legge, parrebbe lasciare in capo alla scuola un certo margine di discrezionalità. Le perplessità circa l’obbligo della redazione di un documento ad hoc per alunni BES scaturiscono dalle in-
dicazioni ministeriali che hanno sollevato dubbi proprio in merito alla suddetta questione, lasciando in una zona d’ombra il principio dell’obbligatorietà. Nella nota ministeriale MIUR del 22/11/2013 n. 2563 si legge infatti: “si ribadisce che, anche in presenza di richieste dei genitori accompagnate da diagnosi che però non hanno diritto alla certificazione di Disabilità o di DSA, il Consiglio di classe è autonomo nel decidere se formulare o non formulare un Piano Didattico Personalizzato, avendo cura di verbalizzare le motivazioni della decisione”. L’interpretazione più accreditata, in linea con la giurisprudenza (in tal senso, ad esempio, si vedano le sentenze del Tar Lazio n. 9261/2014 e n. 7024/2014) oltre che col principio della personalizzazione dell’insegnamento di cui alla legge 53/2003 e, più di recente, con le Linee Guida
scuola-adozione, propende per l’obbligatorietà di predisporre un piano didattico personalizzato qualora il Consiglio di classe sia a conoscenza delle difficoltà di un alunno qualificabile all’interno dei BES. Con la citata nota il Ministero avrebbe dunque solo voluto sottolineare come la qualificazione di alunno BES resti una prerogativa della scuola, non certo sostenere la tesi che in presenza di bisogni educativi speciali quest’ultima possa decidere arbitrariamente di ignorarli. In conclusione, anche un bambino con bisogni educativi speciali avrà diritto ad un percorso didattico diverso da quello dei compagni: si adotterà un apposito documento, un PDP, in cui sarà specificato il percorso didattico che gli insegnanti intendono seguire. È comunque importante sottolineare come la scuola abbia tanti modi, strumenti
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e procedure per adattare la didattica ai bisogni individuali (non limitati dunque alle misure dispensative e compensative pensate per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento). D’altra parte, già il DPR 275/99 prevedeva che nell’esercizio dell’autonomia didattica le istituzioni scolastiche potessero adottare tutte le forme di flessibilità ritenute opportune. Né, affinché la scuola identifichi il minore come alunno con bisogni educativi speciali occorre una certificazione (come per gli alunni DSA o disabili) che potrà dunque pervenire in seguito, ma anche mancare del tutto. La qualifica di alunno con bisogni educativi speciali, proprio perché non implica necessariamente una diagnosi medica, compete, come si è detto, alla scuola. Il baricentro, in altre parole, si sposta dal versante clinico a quello educativo-didatti-
co, offrendo la possibilità di un’efficace tutela anche a tutti quei bambini che, in assenza di certificazione, ne sarebbero stati privi. Il che è tanto più vero per i bambini adottati che spesso vivono a scuola situazioni di disagio non sempre o comunque non immediatamente riconducibili ad un disturbo specifico dell’apprendimento o a disabilità. Per i genitori sarà comunque utile premunirsi di idonea documentazione - ad esempio la relazione della psicologa o della logopedista - che agevoli le insegnanti nell’identificare l’alunno con bisogni educativi speciali, limitando in tal modo il rischio di sentirsi opporre la semplicistica obiezione che si tratta di normali differenze individuali come tali insufficienti a giustificare interventi ad hoc. Per completare il quadro degli strumenti a tutela degli alunni adottati a scuola
non si può non far menzione delle Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni adottati pubblicate dal MIUR nel dicembre 2014. La portata innovatrice per non dire rivoluzionaria delle Linee Guida consiste nel fatto che si tratta di uno strumento pensato proprio per gli alunni adottati, per favorirne l’inserimento scolastico, nonché per promuovere sul territorio una cultura dell’adozione. I punti di forza delle Linee Guida - in uno sforzo di sintesi che purtroppo non rende loro giustizia – sono i seguenti: n La completezza dell’analisi dei momenti di accoglienza (iscrizione, scelta della classe, tempi di inserimento); n Non focalizzare l’attenzione solo sulle eventuali difficoltà di apprendimento, ma allargando lo sguardo anche ad altre potenziali aree di criticità e comunque mettendo in correlazione le
prime alle difficoltà psicoemotive; n Fornire suggerimenti pratici per affrontare argomenti delicati come la storia personale; n Insistere sulla necessità di formazione del personale scolastico; n Istituzione del docente referente, formato sulle tematiche adottive, per la raccolta delle informazioni, l’accoglienza ed il costante collegamento tra scuola e famiglia e un fattivo contributo nella redazione, ove necessario, del piano didattico personalizzato. Il docente referente dovrebbe essere previsto a prescindere dalla presenza o meno nella scuola di alunni adottati, così come la formazione degli insegnanti non è opzionale o legata ad esigenze contingenti. Purtroppo la formazione è spesso carente se non del
tutto assente, il docente referente non sempre viene istituito, le stesse Linee Guida sono poco conosciute e comunque non ‘interiorizzate’. L’assenza in Italia di un’autentica cultura dell’adozione non consente, insomma, alle Linee Guida di dispiegare tutto il proprio potenziale: ad oggi le suddette sono più un punto di partenza che di arrivo. In chiusura, un cenno merita la nota del MIUR prot. n. 547 del 21 febbraio 2014 contenente chiarimenti rispetto alla possibilità di deroga dell’obbligo scolastico per i minori adottati: in accordo con la famiglia ed in presenza di idonea documentazione di supporto, quale ad esempio la relazione della psicologa o di altro professionista coinvolto (neuropsichiatra infantile, logopedista), il dirigente scolastico, sentito il team dei docenti, “potrà assumere la decisione di far permanere l’alunno nel-
la scuola di infanzia per il tempo strettamente necessario all’acquisizione dei pre-requisiti per la scuola primaria, e comunque non superiore ad un anno scolastico”. Un’analisi anche solo sommaria dell’attuale normativa mostra come gli strumenti per favorire l’inserimento e l’integrazione dei minori adottati non manchino. Si tratta di strumenti perfettibili certo, non privi di lacune, imperfezioni, ma comunque importanti. Col rischio di scrivere una banalità, a preoccupare non è tanto il vuoto legislativo quanto quello culturale, e se è vero che le leggi incidono sulla cultura, la cambiano e rimodellano, ciò avviene solo gradualmente, con tempi che purtroppo non sono quelli che i genitori vorrebbero per i propri figli. La rotta insomma è stata chiaramente tracciata, ma il viaggio è tutt’altro che concluso.
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trentagiorni
«Indottrinato dalla ‘ndrangheta»: Il Tribunale toglie il figlio al boss. La decisione per «spezzare il ciclo che trasmette ai più giovani l’appartenenza ai clan». A Reggio Calabria in quattro anni allontanati 30 minori appartenenti a famiglie mafiose. Antonio, il nome è di fantasia, ha appena 15 anni. Da mercoledì sera non dorme più nella sua casa in un paesino della Piana di Gioia Tauro. Fino al compimento dei 18 anni vivrà in una struttura comunitaria lontano dalla sua famiglia e dalla Calabria. Lo ha deciso il Tribunale dei minori di Reggio Calabria che ha disposto la decadenza della potestà genitoriale. Il quindicenne, infatti, è figlio di un boss della ‘ndrangheta calabrese. Un personaggio di
primo piano nello scacchiere della criminalità organizzata, un capo bastone in grado di condizionare pesantemente ogni attività, non solo economica ma anche amministrativa, nella Piana di Gioia Tauro. Antonio era praticamente un bambino quando il padre iniziò la latitanza che si è conclusa solo qualche mese fa. Un criminale ricercato per anni, così pericoloso che il suo nome figurava nella lista del ministero dell’Interno. Lo hanno trovato nascosto in un bunker nelle campagne non lontano dal suo paese e adesso si trova in un carcere di massima sicurezza. Nel frattempo il figlio 15enne è finito all’attenzione della Procura per i minorenni di Reggio Calabria per uno di quei reati definiti «spia», sintomatici di un
indottrinamento mafioso. Finire in carcere, nella migliore delle ipotesi, sarebbe stato il «destino ineluttabile» di Antonio. Da qui sono iniziati gli accertamenti degli inquirenti che hanno portato al provvedimento di allontanamento del quindicenne per la «prioritaria esigenza di offrire al minore un modello educativo alternativo, diverso da quello fino al momento proposto dagli stretti familiari, ispirato ai sub-valori della cultura ‘ndranghetista». Una misura che il Tribunale calabrese, l’unico in Italia, usa ormai da quattro anni e ha riguardato trenta ragazzi nati in famiglie mafiose e che mira a spezzare il ciclo che trasmette di padre in figlio l’appartenenza ai clan. A eseguire la decisione dei giudici sono stati gli agenti
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della polizia della Questura di Reggio Calabria guidata da Raffaele Grassi. La mattina del 30 marzo si sono presentati a casa del boss. Un’operazione complessa a cui hanno preso parte anche gli operatori dell’ufficio servizi sociali per i minori del ministero della Giustizia. Tutto si sarebbe svolto senza tensioni. L’adolescente è stato quindi trasferito in una struttura fuori regione dove «sarà affidato - assicurano dalla questura reggina - alle cure e alle attenzioni di operatori professionalmente qualificati a trattare problematiche simili a quelle riscontrate nel giovane». Ci resterà per i prossimi tre anni, fino a quando compirà di 18 anni, e potrà riprendere il percorso scolastico. Antonio adesso ha l’opportunità di crearsi una nuova vita in cui il
carcere o la morte violenta non siano le uniche alternative possibili. «La speranza - ci dice il questore Grassi - è che adesso il minore abbia la possibilità di scoprire una realtà diversa rispetto a quella in cui è vissuto fino adesso, che abbia occhi nuovi per scorgere gli altri colori del mondo». Fonte: lastampa.it
Che fine fanno i piccoli profughi? Delphine Moralis è il segretario generale di Missing Children Europe, l’organizzazione che ormai da anni si occupa soprattutto dei minori stranieri che arrivano senza genitori e in molti casi spariscono nel nulla. Nel 2015 ne sono giunti in Europa circa 90mila, oltre il triplo di quelli registrati
nell’anno precedente quando erano stati 23mila. La sua denuncia è agghiacciante: «I bambini che arrivano in Europa per sfuggire alla guerra, alla povertà e alla repressione nel loro Paese, rischiano di essere vittime di tratta, di matrimonio forzato o sfruttamento sessuale ed economico, tra cui la donazione di organi, il traffico di droga e l’accattonaggio. Un numero preoccupante di questi bambini non viene mai ritrovato». L’Ente esamina le pratiche gestite da sette Paesi: Gran Bretagna, Spagna, Italia, Belgio, Cipro, Irlanda e Grecia. Secondo la relazione finale «si deve evidenziare una cattiva gestione della scomparsa dei minori non accompagnati, una mancanza di procedure efficienti, di chiarezza sulle responsabilità di ogni servizio
trentagiorni
coinvolto, ma anche di risorse e di motivazione da parte dei professionisti coinvolti». Per questo si chiede con urgenza «una maggiore cooperazione tra le forze dell’ordine, gli assistenti sociali che operano nei rifugi e nei centri di accoglienza, i tutori, gli operatori delle linee telefoniche per i bambini scomparsi per prevenire e rispondere in maniera più efficace alla loro sparizione». Fonte: iodonna.it
Raddoppiato l’uso di eroina tra gli adolescenti Torna l’eroina e la siringa tra i giovani, in particolare tra i ragazzi di 15 anni. Sono allarmanti i dati del nuovo studio condotto dalla European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs, coadiuvato dalla Sezione di Epidemiologia e
Ricerca sui Servizi Sanitari IfcCnr, che ha coinvolto 30mila studenti tra i 15 e i 19 anni. Raddoppiato, rispetto al 2014, l’uso di eroina, che risulta essere la droga più popolare dopo la cannabis tra gli adolescenti. «Il 2% dei maschi 15enni, circa 5.000 soggetti, ha dichiarato di avere consumato eroina almeno una volta nel mese precedente all’indagine», spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice Ifc-Cnr. Nel 2015 circa 3.000 15enni maschi hanno sperimentato sostanze ad uso iniettivo, «ma l’1% di tutti gli studenti campionati ha fatto uso di sostanze illegali per via infettiva almeno una volta nella vita, un dato inquietante che dal 2010 non accenna a diminuire». Si stima che siano oltre 650mila i liceali che nell’ultimo anno hanno fatto uso di almeno una
sostanza illegale (cannabis, cocaina, eroina, allucinogeni o stimolanti). D’altra parte allucinogeni e cocaina registrano un leggero calo: «in leggera diminuzione sia l’uso di allucinogeni, dal 2,7% al 2,3%, che della coca, che passa dal 3% al 2,6%- spiega Molinaro - un dato tanto più allarmante in quanto potrebbe significare un’iniziazione all’uso sempre più precoce». Mentre sul fronte delle nuove sostanze, «poco meno del 3%, cioè circa 80mila studenti (3,2% maschi contro il 2,5% delle studentesse), ha fatto uso almeno una volta nella vita di painkillers, l’1% di catinoni sintetici, conosciuto come Khat. Mala sostanza più utilizzata dopo la cannabis è la silice: il 10% ne ha fatto uso almeno una volta. Fonte: iltirreno.it
leggendo Trovare le parole per esprimere se stessi diventa difficile, se non impossibile, quando nella vita si attraversano dolori. Quindi si cercano dei modi per aiutarsi a trovare “quelle” parole per uscire dalle ferite della vita, di quelle che ne cambiano il percorso. Le fiabe, allora, possono donare parole per raccontare. Con una soavità profonda, le due autrici, una pedagogista ed un’operatrice esperta dell’infanzia, donano le parole delle fiabe per aprire gli scrigni segreti dove tanti figli depositano le loro rabbie e la loro paure ma anche le loro gioie. Tante le fiabe, tanti gli spunti di riflessione e tante le parole, i gesti d’amore e cura per accompagnare i propri figli a scoprire e capire se stessi. Un dialogo costruttivo tra due mamme, una adottiva
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e una biologica, dove parole come leggere, accogliere, ascoltare, crescere, raccontare, rallentare, insegnare possono essere percepite per legare le vicende dei protagonisti delle fiabe, scritte per tutti, anche ai vissuti dei figli adottati. «É la passione per i buoni libri che permette un incontro, un confronto sulle esperienze di genitorialità, tutte diverse, tutte importanti». Daniela Pazienza
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