Lettera a un bimbo già nato - 2

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giorno dopo giorno

di Antonella Avanzini

Lettera a un bambino già nato 16

Continua il racconto iniziato nel numero precedente. Riprendiamo con le ultime righe ….

firmare tre volte i tre fogli. Ci salutano sorridenti e soddisfatte. Anche loro stanche e nervose, ma soddisfatte. Il loro lavoro è Arriviamo in albergo, l’in- arrivato finalmente ad un terprete e la referente ci primo traguardo. consegnano dei fogli da compilare e firmare. Ci Ma la giornata non è ancochiedono lì, in piedi, nella ra finita. Giusto il tempo hall dell’albergo a tre stelle di salire in camera: abbianel via vai della gente che mo appuntamento dopo arriva per l’ora di cena, se mezz’ora nella hall con siamo disposti a firmare i l’interprete. Come ci handocumenti che confermano no chiesto in istituto, dobche accettiamo di adottare biamo portare a stampare i bambini. E’ lì che diciamo le fotografie. E noi vogliaquel sì che vale una vita. mo comprare ancora qualDire si ora, e confermare di che regalo, da portare ai andare a Mosca dal notaio bambini il giorno seguenper la registrazione ufficia- te. L’interprete ci accomle della domanda allo Sta- pagna in un supermarket. to Russo. Siamo stremati, Tutto di corsa, è tardi, è confusi, ma diciamo di si. freddo, siamo stanchi, non Litigo con l’interprete: mi c’è tempo. Negozi di giodice che dobbiamo per tre cattoli o cartolerie non ne volte portare il foglio in troviamo. Io voglio prendeistituto; mi agito chieden- re qualcosa di speciale, ma do perché tre volte andare l’interprete pensa più alla in istituto? Dopo qualche quantità che alla qualità: spiegazione concitata si tante caramelle per tutti i capisce che in realtà inten- bambini dell’istituto. Vordeva tre copie del foglio, rei portare anche qualcosa

al cioccolato: vedo i Ferrero Rocher, cioccolatini di wafer, tondi, con nocciola dentro e granella sopra, produzione italiana. L’interprete mi blocca dicendo che sono carissimi; ordina al mio posto un altro abbondante sacchettone di caramelle. Mi chiedo se immagina che quei Ferrero Rocher, nella scatola trasparente con la loro bella carta dorata, sarebbero finiti nella borsa di qualcuno e non nella bocca dei bambini. Portiamo a far sviluppare le foto, che andremo a ritirare l’indomani mattina. Io voglio regalare ai bambini una cornice simpatica, con inserita una fotografia di noi e dei bambini insieme, una per ognuno, da tenere per ricordo nei mesi a venire, dopo che saremo ripartiti per l’Italia. Il negozio ha delle belle cornicette per bambini, rivestite di stoffa-peluche colorata, con un animaletto in un angolo; ce ne sono due simili di colore diverso, una rosa e una


azzurra: siamo fortunati! Facciamo stampare anche una ventina di foto, quelle venute meglio: noi coi bambini, solo i bambini, noi quattro tutti insieme. Stiamo proprio bene! Le porteremo il giorno dopo all’istituto, quando vedremo per la seconda volta i nostri bambini. E’ ormai sera tardi e siamo in albergo a Voronezh. Questo rientro è difficile, e la notte che verrà anche. Vorrei parlare con qualcuno dell’ente in Italia, ma ormai è tardi e non c’è nessuno. Ho un numero di cellulare per le emergenze, ma, in effetti, emergenze non ce ne sono. Certo parlare con qualcuno adesso ci servirebbe. Siamo qui proprio soli. Una solitudine enorme. Perché sei tu e il tuo destino. Fuori dell’albergo il freddo. Dentro la stanza un caldo pazzesco, ma si trema di paura. Adesso ci siamo. I bambini li abbiamo visti. I bambini ci sono. Come

siamo deboli. Come ci spaventano questi bambini. Ma come li vorremmo già avere nella nostra stanza, lì vicino. Ma restano i dubbi, restano le paure che il vedere i bambini ci ha lasciato. Dubbi e paure che decidiamo di accantonare per la notte, di rimandare a quando riusciremo a parlare con qualcuno dell’ente. Il prima Non siamo qui in Russia insieme ad altre coppie che stanno adottando. Come può capitare. E a dire il vero, non abbiamo nemmeno avuto, prima, frequentazioni con altri aspiranti genitori che volevano adottare in Russia. L’ente, o associazione, o onlus che si voglia dire, al quale abbiamo dato l’incarico di seguire la nostra procedura, ha sede in una regione molto lontana da noi. Un incarico siglato da un vero e proprio contratto, con clausole

e penali. C’era un loro ufficio nella nostra regione, ma l’avevano poi chiuso per incomprensioni con la responsabile. Perciò, i nostri rapporti con l’associazione e quindi anche con tutte le coppie che vi fanno riferimento, sono stati minimi. Il primo contatto è stato il viaggio fatto da sola, in aereo, per assistere all’incontro informativo. A differenza degli incontri avuti con gli altri enti, questa volta, mio marito non venne. Per due ragioni: la prima perché l’ente permetteva che fosse presente uno solo dei due aspiranti genitori (tutti gli altri ci avevano voluto “pesare” entrambi, anche solo per il primo contatto); il secondo motivo era prettamente economico: avevamo perso già diverse giornate di lavoro e aggiungere ancora il costo di un viaggio aereo prenotato con urgenza era un po’ troppo. Ma, sinceramente, mio marito accanto avrei preferito averlo: ave-

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vamo fatto tutto in due, mi sembrava giusto continuare. Comunque, quella mini conferenza del cosiddetto “incontro informativo”, servì a convincermi quanto bastava che mi sarei potuta fidare proprio di loro. Mi convinse perché, a differenza delle altre associazioni, chi parlò in quelle due ore – una delle due psicologhe che lavorano presso l’ente – raccontò soprattutto dei bambini, delle loro caratteristiche: i bambini che sono negli istituti, che vivono nei paesi dove l’associazione fa il lavoro di intermediario per le adozioni. In quel primo pomeriggio di luglio, in un bel palazzo storico del centro, con l’ascensore che per usarlo ci devi mettere la monetina o avere la chiave, scesi all’ultimo piano dove c’erano gli uffici, con la speranza che quella bella scala antica mi portasse dove si aprivano le porte del mio personale paradiso. Sapevo

però, per esperienza, cosa dovevo aspettarmi: uffici un po’ arrangiati, dove un bel po’ di fotografie di bambini erano appese alle pareti, a testimoniare che l’associazione lavorava sul serio, e i bambini esistevano e davvero li avevano fatti arrivare in Italia. Faccine di bimbi di tutti i tipi, di tutte le età, esposte con poca discrezione a beneficio del futuro “cliente”. Come i tabaccai che espongono in vetrina i biglietti vincenti del “Gratta e vinci”: giocate che la ruota della fortuna girerà anche per voi. La psicologa parlava ad un piccolo pubblico di una trentina di presenti, in un attico vetrato, praticamente una serra, dove il caldo soffocante di luglio annebbiava il cervello e faceva sudare il resto del corpo. Ma alla fine io rimasi soddisfatta e contenta, perché invece di sfoderare i numeri dei costi e delle quantità di bambini portati in Italia -

come era stato abituale negli incontri informativi con le altre associazioni – ci avevano raccontato come erano realmente i bambini, cosa dovevamo aspettarci dai nostri futuri figli. Alla fine della piccola conferenza, portai via la documentazione da firmare per il contratto d’incarico. Ripresi l’aereo di ritorno e durante il viaggio, sorvolando mezza Italia, pensai che stavo facendo la scelta giusta. Rimandato via posta il contratto firmato, seguirono, dopo alcuni mesi, gli incontri collettivi con la psicologa dell’ente. Andammo coscienziosamente a queste riunioni, dove facevamo parte di un gruppo di otto coppie che intendevano adottare in Russia. Si svolgevano a cadenza mensile ed erano obbligatorie. Ascoltavamo le preziose informazioni che la psicologa dell’ente ci dava. Il programma originario degli incontri ne prevedeva sei, ma furono ridotti a


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tre pomeriggi. Erano tenuti presso la sede di un’altra associazione in provincia di Milano, che offriva lo spazio. La psicologa arrivava in aereo il mattino, teneva il corso di tre ore e ripartiva lo stesso giorno: giustamente era meglio concentrare. Le altre sette coppie partecipanti arrivavano da tutto il Nord Italia; ci si vide in totale solo tre volte: difficile riuscire ad avere un minimo di confidenza, preludio a un’amicizia. Non ho saputo più nulla di nessuna di loro. In questi incontri la psicologa, giovane ma molto brava e intelligente, ci spiegava dei bambini russi. Voleva anche sapere

quale era il bambino che, nel nostro immaginario, avremmo voluto come nostro figlio. Ci raccontava di quali erano le difficoltà burocratiche che potevamo incontrare durante tutta la procedura. Fu sincera. Non nascose i rischi e le difficoltà. Dopo gli incontri, arrivò il momento di preparare il primo gruppo di documenti da inviare allo stato russo. Dove era necessario indicare anche le nostre disponibilità in merito all’età e allo stato di salute dei bambini che avevamo intenzione di adottare. Le nostre disponibilità erano per certi versi piuttosto larghe. D’altronde, l’assistente sociale e la psicologa della nostra Asl-Azienda sanitaria locale, che ci valutarono per il Tribunale dei Minori, ci dissero che come coppia avevamo le spalle larghe. Un anno di matrimonio, vent’anni di convivenza e altri quattro di fidanzamento - e malgrado tutto eravamo ancora lì - erano per loro una bella base su cui costruire. Ci fu all’epoca una discussione con quella psicologa, perché quando dovette scrivere nella sua relazione l’età dei bambini che potevamo adottare, io insistevo per la fascia tra zero e sette anni, invece che tra zero e sei anni come lei voleva. Mi spiegò che arrivare in Italia a sette anni passati, significava avere grosse difficoltà di inserimento scolastico e sociale. Alla


fine mi arresi e fu scritto “età dei minori tra 0 e 6 anni”. Non era nemmeno molto d’accordo sulla nostra idea di formare una famiglia con tre figli: spalle larghe si, ma senza esagerare. Dovevamo pensare bene a cosa significava gestire tre bambini arrivati tutti in una volta, alle difficoltà che questa scelta comportava. Il giudice del Tribunale poi, nel nostro decreto d’idoneità all’adozione, decise di non specificare una fascia di età. Quindi potevamo adottare bambini in qualunque numero e in qualunque età. Nei documenti inviati all’ente, noi però si mise nero su bianco che avremmo voluto sì adottare tre fratellini, ma non oltre i sei anni. Così come risultava dalla relazione che la psicologa e l’assistente sociale dell’Asl avevano scritto. Questa disponibilità ci fece superare tutta la fila delle coppie in attesa presso l’ente: “Ueilà! Ci sono due che se ne prendono tre! Sfogliare l’elenco dei terzetti disponibili e telefonare subito!”. Solitamente l’abbinamento tra gli aspiranti genitori e il bambino viene fatto dai funzionari dello stato russo, in Russia. Ma per particolari situazioni, come per esempio più fratelli, sono le persone dell’ente italiano che possono proporre alle coppie in attesa di abbinamento, i bambini che sono registrati in queste liste speciali. Di telefonate

perciò ne abbiamo subito ricevuta una, poi un’altra, poi un’altra ancora. Nella prima telefonata la psicologa disse che c’erano per noi tre fratelli, di cui il più grande, un maschio, aveva nove anni. Oddiooo! Aspetti che qualcuno ti faccia questa telefonata per mesi e poi, quando arriva, non salti di gioia ma resti interdetta. Nove anni, maschio. Non me la sento. Io sono alta un metro e cinquantadue. Nove anni, maschio. Non me la sento. Nei mesi precedenti avevamo fatto visita, su suggerimento di un altro ente, a quattro famiglie con ognuna tre figli adottivi. Una famiglia con bimbi etiopi, una con bimbi brasiliani, una con bimbi colombiani, una con bimbi russi. Dodici bambini, di età variabile tra dieci e tre anni. E’ vero che la psicologa dell’ente ci aveva raccontato che i bimbi russi che vivono in istituto sono molto minuti; ma se così non fosse stato, il mio bambino adorato avrebbe potuto essere alto e pesante come me, come qualcuno dei bimbi incontrati che avevano otto, nove, dieci anni. Non me la sentivo di avere nel mio nido un piccolo di cuculo. E’ vero che bisogna passare dall’immagine ideale che si ha del futuro figlio alla realtà, ma questa realtà per me era troppa. Ma dire no è difficile. Molto difficile. Mi attacco alla

burocrazia: sui documenti c’è scritto età compresa tra zero e sei anni; non l’ho scritto io, chi ne sa più di me ha scritto così, e così deve essere. Ma si piange. Dire no a questi bambini è un dolore forte come un aborto. Qualcuno ha messo quei figli lì per te, e tu non li vuoi. Hai un senso di colpa che ti fa piangere disperatamente. Mio marito mi dice che non devo, che non devo farmi gli occhi rossi così: si parla del nostro futuro, è giusto che valutiamo consapevolmente. La seconda telefonata, dopo una settimana, è per tre bambini, il più grande maschio, otto anni, il più piccolo due, la sorellina nel mezzo. Si potrà però partire per il primo incontro solo fra cinque mesi, per non meglio specificati motivi burocratici. Oddiiiooooo! Un altro no! La telefonata arriva mentre sono in strada, sto rientrando a casa e sono nella via più centrale di Milano; sotto i portici pieni di negozi, passano duecento persone ogni trenta secondi. Cerco di appartarmi almeno un po’ dal caos, spostandomi di dieci passi in una via laterale. Penso: come può farmi questo? Come può quella giovane psicologa così gentile e garbata, in cui riponevo fiducia, tirarmi un altro colpo come questo? Vuole capire se il nostro no agli altri fratelli, l’abbiamo detto perché

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non c’erano bambini piccoli? Uno di questi fratellini ha due anni. Se vuoi un bimbo abbastanza piccolo devi prenderne anche uno grande? Pensa che per noi funzioni così? In strada sento male dal telefonino, non riesco a parlare. La psicologa, dice di pensarci con calma. Ci possiamo risentire, non devo darle subito una risposta. Un’onda di disperazione mi sale da dentro, fino alla gola, fino agli occhi. Vorrei piangere forte, buttarmi per terra e urlare, picchiando i pugni. Ma non posso. Ho mille persone attorno. Devo resistere, mi manca poco per arrivare a casa. Devo solo attraversare la piazza del Duomo, poi ancora trecento metri e sono a casa, al sicuro. Passo davanti al Duomo. Dentro c’è una famosa statua scolpita nel marmo di un santo martire, morto perché spellato vivo. Famosa per come lo scultore ha reso nei particolari un corpo vivo, a cui per metà si è già strappata e rivoltata la pelle. Ecco. Anche io mi sento così. Mentre cammino in mezzo alla folla della piazza. Spellata viva. Ogni centimetro del mio corpo brucia di dolore e di rabbia, mentre penso a quei bambini che potrebbero essere, ma non lo diventeranno, i miei figli. Arrivo a casa e posso sfogare i miei sentimenti. Posso soffrire, piangendo e

stringendo i denti, come se stessi partorendo nella difficoltà di un travaglio doloroso, difficile e ancora senza fine. Non me la sento di accettare. Mio marito mi dice ancora che non devo farmi gli occhi rossi così; si parla del nostro futuro, è giusto che valutiamo consapevolmente: decide lui anche per me. Mi dice che un bambino grande maschio non lo vuole. Non saprò mai se era proprio vero o se lo disse per sollevarmi da quel peso che non riuscivo a reggere. La terza telefonata, dopo un’altra settimana, è per due fratellini; la più grande, una bambina, ha sette anni appena compiuti. Del fratello più piccolo non sanno o non mi dicono niente. Hanno urgenza. Se accettiamo, si parte a brevissimo termine. Oddiiiioooooooooo! Io vado in crisi ancora una volta. Tre “no” sono veramente troppi per me. Ma cambiare una visione che si aveva da mesi, anni, e riadattarla a qualcosa di nuovo e improvviso è difficile. La mia famiglia doveva essere fatta da cinque persone, non da quattro. Io volevo tre figli, non due. Tempo per andare a prenderne un terzo non ne ho. Non siamo più così giovani. Mio marito, solitamente assai meno decisionista di me, questa volta (e questa volta basterà per tutto il passato e tutto il futuro) decide ancora lui. Con que-

ste parole: per me va bene. Richiamiamo la psicologa, che si accorge però dei miei dubbi: ci chiede di andare per un incontro. Prendiamo il treno dopo due giorni. Parliamo con lei mezz’ora. Ci dice: se non ve la sentite, non forziamo. Se non ci sentiamo disponibili per quei bambini possiamo dire ancora no. Ma io mi chiedo quale può essere la scelta: come è possibile scegliere ancora? Come è possibile dire un si o dire un no: attaccarsi ancora al documento burocratico, dove era scritto che per noi era giusto adottare minori di età tra zero e sei anni, non può avere più senso. Sette anni rispetto a sei non fanno una differenza. Due bambini invece di tre non fanno una differenza. Dire si a questi bambini e pentirsi di questo si, dire no a questi bambini, per averne altri e pentirsi ugualmente di questo no. Non è possibile fare una scelta. Su quali criteri? Non sai niente di questi bambini. Non sai niente perché nessuno lo sa; nessuno sa quali figli, quali persone diventeranno questi bambini. Forse sono i figli sbagliati per te quando hanno cinque anni, ma forse sono i figli giusti per te quando ne avranno venti. O al contrario sono i figli perfetti a tre anni, ma i peggio figli quando ne avranno dieci o quindici. Ma giusti o sbagliati, come i figli arrivati dalla pancia, dovranno essere per


sempre i tuoi figli. Ed io la responsabilità di questa scelta non la voglio. Non voglio essere io a decidere questo destino, a doverlo rinfacciare a me stessa un domani. E’ giusto che siano altri a decidere per me. Qualunque sia la mano che ha messo i nostri nomi a fianco di questi bambini, è lei che maledirò o ringrazierò tutta la vita. Senza rinfacciare niente ai figli che verranno, o a me stessa. In Russia, le coppie russe possono andare negli istituti, vedere un numero ragionevole di bambini e decidere se vogliono l’uno o l’altro. Ma quale peso viene messo sulle spalle di quei bambini? Quale macigno porteranno per tutta la loro vita? Un obbligo di riconoscenza a cui non potranno mai sfuggire. A cui si ribelleranno con forza e rabbia o a cui si sottometteranno. E il genitore sarà capace di non pronunciare, non pensare mai, in tutta

la sua vita, nemmeno una volta: io sono venuto a portarti via da dov’eri, te e non un altro. Ti ho dato il mio nome, è questo il ringraziamento? Difficile rispondere. La psicologa ci spiegò bene, che una volta in Russia non si tornava indietro. Il no si diceva qui in Italia, non là. Come nessun’altra volta nella mia vita, ho lasciato che altri decidessero al mio posto. Ma se avessi detto sì, confermai che sarebbe stato un si definitivo. Accettai l’abbinamento, firmammo i documenti che servivano e restammo lì ancora un giorno, per tirare il fiato. Il panorama era magnifico, il mare era bello, azzurro. Belle giornate anche se ai primi di ottobre. Finalmente eravamo felici: avevamo un abbinamento! Avevamo, anche se solo promessi, dei figli. Si potrebbe dire che ci sentivamo come un fidanzato

innamorato. Che non era ancora arrivato a sposare e ad avere la sua amata accanto ogni giorno, ma era riuscito almeno ad essere “fidanzato in casa”. Pochi giorni dopo prendevamo il volo per Mosca. Il secondo incontro coi bambini. E’ il 20 ottobre 2009, siamo a Voronezh. L’albergo dove alloggiamo è abbastanza confortevole. In pieno centro, la stanza ha una bella finestra panoramica sulla città. La mattina è fredda, brumosa, si vede dalle finestre il freddo e la nebbia di una giornata dura. Mi soffermo a guardare il bel palazzo di fronte a noi, sembra un teatro, con una maestosa facciata con colonne e un grande timpano triangolare soprastante. Stanno ristrutturando il tetto. Si vedono attrezzature abbandonate ricoperte dalla neve. Mi chiedo se, e per quanto, riusciranno

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ancora a stare in equilibrio senza scivolare giù in strada dalla falda inclinata del tetto. Anche l’edificio a lato è in corso di ristrutturazione. I lavori sono quasi finiti e il risultato mi sembra buono. Questa città è piena di immagini contrastanti: qualcosa di estremamente nuovo, fianco a fianco a qualcosa di estremamente vecchio, usurato, consunto. Malgrado questo, l’impressione che se ne trae è quella di una città comunque amata. E’ anche una città universitaria, ci sono molti studenti che arrivano da altre parti della Russia e anche da altre nazioni, con ben quindicimila studenti stranieri. La differenza che c’è tra le diverse generazioni è enorme. I giovani appartengono a un nuovo mondo. Le persone oltre i quarant’anni vivono divise tra una nuova vita e una vecchia vita, e non sanno decidere, e questa indecisione le logora. Le persone oltre i sessant’anni vivono in un vecchio mondo e ne conservano le vestigia, con passione, sanno che è un mondo destinato a scomparire. Oggi andremo all’istituto senza la nostra Ekaterina, il nostro riferimento in Russia, ma solo con Anna l’interprete, e l’autista. Partiamo nel primo pomeriggio. Con un po’ meno ansia del giorno precedente, attraversiamo prima il centro e poi la periferia della città; ci allontaneremo fino al paese dove sono i bambini, at-

traversando la steppa e la piatta e deserta campagna attorno a Voronezh. Un po’ più riposati e tranquilli del giorno prima, riusciamo ad avere spazio nella nostra mente, per osservare il mondo attorno a noi dai finestrini della macchina. Vediamo attraverso la nebbia leggera, che avvolge in una silenziosa e ovattata distanza, persone case e cose. Distinguiamo i tipici monumenti russi al centro delle grandi piazze: la navicella spaziale, l’eroe, il poeta, l’aereo della seconda guerra mondiale, l’immancabile Lenin. I grandi palazzi pubblici che ospitano importanti funzioni per il popolo, come l’università, e poi le piccole case abitate dal popolo. Ci sono nella periferia della città, e poi nella campagna, queste piccole case, deliziose, in legno. Casette di favola, con finestre con cornici decorate a fiori, colonnine, decori geometrici. Dipinte coi colori gioiosi e chiari dei bambini, verdi, rossi e marroni, giallo senape, con finestre in contrasto, verde chiaro, bianco, verde scuro. Con i tetti contornati, nelle gronde, da smerli che si confondono con le stalattiti del ghiaccio e della neve. La neve c’è. Tanta. E il ghiaccio è un rischio, un pericolo. Un pericolo sulla strada, sui marciapiedi, sui tetti che fanno cadere sopra le teste dei passanti stalattiti enormi, che al minimo disgelo precipitano come acuminati coltelli

verso terra. La neve se ne va solo per pochi mesi l’anno. In estate: solo per tre o quattro mesi c’è il caldo. Il resto dell’anno si convive, sopravvive, al freddo, alla neve, al ghiaccio. Non è facile. Vivere di espedienti in Russia non è possibile. Non è il Brasile, dove i bambini sopravvivono nelle strade anche per anni. Qui nelle strade non si vive, appena arriva il freddo, si muore. I bambini negli istituti sono tanti, ma molti sono i bambini che sono tolti ai genitori perché non sanno garantire la sopravvivenza dei figli. Molti sono i giovani genitori che, affogati nell’alcool o nella droga, non hanno la lucidità per rendersi conto di dove siano i figli. Di dove li hanno lasciati o di dove siano andati. Un bambino di due anni che esce e si perde per strada a 10 gradi sotto lo zero, non va lontano. Forse è vero che i bambini negli istituti in Russia sono tanti, ma il funzionario russo pensa che per loro sia meglio soffrire in un istituto, che essere perduti per sempre. Avvolti da questi pensieri un po’ tristi e da questo paesaggio malinconico, tremendamente somigliante alla retorica dei film, alle terre ricoperte di soffice neve del dottor Zivago, che più di una volta ho visto in televisione, arriviamo finalmente davanti al cancellino basso verde chiaro, coi disegni colorati dipin-


ti, dell’istituto. Che bello entrare. Accolti dal caldo esagerato. Dal viso un po’ furbo e sorridente di una nuova signora (che ci viene detto è la direttrice!) e che ci fa accomodare direttamente nel salone dei giochi del giorno prima. Che bello aspettare i nostri bambini. Vedere ancora quei visini dolci, quelle codine bionde, quegli occhietti vispi, quei dentini bianchi. Ma Natascia entra accompagnata ancora dalla sua tata e anche se proprio non piange, ci accorgiamo che ha occhi gonfi e rossi e un’aria abbattuta. Diamo subito i regali come il giorno precedente, e vediamo ancora, tempo un secondo, ricomparire il sorriso sul suo bel visino. Com’è bella questa bambina! E’ vestita elegante per noi. Ha una camicettina tutta in pizzo bianco, sotto a un vestitino scamiciato di velluto arancione con tasche davanti. Calzine corte bianche, di pizzo anche loro, e

sandalini un po’ più belli di quelli del giorno prima. Le sue lunghe eleganti e affusolate braccia, escono dallo scamiciato e si muovono nell’aria sollevando i giochi e i regali. Si muove come con passi di danza, e viaggia per il salone da uno all’altro dei presenti, mostrando quanto da noi portato e facendo giravolte su se stessa, mentre osserva estasiata dalle sue mani, ogni cosa che le abbiamo regalato. Adora persino i sacchettini delle confezioni, che avevo scelto apposta con bei disegni colorati di fiori. E mette anche loro in bell’ordine, in fila, in esposizione. Il gusto per l’allestimento è tipico russo. Anche nei chioschetti lungo le strade, le cibarie in vendita, mai meno che perfette, sono esposte in modo gradevole e “artistico”: cioccolatini sovrapposti con millimetrica precisione a piramide, così come la frutta; le confezioni, anche se di poco valore,

sono disposte con ordine e simmetria e mostrate con orgoglio. Oggi ci sentiamo meno osservati. Il signor Vassili non c’è, non c’è la nostra referente Ekaterina. Siamo tutti più rilassati. L’interprete chiacchiera molto con la direttrice e la maestra che ci ha ricevuti il giorno prima, ma non traduce per noi quello che si dicono. Noi intanto giochiamo coi bambini. Che sono curiosissimi. Cercano nelle nostre borse qualche altra novità, oltre a quello che abbiamo portato. Anche oggi Natascia fotografa tutto e tutti. Malgrado l’atmosfera più serena, l’interprete ogni tanto traduce qualcosa che non vorremmo sentire. Perché Natascia ha pianto? Ha pianto perché qualcuno in istituto le ha detto che noi eravamo venuti per portarla via. La direttrice racconta all’interprete che i bambini hanno una nonna, che

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ogni tanto telefona in istituto, non capiamo se va anche a trovare i bambini. L’interprete ci dice che quando Natascia ha sentito nominare la nonna dalla direttrice, si è rabbuiata e insospettita. E ha guardato nell’altra stanza dove hanno il telefono, pensando avesse chiamato. Il piccolo scopre una piccola torcetta elettrica per fare luce in caso di emergenza, che mio marito aveva nella borsa. Si divertiranno a giocare al dottore. Certo, guardare in gola al piccolo forse è maleducato, ma la curiosità di vedere se in quella bocca e in quella gola tutte le cosine sono al loro posto c’è. Che poi noi non siamo mica dei dottori, cosa capiremo. Comunque il palato c’è, e anche i dentini e il resto. L’interprete ride, perché il piccolo chiama mio marito Gazpadin, che vuol dire signore in russo, perché la sorella il giorno prima l’ha

sgridato: non deve chiamarci mamma e papà. Noi non ci eravamo nemmeno accorti che diceva “mama” e “papa”, perché emetteva piccolissimi incomprensibili monosillabi come gridolini. Comunque oggi possiamo giocare un po’ più tranquillamente, cercare un contatto un pochino più intimo. Mio marito ha fatto subito breccia: i bambini lo preferiscono; se lo contendono perché giochi con loro e li faccia divertire, sorrida loro felice di vedere ricambiato il suo sorriso. Bisogna dire che in istituto di uomini se ne vedono pochi. Giocare con un uomo è sicuramente una novità rispetto allo stare con una donna. Io per loro sono solo una donna. Come una delle tante che hanno intorno. Però, verso la fine dell’incontro, capisco che anch’io sono un po’ speciale per loro. Natascia vuole fare una foto con me. Io mi metto in posa

dietro di lei. Lei allunga un braccio all’indietro per abbracciarmi, ma io non mi aspetto questo gesto, non mi accorgo di questo suo dolce dono per me, e resto impettita ad aspettare lo scatto. Nella foto si vede il viso e il braccio di Natascia che cercano di arrivare al mio viso, forse per darmi un bacio. Come ho amato quella foto. Nei mesi successivi, quando i bambini non erano ancora con noi, l’ho guardata tante volte. Ho pensato che quella bambina con un carattere così aperto, così facile al sorriso, alla comunicazione con gli altri, non poteva non rispondere con gioia alla nostra voglia di amarla. Natascia ha una grande confidenza con la direttrice e le maestre. Si avvicina a loro e si appoggia al loro braccio mostrando cosa sa fare e chiedendo commenti. Una delle maestre a un certo punto porta dei pen-


narelli e dei fogli nuovi, si vede preparati apposta per noi. Anch’io avrei voluto portare i colori e dei blocchi da disegno in regalo, ma non eravamo potuti andare a comprarli, il giorno prima era già tardi e l’interprete comunque non aveva intenzione di accompagnarci. O almeno preferiva portarci nel negozio dove vendevano dolci e caramelle. Col senno di poi aveva pienamente ragione. La maestra chiede a Natascia di disegnarci tutti e quattro insieme, copiando la fotografia che abbiamo messo nella cornice, dove siamo seduti sul divano mentre scartiamo i regali, foto scattata il giorno prima. Natascia copia, ma, trasforma quel quadretto nella sua vecchia famiglia: una bella mamma bionda e un papà che per nulla assomiglia a mio marito. Siamo simpatici, ma non siamo sua mamma e suo papà. Vediamo di mettere i puntini sulle “i”, sembra

voler far capire a tutti. Scrive anche il suo nome in cirillico, e anche quello del fratello: la maestra ci tiene a far vedere le capacità di Natascia. Ma noi adoriamo già questa bambina! E’ già la bambina più bella e più brava del mondo per noi. La guardiamo in estasi. Guardiamo innamorati come si muove, come parla al fratello, ridiamo comprensivi della sua prepotenza nei confronti del fratello, che trottolino cerca di prendere in mano la macchina fotografica, appena lei la posa un attimo e subito come un falco lei arriva e gliela strappa di mano! Questi bambini hanno una energia e una simpatia contagiosa. Nel salone dove siamo ci sono diverse attrezzature che servono per fare psicomotricità coi bambini: tantissime palle di ogni tipo e dimensione, dei materassi componibili colorati, rivestiti in plastica, con cui si possono formare delle fi-

gure - come un treno o una macchina - dove Dima si siede e fa finta di guidare e ci invita a metterci dietro di lui per portarci in giro. Un attrezzo per fare i salti, una scala a pioli, che Natascia adora e con cui chiede a mio marito di farla dondolare come una specie di altalena. Ogni tanto si avvicinano alle nostre borse, in particolare a quella di mio marito, più grande, del tipo con tracolla da viaggio, dove tiene delle cose di emergenza: oltre alla piletta, scoprono caramelle, chiavi, apri bottiglia, fazzoletti di carta. Natascia trova interessanti i fazzoletti di carta, e li vuole. Volentieri glieli diamo, ma la maestra la ferma. Anche oggi ci fanno domande: la direttrice è curiosa di noi, vuole sapere che persone siamo, cosa facciamo, vuole un po’ capire quale vita futura può immaginare per questi bambini. Bambini di cui

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comunque per un periodo si è presa cura, che ha visto tutti i giorni, a cui ha insegnato, a cui ha cercato un paio di sandalini che andassero bene, un vestito adatto. Capiamo che hanno fatto di sicuro sforzi, soprattutto per Dima, che deve essere arrivato qualche mese prima in questo istituto in condizioni critiche: a tre anni e mezzo senza avere ancora parlato, così magro e così piccolo, ma così capace di essere intelligente e simpatico. Che questo bambino stia simpatico parecchio anche alle maestre si capisce: lo guardano sorridendo, se lo vedono in difficoltà lo aiutano. Quando la sorella disegna, si avvicina, e la maestra chiede anche a lui di provare a fare qualcosa. Si siede in braccio all’interprete - perché non a me, penso invidiosa – e inizia a scarabocchiare qualcosa. La maestra subito lo indirizza, silenziosamente gli sposta la matita che ha in

mano nella posizione giusta. Un piccolo gesto, ma un gesto di attenzione, di cura. Ci chiedono come sarà la nostra vita e cosa faremo quando avremo i bambini con noi. Raccontiamo un po’ dove viviamo, della casa, della città, delle cose belle per i bambini che ci sono. Questa parte è facile: viviamo a Milano, in centro. Dubito che queste signore un po’ attempate della provincia russa conoscano Milano, ma sembrano capire che i bambini avranno tante possibilità per il loro futuro. Ci salutiamo coi bambini, ma meno calorosamente del giorno prima. Qualcosa è cambiato. Sia in noi che in loro al momento dei saluti affiora la paura di non vedersi più. La direttrice deve avere intuito il nostro sentire, visto la nostra delusione per questo saluto con i bambini un po’ distante; e mentre andiamo

via ci rassicura, ci dice che nel tempo che passerà prima del nostro ritorno, prepareranno i bambini alla loro nuova vita. Prendiamo il treno per Mosca la sera stessa e sul treno riusciamo a parlare con qualcuno dell’ente. Purtroppo non è la psicologa che ci aveva seguito, ma un’altra persona, che si occupa solitamente dei documenti burocratici da preparare. Facciamo a lei il resoconto degli ultimi due giorni. Facciamo presente che la nostra sensazione è che non siano propensi a mandare questi bambini all’estero. Lei ci conferma che anche la referente a Mosca le ha detto che, in effetti, non ci hanno accolto bene all’istituto (la direttrice non ha voluto nemmeno farsi vedere il primo giorno!), ma ci dice che di tutti i nostri dubbi dobbiamo parlarne con Natalia, la persona a Mosca responsabile dell’ente


in Russia, che incontrere- che potrebbe non accettamo il giorno dopo. re. In ultimo ci chiediamo qual è veramente lo stato Questa telefonata non ci di salute di Dima, se il suo ha dato risposte, non ci sottosviluppo fisico e menha per niente tranquilliz- tale non sia dovuto a patozato. Quando rivedremo logie veramente gravi. i bambini? La sensazione Alla stazione il mattino che abbiamo è che questa presto, viene a prenderci procedura si trascini, che un’autista donna, che ci acl’istituto o qualche funzio- compagna in un bell’albernario chieda regali extra, go, ci sistema nella hall, ci che i parenti russi si op- piazza ancora in una prepongano all’adozione. Ci cisa poltrona, ci sistema i pare strano che i bambini, bagagli a fianco e ci dice di ai cui genitori è stata tolta non muoverci di lì, di stare la patria potestà, stiano in proprio lì e di aspettare tre un istituto nello stesso pa- ore fino a quando tornerà a ese di venticinquemila abi- prenderci per andare dove tanti dove vive la nonna e ci aspetta Natalia, la refedove sono nati i genitori. rente, con la quale andreCi sembra chiaro che l’o- mo dal Notaio. Mmmhhhh! biettivo è cercare di avvici- Ancora prigionieri di una nare i bambini ai parenti. poltrona! L’albergo è bello, O almeno così pensiamo. niente da dire, le poltrone Siamo anche molto addolo- sono anche comode, ma tre rati al pensiero di portare ore seduti nei posti meglio via da un ambiente dove inquadrati dalle telecametutto sommato Natascia re del circuito di sicurezza sembra serena, e trapian- dell’albergo, che trasmettarla di peso in un mondo tono nei monitor al banco a lei estraneo, obbligarla a dell’accettazione, mi fanno uno sforzo di adattamento innervosire, è veramente

troppo! Cerchiamo di rilassarci, di non pensare a niente, ma la mente torna sempre lì, a quei visini, a quelle manine. Abbiamo paura di soffrire. Abbiamo paura di illuderci per mesi e poi non averli con noi, pensiamo che allora sia meglio evitare quella sofferenza. Non resisteremmo. Incontriamo dopo tre ore Natalia in una bella panetteria con bar nel centro di Mosca, come usa adesso anche in Italia. Mangiamo qualcosa e intanto parliamo seduti a un tavolo. Le spieghiamo il perché abbiamo forti dubbi che quest’adozione vada a buon fine. Spieghiamo che abbiamo visto resistenze dalla parte dei funzionari russi e che sentiamo anche “resistenze” in noi stessi. Lei ribatte punto su punto: “Se i bambini sono nelle liste che l’autorità centrale ha dichiarato essere destinati all’adozione internazionale, quei bambini

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andranno in adozione internazionale. Chi è questo signor Vassili che ha voluto fare tutte quelle domande, per decidere su questo? Chi è quella direttrice che vuole tenersi i bambini per tenersi un posto di lavoro? Non preoccupatevi che mi farò sentire io dove devo, e quando tornerete questi signori non avranno niente più da dire o fare. Cos’è questa storia che avete paura che una bambina di sette anni soffra troppo nell’essere da un giorno all’altra trasferita in un altro paese? Ma che futuro deve avere questa bambina in questi istituti, in quel buco di merda di paese dove vive adesso? Io ho un figlio che vive a Milano, e vengo spesso a trovarlo in Italia. Che vita avrà quella bambina qui, quanto meglio è la vita che voi potete offrirle in Italia? Voi dite che ricorda i genitori biologici, ma quando uscirà dall’istituto e sarà con voi vi assicuro che vi

chiamerà subito “mama” e “papa”, e non si ricorderà più neanche i nomi di quegli altri! Io ho visto tanti bambini, leggo le relazioni che le coppie mandano, sento le storie che mi raccontano dopo che sono in Italia. I bambini, certo che hanno paura quando devono andare via dal posto che conoscono! E’ capitato a una coppia che il bambino è scappato all’aeroporto, non voleva partire, abbiamo dovuto cercarlo, urlava e gridava e si attaccava alle sedie, ai corrimano. Lo stesso bambino, mi hanno telefonato appena arrivati: come sceso dall’aereo ha visto i parenti coi regali ad aspettarlo ed era già un altro bambino, felice ha abbracciato tutti!”. Ci guardiamo io e mio marito: l’arringa ci ha convinto. Ma Dima? Anche per lui ha le risposte giuste: “Avete visto il bambino? Ekaterina mi ha detto che il bambino è vispo e sveglio, parla poco ma parla,

già ieri più dell’altro ieri. E’ vero, è piccolo, e allora?” Chiediamo se si possono fare delle analisi: non so, tipo esami genetici per vedere se è affetto da qualche sindrome, da nanismo o qualche altra patologia invalidante. Ci guarda calma con serietà: “Se le richiedo si possono forse fare, ma chi le paga? E poi sarà altro tempo che passa”. E poi velatamente ma non troppo, ci fa capire che se già non sono propensi a darli in adozione, se vedono che dalla nostra parte abbiamo pure delle “critiche” da fare sui bambini, non andiamo a migliorare la situazione. E comunque, al di là di tutti i discorsi che si potrebbero fare, quei bambini ci sono già entrati dentro. Avevamo solo bisogno che qualcuno ci rassicurasse, sul fatto che la procedura sarebbe andata a buon fine. Che ci togliesse un po’ della paura che avevamo. Magari anche illudendoci,


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ma ridandoci un po’ di forza, un po’ di lucidità. Quando ripenso a quell’incontro mi sento un’idiota. Quante sciocchezze abbiamo detto. Ma al momento ci credevamo davvero. Perché è facile avere certezze dopo, quando le cose le hai viste e le hai vissute e sono andate proprio come ti avevano detto; ma prima, tu, la certezza che quello che ti dicono sarà la verità, non ce l’hai. Qui in Italia nei corsi preparatori tutti ti parlano con una certa accortezza precauzionale, come se anche noi coppie di aspiranti genitori adottivi fossimo un po’ oggetti da maneggiare con cura: dire ma con delicatezza, non fino in fondo, non tutto. Fare esempi ma senza esagerare nelle

situazioni limite, senza scioccare questi signori già ansiosi e apprensivi di loro. Sì, ma noi abbiamo proprio bisogno invece di essere un po’ presi di petto. Abbiamo proprio bisogno di una che ti dice, senza tanti giri di parole: “Avete paura dei bambini grandi? Avete paura che non vi vogliano, che pensino per sempre al loro paese, ai loro vecchi genitori? Ma bravi idioti che siete! Pensate che i bambini siano scemi? Pensate che preferiscano vivere in istituti di schifo, posti di schifo, senza futuro, pensando e cercando genitori che nel migliore dei casi li hanno lasciati in istituto o per strada, e nel peggiore li hanno pestati a sangue, magari lasciandogli cicatrici in faccia, che

tutti i giorni che si guardano nello specchio le vedono?”. Ecco, se uno ti parla così, i dubbi ti passano. E ci voleva una russa per dirlo, perché in Russia se hanno qualcosa da comunicarti, non fanno giri di parole, sono parecchio schietti e non te le mandano a dire. Subito dopo il colloquio al tavolo della panetteria, siamo andati con Natalia dal notaio, a firmare il documento ufficiale nel quale chiedevamo allo stato russo che volevamo diventare il padre e la madre di Dimitri e Natascia. Già il pomeriggio avevamo l’aereo per il rientro in Italia.


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