psicologia e adozione
Di Joyce Manieri Psicologa e psicoterapeuta. Lavora da anni nelle adozioni ed è membro dell’Associazione di psicoterapia dell’adolescenza e dell’età giovanile ad indirizzo psicodinamico. www.genitoriefigli.roma.it
Con il senno del post
appunti per genitori adottivi sufficientemente buoni 8
Molti genitori si trovano in difficoltà con alcuni comportamenti dei bambini nella prima fase del loro ingresso e chiedono aiuto per individuare le modalità più adatte a rispondervi. Tuttavia, il compito più difficile non consiste nel far fronte ai comportamenti difficili tentando di eliminarli; ma nel cominciare a costruire, a partire da questi, nuove modalità di relazione con l’altro e con l’ambiente colorate di fiducia, di speranza e di piacere. Il mondo delle adozioni ha subito una rapida evoluzione. Sempre di più ci troviamo ad affrontare situazioni complesse rispetto al passato. Un’evoluzione fisiologica e prevedibile che trova radice nel progressivo miglioramento delle condizioni di vita
e nel rafforzamento delle politiche degli interventi sociali nei paesi d’origine, dove si è sempre più in grado di individuare soluzioni a tutela dell’infanzia all’interno dei propri confini (affidamenti, adozioni nazionali). Ad oggi, i bambini che fanno ingresso in Italia per adozione da altri paesi sono sempre più grandi, sono bambini che parlano già una propria lingua, bambini con alle spalle abbandoni reiterati, che hanno subito verosimilmente traumi, che hanno, probabilmente, avuto contatti, sia pure sporadici ma prolungati nel tempo, con qualche parente; che lasciano tutto ciò che del mondo hanno conosciuto. Bambini che, in alcuni casi, hanno vissuto con fratelli e sorelle prima o durante l’istituzionalizzazione; fratelli o
sorelle che hanno dovuto lasciare nel paese d’origine o di cui, nel caso si tratti di un‘adozione di due o più fratelli, continuano a prendersi cura anche dopo l’adozione, creando sconcerto e lontananza emotiva all’interno della nuova famiglia perché incapaci di cedere quel ruolo di caregiving, che fino allora ha garantito loro di mantenere un grado minimo di controllo sulla propria vita. Lo scenario dell’adozione internazionale si fa, dunque, sempre più complesso; dove con adozioni “più complesse” non si deve intendere “necessariamente problematiche”. L’attuale sistema che regola l’adozione in Italia, prevede necessari percorsi di formazione che la coppia aspirante all’adozione deve compiere nel suo percorso e negli anni mol-
to è aumentata l’offerta di seminari e corsi anche da parte degli enti autorizzati e delle associazioni familiari. Tuttavia, pur essendo prevista di default un certo quantum di formazione alle coppie aspiranti all’adozione, non esistono ad oggi dati qualitativi e di monitoraggio (effettuati di rado a livello organico) che ci aiutino a capire come effettivamente viene erogata questa formazione: si presenta solo come è cambiato il mondo delle adozioni (dato di realtà a cui in ogni caso ci si deve piegare perché o così o niente) o ci si assicura che la coppia abbia davvero compreso e si sia realmente interrogata sulle risorse da mettere in campo in determinate situazioni, poi non così rare? Dal canto loro, le coppie adottive, rispetto a questi corsi, spesso riferiscono
di un approccio eccessivamente psicologizzante, distante dai loro bisogni e di poco supporto al momento del primo inserimento del bambino in famiglia. Altri nodi e punti di svolta (primo fra tutti, l’adolescenza) potranno caratterizzare successivamente il percorso della nuova famiglia. Del resto l’esperienza maturata, con il senno del post, ci ha dimostrato che l’adozione non è un evento puntuale ma un life long process all’interno del quale la gestione di temi complessi (ad esempio l’abbandono e la doppia appartenenza per il ragazzo; la ferita della sterilità e la paura del fallimento per la coppia genitoriale) si propone e ripropone lungo tutto l’arco della vita. Divenire famiglia per adozione “costringe” i suoi componenti ad un conti-
nuo confronto con l’altro da Sé, ad una costante costruzione di quel senso di appartenenza familiare che chiederà di essere rinegoziato in diversi momenti del ciclo vitale di quella famiglia. Tuttavia, l’inserimento in famiglia rappresenta un momento di passaggio molto delicato: il bambino reale entra finalmente nella scena adottiva costringendoci a fare i conti con la sua storia i suoi vissuti. L’intera trama dei legami familiari ne risulta investita e le dinamiche relazionali della coppia e dell’intero sistema famiglia devono trovare nuove configurazioni. E’ da qui che si avvia quel processo che porterà degli sconosciuti a divenire famiglia attraverso un percorso non scontato e niente affatto lineare. In questo periodo i
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bambini, per i quali nella maggior parte dei casi il concetto stesso di famiglia o di rapporto con adulti significativi sono vuoti e privi di significato, possono vivere un vero e proprio smarrimento identitario. Nelle prime fasi dell’arrivo in famiglia è facile riscontrare caratteristiche di fondo comuni. I genitori possono essere affamati di riconoscimento e legittimazione emotiva, e contemporaneamente sentirsi poco preparati ad affrontare l’incontro con quel bambino reale che ha fatto ingresso in famiglia. I bambini che arrivano in adozione, dal canto loro, non di rado presentano ansia causata da separazione e/o perdita, mancanza di fiducia, bassa autostima, rabbia e la necessità di mantenere un controllo sugli altri e sull’ambiente. Vissuti che trovano in ognuno
espressioni comportamentali diverse e contrastanti: problemi di enuresi o di encopresi, disturbi del sonno, bambini che mangiano molto e bambini parsimoniosi nei confronti del cibo, piccoli soldatini che si sorreggono sulla punta delle loro impenetrabili autonomie, bambini con una forte introversione sociale ovvero con una indiscriminata necessità di vicinanza e di contatto, ecc... Vi è, cioè, una vasta gamma di comportamenti che i genitori possono trovarsi a dover gestire; ma particolarmente penosi sono i comportamenti aggressivi, oppositivi, provocatori e di sfida. Questi comportamenti cosiddetti di tipo esternalizzante, sono forse quelli che hanno maggiori probabilità di mettere a rischio la buona riuscita dell’adozione. L’incapacità di alcuni bam-
bini a rispettare le regole formali ed informali, gli scoppi di rabbia estrema che non riesce a trovare una soluzione ragionevole ma diventa sempre più incontrollabile, spingono i genitori adottivi a provare sentimenti di intensa delusione e rabbia. Per i genitori diventa difficile sintonizzarsi empaticamente con i bambini, soprattutto quando questi sorridono o addirittura, come riferiscono a volte con angoscia i genitori adottivi, ghignano con un certo disprezzo quando si comportano in modo minaccioso verso di loro. Il crescendo emotivo che dimostra il bambino con questi comportamenti, rischia, allora, di trovare eco nell’adulto. I sentimenti e le emozioni del bambino possono essere così forti da non trovare contenimento, andando ad invadere e sopraffare anche la
mente del genitore. Così è possibile che il genitore che viene offeso verbalmente ed aggredito fisicamente dal figlio, all’inizio può essere in grado di pensare “Questo bambino è pieno di rabbia”; ma con il passare del tempo, non essendo capace di tollerare i sentimenti negativi che il figlio gli suscita, può arrivare a dire “Odio questo bambino perché lui è pieno di rabbia e non è degno d’amore” andando ad instaurare un circolo vizioso di rinforzo ai reciproci comportamenti. Altre volte i bambini, pur senza mostrare atteggiamenti oppositori, possono avere comportamenti caotici e dissociativi che possono sconfinare in una vera e propria diagnosi di disturbo dai deficit di attenzione/iperattività. Spesso, in questi casi, anche il rapporto con l’esterno (scuola, vicinato, comu-
nità) risulta complesso da gestire. Capita spesso, che i genitori adottivi si sentano guardati, additati e giudicati con un conseguente aggravio dell’ansia da prestazione genitoriale. Bambini che si dimenano, urlano, hanno crisi di rabbia improvvise e li aggrediscono per strada rimandano dall’esterno un’immagine negativa di loro, immagine che rischia di combinarsi esplosivamente con l’angoscia interna, sempre in agguato, del fallimento della genitorialità adottiva. Altri bambini, una volta collocati in famiglia, faticano ad abbandonare quelle strategie di sopravvivenza basate sull’inganno (ad es. furto o menzogna) che avevano appreso in altri contesti di vita. Davanti a bambini che tornano a casa e raccontano cose che non sono mai successe o che si viene a scoprire che si sono
appropriati di oggetti che non sono loro, i genitori rischiano di sentirsi invasi dalla delusione e dalla rabbia. Davanti a questi comportamenti, vissuti come tradimento della fiducia alla base dell’appartenenza familiare, può capitare che i genitori si sentono esasperati. Comportamenti di questo genere, più di ogni altra cosa, rischiano, infatti, di riattivare il fantasma dell’originario; di ciò che fa parte del passato ed è indelebilmente inscritto nei bambini (segni psicologici e/o fisici), ma che non è noto e dal quale i genitori adottivi sono stati e restano esclusi. Perché mio figlio si comporta così? Dipende dalle sue esperienze pregresse? Perché è adottato? Saremo mai una famiglia come le altre? Perché si comporta così, quando noi gli diamo tutto? Noi genitori siamo
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abbastanza? Queste sono alcune delle domande che i genitori adottivi si pongono quando la gestione della quotidianità all’inizio della vita familiare risulta troppo complessa. Troppo spesso queste prime difficoltà vengono affrontate in un clima di solitudine a volte per paura di essere giudicati (con lo spettro che il bambino possa essere loro tolto), altre volte per Servizi territoriali oberati di lavoro che propongono interventi troppo diluiti nel tempo e lontani. Troppo spesso gli opportuni ed efficaci interventi di supporto arrivano quando ormai potrebbe essere troppo tardi per recuperare; con modalità ed esiti, a questo punto, drammatici. E’ importante che i genitori comprendano che i comportamenti dei loro figli sono spesso il frutto di
una battaglia interiore tra il bisogno di essere amati e l’ansia legata alla prossimità ed alla sua possibile nuova perdita. Così come è importante che essi comprendano che i loro vissuti (di delusione, rabbia, sconforto) non sono patologici, che la genitorialità adottiva chiede, a più riprese, un lavoro interiore sempre a contatto con le proprie vecchie ferite: una vaccinazione (la formazione, il sostegno, il confronto di esperienze) e più richiami! Questi bambini, più che mai hanno bisogno di genitori in grado di contenere e sostenere pensieri ed emozioni penose, senza esserne sopraffatti ed invasi. Bisogna evitare di entrare in quel cortocircuito emotivo che autoalimenta la crisi, cercando di cogliere le angosce sottostanti, i comportamenti messi in atto dai bambini; tenen-
dole sollevate e distinte da quelle che quegli stessi comportamenti sono in grado di elicitare in noi. Questo non vuol dire essere genitori perfetti, non perdere mai il controllo… vuol dire spostare l’attenzione dagli aspetti di mancanza del bambino alle risorse che possono essere presenti nella relazione di cura. Certo, non sempre è facile e, a volte, può risultare impossibile. Non esistono, infatti, ricette buone per tutti, né i pochi consigli che seguiranno possono essere sufficienti in quelle situazioni in cui persistano comportamenti di grave intensità. Tuttavia, un genitore sensibile e responsivo, capace di distinguere ciò che prova lui da ciò che sente il bambino e di considerare il problema non come venuto da lontano con il figlio, ma nato da un incontro… può
fare la differenza. Alcuni accenni teorici sul concetto di resilienza e la sua evoluzione dinamica Parlare di resilienza significa innanzitutto attuare un fondamentale cambiamento di prospettiva: non focalizzare l’attenzione sugli aspetti di vulnerabilità e sui motivi che hanno comportato un disagio, ma su quelle risorse individuali, sociali ed ambientali che consentono alla persona di andare avanti, integrando l’esperienza traumatica. La resilienza è, in sostanza, la capacità di affrontare eventi stressanti e di superarli con una conseguente riorganizzazione positiva della vita. La resilienza non è una qualità che si acquisisce una volta per tutte, ma risulta da un processo dinamico, evolutivo. Essa varia secondo le circostanze, la
natura dei traumi subiti, i contesti e i momenti della vita e risulta dall‘interazione di fattori di rischio e di protezione. Nel tempo, i diversi autori hanno riconosciuto il ruolo determinante, nello sviluppo psicologico dell‘ambiente e dei sistemi con i quali il bambino interagisce, arrivando ad attribuire una natura sistemica alla resilienza: in altre parole, la resilienza del singolo si sviluppa anche grazie alla capacità di sistemi sociali connessi (famiglia, scuola, società) di creare le condizioni protettive per supportare le difficoltà legate al trauma. Stefan Vanistendael (2000) propone l’uso dell‘immagine della “casita” per illustrare il processo attraverso il quale si costruisce la resilienza (vedi figura 1). La casita è costituita da diversi livelli: le fonda-
menta, che rappresentano i bisogni materiali di base; il pavimento, che raffigura la rete di contatti formali e informali del bambino, tra cui i legami del bambino con almeno un adulto che se ne prenda cura e abbia piena fiducia in lui (familiare, persona vicina, professionista); il piano terra è rappresentato dalla capacità di trovare un significato agli eventi della vita. La validità di questo modello, consta nella sua capacità di ritrarre concretamente ed efficacemente il modo in cui il processo si compone di una varietà di fattori, che facilitano la costruzione della resilienza: Il primo piano prevede varie stanze: autostima, abilità personali e sociali, senso dell‘umorismo; il sottotetto rappresenta l‘apertura al nuovo e la capacità di credere nel superamento della sofferenza e nella
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bellezza. Nella casita, ogni camera è un’area di intervento potenziale per la promozione della resilienza, che può aiutare i genitori a capire come si può contribuire efficacemente alla costruzione o al potenziamento della resilienza del proprio figlio. I cinque campi d‘azione su cui è possibile incidere, in un lavorio complesso e dinamico, per favorire il processo di resilienza nel bambino sono: – Reti sociali e accettazione dell‘individuo: l‘accettazione incondizionata del bambino, che gli dà la certezza di essere amato; – Capacità di trovare una logica e un senso alla propria vita: l‘ancoraggio alla realtà rappresenta lo zoccolo duro della ricerca di senso, preserva dall‘illusione e dalle manipolazioni. La scoperta del senso
può essere favorita in molti modi; – Ogni tipo di atteggiamento relazionale, artistico, tecnico, che una pedagogia appropriata può sviluppare positivamente; – Autostima: il tipo di sguardo che si poggia sul bambino, il significato che lui stesso attribuisce alla propria vita, lo sviluppo delle attitudini sono fattori determinanti dal punto di vista dell‘autostima; – Il senso dell‘umorismo: non un atteggiamento di fuga davanti alla realtà sgradevole ma un prendere le distanze da questa, che permette di renderla più sopportabile. E‘ composto di compassione verso l‘imperfezione, accettazione del fallimento, capovolgimento della prospettiva, paradosso e capacità di gioco. La sottolineatura degli aspetti dinamici ed evo-
lutivi, attribuisce alla resilienza contemporaneamente una duplice natura: da un lato è un tratto di personalità, ovvero una qualità presente in misura diversa in ognuno di noi, dall’altro è un processo, che può essere costruito e potenziato lungo tutto l’arco della vita. Ciò ha importanti ricadute in ambito psicoeducativo, in quanto innanzitutto vuol dire che la resilienza può essere acquisita in un processo di apprendimento. Questo apprendimento può essere, allora, sostenuto e promosso dai genitori? Costruire la resilienza dei bambini attraverso relazioni di attaccamento positive Nel processo costitutivo della resilienza i genitori, ovvero la comunità più prossima al bambino, svol-
ge un ruolo fondamentale. La qualità dell‘attaccamento madre figlio ha un ruolo essenziale nello sviluppo emozionale e cognitivo del bambino; un attaccamento sicuro costituisce una sicurezza psichica di base che permette di far fronte ai traumi cui il bambino si può trovare esposto, aumentando così le possibilità di superarli e di conseguire un adattamento positivo. Bowlby afferma che gli individui necessitano di una mappa del mondo per controllare e manipolare l’ambiente e ciò mediante due differenti modelli: uno ‘ambientale’, che informa sulle cose del mondo, ed uno ‘organismico’, che informa su se stessi in relazione al mondo. Le ripetute interazioni del bambino con il mondo esterno portano allo strutturarsi di modelli operativi interni
(MOI), ovvero modelli rappresentazionali utilizzati dal bambino per predire il mondo e mettersi in relazione con esso. L’evoluzione teorica proposta negli ultimi decenni da Fonagy (2001), ha introdotto i concetti di “mentalizzazione” e “funzione riflessiva”, ovvero l’esercizio di quelle capacità mentali che generano la mentalizzazione. Mentalizzazione e attaccamento si alimentano a vicenda. Infatti, a livello della mente, le relazioni di attaccamento, attraverso gli scambi emotivi con il caregiving, aiutano il cervello immaturo del bambino. Tali scambi, perché si crei un rapporto di attaccamento sicuro, devono essere caratterizzati dalla capacità dell’adulto di reagire in maniera pronta ed adeguata ai segnali trasmessi dal bambino, fornendo risposte che fa-
voriscano la produzione di stati emozionali positivi e che facilitino il controllo di quelli negativi. Difatti, nei primi mesi di vita il neonato sperimenta inevitabilmente uno stato del “Sé non psicologico” (fisico o “pre-riflessivo”) in cui rappresenta il mondo e sé stesso in termini prevalentemente somatici. Questo stato del Sé è probabilmente presente alla nascita in forma primitiva e matura completamente verso i sei mesi di vita. Per poter sviluppare un “Sé psicologico” (“Sé riflessivo”) il bambino necessita di una relazione con una persona che rifletta il suo stato mentale e pensi a lui considerandolo un essere pensante. Questa funzione si manifesta in due modalità complementari: chi si prende cura del bambino (caregiver) quando lo guarda tenta di rappresentarsi ciò che sta
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provando, i suoi bisogni, i suoi pensieri, le sue intenzioni cercando di interpretarli e di comprenderli; nello stesso tempo rende espliciti e accessibili i propri processi mentali traducendoli in espressioni del volto, in azioni fisiche e in un linguaggio comprensibile, permettendo al bambino di riconoscersi e proponendo un modello di funzionamento riflessivo nel quale identificarsi. In questo modo le attribuzioni relative agli stati mentali di sé e degli altri vengono incorporate all’interno dei Modelli Operativi Interni. Ciò che ne risulta è una maggiore capacità del bambino di far fronte ai traumi, sia fisici che psicologici. La ricerca ha dimostrato una certa stabilità dei modelli di attaccamento acquisiti nella prima infanzia lungo tutto l’arco della vita; tuttavia sarebbe proprio la continuità nello stile di accudimento che viene sperimentato a garantirne la stabilità. Ciò significa che l’interruzione in uno stile di accudimento, in senso migliorativo (maggiormente sensibile e responsivo) ad esempio con l’inserimento in famiglia per adozione, può portare per effetto delle nuove esperienze ad una revisio-
ne dei modelli di attaccamento. In tal senso, i genitori adottivi assumono un ruolo importante e possono diventare tutori di resilienza. La resilienza non si costruisce individualmente, ma attraverso legami di attaccamento costruiti per tutta la vita. Edith Grotberg (1995) focalizza l‘attenzione sui punti di forza che derivano da una positiva relazione di attaccamento nella costruzione della resilienza. Secondo l’autore, i tre elementi costitutivi della resilienza - cognitivi, emotivi e comportamentali - sono: I HAVE (Io ho - resilienza cognitiva), “Io ho intorno persone che mi amano e mi aiutano”, rappresenta l’area del sostegno e della fiducia in se stessi e negli altri; I AM (Io sono - resilienza emotiva), “Io sono una persona simpatica e rispettosa di me stesso e gli altri”, che rappresenta i punti di forza interiori che aiutano a sviluppare fiducia, autonomia e senso di responsabilità; I CAN (Io posso - resilienza comportamentale), “Io riesco a trovare il modo per risolvere i problemi e io posso controllare me stesso”, che permette di acquisire competenze relazionali e di problem sol-
ving. Questi tre elementi devono combinarsi insieme perché si possa sviluppare la capacità di affrontare le diverse difficoltà della vita. Questo vuol dire che un bambino può essere amato, ma se non ha la forza interiore o abilità interpersonali sociali, non ci può essere resilienza. Ugualmente, un bambino può avere una grande stima di sé, ma se non riesce a comunicare con gli altri o a risolvere i problemi e non ha nessuno che lo aiuti, e così via. E‘ in questa prospettiva educativa che i genitori possono giocare il ruolo di “tutori di resilienza”. Essi possono imparare a fornire ai loro figli che hanno avuto esperienze sfavorevoli infantili un senso di sicurezza, di dedizione e di cura ed aiutare, così, i loro ragazzi a sviluppare un senso di fiducia e di apertura verso un apprendimento positivo e verso nuove esperienze emotive. L’introduzione nel loro percorso esistenziale del calore, della cura, dell’empatia, della stabilità e di un senso di appartenenza, apre la strada all’apprendimento di nuove strategie di coping e fa emergere una nuova capacità, quella di integrare, risignificandole, le esperienze negati-
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ve passate in un’immagine comunque positiva di sé. Consigli per i genitori: non una risposta ma mille domande da porsi per dare senso Allora come comportarsi davanti a comportamenti bizzarri o difficili da gestire? Quale l’atteggiamento migliore da avere? Mi piacerebbe avere una risposta univoca che dia sollievo alle angosce dei genitori adottivi, ma purtroppo non è così. Non esiste un’unica modalità od un atteggiamento di sicuro successo; si possono solo proporre strategie di processo ed ipotesi alternative. Certamente una lettura del fenomeno che utilizza il quadro teorico di riferimento sopra descritto ha il vantaggio di tracciare un processo attraverso il quale cogliere e dare senso ai pensieri ed ai sentimenti dei bambini, comprendendo le strategie difensive che hanno adottato per far fronte alle loro ansie ed ai sentimenti negativi e difficili da sopportare. Non una semplice ricetta dunque, ma i principi di base per poter offrire il più possibile contesti di vita riparativi. Aiutate i figli a organizzare il loro modo di pensare e a regolare le loro emozioni e i loro comportamenti.
E’ importante che i genitori davanti ai comportamenti del figlio cerchino di stabilire con chiarezza cosa sta accadendo nella mente del bambino, quali sono le caratteristiche fondamentali del comportamento e del contesto in cui esso si scatena, in modo da ipotizzarne il senso. Altresì, è importante che i genitori si interroghino sui loro vissuti, su come quel determinato comportamento del figlio li fa sentire e perché. La capacità di distinguere tra i propri pensieri e sentimenti e i pensieri e sentimenti espressi dal bambino con un determinato comportamento, ci permette di padroneggiare i nostri sentimenti e, per effetto di ciò, il bambino può imparare ad esprimere e a regolare i propri affetti. Per fare questo i genitori dovranno: – Prestare molta attenzione al bambino, annotando i comportamenti insoliti o difficili; – Cercare di mettersi nei panni del bambino; – Prevedere ed evitare sulla base delle osservazioni ciò che può causare confusione al bambino; – Esprimere interesse per i pensieri e i sentimenti del bambino; – Organizzare attività condivise e piacevoli, come ad esempio la lettura di storie,
facendo commenti relativi ai sentimenti che provano come adulti e a quelli del bambino; – Verbalizzare e discutere le emozioni legate alle situazioni quotidiane; – Dare senso al mondo spiegando come funzionano le cose ed esplicitando i rapporti di causa ed effetto; – Utilizzare film o esempi reali per parlare del motivo per cui persone possono sentire cose diverse o esprimere i sentimenti in maniera diversa; – Incoraggiare il bambino a pensare prima di agire e aiutarlo a recuperare quando perde il contro elogiandolo se ci riesce. Comunicate loro un senso forte di disponibilità fisica ed emotiva, sia quando siete insieme sia quando ognuno è per conto proprio. E’ importante che i genitori abbiano fiducia nelle loro capacità di prendersi cura di quel bambino trovando le modalità più adeguate per continuare a dimostrargli la propria “discreta disponibilità” anche quando sembra che non vogliano comunicare o essere aiutati. Per fare questo può essere di aiuto: – Stabilire delle routine quotidiane il più possibile stabili; – Gestire le separazioni in
modo attento, comunicando apertamente il perché e per quanto tempo; – Condividere un calendario per aiutare il bambino a prevedere e anticipare gli eventi; – Consentire al bambino di portare con sé un piccolo oggetto o foto da casa quando si allontana. Fate sentire il bambino accettato in modo incondizionato per quello che è, con le sue difficoltà e i suoi punti di forza. Per fare questo è necessario innanzi tutto interrogarsi sulla propria capacità di accettarsi davvero con i propri limiti e le proprie difficoltà e mantenere come principio fondamentale dell’agire e del pensare, la speranza e la fiducia nelle proprie e nelle altrui potenzialità. Vanno scoperte e sostenute le attività e gli interessi che piacciono ai nostri figli
e nei quali possono riuscire, così come va posta particolare attenzione al contesto scolastico, alla sua sensibilità e capacità di valorizzare nei nostri figli un sentimento di efficacia. E’ importante, poi, avere una comunicazione aperta, non stereotipata e positiva della etnia e della cultura di appartenenza del proprio figlio, avendo cura che la stessa sia presente anche all’interno della famiglia allargata. Vanno elogiate le cose che hanno fatto e ci rendono orgogliosi, ma anche ciò che hanno provato a fare con i loro limiti. Costruite il senso di appartenenza I genitori dovranno costruire l’appartenenza dando importanza alla vita familiare alle sue regole e alle sue abitudini, ponendo sempre attenzione ai tempi e alle abitudini che il bambino porta con sé. Al con-
tempo bisogna dimostrare flessibilità dimostrando al bambino che si possono coniugare più appartenenze e che si possono tollerare sentimenti ambivalenti. I genitori possono: – Assegnare nella casa spazi dedicati; – Favorire attività condivise e organizzare un’accoglienza positiva nella famiglia allargata e tra gli amici di famiglia; – Organizzare l’accoglienza scolastica affrontando con gli insegnanti il tema del divenire famiglia per adozione e delle parole per parlare in classe di adozione; – Costruire una narrazione della storia personale del figlio che sfoci nella storia dell’incontro grazie alla quale si è divenuti famiglia e che contenga fatti, foto, disegni e racconti in grado di connettere il passato con il presente.
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