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psicologia-pedagogia e adozione 10
di Massimo Maini psicopedagogista e filosofo e Daria Vettori psicologa e psicoterapeuta
Ti tocco, ti sento…ti lascio andare Quando i figli adottivi crescono: racconto di un incontro di gruppo di genitori
Oggi il gruppo s’incontra, come ogni mese. Non siamo tanti, ma la mamma di A. porta con emergenza il bisogno di confronto con gli altri genitori su quello che sta vivendo a casa. Inizia subito a raccontare: suo figlio di 11 anni, arrivato a 4 da un paese dell’Est Europa, ha molta paura a stare da solo. I genitori non hanno mai provato a lasciarlo senza un adulto, anche solo per qualche minuto. “Sentiamo che non è ancora pronto, che è necessario aspettare ancora un po’”.
“Avevo paura che mi aveste abbandonato”.
grandi, assolute, dolorose:
“Mi ricordo quando non lo I genitori di A., emoziona- trovavamo più dentro alla ti, raccontano di come in Coop”… ”Ah! Che paura quel momento si siano sen- che ho provato… il mio urlava tra i corridoi”. titi genitori “sbagliati”: “Come potevamo avere commesso un errore di questo tipo, sapendo i bisogni di nostro figlio? Da allora non lo abbiamo mai lasciato solo nemmeno per un minuto! Ancora adesso abbiamo paura di non capire, di spingere troppo, di dover aspettare i suoi tempi”.
Questa comunicazione attiva nel gruppo un fiume Raccontano di quando, in piena di ricordi, modopo qualche anno dall’ar- menti in cui i figli adottivi rivo di A., mamma e papà hanno manifestato un’annon si sono capiti, e lui è ri- goscia terribile. Eventi, masto fuori dalla porta, da talvolta apparentemente solo, per 5 minuti. Lo han- poco importanti, che semno trovato tra le braccia del brano avere evocato nei loro bambini perdite tanto vicino di casa, in lacrime:
I genitori di V. raccontano che, però, all’inizio non era così. La loro bambina dormiva da sola, non aveva paura del buio, non voleva saperne di averli intorno, bastava a se stessa. Un abbraccio non serviva a nulla, e doveva essere lei a decidere come e quando essere toccata. Ora, nonostante abbia quasi 12 anni, vuole la luce accesa, chiede di dormire nel lettone e di sentire il corpo dell’altro. I genitori di M., sempre di 11 anni, raccontano, invece, che il figlio chiede di essere lasciato da solo, sembra un atto eroico che lui vuole riuscire a sopportare. Poi,
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però, mentre attende l’arrivo della madre, ha bisogno di “anestetizzarsi” con la Play Station:
tone è anche di papà, perché stanotte non vai nel tuo letto?…”.
Lui, offeso, non ha nemme“Vado e torno e lui è lì, non no finito la cena, ed è andasi è mosso, mentre io ho fat- to nella sua camera, triste. to tutto di corsa per tornare La mamma allora ha sentito che stava troppo male, a casa il prima possibile”. è andata in crisi, si è senLo stesso ragazzino dorme tita “rigida” e in colpa, nei ogni notte con la mamma, confronti di questo figlio a ha deciso che il papà deve cui è mancato tanto prima stare da un’altra parte, e di arrivare nella loro casa. che il posto nel lettone è Allora è andata la lui: solo suo. La mamma racconta che un giorno ci ha “Se devi stare cosi male, non ti preoccupare, facciaprovato, ha detto a M.: mo un’altra volta… tanto il “Tesoro, tu lo sai che il let- papà può attendere”.
Nel gruppo ridiamo a questi racconti, che parlano di genitori che vanno in confusione, tra il desiderio di dare consolazione al proprio figlio, di dargli e darsi la possibilità di recuperare il tempo perduto, e la consapevolezza che anche in questo comportamento inizia a essere presente una dissonanza. Si comincia ad accennare a un “tempo” dove anche loro dovranno “staccarsi”, avviarsi verso il naturale cammino di autonomia e individuazione. I figli, adottivi o no, crescono e arrivano inesorabilmente a sentire cose nuo-
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ve, prima nel corpo, e poi nella mente. Indipendentemente dalle esperienze di vita, il corpo cresce, si trasforma, manda segnali più o meno consapevoli, che non possono non essere ascoltati. I genitori adottivi si trovano dunque a vivere da un lato il desiderio, reciproco, di consentire alla relazione con il proprio figlio di recuperare quello che è andato perduto. Gli abbracci, le coccole, le rassicurazioni, gli sguardi che un genitore biologico può dare fin dai primi istanti di vita del figlio, possono e devono essere parte della relazione adottiva. Trovarsi in un incontro fatto di corpo e non solo di mente, è fondamentale (come già evidenziato anche nell’articolo del mese passato), indipendentemente dall’età del figlio al suo arrivo. La ricerca di una consonanza, divie-
ne poi il punto di partenza per la creazione di quella base di sicurezza e fiducia che sono fondamentali alla crescita e all’esplorazione del mondo. Dall’altro, però, sentono che è necessario tenere conto del tempo che passa, indipendentemente dai bisogni ancora presenti e dal tempo che il figlio ha trascorso con loro. Pensando a quanto è stato lungo e faticoso trovare questa sintonia, i genitori raccontano alcuni episodi avvenuti nei primi tempi, dopo l’arrivo dei loro figli. Il papà di un ragazzo arrivato a 8 anni dal Cile narra ancora con inquietudine, di quando il figlio si è messo a cavalcioni del balcone al diciassettesimo piano di un palazzo. Il padre ricorda lo sguardo del figlio, uno sguardo di “sfida”, di qualcuno che
non ha nulla da perdere e che ha bisogno di sentire che chi mi prende deve “reggere” qualunque cosa. Questi genitori si commuovono pensando che, quello stesso giorno, erano andati dall’assistente sociale cilena dicendo che forse veramente era troppo per loro, che forse non erano adatti a quel ragazzo, così agitato e provocatorio. Si vergognano dei sentimenti provati, del senso di “espulsione” che non avrebbero mai immaginato di poter provare nei confronti di un bambino così piccolo. Dopo averlo desiderato tanto, ora volevano solo scappare. Anche i genitori di un al-
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tro ragazzino di origine russa raccontano un episodio drammatico, avvenuto poco dopo l’arrivo in Italia.
che non avrebbero mai immaginato di poter provare nei confronti del figlio tanto voluto:
“Ci avevate detto tante volte che potevano succedere queste cose, ma uno pensa sempre che capitano agli altri…e che comunque un bambino non può poi metI genitori erano sul pun- terti così tanto in scacco…è to di chiamare la polizia, pur sempre un bambino”. quando si sono accorti che lui li teneva d’occhio da Nel gruppo parliamo a lunlontano. Il papà racconta, go del significato di queste con la stessa angoscia di esperienze e di come conallora, quanto sono stati trastano con il racconto male e quanto si sono ar- di figli che non escono più dal lettone, che chiedono rabbiati. I genitori si confrontano su di non essere mai lasciati questi sentimenti negativi, soli. Ci rendiamo conto che “Dopo aver detto no per un giocattolo, P. è scappato e per più di un ora non si è fatto trovare…lo chiamavamo, urlavamo, ma niente”.
tutto fa parte di un percorso, un viaggio a cui tutti partecipano, grandi e piccoli. Il bisogno di passare attraverso la sfida prima di affidarsi, pare essere un denominatore comune per tutti. All’inizio questi bambini non sembrano avere paura di niente, bastano a loro stessi e non hanno bisogno dell’adulto. Fidarsi o affidarsi è troppo rischioso, forse ci hanno anche già provato, ma perdite e delusioni hanno poi segnato i loro tentativi di lasciarsi andare. Vi è dunque un percorso da fare, in cui, inizialmente, ci si studia, da lontano,
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rifugiandosi spesso, da entrambe le parti, nel controllo, utilizzando ciò che ciascuno già conosce. Solo nel tempo, nell’attesa è possibile piano piano avvicinarsi, annusarsi, iniziare a provare a entrare in un mondo nuovo, fatto di ciò che è noto, ma anche di gesti nuovi, scoperti nel rapporto con quel bambino, con quell’adulto. Un avvicinamento, un tentativo di trovare un ritmo condiviso, che, se funziona, porta alla scoperta, non solo della lingua dell’altro, ma anche di ciò che attendeva di essere visto ed ascoltato, l’uno nell’altro. Allora, ecco arrivare, indipendentemente dall’età, un tempo per abbracciarsi e “regredire” in una dimensione insieme nuova e antichissima. Una dimensione affettiva che non tiene conto dello spazio e del tempo, perché collocata nel luogo intimo
ed esclusivo dell’incontro. Un incontro tanto atteso, quanto desiderato, in cui parti affamate trovano un nutrimento. Il rischio però, è quello di non riuscire a riconoscere come questa esperienza, tanto voluta, avvenga di fatto in un preciso tempo e spazio. Se il bambino arriva in famiglia molto piccolo, probabilmente i tempi si assestano maggiormente su quelli fisiologici, di crescita. Quando, però, i bambini arrivano un po’ più grandi, le cose si fanno più complesse. Se da un lato è necessario e fondamentale trovarsi anche in una dimensione primaria di relazione, dall’altro il corpo del figlio racconta di un viaggio che non può essere fermato, quello di un corpo che sta diventando grande. Tappe evolutive che non si fermano, accadono nonostante le faticose
storie di vita e reclamano spazi e modi di relazionarsi che non appartengono più solo all’età infantile. Allora ecco il dilemma: tra darsi ancora la possibilità di recuperare una dimensione di accudimento primario e lasciare andare, tra tenerti vicino e permettere a quella parte di te che sta crescendo, di esprimersi anche nella distanza. Troppo spesso questo passaggio risulta inevitabilmente difficile per entrambi, in quanto evocatore del momento dell’incontro in cui l’estraneità era dovuta al fatto che non ci si era mai incontrati prima, si era vissuti in due mondi
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tanto diversi. Un tempo in cui la provocazione aveva la funzione di mettere alla prova e, nel contempo, consentiva di rifugiarsi ancora nel pensiero che si potesse, se necessario, fare a meno gli uni degli altri. Ora l’estraneità e la provocazione ritornano, ma hanno una funzione diversa, servono per differenziarsi e per individuarsi, dichiarare che posso farcela da solo, non perché sono solo, ma proprio perché ci siamo incontrati e affidati. Non è facile però riconoscere questa differenza, non è facile per i genitori, e nemmeno per i ragazzi. Tutti cercano la risposta,
il benessere nel manteni- dere qualcosa, si prende il mento di quella sintonia coraggio di lasciare andare e di incoraggiare la parte finalmente trovata: grande, nella certezza che “Non lo lascio mai solo”, non si sta creando un vuo“Come faccio a farlo usci- to, un abbandono, ma che re dal lettone se non vuo- si sta vivendo una trasforle”. Rifugiandosi in una mazione. Un cambiamento dimensione “inclusiva” e creativo ed evolutivo insierassicurante “Io sono qui, me, che consenta di ricoti proteggo da tutto e da noscere gesti rassicuranti, tutti, fidati solo di me”, op- non solo nell’abbraccio fisipure dando a questi figli co del corpo, o nel non creil potere di decidere tempi are mai assenze, ma piute modi: “Decidi tu quando tosto nella fiducia in quello che si è costruito fino a sei pronto…”. quel momento. La crescita invece, anche I figli adottivi hanno bisonell’esperienza adottiva, gno di scoprire la potenza prevede un passaggio mai di un corpo che abbraccia, facile. Un momento in cui, ma hanno anche altrettansenza avere paura di per- to il bisogno di interioriz-
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zare l’assenza, non come perdita o abbandono, ma come una conferma del legame, che esiste e che è rappresentato l’uno nella mente dell’altro. I ragazzi hanno bisogno di confini, di quel limite che permette di riconoscersi “competenti” senza percepire di essere lasciati soli. Una mamma del gruppo, sul finire del tempo, come illuminata da queste riflessioni condivide con noi il suo pensiero: “Ora capisco tante cose… mia figlia a volte mi cerca e mi chiede di fare le coccole, come quando era più piccola. La notte vuole sempre stare nel lettone. Altre volte invece mi manda via, dice che io non la capisco, che non so niente di lei e che la faccio stare male. Il mio modo di affrontare questi momenti è lo stesso… le
propongo sempre un abbraccio. Ora mi rendo conto che nei momenti in cui lei è lontana da me, non devo avere paura di perderla… contano gli abbracci che ci sono stati e che ancora ci sono, ma devo anche accettare che non sempre tornare indietro è la risposta che fa stare bene!”. Prendere consapevolezza di questo è fondamentale, in quanto, come avviene in molti passaggi di crescita, gli adulti hanno il difficile compito di aiutare anche il figlio a riconoscere cosa sta succedendo, e a cogliere l’attimo in cui, non lasciarti mai solo o tenerti nel lettone, non è più una “regressione necessaria”, ma piuttosto sta diventando un tentativo di fermare il tempo e lo spazio, una fuga dal prendere coscienza che è ora di accettare
il cambiamento. In tutto questo i bambini possono essere molto in difficoltà, l’elemento evocativo di tale passaggio, rischia, infatti, di essere motivo di paura o può essere male-inteso. Sono gli adulti quelli che possono rassicurare il figlio del fatto che la separazione non è un abbandono e che la crescita non è una perdita.
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Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo Svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell’identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l’attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna.
Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Insegna Pedagogia dell’Affido e dell’Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Parma.
leggendo Trovare le parole per esprimere se stessi diventa difficile, se non impossibile, quando nella vita si attraversano dolori. Quindi si cercano dei modi per aiutarsi a trovare “quelle” parole per uscire dalle ferite della vita, di quelle che ne cambiano il percorso. Le fiabe, allora, possono donare parole per raccontare. Con una soavità profonda, le due autrici, una pedagogista ed un’operatrice esperta dell’infanzia, donano le parole delle fiabe per aprire gli scrigni segreti dove tanti figli depositano le loro rabbie e la loro paure ma anche le loro gioie. Tante le fiabe, tanti gli spunti di riflessione e tante le parole, i gesti d’amore e cura per accompagnare i propri figli a scoprire e capire se stessi. Un dialogo costruttivo tra due mamme, una adottiva
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e una biologica, dove parole come leggere, accogliere, ascoltare, crescere, raccontare, rallentare, insegnare possono essere percepite per legare le vicende dei protagonisti delle fiabe, scritte per tutti, anche ai vissuti dei figli adottati. «É la passione per i buoni libri che permette un incontro, un confronto sulle esperienze di genitorialità, tutte diverse, tutte importanti». Daniela Pazienza