psicologia e adozione
di Fabio Tognassi psicoterapeuta,Gianburrasca Onlus
Vivace o iperattivo?
Il sintomo come manifestazione dell’inconscio 6
L’iperattività infantile e l’oppositività del bambino alle regole sociali sono diventati ormai fenomeni all’ordine del giorno. Negli ultimi 10 anni gli esperti hanno riscontrato un’esplosione di questi fenomeni infantili, i quali peraltro sembrano, con il passare del tempo, presentarsi sempre prima nel corso dello sviluppo infantile. Per questi motivi anche la psichiatria internazionale ha in questi lavorato molto per creare delle categorie diagnostiche e dei nuovi protocolli di cura che facessero fronte alla portata epidemica del sintomo. La diagnosi di ADHD – Attention Deficit Hyperactivity Disorder – renderebbe conto di questo problema infantile, che si manifesta in sintomi quali: iperattività motoria e comportamentale resistente
alle forme di controllo educativo, oppositività alla regola sociale e all’autorità, incapacità di concentrarsi su di un compito specifico a causa dell’eccessivo livello di eccitazione psico-fisica. I protocolli di cura oggi più utilizzati vanno dalla rieducazione comportamentale, al cosiddetto parent training – ovvero il sostegno genitoriale – fino all’assunzione farmacologica. Il farmaco Ritalin, a cui sono stati affiancati nel tempo altri farmaci più recenti, è diventato ormai molto conosciuto e dice di quanto sia difficile da gestire la sofferenza di un figlio “iperattivo”. Ma qual è la nostra lettura dell’iperattività infantile? Che senso diamo alla sofferenza di un bambino – o di un ragazzo – che rifiuta le regole, che non riconosce
l’autorità dell’adulto, che non è in grado di pacificarsi nel corpo? La psicoanalisi sostiene che il disagio dell’essere umano non è mai semplicemente l’effetto meccanico di una disfunzione organica o cognitiva. La psicoanalisi lavora assolutamente in controtendenza rispetto ad ogni forma di riduzione del sintomo alla dimensione meccanica del biologico e del cognitivo. Piuttosto riteniamo che la sofferenza sia sempre originata da un turbamento del vissuto emotivo-relazionale. L’emotività, l’affettività, nella sua portata inconscia è in grado di destabilizzare anche in modo molto significativo il vivere quotidiano di un individuo. Le dinamiche inconsce che intratteniamo con le figure importanti nella nostra vita sono centrali e resta-
no la fonte principale delle nostre gioie e dei nostri dolori su questa terra. Ciò vale a maggior ragione per i bambini, così esposti e sensibili, aperti a ciò che viene dall’Altro. Dire questo non significa affermare in maniera semplicistica che se è un bambino mostra una sofferenza, la “colpa” è dei genitori! Nel mio lavoro mi trovo spesso a combattere contro il fantasma della colpa, per far intendere ai genitori che non si tratta tanto di trovare un colpevole, ma di cercare di comprendere quelle dinamiche che, inconsapevolmente, ci portano a contribuire alla creazione di una certa situazione. La stessa cosa, infatti, si fa con i bambini. È un bene che, in misura diversa, ciascuno si domandi sempre che contributo aggiunge al sistema al fine di
ingenerare una situazione difficile per tutti. In questo l’approccio della psicoanalisi non è certo incentrato sulla “colpa”, sentimento paralizzante e frustrante, quanto piuttosto sulla “responsabilità”, come a dire: “Proviamo a fermarci un momento, tutti assieme, e domandarci cosa sta succedendo in questa famiglia. Che contributo possiamo dare sia in positivo che in negativo al benessere collettivo familiare?”. Perché il disagio del bambino è sempre legato in qualche modo a qualcosa, direi, di “bloccato” all’interno del campo familiare e anche il bambino, ovviamente, mette del suo affinché le cose vadano a peggiorare, piuttosto che a migliorare. Affermare questo significa intanto sostenere che l’i-
perattività è un sintomo, e non semplicemente una malattia. La differenza malattia e sintomo consiste in questo: una malattia è qualcosa da debellare, da correggere, da eliminare per ripristinare uno status quo antecedente; il sintomo invece è primariamente qualcosa a cui bisogna prestare ascolto, perché un sintomo vuole sempre dire qualcosa! Cosa sta dicendo in realtà a noi adulti il sintomo che il bambino manifesta? E ancora, cosa sta dicendo a se stesso un bambino attraverso il proprio sintomo? Come insegna lo psicoanalista francese Jacques Lacan, l’inconscio parla. Certo, non parla in maniera, ma parla. Non si esprime per in modo da farsi comprendere, ma se lo sta ad ascoltare, questo ascolto produrrà sempre
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degli effetti di verità, ovvero cambierà il nostro modo di intendere il rapporto che intratteniamo con noi stessi e con gli altri. Certamente, è più facile pensare che noi non c’entriamo nulla che il disagi di cui ci lamentiamo. È più semplice dire che è solo la sfortuna, il caso o disfunzionamento meccanico a creare il problema. Sempre più difficile è invece uscire da questa posizione di anima bella – ovvero di colui o colei che sorvola in maniera leggera il problema – per affrontare ciò che un sintomo vuole dirci. In particolare è sempre più difficile ai nostri giorni a questo proposito vorrei introdurre un altro aspetto della questione. Ai nostri tempi riflettere è diventato obsoleto. La cultura che continuamente proponiamo ai nostri figli – magari non noi come genitori, ma sicuramente la società consumistica – è un cultura, per l’appunto, del con-
sumo, ovvero una cultura che lascia intendere che la felicità sia raggiungibile attraverso l’acquisto di oggetti presenti nel mercato. Il nuovo televisore Full Hd, il nuovo Smartphone, il nuovo videogioco…sono tutte promesse illusorie, specchietti per le allodole che abbagliano la mente, facendole credere che il desiderio non abbia altra declinazione che quella dell’acquisto. Alla domanda, l’unica peraltro davvero autentica, la più importante a cui si dovrebbe cercare di rispondere nell’arco di questa vita, ovvero Cosa desidero Io?, la risposta che il mercato ci offre è acquistare….Io desidero acquistare, e questo mi darà la felicità. Questo discorso sociale condiviso, ormai permeato nel nostro animo, fa parte dell’aria che respiriamo e tende a ridurre l’essere umano ad un numero all’interno di una statistica. La quantificazione è il
nome che oggi ha preso la supremazia del discorso capitalistico sull’individuo. Statistiche e valutazioni della performance: sono queste le uniche cose che sembrano avere importanza per l’Altro sociale. E anche i bambini, anzi soprattutto i bambini, patiscono di questo sistema valutativo. Basti pensare a come si tratta un bambino che presenta un problema psichico o relazionale: si esamina la sua sintomatologia valutandola secondo scale numeriche, si formula una diagnosi e poi lo si inserisce in un programma standardizzato di cura. Il bambino è così ridotto ad essere la materia di prima di una catena di montaggio. Si è attenti a tutto, a rendicontare e a valutare il suo disagio con la massima precisione scientifica… peccato ci si dimentichi una sola cosa…ovvero provare a parlare con lui! Provare a fargli dire la sua. Chiedergli come mai sta
male. Insomma, provare ad ascoltarlo, umanamente. E invece no, per potenziare e correggere i suoi deficit lo si inserisce in programmi rieducativi, gli si riempiono le giornate di attività e non gli si lascia lo spazio vuoto per poter giocare. Troppo spesso vedo genitori che rispondono all’angoscia della sofferenza del proprio figlio reagendo in maniera vorticosa e poco riflessiva, mossi solo dalla preoccupazione di riportare il tutto ad una presunta normalità, correggendo ogni forma di deviazione che possa incrinare l’immagine ideale del bambino “normale”, “adattato”. Di fronte a queste coppie cerco sempre di riportare il discorso a livelli più umani, cosa che il più delle volte riesce, perché dietro questa catena di montaggio della performance e della valutazione, in cui anche noi adulti sembriamo aver smarrito la nostra uma-
nità, esiste ancora – e per fortuna – una parte di noi in grado di fermarsi, ascoltare con pazienza, sospendere il giudizio. Per uno psicoanalista un sintomo non è solo una disfunzione da curare. Certo, fa soffrire e prima poi si dovrà arrivare ad una sua risoluzione. Ma il punto è come, in che modo? Non dimentichiamoci che il fine non giustifica mai i mezzi! Un sintomo è per noi la risposta singolare, un grido nella notte, un urlo che chiede di essere ascoltato, significato. È un appello. E agli appelli bisogna rispondere. Un sintomo in psicoanalisi è la reazione singolare di un soggetto che intende mostrare una contraddizione insita in un sistema. Serve a far intendere che c’è qualcosa che non va nel sistema. Troppo spesso siamo portati a pensare che la sofferenza di qualcuno sia solo un problema suo. Non è così. È un altro mito del
nostro tempo quello del solipsismo individualistico. Nella nostra cultura l’Io è sempre al centro, e tutto ciò che pone una limitazione alla potenza e ai diritti dell’Io viene visto come un ostacolo da rimuovere. Ma se c’è una cosa che Freud ci ha insegnato è proprio che l’Io non è padrone neanche in casa sua, che il mito della autoaffermazione dell’Io è fasullo. In realtà, in seno all’Io, esiste l’inconscio, ciò che l’Io non sa. Rinnegarlo per mantenere salda una visione ideale e immaginaria dell’Io non fa che accentuare i modi in cui l’inconscio cerca di farsi ascoltare. In altre parole, non è serrando i ranghi, ricucendo la faglia, rattoppando il buco che riusciremo a stare meglio e anche qualora ci riuscissimo, ci renderemmo conto di quanto la tranquillità così tanto agognata rischi di allontanarci ancora di più da ciò che realmente proviamo, sentiamo, pensiamo.
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E allora cos’è l’iperatti- deve poter far emergere. Dunque, la domanda che vità infantile? occorre porsi è la seguente: È stato necessario fare quali sono i problemi auquesta premessa, perché tentici dei bambini, e più non c’è parola possibile in nello specifico dei bambini assenza di un orecchio che contemporanei? L’infanzia è essenzialmenascolta. Resta il problema però di te il tempo della costruziocosa sia questa iperattivi- ne dell’identità, dei propri tà, e di come si possa af- schemi relazionali, di ciò che caratterizzerà tutta la frontare. Qui le cose si complica- vita di un individuo. Ma il no, ma cercherò di essere compito evolutivo a cui un il più semplice possibile, bambino è chiamato ad asnon certo con la pretesa solvere è essenzialmente di esaurire il problema, uno, che peraltro definiquanto piuttosto con l’idea sce in nuce l’essenza stesdi far intendere il cuore sa del processo educativo. L’educazione consiste nel della questione. L’iperattività, così come differimento della soddila fobia infantile, la diffi- sfazione. Ciò che significa coltà di apprendimento, la che un bambino deve imcondotta antisociale, ecc… parare a saper rinunciare sono tutti sintomi, come alla soddisfazione immeabbiamo detto. Sono sinto- diata dei propri desidemi proprio perché rinviano ri, imparando a differire ad un problema latente, questa soddisfazione nel nascosto, che una terapia tempo. La spinta pulsio-
nale deve essere controllata, sublimata, in modo da permettere ad un bambino di non essere schiavo della soddisfazione. In fondo, nella vita occorre fatica, dedizione, impegno, capacità di tollerare la frustrazione, altrimenti sarà ben difficile riuscire a costruire e mantenere un autentico progetto di vita incentrato su di un desiderio solido e duraturo, come ad esempio quello di una professione. Insieme a questo capacità di tollerare la frustrazione del bisogno, l’altro compito evolutivo fondamentale di un bambino è quello di riuscire a separarsi dal campo materno, entrando nel circuito degli scambi sociali. Non è un caso infatti che molte problematiche infantili esplodano nel momento in cui la realtà impone una separazione dalla madre, come avvie-
ne ad esempio all’ingresso del campo scolastico (asilo nido, elementari). In questi momenti importanti di separazione il bambino è chiamato a rendere conto della capacità di distaccarsi dal soddisfacimento materno, riuscendo, anche se con qualche difficoltà, ad entrare nel legame orizzontale con i pari e nel legame verticale con le altre figure adulte. È questo il percorso che ogni bambino è chiamato ad intraprendere: imparare a sostituire il legame unico con l’oggetto materno con nuovi legami orizzontali e verticali. In questo senso la de-maternalizzazione, lo svezzamento psichico è necessario al bambino per costruire il mondo dei legami sociali. Molte patologie infantili, per non dire tutte, hanno a che vedere, alme-
no in parte, con la difficoltà o il fallimento di questo processo di distaccamento simbolico. Jacques Lacan parlava a questo proposito di processo di svezzamento psichico, necessario affinché il legame con la madre, salutare e necessario all’origine, non si trasformi nel tempo in un fattore di impedimento alla crescita psicologica individuale. Ma cosa riceve il bambino in cambio di questa rinuncia alla soddisfazione primaria e alla vicinanza affettiva all’oggetto materno? È ciò che molti bambini contemporanei si domandano e a volte domandano esplicitamente all’adulto: “Ma perché dovrei rinunciare ad avere tutto subito? Chi me lo fa fare? Perché dovrei accettare questa frustrazione? Cosa me ne viene in tasca?”.
Come se non vi fossero in realtà dei buoni motivi per accettare la rinuncia. In fondo queste domande non sono affatto stupide e dicono di una difficoltà propria dei nostri tempi. Ciò che un bambino dovrebbe ricevere in cambio della rinuncia alla soddisfazione immediata è l’accesso alla dimensione simbolica del desiderio. In psicoanalisi quando si parla di desiderio si parla di ciò che rappresenta il cuore pulsante stessa di un individuo. Il desiderio è quella spinta vitale che spinge un individuo ad intraprendere un progetto di vita, una strada, una vocazione. E le vocazioni, si sa, iniziano a formarsi nell’infanzia. Ma non c’è accesso possibile al desiderio in assenza dell’esperienza di accettazione del limite, in
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assenza di rinuncia al soddisfacimento immediato della pulsione. Il problema consiste nel fatto che vi è sempre nel bambino una zona d’ombra, una parte del suo inconscio che punta ad evitare lo sviluppo, a restare nel limbo immaginario, nell’illusione della soddisfazione immediata. Una parte di lui si oppone, a volte tenacemente, allo sviluppo. Volere tutto e subito resta nell’inconscio un comando potente. La novità è che oggi questo comando al godimento immediato non solo non viene disincentivato dal discorso sociale, ma al contrario viene sponsorizzato con l’idea che l’unica soddisfazione possibile sia quella immediata, pura, senza compromessi e fatiche. È la felicità del godimento raggiungibile attraverso gli oggetto di consumo presenti sul mercato. Questo discorso sociale condiviso comporta un raddoppiamento della forza pulsionale presente nel bambino e rende più difficile l’esperienza del desiderio, che, come abbiamo detto, nasce dalla tolleranza dell’esperienza della mancanza, della perdita, della soddisfazione differita.
E in adolescenza? L’adolescenza è oggi davvero il momento evolutivo in cui si mostra la verità del discorso sociale di cui, più o meno consapevolmente, siamo veicoli agli occhi del bambino. L’adolescenza dovrebbe essere quel tempo in cui si rafforza e prende forma il desiderio. Dovrebbe costituire il tempo della ricerca per eccellenza, sia della propria identità sociale, sia del legame amoroso con l’altro sesso. Ciò che accade invece è che gli adolescenti si trovano smarriti, non orientati dalla bussola del desiderio, ma in preda alla spinta al godimento non regolata. È infatti il desiderio il farmaco per eccellenza in grado di contrastare le derive del godimento mortifero. È il desiderio quella spinta vitale che ci permette di proiettarci nel futuro ed avere la forza, la costanza di diventare ciò che siamo. Il desiderio, insomma, il motore della vitalità. In assenza di questo gli adolescenti fanno esperienza di smarrimento, depressione, noia, spegnimento del senso della vita. Ed è ciò che dicono molto spesso, se li si sta ad ascoltare. Questo tende inevitabilmente ad
aumentare il rischio di condotte pericolose o antisociali, proprio perché, in assenza dell’esperienza del desiderio, diventa necessario introdurre altre forme di trasgressione che restituiscano ai ragazzi la sensazione di essere vivi, di sperimentare, di osare. Ma un conto è osare sulla via del desiderio, un conto è osare sulla via del godimento. Questo occorrerebbe riuscire a far capire loro. Ma è chiaro che per farlo non abbiamo altro mezzo che la nostra testimonianza singolare di adulti, ovvero il modo che noi abbiamo – speriamo! – trovato per vivere una vita all’insegna del desiderio e non mortificata nella ripetizione automatica e mortifera dell’identico.
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA F. Pelligra, F. Tognassi, Bambini fuori-Legge. L’infanzia e la crisi delle relazioni, Di Girolamo, Trapani, 2009 U. Zuccardi Merli, Non riesco a fermarmi. 15 risposte sul bambino iperattivo, Bruno Mondadori, Milano 2012 M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino, 2014
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